I processi di crescita delle piccole e medie imprese

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I processi di crescita delle piccole e medie imprese
I PROCESSI DI CRESCITA DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE
I PROCESSI DI CRESCITA DELLE
PICCOLE E MEDIE IMPRESE
Cristina Gianfelici
Introduzione
Le piccole e medie imprese (d’ora innanzi,
PMI) sono il perno dell’economia europea. In tutta
l’Unione se ne contano circa 23 milioni, che rappresentano il 99,8% del totale delle imprese e offrono
impiego a circa 75 milioni di persone, pari al 67%
dei posti di lavoro disponibili nel settore privato e
all’80% dell’occupazione in alcuni settori industriali
quali la manifattura dei prodotti in metallo, l’edilizia
e l’arredamento1.
Questa situazione è perfettamente confermata anche in ambito nazionale. In Italia, infatti, su
4.338.766 imprese, ben 4.335.446, pari al 99,9%,
sono PMI, artefici di oltre l’81% dei posti di lavoro
e, nei settori secondario e terziario, di ben il 72,4%
del valore aggiunto prodotto2.
Alla luce di questi dati, è evidente come le
PMI rappresentino in Italia e in Europa una insostituibile risorsa, un fondamentale elemento catalizzatore per il superamento della attuale crisi econo1
Dati aggiornati al 2005 e tratti da Comunità Europee
(2008), (2006).
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Dati aggiornati al 2006 e tratti da Ufficio Studi Confcommercio (2009).
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mica. Del resto, a partire dal Consiglio Europeo di
Lisbona, l’Unione Europea e gli Stati membri sono
stabilmente impegnati nel rilanciare l’economia
interna attraverso politiche idonee a promuovere
le potenzialità di crescita e di occupazione delle
PMI3.
Ma cosa significa “crescita” per una piccolamedia impresa? E quali sono i principali ostacoli?
Attraverso l’analisi della letteratura e di alcuni dati empirici, questo contributo vuole affrontare i
menzionati interrogativi, ponendo particolare attenzione al profilo culturale del problema.
Le dimensioni della piccola-media impresa
La nozione di piccola-media impresa è oggetto di particolare attenzione da parte della Commissione Europea fin dai primi anni Novanta. In
un mercato unico, senza frontiere interne, infatti,
è essenziale che le politiche a favore delle PMI si
fondino su una definizione comune, sia per migliorare la loro coerenza ed efficacia, sia per limitare
le occasioni di distorsione della concorrenza, data
la evidente interazione fra i requisiti delle PMI e la
possibilità, per le organizzazioni che li soddisfano,
di accedere alle misure e alle agevolazioni comunitarie e nazionali volte a promuoverne e ad assisterne lo sviluppo.
La prima definizione comunitaria di piccolamedia impresa risale al 1996, quando la Commissione Europea l’ha adottata con Raccomandazione
n. 96/208/CE, sollecitando alla sua adozione non
3
Per maggiori dettagli, si rinvia al portale europeo per le
PMI: http://ec.europa.eu/enterprise/sme/policy_it.htm.
I PROCESSI DI CRESCITA DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE
solo gli Stati membri, ma anche la Banca Europea
degli Investimenti e il Fondo Europeo per gli Investimenti.
Da allora, tale definizione è stata ampiamente applicata sia in ambito comunitario, sia nei
diversi contesti nazionali, ma ha anche mostrato
diverse debolezze, lasciando spazio sia ad alcune difficoltà interpretative, sia alle pratiche elusive
di alcuni gruppi imprenditoriali sostanzialmente di
grandi dimensioni, nonostante la riconducibilità al
concetto di piccola-media impresa delle singole
entità aziendali componenti.
Nel 2003, tali criticità hanno indotto la Commissione Europea a rivedere la nozione di piccola-media impresa. La nuova definizione, contenuta
nella Raccomandazione n. 03/361/CE ed entrata in
vigore dal 1° gennaio 2005, prevede che una impresa possa essere considerata di piccole-medie
dimensioni se soddisfa, contemporaneamente, tre
requisiti4:
1) requisito di autonomia;
2) requisito occupazionale;
3) requisito finanziario.
Una impresa è definita “autonoma” se non è
né associata né collegata, ovvero se non controlla
altre imprese e non è controllata da altre imprese,
direttamente o indirettamente5. Se la prima condi4
Cfr. Comunità Europee (2006); Decreto del Ministero
delle Attività Produttive 18 aprile 2005; Raccomandazione n.
03/361/CE.
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Più precisamente, ai fini della definizione comunitaria
di piccola media-impresa, due imprese non sono autonome, ma
associate, quando una (detta “impresa a monte”) detiene, da
sola o insieme ad una o più collegate, almeno il 25% del capitale
o dei diritti di voto dell’altra (detta “impresa a valle”). Sussiste,
invece, un rapporto di collegamento quando:
a) una impresa detiene la maggioranza dei diritti di voto nell’assemblea di un’altra impresa, o perché ne possiede la
maggioranza del capitale, o in virtù di un patto parasociale;
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zione è rispettata, gli altri due parametri, di ordine
dimensionale, identificano una impresa come:
1) “media impresa” se, contemporaneamente:
a) occupa meno di 250 persone;
b) ha un fatturato annuo non superiore a 50
milioni di euro o un attivo patrimoniale non superiore a 43 milioni di euro;
2) “piccola impresa” se, contemporaneamente:
a) occupa meno di 50 persone;
b) ha un fatturato annuo o un attivo patrimoniale non superiore a 10 milioni di euro;
3) “microimpresa” se, contemporaneamente:
a) occupa meno di 10 persone;
b) ha un fatturato annuo o un attivo patrimoniale non superiore a 2 milioni di euro.
Approfondendo i dati esposti nell’introduzione, il vero motore dell’economia europea è costituito dalle microimprese: esse rappresentano il 91,5%
di tutte le imprese dell’Unione, seguite dalle piccole imprese, pari al 7,3%, dalle medie imprese, pari
all’1%, e dalle grandi imprese, appena lo 0,2% del
b) una impresa ha il diritto di nominare o revocare la maggioranza dei membri del consiglio di amministrazione, direzione o sorveglianza di un’altra impresa;
c) una impresa ha il diritto di esercitare una influenza dominante su un’altra impresa in virtù di una clausola contrattuale o
statutaria.
Eccezionalmente, le disposizioni comunitarie in materia di PMI
ammettono che una impresa possa essere definita autonoma
anche se viene raggiunta o superata la soglia del 25% prevista
per il vincolo di associazione qualora nella compagine societaria
siano presenti specifiche e tassativamente indicate categorie di
investitori (quali, ad esempio, investitori istituzionali, Università o
Centri di Ricerca senza scopo di lucro, ecc.), a condizione però
che tali investitori non siano individualmente o congiuntamente
collegati con l’impresa in questione.
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totale6. Una situazione sostanzialmente analoga si
ripropone, peraltro, anche a livello nazionale, dove
le microimprese sono il 94,90% di tutte le imprese,
seguite dalle piccole imprese, pari al 4,52%, dalle
medie imprese, pari allo 0,50%, e dalle grandi imprese, solo lo 0,08% del totale7.
Il punto di vista della letteratura economica
Nel corso degli anni, le opportunità di crescita della piccola-media impresa sono state diversamente interpretate dalla letteratura economica,
come condizioni imprescindibili per la sopravvivenza dell’impresa stessa o, viceversa, come fattori di
disturbo alla sua flessibilità.
La prima impostazione, che trova legittimazione nei classici contributi di Rostow (1960),
Chandler (1962), McGuire (1963), Greiner (1972),
sottende una visione della piccola impresa non
come realtà autonoma, ma come fase di un percorso pressoché naturale e ineluttabile di crescita,
alla luce del quale la piccola impresa può solo svilupparsi dimensionalmente o, in alternativa, estinguersi.
La seconda impostazione, invece, risale agli
anni Settanta, quando la crisi economica e le difficoltà manifestate da molte grandi imprese nella
gestione delle rispettive strutture organizzative, divenute troppo imponenti e burocratizzate, condussero alla rivalutazione della piccola impresa come
la configurazione organizzativa dotata di maggiore
flessibilità e, pertanto, particolarmente idonea a
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Dati aggiornati al 2005 e tratti da Comunità Europee
(2008).
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Dati aggiornati al 2006 e tratti da Ufficio Studi Confcommercio (2009).
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operare in un contesto socio-economico sempre
più complesso e turbolento (Schumacher, 1973).
Ad oggi, entrambe le menzionate impostazioni “estreme” possono ritenersi superate. A partire dagli anni Ottanta, infatti, ha preso forma una
terza impostazione, che riconosce la piccola e la
media impresa come realtà stabili e autonome, con
caratteristiche, elementi strutturali e meccanismi
gestionali tipici e distintivi (Churchill e Lewis, 1983;
ISTUD, 1999). Quest’ultima interpretazione teoricodottrinale, peraltro, trova evidente riscontro nell’attuale sistema economico-imprenditoriale italiano e
comunitario, di cui, come sopra accennato, le PMI
sono indubbiamente l’asse portante. Il pregiudizio più evidente dell’approccio classico, quello di
considerare la piccola e la media impresa come
semplici fasi di passaggio verso la grande dimensione, è pertanto abbattuto. Ma, allo stesso tempo,
appaiono in via di superamento anche i limiti delle
teorie degli anni Settanta, dove, dietro allo slogan
“piccolo è bello”, si nascondeva spesso il timore di
crescere della piccola impresa, per mancanza di
competenze e risorse adeguate da parte dell’imprenditore.
Nel contesto socio-economico contemporaneo, dove la globalizzazione dei mercati e la rapidità dell’evoluzione tecnologica rendono la concorrenza sempre più agguerrita e i rapporti fra gli
operatori economici (fornitori, clienti, investitori,
ecc.) sempre più articolati e tumultuosi, pensare
alla piccola e alla media impresa come a organizzazioni “immobili” è certamente fuorviante. La piccola-media impresa virtuosa, capace di affrontare
le continue sfide del mercato e di conquistare una
propria nicchia in cui operare, non è una realtà che
I PROCESSI DI CRESCITA DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE
resta sempre uguale a se stessa in un mondo che
cambia, ma, al contrario, un’organizzazione che,
pur mantenendo dimensioni quantitativamente ridotte, individua e percorre altre strade per crescere e affermarsi.
Le modalità di crescita: quantitativa e
qualitativa
La piccola impresa può svilupparsi sotto due
profili: quantitativo e qualitativo (Boldizzoni, 1985).
Lo sviluppo quantitativo si realizza per linee
interne, attraverso processi di integrazione orizzontale e/o verticale e il conseguente incremento di investimenti, fatturato, dipendenti, ecc., conducendo
la piccola impresa verso la medio-grande dimensione. Si tratta, evidentemente, della alternativa di
crescita più classica, l’unica ritenuta possibile fino
agli anni Settanta.
A partire dagli anni Ottanta, invece, ha trovato via via crescente affermazione la modalità di
sviluppo qualitativa, o per linee esterne, fondata
sulla interazione fra catene del valore di PMI diverse che, a vario titolo, decidono di cooperare fra loro
pur restando giuridicamente autonome (Lorenzoni,
1990).
Questa seconda alternativa affonda le proprie radici nella crisi delle forme organizzative più
tradizionali (Arcari, 2004): da un lato, la gerarchia, con le sue strutture organizzative ciclopiche,
troppo ingessate e burocratizzate per rispondere
in modo tempestivo e adeguato agli stimoli di un
contesto socio-economico in continua evoluzione,
e dall’altro, il mercato, con i suoi costi di transazione non sempre trascurabili. La rete, collocandosi
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come forma organizzativa intermedia, è un intreccio di risorse e competenze interne ed esterne che,
se opportunamente calibrato, consente alla piccola-media impresa di realizzare le proprie business
idea anche in condizioni di bassa propensione al rischio e di carenza di capitali e know-how specifici,
usufruendo dei vantaggi della integrazione e della
differenziazione senza perdere la propria flessibilità (Lorenzoni, 1990).
Le forme tecniche mediante le quali una rete
può svilupparsi sono assai numerose ed eterogenee, in continua evoluzione e non sempre formalizzate; per questo, la crescita per linee esterne,
a differenza della crescita per linee interne, non è
sempre facilmente riconoscibile. Tuttavia, per delineare meglio i contorni del fenomeno, il mercato
e la gerarchia possono essere considerate come
due soluzioni organizzative poste ai vertici di un
continuum, all’interno del quale la rete, secondo
le specifiche modalità di sviluppo, può collocarsi
di volta in volta più o meno vicino all’uno o all’altro
estremo (Arcari, 2004). Le principali variabili del
“problema” sono:
1) il grado di coesione giuridica;
2) il grado di formalizzazione dell’accordo.
Il primo parametro concerne la presenza e
l’intensità dei vincoli di carattere proprietario (Arcari, 2004; Brunetti, 1987; Cucchi, Scuriatti, 1992).
Quanto maggiore è la cointeressenza proprietaria sottostante alla rete, tanto più il collegamento e il coordinamento fra le imprese giuridicamente autonome sono garantiti dai vincoli di
partecipazione; ad esempio, sono reti proprietarie
quelle fondate su una holding, su accordi di joint
venture, su partecipazioni incrociate, ecc. In questi
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casi, nell’ambito della rete, le prerogative di amministrazione e controllo spettanti alla maggioranza
proprietaria fanno le veci, più o meno intensamente, dei vincoli gerarchici che garantiscono l’ordine
organizzativo e operativo all’interno di ogni singola
impresa.
Viceversa, se la cointeressenza proprietaria
è insignificante, o addirittura inesistente, la connessione tra le imprese del network deve essere assicurata da altre forme di coordinamento, di natura
contrattuale e non; sono reti non proprietarie i consorzi, i gruppi di acquisto, i distretti, ecc.
Il secondo parametro, invece, riguarda le
modalità di definizione dell’accordo (Boldizzoni,
Serio, 1996). Possono sussistere accordi di natura
contrattuale, dove il coordinamento fra le imprese è
garantito da un contratto scritto, o accordi informali, fondati su norme sociali o aspettative reciproche
non contrattualmente garantite.
Sia il rapporto di cointeressenza proprietaria,
sia il grado di formalizzazione dell’accordo possono essere più o meno consistenti.
Ovviamente, le reti più stabili, con un forte e
durevole rapporto di coordinamento fra le imprese
partecipanti, sono quelle caratterizzate dai vincoli
proprietari e contrattuali più intensi. Le principali
fattispecie che rispondono a questi requisiti sono riportate nella tavola 1, quadrante I; tali forme di crescita per linee esterne sono state particolarmente
apprezzate e implementate dalle imprese italiane
negli anni Ottanta (Boldizzoni, Mariani, Signorelli,
1993), in concomitanza all’affermarsi dell’esigenza
di nuove forme di sviluppo, alternative alle tradizionali integrazioni verticali e orizzontali ma comunque ben strutturate.
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Viceversa, quando i vincoli proprietari e contrattuali sono labili o addirittura inesistenti (cfr. tavola 1, quadrante III), il grado di coordinamento intrinseco e di stabilità del network è molto modesto. In
questi casi, il buon esito dell’iniziativa dipende dalla coesione strategica della rete, ovvero dalla concreta condivisione di obiettivi comuni fra le imprese
partecipanti. Evidentemente, però, la condivisione
di obiettivi comuni, specie se riguarda imprese in
potenziale o effettiva concorrenza, è una condizione instabile, suscettibile di mutamenti significativi
e repentini, idonei ad alterare in modo altrettanto
rilevante e improvviso gli equilibri, ed eventualmente la stessa sopravvivenza, del network. Le forme
di crescita per linee esterne meno stabili, durevoli
e intense, proprio per la loro maggiore flessibilità
rispetto ai rapporti organizzativi meglio strutturati,
hanno iniziato ad essere apprezzate e ad affermarsi a partire dagli anni Novanta (Boldizzoni, Mariani,
Signorelli, 1993).
I PROCESSI DI CRESCITA DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE
Tav. 1: Mappa delle principali modalità di crescita per linee esterne delle PMI8
La classificazione proposta nella tavola 1,
però, non deve trarre in inganno: come ogni modello, aiuta a individuare i tratti salienti del fenomeno, ma non riesce a coglierne appieno né le caratteristiche, né le tendenze evolutive. Il principale
limite dei contributi scientifici sullo sviluppo della
piccola-media impresa affermatisi fino agli anni
Settanta, del resto, risiede proprio nel loro carattere normativo (Arcari, 1999; ISTUD, 1999), nella loro
volontà di definire un percorso di crescita comune
a tutte le imprese, con fasi e modalità ben precise,
che però solo occasionalmente ha trovato riscontro
nella realtà.
La letteratura contemporanea, supportata
dalle ricerche empiriche più recenti, è tendenzial8
Nostra rielaborazione da ISTUD (1999), “La mappa delle modalità di crescita delle piccole e medie imprese di
Boldizzoni e Serio”, pag. 29.
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mente unanime nel ritenere che la dimensione sia
un «fatto unico per ogni azienda, che si configura
diversamente per effetto del diverso combinarsi
di differenti fattori, sia interni che esterni», con la
conseguente impossibilità di «assolutizzare le caratteristiche e i tempi di sviluppo delle PMI» (Arcari,
1999, pag. 18).
Innanzitutto, lo sviluppo di una impresa non
è rigorosamente vincolato alla sua dimensione:
può certamente avvenire attraverso l’espansione
dimensionale, ma non necessariamente deve essere finalizzato ad essa. L’espansione dimensionale, infatti, non è né il fine ultimo né lo strumento
ineluttabile dello sviluppo di un’impresa, ma piuttosto può costituire l’effetto del miglioramento delle
sue condizioni strutturali, strategiche e operative; lo
sviluppo, pertanto, deve essere più propriamente
inteso non sotto il profilo dimensionale, ma come
maturazione orientata alla ricerca di un equilibrio
armonico fra il raggio di azione dell’impresa e il suo
contesto socio-economico (Centro Studi Confindustria - Doxa, 2001).
Lo sviluppo, inoltre, è un percorso difficilmente decifrabile poiché non è lineare, ma caratterizzato da notevoli discontinuità, da momenti di
evoluzione incrementale, a piccoli passi, e da fasi
rivoluzionarie, che cambiano radicalmente l’assetto
dell’impresa (ISTUD, 1999).
Infine, le possibili forme di sviluppo, oltre ad
essere, come già precedentemente illustrato, numerose, eterogenee, talvolta nebulose nei contorni
e difficilmente riconoscibili, possono anche coesistere e combinarsi fra loro nei modi più vari, rendendo il fenomeno ancora più articolato e incerto.
I PROCESSI DI CRESCITA DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE
Un percorso a ostacoli
Le difficoltà e le incertezze, purtroppo, non
caratterizzano solo le analisi degli studiosi che osservano il fenomeno dall’esterno; spesso, sono le
stesse PMI ad avere, più o meno consapevolmente, delle difficoltà di sviluppo, che, se particolarmente intense, possono anche comprometterne la
sopravvivenza.
Del resto, soprattutto le piccole imprese, proprio a causa delle ridotte dimensioni, sono tendenzialmente affette da una insufficienza strutturale di
risorse, che le rende particolarmente vulnerabili
alle pressioni dei fattori ambientali (Arcari, 1999);
per loro, pertanto, i tentativi di sviluppo possono
facilmente tradursi in veri e propri percorsi a ostacoli.
Da una recente studio sulla realtà di alcune
PMI della Provincia di Forlì-Cesena, ad esempio,
è emerso che nel triennio 2004-2006 la crescita
aziendale ha rappresentato un obiettivo strategico
per l’88,6% delle imprese intervistate, che nel 75%
dei casi è stato anche raggiunto, ma non senza
difficoltà9. Solo l’8,9% delle imprese partecipanti
all’indagine, infatti, ha dichiarato di non avere incontrato alcun ostacolo al proprio sviluppo; negli
altri casi, invece, sono stati rilevati diversi fattori di
intralcio, sia esterni sia interni alle imprese.
Gli ostacoli di natura esterna
Diversi fattori di ostacolo alla crescita delle
9
Per maggiori approfondimenti sulla metodologia e sui
contenuti della ricerca, si rinvia a Farneti, Bartolini (2009). Questo lavoro è parzialmente tratto e adattato dal contributo Gianfelici (2009), apportato dalla autrice alla menzionata ricerca.
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PMI intervistate sono di natura esterna (cfr. tavola
2), ovvero traggono origine dal contesto socio-economico di riferimento.
Una prima, rilevante barriera allo sviluppo è
imputabile alla maturità o al declino dei mercati di
riferimento, che affligge il 48,8% delle imprese intervistate.
A questa si affianca la pressione competitiva dei concorrenti, avvertita come fattore critico
nell’11,6% dei casi e ovviamente ritenuta particolarmente dannosa quando scaturisce dalle aziende dell’economia sommersa, che proprio grazie al
loro stato di irregolarità possono trarre indebiti vantaggi da un netto taglio dei costi di gestione (oneri
fiscali e previdenziali, costi amministrativi, costi per
la formazione del personale e la sicurezza sul lavoro, costi per le certificazioni di qualità dei prodotti e
dei processi, ecc.).
Un altro potente freno allo sviluppo, avvertito
in modo pressoché unanime da tutte le imprese coinvolte nella ricerca, è l’insufficienza delle iniziative e
degli strumenti a sostegno della imprenditorialità e
dell’innovazione. Le PMI intervistate, in particolare,
lamentano il peso eccessivo della pressione fiscale
e degli adempimenti burocratici imposti dagli enti
locali e da altre istituzioni e, contemporaneamente,
la scarsa sensibilità delle medesime istituzioni alle
loro esigenze ed istanze: precisamente, i servizi e
le infrastrutture giudicati più carenti riguardano la
formazione del personale, il supporto tecnico allo
sviluppo delle idee imprenditoriali, la viabilità e i
trasporti, la disponibilità di aree adeguatamente attrezzate per gli insediamenti produttivi.
I PROCESSI DI CRESCITA DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE
Tav. 2: I principali fattori esterni che ostacolano
la crescita delle PMI
Frequenza percentuale delle
imprese intervistate che
considerano l’ostacolo come
fattore rilevante
1)
Maturità o declino dei mercati di
riferimento
48,80%
2)
Pressione
competitiva
dei
concorrenti, comprese le aziende
sommerse
11,60%
Peso eccessivo della pressione
fiscale e degli adempimenti
burocratici
65,90%
3)
4)
Insufficienza dei servizi e delle
strutture a sostegno della
imprenditorialità e dell’innovazione
4.a)
Formazione del personale
68,20%
4.b)
Supporto tecnico allo
sviluppo delle idee
imprenditoriali
54,50%
4.c)
Viabilità e trasporti
47,70%
4.d)
Disponibilità di aree
adeguatamente attrezzate
per gli insediamenti
produttivi
29,50%
Gli ostacoli di natura eterogenea
Alcuni ostacoli alla crescita possono avere natura eterogenea, ovvero trovare diverse, importanti concause sia all’interno che all’esterno
dell’impresa; essi, pertanto, non derivano solo dagli aspetti di vulnerabilità dell’impresa o dalle debolezze del contesto socio-economico di riferimento,
ma dall’operare congiunto degli uni e delle altre e
dalle conseguenti difficoltà di relazione fra l’impresa e l’ambiente esterno.
Rientra in questo ambito, ad esempio, il problema della mancanza di risorse umane qualificate,
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che riguarda in primo luogo gli operai specializzati
e i tecnici ed è stato segnalato come particolarmente grave dal 25,6% delle imprese intervistate (cfr.
tavola 3). La questione, in realtà, si estende anche
alle competenze gestionali, ma in modo solo marginale, perché, come sarà meglio illustrato nel paragrafo 5.3, nelle PMI le funzioni manageriali sono
spesso appannaggio esclusivo dell’imprenditore (o
dei soci), dei suoi (loro) familiari ed eventualmente di pochi, strettissimi collaboratori e, anche per
questo, le stesse PMI sono consapevoli di rappresentare una domanda assai limitata e scarsamente
competitiva rispetto alle grandi aziende, dove le figure dirigenziali possono normalmente contare su
prospettive di crescita professionale decisamente
migliori.
La sempre crescente mancanza di risorse umane qualificate trova certamente la propria
causa primaria all’esterno dell’impresa, ovvero
nel sempre più evidente scollamento fra il mondo
dell’istruzione secondaria e della formazione professionale e le effettive esigenze del mondo produttivo. Tuttavia, nella realtà delle PMI, considerata
la limitatezza delle risorse finanziarie tipicamente
connessa alla minore dimensione, le difficoltà a
reperire le necessarie competenze specialistiche
possono talvolta essere accentuate anche da criticità interne, ovvero dalla scarsa capacità di attrarre
le professionalità migliori offrendo una adeguata remunerazione, percorsi formativi specifici, concrete
e rilevanti opportunità di carriera.
Di fatto, quando una impresa è molto piccola, può incontrare difficoltà di sviluppo proprio a
causa della sua stessa dimensione (Centro Studi
Confindustria - Doxa, 2001). Nel nostro Paese, in-
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fatti, il sistema creditizio è improntato a principi di
estrema prudenza e le banche, di norma, valutano
l’affidabilità di una impresa non in base alla “bontà”
dell’idea imprenditoriale e alle sue reali opportunità
di sviluppo, ma in funzione della solidità patrimoniale. Ne consegue che, evidentemente, se un’impresa non può contare su idonee garanzie di terzi
o su una struttura patrimoniale già sufficientemente solida, difficilmente può accedere al credito e
le sue reali prospettive di crescita restano pertanto
contenute, poiché la carenza di risorse finanziarie
comporta inevitabili limitazioni agli investimenti in
infrastrutture, ricerca, know-how, tecnologie, ecc.
Come prevedibile, anche le PMI intervistate
rilevano fra i principali ostacoli alla crescita l’insufficienza delle risorse finanziarie disponibili (cfr. tavola 3), alla quale assai di frequente scelgono di porre rimedio attraverso aumenti di capitale sociale10.
Il fatto che, nonostante la loro particolare solidità
patrimoniale, le imprese intervistate dichiarino di
preferire non di rado il ricorso all’autofinanziamento piuttosto che all’indebitamento a medio-lungo
termine lascia intendere come, anche nella Provincia di Forlì-Cesena, sia pure in misura certamente
meno pregnante rispetto ad altre aree del Paese,
sussistano significativi margini di miglioramento del
rapporto fra gli istituti di credito e il tessuto imprenditoriale, nel senso di una auspicabile maggiore
disponibilità delle banche a supportare finanziariamente le attività produttive a condizioni (garanzie
richieste, tassi di interesse, tempi e modalità di accensione e rimborso dei prestiti, ecc.) non troppo
onerose11.
10
Cfr. Farneti, Bartolini (2009), pag. 137 e ss.
11
Sul tema dei rapporti fra banche e imprese in Italia si
veda, in particolare, Monferrà (2007).
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Quaderni di ricerca sull’artigianato
Laddove scaturisce da limitazioni proprie del
sistema creditizio, evidentemente, la carenza di risorse finanziarie tipica delle PMI deve essere certamente interpretata come un ostacolo alla crescita
di tipo esterno. Tale carenza, però, può affondare
le proprie radici anche in circostanze interne all’impresa, quali ad esempio la scarsa attrattività del
progetto imprenditoriale, che pertanto non è idoneo
ad attirare investimenti neppure a titolo di capitale
proprio, o eventuali difficoltà di autofinanziamento
mediante gli utili, che a loro volta possono trarre
origine da cause interne, come la scarsa lungimiranza della gestione, o esterne, come una riduzione del margine operativo dovuto a un aumento dei
costi delle materie prime o a un forte concorrenza
sul fronte dei prezzi.
Tav. 3: I principali fattori di natura eterogenea
(esterna e interna) che ostacolano la crescita
delle PMI
Frequenza percentuale delle
imprese intervistate che
considerano l’ostacolo come fattore
rilevante
1)
2)
Mancanza di risorse umane
qualificate
Insufficienza delle risorse
finanziarie disponibili
25,60%
14,00%
Gli ostacoli di natura interna
Gli ostacoli alla crescita di natura interna,
ovvero quelli che trovano la propria origine negli
aspetti di vulnerabilità propri dell’impresa, sono
certamente i più difficili da indagare: ogni organizzazione, infatti, fatica a riconoscere e ad ammette-
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re i propri limiti, essendo certamente più facile addebitare eventuali difficoltà della gestione a cause
esterne. E, questo, evidentemente, è tanto più vero
quanto più l’impresa è piccola e il suo governo è
affidato a poche persone, che pertanto vivono un
legame particolarmente simbiotico con le vicende
aziendali.
Nell’ambito della ricerca condotta nella Provincia di Forlì-Cesena, il 9,3% delle imprese intervistate ha riconosciuto quale ostacolo interno alla
crescita aziendale la erroneità di alcune scelte strategiche e organizzative (cfr. tavola 4).
Tav. 4: I principali fattori di natura interna che
ostacolano la crescita delle PMI
Frequenza percentuale delle
imprese intervistate che
considerano l’ostacolo come
fattore rilevante
Erroneità di alcune scelte strategiche e
organizzative
9,30%
All’origine di questa constatazione, è facile
individuare la fonte primaria di qualsiasi, rilevante
criticità aziendale di origine interna: l’inefficienza e
l’inefficacia delle scelte di gestione.
Infatti, come l’economista Penrose evidenziava già alla fine degli anni Cinquanta (Penrose,
1959), le competenze economico-manageriali e le
capacità gestionali degli organi direttivi rappresentano indubbiamente un fattore critico di successo
per qualsiasi impresa, poiché sono alla base della
definizione e della attuazione delle strategie aziendali. E, ovviamente, le PMI non fanno eccezione:
anzi, in ambito internazionale, diversi studi dimostrano come il know-how specifico degli organi di
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Quaderni di ricerca sull’artigianato
governo sia la pietra miliare del successo di tante
imprese di minori dimensioni (Ghosh, Kwan, 1996;
Wijewardena, Cooray, 1996) e, all’opposto, il declino di molte PMI sia imputabile proprio alla inadeguatezza degli organi direttivi (Haswell, Holmes,
1989; Gaskill, Van Auken, Manning, 1993).
Anche nelle piccole e piccolissime imprese
italiane, del resto, uno dei maggiori limiti allo sviluppo è frequentemente riconducibile proprio alla
carenza di una adeguata cultura di impresa da parte degli organi direttivi, spesso coincidenti con la
proprietà. Il piccolo imprenditore, che ha fondato la
propria impresa e da anni la conduce più in base
alle proprie intuizioni che a competenze economico-manageriali specifiche, può facilmente peccare
di una certa incapacità a indirizzare la gestione secondo un coerente ed efficace orientamento strategico, focalizzandosi piuttosto sulla routine giornaliera, nella speranza che l’evoluzione del contesto
socio-economico di riferimento non comprometta
gli equilibri raggiunti.
Dietro a questa miopia gestionale si celano,
evidentemente, anche ragioni di ordine psicologico. Non di rado, infatti, il piccolo imprenditore tende a identificarsi nella propria impresa e incontra,
pertanto, notevoli difficoltà all’idea di “separarsi”,
anche solo minimamente, da essa: per questo, pur
non disponendo in proprio delle risorse materiali e
conoscitive necessarie per una gestione efficiente
ed efficace, può non essere disposto a condividere
la direzione aziendale con altri, anche a costo di
soffocare, così facendo, le potenzialità di sviluppo
della stessa impresa.
Problematiche sostanzialmente analoghe
affliggono, del resto, anche le piccole imprese fa-
I PROCESSI DI CRESCITA DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE
migliari: la volontà nepotistica di coinvolgere nella
gestione solo membri della famiglia, a prescindere
dalle loro concrete attitudini e competenze e anche a costo di rinunciare a figure professionali fondamentali, e di conservare all’interno della stretta
cerchia parentale l’intera proprietà aziendale, anche a rischio della sottocapitalizzazione, è evidentemente ostativa di qualsiasi percorso di sviluppo,
sia per linee esterne, a causa della aperta ostilità
verso qualsiasi entità estranea, sia per linee interne, in relazione alla inevitabile carenza di capitali e
risorse umane.
Sistemi di governance e prospettive di sviluppo
L’ottusa avversione allo sviluppo e il conseguente desiderio di mantenere lo status quo in un
ambiente socio-economico in continua evoluzione non preservano automaticamente l’impresa da
qualsiasi trasformazione: talvolta, può accadere
che la decisione di mantenere l’assetto di piccola o
media impresa venga disattesa per effetto di scelte prese nella prospettiva di gestire la continuità,
ma che di fatto introducono dei cambiamenti nella struttura dell’impresa stessa. Un’evoluzione che
conduce cambiamenti sul piano quali-quantitativo
delle dimensioni aziendali, infatti, «può essere intrapresa con piena consapevolezza oppure percorsa
per forza di inerzia». In questo secondo caso, la
crescita viene “subita”, con il «rischio di ingigantire le strutture e di irrigidirle (crescita quantitativa),
oppure di introdurre novità nell’assetto della formula imprenditoriale che non si è in grado di gestire
(crescita qualitativa), pregiudicando, in definitiva,
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Quaderni di ricerca sull’artigianato
il successo reddituale e competitivo dell’impresa»
(Arcari, 1999, pagg. 25-26).
Per un’impresa, sia pure piccola, restare immobile in un mondo che cambia è sostanzialmente
impossibile, se non al prezzo di ritrovarsi ai margini
del mercato. Pertanto, se è vero che la crescita dimensionale della piccola-media impresa, contrariamente a quanto ritenevano le più tradizionali teorie
sul tema, non è indispensabile per la sua sopravvivenza, certamente, invece, la sua sopravvivenza
non può prescindere dalla sua propensione allo
sviluppo, inteso come capacità di fornire adeguate
risposte strategiche ai mutamenti quali-quantitativi
del contesto socio-economico di riferimento.
La consapevolezza della sua importanza è
certamente un presupposto fondamentale affinché
il percorso di sviluppo possa, nei singoli casi, essere deliberatamente e appropriatamente intrapreso;
come illustrato nel paragrafo precedente, infatti, fra
le barriere allo sviluppo più forti e diffuse, le PMI
italiane annoverano certamente quelle di ordine
culturale.
Innanzitutto, accanto alle competenze specialistiche di settore, le PMI devono sforzarsi di
sviluppare anche adeguate competenze economico-manageriali, per evitare l’eccessivo ricorso
all’imitazione, all’intuito e all’esperienza a favore
di decisioni razionali fondate su criteri economicoaziendali (Arcari, 1999, 2004). Solo implementando
adeguati sistemi di controllo manageriale, infatti, è
possibile individuare le alternative di sviluppo più
idonee per la specifica impresa “in relazione alla
loro sostenibilità economico-finanziaria e al loro impatto sulla capacità competitiva nel breve, medio
e lungo termine” e dare loro congrua attuazione,
I PROCESSI DI CRESCITA DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE
monitorando in itinere le scelte iniziali e apportando
tempestivamente, laddove necessario, tutti gli opportuni interventi correttivi.
Specialmente se le necessarie competenze non possono essere sviluppate in proprio, gli
imprenditori devono anche imparare a rinunciare
alla gestione accentrata del potere, affidandosi a
manager e a professionisti con competenze specifiche, eventualmente estranei al nucleo familiare,
prediligendo nella selezione la qualità della formazione e del know-how al vincolo parentale (Boldizzoni, Mariani, Signorelli, 1993; ISTUD, 1999).
Un altro suggerimento, forte, che arriva dagli studiosi è quello di promuovere nelle PMI un
maggior grado di formalizzazione e di regolamentazione delle strutture di governance e dei rapporti
di proprietà (Boldizzoni, Serio, 2000; Sezzi, 2005).
Una impresa fortemente centrata sulla figura dell’imprenditore e sul suo pressoché esclusivo patrimonio conoscitivo non solo è fortemente vincolata
nel proprio sviluppo, sostanzialmente affidato alla
sensibilità e alle competenze di una sola persona, ma è anche esposta a notevoli insidie in fase
di successione imprenditoriale. Il ciclo di vita di
una impresa di questo tipo, infatti, è saldamente
agganciato alla naturale evoluzione umana dell’imprenditore e, pertanto, rischia facilmente il declino
in concomitanza alla naturale conclusione del suo
impegno professionale e alle possibili difficoltà di
attuazione di un valido ricambio generazionale (ad
esempio, per l’assenza di eredi, per contrasti fra
generazioni differenti all’interno del nucleo familiare, per un passaggio di consegne incompleto o
tardivo, ecc.).
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Quaderni di ricerca sull’artigianato
Conclusioni
Lo sviluppo delle PMI è un fenomeno molto
complesso, che si compone di molteplici concause, sfaccettature, implicazioni. Di fatto, si può dire
che ogni impresa ha un proprio percorso di crescita, che difficilmente si presta ad essere racchiuso
all’interno di schemi teorici prestabiliti.
Un dato, però, emerge con forza sia dall’approfondimento teorico, sia dalla analisi empirica:
nel nostro Paese, la crescita delle PMI è spesso
ostacolata anche da barriere di ordine culturale. La
promozione di una adeguata “cultura d’impresa”,
pertanto, è un fattore critico di successo che merita
particolare attenzione.
Come sopra illustrato, le imprese di minori
dimensioni sono frequentemente centrate sulla figura dell’imprenditore e sulle sue specifiche competenze tecniche, che normalmente si riferiscono
al prodotto e al processo produttivo (Centro Studi Confindustria - Doxa, 2001). Una impresa di
successo, però, necessita anche di competenze
economico-manageriali, inerenti alle funzioni di
organizzazione, orientamento strategico, gestione
finanziaria, marketing, logistica, ecc. Per assicurarle concrete prospettive di continuità e sviluppo,
pertanto, il piccolo imprenditore deve garantire alla
propria impresa tutte le risorse conoscitive necessarie, tecniche ed economico-manageriali, anche
ricorrendo, per gli aspetti che non riesce a curare
in prima persona, all’ausilio di altri soggetti (soci,
manager di professione, collaboratori, consulenti
esterni, ecc.), capaci di supportarlo nelle decisioni
e nelle attività aziendali.
Certamente, però, l’imprenditore non può es-
I PROCESSI DI CRESCITA DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE
sere lasciato da solo in questo percorso di maturazione. La cultura d’impresa, infatti, non è una questione interna, che riguarda solo l’imprenditore, ma
una esigenza che richiama a precise responsabilità
tutte le istituzioni che ruotano attorno all’impresa.
Per potere crescere, una impresa ha bisogno di creare valide e stabili relazioni con diversi
soggetti: gli enti di formazione (in particolare, le
università e le scuole secondarie), le altre imprese,
gli istituti di credito, le amministrazioni pubbliche, le
associazioni di categoria, ecc.
Il mondo della formazione, innanzitutto, deve
imparare ad avvicinarsi alla piccola e media impresa preparando le figure professionali di cui questa
concretamente necessita, sia a livello tecnico, sia
a livello dirigenziale. Una piccola-media impresa
deve confrontarsi con problematiche specifiche e
risorse inevitabilmente più limitate rispetto a una
grande impresa e, pertanto, necessita di figure
professionali apposite, che sappiano rispondere
alle sue esigenze senza gravare in modo sproporzionato sul suo budget. Ad esempio, i manager
hanno normalmente un know-how dimensionato
sulle grandi aziende e tale specializzazione comporta costi particolarmente ingenti, che una piccola-media impresa non può affrontare: una piccolamedia impresa, pertanto, deve poter trovare figure
dirigenziali su misura per lei, che abbiano competenze e, di riflesso, anche costi parametrati alle sue
effettive esigenze e disponibilità economiche.
La piccola impresa ha anche un particolare
interesse a sviluppare buone relazioni con le altre
imprese che operano nel suo stesso ambito settoriale ed, eventualmente, territoriale:
• con le imprese di grandi dimensioni, di cui
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Quaderni di ricerca sull’artigianato
spesso la piccola-media impresa è satellite, allo
scopo di rafforzare e migliorare la propria posizione
di impresa fornitrice;
• con le imprese di dimensioni analoghe, con
cui la piccola-media impresa può instaurare importanti forme di collaborazione: è proprio nell’ambito
dei distretti industriali, infatti, che le imprese di minori dimensioni, sfruttando le sinergie organizzative
e gestionali derivanti dalla cooperazione, riescono
frequentemente a raggiungere una eccellente capacità competitiva e a realizzare le migliori performance reddituali12.
I rapporti delle PMI con il sistema finanziario
sono evidentemente fondamentali per l’accesso ai
capitali. Le banche e gli istituti di credito devono
imparare a supportare maggiormente la crescita
delle PMI rendendo il loro accesso ai finanziamenti
meno oneroso e difficoltoso, maturando una “nuova cultura” per la valutazione della affidabilità che
tenga in debita considerazione non solo la solidità patrimoniale delle aziende, ma anche la validità
delle idee imprenditoriali.
Anche il ruolo centrale delle amministrazioni
pubbliche nel sostegno alle PMI è assolutamente
fuori discussione. Su questo fronte, sono indispensabili politiche mirate, idonee a creare un contesto
socio-economico fertile per lo sviluppo di nuove
idee imprenditoriali, nonché per il rafforzamento
della competitività e delle prospettive di crescita
delle imprese già esistenti. L’azione pubblica deve
ovviamente esprimersi in varie forme, quali opportuni interventi normativi, investimenti in infrastrutture e servizi, iniziative concrete a sostegno della
12
Sul tema della partecipazione delle PMI ai distretti
industriali si vedano, per tutti, Bruno, Pironti (2008), Centazzo
(2002), Vergnano (2009).
I PROCESSI DI CRESCITA DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE
produzione e dei consumi, ecc., e deve ovviamente interessare tutti i campi ove le PMI riscontrano
le maggiori criticità, quali i trasporti e la viabilità, la
semplificazione burocratica, la legislazione fiscale
e del lavoro, la difesa della legalità e la lotta alle
imprese irregolari, la scuola e la formazione professionale, il sistema finanziario e creditizio, ecc.
Infine, una posizione in prima linea spetta indubbiamente alle associazioni di categoria.
Considerate le limitate risorse materiali, umane e conoscitive su cui può tipicamente contare,
la singola piccola-media impresa incontra spesso
notevoli e oggettive difficoltà, e talvolta anche una
scarsa convenienza immediata, a tessere valide relazioni con le istituzioni locali, le banche, gli enti di
formazione, le altre imprese (eventualmente estere), ecc.
Le associazioni di categoria, pertanto, possono e devono supportare le PMI in due direzioni.
Da una parte, devono affiancare i piccoli e medi
imprenditori nelle loro scelte e attività quotidiane,
attraverso appropriati servizi di informazione, consulenza, formazione e aggiornamento professionale. Dall’altra, devono farsi portavoce delle esigenze
e delle istanze della categoria nei confronti della
politica, delle amministrazioni pubbliche, degli
istituti di credito, dei sindacati, delle altre imprese
e, in generale, di tutti i più importanti stakeholder,
promuovendo così la creazione delle condizioni
ambientali, relazionali e culturali che rappresentano i presupposti essenziali per la competitività e la
crescita delle PMI e, di riflesso, dell’intero sistema
economico.
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