10 lorena manna l`avvocato e la verita` (in margine a una lettura

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10 lorena manna l`avvocato e la verita` (in margine a una lettura
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LORENA MANNA
L’AVVOCATO E LA VERITÀ
(IN MARGINE A UNA LETTURA RECENTE)
A distanza di dodici anni dalla prima uscita de L’avvocato e la verita`, Ettore
Randazzo ne ha proposto una seconda edizione (1), a ciò mosso - come egli
stesso enuncia - non solo dalla necessità di aggiornare quel testo alla luce della
recente riforma del Codice deontologico forense (entrato in vigore proprio a
ridosso del 2015), ma anche al fine di arricchirlo (modificandolo, se del caso)
della sua più matura visione.
La pubblicazione, agile e godibile, riflette, infatti, l’esperienza dell’autore, tutta centrata nel settore del diritto penale. Donde, il dipanarsi delle argomentazioni attraverso le varie fasi della attività professionale dell’avvocato penalista: dall’accettazione dell’incarico alla fase delle indagini, dalla utilizzazione delle prove
ai rapporti con l’assistito, i colleghi, i magistrati e i mezzi di informazione.
Il dovere di verità dell’avvocato, cosı̀, si interseca con gli altri principı̂ imprescindibili di legalità, lealtà e probità, a loro volta correlati con l’obiettivo del
perseguimento della Giustizia, mai da disgiungersi dall’esercizio del dovere di
difesa, dalla presunzione di innocenza, dai canoni del giusto processo e dalla
autentica professionalità da porre in campo.
È in questo contemperamento tra esigenze apparentemente tra loro inconciliabili che va letto, avverte l’autore, il testo dell’art. 50 del nuovo Codice deontologico forense, dedicato per l’appunto al dovere di verità e analogo, nel contenuto, all’art. 14 del codice previgente, siccome risultante all’esito di alcune
modifiche sostanziali negli anni intervenute.
Sicché, mentre la prima formulazione, all’interno delle norme comportamentali, del ‘dovere di verità’ imponeva all’avvocato di non utilizzare nel processo
prove della cui falsità fosse a conoscenza, l’ultima redazione gli fa divieto di introdurre prove false o, qualora esse siano state già introdotte e provengano dalla
parte assistita, gli impone di non utilizzarle o di rimettere il mandato. A ciò, si
aggiunge l’obbligo di non impegnare la propria parola sulla verità dei fatti esposti in giudizio o rendere false dichiarazioni su fatti dei quali l’avvocato abbia conoscenza e suscettibili di essere assunti come base di un provvedimento del ma(1) E. RANDAZZO, L’avvocato e la verita`, Palermo, 2015.
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gistrato e, comunque, di rendere noti, ove quegli presenti un’istanza, l’esistenza
di eventuali provvedimenti già resi sul medesimo fatto. A chiarire questa parte
della norma, traduzione di ciò che la giurisprudenza disciplinare era venuta nel
tempo sanzionando come comportamento censurabile dell’avvocato, è utile richiamare quanto ha sintetizzato Remo Danovi nel suo commentario al Codice
deontologico forense nella parte dedicata al dovere di verità (2): «è censurabile
l’avvocato che chieda la convalida di sfratto per morosità e dichiari consapevolmente all’udienza, contrariamente al vero, che la morosità persiste ...; è censurabile il comportamento dell’avvocato che affermi di conoscere l’età non imputabile di una parte ...; è censurabile il comportamento dell’avvocato che propone
una inveritiera cronistoria dei fatti processuali, per ottenere un provvedimento
inaudita altera parte; è censurabile ancora il comportamento dell’avvocato che
dichiara, contrariamente al vero, l’avvenuto decesso del proprio cliente, determinando in tal modo l’illegittima interruzione del processo; è censurabile il comportamento dell’avvocato che alteri la relazione che consulente tecnico di parte
indicando una più alta percentuale di invalidità; è censurabile il comportamento
dell’avvocato difensore che presenta come collaboratore di studio, per favorirne
l’accesso al carcere o farla assistere a una udienza, una persona ... legata da particolari rapporti con l’imputato; è censurabile il comportamento dell’avvocato
che tende a ottenere provvedimenti vari ..., nella rappresentazione di situazioni
non vere; è censurabile il comportamento dell’avvocato che invii all’ufficiale
giudiziario un telegramma con la firma falsa del collega avversario al fine di interrompere una procedura esecutiva».
Ma non è su questi aspetti che Randazzo si sofferma, bensı̀ sul mutamento
dell’oggetto del divieto contenuto nella prima parte della norma deontologica,
giacché - egli sottolinea -, caduta la proibizione generale di utilizzare delle prove false in favore di un più ristretto veto di introduzione o di utilizzazione di
prove (già introdotte) provenienti dalla parte assistita, non v’è alcun limite all’impiego di prove false eventualmente introdotte nel processo dalle altre parti:
il dovere di verità ne risulta allora mitigato, ma, con soddisfazione dell’autore,
pienamente coerente con il dovere di una compiuta difesa.
Il che, tuttavia, non esime l’avvocato dall’effettuare un vaglio attento della
(2) R. DANOVI, Il codice deontologico forense3, Milano, 2006, 253 s. Ma v. ulteriori esemplificazioni in
ID., La toga e l’avvocato, Milano, 1993, specialmente p. 63 ss., nonché ID., Dovere di verita` e dovere di
lealta` nella deontologia forense, in Saggi sulla deotologia e professione forense (alla ricerca della professionalita`),
Milano, 1987, p. 95 ss. V. inoltre, anche per l’evoluzione storica del dovere di verità, F. ARCARIA, Il ‘dovere di verita`’ del Codice Deontologico Forense italiano alla luce dell’esperienza giuridica romana, in ELR, II,
2013, p. 61 ss.; R. BIANCHI RIVA, L’avvocato non difenda cause ingiuste. Ricerche sulla deontologia forense
in eta` medievale e moderna, I, Il medioevo, Milano, 2012.
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posizione di chi gli si rivolga ritenendosi vittima, e di rifiutare la redazione e il
deposito della querela ove non si ravvisassero gli estremi del reato o, addirittura, si individuasse - nell’assistito - un intento calunnioso.
Fin qui il libro. Ma la lettura di esso genera suggestioni di non poco momento.
La conclusione testé indicata evoca, infatti, quell’idea del recte agere che recentemente qualche voce dottrinale (3) ha richiamato, onde auspicare che nuovamente la si ponga come paradigma di un corretto uso dello strumento processuale. Idea che travalica il perimetro del processo penale e che, anzi, ancor
più diventa pregnante nell’àmbito del processo civile, giacché per lo più in esso ci si scontra con il convincimento della parte di avere sempre e comunque
diritto di ottenere una risposta dal Giudice.
Eppure, proprio nel processo civile il legislatore ha posto regole atte a disincentivare il ricorso all’azione, ove la questione risulti palesemente infondata. E,
tra esse, non solo quella - racchiusa nell’art. 100 c.p.c. - per la quale, onde proporre una domanda o contraddire ad essa occorre avervi interesse, ma anche (e
soprattutto, stante l’evidente concordanza con la norma deontologica) quella
enucleata nell’art. 88 c.p.c., che sancisce per le parti e i loro difensori il dovere
di comportarsi in giudizio con lealtà e probità (4), ora più pregnantemente corroborata dal nuovo testo dell’art. 96 c.p.c., dato in tema di lite temeraria.
Regole, quelle da ultimo richiamate, figlie di un travaglio vòlto ad accordare
l’esigenza di verità con quella di difesa.
Scorrendo i lavori preparatori al codice del rito civile, è facile avvedersi che
il progetto preliminare Solmi del 1937, all’art. 26, poneva l’obbligo, per le
parti e i loro difensori, di esporre al giudice i fatti secondo verità e di non proporre domande, difese, eccezioni o prove che non fossero di buona fede; che il
progetto preliminare Chiovenda, all’art. 20, disponeva, per le parti e i loro avvocati, nella esposizione dei fatti, il dovere di non dire consapevolmente cose
contrarie al vero; e che il progetto Carnelutti, all’art. 28, prevedeva una disposizione simile e statuiva, inoltre, che la parte ha il dovere di affermare al giudi(3) M. FINO, ‘Recte agere potes’. Per il recupero di una prospettiva dei giuristi romani in tema di processo,
in Idee romane in tema di giurisdizione. Alle radici del diritto europeo oltre la tradizione romanistica, Napoli, 2012, p. 1 ss., già in ‘Actio in rem’ e ‘actio in personam’. In ricorso di M. Talamanca, I, a cura di L.
Garofalo, Padova, 2011, p. 333 ss.
(4) Emersione in campo processuale del principio di buona fede oggettiva, sancito - in àmbito sostanziale - in specie negli artt. 1175 e 1375 c.c. e, in definitiva, riconducibile oggi (caduto il riferimento originario alla solidarietà corporativa, a cagione dell’opera di ‘defascistizzazione’ dei codici) al dovere di solidarietà sociale posto dall’art. 2 Cost.
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ce i fatti secondo la verità e di non proporre pretese, difese ed eccezioni senza
averne ponderato il fondamento (5).
È ben vero che, sulla scorta della disposizione poi di fatto approvata, inizialmente si ritenne preferibile una lettura assai ristretta dell’obbligo di lealtà e probità processuale, giungendo a negare la sussistenza di un obbligo di verità a carico
delle parti (a cagione della preoccupazione che la previsione di un obbligo siffatto
potesse trasformarsi in uno strumento inquisitorio o, comunque, in un mezzo indiretto di pressione morale nei confronti delle parti, pertanto inaccettabile dal
punto di vista del diritto di azione e di difesa), è però altrettanto vero che si tende ora a recuperare, quanto meno, un dovere di non abusare del processo onde
far valere pretese prive di fondamento o, peggio, esercitate contra veritatem.
Il che apre necessariamente la via a considerare il rapporto tra processo e verità e a interrogarsi su ‘quale verità’ entri in gioco nel processo. Questione antica e irrisolta fin da quando riecheggiò il pilatiano «Quid est veritas?» all’interno del più famoso processo della storia.
E se pure non si vuole seguire la posizione, forse un po’ estrema, di Salvatore Satta («non si dica, per carità, che lo scopo [del processo] è l’attuazione della legge, o la difesa del diritto soggettivo, o la punizione del reo, e nemmeno
la giustizia o la ricerca della verità: se ciò fosse vero, sarebbe assolutamente incomprensibile la sentenza ingiusta, e la stessa forza del giudicato, che copre,
assai più che la terra, gli errori dei giudici. Tutti questi possono essere e sono
gli scopi del legislatore che organizza il processo, della parte o del pubblico ministero che in concreto lo promuove, non lo scopo del processo. Se uno scopo
al processo si vuole assegnare, questo non può essere che il giudizio; e processus
judicii infatti era l’antica formula, contrattasi poi, quasi per antonomasia, in
‘processo’») (6), se pure non si vuole negare, con Satta, che il fine del processo
sia il raggiungimento della verità, dicevo, è sempre comunque evidente che per quanto, a vari livelli, si vengano elaborando regole sempre più minuziose
sia in tema di istruzione probatoria, sia in tema di doveri delle parti nel processo - quella che si potrà raggiungere sarà sempre e solo una verità degradata,
che Calamandrei (7) denominava verisimiglianza, stante il suo scontare, da un
lato, la distanza del processo dal fatto e i limiti della ricerca umana, dall’altro,
la necessità di porre termine a tale ricerca in vista di fini ritenuti più pregnanti: la certezza del diritto e la stabilità dell’ordinamento (8).
(5) G. CALOGERO, Probita`, lealta`, veridicita` nel processo civile, in Riv. dir. proc. civ., 1939, I, p. 129
ss.; R. DANOVI, Dovere di verita`, cit., p. 98; M. TARUFFO, Idee per una teoria della decisione giusta, in Riv.
trim. dir. proc. civ., 1997, p. 315 ss.
(6) S. SATTA, Il mistero del processo, Milano, 1994, p. 24.
(7) P. CALAMANDREI, Verita` e verosimiglianza nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1955, I, p. 165 ss.
(8) F. CORDERO, Riti e sapienza del diritto, Roma-Bari, 1981, p. 604 ss.: «dove ogni caso sia indefinitamente giudicabile, ogni lite diventa un focolaio cronico: nessun corpo sociale tollera simili tensioni».
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