caffe` sintetico

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caffe` sintetico
CAFFE’ SINTETICO ?
di Luigi Odello
Anno 2000 n. 2
A
nche i giganti hanno paura? Parrebbe proprio di sì, visto che il caffè, la seconda commodity del mondo dopo il petrolio, vive veri e propri incubi lungo tutta
la sua filiera produttiva. I cafeteros si lamentano dei prezzi bassi imputando a
essi l’impossibilità di fare qualità. Mancano i mezzi tecnici per pratiche agronomiche che
consentano sufficienti garanzie, in alcune zone (Colombia) è carente addirittura l’acqua
per fare i lavati e, ovunque, sembra non siano sufficienti le risorse per far crescere gli
uomini addetti alla coltivazione e alle prime trasformazioni del prodotto. Il Kenya si sta
chiedendo perché impegnare mezzi a fare i lavati se questi non vengono remunerati
adeguatamente e, persino, se non conviene pensare a colture più povere (patate) che
però consentono di sfamarsi. Alcune grandi aziende stanno in qualche modo soccorrendo i cafeteros, ma per i governi dei Paesi produttori, per una parte almeno, la formula vincente è un’altra: caratterizzare e classificare la produzione. Il modello è il vino: arrivare a creare delle vere e proprie Doc e, all’interno, persino dei cru, degli estate caffè, un insieme di chicchi di un unico raccolto e di un solo podere. Nonostante che
qualcuno consideri il Kenya il gran cru del caffè, è la Colombia che sta procedendo più
velocemente attraverso i caffè gourmet, lotti selezionati, distinti da caratteristiche sensoriali descritte con tanto di profili. Ma un discorso del genere per l’espresso italiano
sta in piedi? Qui giunge la seconda paranoia: un bar dove la gente va a scegliere il caffè che preferisce, con il medesimo rito che utilizza per il vino o per le acqueviti. E’ una
suggestione facile e immediata: come pensare di cambiare moglie vedendo passare
una bella ragazza per la strada. Qualcuno pensa di raggiungere l’obiettivo con le cialde: la solita macchina del caffè, via il macinadosatore ed ecco tante scatolette variopinte. Un Guatemala, signore? O oggi è dell’umore giusto per un Monsonato indiano?
Ma l’attuale tecnologia pone ancora delle distanze sensoriali notevoli tra l’espresso
classico - oggi possiamo dire l’espresso italiano - e le cialde. E allora perché non diventare come quei bar in franchising che all’estero esistono già a centinaia. Una bella fila
di macinadosatori (una decina almeno), altrettante confezioni di caffè e avanti con il
discorso dei caffè gourmet. Non molto tempo fa ne abbiamo visitato uno degustando
tre espresso. Personale in divisa, gentile e motivato, attrezzature gestite bene, molta
attenzione alla preparazione. Ma per il prezzo pagato (mediamente l’equivalente di
2.500 lire a tazzina), di caffè all’altezza del nostro espresso domestico non ve n’era
neppure uno, anche se le macchine erano italiane. Però, dice il marketing, qualcosa
per questo consumatore individualista e viziato bisogna pur fare. Alla convention mondiale del caffè che si è tenuta a Barcellona alla fine di settembre dello scorso anno, un
relatore ha messo in evidenza come negli ultimi vent’anni i consumi di bevande analcoliche rinfrescanti siano saliti e con essi anche il loro prezzo. Il caffè non solo è rimasto fermo nei volumi, ma ha persino perso nei margini di contribuzione. Quindi il marketing di questo prodotto ha fallito. E allora bisogna correre ai ripari: innovare inventando un nuovo modo di bere il caffè ogni giorno, recuperare i giovani con bevande aromatizzate... Sì, e visto che ci siamo perché non lo facciamo sintetico ‘sto caffè?
Nulla di impossibile: grassi, proteine, aromi, zucchero caramellato e acqua
quanto basta a cento. Così potremmo anche lasciare liberi i produttori di piantare patate. Ma la saggezza antica, quella che genera risultati duraturi, passa per altre vie. La
Costa, oggi in Inghilterra e domani a Francoforte, Dublino e persino in Italia, è sul punto di raggiungere i 170 locali, quasi tutti piazzati in punti strategici. Qual è la ricetta
del successo? In un colloquio Gino Amasanti, general manager della Costa, non ha difficoltà a fornirla: una miscela di qualità, attrezzature efficienti e la formazione continua
del personale che deve preparare l’espresso (hanno addirittura tre scuole: Londra,
Manchester e Glasgow). Ma non è la stessa strada che noi conosciamo da sempre? Sì,
con la differenza che loro la seguono, e senza farsi degli sconti.
Luigi Odello