AMARTYA SEN

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AMARTYA SEN
P r i m Aot t pu ai lai nt ào
DALLA CRISI AL BEN-ESSERE
a cura di Luigino Bruni
P
UNO STUDIOSO
CHE CITA DANTE
E CAPOVOLGE IL
PENSIERO DOMINANTE.
INTERVISTA ESCLUSIVA
CON IL PREMIO NOBEL
er capire chi è Amartya Sen,
un buon punto di partenza
sono le ultime parole del suo
libro del 2010, L’idea di giustizia (Mondadori): «La filosofia
può esercitarsi con esiti di straordinario interesse su una varietà di
questioni che non hanno nulla a che
fare con le miserie, le iniquità e la
mancanza di libertà che affliggono
la vita umana. La filosofia, però, può
anche contribuire a dare maggiore
rilevanza alle riflessioni sui valori e
sulle priorità, nonché a quelle sulle
privazioni, le angherie e le umiliazioni cui in tutto il mondo gli esseri
umani sono soggetti». Sen è soprattutto per il secondo esercizio della
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filosofia, e dell’economia, e chiunque oggi voglia fare altrettanto, deve incontrare il magistero di Sen su
questi e altri temi.
Sen (ottant’anni) è uno degli intellettuali globali più influenti oggi in circolazione, ed è anche un
grande economista (premio Nobel
nel 1998), perché è più grande della
scienza economica, incarnando così
con la sua vita e opera una frase cara
a molti economisti del passato: «Un
economista che è solo economista è
un cattivo economista».
Sen è stato uno studioso che non
solo ha portato contributi rilevanti in
temi classici dell’economia e ormai
della filosofia politica, rispondendo
R. Monaldo/LaPresse
B. Das/AP
AMARTYA SEN
CAMBIAMO
L’ECONOMIA
P. Giannakouris/AP
Giovani dipendenti a lavoro in una fabbrica polacca e (sotto)
scene di rivolta di piazza ad Atene contro i tagli. A fronte: il Nobel
per l’economia Amartya Sen.
meglio ad alcune domande di sempre su povertà, diseguaglianza, scelte collettive. Sen ha anche cambiato
le domande della scienza economica inserendo fra i temi di cui anche
l’economia deve occuparsi il tema
dei diritti, della libertà e quindi delle ormai note capabilities (la reale
capacità di fare ed essere). Da queste nuove e antiche domande, Sen è
arrivato ad occuparsi di well-being
(ben-essere), altra sua parola chiave,
un concetto che egli ha voluto distinguere da happiness (felicità).
Per Sen il well-being si misura
sulla base di che cosa una persona
fa, non di quanto sente (happiness):
quindi è faccenda di libertà, diritti,
capacità e funzionamenti.
Per capire, allora, il messaggio di
Sen occorre accostare la sua opera,
molto vasta, ai classici del pensiero,
Adam Smith, J.S. Mill, Karl Marx,
o J.M. Keynes; economisti che ave-
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vano posto al centro delle loro riflessioni i grandi temi dello sviluppo, la
ricchezza delle nazioni e la pubblica
felicità, e quindi il grande tema della
distribuzione del reddito, della povertà e della ricchezza, la disuguaglianza e l’equità.
Nomi che si incontrano sempre
nei testi e nelle lezioni di Sen, compresa l’ultima tenuta a Roma il 19
gennaio 2013, in occasione del Festival delle scienze, quest’anno dedicato alla “Felicità”, dove ha parlato di
felicità, diseguaglianza, Europa.
Sen ha parlato di happiness, in
particolare, all’interno di un ricco
dibattito che va avanti da almeno
40 anni. L’economista indiano ha
iniziato ad occuparsi di benessere,
o well-being, come ama dire, all’inizio degli anni Ottanta. Il periodo
in cui è iniziato il filone di ricerca
sull’“Economia della felicità”: studiavano la felicità delle persone sulla base dell’ipotesi di poter misurare la felicità soggettiva grazie a dei
questionari. La domanda principale
nei formulari è la seguente: «Pensa
alla peggiore situazione nella quale
potresti trovarti: assegnale zero punti; ora pensa alla situazione migliore
in assoluto, e assegnale 10. Valuta,
infine, la tua situazione presente con
un voto tra 0 e 10». Secondo tali studiosi questi numeri possono essere
confrontati anche tra persone diverse e in differenti Paesi. A partire da
questa forte tesi si è giunti a mostrare soprattutto che il reddito pro capite (e il Pil) conta poco, o certamente
meno di quanto gli economisti pensino, nella felicità delle persone.
Sen ha, quindi, un suo modo di
accostarsi al tema della felicità, e ce
lo ha detto anche nella conferenza romana. Ho avuto la gioia e l’onore di
introdurre Sen in questa conferenza,
e di stare con lui l’intera giornata.
Lo avevo conosciuto da studente, nel
1988, in un convegno a Roma, e non
l’ho più perso di vista, poiché lo con-
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M. Muheisen/AP
Primo piano
Una bambina dispone in fila mattoni appena prodotti: una delle tante facce
del lavoro servile. A fronte: operai immigrati in un cantiere dei grattacieli
di Dubai e un operatore di Wall Street alle prese con i numeri della Borsa.
sidero come uno dei miei maestri di
pensiero. Al Festival delle scienze abbiamo avuto modo di parlare di molte
cose, in un dialogo ricco, tra economia, politica, filosofia e vita.
Professor Sen, lei ha una sua posizione originale riguardo gli studi
sulla felicità. In generale sembra
essere critico nei confronti del modo con cui oggi economisti e sociologi misurano la felicità. È così?
«Sì e no. Se per felicità, o meglio
happiness, poiché il significato della parola inglese non è esattamente
quello dell’italiana “felicità”, intendiamo quanto il pensiero utilitarista
di J. Bentham evidenziava con questa
espressione, allora non posso che essere critico, come tutta la mia critica
all’utilitarismo di questi decenni dice. Ma dobbiamo intenderci su cosa
intendiamo con happiness, e che posto occupa nella vita delle persone».
K. Jebreili/AP
M. Altaffer/AP
E come cambia?
«Non ci sono dubbi sul fatto che
la felicità sia qualcosa di grande da
ottenere. Ma non è la sola cosa per
la quale abbiamo ragioni per attribuirle valore. Il problema allora si
pone quando costruiamo una teoria etica, come fanno gli utilitaristi
(Bentham in particolare), basata
soltanto sulla felicità, misurata come differenza tra i piaceri e le pene, una prospettiva, questa, che sta
avendo un grande revival in questi
ultimi anni. Questa visione ristretta
del benessere basato sulla felicità
(happiness) è molto problematica
e pericolosa quando la usiamo per
confronti tra diverse condizioni di
deprivazione e miseria delle persone. In effetti, le valutazioni della
propria felicità sono soggette a effetti di adattamento, poiché le persone si adattano a circostanze anche
molto sfavorevoli, pur di sopravvivere. Ma la capacità di adattamento
delle persone può portare a trarre
conclusioni, anche di politiche sociali ed economiche, sbagliate».
Questo tema, noto come “lo
schiavo felice”, è una delle costanti
del pensiero di Amartya Sen sulla
felicità. Andrebbe stampato e affisso
alle pareti di ogni istituzione e organizzazione che si occupa di sviluppo
umano o di lotta alla indigenza.
Così scriveva l’economista nativo
del Bengala, nel 1993: «Si prenda in
considerazione una persona molto
svantaggiata che sia povera, sfruttata, di cui si abusi lavorativamente e
che sia malata, ma che le condizioni
sociali hanno reso soddisfatta della
propria sorte (per mezzo ad esempio della religione, della propaganda
politica o dell’atmosfera culturale
dominante). Possiamo forse credere
che se la cavi bene perché è felice e
soddisfatta?».
Mi sembra una critica molto importante e totalmente condivisibile.
La coautrice di Sen, la filosofa Martha Nussbaum, dice che esistono delle “buone pene” e “cattivi piaceri”,
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P. Rahman/AP
Primo piano
come le buone sofferenze legate alle
lotte per la conquista dei diritti per
sé e per gli altri, o i cattivi piaceri
di chi cerca nell’abusare di altre persone. Quindi il semplice criterio di
massimizzare i piaceri e minimizzare le pene non dice nulla, o troppo
poco, sulla qualità della vita di una
comunità o società.
Il lavoro con altri economisti (Stiglitz e Fitoussi) per l’ individuazione di nuovi indicatori di benessere,
che superino il Pil, si basa sulla impossibilità di affidarsi alla sola misurazione della felicità soggettiva?
«È proprio così. Infatti ho molti dubbi che la felicità individuale
sia un buon indicatore del benessere (well-being) delle persone. Come
detto, la metrica utilitaria basata
esclusivamente sulla felicità può essere molto ingiusta nei confronti di
coloro che sono sistematicamente
deprivati. Ad esempio, per coloro
che si trovano agli ultimi posti delle
nostre società stratificate, minoranze
oppresse in comunità intolleranti, e
cioè i disoccupati e i precari che vivono in un mondo con grandi incer-
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Sen con Muhammad Yunus,
Premio Nobel per la pace nel 2006,
fondatore della “Banca dei poveri”,
che attua la promozione sociale
dal basso.
tezze, lavoratori sfruttati in contesti
industriali, o casalinghe sottomesse in culture sessiste. Certo, grazie
alla loro capacità di adeguarsi alle
condizioni di vita, riescono a sopravvivere, ma questi adattamenti
distorcono le valutazioni soggettive
della felicità di queste persone. Nella
valutazione delle condizioni di vita e
di benessere delle persone più povere della società, gli indicatori di felicità ci dicono molto meno di altri
indicatori sulle condizioni oggettive
di deprivazione e mancanza di libertà. Essere riconciliati e contenti con
i propri svantaggi, è cosa ben diversa dal non avere questi svantaggi».
Per lei, professor Sen, in linea
con Aristotele e tutta la tradizione classica dell’etica delle virtù,
la “vita buona” si misura dunque sulla base di quanto la gente
“fa e può fare”, non in base a che
cosa “sente”. Come a dire che le
moderne democrazie hanno bisogno di più indicatori di benessere
(incluso il Pil), poiché qualunque
riduzione ad un solo indicatore,
compreso un indicatore di felicità,
mette sempre in pericolo la democrazia e la libertà.
«Sì, credo che anche gli indicatori
basati sulla felicità siano molto problematici, perché fanno commettere
errori gravi a danno delle persone più
svantaggiate della società. E come ho
avuto modo di scrivere nel mio ultimo libro, L’idea di giustizia: “Non c’è
bisogno di essere Gandhy (o Martin
Luther King o Nelson Mandela o
Aung San Suu Kyi) per comprendere
che gli obiettivi e le priorità di una
persona possono andare ben al di là
degli angusti confini del ben-essere e
della felicità individuale”».
Vorrei chiudere con la frase di
Dante con cui ha aperto la sua conferenza all’Auditorium della musica
di Roma alla presenza di oltre 700
persone (quelli che hanno trovato i
biglietti): «O gente umana, per volar su nata, perché a poco vento così cadi?» (Purgatorio, XII).
«In effetti, la domanda di Dante
è molto importante. È grande il contrasto tra le grandi cose che gli esseri
umani possono raggiungere, e le esistenze così povere e limitate che molti uomini e donne finiscono per vivere. Le potenzialità degli esseri umani
– di condurre una vita buona, di essere contenti e felici, di essere liberi
– sono molto maggiori di quanto riusciamo, concretamente a realizzare».
Se il compito dell’economista, almeno di quelli come Sen, fosse quello
di studiare per contribuire a ridurre gli
ostacoli oggettivi e soggettivi che ci
impediscono di esprimere al meglio le
nostre potenzialità, allora fare l’economista sarebbe un buon mestiere.
a cura di Luigino Bruni