L`inedito. Primo Levi: «Shoah, la parola non basta»

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L`inedito. Primo Levi: «Shoah, la parola non basta»
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Domenica
18 Gennaio 2015
anzitutto L’autorità evangelica
CULTURA, RELIGIONI, TEMPO LIBERO, SPETTACOLI, SPORT
di Laberthonnière
arte dal volume Laberthonnière. Teoria dell’educazione e
altri scritti pedagogici (La Scuola, pp. 256, euro 15,50) il
dibattito su «Educazione e libertà: l’eredità del
Modernismo» in programma domani, lunedì 19 gennaio,
alle 18 presso la sede dell’editrice bresciana in via Gramsci 26.
Luciano Pazzaglia, don Maurilio Guasco e padre Michele
Pischedda esamineranno l’esperienza di Lucien Laberthonnière,
prete francese dell’Oratorio e tra i più vigorosi pensatori cristiani
del primo Novecento, che si impegnò per favorire il dialogo tra la
Chiesa e il mondo moderno e in particolare negli scritti
pedagogici espose una concezione dell’autorità come servizio
(idea da estendere poi a tutto il mondo cattolico).
P
A
N T I C I P A Z I O N E
IL PERDONO?
È L’AMORE DI DIO
CURVO SULL’UOMO
BRUNO FORTE
bbiamo tutti bisogno di perdono. A chi chiederlo? A Dio, anzitutto, perché nessuno ci ama come lui. E come essere certi di averlo ottenuto? È
davvero necessario andare da un sacerdote a dire i propri peccati per sapere di essere stati perdonati?
Perché dire le mie cose, specie quelle di cui ho vergogna perfino con me stesso, a qualcuno che è peccatore
come me, e che forse valuta in modo completamente
diverso dal mio ciò di cui ho fatto esperienza o non lo
capisce affatto? E poi, esiste veramente il peccato?
Comincio col rispondere a quest’ultima domanda: il
peccato c’è, e non solo è male, ma fa male. Basta guardare la scena quotidiana del mondo, dove violenze, guerre, ingiustizie, sopraffazioni, egoismi, gelosie e vendette si sprecano. Chi crede nell’amore di Dio percepisce
come il peccato sia amore ripiegato su se stesso («amore
curvo» dicevano i medioevali), ingratitudine di chi risponde all’amore con l’indifferenza e il rifiuto. Questo
rifiuto ha conseguenze non solo su chi lo vive, ma anche sulla società tutta intera, fino a produrre dei condizionamenti e degli intrecci di egoismi e di violenze che
costituiscono delle vere e
proprie «strutture di peccato».
Proprio per questo non si deve esitare a sottolineare
quanto sia grande la tragedia
del peccato e quanto la perdita del senso del peccato –
ben diverso da quella malatMonsignor Bruno Forte tia dell’anima che chiamiamo «senso di colpa» – indebolisca il cuore davanti allo
Abbiamo immenso spettacolo del male e alle seduzioni di Satana, l’Avversabisogno di tenera
rio che cerca di separarci da
compassionevole
Dio. Nonostante tutto, però,
vicinanza, come
non mi sento di dire che il
dimostra anche
mondo è cattivo e che fare il
un semplice
bene è inutile. Sono, anzi,
sguardo alla nostra convinto che il bene c’è ed è
grande debolezza molto più grande del male,
che la vita è bella e che vivere rettamente, per amore e
con amore, vale veramente la pena.
La ragione profonda che mi fa pensare così è l’esperienza della misericordia di Dio, che faccio in me stesso e che vedo risplendere in tante persone umili: è un’esperienza che ho vissuto tante volte, sia dando il perdono come ministro della Chiesa, sia ricevendolo. Sono anni che mi confesso regolarmente, più volte al mese e con la gioia di farlo. La gioia nasce dal sentirmi amato in modo nuovo da Dio ogni volta che il suo perdono mi raggiunge attraverso il sacerdote che me lo dà
in suo nome. È la gioia che ho visto tanto spesso sul volto di chi veniva a confessarsi: non il futile senso di leggerezza di chi «ha vuotato il sacco», ma la pace di sentirsi bene «dentro», toccati nel cuore da un amore che
sana, che viene dall’alto e ci trasforma. Chiedere con
convinzione, ricevere con gratitudine e dare con generosità il perdono è sorgente di una pace impagabile!
La confessione è dunque l’incontro col perdono divino,
offertoci in Gesù e trasmessoci mediante il ministero
della Chiesa. In questo segno efficace della grazia ci viene offerto il volto di un Dio che conosce come nessuno
la nostra condizione umana e le si fa vicino con tenerissimo amore. Ce lo dimostrano innumerevoli episodi
della vita di Gesù, dall’incontro con la Samaritana alla
guarigione del paralitico, dal perdono all’adultera alle
lacrime di fronte alla morte dell’amico Lazzaro… Di
questa vicinanza tenera e compassionevole di Dio abbiamo immenso bisogno, come dimostra anche un semplice sguardo alla nostra esistenza: ognuno di noi convive con la propria debolezza, attraversa l’infermità, si
affaccia alla morte, avverte la sfida delle domande che
tutto questo accende nel cuore.
A
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Lettere per credenti e no
«Lettere dalla collina» (Mondadori, pp.
96, euro 16) è «un libro per credenti ma
anche per laici». Così lo definisce l’autore,
l’arcivescovo di Chieti-Vasto nonché
segretario del Sinodo sulla famiglia Bruno
Forte, che vi ha raccolto alcune lettere sui
grandi quesiti della vita «scritte meditando e
pregando nella casa dove abito, posta sulla
collina della città». Ne pubblichiamo qui una.
L’inedito.
Primo Levi: «Shoah, la parola non basta»
PRIMO LEVI
A misura che il passare degli anni ce ne
allontana, e benché i decenni che sono
seguiti non ci abbiano risparmiato
violenze ed orrori, la storia dei lager
hitleriani si delinea sempre più come
un unicum, un episodio esemplare a
rovescio: l’Uomo, tu uomo, sei stato
capace di far questo; la civiltà di cui ti vanti
è una patina, una veste: viene un falso
profeta, te la strappa di dosso, e tu nudo sei
un mostro, il più crudele degli animali. Da
allora, il nazionalsocialismo (a meno di
poche voci deliranti che ne giustificano i
crimini, o li negano, o addirittura li esaltano)
«L’Uomo, tu uomo,
sei stato capace
di far questo; la civiltà
di cui ti vanti
è una patina, una veste:
viene un falso profeta,
te la strappa di dosso,
e tu nudo sei un mostro,
il più crudele
degli animali»
vale come riferimento, come il nodo da
evitarsi. Su di esso sono comparse
innumerevoli opere di testimonianza e di
interpretazione, ma mancava finora in Italia
un libro come questo. Penso che, al di là della
pura commemorazione, esso abbia un valore
suo specifico: a descrivere quell’orrore, la
parola risulta carente. Le immagini qui
riprodotte non sono un equivalente o un
surrogato: esse sostituiscono la parola con
vantaggio, dicono quello che la parola non sa
dire. Alcune hanno la forza immediata
dell’arte, ma tutte hanno la forza cruda
dell’occhio che ha visto e che trasmette la
sua indignazione.
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L’intervista. Da Auschwitz a Theresienstadt, Arturo Benvenuti
ha raccolto i disegni dei prigionieri dei campi di concentramento
Matite
dal
LAGER
LAURA BADARACCHI
atite che raccontano,
con i toni crudi e ruvidi delle istantanee
in bianco e nero, la
realtà indicibile dello
sterminio pianificato.
Oltre 250 lapidarie testimonianze per immagini scampate all’oblio grazie alla tenacia di un uomo che
per passione civile ha voluto ostinatamente ricercare e fotografare nei lager
disseminati in tutta Europa i disegni realizzati dagli internati di fedi, nazionalità,
etnie, età, status sociale differenti. Un
prezioso (e forse unico) lavoro documentaristico durato quattro anni e confluito nel volume K.Z. Disegni dai campi
di concentramento nazifascisti, autoprodotto e stampato in un centinaio di copie fuori commercio nell’aprile 1983 con
la prefazione di Primo Levi (della quale
sopra pubblichiamo uno stralcio), appena ripubblicato dalle edizioni BeccoGiallo e in libreria dal 22 gennaio (pagine 272, euro 26,00).
Nato nel 1923, veneto, l’autore Arturo
Benvenuti ha attraversato con la sua biografia e non per sentito dire il secondo
conflitto mondiale. Ragioniere e bancario, artista e poeta, non dimentica il tempo buio trascorso, i volti degli amici ebrei
scomparsi, le storie di chi era tornato dall’inferno dell’annientamento sistematico. Così nel 1979, a 56 anni, decide con
la moglie di raggiungere in camper Auschwitz, Theresienstadt, MauthausenGusen, Buchenwald, Dachau, Gonars,
Monigo, Renicci, Banjica, Ravensbrück,
Jasenovac, Bergen-Belsen, Gurs, così come le maggiori città del Vecchio continente – dalla Cecoslovacchia all’Austria,
dalla Polonia alla Norvegia, dall’Ungheria alla Germania, dalla Danimarca all’Italia – dove visita archivi, musei, biblioteche, uffici, incontrando i sopravvissuti o i loro parenti. Che gli consentono di
accedere con la sua macchina fotografica a brandelli di storia, incisioni e acquarelli, icone e ritratti dolenti di quotidianità sfuggita a scatti e filmati in tempo reale. «Chi era nei campi ha visto tutto dal vivo, restituendo così l’idea del
dramma vissuto senza bisogno di parole – sottolinea Benvenuti –. Non è stato
facile cercare e ottenere queste immagini, ma con il passaparola qualcuno è venuto anche a casa mia senza che lo conoscessi. E dalla Russia una vedova mi
M
TESTIMONIANZE. In questa pagina, alcuni dei disegni raccolti da Arturo Benvenuti (nella foto sotto). Sopra, Primo Levi
Raccolti in un volume
autoprodotto nel 1983,
ora per la prima volta
arrivano in libreria
«Anche oggi il rischio
è l’assuefazione
a violenza e dolore»
ha mandato le copie dei disegni fatti da
suo marito».
L’acronimo del titolo? Deriva dalla lingua
yiddish e sta per “Konzentration Zenter”
(campo di concentramento), ma rimanda anche a “Ka-tzetnik” (prigioniero del
campo di concentramento), «con riferimento al detenuto piuttosto che al luogo o alla forma di detenzione. Ka-tzetnik
associato al numero era il modo abituale con cui venivano chiamati i
prigionieri nei campi, e la parola nasce proprio dalla sigla
K.Z. pronunciata alla tedesca»,
spiega Benvenuti. Durante questo lungo e doloroso pellegrinaggio ha composto cinque
brevissime liriche accomunate
dal medesimo slancio etico: le
vittime sono tutte degne di rispetto e di memoria, «senza alcun campanilismo». Un intento compreso da Primo Levi, che nel 1981 accettò
eccezionalmente di firmare la prefazione al libro: «Un atto di fiducia che mi ha
onorato – ricorda l’autore –. Gli scrissi
mandandogli la documentazione e mi
rispose con una lettera, poi ci siamo sentiti al telefono. Mi disse che non lo faceva per nessuno, ma che accettava perché
avevo lavorato con onestà e serietà».
Ormai ultranovantenne, Benvenuti resta
granitico nelle sue convinzioni. La logica «dell’annientamento attraverso il camino», quell’oscuro passato, resta e ritorna al netto di ogni retorica. «Ci sono
rigurgiti anche oggi di discriminazione e
abbiamo bisogno di ricordare. Penso ai
miei nipoti e ai miei pronipoti, ai giovani: spero di aver fatto qualcosa di buono
per loro», conclude lucidamente. Perché
non ci si può assuefare al dolore e far finta di non vedere –
girando alzando le spalle a mo’
di rassegnata indifferenza – gli
eccidi che avvengono in Siria o
in Nigeria o, qualche anno fa,
nell’ex Jugoslavia. La violenza
fine a se stessa, contro qualsiasi persona umana, non deve mai essere omologata né
derubricata a fatto che non
tocca da vicino, conficcata nella carne,
la propria coscienza. Lo ribadisce nella
poesia Il tunnel (sottopassaggio percorso dai deportati verso le camere a
gas), scritta nel giugno 1980 presso il
campo di Theresienstadt: «Colma sarà
la nostra vita / quando crescerci dentro
/ saprà la giusta misura / della vostra
lucida agonia».
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