Regesto del catalogo
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Regesto del catalogo
Macro fa parte del sistema museale di Roma Capitale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali ROMA POP CITY 60-67 MACRO MUSEO D’ARTE CONTEMPORANEA ROMA 13 LUGLIO - 27 NOVEMBRE 2016 MOSTRA E CATALOGO VIRGINIA RAGGI Sindaco MACRO Museo d’Arte Contemporanea Roma CLAUDIO PARISI PRESICCE Sovrintendente Capitolino ai Beni Culturali Federica Pirani, Dirigente Mostra a cura di Claudio Crescentini, Costantino D’Orazio, Federica Pirani Servizio coordinamento, valorizzazione e comunicazione delle attività della struttura Pasquale Enrico Stassi, Responsabile Elena Cannistrà Catalogo a cura di Claudio Crescentini, Federica Pirani Servizio comunicazione e relazioni esterne Renata Piccininni, Responsabile Teresa Franco Filomena La Manna Luca D’Orazio Servizio mostre Daniela Bonamici Ufficio coordinamento tecnico amministrativo e organizzativo della struttura Tina Cannavacciuolo Nicoletta Spada Direzione Musei, Ville e Parchi storici Claudio Parisi Presicce, Direttore Ufficio Attività espositive e Grandi eventi Claudio Crescentini U.O. Musei di Arte Moderna e Contemporanea Federica Pirani, Dirigente Ufficio Promozione creativa, residenze e manifestazioni performative Costantino D’Orazio Revisione conservativa delle opere e restauri Ombretta Bracci con Elda Occhinero (Zètema Progetto Cultura) Direzione Tecnico Territoriale e U.O. Tecnica di Progettazione Porfirio Ottolini, Direttore Servizio Progetti di riuso e allestimenti museali Roberta Rosati, Responsabile Allestimenti Lucia Pierlorenzi con Maria Cucchi Comitato scientifico Nanni Balestrini, Achille Bonito Oliva, Maurizio Calvesi, Laura Cherubini, Andrea Cortellessa, Claudio Crescentini, Costantino D’Orazio, Raffaella Perna, Federica Pirani, Fabio Sargentini, Lorenza Trucchi Fotografie Alessandra Ciniglio Marco Fabiano Paolo Folchitto Beniamino Girotti Ezio Gosti Giuseppe Schiavinotto Studio Boys Segreteria tecnico-scientifica Silvia Volpicelli Albo dei prestatori Archivio Goffredo Parise Giosetta Fioroni, Roma Collezione Bianca Attolico Casa Museo Alberto Moravia, Roma Collezione Dello Schiavo, Roma Collezione Fabio Sargentini, Roma. Courtesy Archivio L’Attico Collezione Jacorossi Collezione Laureati Briganti Collezione Marion Franchetti Collezione M.L. Delicati Uncini Collezione Patrizia e Blu Mambor Collezione privata. Courtesy Erica Ravenna Fiorentini Arte Contemporanea, Roma Collezione Ruga Riva Eredi Fabio Mauri. Courtesy Studio Fabio Mauri Fondazione Baruchello, Roma Galleria “Arte e Arte”, Bologna MACRO Museo d’Arte Contemporanea Roma Paola Douglas Scotti Ufficio didattica Daniela Maggiori Selezione documenti del fondo Gallerie Storiche - MACRO CRDAV - Centro ricerca e documentazione arti visive Antonella Maria Carfora, Alessandra Cappella, con la collaborazione di Sabina Longobardi Documentazione video Marco Fabiano Video interviste a cura di Marco Fabiano CRDAV - Centro ricerca e documentazione arti visive Antonella Maria Carfora Alessandra Cappella Video-documentazione “Dalla cronaca alla Storia” a cura di Patrizia Chianese Claudio Crescentini Marianna Galofaro Ufficio Valorizzazione collezione, prestiti e nuove acquisizioni Antonia Rita Arconti Mediateca Alessandra Gianfranceschi Selezione film d’arte e documentari del Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale Claudio Crescentini Annamaria Licciardello Progetti speciali Francesca Maddalena Terracciano Collaborazione Sabina Longobardi Laura Panunzi (Zètema Progetto Cultura) Personale addetto ai Servizi di Sicurezza e Controllo del MACRO © Franco Angeli, Gianfranco Baruchello, Tano Festa, Jannis Kounellis, Titina Maselli, Fabio Mauri, Mimmo Rotella, Mario Schifano by SIAE 2016 © I Fotografi per le immagini © Manfredi Edizioni www.manfrediedizioni.com Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore. ISBN 978-88-99519-20-9 e tutti i collezionisti che hanno preferito mantenere l’anonimato Assicurazioni Sapri broker srl XL Catlin Axa Art Generali Italia Spa Trasporti Expotrans CATALOGO Realizzazione dell’allestimento e della grafica Pubblilaser Progetto Grafico Lisa Camporesi Valentina Giovagnoli Traduzioni TperTradurre Supervisione editoriale Maria Paola Poponi In collaborazione con Ringraziamenti Flaminia Allvin, Maria Angeli, Gabriele Antinolfi, Arianna Antoniutti, Peppino Appella, Nanni Balestrini, Monica Bei Schifano, Umberto Bignardi, Emiliano Bona, Achille Bonito Oliva, Carlo Alberto Bucci, Maurizio Calvesi, Marcella Campitelli, Lorenzo Canova, Marina Catalano, Mario Ceroli, Laura Cherubini, Vittorio Cintoli, Carla Consalvi, Andrea Cortellessa, Alberto Dambruoso, Maria Delicati Uncini, Stefano Dello Schiavo, Paola De Martiis, Marco Di Capua, Paola Douglas Scotti, Daniela Ferraria, Erica Fiorentini, Giosetta Fioroni, Rosa Foschi, Isabella Francavilla Marotta, Carlo Franchetti, Gaia Franchetti, Marion Franchetti, Pietroarco Franchetti, Antonio Frugis, Cristiana Galante, Cecilia La Rosa, Luisa Laureati Briganti, Annamaria Licciardello, Sergio Lombardo, Giulia Lotti, Stefano Malatesta, Blu Mambor, Franca Mancini, Luca Mancini, Eleonora Manzolini, Elena Manzoni, Carla Martini, Barbara Martuscello, Achille Mauri, Nour Melehi, Maria Grazia Messina, Domenico Monetti, Augusta Monferini, Pio Monti, Stefan Nestoroski, Marcello Panni, Luca Maria Patella, Raffaella Perna, Lia Piccolella, Gloria Riamondi, Luca Ronchi, Paolo Ruga Riva, Stefano Rulli, Luigi Sansone, Fabio Sargentini, Lodovica Sorsoli, Patrizia Speciale Mambor, Vincenzo Ruggeri, Nicola Spezzano, Silvana Stipa, Carla Subrizi, Gaia Lisa Tacchi, Alice Tegazi, Lorenza Trucchi, Giulia Tulino, Daniela Zanoletti, Bruno Zeuli Il Regesto è scaricabile dal link della mostra sul sito del MACRO Media Partner Servizi di vigilanza CRONOLOGIA DELLE MOSTRE, BIBLIOGRAFIA E ANTOLOGIA CRITICA SELEZIONATE (1960-1967) La redazione del regesto è stata focalizzata unicamente sull’attività espositiva degli artisti inseriti nella presente mostra: Franco Angeli, Nanni Balestrini, Gianfranco Baruchello, Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Claudio Cintoli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Sergio Lombardo, Francesco Lo Savio, Renato Mambor, Gino Marotta, Titina Maselli, Fabio Mauri, Pino Pascali, Luca Maria Patella, Mimmo Rotella, Salvatore Scarpitta, Mario Schifano, Cesare Tacchi, Giuseppe Uncini. Si è cercato di ricomporre un quadro più esaustivo possibile delle loro esperienze espositive in Italia e all’estero, reali documenti della vivacità del periodo così come della diffusione della pittura di area romana nel mondo, limitatamente comunque al tempo cronologico indicato dai curatori della mostra: 1960-1967. Base di partenza è stata la cronologia di A.M. Di Stefano, C. Salvi (a cura di), Cronologia delle mostre e antologia critica 1959-1969, in M. Calvesi, R. Siligato (a cura di), Roma Anni ’60 Al di là della pittura, cat. mostra, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 20 dicembre 1990-15 febbraio 1991, Roma 1990, pp. 390-457. Un lavoro d’archivio che è stato comunque ampiamente approfondito, aggiornato con una cospicua integrazione dei dati, oltre all’aggiunta di tutta la parte, totalmente inedita, riguardante la “Bibliografia selezionata”, attinente appunto agli articoli in quotidiani, riviste e periodici specializzati, pubblicati sempre nel periodo cronologico indicato. Anche in questo caso è sembrato interessante soffermarsi sul contesto della realtà espositiva e critica del periodo, riportando brani di quegli stessi articoli, che vanno a seguire i saggi e testi critici estrapolati dai cataloghi delle diverse mostre citate, in un continuo e inesauribile confronto critico e teorico. Per una più agile lettura del materiale raccolto si segnala che, all’interno di ogni anno indicato, l’ordine è di tipo cronologico. Per quanto riguarda le mostre citate, la singola data iniziale indica il giorno dell’inaugurazione, mentre quando non è stato possibile rilevare questo dato è stato altresì segnalato il mese o il periodo di durata dell’esposizione stessa, espresso anche nella generalità del mese/i, periodo/i generale/i. Le esposizioni di cui non è stato possibile rintracciare la data e/o il mese e/o il periodo di realizzazione, sono state inserite all’inizio del relativo anno, con l’indicazione “s.d.”. Gli articoli seguiti da un asterisco (*) non sono direttamente riferiti ad una specifica mostra, ma inseriti ugualmente, per l’importanza del testo, il più vicino possibile alla prima mostra presente in elenco, in quel periodo, dell’artista analizzato nell’articolo stesso. Regesto a cura di Claudio Crescentini, Marianna Galofaro, Patrizia Chianese, con la collaborazione di Silvia Volpicelli 1960 Chicago, Moholy-Nagy Institute of Modern Art, s.d. Tano Festa espone con altri artisti nella mostra Arte Italiana. Parigi, Salon de Comparaison, s.d. Tano Festa espone con altri artisti. Venezia, Galleria Apollinaire, s.d. Tano Festa, Gino Marotta e Mario Schifano partecipano con altri artisti al Premio Apollinaire. Roma, Galleria Selecta, 16 gennaio Francesco Lo Savio. «Queste visioni di spettri luminosi si sono sviluppate in me lentamente; solo più tardi si determinò la coscienza di un motivo originario: la luce. La luce non è per me la conseguenza di un’immagine, ma la somma di diverse immagini in movimento continuo di evoluzione. L’idea di luce come osservazione pura e semplice non sarebbe nulla se non fosse la partecipazione diretta allo scaturire della vita nella sua dinamica essenziale. In ogni aspetto del suo essere è in relazione con qualcosa d’altro, poi segue un ultimo cammino che la conduce alla possibilità di perdere di ciò che è, per vagare nel vuoto. Questo vagare, per se stesso niente, è solo nel mondo come ci appare: immagine di una realtà quasi impossibile». Francesco Lo Savio Bibliografia selezionata: – L. TRUCCHI, Corpora – Eben Franquell – Romiti – Winter – Picinni – Giaquinto, in «La Fiera Letteraria», a. XV, n. 5, Roma 31 gennaio, p. 6 (mostra citata). Roma, Galleria La Salita, 20 gennaio Franco Angeli. Testo di Cesare Vivaldi. «Sarebbe una facile tentazione parlate di surrealismo per queste recenti tele di Angeli. Le “presenze” che lentamente affiorano attraverso la rete sottile che come una buccia ricopre ed avvolge il quadro, e nel loro stesso modo di offrirsi allo sguardo sembrano avere quel tanto di magico, larvale e, diremmo, medianico, da rendere plausibile una frettolosa chiamata in causa dell’inconscio del sogno. Plausibile, abbiamo scritto, ma non legittima. Non legittima, poiché la vera-natura di queste forme “in divenire” (sono accenni di forme, tentativi di forme, conati di un attonito colore-materia che non riesce a configurarsi in forme definite) non appartiene al trascendente, al metafisico. Il mondo di Angeli è terrestre come è terrestre la memoria (e la nostalgia) dell’uomo. Nostalgia “visiva”, nostalgia, appunto, di forme. Una nostalgia non evocatrice di fantomatiche apparizioni, da un “al di là” che non ci appartiene, che non è “dentro” di noi, ma rammemorante (con mestizia e pudore), fatti umani e concreti: sofferenze, gioie, trasalimenti e dolori, ancora una volta “forme”. Rotto lo schema informale burriano, attraverso il velo sottile ma tenace della materia, Angeli recupera pazientemente – mille volte interrompendosi, perdendo la traccia e tosto riconquistandola – le “forme” del suo sentimento. Una difficile impresa, poiché una volta afferrata la forma si dissolve, non ne rimane che l’impalpabile alone: polvere d’ali, nostalgia, “assenza”. Ed è questa “assenza”, d’una forma così acutamente rimpianta e così spietatamente rinnegata dalla rete in cui Angeli vuole rinchiuderla, ad affiorare alla superficie del quadro. Un brivido: una vita che urge timida e si estenua nel silenzio. Non le “cose”, ma le lagrime delle cose». Cesare Vivaldi Bibliografia selezionata: – L. TRUCCHI, Corpora – Eben Franquell – Romiti – Winter – Picinni – Giaquinto, in «La Fiera Letteraria», a. XV, n. 5, Roma, 31 gennaio, p. 6 (mostra citata). Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 18 febbraio (bando) Franco Angeli, Mario Ceroli e Renato Mambor partecipano alla selezione de I Premi di incoraggiamento 1960. Premio a Franco Angeli (pittura) e Renato Mambor (per l’opera Larva, del 1958). Roma, Galleria La Medusa, 14 aprile Claudio Cintoli espone con Alessandro Trotti nella mostra Opere recenti di Claudio Cintoli e Alessandro Trotti. In catalogo sono riportati scritti di Cintoli tratti da Appunti dal diario. «(…) no, sull’arco del tramonto contro il mito romantico di questa bellezza / forma della luna accecata dal nero lucente con cui smaltano parafanghi / d’auto o dalla sterpaglia che graffia il cielo dal basso di prati, aride oasi d’immondizia / no, tra la luna cieca e il sole morente / no, tra la luna spenta e il sole annebbiato da sfoghi d’umidità scarlatta / no, quando ancora nella calotta del cielo appaiono 2 poli / e il rosso dilaga verso la notte senza più forma / la notte accoglie arpe di canne essiccate / avide d’ombra, operanti rilievi / i colori debbono essere corposi aridi densi / ricordi rarefatti e tesi della natura visibile ridotta a fatto emozionale / oggetti smarriti all’uso / avanzi esposti negli elenchi dei musei / detriti irriconoscibili di dimenticate necessità su cui aleggia larvata / memoria d’uomo / i colori affascinano su tutte le cose, vive e morte nel sangue degli animali, sulla corteccia degli alberi / nelle ombre della sabbia / sui corpi aperti al sole con il limite della marea segnato nelle vene / su ogni frammento / su ogni brano di materia, dove il colore vince il segno del disfacimento per / le sue cupe risonanze o gli squillanti accordi della luce / i colori debbono essere profondi / a rappresentare la sanità dello sforzo, presenza tattile di materia / controllata come se avessero grattato la terra a 4 mani in mancanza di utensili / immagini scheletriche, i solchi digitali, in cui passarono enormi aratri-nani / ad indicare la presenza umano-vegetale / consapevolezza dello sgretolamento di ogni cosa ma la curiosità sia la guida migliore (...)». Claudio Cintoli Bibliografia selezionata: – A. CAPUTO, s.t., in «Il Pensiero Nazionale», 1-15 maggio (mostra citata) Bologna, Galleria Il Cancello, 23 aprile Franco Angeli, Tano Festa, Francesco Lo Savio, Mario Schifano e Giuseppe Uncini espongono nella mostra Cinque pittori romani. Testo di Emilio Villa. «Sono esemplari nuovi di operazione che possono essere accolti tra le rare ed energiche, giovanili, testimonianze di una imminente ribellione al vizio corsivo odierno, ecumenico, delle pitture colorate di pletorico magma, dei plasmi caotici, delle nevrastenie sofistiche e enfatiche, anguste e oscure, delle scroscianti convenzioni esistenziali, tinteggiate e manipolate a vanvera, a quiproquo. Questi artisti assai giovani conservano invece, esibiscono evocano proprio una tentazione e perfino una nostalgia di fantasmi spogli e spontanei (...). Di Uncini si legga la dibattuta e impeccabile e non astrusa ecologia, l’energica opzione dei due materiali, per tralicci irritati, vibrati e stesure dalla persistente animazione, contro le restrizioni mentali del segno di Schifano quella luce logora alta costernata, e la sua ideologia strumentale, la macchinazione dei due elementi giustapposti, imbullanti, sacramentati 243 in una prospettiva ingenua di due aloni illuminati della quaternità. (...) Non si tratterà più dunque di “pittori” nel significato antiquato della parola, ma di attori che manifestano una fruizione tesa, violenta, quasi graduata in un senso che è fisiologico, di tutto ciò che è consumato e sfibrato e che si rigenera in cadenze, in orientamenti, in concezioni metriche, in evocazioni dello hiatus. Lo si veda di Lo Savio, il paziente sortilegium, l’artificiosa ricerca dell’increato, l’umile atto di referenza alla indiscreta e baluginante caligine dello spazio, che non è colore, ma idea. E di Angeli quella specie di cosmologia arida, appena intravertibile da filiture e marezzature da screpoli e coaguli, tutta una metafisica sensitiva e ritmi generalizzati della disparazione. Ma lo sbigottimento che esibiscono e sconfiggono è così austero, così percosso e quasi perseguitato da idee equivalenze invocazioni, da pronunciare, nella apparente uniformità del materiale, un umile trepido stato della perpetuazione. (...) Nel dominio delle arcane dissipazioni, essi operano semplici opere: accentuano divisioni e scissioni, vidimazioni univoche, dentro la sostanza della materia povera, trovata, tentata e ritentata come disponibilità di pronuncia e di identità, di evento e di inconsumabile finzione, di progetti e di inizi fulminei, di tracce, di evidenze: categorie. Riverberi della comprensione, dell’espansione». Emilio Villa Firenze, Palazzo degli Uffizi, Archivio di Stato, maggio Tano Festa con altri artisti partecipa alla XI Mostra Nazionale Premio del Fiorino. Bibliografia selezionata: – G. SCIORTINO, Il Premio del Fiorino, in «La Fiera Letteraria», a. XV, n. 17, Roma, 24 aprile, p. 6. Roma, Galleria dell’Obelisco, 2 maggio Titina Maselli Bibliografia selezionata: – D. MICACCHI, L’America di Titina Maselli, in «L’Unità», 5 maggio, p. 3. – M. VENTUROLI, Pitture di Titina Maselli italiana fra i grattacieli, in «Paese Sera», 10 maggio. «(...) Ma quale è l’attuale stato di animo dell’artista nei confronti del mondo newyorkese? È stata capace, la irrequieta e intraprendente pittrice, di approfondire quel suo lungo istante di meraviglia in una amarezza più ragionata, documentata, o in una sintesi di più alta ed emblematica suggestione? E cosa ha fatto l’artista del suo patrimonio “decadente” di “bella pittura”, già saccheggiato, a buon fine, nei precedenti “viaggi”, dinanzi a luci e forme imprevedibili e corrosive? Certo la ventura di questa romana a New York, che diventa intrinseca di calciatori e di sportivi senza nessuna neppur vaga inclinazione tifosa, che vede di costoro torsioni e sforzi come se contemplasse il guizzo felino di belve dentro una foresta, che sosta dinanzi ai bar o dentro gli stadi a fine di sera, a fine di partita, per abituarsi a quelle luci impossibili, quasi a trovare il modo di renderle nei quadri senza odio, con rinnovato stupore: questa ventura, dicevamo, è di per sé stessa singolare e appassionata, anche se non ricca di felici risultati pittorici, come quella di cinque anni fa. Intanto – accennavamo al principio – Titina Maselli ha perso troppo della sua iniziale “qualità”: a forza di stare in America (o con la sua presenza effettiva o nella memoria) l’artista ha finito per non stupirsi più, dando in diversi suoi dipinti piuttosto l’immagine di una depressione che cerca di muoversi, se non di una tristezza che si amministra dall’interno e si accetta com’è. Strano, ma pur vero, come l’americanizzarsi dell’artista abbia coinciso con un progressivo scadimento di qualità, come la fantasia di ieri abbia gradualmente ceduto, se non proprio il tipico del reportage, a una troppo schematica e asserita simbologia: campiture “astratte” vengono ai ferri corti con i chiaroscuri di vecchio stampo, fin anche accademico; le strutture della città, le sue svariate e oppressive materie, stridono con insistiti antropomorfismi; giustapponendosi, senza amalgama interno, il visivo al pensato, la presenza al ricordo; tanto che certe immagini crude, dai timbri immotivati, dalle superfici opaline, compongono piuttosto, stavolta, assai più il ritratto di una mente e di una intelligenza, che l’immagine trasalita di una fantasia. Ci riferiamo soprattutto ai dipinti dal titolo “Calciatori in azione”, “Going home”, e per i contrasti tra fondi e chiaroscuri, in modo a nostro giudizio determinante a “Calciatore N. 16”. Ma non tutti i dipinti presentano questa acidità di accordi, questa stesura cruda e compatta, chiusa ad ogni vibrazione di stato come per colpa di smalti e vernici alla cellulosa: che la pittrice adoperi, invece, i colori ad olio, appena contaminati da smalti neri, si avverte, anche in taluni quadri di figure, quali “Calciatore N. 10” e “Stadio”. Da queste osservazioni si potrà concludere che l’artista non abbia saputo per le vie narrativa e documentaria (le quali del resto non sono affatto congeniali al modo di figurare suo) esprimere la nuova situazione spirituale e umana dell’italiana stabilitasi a New York: che la figura nei suoi aspetti aneddotici ed episodici interessa la pittrice soltanto come rivalsa da uno stato depressivo e d’abulia ereditato sul posto, e non interessa affatto la sua fantasia; mentre si accentuano e con profitto, in Titina Maselli gli interessi verso una sintesi massima di ambiente, per i quali anche certe crudezze di rapporti cromatici e materici si accettano, e con favore: la guizzante “Figura nell’altra metropolitana”, felice incontro del dinamismo plastico dei futuristi con la esperienza astratta. Il contagiarsi e il crescere dei riflessi come in un lago minerale, sul vassoi notturno del “Whisky”, il colore di una città tanto indecifrabile quanto minacciosa in “New York N. 8” e, infine, il fremente e improvviso volo dentro quell’aria cotta del “Piccione a Manhattan”, fanno pensare ancora ai passati “numeri” di Titina Maselli e alla fantasia, non del tutto avvilita dalla routine esistenziale: anzi, ancora una volta ribelle alle suggestioni rinunciatarie del cittadino cosmopolita nella metropoli americana». – p.g.,Titina Maselli all’Obelisco, in «Roma-Napoli», 12 maggio. – A. DEL GUERCIO, Titina Maselli, in «Vie Nuove», 14 maggio. «L’ultima mostra di Titina Maselli fu cinque anni fa, a Roma. Erano temi d’America – luoghi e cose – frutto d’un soggiorno negli Stati Uniti, che colpivano per la serena audacia, priva di funambolismi, con la quale la pittrice romana aveva tradotto in visioni rapide, folgoranti, mai banali, i ritmi di vita e l’asprezza e i momenti rari di quiete d’una grande metropoli. Ora, a qualche anno di distanza dal soggiorno americano, la Maselli ancora propone i suoi temi nuovayorchesi. E si resta colpiti, stavolta, dall’intensità che questi temi raggiungono, dopo una lunga severa meditazione. Vi è qui, infatti, un’assenza totale di concessioni all’aneddoto, all’illustrazione episodica e superficiale della vita americana. Il mondo poetico e umano che qui si esprime – e che conferisce a queste opere un fascino grave e virile – è ispirato dalla volontà di tradurre in simboli figurativi immediatamente persuasivi, ricchi di significati condensati, la durezza e l’insicurezza, la instabilità e le illusioni, i sogni e la solitudine e i miti dell’uomo-massa americano. La composizione appare sempre scorciata, contrastata, cinamica, ma suggerisce non tanto un’impressione esteriore di movimento fisico quanto un’idea di rapidità e di precarietà nel susseguirsi degli stimoli convulsivamente offerti all’uomo americano: traguardi di falsa felicità, ogni tanto interrotti (ad esempio, Piccioni a Manhattan) da un momento, pur esso rapidamente sfuggente, di riscoperta – in tanta saturazione di vita artificiale – della vita naturale libera. Eppure, questa lucida analisi delle condizioni innaturali di vita mai diviene invettiva assurda e reazionaria contro tutto quel che pur vi è di umano, di storicamente umano, nella realtà dell’uomo della metropoli; e tanto meno diviene vagheggiamento dolciastro di perduti paradisi premoderni. Vogliamo dire che Maselli riesce a tenersi sul filo d’un atteggiamento ideale e razionale che non intende cadere né in compiaciute contemplazioni di ciò che nell’attuale società americana è disumano né in ingenue condanne da scagliare in nome di impossibili ritorni a presunte condizioni naturali. Prevale invece un vigile giudizio, una coscienza acuta della quantità e della qualità di destino umano che è coinvolta nei ritmi spietati, duramente concorrenziali, della vita di quella società: un giudizio e una coscienza che trovano la propria eloquenza nella stessa concezione che la Maselli ha del colore: un colore privo di bellurie pittoricistiche, splendente ma di uno splendore secco che cerca di non riuscire gradito e gradevole ma di raggiungere una sua martellante efficacia assai più sulla mente che non sull’occhio del riguardante. Con tutti i rischi, s’intende, d’una simile concezione e ambizione; rischi per dirla con parola estrema, di cartellonismo; ma rischi dei quali sarebbe ingiusto dire che si sono trasformati qui in cadute vere e proprie, mentre sarà assai più giusto attirare l’attenzione del riguardante sull’autenticità dei risultati. Ad esempio, in quei temi di sport (Calciatori in azione, in particolare), nei quali la pittrice, raccogliendo la suggestione di uno dei miti di massa, riesce ad esaltare i concreti valori (l’ideale profondo della forza e della bellezza dell’uomo in azione) che quel mito pur esprime. Tra i pittori di questa fervida stagione di giovane ricerca realistica, la Maselli s’impone, e con efficacia che siamo certi di non sopravvalutare». – L. TRUCCHI, La Regina, Maselli, Geiger, Della Bona, in «La Fiera Letteraria», a. XV, n. 21, Roma, 22 maggio, p. 6. «Dopo cinque anni di assenza dalle gallerie romane, Titina Maselli ritorna all’“Obelisco” – dove debuttò nel 1948 – con una mostra dedicata a soggetti americani. Diciamo subito che si tratta di una America tutt’altro che convenzionale e superficiale: un’America che la pittrice ha imparato a conoscere durante i tre anni di permanenza a New York (dal 1951 al 1954), ma che si è decisa a dipingere solo recentemente, in occasione di un lungo soggiorno in Austria, allorché sentì, infine, di poter ricostruire, in temi pittorici, le sue più vive e filtrate impressioni americane. Il risultato è questa iconografia, lapidaria ed essenziale, della vita statunitense. La folla, la luce al neon, il traffico congestionato delle grandi arterie, le macchine più complicate e diverse, lo sport, l’alcool, la solitudine, la promiscuità, sono i veri personaggi astratti di questo realismo anti-illustrativo della Maselli. Ma è esatto parlare di realismo per la nostra pittrice? A mio parere, no. E sebbene l’ispirazione di Titina venga sempre dalla realtà ed abbia profonde e salde radici nella vita e nelle vicende degli uomini, proprio questa ottima mostra (una delle più sicure e originali della stagione) mi pare dimostri, una volta di più, come il termine realismo sia spesso una etichetta di comodo che può dar luogo a numerosi equivoci estetici. La pittura della Maselli è un riuscito connubio di cronaca e poesia, di decorazione e di espressione, di narrazione e di sintesi, di ordine e di abbandono. Per Titina il quadro è, dunque, alla pari, documento e architettura. I riferimenti a Léger, a Delaunay (si ricordi il Delaunay dei Corridori del 1926), al Lhote intorno al 1917, ai cubofuturisti russi, restano, comunque, i più probandi. La bellissima tela intitolata Whisky offre un esempio del metodo e delle idee di Titina Maselli: nessun ordine naturalista, libera trascrizione geometrica degli oggetti, contrasto di linee e volumi, ricerca di movimento, tendenza a far entrare nel quadro realtà e irrealtà quasi applicando, in forma nuova, la teoria futurista della “simultaneità degli stati d’animo plastici”». Roma, Galleria La Salita, 14 maggio Mimmo Rotella espone con Piero Dorazio, Nino Franchina, Giulio Turcato nella mostra Opere recenti di Dorazio, Franchina, Rotella, Turcato. Torino, Galleria Il Grifo, 20 maggio Mimmo Rotella partecipa con altri artisti al II Salone Internazionale di Pittura. 244 Stoccarda, Centro Knoll International, 24 maggio (in collaborazione con la Galleria Il Segno) Umberto Bignardi e Claudio Cintoli espongono con altri artisti. Testo di Oreste Ferrari. Roma, Galleria La Tartaruga, 4 giugno Jannis Kounellis. Testo di Mario Diacono (L’alfabeto di Kounellis, pubblicato in Roma, La Tartaruga, febbraio 1961). «Se Twombly porta la pulsazione psichica dell’indistinto e del coatto, il flusso eroneurotico della coscienza, ed ora il microcosmo del monologo interiore, ad una identità assoluta di gesto e segno, Kounellis consegue analoga precisione di rapporti risalendo da una originaria esperienza anonima collettiva di ideografia geometrica monumentale ad una impressione tipografica del ritmo e del tempo interno su una superficie fisica irrilevante, ma trasposta a spazialità di pura funzione: il foglio su cui un ragazzo fa i compiti di scuola, e l’ingegnere i suoi progetti. La scrittura industriale collettiva segnaletica stradale; simboli direzionali aritmetici culturali (la svastica guerriera di Wotan, mistica di Budda, razziatrice di Hitler); il cerchio, il quadrato, la scacchiera i divieti e i passi transitabili. Se il piede si muove a occidente, una freccia mentale invita ad Oriente, ma il segno che moltiplica attesta un divieto e la libertà devia verso il deserto al sudicio sud. L’epos grafico d’una città catturata al banale quotidiano riscopertivi gli archetipi del mito, e impiegato come alfabeto nomenclatura dizionario, labirinto penale, oggetto di visione contenuto di allucinazione, rapporto figurato sullo stato della pittura, risolutore di conflitti: tra l’individuo e la materia, tra superficie spazio e oggetti significanti. Racconto realistico cioè metafisico, movimento di idee e moto fisico negato, camminamento psichico, integrazione nervosa, riproduzione del vero visionario. C’è un dada volgare, come un marxismo, un surrealismo, una psicanalisi o una interpretazione del “tel quel” di Robe-Grillet volgari. La bivalenza robbegrilletiana (della jalousie, del millepiedi) può comprovare da lontano il senso iperreale delle “cose” di Kounellis, degli ideogrammi che fanno o presentano vicende decisamente dello spirito: ritrovi di gangsters e tuguri lumpenproletariat spigolosi, filo spinato e temibili cavalli di frisia, spietate nature morte di Auschwitz e Dachau; ma negatrici di illustrazione, fini al se stesso della loro nudità simbolica, vuote di senso magico o sacro ma sempre presenti al colloquio inconscio (…)». Mario Diacono Bibliografia selezionata: − L. TRUCCHI, Celiberti, Tanda, Kounellis, in «La Fiera Letteraria», a. XV, n. 21, Roma, 19 giugno, p. 5 (mostra citata). Roma, Galleria San Marco, agosto Fabio Mauri espone con altri artisti nella mostra Salone d’estate. Termoli, Castello Svevo, 3 agosto Tano Festa, Gino Marotta, Fabio Mauri e Mimmo Rotella partecipano con altri artisti alla V Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea. Premio di Pittura Castello Svevo. Premiati Carla Accardi, Vasco Bendini, Gino Marotta e Gastone Novelli. Venezia, Galleria Il Canale, 6 agosto Gino Marotta, Fabio Mauri e Mimmo Rotella espongono con Pietro Cascella, Piero Dorazio, Gastone Novelli, Achille Perilli e Giulio Turcato nella mostra Gruppo Crack. Testo di Cesare Vivaldi. «Non ci si chieda di scegliere perché rifiutiamo i mezzi della scelta. Rifiutiamo il linguaggio. Anzi abbiamo smesso di credere nel linguaggio, senza nemmeno bisogno di rifiutarlo. Non crediamo nell’ordine convenzionale del linguaggio (sintassi, sequenze, toni, segni) e nemmeno nel suo «negativo», nell’informe. Ci limitiamo al minimo, all’elemento irriducibile, alla parola singola o al blocco di parole, alla linea, al punto, a una trama di luce, all’oggetto. Vorremmo elevare il mondo «in toto» a monumento, ma ci accontentiamo di metterne insieme dei pezzi staccati, dei frammenti; senza mistero, senza iniziazioni, alla luce del sole. L’oceano informe s’è ritirato, il caos coagulato, in un modo, in un ordine qualsiasi ma pure saldo. Scampati a innumerevoli naufragi ecco che pazientemente, senza fretta e senza preoccupazioni, facciamo i conti, inventariamo e inventiamo. Ci siamo rifugiati su una riva che non conosciamo bene ma che già amiamo. Robinson Crusoe di due guerre mondiali inalberiamo ombrelloni come vessilli. Le tempeste cosmiche rullano intorno a noi, con elettriche albe e notti illividite dal chiaro di luna e dal lampo intermittente dei satelliti artificiali. È tutto inconoscibile ma tutto chiaro; se s’ode a destra uno squillo di tromba si sa già che da sinistra risponde uno squillo. I miti non esistono e i giornali a fumetti sono anche divertenti. Tutto è reversibile: basta non meravigliarsi di nulla. Tutto «è» oppure «può essere». Dalla nostra arte abbiamo abolito ogni sbavatura sentimentale. Le immagini e le cose sono fredde o calde di per se stesse; le amiamo come sono, vorremmo baciarle e succhiarle, ma con la debita impassibilità le registriamo e le cataloghiamo, attenti solo a che non si secchino, a che non perdano vita. Immiti, impazienti pescatori gettiamo la lenza nell’oceano e tiriamo a riva quel che ci occorre: latta ruggine, sargassi, una balena docile come un pallone, uno zoccolo, una zoccola... Tutto, insomma, quanto può appagare la nostra fame di cacciatori d’immagini, di saccheggiatori della vigna meravigliosa del mondo. E tutto in mano nostra diventa oro, s’inquadra, assume un ordine. Alla vecchia automobile senza ruote sottoporremo quattro capitelli corinzi ripescati dal magma: e la macchina andrà avanti, a sbalzi ma sempre avanti... Tutto può essere, quindi è...». Cesare Vivaldi Bibliografia selezionata: − M. SERINI, I Ribelli di Piazza del Popolo, in «L’Espresso», 26 giugno, p. 21. «Roma. Piazza del Popolo è in subbuglio. Tutti i frequentatori del caffè Rosati che mattina e sera s’incontrano ai tavolini sulla piazza parlano in questi giorni di Crack. Crack non è un cavallo da corsa, non è un cane barbone, né una scimmia uistitì, ma un libro pubblicato da un editore russo, Krackmalnikov, e realizzato da otto astrattisti decisi ad imporre la propria corrente pittorica e a dimostrazione che oggi è finito il tempo dell’isolamento ed è ormai possibile un lavoro in comune. In queste pagine ogni pittore è presentato con una breve biografia, una foto ed una specie di stemma che rappresenta in chiave il senso della sua pittura. Così Fabio Mauri ha assunto come simbolo i fumetti dei ragazzi; Gino Marotta una sveglia, Pietro Cascella un elefante, Piero Dorazio le impronte digitali e Achille Perilli un centopiedi. Giulio Turcato ha scelto invece una banconota da 1000 lire. Mimmo Rortella il manifesto di “Mondo di notte” e Gastone Novelli un busto di donna con poche parole scritte sopra. Nelle note biografiche ognuno confessa le proprie debolezze, aspirazioni, idiosincrasie. “Io ho sempre sbagliato, soprattutto il tempo” dice di sé Gino Marotta, e Turcato: “Il duomo di Milano e la stazione starebbero bene come calamai”. Questo libro rappresenta una presa di posizione polemica. “Lo abbiamo ideato e concepito” dicono gli autori, “come una protesta contro l’accademismo che domina l’arte italiana, i santoni che la governano ed i tabù da essi imposti”. L’idea venne a Mauri e a Marotta una sera che cenavano in una trattoria di Trastevere. Entrambi erano convinti che a Roma, anche se gira poco denaro, i giovani potrebbero fare e vendere molto di più se riuscissero a trovare un’intesa comune. Ogni giorno arrivano dall’America mercanti che frugano le gallerie d’arte in circa di nuovi talenti e acquistano per poco ciò che poi rivendono a cifre favolose in America. Ma per un giovane è difficile farsi un mercato se non appartiene al giro delle firme ormai autorevoli. La discussione s’allargò ad altri pittori. Ogni sera era possibile incontrarli da Rosati, intenti a discutere a bassa voce come congiurati particolari dell’impresa. L’accordo venne finalmente raggiunto alla mezzanotte del 30 aprile, durante quella che fu definita dopo “la notte di San Valentino”. La selezione e la scelta non erano avvenute per caso. In tutti questi pittori si può riconoscere infatti non solo uno stile comune, ma anche precise affinità di gusti e di abitudini. Ciò che più li interessa sul piano artistico è la realtà: non una realtà “stagionata” ma contingente, moderna, attualissima. La radio, i reattori, la fantascienza, i fumetti, i rotocalchi sono gli aspetti del costume di oggi che più colpisce la loro sensibilità. Anche il loro modo di vivere, i loro gusti letterari, i film prediletti, rivelano una sensibilità comune. Quasi tutti possiedono una macchina inglese di modello antiquato e nel portabagagli trasportano il materiale con cui costruiranno i loro quadri: pezzi di ferro, ritagli di tessuti, vetrini colorati, conchiglie, strisce di garza, tocchi d’asfalto, grumi d’intonaco, putrelle arrugginite. Le loro ragazze sono pallide, vagamente fatali, decisamente pazienti e ricordano le donne di Francis Scott Fitzgerald. Le case in cui vivono non sono studi disordinati e “bohémien”, ma abitazioni confortevoli. Le letture predilette sono James Joyce, Ezra Pound, Bertold Brecht. Le vacanze le trascorrono viaggiando dai fiordi della Norvegia, alle foreste del Mato Grosso, lungo i fiumi della Germania o sui laghi gelati della Finlandia. E tutti, senza eccezione, sono poliglotti. Il libro che essi hanno pubblicato in questi giorni è destinato a suscitare molte discussioni e polemiche. “Se riusciremo a spuntarla” dicono i giovani pittori, “dimostreremo ai grandi che Roma può facilmente prendere il posto di Parigi. Oggi l’Italia è di moda dovunque e si vende facilmente». (*) − L. TRUCCHI, “Crack” di Vivaldi, in «La Fiera Letteraria», 14 agosto. «A chiusura estiva delle mostre è doppiamente piacevole salutare il libro-album di Cesare Vivaldi, edito a Milano, che presenta una folta galleria di opere col vantaggio di alcune estrosissime autopresentazioni. I pittori in vetrina sono: Pietro Cascella, Piero Dorazio, Gino Marotta, Fabio Mauri, Gastone Novelli, Achille Perilli, Mimmo Rotella, Giulio Turcato, Cesare Vivaldi che è un po’ l’Apollinaire 1960 di questa nuova banda di irregolari di piazza del Popolo, premette agli exploit dei suoi “compagni di strada” una specie di felicissimo manifesto, lirico ed elegiaco, nel quale sembra quasi farsi il profeta di tanti Allah certo più muniti di scimitarre (e di lamiere, ferri, chiodi, carta straccia), che di pennello. Si dirà che Crack, in obbedienza anche ad un titolo che ricorda il testamento di Fitzgerald, riprende scopertamente più di una istanza avanguardistica, dal futurismo al dadaismo al surrealismo. In effetti questi nove pittori, che Vivaldi ci descrive in blocco, disincantati ma non sfiduciati, saturi ma non stanchi, scettici ma non aridi, teneri ma non sentimentali, innamorati ma non appassionati, sono assai diversi l’uno dall’altro: in alcuni la ripetizione è riscattata da un continuo dinamismo storico, in altri è solo uno stucchevole se pure abile gioco senza esiti. Anche nelle loro dichiarazioni non tutti sanno mantenersi in quel clima stralunato e lunare del poeta, vi riescono soprattutto Turcato, Mauri e Cascella. Ma non vogliamo scompaginare Crack che sta, tutto sommato, così bene insieme, malgrado il suo spurio e precario schieramento. Staremo poi a vedere, caro Vivaldi, con il primo razzo per la Luna, chi di questi nove pittori si avvierà subito verso la grande avventura, e chi, invece, seguendo una incallita abitudine, andrà a rimorchio con la seconda corsa, più sicura, più collaudata, più redditizia». New York, Bertha Schaefer Gallery, 12 settembre Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Six Techiniques – Six Nationalities. Roma, Galleria La Salita, 6 ottobre Franco Angeli e Mimmo Rotella espongono con altri 10 artisti nella mostra Bollettino 59-60. 245 Houston, Contemporary Arts Museum, 13 ottobre Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra New Europeans. A cura di Georgia Goeters. Roma, Palazzo Barberini, 25 ottobre Gino Marotta, Fabio Mauri e Mimmo Rotella espongono con Mario Mafai, Giovanni Omiccioli, Fausto Pirandello, Domenico Purificato, Giulio Turcato e altri artisti nella mostra Ottobre romano di pittura. Bibliografia selezionata: − E. VILLA, Fabio Mauri, in «Appia», n. 2, p. 19. (*) Roma, Galleria La Salita, 18 novembre Franco Angeli, Tano Festa, Francesco Lo Savio, Mario Schifano e Giuseppe Uncini espongono nella mostra 5 pittori–Roma ‘60. Testo di Pierre Restany. «(...) Cette situation ouvert, je la pressentais depuis quelque temps deja, mais je l’ai vraiment ressentie en octobre dernier, au niveau de la jeune generation romaine, celle des Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano, Uncini. Il serait vain de vouloir attribuer un denominateur commun à des demarches d’esprit aussi divers et encore insuffisamment affirmées. Nous entrons là dans les Marais Pontins de l’indecision, mais aussi de la virtualité et du possible devenir. Cette zone marginale se situe bien sûr entre Paris et New York, entre les Neo-Dadas et le Nouveaux Realistes pour la plupart, entre le “hard-edge” et le nuagisme pour l’un d’eux. La voie est etroite, mais elle existe, ne serait-ce qu’à l’etat de parentheses entre deux “art labels”. Par le biais de ce decalage entre des positions etabli, officiellement reconnues et virant deja à l’accademisme d’avant-garde, ces jeunes pragmatistes romains ont leur chanche. C’ést le moment de le leur dire, et de le dire». Pierre Restany Bibliografia selezionata: − L. TRUCCHI, Incisioni di Picasso, in «La Fiera Letteraria», a. XV, n. 49, Roma, 4 dicembre, p. 6 (mostra citata). Parigi, Pavillon Américain Porte de Versailles, 18 novembre Mimmo Rotella partecipa con altri artisti al Festival d’Art d’Avant-garde. Arts plastique. Nouveaux Réaliste. Roma, Galleria La Tartaruga, 3 dicembre Umberto Bignardi, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Gino Marotta, Fabio Mauri, Mimmo Rotella espongono con altri 27 artisti nella mostra Opere di Piccolo formato. Roma, Gallaria La Salita, 30 dicembre Franco Angeli, Tano Festa, Francesco Lo Savio, Mimmo Rotella, Mario Schifano e Giuseppe Uncini espongono con altri artisti nella mostra Piccolo formato. 1961 Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna, s.d. Gino Marotta espone con altri artisti nella mostra Pittori d’oggi Francia-Italia. Roma, Galleria Penelope, gennaio Titina Maselli espone con altri artisti in una mostra di opere di piccolo formato. Bibliografia selezionata: − VICE, Artisti italiani, in «La Fiera Letteraria», a. XVII, n. 2, Roma, 14 gennaio, p. 6. Parigi, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, 6 febbraio Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Comparaisons. Peinture. Sculpture. Bibliografia selezionata: − s.a., s.t., in «Notiziario La Medusa», febbraio (mostra citata). − BERENICE, s.t., in «Paese Sera», 7 febbraio (mostra citata). Londra, Brook Street Gallery, 28 febbraio Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Aspects of collage. Roma, Galleria La Tartaruga, 11 marzo Umberto Bignardi e Giosetta Fioroni. Bibligrafia selezionata: − s.a., Perché la porporina?, in «L’Espresso», Roma, 19 marzo, p. 21. Roma, Galleria La Tartaruga, 23 marzo Mario Schifano. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 27 marzo (bando) Tano Festa, Luca Patella e Mario Schifano partecipano alla selezione de I Premi di incoraggiamento 1961. Premio a Luca Patella (incisione). Roma, Galleria La Salita, 28 marzo Mimmo Rotella. Testo di Pierre Restany (Mimmo Rotella nouveau realiste). «“Arraneher lei affiches des murs est la seule compensation, l’unique moyen de protester contre une société qui a perdu le goût du changement et des transformations fabuleuses”. Cette protestation est essentielle dans la démarche de Rotella, ce personnage hors-série de la vie artistique romaine, décolleur et lacérateur d’affiches. Mais ce geste fondamental de la lacération n’est pas désespéré. Il comporte une ouverture positive: il faut écarter le voile aveugle des habitudes perceptives pour atteindre, plus avant, à la réalité de base. Quand il arrache une affiche, Mimmo Rotella est pénetré du sens de la grandeuer se son geste. C’est le seul moyen concevable pour lui de s’appoprier un aspect du réel dans sa totalité objective et sociologique. Car à travers l’affiche lacérée, n’en doutons pas, c’est la réalité sociologique toute entière, le produit de l’activité des hommes, le commerce du monde, que Rotella assigne à comparaître. Cette présence supérieure de l’humain est l’élément le plus émouvant d’une adventure menée en solitaire, à Rome, plus de 10 ans, et qui rejoint la démarche des “inventeurs” parisien de l’affiche lacérée, les Hains, les Villeglé et les Dufrêne. Il y a trois ans encore Rotella ignorait tout des activités de ses collègues parisiens. Eux aussi l’ignoraient. Frappé tout autant de la parenté des attitudes que des nuances spécifiques séparant chacune de ces oeuvres, j’ai mis ces diverses personnalités en présence, et Rotella a adhéré au “nouvea réalisme”. Il faut voir dans cette rencontre entre Rome et Paris bien plus qu’une simple coîncidance. Face à l’extraordinaire pouvoir d’usure de la duré moderne et l’épuisement conséquent de tous les modes d’expression traditionnels, il se développe aujourd’hui un peu partout dans le monde une nouvelle démarche appropriative du réel. (...) Rotella, historien de la rue et de la vie quotidienne, est le témoin extralucide, d’une civilisation déchirée dont il récupère les plus secrets lambeaux tout comme les derniers morceaux de bravoure. Dans leur stridences colorées comme dans leur inquiétantes plages de tons morts, les décollages de Rotella constituent l’édition italienne d’un ouvrage collectif, à mes yeux “le seul vrai journal du monde”. Cette “lecture du monde” à laquelle nous convie l’artiste romain est bouleversante». Pierre Restany Bibliografia selezionata: − s.a., s.t., in «Il Tempo», 28 marzo (mostra citata). − s.a., s.t., in «L’Espresso», a. VII, n. 14, Roma, 2 aprile, p. 21 (mostra citata). − F.M., Rotella alla Salita, in «Telesera», 6 aprile. «“Strappare i manifesti dai muri è la sola contropartita, l’unico mezzo di protesta contro una società che ha perso il gusto delle trasformazioni favolose”. Si può partire da questa dichiarazione programmatica di Mimmo Rotella, che espone in questi giorni alla Salita, e fornire un’interpretazione di questo decolleur di manifesti in chiavi sostanzialmente diverse. Si può accentuare ad esempio l’aspetto protestatario e casualistico del gesto di Rotella e riscontrarvi un tentativo di attingere una realtà più autentica di quella, troppo consunta, che ci sta sotto gli occhi, come ha fatto nella presentazione Pierre Restany, il quale ha potuto parlare così di un “nuovo realismo” (accomunando l’opera di Rotella ai decolleurs Hains, Villeglé e Dufrene); oppure si può sottolineare, di quella dichiarazione, la seconda parte, “il gusto – cioè – del cambiamento e delle trasformazioni favolose” ed avere dell’estroso artista romano un ritratto abbastanza diverso, impostato sulle capacità inventive e di gioco contenute nel gesto del pittore. E dico “pittore” non a caso, poiché il gesto di Rotella è solo apparentemente casualistico; in realtà esso è guidato da una sensibilità estremamente raffinata, capace di creare accordi sottilissimi di colori (si guardi il “manifesto” con quegli accordi leggeri di grigi, rosa e neri) oppure dissonanze festose, piene di allegria e di gioia di vivere. Voglio dire che Mimmo Rotella è un artista, autentico a suo modo, che ha il merito di portare nella vita quotidiana un pizzico di pazzia, ma (e perciò egli è anche un buon pittore) di una pazzia ragionata». − VICE, Rotella alla Salita, in «Il Tempo», 7 aprile. − s.a., La mostra di Mimmo Rotella, in «Il Messaggero», 8 aprile. − s.a., Rotella alla “Salita”, in «La Settimana a Roma», 7-13 aprile (mostra citata. Pubblicato anche nella versione inglese in «This week in Rome»). − p.s.b., Mimmo Rotella, in «Il Globo», 11 aprile. «Pierre Restany, che è un critico serio, ha scritto che, quando Mimmo Rotella lacera una “affiche” è penetrato nella grandezza del suo gesto: e questo, veramente, è istruttivo, perché a nessuno passando davanti alla galleria “La Salita”, e trovandosi di fronte a quei brandelli di carta colorata, a quei manifesti variopinti prima sovrapposti poi strappati in modo da far apparire in più punti i colori degli strati sottostanti, vien fatto di pensare ad un genio che crea con un grande gesto. Nel migliore dei casi potrà pensare di trovarsi di fronte alle opere di un caratteristico rappresentante della società contemporanea, intelligente, che soprattutto ha capito bene due cose: l’ottusità di alcuni e gli interessi economici di altri. E questo non è poco, quindi, per ciò che lo riguarda personalmente, Rotella fa benissimo a stracciare tutti i manifesti che vuole e che trova. Ma c’è un’altra considerazione da fare e cioè che non sarebbe male di smettere col beffarci a vicenda.dire che queste opere sono solo delle buffonate, che non è arte, che bisogna distruggerle e condannare chi le fa e chi le compera, sarebbe riprovevole. Sono piuttosto opere che, purtroppo, debbono essere inquadrate nella produzione artistica dei nostri giorni, per la verità piuttosto limitata. Non è giusto ignorarle, né scagliarsi contro un artista che non sa fare di meglio: ognuno ha i suoi limiti e, Rotella, straccia manifesti. Questi, credo, dovrebbero essere i limiti entro i quali andrebbe giudicata l’opera di Mimmo Rotella. Oietti parecchi anni fa addietro scrisse che “far grosso, far stupido, far nuovo, erano le tre vie aperte, secondo la moda, ai giovani”. Forse Oietti amava troppo il passato per rendersi conto che, in queste “trovate” c’è dell’intelligenza o, per lo meno, dello spirito, ma prima di dire, come Pierre Restany dice, che le opere di Rotella “sono 246 il solo vero giornale del mondo” credo che bisognerebbe pensarci molte volte». − s.a., Mimmo Rotella, storico della strada e testimone di una vita lacerata, in «Il Mattino», 28 aprile. Roma, Libreria Galleria Ferro di Cavallo, 20 aprile Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Que viva Fidel Castro. Iniziativa nata con l’intento di raccogliere fondi per finanziare la rivoluzione castrista a Cuba. Roma, Galleria La Salita, 3 maggio Tano Festa. Testo di Cesare Vivaldi. «Con una disinvoltura ed un’autorità davvero sorprendenti per un giovane alla sua prima mostra personale, Tano Festa viene ad inserirsi in quella ristretta pattuglia di punta della pittura italiana ed internazionale che opera nella zona d’intersezione tra istanze neodadaiste, neogeometriche e novorealiste. Di suo, già fin d’ora Festa immette nel coro una nota particolare, una stralunata fissità di sguardo, un senso ritmico esasperato e insieme una sorta di innocente stupore: la meraviglia delle proprie capacità manuali, della perfezione del prodotto che gli è riuscito di costruire, della felice realizzazione della sua idea pittorica. Tano Festa dipinge nel modo caparbio e ostinatamente candido con cui un bimbo si delizia nel correre strisciando un bastone lungo un’interminabile cancellata: le ineguaglianze di ritmo sono percepite “dal di fuori”, e sono indipendenti dalla velocità fissa della corsa. Quel che conta in questa pittura, vogliamo dire, è la realizzazione di un’idea di spazi continuamente aperti ed interrotti su di una superficie; per continuare nella metafora, quel che conta è proprio la fissità della corsa, anche volendo dare per accidentale e intercambiabile il distribuirsi di tali spazi, il modo concui essi sono scanditi (operazione di fatto condotta conun rigore estremo), aperti e interrotti o chiusi. Lontanissima la geometria euclidea di Kandinsky o Malevič dalla geometria puramente pretestuosa di Festa e di altri giovani; l’azione oggi può espandersi anche in formule geometriche o geometrizzanti, ma senza rinunziare ad essere anzitutto azione. E gli schemi esteriori, nel caso di Festa, sonocosì semplici, ed elementari da porre decisamente l’azione in primo piano. Niente altro che un ritmo orizzontale di elementi verticali, interrotto oripreso senza come, senza quando, senza perché. Il significato sta nell’azione di interrompere, la poesia nel gesto non utilitario calato in un manufatto di esecuzione impeccabile». Cesare Vivaldi Bibliografia selezionata: − s.a., s.t., in «Europa Informazione», 6 maggio (mostra citata). − T. BONAVITA, s.t., in «Il Tempo», 7 maggio (mostra citata). − A.M., s.t., in «Euroma»,11 maggio (mostra citata). − F.M., Festa alla Salita, in «Telesera», 13 maggio. «(...) La pittura di Tano Festa sembra rispondere appunto a queste aspettative, iscrivendosi, insieme a quella di molti altri giovani artisti, nel vasto e articolatissimo movimento dell’arte attuale che intende superare (dopo, però, averne accolto la lezione) l’esperienza ormai stanca, della pittura informale. In Festa le due istanze sottolineate da Butor e da Vivaldi sono entrambe operanti, raggiungendo un equilibrio situato, non in un astratto giusto mezzo, ma spostato, secondo gli umori predominanti dell’artista, verso il polo geometrico e costruttivista. La precisione accurata con cui Festa esegue le sue opere, la pulizia, anzi il rigore formale di queste “composizioni”, gli stessi effetti, calcolatissimi, del colore, in cui i timbri aggressivi dei rossi si equilibrano con quelli spenti e caldi dei neri, il respiro ampio delle superfici che spaziano interrotte da pause verticali, son tutti elementi che parlano di una impostazione architettonica del quadro. Il quale non a caso dà l’impressione di un oggetto perfettamente calibrato nella sua struttura, e quindi dotato di un suo significato autonomo, ma che attente, per essere valorizzato appieno, l’inserimento in una struttura, più vasta. Ma non bisogna lasciarsi ingannare dalla “oggettività” di questi pezzi. Voglio dire che sotto la volontà costruttiva dell’artista, si avverte come un’angoscia improvvisa che si manifesta in certe iterazioni ossessive dei ritmi compositivi e in una “stralunata fissità di sguardo”». − s.a., Festa alla Salita, in «Il Tempo», 17 maggio (mostra citata). Parigi, Galerie J., 17 maggio Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra A 40° au-dessus de Dada. Roma, Galleria L’Attico, 10 giugno Giuseppe Uncini. Testo di Enrico Crispolti. «(...) Nelle ultime sue opere, in questi “cementi-armati”, le intenzioni di Uncini mi sembrano infatti piuttosto chiare: virtualità poetica di una materia, di un materiale; e virtualità poetica del fare – la costruttività tipica dell’uomo – strumentante secondo una naturalità empirica quel materiale. E il materiale è appunto il cemento-armato. (...) Questo “cemento-armato” non vuole sublimarsi idealmente in immagine, come certo non lo chiede il sacco o il ferro di Burri, tuttavia, a differenza di questi, detiene nella designazione espressiva tutte le nozioni inerenti le sue possibilità costruttive empiriche. Perché il cemento-armato è il simbolo stesso, per molti aspetti, della potenza costruttiva dell’uomo contemporaneo, e non un materiale decaduto. (...) Ma per Uncini il cemento non è soltanto, come strumento della sua capacità creativa, un portato dell’arteficiosità dell’uomo moderno, nella sua intenzione di dominio sulla natura. (...) Cemento e ferro in un loro rapporto organico naturale – come forze vitalizzate di una natura di cui l’uomo è parte –, momenti reciprocamente complementari, quasi appunto in un nuovo processo vitale. Un rigore, un’attenzione positiva, per molti aspetti nuovi, alle possibilità espressive della materia: questo cemento e il ferro che lo innerva appunto quasi secondo una oggettività organica, e non certo per un interesse meramente grafico di arabesco, realizzando un diverso e ulteriore ordine di consistenza materiale, il “cemento armato”, con la sua caratterizzata funzione. E l’imagerie,di minute abrasioni, di sottili inserti, di brevi fratture, di cui la superficie di questa materia si arricchisce indubbiamente, rappresenta il margine di lirismo e di moderato abbandono in questa tendenziale costruttività, che concorre infatti ad aggettivare espressivamente, ma secondo un percorso che non prescinde dalla naturale desinenza empirica del materiale stesso: quasi la storia interna – ancora naturalmente organica – del materiale che l’uomo si è creato per operare, e che quindi inevitabilmente partecipa delle sue possibilità, della sua stessa vicenda (...)». Enrico Crispolti Bibliografia selezionata: − A. BOATTO, I cementi armati di Uncini, in «Arte Oggi», anno III, n. 11, Roma, maggio-giugno. (*) − s.a., Uncini all’Attico, in «Il Tempo», 23 giugno (mostra citata). − s.a., s.t., in «Il Messaggero», 26 giugno (mostra citata). − s.a., Quadri in cemento, in «Vita», 29 giugno (mostra citata). − G. URBANI, Le cose di Uncini, in «Il Punto», 8 luglio. «(...) Giuseppe Uncini, un giovane esordiente che espone in questi giorni alla Galleria L’Attico, ha preso come punto di partenza per le sue “cose” proprio le strutture di cemento armato, giocando sottilmente tra la decoratività che a questo materiale discende dall’uso “estetico” che se ne fa oggi in architettura, e una sapiente regia di effetti formalistici, riportati con elaborazione sempre personale da Burri, da Tapies e da varie altre zone della pittura e della scultura più recenti. Insomma ha cercato di aggiungere alla “coseità” potenziale dell’oggetto cemento armato un’altra “coseità”, quella che l’arte attuale sta cercando da tempo di esprimere dalla sua classe particolare di oggetti: le pitture e le sculture. Questa doppia manovra eversiva, anche se condotta col solito strumento della casualità “organizzata”, ottiene dei prodotti indubbiamente piacevoli, che hanno il grande merito di non essere né quadri né statue, e nemmeno i pedanti pseudo-oggetti dei “designers” disoccupati. Delle “apparizioni”, che dureranno il tempo che potranno durare (cioè, sicuramente, non molto), ma alle quali oggi si deve riconoscere se non altro di essere riuscite ad apparire». − M. VOLPI, Giuseppe Uncini, in «Avanti», 8 luglio. «All’“Attico” espone Giuseppe Uncini, un giovane artista certamente dotato di notevoli qualità. Appena si osservano le pareti della galleria con i suoi “cementiarmati”, si nota che la chiara impaginazione, il segno sempre incisivo rende elegante, e in fondo leggera, anche questa materia con le sue grandi dimensioni e il suo peso. Si sono fatti nomi di Le Courbusier, di Tàpies e di Burri per altri motivi, si è parlato di neodadaismo. In realtà se c’è un gesto in Uncini, ha ragione il presentatore a definirlo costruttivo. La passione dell’artista è l’intreccio tecnico-formale che la materia presta alla sua invenzione compositiva, sia praticamente sia simbolicamente. Un ritmo, parallelo visivamente a quello che ci colpisce nel jazz di Jerry Mulligan o di Miles Davis, definisce il senso dei segni dell’armatura che intervengono irregolarmente negli interstizi regolari del cemento. Sono segni qualche volta animati come quelli di Mirò, qualche volta taglienti, qualche volta casuali, ma sempre ritmicamente diretti». Roma, Galleria La Salita, 15 giugno Francesco Lo Savio espone con gli altri artisti del Gruppo Zero nella mostra Mack+Klein+Piene+Uecker+Lo Savio=0 Bibliografia selezionata: − M. VOLPI, Arte allo “zero”, in «Avanti», 8 luglio. «Alla “Salita” Yves Klein, Francesco Lo Savio, Heinz Mack, Otto Piene, Gunther Uecher. Un altro aspetto del raggruppamento presentato di recente alla Gallerie J da Restany, a Parigi (Arman, César, Spoerri, Tinguely, Villeglè). Un’arte dello zero vorremmo definirla, senza implicazioni ideologiche di nessun tipo. Comunque si voglia intendere la qualità dei motivi e dei risultati, il neo-dadaismo europeo e americano è un sintomo di perplessità spinta al limite dell’inerzia: sembra che non sappiamo più perché dovremmo costruire nel campo dell’espressione, né per quale pubblico, né per quale rivolta, né per quale positiva circolazione di un linguaggio, così facile a tradirci». Roma, Galleria Anthea, 23 giugno Gianfranco Baruchello, Gino Marotta e Fabio Mauri espongono con Pietro Cascella nella mostra Opere 1959-60. Baruchello, Cascella, Marotta, Mauri. Bibliografia selezionata: − s.a., Il pubblico perde le staffe alla mostra degli informali – sono troppo bizzarri i quattro astrattisti della galleria Anthea, in «Paese Sera – Settevolante», 8 e 9 luglio. − C. GIACOMOZZI, I quattro dell’Anthea (Gino Marotta, Gianfranco Baruchello, Pietro Cascella, Fabio Mauri), in «Vita», a. III, n. 118, 20 luglio, pp. 32-33. «Datevi all’artigianato! – Sarebbe opportuno finirla con simili esibizionismi – Ma fatemi il piacere! Queste e altre simili frasi sono state scritte da alcuni visitatori sul registro delle firme della Galleria Anthea dove sono esposte opere dei pittori Gianfranco Baruchello, Pietro Cascella, Gino Marotta e Fabio Mauri. Ma sul registro appaiono anche espressioni laudative. Mi piacciono ha scritto semplicemente qualcuno; e qualcun altro ha ribadito con eguale semplicità e chiarezza: Per me non hanno alcun senso. Se ci si deve attenere alle cronache va detto che la mostra è frequentatissima, con discorsi e polemiche davanti a ciascun lavoro. Positivo o negativo che 247 sia – affermano concordi i quattro artisti – il giudizio del pubblico equivale a una reazione bell’e buona; sottintende cioè un interesse; e ancora: si giustifica come un pretesto niente affatto astratto di un fatto emozionale. Il grosso pubblico non accetta in arte, come in letteratura o in musica, le rivoluzioni: c’è, una tradizione che pesa e che non ammette le rotture, i movimenti, le scuole, le tendenze. Arte è arte; si guarda, senza andare troppo lontano, al nostro Ottocento (quello francese, l’Impressionismo, è per molti troppo difficile a digerirsi), o si arriva al massimo al Caravaggio, a Raffaello, a Michelangelo. Le rivoluzioni si fanno contro i malgoverni e non contro la realtà della natura, dice il pubblico. E non vuole sentire parlare di “fauves”, di “dada”, di “cubismo”, di “informale”. Tutte parole, si dice, e intanto nei quadri non si vede niente e non si capisce niente. Il pubblico ha dunque ragione. Gli artisti, dal canto loro, non vogliono muoversi entro limiti convenzionali; cercano di percorrere i tempi o, per lo meno, rivedere il passato adeguandolo a concezioni il più possibilmente future. I quattro dell’Anthea si muovono in questa direzione; non fanno del “dadaismo”, come si potrebbe anche supporre, a prima vista; aspirano, piuttosto, a una nuova estetica; si impegnano a coniare altro linguaggio, altra poetica; eppure, considerando la rappresentazione dentro termini strettamente naturalistici che non sono più, tuttavia, colline o case, figure o panieri di frutta, alberi, comunque oggetti di una realtà antica che da secoli sono pretesto di una eccellente figuratività pittorica. A ben guardare, però, se non ci fossero, ad esempio, i pittori astratti e quelli informali, gli espressionisti e i realisti, la pittura camminerebbe su binari obbligati e bene o male un paesaggio arriverebbe ad essere eguale a cento, mille altri paesaggi; così per una natura morta, una marina. Le Accademie sfornerebbero coorti di pittori più o meno dello stesso valore, come una scuola alberghiera licenzia plotoni di camerieri di maîtres d’hotel, tutti bravi, tutti perfetti. Questo non significa che l’artista legato alla tradizione figurativa debba essere considerato fuori dell’Arte come molti di parte avversa erroneamente e “pacchianamente” stimano. Il tempo dirà fra cento anni, tanto per porre un limite, se valgono più le “bottiglie” di Morandi o i “sacchi” di Burri; se le spremute di tubetto di Pollock o le colate di colore di Sam Francis più di un paesaggio di Kokoschka. Ogni forma d’arte ha un suo decoro, una sua dignità; ma soprattutto una sua durabilità che se non è avvertibile oggi lo sarà indubbiamente domani. Oggi la critica ha il compito di registrare ed esprimere un giudizio e il pubblico la libertà di commentare, di accettare o meno il lavoro dell’artista, di sceglierlo. Quando però si tenta di imporre un artista soltanto per ragioni meramente mercantilistiche e si impegnano monografie su di lui e di lui si allestiscono mostre in ogni parte del mondo con ricchezza e dovizia, allora si rende un cattivo servizio all’Arte. I quattro pittori dell’Anthea non sono nel giro di questi problemi; hanno soltanto qualcosa da dire e lo fanno serenamente con piena coscienza senza sollecitare i grossi mercanti. Lo scopo del loro lavoro è di entrare nella realtà naturale in cui sono chiusi, e la reinventano». Torino, Galleria Il Punto, luglio Tano Festa espone con altri artisti nella mostra L’orientamento dei giovani. Testo di Cesare Brandi. Lucca, Galleria La Pantera, 12 luglio Tano Festa, Gino Marotta, Mimmo Rotella e Mario Schifano espongono con Ugo Attardi, Alberto Burri, Carlo Carrà, Giorgio De Chirico, Filippo de Pisis, Lucio Fontana, Antonio Sanfilippo, Toti Scialoja, Mario Sironi, Cy Twombly e altri artisti nella mostra La pittura contemporanea in Italia. Nizza, Abbaye de Roseland, Galerie Muratore, 13 luglio Mimmo Rotella partecipa con altri artisti al Festival du Nouveau Réalisme. Wolframs-Eschenbach, Ordens-Schloss, 15 luglio Mimmo Rotella e Piero Manzoni (unici italiani in mostra) espongono con altri artisti nell’Internationale Malerei 1960-61. Roma, Galleria La Salita, 15 luglio Franco Angeli e Mimmo Rotella espongono con Carla Accardi, Ettore Colla, Piero Dorazio, Lucio Fontana, Nino Franchina, Antonio Sanfilippo, Toti Scialoja, Ettore Sordini, Giulio Turcato. Termoli, Castello Svevo, 6 agosto Franco Angeli, Tano Festa e Mimmo Rotella partecipano con altri artisti alla VI Mostra Nazionale di pittura Castello Svevo. Testo di Cesare Vivaldi. Roma, Palazzo delle Esposizioni, settembre/ottobre Giuseppe Uncini partecipa con altri artisti alla III Rassegna di Arti Figurative di Roma e del Lazio. Bibliografia selezionata: − D. MICACCHI, La terza rassegna di arti figurative, in «Avanti», 26 settembre. − M. VOLPI, Troppe opere inutili nella Rassegna di arti figurative di Roma e del Lazio, in «Avanti», 7 ottobre Spoleto, Palazzo Collicola, 10 settembre Tano Festa partecipa con altri artisti alla IX Mostra Nazionale di Arti Figurative Premio Spoleto. Roma, Galleria San Marco, ottobre Giuseppe Uncini espone con altri artisti nella mostra Salone d’autunno. Bibliografia selezionata: − M. VOLPI, Scuola di Roma?, in «Avanti», 29 ottobre New York, The Museum of Modern Art, 2 ottobre Mimmo Rotella espone con Marchel Duchamp, Kurt Schwitters, Alberto Burri, Robert Rauschenberg e altri artisti nella mostra The Art of Assemblage. A cura di William C. Seitz. Milano, Galleria dell’Ariete, 3 ottobre Gino Marotta. Pitture-Oggetti. Testo di Cesare Vivaldi (Neometafisica di Marotta). «(…) Le nuove realtà domandano nuove forme. Il dopoguerra è finalmente finito: insieme è finita la poetica dell’angoscia, resa insapore dai compiacimenti e dai manierismi, soprattutto già scaduta nelle coscienze. Il momento in cui viviamo non è forse meno drammatico e terribile di quello da cui siamo appena usciti, ma ci sembra, non richiede furore, Sturn und Drang, introspezione esasperata, bensì lucidità e una violenta freddezza. Dall’aggressività e dalla volgarità della civiltà di massa, del prodotto industriale di serie, non ci si può più difendere rifugiandosi nel solipsismo di un gesto ormai vacuo, della pennellata gigante e dell’indagine materica fine a se stessa. È necessario rompere l’assedio con una sortita che permetta all’uomo di riprendere pieno possesso del mondo degli uomini in tutta la sua spietatezza, drammaticità, urlante allegria. Agli shocks violenti che ogni giorno ci infligge la vita delle città (manifesti dai colori vivacissimi, grigi asfalti costellati di frecce e strisce bianche, segnalazioni stradali, macchine di tutte le forme tinte e dimensioni, elettrodomestici, materie plastiche gialle rosse azzurre) la pittura dei giovani reagisce con altrettanta violenza, in Europa come in America. Il collage neodadaista non esalta la materia ma la piega a racconto. Rauschenberg attraverso le congerie dei materiali e delle immagini, Cy Twombly attraverso l’aggiungersi di segno a segno, ci narrano l’avventura comico-tragica di ognuno nel mondo di tutti. La bandiera, il bersaglio, il numero di Jasper Johns sono i simboli che la civiltà di massa ci stampa nella retina in modo incancellabile: un riepilogo. Le macchine di Tinguely sono una diretta satira dell’automazione, così come i personaggi-oggetti di una corrente notevole della giovane pittura milanese lo sono di parecchi altri miti contemporanei. In tutto il mondo, insomma, la giovane arte tende apertamente, e per più vie parallele, a un rinnovamento radicale della propria ideologia e del proprio linguaggio. Neodada americano, novorealismo francese, il materismo ironico di alcuni neosurrealisti milanesi e finalmente la neometafisica di un gruppo di giovani di Roma non sono che aspetti diversi e particolari di una stessa generale tendenza. Il lavoro recente di Gino Marotta ci sembra esemplifichi nel modo più evidente il senso della ricerca dei pittori romani dell’ultima generazione. È una pittura che ci piace chiamare neometafisica per un rapporto di simpatia con la gloriosa vecchia metafisica dechirichiana, ma sappiamo benissimo quanto l’espressione sia imprecisa, ambigua e insufficiente; poiché Marotta non è al di sopra o al di fuori del tempo e della realtà umana di cui aspira a dare la sintesi in emblema e in cifra immediatamente palpabili ed evidenti. Attraverso le stridenti vernici da automobile, da cartellone o da segnaletica stradale, le cromature, i bulloni, la monotonia meccanica – come attraverso le squadre, i manichini e gli oggetti misteriosi di De Chirico e Carrà – vibra non il “mistero” metafisico ma quel nuovissimo, moderno “mistero” (passione, timore ed anche speranza) che è la pensosa meditazione sul significato della civiltà contemporanea. Attraverso la gelida ostentazione dei simboli più evidenti dell’alienazione e della brutalizzazione dell’umanità si fa luce (e questo è pure giudizio, e insieme impegno) anche il senso vero dell’umano: un impalpabile calore, una presenza non esplicita anzi sottintesa, ma non per questo meno viva. Marotta usa quasi esclusivamente strutture derivate dall’industria. La frigidità degli schemi apparentemente neoplastici è rotta non tanto dal senso vivo dell’azione che caratterizza gli altri neometafisici quanto dalla continua allusione al mondo meccanico-tecnico e alla volgarità di quel design degenerato che ci investe da ogni parte. È un’allusione che non si fa condanna, non tenta l’ironia né la satira ma aspira a riprendere possesso, in piena coscienza, attraverso la trasfigurazione artistica (e con uno spirito lontanissimo e insieme vicinissimo a quello del Léger più meccanico), di tutto quanto, nato dall’uomo e per l’uomo, si è progressivamente fatto a lui estraneo sino a renderglisi nemico». Cesare Vivaldi Bibliografia selezionata: − BERENICE, L’Apollo di latta, in «Paese Sera – Settevolante», ottobre. − C. GIACOMOZZI, Quadri-lamiera, in «Vita», a. II, n. 130, 12 ottobre, p. 41. − M. VALSECCHI, Marotta, in «Il Giorno», 12 ottobre. «È finita l’angoscia del tempo presente? Non so, e del resto ciascuno può dare una risposta più confacente alla propria natura. Per lo meno è finito il periodo retorico degli angosciati. Almeno lo si è invocato da tempo e ora pare giunto il momento. Difatti molti tra gli stessi giovani pittori che dentro la facile simbologia dell’angoscia – dalla pittura nera e catramosa ai detriti della vita quotidiana – hanno pescato il perché dei loro prodotti, se ne sono stancati. Gino Marotta è di questi e si presenta, come le altre volte, alla galleria dell’Ariete con opere nuove. C’è di mezzo sempre la lamiera; ma stavolta, a differenza dell’ultima sua mostra, invece di lamiera arrugginita, bucherellata, simbolo di un decadimento fisico del mondo contemporaneo, è lamiera liscia, lucida di vernici alla nitrocellulosa. E non si tratta più nemmeno di ritagli raccattati per caso, ma di “oggetti” costruiti con cura, badando che i profili coincidano per benino a formare composizioni geometriche, cubiche. L’origine insomma non è più informale, ma neo-costruttivista; ci si rifà a Mondrian e a Vantor- 248 gerloo. È singolare tener conto che alla Biennale dei Giovani, apertasi una decina di giorni fa a Parigi, ho già visto quattro o cinque giovani comportarsi allo stesso modo, in Inghilterra e in Svizzera. Parola d’ordine subito circolata, o fenomeno autentico dello spirito? In ogni caso, non si va molto in là del limite di un’accuratezza formale, artigianale». − E. RODA, Apollo malvisto, in «Il Tempo», 21 ottobre. Roma, Galleria Arco d’Alibert, 21 ottobre Luca Patella. Testo di Arnoldo Ciarrocchi. «Patella vive in una serra come un vecchio quardaboschi; sulle pareti del suo studio nasce il capelvenere. Dal soffitto fuoriescono radici pelose come braccia di scimmia. Egli, come un giardiniere, si è costruito il suo torchio, i rulli, i tamponi. Macina l’inchiostro come il fraticello del convento di San Marco colla calma di chi ha avanti a sé più che la vita terrena, la vita eterna. Egli è un ragazzo d’altri tempi. Forse la gente del suo stampo si ritrova ancora in Urbino in quel luogo segnato da dolce profonda malinconia. Egli chiuso nel suo studio come un carcerato sogna ragazze sotto gli alberi, vetrine e distributori di benzina». Arnoldo Ciarrocchi Lissone, Palazzo del Centro del Mobile, 23 ottobre Franco Angeli, Tano Festa, Jannis Kounellis, Francesco Lo Savio, Gino Marotta, Mimmo Rotella, Mario Schifano e Giuseppe Uncini partecipano con Alberto Burri, Jean Fautrier, Jean Dubuffet, Lucio Fontana, Franz Kline e Antonio Tàpies al XII Premio Lissone. Testi di Giulio Carlo Argan, Umbro Apollonio (Sulla situazione al 1961) e Pierre Restany (Actualité du prix Lissone). «(...) Il compito dell’arte contemporanea non è di conservare a tutti i costi i valori impropriamente detti “umanistici” in una società che diventa sempre più tecnicistica, ma di determinare quella che sarà, nella figura storica della cultura moderna, il posto e la funzione dell’attività estetica. Lo scopo del Premio Lissone è di istituire, tra le tendenze artistiche avanzate, un confronto che renda possibile stabilire quali, tra esse più concretamente concorrano al rinnovamento strutturale del fare artistico (...)». Giulio Carlo Argan «(...) Non si potrà assegnare titolo di merito che a coloro i quali sono impegnati a organizzare una comunicabilità di fattori atta a presentare messaggi finora inediti e prospettano una scelta determinata tra le eventualità ammissibili nell’estensione delle forze estetiche. Così i nuovi contenuti, le nuove comunicazioni storiche, si concreteranno in un nuovo riconoscimento formale, solo modo per garantire stabilità all’indeterminatezza delle ridondanze attuali». Umbro Apollonio «(...) L’acte créateur est devenu avant tout un acte de comportement. Et ce comportement se traduit en gestes de plus en plus précis et concrets. Quelle distance déjà ne pressentons-nous pas entre la transe gestuelle d’un Mathieu qui se résoud en une peinture calliraphique, et le nouveau réalisme d’un Arman qui entasse des ordures oudes objets de série pour les mettre sous verre. On pourrait multiplier les exemples: des murs de lumière de Rothko à la proposition monochrome d’Yves Klein, de Willem de Kooning à Robert Rauschenberg, de Bryen à Hains, de Burri à Rotella (...)». Pierre Restany Pittsburgh, Department of Fine Arts, Carnegie Institute, 27 ottobre Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra The 1961 Pittsburgh International Exhibition of Contemporary Painting and Sculpture. Bibliografia selezionata: − s.a., The 42° Pittsburg International Exhibition of Contemporary Painting and Sculpur, in «Art International», a. V, n. 8, Zurigo, 20 ottobre, pp. 38-75 Roma, Caffè Rosati, 3 novembre Franco Angeli, Gino Marotta, Fabio Mauri e Mimmo Rotella espongono con Pietro Cascella, Antonio Corpora, Leoncillo, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo, Giulio Turcato e altri artisti. Bibliografia selezionata: − BERENICE, Impressionante ondata di pittura materiologica, in «Paese Sera», novembre Roma, Galleria La Salita, 30 novembre Tano Festa, Francesco Lo Savio e Mimmo Rotella. New York, Trabia Gallery, dicembre Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Three Roman Artists. Roma, Galleria La Tartaruga, dicembre Jannis Kounellis, Fabio Mauri, Mimmo Rotella e Mario Schifano espongono con Robert Rauschenberg, Jean Tinguely, Cy Twombly. 1962 Parigi, Galerie J., s.d. Fabio Mauri espone con altri artisti nella mostra Pittura oggetto. Parigi, Galerie Sonnabend, s.d. Mario Schifano espone con altri artisti. Roma, Galleria Penelope, gennaio Titina Maselli espone con altri artisti in una mostra di opere di piccolo formato. Bibliografia selezionata: − C. REFICE, Piccolo formato, in «La Fiera Letteraria», a. XVIII, n. 2, Roma, 6 gennaio, p. 6. Roma, Galleria Il Segno, 23 gennaio Claudio Cintoli. Testo di Lorenza Trucchi. «Cintoli ha fatto, negli ultimi due anni, una severa autocritica, un esame delle radici, una rincorsa da lontano. Correggendosi con freddezza, egli ha voltato le spalle alle mode ed alle polemiche, rinunciando sia alla seduzione di un compiacimento al mestiere che lo avrebbe trascinato nella zona, oggi troppo abusata, degli sperimentalismi, dove l’arte sconfina in un malinteso artigianato, sia alla tentazione di uno sterile intellettualismo pervaso di evasioni surreali e di automatismi. Per lui raggiungere una propria avanguardia ha voluto dire prima di tutto guardare indietro, porsi nel segno del passato per intendere ogni significato del presente. Nulla di meglio, dunque, di tornare alla tradizionale palestra del disegno. (...) Cintoli ha spesso trovato un invito ed uno stimolo a questo doppio esame, nei disegni di alcuni grandi artisti, sui quali ha esercitato una serie di studi e di variazioni. Si prenda, per tutti, gli Impiccati di Pisanello, il famoso foglio del British Museum, nel quale una realtà terribile e repellente è resa con una distaccata e incisiva stilizzazione: qui il disegno non è imitazione o vertistica rappresentazione, bensì acuto mezzo di conoscenza, razionale strumento di analisi. É proprio a questo realismo, non imitato ma creato, che Cintoli si è rivolto. Ed ecco, nelle sue variazioni, il disegno originale sfaldarsi e ricomporsi, moltiplicarsi e riprodursi nei dettagli rinfrangersi ed esorbitare dal contenuto iniziale, cercando nuove relazioni, ponendo nuovi interrogativi e qualche precaria risposta, qualche momentanea affermazione. (...) Che un giovane abbia avuto il coraggio, in tempi faticosi per le navigazioni controcorrente, di risalire il corso del fiume e riandare con umiltà ed amore alla sorgente dei classici, mi pare sia una esperienza salutare e forse tempestiva; e non sarà vana questa sua fatica, se egli sarà riuscito a fornire una prova di più come non esista virtuale opposizione né sostanziale differenza tra arte astratta e figurativa, tra oggettività e non-oggettività (...)». Lorenza Trucchi Bibliografia selezionata: − M. VENTUROLI, Claudio Cintoli alla Galleria Il Segno, in «Paese Sera», 25 gennaio. «(...) Cintoli non è artista che voglia fermarsi alla ripetizione di una sigla, o che si arrocchi in posizioni premeditate: è in lui, intanto, la felice consapevolezza di una avanguardia pluralistica, e questa pensiamo sia la lezione di Picasso, che maggiormente ha interessato al giovane; egli è infatti persuaso che ciò che conta è una emozione durevole, una felicità di rappresentazione: che poi questa immagine sia evidente, nei canoni di una leggibilità tradizionale, oppure sia “chiusa”, poco importa: contano i risultati. In ogni modo egli per affermare questo si pone nella condizione più autorevole, di fare: ed eccolo, allora, dal ritratto della madre del Dürer compiere una serie si solfeggi o di trasformazioni. Si trovava in Germania quando fu impressionato dal formidabile dipinto del Dürer; ma egli non era un viaggiatore accademico; già era un pittore: sicché lesse il Dürer cogli occhi d’oggi e i successivi itinerari di questa lettura mostrano nei singoli disegni quanto una misura classica, rinascimentale, possa essere suscettibile di sviluppi e di contraddizioni. Dalla presa di contatto grafica, ecco quella alla Sutherland, e poi quella astratto-espressionista. Seguono poi gli “studi da Leonardo”, da Pisanello, da Signorelli, tutti col medesimo sentimento dell’avanguardia, tutti percorrenti il cammino storicistico – e quale altro cammino potrebbe attuarsi? –da noi a quei testi. Un giovane pittore che lavora in questo modo merita rispetto: e noi che conosciamo la sua produzione maggiore, di quadri ad olio, possiamo aggiungere che è un vero piacere constatare con quali qualità Cintoli operi, avvalendosi di questi viaggi nel museo, della sua pittura». − s.a., Claudio Cintoli al “Segno” di via Capo le Case, in «Nazione Sera», 27 gennaio. − D. MOROSINI, Claudio Cintoli al “Segno”, in «Il Paese», 28 gennaio. − s.a., Cintoli, in «La Voce Repubblicana», 3 febbraio. «(...) E che sia stato un atto di coraggio questo di Cintoli è indubbiamente questione scontata. Avrebbe [potuto] adagiarsi nel suo antico plurilinguismo di derivazione senza assumere particolari responsabilità (anche se questo ad un tempo si sarebbe potuto risolvere in una situazione negativa per quelle preclusioni e quelle interruzioni di chiarificazioni che avrebbe provocato). Maggiormente valutabile quindi questo suo gesto. Questo ritorno alle fonti non per urgenza di derivazione metodologica, bensì per una indipendenza di aspirazioni che attinge all’analisi solo come problema di conoscenza: causa questa di quelle sue ricerche che lo portano, nell’atto di omaggio, proprio a tentare di cogliere il segreto dell’uomo nella sua solitudine e nella sua contemporanea necessità di comunicazione e da questo al tentativo di sommare le esperienze in un discorso che rinunci all’annotazione d’epoca per tradursi in storia di quell’epoca. Realizza Claudio Cintoli queste aspirazioni? Noi ci limitiamo a sottolineare la chiarezza di lettura che deriva dalle opere esposte chiarezza dalla quale apprendiamo questo ordine di ricerca. E diciamo che lo sforzo è dei più validi e merita la nostra cordiale posizione di attesa». − s.a., Cintoli al Segno, in «Il Tempo», 6 febbraio (mostra citata). − D. MICACCHI, Cintoli al “Segno”, in «L’Unità», 27 febbraio. «(...) Mentre invece idee e forme picassiane, anche se in maniera non appariscente e di gusto, circolano attivamente nella pittura e in quella dei giovani in ispecie. Non si tratta ancora di una posizione omogenea, ma di tante e tante strade e viottoli che portano i giovani artisti ansiosi di lavorare sul solido terreno della vera tradizione 249 moderna, a ripensare la lezione e il percorso di Picasso. Nell’ambito di questo rinato interesse per Picasso segnaliamo le opere recenti di Claudio Cintoli esposte al “Segno” (Roma, via Capo Le Case, 4). Si tratta di variazioni “picassiane” su disegni di maestri antichi (Dürer e Pisanello) e su Picasso stesso. Il Cintoli conosce bene il meccanismo della scomposizione cubista picassiana e sa far uso intelligente della iperbole picassiana in senso espressionista e surrealista. Sin qui tutto bene. Dove invece il giovane pittore si rivela acerbo è nella ricomposizione delle forme dopo la demolizione cubista, nella restituzione di un’immagine della realtà che formalmente serri un giudizio. Demolire criticamente ma dare contemporaneamente un giudizio e un’alternativa: questo a noi sembra il significato intimo della linea picassiana nella pittura moderna». Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 17 febbraio (bando) Tano Festa, Sergio Lombardo, Cesare Tacchi e Giuseppe Uncini partecipano alla selezione de I Premi di incoraggiamento 1962. Premio a Tano Festa (pittura). Bibliografia selezionata: − C. REFICE, Giovani pittori, in «La Fiera Letteraria», a. XVII, n. 27, Roma, 8 luglio, p. 6. «Alla Galleria Nazionale d’arte moderna è stata allestita la mostra annuale di artisti pertecipanti al concorso a premi di pittura, scultura e incisione. Anche quest’anno i giovani artisti che hanno presentato le opere sono stati in gran numero. Anche gli ammessi all’esposizione sono molti, ed è peccato che i premi siano in complesso pochi, perché alcuni non premiati lo avrebbero meritato. Ci sono artisti di tutte le tendenze. Tutti agguerriti, colti, tutt’altro che sprovveduti e mai più “provinciali”. Quello che manca, tuttavia, è una voce nuova, originale e soprattutto indipendente. Ognuno (astratto, semiastratto, figurativo) ha assimilato certe formule, ha ben capito una certa lezione, dimostra di aver capito la tendenza che ha preferito eleggere, ma spesso non realizza che cose note e note. Insomma, sotto i loro segni e tinte, leggi Pollock, Burri, Ajmone, Cagli, Dorazio, ecc., ma pochi delineano decisamente una personalità propria. Non crediamo affatto a carenza d’ingegni. È eccesso di cultura? È negazione dell’ispirazione? È la Dea Ragione che oggi, con la sua fragilità, sembra ascetizzare e troppo sublimare l’intelletto, a scapito grosso dell’uomo e dei suoi sentimenti? Comunque questi sono giovani “impegnati”, niente di domenicale, di dilettantismo spicciolo. (...)». Parigi, Galerie J., 28 febbraio Mimmo Rotella. Cinecittà. Testo di Pierre Restany (Cinecittà, ville ouverte). Mostra riproposta a Copenhagen, Gallerie Passepartout. « (...) L’affiche de cinéma a pris sur les murs d’Italie la place qu’occupent encore les affiches politiques sur les nôtres: ce qui détermine une autre qualité de l’expressivité latente. Le “regardeur” qu‘est Rotella n’y est pas demeuré insensible: très significativement, alors que Hains, breton de Paris, a rassemblé ses affiches politiques sous le thème de “la France déchirée”, Rotella, calabrais de Rome, a choisi “Cinecittà” comme terrain d’élection de sa série thématique. Dans le contexte dynamisé de la lacération anonyme, le brusque éclat d’un sourire, l’émergence d’un visage, le jaillissement d’un corpsprennent un relief inattendu: ce sont autant de stimulants de la vision dont le pouvoir expressif est porté à son paroxysme. Ces images-forces issues des murs romains sont dotées, par rapport à laur état originel, d’une sur-présence démythifiante. Elles sont devenues plus réelles que le mythe qu’elles prétendaient incarner, plus réelles que la réalité qu’elles représentaient: la star éclatée est moins “star”, mais infiniment plus “fernrne”; une tête de Charlot perdue dans une plage de tons morts, évoque soudain – irrésistibile et pahtétique – toute la misére du monde. Cinecittà lacérée est devenue une ville ouverte. Ouverte à notre libre et directe appropriation perceptive, à nos émotions et à nos sens; ses personnages démystifiés, délivrés de leur carcan mythologique, reprennent vie humaine et viennent à nous (...) ». Pierre Restany Parigi, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, 12 marzo Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Comparaisons. Peinture. Scuplture. Roma, Galleria La Salita, 28 aprile Mimmo Rotella e Fabio Mauri espongono con Pierre Fernandez Arman, Ettore Colla, Marchel Duchamp, Niki de Saint Phalle, Daniel Spoerri, Jean Tinguely nella mostra Oggetto-pittura. Testo di Cesare Vivaldi. «”Oggetto pittura” e “pittura-oggetto”: ecco, nel mare delle ricerche contemporanee di ispirazione, diciamo, neodadaista (dove tutto è ancora instabile, provvisorio, mutevole), due etichette che potrebbero servire a raggruppare tanti esperimenti ancora mal definibili in una giustificazione semantica. Intendo con “oggetto-pittura” un’arte realizzata con l’assunzione nella composizione pittoria e plastica di oggetti reali, e con “pittura-oggetto” un’arte che crei essa stessa degli “oggetti”, liberamente inventati seppure in molti casi ispirati dalla realtà, ci sembra possibile introdurre un primo “distinguo” che valga, almeno empiricamente, a raccogliere attorno a due soli motivi un lavoro comune a gran parte della giovane generazione americana ed europea, ma disperso in mille rivoli e motivato con giustificazioni ideologiche le più varie e disperate: neodadaismo appunto (termine tanto generico che ha finito per diventare generale), novorealismo, neocostruttivismo, neometafisica eccetera. Per quanto riguarda la posizione dei singoli relativamente all’“oggetto” le tendenze e i movimenti si scindono: il neodadaista Rauschenberg, per esempio, fa in certo qual modo dell’“oggetto-pittura”, mentre il neo-dadista Jasper Johns fa (ofaceva) della “pittura-oggetto”; il novorealista Spoerri fa dell’“oggetto-pittura”, ma il novorealista Yves Klein fa della “pittura-oggetto”. Evidentemente la distinzione che qui si propone, i due modi di pensare all’oggetto, isola un problema di fondo: l’atteggiamento dell’artista di fronte alla realtà sensoriale, di cui egli rende conto oassumendone dei frammenti nel modo più diretto (accontentandosi magari di stravolgerne, in un contesto insolito, gli usuali rapporti; con un procedimento di remota origine surrealista), o reinventandone alcuni dei più elementari dai visivi, un colore, un emblema, i cerchi concentrici d’un bersaglio. (…) Quell’“assunzione reale” di cui parla l’amico Restany, forse oggi è più a fuoco teoricamente e vive una stagione di grande fortuna soprattutto in Francia (oltre che in America), mentre la seconda tendenza è più viva in Italia e in Germania. (...) L’indagine è limitata all’Europa non tanto, come si potrebbe pensare, per motivi pratici, quanto perché il lavoro che gli artisti europei vanno svolgendo in questo senso è meno conosciuto e nello stesso tempo – prescindendo da ogni giudizio di qualità – più preciso. L’assunzione degli oggetti o dell’oggetto, cioè, è la più semplice e diretta possibile, senza i travestimenti o abbellimenti pittoricistici ai quali gli americani raramente rinunziano. (...) Il dato essenziale comunque – chiaro a chiunque osservi le opere esposte – consiste nell’assenza del lato ribellistico, anarchico, iconoclasta che caratterizzò il “ready-made” dadaista. I pittori di oggi non predicano la morte dell’arte ostentando nudi oggetti trovati: la loro ambizione è fare, con gli oggetti, dell’arte». Cesare Vivaldi Bibliografia selezionata: − G. URBANI, Neo e vecchio Dada, in «Il Punto», maggio. Roma, Galleria La Tartaruga, maggio Franco Angeli,Tano Festa, Gino Marotta, Mimmo Rotella, e Mario Schifano espongono con Alberto Burri e Salvatore Scarpitta nella mostra La materia a Roma. Parigi, Galerie Creuze, 15 maggio Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Donner à voir. Bibliografia selezionata: − P. RESTANY, Le “nouveau réalisme” de Rotella, in «Metro», n. 6, Milano, giugno. «(...) Toute la vie de Rome (le secret de son organique grandeur), est là, à portée de la main, tout entière dans la virtualité d’un regard, sur ces murs qui en ont tellement vu, subi, et qui ont finalmente survécu. Ce monde qui est un tableau git dans l’inerte des habitudes. Son émergence à la poésie réside tans la pleine virtualité d’un regarde. Voilà ce que Rotella a eu l’immense mérite de voir, bien avant les autres. Ces images et ces formes nouvelles ainsi captées en un coup d’oeil, il a voulu les faire siennes: le décollages des affiches lacérées est le mode immédiate de l’appropriation directe. Et Rotella, bien sûr, est pénétré de l’authentique grandeur de son geste, dont la finalité est trascendentale, puisqu’elle retire des bas-fonds de l’inerte des formes et des images, vouées désormais à une vie nouvelle, à un autre stade de la réalité. Notre société nous dis Rotella, a perdu le goût du changement et des transformation fabuleuses: devant ce renoncement dernier, l’arraghage et la lacération des affiches est la seule compensation, la protestation unique. Et si l’artiste le pouvait, s’il avait la force de Samson, il collerait “la place d’Espagne avec ses teintes d’automne tendres et molles sur les places rouges du Janicule aux lueurs du soleil couchant”. Cette authentique ferveur, voilà la vertu rotellienne: elle sacralise son regard, son geste, son choix. Non pas évidemment à la façon dont on se signe ou dont on vous bénit. Mais à la façon dont on conclut un pacte avec des être et des choses qui vous sont chers. L’attitude de Rotella s’identifie au réflexe de survie d’une race bien née qui n’entend pas renier sa culture, et qui retrouve d’instinct sa dignité d’être dans les manifestations de la réalité quotidienne et de la sociologie moderne. On voit ainsi se dègager la moralité intrinsèque du geste de l’artiste: il nous donne à voire la réaltité publicitaire d’aujourd’hui à travers un regard neuf, dont il assume la pleine responsabilité, luvide et consciente des conséquences de son acte. Ce n’est sans doute pas une coincidence si ce calabrais de Rome, au terme d’une démarche solitaire, occultée et logtemps incomprise, a rejoint sans le savoir le cheminement réaliste de quelques autres aventures européennes, menées a Paris au même niveau de l’exigence expressive. Il était normaldés lors que je serve de trait d’union entre ces aventures ésparses et que Mimmo Rotella adhère au Nuoveau Realisme». (*) Buenos Aires, Galeria Bonino, 28 maggio Mimmo Rotella. Collages. Bologna, Palazzo di Re Enzo, giugno Franco Angeli, Tano Festa, Francesco Lo Savio, Gino Marotta, Mimmo Rotella e Giuseppe Uncini espongono con altri artisti nella mostra Nuove prospettive della pittura italiana. Scritti di Francesco Arcangeli, Renato Barilli, Maurizio Calvesi, Duilio Courir, Enrico Crispolti, Andrea Emiliani, Oreste Ferrari, Emilio Tadini, Roberto Tassi e testimonianze di Giorgio Cusatelli, Umberto Eco, Franco Lodolini, Piero Raffa, Edoardo Sanguineti, Cesare Vivaldi. Si riportano soltanto i brani in cui si parla dei cinque pittori romani. «(...) L’informale ha lasciato aperto un bivio netto, ha indicato due sfoci: il primo è uno sfocio ravvicinato, immediato, nel nulla; l’altro è un esito di tutto, ma lontanissimo e ipotetico. Questo esito ha per prospettiva l’ignoto, ancora il mistero, ma un mistero nei cui confronti l’uomo avverte, per sintomi disordinati e febbrili, una crescente capacità di possesso. Su questa via, la pittura non può che captare isegni indeterminati, l’immagine sfocata, delle possibilità future; sforzarsi di far da ponte, anche senza intravedere l’altra riva. (...) Ma c’è anche, dicevo, un’alternativa di puro nulla. 250 È il prendere atto dell’inutilità di ogni sforzo. La disperazione si placa nel cinismo, l’anarchia si dimensiona nell’indifferenza, l’asocialità nel dandysmo. Nella ragione (essa è persino goffa nell’inanità delle sue evoluzioni) non si crede più, ci si rifugia nella pura intelligenza: almeno l’intelligenza è brillante, anche se altrettanto vuota. Mi sembra indubbio che il cosiddetto “neo-dada” (la cui legittimità storica è, direi dolorosamente, inconfutabile), tra tante sue manifestazioni di pura, e purtroppo crescente, imbecillità, ha avuto anche qualche sprazzo acuto, tra l’ironico e il patetico: specie in America. Da noi c’è stato qualche episodio; i manifesti strappati di Rotella vanno annoverati fra le trovate di qualche conto. (...) Un giovane e dotato pittore americano trasferitosi a Roma, Cy Twombly, ha tentato di stornare le intenzioni provocatorie e l’arbitrarietà del neo-dada verso nuove combinazioni diaristiche di racconto; e verso una sorta di dichiarazione autobiografica, intesa a denunciare un proprio ed autonomo condizionamento di vita, tra il lirico e il vegetativo. Un modo, cioè, non arrogante ma dolcemente indifferente di delimitare il proprio capo d’adozione privata rispetto a quello della società. Parallele, anche se diversamente inclinate, possono essere le intenzioni attuali di un Perilli e di un Novelli, che cercano di sottrarre questa dimensione minima di racconto ai limiti dell’autobiografismo, proponendo (specie il Perilli) un’istanza, direi comportamentistica, di intelligenza e di chiarezza. Un’esigenza di lucidità e di chiarezza ha da tempo sospinto anche Dorazio, sebbene in tutt’altre forme, più inclini ad un neo-razionalismo, verso un’ipotesi riduttiva della pittura. (…) Ad una sospensione assoluta del giudizio sui valori tende invece una precaria ma interessante corrente, variamente definita, e tra l’altro come “neo-metafisica”, che fa capo ad un gruppo di pittori romani più giovani (Schifano, Angeli, Festa, e con intenzioni vicine ma diverse Lo Savio e Uncini). Essi propongono delle superfici vuote, scandite da forme schematiche o percorse da minime variazioni (con oscillazioni, significative dall’intenzione sospensiva, dal costruttivismo al dadaismo), che hanno un valore, sostanzialmente, di simboli: simboli in sé, vagheggiati nella loro virtualità metafisica e non nei loro, indefinibili, significati. Essi danno, mi sembra, l’espressione testuale della condizione di attesa e di astensione (è in qualche modo, la loro, una poetica dell’astensione) che grava sul nostro momento; e accennano anche all’incipiente distacco di una nuova generazione, una generazione ambientata nel provvisorio benessere, onella provvisoria miseria, del “miracolo economico”. La loro esigenza di “disegnare”, di progettare, di stabilire dei rapporti e delle proporzioni, non è alienabile dalla condizione di vuoto in cui si sentono immersi, e in questo vuoto si sforzano di operare, di tracciare dei punti di riferimento». Maurizio Calvesi «(...) Infine la posizione di Rotella, che indubbiamente è a sé in quest’ambito, e per certi aspetti anzi ne sconfina, si motiva tuttavia, nell’ultimo anno, circa, d’attività, d’un particolare riferimento, che certo non ha carattere immaginoso fascinatorio, né la violenza di vincolazione dell’immagine sacrale, e che tuttavia posso ritenere magico, nel senso almeno d’un repertorio nuovissimo, rappresentato dall’imagerie che invade i nostri occhi, e più spesso anzi li urta, nelle strade cittadine: cioè le figure dei manifesti (ed a titolo di figura qui contano anche certe scritte). Anche se la natura di Rotella è sempre d’una vena di elegiaco lirismo, spesso queste tele hanno una efficacia notevole, ed offrono strumentalmente suggerimenti, che non sono più quelli del mero affiche déchiré (...)». Enrico Crispolti «(...) Proprio a Roma, tanto per fare qualche esempio vive e lavora uno dei pittori giovani più importanti e stimati su scala internazionale, l’americano Cy Twombly, ormai da anni cittadino romano; a Roma vive e lavora Dorazio (che personalmente consideriamo l’artista italiano più interessante della nostra generazione) insieme a Rotella e ad altri notevoli artisti. Infine a Roma sta maturando un gruppo di giovanissimi, non ancora trentenni (Schifano, Festa, Angeli, Lo Savio, Uncini) dai quali molto ci si può attendere in avvenire (...)» Cesare Vivaldi Roma, Galleria La Salita, giugno Tano Festa, Francesco Lo Savio e Mimmo Rotella espongono con Carla Accardi, Ettore Colla, Piero Dorazio, Lucio Fontana, Antonio Sanfilippo, Toti Scialoja. L’Aquila, Castello Cinquecentesco, giugno/settembre Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Alternative attuali. A cura di Antonio Bandiera e Enrico Crispolti. Berna, Galerie Schindler, 9 giugno Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Zero. Venezia, Ca’ Giustinian, 15 giugno Tano Festa, Mimmo Rotella e Mario Schifano partecipano con altri artisti al Premio Apollinaire. Rotella vince il primo premio con l’opera L’Assalto (1962). Spoleto, Festival dei Due Mondi, 21 giugno Tano Festa e Mimmo Rotella espongono con altri artisti nella mostra Drive in Gallery, organizzata dalla Galleria La Salita di Roma. Spoleto, luglio Mario Schifano espone con altri artisti nella mostra Disegno italiano contemporaneo. Colonia, Galerie Anne Abels, agosto Mimmo Rotella espone con Raymond Hains nella mostra Décollagen. Termoli, Castello Svevo, 1 agosto Tano Festa, Sergio Lombardo, Gino Marotta e Mimmo Rotella partecipano con altri artisti alla VII Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea. Premio di pittura Castello Svevo. Testo di Nello Ponente. Dublino, Italian Institute of Culture, 1 agosto Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Irish Exhibition of Living Art. Valdagno, Fondazione Marzotto, autunno Mimmo Rotella espone con Giuseppe Capogrossi, Piero Dorazio, Lucio Fontana, Cy Twombly, Joe Tilson e altri artisti nella mostra Pittura Contemporanea Comunità Europea 1962-63. Premio Marzotto. Bibliografia selezionata: − M. AZZOLINI, L’assegnazione del premio Marzotto a Matta, in «L’Unità», 22 settembre Roma, Galleria del Leone, 29 settembre Mimmo Rotella. Parigi, Galerie du Cercle, 24 ottobre Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Collage et objets. New York, Sidney Janis Gallery, 1 novembre Gianfranco Baruchello, Tano Festa, Mimmo Rotella e Mario Schifano espongono con Jim Dine, Roy Lichtenstein, George Segal, Andy Warhol, Christo, Daniel Spoerri, Jean Tinguely e altri artisti nella mostra New Realists. Testi di John Ashbery, Pierre Restany e Sidney Janis. Bologna, Galleria del Circolo di Cultura, 3 novembre Luca Patella. Testo di Renzo Vespignani. «C’è nelle acqueforti di Patella il silenzio dei pomeriggi domenicali nella periferia “decorosa” di Roma umbertina o novecentesca: le passeggiate, l’occhio alle vetrine piene di oggetti che perdono lo smalto, il taglio distratto della realtà proprio di chi occupa il tempo col nulla, e isola un’imposta, una fetta di cortile, uno spigolo di casa; scena di sole quinte che ricorda l’Eliot di Prufrock o della Terra Deserta. (...) Mondo disanimato, dove la figura umana ha lo stesso destino, o meglio l’assenza di destino, degli oggetti: si direbbe che l’uomo e la donna entrino in queste incisioni del tutto casualmente, non più rilevanti di una chiave inglese odi una lambretta. Adano ed Eva decorosamente vestiti, dimentichi del peccato, vanno a messa, digeriscono sulle panchine di Villa Borghese, cullano bambini rabbiosi, con l’accidia degli animali invecchiati in uno zoo (…)». Renzo Vespignani Roma, Galleria La Salita, 30 novembre Francesco Lo Savio. Testo di William Demby. «(...) Questa è la scoperta di Lo Savio: i miei drammi plastici, drammi di Luce e Spazio, non devono essere influenzati, non devono essere condizionati da altri oggetti, “animati” o “inanimati”, nel luogo dove si sono posti in riposo... locus, repos. I miei drammi plastici, drammi di Nascita e Creazione, Luce e Spazio, non devono essere condizionati o influenzati da altro dramma che non sia il dramma del movimento del sole: anche quando tu, lo Spettatore, camminerai intorno al mondo che ho creato – anche quando voi Spettatori inarticolati, tavole e sedie e altre opere fatte e create, trasmetterete le vostre vibrazioni – i miei drammi plastici, i miei drammi di Nascita e Creazione, di Luce e Spazio, si svolgeranno in uno spazio di silenzio fabbricato da me. Perché io li ho rinchiusi in un ventre, in un rifugio: un ventre e un rifugio di pietra impastata e di cemento». William Demby Bibliografia selezionata: − s.a., s.t., in «Il Globo», 21 dicembre (mostra citata). Londra, Seven Arts Gallery, dicembre Mimmo Rotella Spoleto, Palazzo Collicola, 9 dicembre Giuseppe Uncini partecipa con Giuseppe Ferrari, Renzo Vespignani e altri artisti al X Premio Spoleto. Uncini è presentato da Giovanni Urbani (Per un artista indefinibile). «(...) Se i suoi “cementi” mi piacciono, è infatti perché non mi sembrano affatto “contro” l’arte d’oggi, così che se in qualche modo le portano offesa, è paradossalmente con la loro assoluta mancanza di offensività. Giacché, caro Uncini, la situazione è proprio questa: vuole avere successo? Allora, scusi, perché invece di fabbricarseli da solo non sottrae nottetempo i suoi cementi al cantiere più vicino; oppure non vi incorpora dentro una sveglia, una bottiglia di coca-cola, anche solo un pettine rotto; o se no, visto che quando si fabbrica i suoi elegantissimi gioielli non è poi così austero e schifiltoso, perché non si fa forza e oltre alle signore non arreda altrettanto sofisticatamente i muri dei loro superattici, gli altri delle grandi industrie in cui lavorano i mariti, i parchi pubblici dove scorrazza e si tempra la relativa prole? Insomma, per dirla in breve, perché non fa il neo-dada alla Cesar oalla Rauschemberg, oppure il gioielliere “civile” alla Pomodoro? Ma già, anche messa così c’è il rischio di avallare un altro mito: quello dell’artista solo contro tutti, del neo-maudit che mentre gli altri soggiacciono alle lusinghe dei tempi, si rode in petto per i torti subiti da parte dei 251 superattici, del neocapitalismo e dell’infanzia. Ma Uncini non è certo un protestatario: quest’ultimo è quasi infallibile sistema per avere assicurata, oggi, una vita facile. (...) Sono ormai decenni che la sensibilità contemporanea è ricorrentemente tentata da questo difficile cammino a ritroso, ogni volta però ritraendosene così a precipizio da ritrovarsi, a esperienza fatta, sempre più inoltrata nella direzione opposta. Si cominciò coi ready-made di Duchamp, e il contraccolpo fu tale che si arrivò al Surrealismo, al trompe-l’oeil dell’oggetto inesistente. Successivamente, gli ulteriori scatti di questo meccanismo a doppio effetto non sarebbero mai stati così vistosi, ma per il semplice motivo che a ogni nuova sbirciatina verso la realtà crudelmente oggettuale, questa avrebbe sempre più condisceso a ricadere nel suosolito vizio di “copiare” l’arte. Così in una macchia casuale di colore avremmo presto imparato a riconoscere un partito decorativo come un altro; nel terreno sotto i nostri piedi un Dubuffet; in una tela di sacco un Burri, in un Burri un Mondrian e via dicendo. Il seguito è noto: i neo dada americani avrebbero inventato il monumento al vecchio ready-made; la nuova figurazione sta felicemente venendo a capo del suo angoscioso problema: come “rifare il Museo” sui fumetti e sulla segnaletica stradale. Se questa, come sembra, è la sola via maestra verso l’arte, le prospettive su cui apre sono in effetti due: o avremo una realtà assolutamente coestensiva in tutti i suoi aspetti (fumetti e segnaletica compresi) alla nostra sensibilità estetica; o avremo un’arte che non s’indirizza alla nostra sensibilità estetica, e che perciò aggira gli “aspetti” della realtà per catturarla in uno strato più profondo. Nel primo caso possiamo pure smettere di fare arte, perché questa è già tutta data nell’epidermide visibile della realtà; nel secondo caso dovremo semplicemente smettere di credere che stiamo facendo arte, col risultato che forse riusciremo a farla come è sempre stata fatta: cioè inconsapevolmente e avendo di mira non gli aspetti ma il senso invisibile della realtà. Uncini, con i suoi cementi rinettati da ogni estetismo, con le sue “cose” reali che non somigliano a nessun aspetto della realtà, è senz’altro indifendibile sul piano del “credere di fare”, dell’illusione della sensibilità estetica. Perciò non cerca né ha bisogno di essere difeso sul piano del “fare”, perché è li che facendo crea, e creando ci aiuta a fondate un nuovo senso della realtà. Così risparmiandoci di trovargli un posto nel mondo. Che sarà il nostro stesso, se mai lui o noi riusciremo a trovarlo». Giovanni Urbani Roma, Galleria La Salita, 15 dicembre Franco Angeli, Tano Festa, Fabio Mauri, Mimmo Rotella, Mario Schifano e Giuseppe Uncini espongono con altri artisti nella mostra Oggetto utile: sedia, piatto, letto, armadio, specchio, ecc. Roma, Autoscuola Schiavo, 28 dicembre Giuseppe Uncini espone con Gastone Biggi, Nato Frascà, Achille Pace, Pasquale Santoro (prima mostra non ufficiale del Gruppo Uno). Espongono anche Piero Dorazio e Giulio Turcato. 1963 impigliati nella nuova avventura dell’uomo; ma si trattava, allora, di una scoperta vista dall’esterno. Oggi il rapporto è mutato perché alla macchina, noi, ci siamo dentro. Essa ci condiziona. La Maselli riesce a cogliere questo momento della nostra storia – il cedimento dell’uomo – attraverso una singolare pittura che si sottrae alle influenze delle odierne correnti ufficiali. Di informale o astrattismo che sia, nessuna traccia; di neorealismo neppure. Forse bisogna rifarsi ad una nuova scuola pittorica nord-americana, di cui Cesare Vivaldi ci ragguaglia presentando la pittrice, da cui Titina Maselli avrebbe attinto durante un lungo soggiorno rivelazioni essenziali e determinanti. Se è così, l’innesto è avvenuto sul tronco stagionato di un “Novecento” italiano, quel movimento che, come si sa, non fu mai uno stile, ma uno stato d’animo riflesso da varie forme stilistiche, che si avvaleva anche della esperienza futurista. È la via per rintracciare un filo conduttore che ci aiuti a inquadrare l’originale e personalissima visione artistica della pittrice romana. Si tratta di una pittura colta, ma non sofisticata; di una pittura che si scopre all’improvviso, come in una notte fonda l’improvviso lampo che ci illumina un dettaglio di un mondo non amico». − s.a., Titina Maselli alla Nuova Galleria, in «Nazione Sera», 2 febbraio (mostra citata). − s.a., La Maselli alla “Nuova Galleria, in «La Lotta», 7 febbraio (mostra citata). − s.a., s.t., in «Avanti», 10 febbraio (mostra citata). − s.a., T. Maselli, in «Carlino Sera», 12 febbraio, (mostra citata). − M. AZZOLINI, Maselli, in «L’Unità», 16 febbraio. «(...) Non si pone, nella pittura della Maselli, il dilemma figura o astrazione, ma la rappresentazione diretta o l’allusione trovano una misura che sovente le compendia in un risultato di indubbia efficacia comunicativa. È in questi termini che la calandra di una potente “Jaguar” – il mito cioè della velocità accessibile – invasa dagli occhi allucinati di tanti fanali, suggestiona con la potenza dell’incubo, o la parte posteriore di un camion, sull’asfalto plumbeo, si fa inghiottire dal buio della notte, come molte delle umane speranze; oppure il vigoroso duello dei pugili sprigiona la sua dinamica sulle corde del ring, tese come rette. Nel ritratto frastagliato, ma integro nella sua personalità, di Greta Garbo, emerge il fondo patetico della pittrice, insieme alla nostalgia di un tempo più disteso, in cui la misura dell’uomo erano i suoi sentimenti». Monaco, Neue Galerie im Künstlerhaus, 8 febbraio Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Les Nouveaux Réalistes. Roma, Galleria La Tartaruga, 9 febbraio Franco Angeli, Umberto Bignardi, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Renato Mambor, Fabio Mauri, Mimmo Rotella e Cesare Tacchi espongono con Achille Perilli, Peter Saul e Cy Twombly nella mostra 13 Pittori a Roma. Catalogo con poesie di Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Antonio Porta, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani. Testi di Umberto Eco (Un nuovo modo di vedere, estratto da Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Milano, Bompiani, 1962), di Gillo Dorfles (L’arredamento urbano, estratto da Almanacco letterario, Milano,Bompiani, 1963) e di Cesare Vivaldi (Un realismo di massa, estratto da «Tempo presente», a. VIII,n. I, gennaio 1963, pp. 81-82). Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 13 febbraio (bando) Mario Schifano e Giuseppe Uncini partecipano alla selezione de I Premi di incoraggiamento 1963. Premio a Mario Schifano (pittura). Milano, Galleria dell’Ariete, s.d. Mario Schifano. Minneapolis, Minneapolis Institute of Arts, s.d. Fabio Mauri espone con altri artisti nella mostra Eight contemporary artists from Rome. Parigi, Galerie J., s.d. Fabio Mauri espone con altri artisti nella mostra L’Objet presenti. Parigi, Galerie Sonnabend, s.d. Mario Schifano. Roma, Galleria La Salita, s.d. Tano Festa espone con altri artisti. Bologna, Nuova Galleria, 29 gennaio Titina Maselli. Testo di Cesare Vivaldi. Bibliografia selezionata: − s.a., Un ritratto della Garbo nella mostra di Titina Maselli, in «Carlino Sera», 30 gennaio (mostra citata). − VICE, Titina Maselli alla Nuova Galleria, in «Il Resto del Carlino», 30 gennaio. «Gli emblemi del nostro tempo condizionano, anzi informano la pittura di Titina Maselli, la pittrice romana che ha aperto ieri una mostra personale alla Nuova Galleria di via Farini. Gli emblemi, potremmo dire ugualmente i miti, sono la macchina, la velocità, il divismo, il rotocalco, la pubblicità. E l’uomo? Oh, l’uomo... ugualmente emblematico e per di più alienato. La Maselli ce lo presenta imprigionato in un destino protervo: sul ring, in una luce irreale, a dare e ricevere cazzotti. Un residuo di umana tenerezza resiste, ma è divenuto un rictus sul volto consumato e malinconico di Greta Garbo, la grande diva intravista in “primo piano” su uno schermo sgualcito, quasi allucinata. Questa è la condizione umana che la pittrice ci propone non tanto con spirito di denuncia, quanto con commossa o consapevole partecipazione. La insistente presenza della macchina nel mondo artistico della Maselli può sembrare, ma solo sembrare, un cavallo di ritorno. I futuristi per primi si trovarono Firenze, Galleria Quadrante, 22 febbraio Giuseppe Uncini espone con Gastone Biggi, Nicola Carrino, Nato Frascà, Achille Pace e Pasquale Santoro (Gruppo Uno) nella mostra Sei pittori romani. Testi di Giulio Carlo Argan (Sei pittori romani), Palma Bucarelli (Un impegno etico) e Nello Ponente (Nuova volontà di costruzione). «Questi sei pittori non si sono raggruppati intorno a un programma, ma ad una direzione di ricerca: l’esame di una situazione, la verifica di certi valori, l’esperimento di sviluppi possibili. La pittura di materia e di gesto ha eliminato lo spazio e il tempo come categorie a priori, precedenti ad ogni apparizione di immagine; ma l’immagine, benché situata fuori di uno Spazio e di un tempo dati, realizza ancora una condizione di spazio e di tempo inseparabile dall’estensione della materia e dalla durata del gesto. Per questi pittori, che non rinnegano l’esperienza dell’Informale ma ne traggono le conseguenze, al principio è l’immagine, e l’immagine crea uno spazio ed un tempo, che non sono concetti astratti ma ancora immagini, e immagini finali, ultime. Lo scopo della ricerca comune è di ridurre al minimo, possibilmente all’unità, l’immagine prima e l’ultima, il primo atto d’esistenza e il limite estremo del pensiero, unificando i due termini in una medesima immagine che potremo chiamare continua o infinita. In tutti è chiara una volontà costruttiva che non si identifica, come nei primi costruttivisti, con uno schema razionale: la ragione, come qualità tipicamente umana, non ammette schemi e implica nel suo processo (di cui perciò si vogliono bruciare gli stadi intermedi) tutta l’esistenza. (...)». Giulio Carlo Argan «(...) Il rigore, la regola dell’impaginazione, la suddivisione delle superfici in uno spazio apparentemente identificato, il senso della proporzione e della struttura, non significano affatto un ritorno indietro, una meditazione ripresa su una poetica esaurita da parecchi anni e ormai consegnata alla storia dell’arte con tutta la sua non ripetibile validità. Non significano, cioè, il ripensamento di una pittura di impianto geometrico, attuato con lo spirito e con i mezzi del neoplasticismo. Queste opere, invece, si riallacciano direttamente alle più recenti esperienze informali che proprio del neoplasticismo, nella condizione e nell’espressione, hanno rappresentato l’antitesi. L’indagine sulla materia, l’apertura delle forme, tutto ciò, insomma, che ha 252 caratterizzato l’affermarsi delle poetiche informali, ne sono la premessa immediata». Nello Ponente Roma, Galleria La Salita, 28 febbraio Fabio Mauri. Testo di Cesare Vivaldi. «Convincere Fabio Mauri a fare una mostra è un poco come voler persuadere un piccione viaggiatore a fruttare commercialmente la propria potenza d’ali, a considerarla non solo come un dono della natura – da godere liberamente e magari dissipare senza dover renderne conto a alcuno, in perfetta letizia – ma come un bene sociale, da cui derivano doveri e diritti. Non esiste forse un altro artista, come Mauri, tanto istintivamente, nativamente pittore quanto poco portato alla “carriera” del pittore: un esempio addirittura scandaloso per chi concepisce l’arte come una routine, che di mostra in mostra, di vendita in vendita, di piccolo successo in piccolo successo, approdi a un decoroso professionismo, in regola con le quote sindacali e con il fisco. (...) Le contaminazioni che Mauri fa nel suo intimo tra attività apparentemente diverse o addirittura contrastanti (nel campo dello spettacolo, in quello dell’organizzazione culturale, in quello della pittura), la stessa complessità del suo iter pittorico, svoltosi attraverso una serie di conquiste subito abbandonate, trascese, riprese, contraddette, non sono affatto un sintomo di indecisione o di debolezza. Ci piacerebbe molto poter studiare filologicamente il lavoro di Mauri per dimostrare, tesi e date alla mano, quante volte egli s’è trovato in netto anticipo rispetto alla normale cultura artistica, e quante volte egli ha enunciato dei temi che sono stati poi sfruttati a fondo (qualche mese o qualche anno dopo) magari in America o Parigi: ma non è questa la sede adatta a un discorso che dovrebbe del resto coinvolgere anche altri pittori di Roma, città imminente disgregata e disgregante, ma da qualche anno seconda a nessuno per la prontezza nel respirare quanto c’è di vivo nell’aria del tempo. (...) I quadri esposti rappresentano il meglio di un paio d’anni di lavoro in cui Mauri ha indagato a fondo le possibilità di una “figurazione simbolica”, di un modo di raccontare (ironico e poetico quanto sliricizzato) mediante la giusta posizione di simboli visivi, pescati nella più corrente e banale civiltà di massa. Il tema dominante è quello dello “schermo”, cinematografico o televisivo, che è aggredito da elementi stilizzati di realtà (targhe di automobili, uno steccato, un colore nella stesura più piatta possibile eppure vagamente evocativo) e che a sua volta lascia filtrare in trasparenza elementi altrettanto reali e altrettanto stilizzati: un disco, una successione di onde che nella loro astrazione alludono ai gradi sulle maniche delle giacche militari, un campo da gioco eccetera. (...) La satira dei temibili monstra fra i quali si svolge la nostra vita quotidiana non potrebbe essere più feroce e insieme più dissimulata, sottile e elegante. Il gioco delle trasposizioni e delle metafore – per cui ogni quadro è anche il simbolo di un edificio, esterno + interno, col suo bravo tettuccio appena accennato – non potrebbe essere più fine e insieme più candido. Mauri è un talento poetico che ha conservato la capacità di stupirsi con i mezzi più semplici». Cesare Vivaldi Bibliografia selezionata: − F. GUERRIERI, Galleria “La Salita”, in «La Vernice – Venezia», febbraio (mostra citata). Livorno, Casa della Cultura, marzo Mimmo Rotella partecipa con altri artisti al VII Premio biennale di pittura e scultura Amedeo Modigliani, Città di Livorno. L’informale in Italia fino al 1957. A cura di Maurizio Calvesi e Dario Durbè. Genova, Galleria Rotta, marzo Giuseppe Uncini espone con Gastone Biggi, Nicola Carrino, Nato Frascà, Achille Pace, Pasquale Santoro (Gruppo Uno). Testi di Giulio Carlo Argan, Palma Bucarelli e Nello Ponente, già pubblicati nel catalogo della mostra alla Galleria Quadrante (Firenze, febbraio 1963). Scritti anche di Eugenio Battisti, Giuseppe Gatt e Franco Sossi. «(...) Proprio perché è una convinzione, il clima che li unisce risponde ad esigenze personalissime, ed incide, con gravità maggiore o minore, sulla singola evoluzione generale. Mi spiego: per alcuni il momento di oggi significa una rottura (è il caso di Frascà e Santoro); per altri ne è la chiarificazione (Biggi e Carrino) o la continuazione (in Uncini e in Pace). Ciò deriva anche da un fatto di età; dopo i trent’anni si è meno rivoluzionari ed astiosi verso sé stessi. Ma, quali ne siano le ragioni, certo la fase attuale risulta così differenziata, assai in profondo. Non solo: nasce anche il problema, a volte grave della reciproca influenza che può essere positiva, ma anche negativa; fortunatamente i sei amici discutono fra di loro, più che influenzarsi a vicenda. Eugenio Battisti «(...) Il fenomeno di un positivo recupero di ipotesi oggettive non è nuovo nella fenomenologia delle arti: l’intera tradizione concretista europea – volta a volta dialetticamente opposta come “geometria” a tutto quanto non era geometrico nello spirito è antenata illustre. Ma il peso culturale che la odierna strumentazione in oggetto porta con sé, travalica di gran lunga, naturalmente come germe, ogni precedente. Per gli artisti di oggi, infatti, si è trattato – omeglio si tratta – di “ricostruire” una certezza oggettiva dopo che l’informale storico, con le sue ultime risoluzioni gestuali e segniche, aveva fatto tabula rasa di ogni valore che non fosse prepotentemente e radicalmente “privato”. Non si era trattato solo di ribaltare le ormai frustre e scontate categorie dello spazio e del tempo su un registro intimo ed interiorizzato all’estremo, quanto di fagocitare in toto l’oggettivo e ridurlo ad uno stato soggettivo. Il mondo non era più né plurivoco né biunivoco, solo soggettivo e soggettivizzato. Da una simile prepotenza poetica si sta, dunque, cercando di uscire; e “Gruppo Uno” è certo uno dei più motivati e solidi tentativi in tal senso: tornare a strumentare una versione del mondo che non sia più partecipazione privata – o soltanto questa – ma libero racconto e positiva costruzione aperta al contributo e, soprattutto, alla lettura. In tal modo non è solo l’opera nella sua reale autonomia che se ne avvantaggia, ma anche la cosiddetta “fruizione” e quindi la fisionomia che l’opera assume in chi la legge. Queste osservazioni, che vogliono essere un modesto contributo alla situazione delle opere di questi sei artisti, sono state dettate più da un’urgenza di documentare culturalmente la loro posizione che non da quella di darne un quadro estetico propriamente configurato. E ciò perché mi pare che il peso di questa ipotesi sia molto più rilevante sotto il profilo culturale, che non su quello – mi si consenta – estetico, ove certe risultanze sono state già vagliate ed approfondite – anzi approfonditissime – dal concretismo (neoplasticismo, costruttivismo, strutturalismo, suprematismo, etc.) dal quale “Gruppo Uno” ottiene, proprio e maggiormente sul piano culturale, la più significativa diversificazione. Voglio dire che, mentre le ipotesi geometriche che ci hanno preceduto erano mosse, oltre che da un’intrinseca ragione poetica, dall’esigenza di creare un’alternativa valida dell’espressione a strumentazioni che si chiamarono storicamente surrealismo. Il problema è la necessità di trovare una via di uscita e di risoluzione immediate. Penso, quindi, che in tal senso si debba intendere quel quoziente esistenziale che è senza dubbio individuabile all’interno di queste “geometrie”, peraltro neppure così chiare e rigorose da essere in contraddizione con qualunque accenno al non-razionale: esistenziale in quanto necessitato, e necessitato profondamente. Quanto ai punti di contatto tra i sei, non ve ne sono molti. A mio parere il denominatore comune, potrebbe essere reperito in una vocazione alla “costruzione” dell’opera; nella liberazione di una sottesa poetica nel senso di “poietica” che, tornando alla originaria classificazione dell’arte, permettesse di uscire dalle secche nelle quali la produzione artistica era stata spinta dai concetti di arte come comunicazione e di arte come espressione». Giuseppe Gatt Parigi, Galerie Breteau, 22 marzo Giosetta Fioroni. Bibliografia selezionata: − s.a., Selection Loisirs, in «L’Express», Paris, 28 marzo, p. II. − s.a., Un’italiana a Parigi, in «Tempo», a. XXV, n. 13, Milano, 30 marzo. − R.J.M., Giosetta Fioroni, in «Cimaise», a. X, n. 64, marzo-giugno. − BERENICE, s.t., in «Paese Sera», Roma, 10 luglio. Firenze, Palazzo Strozzi, 23 marzo Tano Festa e Mimmo Rotella partecipano con altri artisti alla I mostra mercato. Roma, Galleria Scorpio, aprile Lo Savio. Bibliografia selezionata: − C. REFICE, s.t., in «La Fiera Letteraria», a. XVIII, n. 15, Roma, 7 aprile, p. 6 (mostra citata). Roma, Galleria La Tartaruga, 8 aprile Sergio Lombardo, Renato Mambor e Cesare Tacchi espongono in Una mostra di tre giovani pittori romani. Testo di Sergio Lombardo. «Qualunque rappresentazione fantastica di un sentimento emotivo, secondo un vecchio schema individualistico, deve essere qualificata come singolare. I concetti esistenzialistici hanno accentuato, portando all’estremo una posizione romantica, i caratteri della singolarità e della irripetibilità del vissuto umano. In realtà sul piano dei fatti concreti si può rilevare come ogni nostro vissuto oggi non sia più individuabile e irripetibile, ma esattamente il contrario; Se noi “existiamo” in un momento qualunque della nostra vita, ci sorprendiamo in un atteggiamento già visto, già scontato. Appunto perché l’uomo moderno è stato continuamente aggredito (ormai per noi non si parla più di aggressione, ma di assimilazione) dalle immagini percettive della pubblicità, del cinematografo, della stampa, della macchina; egli ha perso il suo campo di dominio individuale per essere assimilato in un infinito casellario di comportamenti già pronti e messi a disposizione di tutti. Qualora esistesse ancora un individuo che volesse tentare un’azione originale, costui diverrebbe pazzo nel trovarsi irretito dal giudizio collettivo che lo classifica inevitabilmente, qualunque cosa gli faccia, nell’uniformità di un comportamento tipico. (...) L’informale non era in generale che un tentativo di trovare per assurdo qualcosa di originale, di affascinante, di soggettivo nella condizione dell’uomo moderno. Se l’informale fece questo tentativo per via introversa, vagamente mistica e a volte disperatamente patetica, il neo-dadaismo, il nuovo realismo, la pop-art, non hanno sorte diversa nel ripetere lo stesso tentativo in tono inquisitorio, viscerale, esistenzialistico, anche se a volte la loro protesta sia enormemente estroversa, positivistica o compiaciutamente antilirica. Il fatto è che in loro resta la liricità ormai sterile della protesta iconoclastica (Lichtenstein), altrimenti ci propongono un’ibrida convergenza di espressionismo, surrealismo, art brut (Rauschenberg, Wesselmann, Rosenquist, etc. in America, Hamilton, Blake, Hockney, Philips, Teasdale, etc. in Inghilterra). La nostra pittura non è protesta, ma narrazione di fatti concreti e giudizio filtrato attraverso l’Erlebnis del nostro essere nel mondo tutti igiorni; è il recupero della coscienza in una civiltà dove ogni tipo di reazione emotiva normale o abnorme è scontato nell’uniformità automatica dei comportamenti tipici. (...) A noi non basta accettare e utilizzare, altrimenti il dipinto ci diventerebbe una specie di riflusso all’esterno di tutte le immagini che si trovano nella sfera endotimica. (...) Noi diciamo invece che tali immagini non restano 253 sullo schermo televisivo o sul fumetto, ma entrano nei rapporti sociali in cui si viene a creare un chiuso determinismo riflettente appunto quegli atteggiamenti-tipo originati dalla televisione, dalla stampa, dalla macchina e tale determinismo finisce per invadere il campo della originalità individuale fino alla sterilizzazione di ogni spunto emotivo e di ogni interesse nei rapporti intersoggettivi». Sergio Lombardo Bibliografia selezionata: − A. BOVI, Lombardo, Mambor e Tacchi, in «Il Messaggero», 10 aprile. Milano, Galleria Schwarz, 10 aprile Mimmo Rotella espone con François Dufrêne, Raymond Hains e Jacques Villeglé nella mostra Pierre Restany presenta Dufrêne. Hains, Rotella, Villeglé. Roma, Galleria La Tartaruga, 24 aprile Umberto Bignardi. Testo di Forrest Williams. «Si legge nei quadri di Bignardi un processo di meditazione propedeutica che cerca di esplorare le varie potenzialità delle immagini prese dal mondo dei mass media e dall’iconografia della scienza. Il probelma creativo è allora quello di stabilire una relazione fra queste potenzialità che si riferiscono in diversi modi al nostro mondo e quelle del linguaggio pittorico usuale. La soluzione è un particolare dialogo attivo fra i due ordini, mosso da un’emozione sostenuta e intensamente lirica. Dovremmo notare che le fotografie e i diagrammi che funzionano in questi quadri giuocano nella nostra esperienza quotidiana un ruolo tanto vasto e determinante; essi diventano infatti più reali degli oggetti rappresentati. Per esempio, le illustrazioni pubblicitarie, non molto tempo fa, indicavano di solito cose che esistevano altrove, cioè in completa indipendenza dalle loro immagini. Oggi sarebbe più vero affermare che queste immagini dei mass media più che copiare o indicare il loro oggetto, lo creano. La macchina che noi oggi guidiamo è forse più il simbolo stampato in migliaia di copie sui rotocalchi che non un meccanismo a quattro ruote. Le macchine consumano benzina, ma noi, se volete, consumiamo non macchine ma immagini di macchine. Infatti quando l’immagine sembri così contenere l’oggetto, regge quel tipo di pensiero che Ernst Cassirer chiamava “coscienza mitica”. E contrariamente a precedenti teorie troppo razionalistiche, viene ora riconosciuto che il pensiero mitologizzante costituisce una delle forme ineluttabili della organizzazione dell’esperienza che ha nella cultura umana manifestazioni sia valide che patologiche. La maniera con la quale Bignardi si mette in relazione con le immagini usate implica decisamente che questi simboli sono gli ingredienti di un mondo mitico che sta configurandosi intorno a noi nella nostra società tecnologica. Dato che queste immagini non sono nella nostra cultura meri segni fissi di cose o fatti, ma piuttosto agenti dinamici che aprono un discorso fra noi e la realtà, vi è nel lavoro di Bignardi il tentativo di rivedere, di riscoprire in un nuovo contesto gli elementi costanti della pittura iconografica. Queste icone sono allo stesso tempo prosaiche e fantastiche, invadenti e distaccate, esplicative ed opache. L’arte di Bignardi è in continuità con questa struttura di immagini generatrici che ci chiamano, ci attirano, ci minacciano, ci seducono, ci educano e ci mistificano. Questi quadri sembrano dire: viviamo ed agiamo in una “seconda natura mitica”, dobbiamo affrontarla quindi prendendone coscienza, armonizzandola alla nostra sensibilità e alle nostre esigenze umane». Forrest Williams Roma, Galleria Odyssia, 24 aprile Mario Schifano. Tutto Schifano. Scritti di Maurizio Calvesi e Cesare Vivaldi. «Seguo con particolare interesse Schifano dalle sue prime uscite in collettive romane; alla “Salita” (1960) nella mostra con Angeli, Festa, Lo Savio, Uncini, e in ripetute occasioni, nel ‘61, alla “Tartaruga”, tra pittori come Twombly o Kounellis o Rotella. Erano quadri originalissimi: verniciati con una sola tinta o due, a coprire l’intero rettangolo della superficie o due rettangoli accostati; la vernice era data, come ora, su uno strato di carta da pacchi, incollata sulla tela. Un numero o delle lettere (ma solo talvolta) isolati o marcati simmetricamente; qualche gobba della carta, qualche scolatura: il movimento della pittura era tutto lì. Ma l’accento non cadeva sulla pittoricità del casuale, cui l’informale ci aveva fatto l’occhio e, fino alla corrività, il gusto. Non era pura assunzione del fenomenico, né sul piano di un’organicità cercata internamente alla materia e anteriormente al costituirsi di una forma, né su quello di un’analisi psicologica della forma, ovvero d’applicazione gestaltica. Antipittura, allora, come gesto nullistico e dadaistico? O invece “neo-dadaistico”, o ancora “novo-realistico” (sono i termini che allora correvano, e già ora inutilmente condannati e deposti, prima di tentarne una stringente riduzione e una migliore messa a fuoco), come appropriazione, cioè, di un oggetto o di un’immagine-oggetto scorrente sotto la nostra quotidiana esperienza? Non esattamente, sebbene quest’ultimo modo di interpretare fosse il meno improprio. Si parlava anche (molto generalmente, e non soltanto per Schifano) di pittura “segnaletica”. (…) Ma l’altro attributo di “neo-metafisica”, riservato alla pittura dei cinque artisti già ricordati, attributo alquanto provvisorio perché aveva soprattutto la funzione di individuare una tonalità comune alle ricerche, ormai chiaramente differenziate, di questi giovani affacciatisi insieme (tra cui Lo Savio ed Uncini, in nessun modo “segnaletici”), poteva aggiungere qualcosa anche per Schifano. I brevi emblemi, i saltuari contrassegni di Schifano erano isolati in campi regolari, non geometrici, ma solo schematici, Una scansione non di spazi, ma di momenti, o di vuoti; di tempi vuoti. Il vuoto può essere un’idea cosmica, d’infinito, e corrispondere a una forma aperta; ma trova una sua necessaria cornice, regolare come le piazze di De Chirico, quando è la sospensione di un’idea, la testimonianza di un limite e di una vacanza, quando è nostalgia (nel caso di De Chirico) o invece attesa di un pieno. I quadri a una o due tinte, a campi schematici, di Schìfano potevano anche essere la proiezione testuale, non poetica, ma realistica, apsicologica (più psicologica e nostalgica, invece, in Festa) di uno stato recettivo di attesa. Piccoli segni collocati come ad occupare il posto di parole a venire; un’attesa concreta di possibilità che già davano il segno di sé. Un modo di accettare e di verificare la condizione “zero” informale e post-informale, non come risultato di un conteggio a rovescio, ma come disinvolta partenza per un nuovo conteggio all’insù. (...) Il quadro vuoto da cui partiva Schifano non è spazio alla Mondrian, ma fa pensare di più alla classica tabula rasa: che gli antichi paragonavano alla tavoletta di cera, su cui i segni della conoscenza dovranno imprimersi. Lo strato di vernice ha la stessa pregnanza di quella della cera. Non soltanto contiene potenzialmente i segni dell’impressione; ma già concretamente dispone il campo della percezione ad un incontro con i suoi dati; è già, esso stesso, un dato ricevuto, un momento in atto della percezione. Lo strato di vernice è, nello stesso tempo, materia di percezione e percezione di materia. Vernice, invece che cera, perché la vernice è per eccellenza la materia coprente, la materia veicolo direi, delle immagini, o degli oggetti, di cui la “vita moderna” è più fittamente intessuta: lo smalto delle carrozzerie che fanno da guaina alle macchine (auto o treni, aerei o scafi, macchina da scrivere o elettrodomestici), o della segnaletica. (...) Dunque la scelta di questa materia, invece di limitarsi, polemicamente, ad un’intenzione di anti-pittura, tendeva a predisporre un incontro nuovamente scambievole della pittura con i dati di una realtà da testimoniare, facendo risalire la pittura di almeno un gradino nella scala del puro oggettivismo materico che certo informel, e poi certo neo-dada le avevano fatto discendere. Questo incontro, avviene secondo un epidermico ma saldante contatto tra materia-veicolo dell’oggetto e materia-veicolo dell’immagine, stante che oggetto ed immagine si identificano nella medesima realtà percettiva. Le forme schematiche di Schifano si andavano sempre più precisando come campo; le tele orlate da contorni rettangolari, ad angoli smussati, somigliavano ad uno schermo preparato a ricevere, o ad un video appena acceso, che stia riscaldandosi; o se si vuole all’inquadratura d’un reflex fotografico, che debba dettagliare una zona di veduta o, allo stesso titolo, d’un finestrino d’auto o di aereo. Spesso il “campo” occupava solo parzialmente la superficie del quadro, lasciandone scoperta la parte inferiore, ma penetrata da una frangia di colature, come accennando, invece che ad una opposizione, ad un’osmosi di pieno e di vuoto, ad una continuità centro-periferia tra spazio inquadrabile, percepibile, e lo spazio comprensivo dell’inquadratura stessa. Intanto (inizi del ‘62) l’immagine “positiva” cominciava a realizzarsi, ad imprimersi, come per frammenti o per sillabe, nel campo: immagini pertinenti a quello stesso repertorio pubblicitario o segnaletico, la cui impronta emblematica aveva, fin dall’inizio, orientato la tipologia stessa del quadro. Scritte ricalcate dalle pubblicità dell’“Esso” o del “Coca cola”; ma come la fonte si faceva più esplicita, l’approccio ai temi più letterale e diretto, e quindi il parallelismo tra il quadro e l’insegna già scontato e non più stimolante come possibilità di metafora, l’interesse si focalizzava sull’operazione percettiva, sul ricalco del dato e l’ambientazione impressiva nel suo campo veicolare, nel suo proprio e pertinente, già individuato, medium materico. La fotografia (l’obbiettivo che inquadra un campo) è il mezzo di cui Schifano s’è servito per questo ricalco, proiettando materialmente, talvolta, sullo schermo delle sue tele la trama d’immagini già dettagliate dall’obbiettivo. (...) Schifano sostituisce, alla visione, la percezione di un’immagine-oggetto, cioè il distinto ed oggettivo farsi della immagine; e che egli intenda l’oggetto come relativo ad una tonalità, che si identifica con la continuità selettiva o la neutrale disponibilità del campo percettivo, è indicato direi proprio dal fatto che egli non ci presenta, di preferenza, oggetti isolati, ma frazionati, o ridotti quasi a grandi particolari, con una loro fisionomia di aperto dettaglio, in cui sono compresenti i caratteri di una singolare chiarezza e fluidità di contorni, per il continuo debordare della materia coprente. La mobilità di questa materia non è pittoricista, né psicologicamente allusiva, ma aderente appunto alla sua funzione veicolare, al suo carattere di medium legante e portante dell’immagine particolare, entro un campo potenzialmente totale. La stessa indicazione, anche in un senso, naturalmente, più lato, potrebbe venire dal titolo che Schifano ha, di getto, dato a questa mostra: Tutto.Dalle immagini, sillabate, delle scritte pubblicitarie, Schifano infatti si è esteso ad una tematica assai più vasta: il suo obbiettivo ha dettagliato i molteplici particolari di una realtà scorrente sotto isuoi occhi come, tra le mani, un album dalle pagine aperte. Messa a fuoco (senza astratto rigore intellettuale, ma secondo un organico processo) e precipitata dalle sue metafisiche attese la modalità percettiva dell’immagine, questa ha subito dato fondo alla sua fresca possibilità di prodursi; è esplosa allargando, con la sua tematica, il suo interesse alla vita. La pittura di Schifano è come un grande reportage, con le sue chiare didascalie: mare, incidente, particolare di paesaggio, propaganda, o’ sole mio. Le scritte emblematiche, intitolano ora una realtà che ci incrocia; che ci si presenta con la stessa evidenza “segnaletica” e topografica, nella sua dislocazione lungo i circuiti di asfalto che segnano il tragitto delle nostre giornate. Si dà, dicevamo, un condizionarsi dei nostri riflessi a questo modo di vita, e come un isolarsi delle nostre capacità percettive, e un polarizzarsi, ad esse relativo, delle nostre verifiche concettuali: un incidente è soltanto un incidente, il mare è solo mare, un albero è solo un albero, l’immagine vale come la parola; fuori, la parola, dalle complicazioni psicologiche o mentali di un discorso, come l’immagine è fuori dalle similari complicazioni di un contesto tradizionalmente pittorico o pittoricistico, e dentro soltanto ad un processo successivo e continuo di selezione percettiva, e di immediato riscontro concettuale. L’immagine è elementare, in quanto composta di elementi primi, visivi e concettuali. Il contorno dà il contesto-guida, un contesto non riassuntivo, traslativo, isolante, ma fenomeni- 254 camente aperto: più che linea (se la linea è un infinito, un tutto) è segmento, cioè porzione. Il colore è pigmento elementare, e non interessa né la qualità della sua stesura (cioè la sua frequenza e il tipo di rapporto con il disegno), ma solo la qualità-quantità del suo timbro: non importa che occupi e gradui l’intero contesto dell’immagine, ma che alluda alla concreta composizione di suoi elementi, che risponda all’elementare appello percettivo. Più che evocato, è nominato, ed è perciò equivalente al proprio nome o a quello degli elementi che designa, come l’immagine è intercambiabile con la parola che la significa: ocra, più verde, più azzurro, come terra, più alberi, più cielo, cioè paesaggio. (...) Se vogliamo inquadrare la pittura di Schifano in un clima generale, dobbiamo riferirci alla ormai universalmente conosciuta situazione sviluppatasi in America, intorno alla ben notevole personalità di Jasper Johns (una situazione che è probabilmente l’unica veramente in progresso nell’arte post-informale, situazione degli alti e bassi, dai valori discontinui, ma che ha punte anche, in giovani ad esempio come Jim Dine, di grande qualità e serietà) e ricordare anche (sempre fenomeno generale) gli attivi scambi culturali e di persone prime, come Twombly, tra l’America e Roma. Ma in questo clima la pittura di Schifano si distingue, sia per la documentabile precocità delle sue ricerche e per l’intera coerenza di sviluppi, sia per la sostanziale indipendenza del suo orientamento (di una complessità di assunti, anche proprio di resa pittorica, che è senz’altro più europea), e tanto più l’originalità e la misura dei suoi attuali risultati, che veramente ne fanno un caso isolato. Nuova figurazione? Se il termine non fosse già ormai così inutilmente logorato, qui cadrebbe a proposito, perché la figurazione di Schifano è davvero nuova, in quanto nasce da un approfondito riesame del linguaggio e si affida, ciò che unicamente fa novità, a un nuovo modo di vedere». Maurizio Calvesi «Mario Schifano è forse il talento pittorico più genuino che sia apparso a Roma dopo Burri. Un grande talento pittorico che può soltanto approdare ad alti risultati o perdersi: quasi impossibile è la via mediana dell’aurea mediocritas, dei successi parziali, della facile soddisfazione. O il fallimento (magari medicato dalle pompe mondane, alla Dalì) o il trionfo; un’alternativa diversa non esiste. Io ritengo che sin d’ora i risultati di Schifano siano eccellenti e che la sua personalità abbia già raggiunto una maturità relativa, tale da farlo considerare il pittore più dotato della sua generazione, in Italia. Qualsiasi cosa accada Schifano ha al suo attivo un’opera pittorica conturbante e originale, interessantissima anche per gli stimoli che può fornire al lavoro di altri giovani. Ma il continuo azzardo cui si espone, i pericoli che si diverte a sfiorare evitandoli di giustezza – in un modo così brillante e di volta in volta impreveduto da mozzare veramente il fiato persino a chi, come me, lo conosce a fondo – l’inquietudine che lo divora, la smania di bruciar tappe, di conquistare denaro-gloria-successo e soprattutto di raggiungere quel che sommamente gli sta a cuore, la pittura, la grande pittura, la vera e propria febbre del dipingere che lo avvampa, son tutte cose spiegabili solo tenendo ben presente la fortuna-sfortuna che il destino gli ha imposto: il peso di un talento quasi eccessivo. Schifano è condannato ad avere tutto o nulla. Conosco il pittore ormai da qualche anno, sin dalle primissime prove, e mai ho avuto un qualsiasi dubbio sulle sue qualità. Non mi è stato però facile capirne il temperamento in ciò che ha di migliore, sotto una superficie scostante e sconcertante. Quel suo correre rapinoso attraverso le cose del mondo, con l’aria di chi dalla vita vuol spremere tutto e subito, quel suo atteggiamento indifferente e irritante, in apparenza un po’ teppistico, verso i valori costituiti, icolleghi, i maestri, persino gli amici, quella sorta di furore sprezzante verso quanto non lo riguardi direttamente, possono benissimo essere interpretati come puro e semplice cinismo, arrivismo allo stato bruto, scoperto. In realtà ho finito col rendermi conto che tutte queste facce esteriori di Schifano sono sì reali, ma solo in quanto facce esteriori, in quanto maschere. Schifano è molto più indifeso di quel che egli stesso non creda e non voglia far credere: il nocciolo tenero e sensibilissimo del suo animo è la passione per la pittura. Se di cinismo o, meglio, di egoismo si può parlare nel suo caso, è nel senso che non esiste nulla al mondo che egli non posponga alla pittura. (...) I quadri esposti in questa mostra rappresentano il lavoro più recente di Schifano, limitato agli ultimi mesi del 1962 e ai primi mesi del 1963: un periodo non di svolta (come potrebbe pensare chi ha visto le sue tele di anni addietro, presentate in una precedente mostra romana) ma di acquisita consapevolezza. Alla luce dei quadri d’oggi assumono anzi una giusta prospettiva quelli del passato, al loro tempo un po’ ambigui per il troppo largo margine di possibilità che lasciavano aperto all’avvenire. La disponibilità di Schifano, che sino a non molto poteva sembrare opportunistica, pronta a cogliere tutti i suggerimenti che riuscisse a captare della pittura europea e soprattutto americana corrente (e quindi di volta in volta classificabile nel filone neo-dadista, in quello della cosiddetta pop art e prima ancora, tra il 1959 e il 1961, in quello neo-geometrico e rnonocromatico), si rivela sempre meglio come una disponibilità estetica, una qualità tipica cioè di un temperamento capace di cogliere il lato poetico di ogni cosa, senza preclusioni e senza preferenze, come una “fame di realtà” che corrisponde punto per punto alla sua fame di pittura. (...) Non si tratta di pop art: per lo meno non si tratta solo di pop art. Oltre alla condanna della civiltà di massa fatta coi mezzi stessi della civiltà di massa (com’è tipico della pop art) Schifano mette nei suoi quadri qualcosa di più: la sua fame di pittura. Egli rifiuta l’infantilismo, la voluta idiozia brut della pop art per puntare risolutamente sulla via di un possibile “grande stile” moderno. Ed eccolo trarre profitto di tutte le lezioni di ieri e di oggi (dalla luce impalpabile di Mondrian alla suspense rnetafisica del primo De Chirico, dal dripping pollockiano alle stesure piatte, eppur vibranti, di Jasper Johns) per esplodere in pezzi di pittura di grande prestigiosità tecnica e, soprattutto, di un empito lirico tanto irruente quanto controllato e limpidamente disteso. Schifano non si accontenta di contraffare in chiave grottesca i prodotti di massa, come i vari Oldenburd, Dine, Lichtenstein ma riesce a costringere il punto di vista volgare, sfigurato dell’uomo-massa a diventare pretesto di canto. (...) Partito da un’area di cultura pittorica nettamente americana (e a parer mio non esiste altra partenza possibile per un pittore sotto i trent’anni che abbia occhi per vedere e cervello per capire) Schifano ha maturato e matura una personalità tipicamente europea, violentemente italiana e romana. Non è il solo, a Roma e in altre nostre città, a lavorare nel senso giusto; e forse proprio da questo lavoro in gran parte silenzioso e mal noto potrà crearsi, domani, quella “scuola italiana” che si era intravista negli anni tra il 1910 e il 1920 ma che nessuno sforzo ha mai potuto far resuscitare. (…)».Cesare Vivaldi Bibliografia selezionata: − M. VOLPI, Mario Schifano, in «Avanti», 5 maggio. «(...) La pittura di Schifano mi è sembrata non solo originale ma eccezionalmente chiara ed immediata nei significativi(…) Ambedue i critici cioè cercano di rilevare una delle precise intenzioni di Schifano: la delusione del rapporto diretto del pittore con l’oggetto. L’oggetto eliminato dal quadro nel 1919 per l’impotenza della società a fornire un significato globale, ha lasciato all’artista una inquietante e solo apparente libertà. L’informale ha restituito al rapporto pittore-realtà una drammaticità del tutto dispersa dalle idilliache soluzioni dello astrattismo impressionista, post-cubismo, o naturalismo lirico che dir si voglia. Contro la consistenza opprimente di una realtà oggettiva impossibile a qualificare, Pollock e Wols hanno infranto il loro grandioso istinto figurativo. Schifano è un giovane delle ultime generazioni, quelle che hanno trovato l’Europa affaccendata a ricostruire le sue città, città in cui i resti di civiltà del passato sono praticamente scomparsi, o, quando sono rimasti, appartengono giusto alla parentesi annuale delle vacanze turistiche. Il pittore, come altri della sua generazione, è cresciuto in quella che chiamiamo “civiltà di massa” ne subisce le deformazioni, ma vi si oppone con un rigore istintivo più scattante, meno confuso dal sentimento e dalla passione, rispetto alla generazione precedente. Schifano ci fa capire con la assestata precisione del suo obbiettivo, anche altre ricerche analoghe, italiane o americane, tipiche dei suoi coetanei, egli paradossalmente ha preso una decisione drastica: quella di strapparsi definitivamente dall’oggetto. La febbre che aveva caricato di turgori ogni tipo di espressionismo dal 1905 ad oggi, è scomparsa di colpo dal quadro. Non bastava più aver eliminato l’oggetto senza aver eliminato la orma interiore della sua presenza pittorica, non bastava più averlo eliminato costruendo uno spazio puro. Nella misura in cui non è possibile eludere i rapporti con la società in cui viviamo, occorreva fare un passo ulteriore per rintracciare il significato di una vocazione alla coralità dei simboli visivi: eliminare ogni rapporto emotivo del pittore con l’oggetto, di odio o di simpatia, di repugnanza o di esaltazione delle sue radici non apparenti. Schifano constata l’esistenza di “tutto” (così è intitolata la mostra), ne dà gli indispensabili elementi grafici, un’impaginazione che rilevi chiaramente la sua personale disinvoltura nei confronti di una presunta verità pittorica dei paesaggi, delle scritte, dei segnali, delle figure, dei particolari ottici ingegneri, ritrasmessi di peso sulla tela. Ma va oltre, “riesce a costringere il punto di vista volgare, sfigurato dell’uomo-massa a diventare pretesto di canto”, scrive Vivaldi; usa il colore come Sam Francis, come Still, come Motherwell, ha scoperto cioè la vena di bellezza che può sussistere malgrado l’ironizzazione determinata dai ritagli grafici, che alludono alla instabilità dell’impaginazione, dalle scritte standardizzate, che minimizzano ogni pretesa significante. Una relativizzazione sorvegliatissima, un talento innato aiutano a fiorire con certo splendore l’esiguo margine di bellezza consentito ad un pittore contemporaneo come Schifano». − D. MOROSINI, Alla galleria Odyssia, in «Paese Sera», 15 maggio. «Questa mostra – presentata dalla Galleria Odyssia – riuscirà un po’ inattesa a chi ha visto solo i dipinti precedenti del giovane Schifano, in bilico tra astrattismo geometrico e neo-dadaismo. Qui egli appare come un eclettico pittore figurativo, che assume gli oggetti a pretesti di pittura muovendosi, indifferentemente, in varie direzioni. (…) Dal nulla delle superfici monocrome della sua pittura di ieri con numeri e lettere sovrapposti, al “Tutto” con il quale Schifano intitola la sua attuale mostra, il passo può essere considerato con altrettanta indifferenza, grande o piccolo, a seconda delle ipotesi circa la strada che egli intende imboccare. Il talento non salva nessuno. Tra il nulla e il tutto, c’è la porzione del mondo nella quale il pittore sceglie di vivere, amare, odiare, esaltare, condannare, dire la propria verità (...). I dati emotivi dell’arte vengono in luce, in questa mostra più in quei tali paesaggi, forse, che non altrove (salvo per quel sondaggio di mezzi di sintesi figurativa che c’è in una composizione come “Incidente”). La dilatazione dello spazio, il potenziale luminoso del colore sembrano rivelare la tentazione per una pittura che dica il difficile rapporto tra l’uomo, che certe forme della civiltà allontanano dalla natura, e la natura stessa (come in un De Stael, come in un Diebenkorn). Peccato che ciò resti nel campo delle ipotesi e rischi di esser condannato a restarlo, se Schifano persiste a considerare la realtà come un puro e semplice repertorio di forme, da variare all’infinito». − s.a., Odyssia, in «Il Popolo», 16 maggio. − V. RUBIU, Schifano alla Galleria “Odyssia”, in «Il Punto», 18 maggio. − M. POLITI, Schifano e Festa, in «Crisi e Letteratura»(articolo diviso in due parti dedicato alle mostre di Schifano alla Galleria Odyssia, in aprile, e di Festa a La Tartaruga, in maggio). «Mario Schifano è uno dei giovani pittori italiani più interessanti e più attenti, più disponibili dunque, alle problematiche intellettuali del nostro tempo. La sua recente e selezionata personale alla galleria romana Odyssia, avallata con acutezza da Maurizio Calvesi e Cesare Vivaldi, ripropone un’immagine tra il disperato e cinico del nostro tempo, sempre più condizionato e deteriorato dalla morsa crudele del mass comunication. Schifano dunque registra nichilisticamente questo aspetto 255 nuovo della storia, con un atto di sfiducia, non già però di condanna (anzi, a questo proposito si deve sottolineare l’impegno di Schifano nel porsi in una posizione assolutamente astorica, intendendo sospendere ogni atto critico, in omaggio ad una consapevolezza estetica ed etica lucidissima); è il suo un atteggiamento di anarchia rinunciataria (plateale, direi, se questo termine non assumesse significazioni esclusivamente velleitarie) e insieme di sacrale umiltà nei confronti della pittura. L’oggetto o il luogo comune dilatati e ampliati in una accezione macroscopica, rappresentano veramente dei referti psichici che Schifano puntualmente registra sulla nostra coscienza violentata e turbata ad ogni passo dai nuovi veicoli pubblicitari che quotidianamente operano un puntuale lavaggio al cervello. Per questo Schifano si può a ragione considerare uno dei nostri pittori che più coscientemente e integralmente (e nella scoperta della perfetta integrazione tra mondo industriale e mondo dello spirito sta il merito maggiore dell’artista romano) sanno fissarci, infilati in uno spillo, nella provetta di vetro piena di spirito, per inviarci alla generazione successiva». Roma, Palazzo delle Esposizioni, aprile/maggio Franco Angeli, Claudio Cintoli, Tano Festa, Mimmo Rotella e Giuseppe Uncini partecipano con altri artisti alla IV Rassegna di arti figurative di Roma e del Lazio. Amsterdam, Stedelijk Museum, 3 maggio Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Schrift und Bild. La mostra viene successivamente allestita a Baden-Baden, Staatliche Kunsthalle. Roma, Galleria La Tartaruga, 6 maggio Tano Festa. Testo di Giorgio De Marchis. «Nel 1961 si poteva anche parlare di neocostruttivismo di fronte ai suoi grandi riquadri di legno dipinti in compatte sezioni di rosso e nero. Quelle superfici incorniciate di listelli di legno, quei rettangoli e quei quadrati erano, come dice oggi lo stesso Festa, la verifica d’un certo linguaggio. Quale linguaggio? Quello che rimonta a Mondrian e che arriva fino a noi attraverso l’informale: il linguaggio della ragione, in cui l’introdursi della materia sposta la possibilità di verifica dal concetto al mondo dell’esperienza. Ma questi intenti razionali, nell’uso di quel linguaggio, c’erano poi in Festa? Questo linguaggio “verificabile” serviva davvero a produrre dei valori semantici razionali, delle strutture, sia pure come ipotesi? Non c’era forse già altro in quei “vuoti accecanti contenuti dalle cornici”? Già nelle Stanze del Vaticano c’era un illusionismo decorativo di sapore cattolico ben diverso dal rigorismo di Mondrian. La produzione di oggi ci mostra dei veri e propri oggetti: finestre, armadi, porte, specchi (di cui c’è un curioso precedente dada nel Portrait d’un imbecile), obelischi. Oggetti costruiti in legno e verniciati a smalto. Oggetti veri, ma non certo objets-trouvés. Non relitti di oggetti che hanno vissuto come tali, ma oggetti costruiti dall’artista: non c’è una gran differenza tra una persiana vera e una di Festa, se non nell’ambiguità del quid est veritas? Che cos’è la verità? Platone lo avrebbe cacciato dalla repubblica. L’immagine è costruita con la stessa colla, legno, vernice della cosa. Lo spazio dell’immagine è lo spazio materiale dell’oggetto, misura e limite del suo esistere e non di altro: lungo tanto, spesso tanto, largo tanto, impenetrabile ad altro. La finzione non è più sulla tela o sul muro, dove Masaccio dipinse “quadri pieni di rosoni, che diminuiscono e scortano così bene, che par che sia bucato quel muro”, ma è nell’oggetto stesso, nella coincidenza dell’immagine e della cosa. Questo legno costruito, piallato, squadrato, incollato, verniciato mi dà un “doppio” del reale. (...) L’esistenza delle cose come esteriore e indipendente dalla coscienza, come fondamentalmente priva di significato, è stata indicata da Sartre nella Nausea ed è passata nell’école du regard, e di peinture du regard si è parlato a proposito di Festa in questo minuzioso recupero di oggetti che non servono a niente, di oggetti che non funzionano, solo presenti continuamente alla vista nella vita quotidiana. Ma questo riproporre l’oggetto come cosa e come immagine, come apparenza e come realtà, ne fa qualche cosa di ambiguo: alla certezza del riconoscerlo si unisce il sentimento che sia annuncio d’altro, cosicché più giusto pare un riferimento alla pittura metafisica esplicito in certi titoli come Nostalgia dell’infinito, e il tema stesso degli oggetti di mobilio è di gusto metafisico, ma soprattutto l’aria vagamente onirica di questi oggetti così solidi e spessi cui la copertura di colore, come il bianco porcellanoso dell’obelisco, dà un valore irreale proprio nella loro veste visibile. (...) La ambiguità di cosa e di immagine si compone in una realtà intesa come veicolo ad un senso riposto. Il recupero dell’oggetto diviene recupero del mistero. Costruire si risolve ad evocare il senso nascosto dietro il reale: l’opera dell’artista oscilla tra il sensibile e l’emblematico. Il ritorno all’esperienza si rivela un ritorno all’apparenza: dietro la facciata del mondo su cui l’occhio rimbalza, trappola o prigione in cui si esercita il nostro fare, dietro lo schermo impenetrabile dei sensi, il vero fine e il vero significato del mondo si celano, mistero o rivelazione. L’esorcismo di Tano Festa sembra raccogliere l’eco secolare della voce di fra’ Cipolla: Verbum caro fatti alla finestra». Giorgio De Marchis Bibliografia selezionata: − M. VOLPI, Festa, in «Avanti», 2 giugno. «(...) Festa cioè recupera le immagini logore di esterni ed interni tipici, (Roma barocca e settecentesca per es.) di fantasie captate a volo da associazioni mentali assolutamente prelogiche e ne dà una versione misteriosa, di una evidenza più vera del vero, cioè balenante da atmosfere più dense delle costanti quotidiane. Se Schifano ironizza, relativizza il contenuto figurale e lascia libero un lirismo di pelle, dove la pittura canta da sola, Festa punta sulla oggettività corposa, tridimensionale, la pittura rimane come un richiamo discreto e fa presente che Festa è là, a dire la sua mentre gli oggetti della sua esperienza visiva si caricano di significati emblematici. La direzione in cui Festa lavora è palese: fantasia e memoria inconscia vi giocano un ruolo determinante e ricco si suggestione. Come scrive con acutezza De Marchis: “La ambiguità di cosa e di immagine si compone in una realtà intesa come veicolo ad un senso riposto. Il recupero dell’oggetto diviene recupero del mistero”. In questa precisa accezione Festa riesce a realizzare una poesia dell’ambiguità, sottilmente assimilata dalle pause estranianti, tipiche del ritmo matematicamente scandito delle nostre giornate». − M. POLITI, Schifano e Festa, in «Crisi e Letteratura»(articolo diviso in due parti dedicato alle mostre di Schifano alla Galleria Odyssia, in aprile, e di Festa a La Tartaruga, in maggio). «La recente personale di Tano Festa a La Tartaruga ci delinea l’iter compiuto da un promettente giovane, rivelatosi nel 1961 in una collettiva a La Salita. Festa tenta la ricostruzione di un mondo interiore corrodendolo dalle fondamenta coll’imbandirci il prodotto adulterato e surrogante ma non per questo meno significativo e urgente dell’originale. Non già dunque oggetto trovato, ma oggetto ricostruito, con i medesimi procedimenti tecnici, gli stessi ingredienti e le stesse dimensioni (ed eventualmente, qualora questo non fosse possibile, ricostruito su scala) dello originale; per poi isolarlo in una luce di squallore sontuosissimo, di oniricità, di fissità bianca, e irreale che non possono non farci ricordare la stagione metafisica del 1920, con in più forse una pungente carica di glaciale drammaticità e di consapevolezza impotente». Milano, Galleria Apollinaire, 10 maggio Mimmo Rotella. Bibliografia selezionata: − s.a., Il pittore Rotella, in «Roma-Napoli», 21 aprile (mostra citata). − G. KAISSERLIAN, Mimmo Rotella, in «Il Telegrafo», 12 giugno (articolo che analizza Le mostre a Milano e che include anche le mostre di Rotella alla Galleria Apollinaire). − IDEM, Mimmo Rotella, in «Il Popolo», 27 giugno (articolo che riprende una parte di quello pubblicato su «Il Telegrafo» del 12 giugno). «(...) I suoi lavori sono dei “collage” di pezzi di manifesti murali, ch’egli dispone sulla tela obbedendo ad un senso del ritmo compositivo. Si vorrebbe ravvisare in essi qualcosa di nuovo, e poterci vedere delle testimonianze di un “nouveau réalisme” secondo le parole del presentatore Pierre Restany. Ma, in fondo, i collages di carta stampata (sia con segni tipografici che con grandi vignette illustrate), da quelli di Braque e Picasso del 1912-14 a quelli che ora in vari paesi, soprattutto in America, i pittori attuali esibiscono non sembrano capaci di sopportare molte spinte inventive. Oggi, purtroppo, non sorprendono più. Rotella è senza dubbio pieno d’ingegno, talvolta divertente. Si vorrebbe chiedergli delle opere più complesse, ove tutto il suo estro possa dispiegarsi». − s.a., Il Nuovo Realismo, in «Successo», a. V, n. 7, Milano, luglio (mostra citata). Tokyo, Metropolitan Art Gallery, 10 maggio Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra The Seventh International Art Exhibition of Japan. Firenze, Palazzo Strozzi, 15 maggio Mario Schifano partecipa con altri artisti alla XIV MostraNazionale Premio del Fiorino. Roma, Galleria La Salita, 16 maggio. Titina Maselli. Scritti di Cesare Vivaldi e di Francesco Arcangeli. Bibliografia selezionata: − V. RUBIU, La Maselli alla “Salita”, in «Il Punto»,25 maggio. − L. TRUCCHI, La “città” nei quadri della Maselli, in «Paese Sera», 27 maggio. «A qualche anno dalla sua mostra romana all’“Obelisco” Titina Maselli espone gli ultimi dipinti – di grandi dimensioni – alla Galleria La Salita. Inquadrano corpi di pugili (raggomitolati e scattanti), colorati al neon, stretti dalle strie orizzontali delle corde del ring; massicci treni posteriori di camions, con grovigli di assi, intelaiature, ingranaggi sul bitume notturno; scorci in fuga di gente sulla metropolitana, oltre il riquadro del finestrino tagliato nella lamiera; il primo piano dell’attrice al tramonto, fra le righe della TV e del logoro film nell’irrecuperabile momento mitico del trascorso successo (la Garbo, già vista nella mostra “Pittura e Cinema”, alla Galleria Penelope). Sono motivi cari, oggi come ieri, a questa singolare artista, ma la novità è – qui – in una sorta di rivincita che la pittura si prende sul documento. Le forme stanno perdendo la loro fissità, la loro automatica evidenza. Nei migliori quadri, almeno, solo il “taglio” appare strappato dal contesto del rotocalco o dello schermo. I corpi degli sportivi stanno prendendo spessore e carica di movimento di natura più plastica; le luci attingono alla sostanza della pittura il loro potere evocativo. Altrove poi (il “Camion piccolo”, p. es.), la tentazione per una visione mitica ed ottimistica del macchinismo, sta cedendo il passo ad una visione più acuta e articolata di ciò che in esso vi è – anche – di inumano, di distruttivo. Il quadro in questione mi pare il più significativo della mostra, l’opera da proporre un po’ come la concreta alternativaper l’avvenire di questa pittrice che la passione intellettuale per il rigore stilistico tiene in un equilibrio perpetuamente instabile tra acutezza – appunto – e preziosità. In questo senso credo che la curiosa polemica tra due prefatori (Vivaldi e Arcangeli) riprodotta dal catalogo della mostra, abbia più argomenti dalla sua parte il secondo, nel mettere il dito su quest’alternativa (e più di una buona ragione di rimproverare polemicamente al primo di voler annettere a viva forza l’autrice sul neutro e frigido terreno degli sperimentalismi del neo-dada o dell’oggettivismo inerte». − D. MICACCHI, Maselli, in «L’Unità», 1 giugno. 256 − M. VOLPI, Maselli, in «Avanti», 2 giugno. − V. MARTINELLI, Titina Maselli alla “Salita”, in «Momento Sera», 5-6 giugno. «Da vari anni Titina Maselli va presentando nelle sue pitture visioni della città moderna: grandi pannelli di una notevole vigoria pittorica, in cui i contrasti stridenti di colori e di luci, l’arditezza del taglio e l’ampiezza delle proporzioni vogliono dare una interpretazione drammatica più che la rappresentazione obiettiva di un “esterno”. Il termine cinematografico è proprio quello che s’attaglia bene a questa pittura che, pur rasentando da un lato il cartellone e dall’altro la quinta scenografica, sbocca in una raffigurazione pittorica di notevole originalità. Da qualche tempo ci era parso che la Maselli segnasse il passo, che cioè non riuscisse a trovare la maniera di innestare quelle sue fruttuose esperienze americane nel corso quanto mai vorticoso del linguaggio artistico europeo e italiano in particolare. Ora nei quadri più recenti, pochi ma scelti, esposti alla Galleria “La Salita” dimostra di aver sviluppato intelligentemente quella sorta di raffinato “fauvismo” che sta alla base della sua pittura, coagulando i suoi colori traslucidi e i suoi cangianti in immagini macroscopiche (calciatori, boxeur, camion) che assumono un valore emblematico nel morboso clima metropolitano. Sono fotogrammi ingranditi fino a diventare impressionanti e paurosi; dettagli di cose e persone che s’ingigantiscono fino a diventare presenze angosciose a cui sembra impossibile sfuggire. Il particolare di una figura che appare sulla tela con la sua opprimente bidimensionalità trascende così la descrizione; ha quasi sempre, una sua compiutezza pittorica e un suo valore quanto mai significativo di partecipazione umana e di coscienza sociale». Milano, Galleria Schwarz, 25 maggio Tano Festa. Scritti di Cesare Vivaldi. Bibliografia selezionata: − G. KAISSERLIAN, Tano Festa, in «Il Telegrafo», 12 giugno (articolo che analizza Le mostre a Milano e che include anche le mostre di Rotella alla Galleria Apollinaire). − IDEM, Tano Festa, in «Il Popolo», 20 giugno. «I legni dipinti che il giovane pittore romano Tano Festa presenta alla galleria Schwarz costituiscono gli esercizi più recenti di un artista ancora in formazione, del quale si possono prevedere nel futuro, nuove e più feconde espressioni. Tano Festa è indubbiamente uno dei pittori più vivi della giovane scuola romana, e certamente egli porta avanti con tenacia e coerenza da vari anni un suo programma di pittura non vedutista. Resta il fatto che le sue persiane dipinte, i suoi fondali di stanze, spesso monocromi, non offrono alcun elemento stimolante, degno d’attenzione, cui si possa riconoscere una struttura complessa che testimoni la presenza di un’opera elaborata come un organismo vero. Il presentatore Cesare Vivaldi parla di molte componenti ravvisabili in queste composizioni, assai semplici d’altronde: i lavori di Festa sarebbero degli oggetti che vivono in uno spazio inventato, capace di suggerire un senso di “spaesamento” di tipo surrealista. Ma dov’è qui lo spazio inventato? Festa è ben reticente, nel mostrarlo in modo esplicito. Gli auguriamo di elaborare i suoi lavori futuri con maggiore pazienza e badando meno alle trovate, come quella del legno dipinto che è solo un vicolo cieco». − S. ORIENTI, Tano Festa, in «La Fiera Letteraria», a. XVIII, n. 27, Roma, 30 giugno, p. 6. (*) Roma, Galleria La Tartaruga, 6 giugno Franco Angeli. Scritti di Mario Diacono e Nello Ponente. «(...) nemmeno il rapido consumo distrugge il simbolo. Esso resta nella nostra vita comune anche quando ha perduto la sua funzionalità comunicativa, quando è sbiadito, annullato, superato dalla prepotenza di altri simboli. Permane radicato nei nostri moti inconsci, con quel significato di immagine con il quale ci è stato proposto e che il più delle volte non coincide affatto con la realtà da cui è partito. Così, per esempio, una figura di donna è cinema, televisione, profumo e solo dopo, con la riflessione, potrebbero tornare al suo significato primo. Ma chi ha il tempo per una riflessione? Tuttavia, proprio per la sua indistruttibilità il simbolo può essere destinato ad un altro scopo, al di là della successione dei significati che è venuto via via assumendo. L’artista se ne impadronisce, lo adopera in un modo al quale non era stato destinato, lo riscatta. Simboli scaduti, significati divenuti troppo consueti per mantenere la loro validità di comunicazione, e simboli perfino di tragedia, di orrore, di liberazione, di odio, che non hanno più tragedia, orrore, liberazione e odio, acquistano una diversa dimensione figurale, si offrono ad una percezione che stabilisce una presenza. Tutto questo mi sembra esistere alla base della problematica pittorica di Franco Angeli. (...) Viviamo in un mondo di simboli, o meglio di simbologie maniache che insidiano il nostro libero arbitrio. Ci ribelliamo a questa controriforma con i mezzi stessi della controriforma e senza angoscia, ma con una piena presa di coscienza costatante. Si è parlato, a proposito di Angeli e di altri pittori, di una nuova metafisica. Ma la metafisica può essere contemplazione, rinuncia, involuzione. Angeli aderisce invece totalmente alla sua realtà. Resta in contatto dialettico con i simboli e con le immagini, li sottrae all’abitudine e al conformismo. Una falce e martello, la mezza luna e la stella della libera Algeria, il lutto delle croci uncinate, la banale e ridicola inutilità dello S.P.Q.R., non vogliono più essere manifesti, forme di condizionamento, emblemi da guardare con la coda dell’occhio. Sono restituiti ai loro significati originari o, a dir meglio, ai loro valori, che sono soprattutto valori morali. La sovrapposizione di una tela trasparente, variamente colorata a seconda dei quadri, non è un alleggerimento della presenza di questi simboli, ma un mezzo per accostarsi ad essi con più attenzione, una pausa che induce alla riflessione, lo sfocamento dell’immagine abusata per tornare, nel passaggio temporale, a quella vera e pienamente significante. La carica ideologica che anima l’artista ha così la possibilità di realizzarsi nella precisione del linguaggio pittorico. Senza mezzi termini o tentativi inutili di descrizioni. È un’ideologia che può farsi ammonimento, ma non propaganda, volontà di lotta e di partecipazione e mai, mai, assuefazione a principi canonici». Nello Ponente «Anzitutto dissuadiamoci da una esercit’azione filo-logica, e richiamiamo le flags di Jasper Johns, le bianche bandiere d’u.s. army solo per constatarne la distanza mentale, e manuale, da queste insegne, stemmi, marchi di fabbrica-della-morte, “imprese” del mestiere del sangue, cenni della Passione (…) e degli odii amori pubblici, di massa, odierni, di Angeli. (...) Svastiche, falci e martello, cimiteri di guerra, stelle rosse, stelle giudaiche, stelle inscritte in mezzelune algerine (residui cosmografici panificati per gli hurrà popolari, sempre di traverso ringoiati), bandiere francesi (aggressioni e ricordi, e tutta Europa coinvolta): un repertorio epico-araldico che tranquillamente consegna su una tela di aperta contemplazione storica torture, morti, sventramenti, stragi, epidemie di furore mentale e qualche mucchio di messianismi fasulli. Anche se poi la serie rossa, nella simbologia di Angeli, proclami dialetticamente un’elezione, sviluppi una tesi positiva e si costituisca part de dieo nell’escatologia finale. (…) Oggettivamente, mi pare, Angeli ha barattato la tranquillità e la durata d’una sistemazione borghese (del suo quadro) con la libertà e l’attestazione d’un pronunciamento ideologico, neppure attenuato dal pudore e dalla pietà con cui ha tecnicamente ricoperto la dichiarazione del sangue epocale. Le mappe del potere e della violenza raggelati nell’industria delle bandiere. Il pudore verde, la pietra grigia, il tripudore gallico bianco-rosso-azzurro, il pudore rosso e la pietà azzurra. (...)». Mario Diacono Bibliografia selezionata: − N. PONENTE, Angeli, in «Avanti», 16 giugno. «In questi ultimi mesi una serie di mostre ha richiamato l’attenzione su alcuni giovanissimi artisti, impegnati nella formulazione di nuove proposte, ormai completamente al di là delle poetiche informali. Erano già noti al pubblico e si erano già presentati insieme, sia pure un po’ confusamente, e altrettanto confusamente erano stati classificati come neodada o neofigurativi. La recente mostra di Schifano, quella di Tano Festa e quella di Franco Angeli, aperta in questi giorni alla Galleria della Tartaruga, hanno permesso invece di chiarire le idee e i giudizi, hanno sottolineato le diversità di ciascuno e le differenze di livello qualitativo. In realtà, quello che interessa maggiormente è di vedere quali possibilità abbiano questi pittori e quale sia il grado di maturità da essi raggiunto, proprio perché si tratta di giovanissimi ai quali sarebbe assurdo chiedere una visione precisa e conchiusa che, del resto, potrebbe solo bloccare il loro necessario sviluppo. Franco Angeli, per esempio, è nato nel 1935, ha quindi tutto il tempo che vuole per risolvere i suoi problemi. Bisogna dire comunque che già adesso dimostra di aver raggiunto un ottimo grado di maturità e di qualità. Certo sarebbe facile documentare i rapporti che la sua pittura ha con altre esperienze, magari più complete, ma non si deve dimenticare che Angeli ha pur tuttavia una prepotente originalità che si manifesta soprattutto nei confronti degli altri artisti di cui abbiamo fatto i nomi. Prima di tutto per la pressione di una più impegnata ideologia, a cui egli non intende affatto sottrarsi e poi per un’accesa volontà di partecipazione nella determinazione dell’immagine-simbolo. Sia Angeli, che Schifano e Festa, i quali oggi sembrano non aver più nulla in comune, furono definiti insieme come pittori metafisici. Non sappiamo fino a che punto la definizione sia giusta per Schifano e Festa, per Angeli non lo è di certo e questo è un punto al suo attivo. È tutt’altro che un pittore metafisico e lo stesso impegno ideologico, così apertamente manifesto nella sua pittura, sta a dimostrarlo. La metafisica può essere un pretesto per ripiegarsi su se stessi o per una evasione. In Angeli non c’è nessuna evasione, come nemmeno alcuna possibilità di contemplazione o di presentazione cinica di una certa realtà. Ha preso certi simboli ai quali l’abitudine aveva tolto il significato originario e ha restituito loro quel significato, anzi potenziandolo, che può essere di orrore (le croci uncinate per esempio o le bandiere francesi con l’emblema della libera Algeria), di ironia di ammonitrice partecipazione, di speranza o di lotta (le falci e martello, le stelle rosse). Questi simboli sono ripresentati all’attenzione con un sapiente impiego dei mezzi pittorici, filtrati attraverso una cultura che non intende rinunciare a nessuna delle conquiste della pittura moderna e che quindi non si inibisce col pregiudizio di una esplicita figuratività». − V. RUBIU, Franco Angeli, in «Il Punto», 6 luglio (articolo generale sulla pittura di Angeli). «La pittura di Franco Angeli (romano di nascita, anni 28), è caratterizzata da una polemica ideologica al livello dei segni. In altri termini, il contenuto visivo di questa pittura si determina attraverso la messa in evidenza di quei segni che, per dato e fatto del significato in cui s’incarnano, sono parte integrante di una presa di coscienza ideologica, sino a poter suggerire o diventare nei casi più estremi, il sintomo di una scelta fondamentale, l’emblema stesso di un atteggiamento o costume di vita. L’insistenza, sotto forma di “cerimoniale ossessivo” con cui vengono presentati i segni-simboli (dalla svastica d’infausta memoria nazista alla mezza luna e la stella dell’Algeria indipendente, dalla falce e martello al romano S.P.Q.R.); l’uniformità del procedimento espressivo, come esibizione di una superficie monocroma che si sovrappone al segno o all’insieme dei segni, velandone l’impronta: sono questi gli elementi della visione che, mentre bloccano il giudizio dello spettatore in un’unica direzione, lo sottopongono ai fuochi convergenti del conflitto ideologico. È un fatto che, nella scelta stessa del tema, la pittura di Angeli esclude dal suo campo d’azione la banalità quotidiana dei più svariati ed anonimi repertori segnaletici. Quelli per intendersi, che in virtù di una immediata qualità “fotogenica” si configurano nell’occhio del pittore come l’esclusivo punto di applicazione di un meccanismo percettivo fine a sé stesso. Così come l’impaginazione a freddo della superficie monocroma, 257 lo sguardo fisso del colore ipnotico non valgono di per sé a delimitare la tecnica espressiva della pittura di Angeli, sebbene ne siano in qualche modo il presupposto. A volte – e qui si entra nel contesto essenziale di questa pittura – Angeli dà l’impressione di mettere in fila indiana i suoi segni-simboli, come se questi fossero sul punto di scambiarsi le parti. Forse per questo nella pittura di Angeli la semplice evidenza della croce non si somma con gli altri segni:è la Cifra di un Assoluto altrimenti indecifrabile: non già la scala di Giacobbe dello spazio “assoluto” dell’arte, come in Malevič, ma la parabola visiva di una verità sulla quale non s’è ancora abbassato il velo della falsa apparenza simbolica. Sotto la spinta di un temperamento autentico, aggressivo e melanconico, Angeli riesce a comunicare il senso di questa verità a picco sul niente. Forse la pittura stessa di Angeli è a picco sul niente, ornata dalla più scarna sostanza plastica: dove i colori non hanno luminosità ritardata, ed il bianco un sottile effetto agglutinante, una morbida “qualità elusiva”». Firenze, Galleria La Strozzina, 11 giugno Mimmo Rotella e Mario Schifano espongono con altri artisti nella mostra La nuova figurazione. mostra internazionale di pittura sotto gli auspici del Comune di Firenze. In catalogo Mimmo Rotella e Mario Schifano sono presentati da Maurizio Calvesi. «(...) Scriveva nel ‘17 Duchamp, in difesa dell’inesistente Mutt, nome con cui aveva firmato uno scandalizzante readymade: “Egli ha preso un elemento comune dell’esistenza e l’ha disposto in modo tale che il significato utilitario scompare sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista: egli ha creato un nuovo pensiero per tale oggetto”. Nel sacco di Burri l’operazione di Mutt in qualche modo si rovescia: Burri non intende suggerire un “nuovo pensiero” per il suo oggetto, ma vuole proprio confermare ed approfondire il significato esistenziale, caricandolo della sua partecipazione umana. Rotella, pur partendo da un punto prossimo a Burri, cioè assumendo in origine l’oggetto esistenzialmente e rnatericamente, vi abbina l’operazione dada della scelta, cioè il suggerimento di un “nuovo pensiero”: e questa doppia operazione è resa possibile anche dal fatto che intanto l’oggetto si è trasformato in un dato oggettivo di immagine, di figura. Questa immagine-oggetto, infatti, mentre sussiste come documento testuale, di interesse sociologico, ha la possibilità di sollecitare un corso avventuroso (tra espressionistico e surreale) di “nuovi pensieri”, al di là delle sue povere incidenze iconologiche. Per questo la “sociologia” di Rotella resta discutibile, e la chiave della protesta non mi sembra comunque idonea a caratterizzarla. Non c’è adesione, o assuefazione totale, in Rotella, alla civilizzazione di massa, ma neanche denuncia: il suo“nuovo pensiero” sul manifesto è una divagazione, dadaisticamente libertaria, su un tema che tuttavia egli avverte quasi obbligato, condizionante. E sulle ragioni di questo condizionamento (condizionamento dunque ad un “sistema di segnalazioni”, in senso anche pavloviano) che è prima di tutto visivo, il critico più che il pittore è portato ad intessere la sua ipotesi sociologica, ipotesi che l’opera si limita a riflettere, ma senza imporne una diretta denuncia. Credo in effetti che sia più giusto deporre l’alibi della protesta ed assumere responsabilmente la situazione per quale si presenta, con la sua indubbia vitalità. Non è soltanto nelle arti figurative, del resto, che certe istanze di rinnovamento anche sintattico si abbinano ad una dichiarata rinuncia a qualsiasi tipo di engagement; in tutto un settore del cinema, ad esempio, e forse il più vivo e fresco, si registra oggi un deciso abbandono del terna realistico, problematico, engagé. Agli artisti può essere lecito, ad un dato momento, (come lo è stato per gli stessi impressionisti) di fare i conti con i problemi di un linguaggio in fieri, senza necessariamente indagarne le motivazioni sociali e misurarne le profondità umane e ideologiche. (...) Ricomposizione di un alfabeto o di un sillabario dell’arte, o comunque un promettente tentativo di questa direzione. Del tentativo in corso, un altro romano, Mario Schifano, anche in virtù della sua appartenenza ad una generazione decisamente nuova, mi sembra uno dei promotori più aperti e sinceramente disponibili, né mi sentirei di fargli una colpa di essere, come evidentemente è, un désengagé: ma un désengagé autentico, non programmatico voglio dire, senza cinismi o amarezze di fegato, un giovane libero, infine, che crede alla moralità e alle risorse poetiche del suo entusiasmo per la pittura, cioè poi per il compito settoriale e specifico che in una società specialistica egli si sente chiamato ad assolvere; giacché la civiltà industriale, si sa, può essere indirizzata al bene o al male, senza che nessuno si sogni di volerne mutare il corso tecnico; e chi lavora in una fabbrica di automobili deve pensare soprattutto a fare delle buone automobili. Con questo, Schifano non accetta la conclusione che la pittura sia soltanto una tecnica, integrabile ad altre tecniche, e come tale condizionata nei suoi processi e nella sua sfera d’azione. Sui dati della civiltà di massa, Schifano opera inventivamente e poeticamente; non si limita a suggerire un “nuovo pensiero” per l’oggetto o per l’immagine standard, ma, trasponendo, fruisce come di uno stimolo del condizionamento del suo occhio a quell’immagine (che sia della foto e del cartellone), a quella inquadratura (che sia dell’obbiettivo e della diapositiva, del video e del vetro della sua auto), alla materia che dell’immagine è latrice (sia la carta o lo smalto). Il discorso che già accennavamo prendendo spunto da Perilli (nuova figurazione come ri-figurazione) può diventare, per il quadro di Schifano qui esposto, paradigmatico: un frammento di scritta pubblicitaria, dunque un’immagine già costituita ad un livello standard, già bloccata e inquadrata come immagine-oggetto, viene trasferita sulla tela e posseduta pittoricamente, cioè riaperta e rimessa in giuoco, nuovamente incanalata in quel circuito para-fenomenico di immagini-apparenze che, almeno dopo Hegel, è specificamente proprio dell’arte. Schifano sembra dirci che non è questo circuito ad essere esaurito, ma la materia prima che vi si convogliava. (…) Abbiamo già ricordato, per ha partenza di Rotella, Burri, e potremmo ricordarlo, incontestabilmente, per la partenza di Rauschenberg: l’oggetto-materia di Burri, il sacco, di- venta attraverso la mediazione di Rauschenberg l’oggetto-immagine dal new dada (cioè un attacco, anche se sempre più indiretto e irriconoscibile, anche per Johns, o Dine). L’altro elemento è il segno, elemento in origine totalmente soggettivo e di senso gestuale, non disgiungibile comunque dal dripping o dalla colatura, come risultato caratterizzante dell’immagine nella sua fenomenicità: per Rauschenberg e per Johns, o invece, venendo ai nostri pittori, per Novelli, Perilli, o lo stesso Schifano, il segno e la colatura diventa il mezzo per stabilire con l’oggetto, o con l’immagine presupposta nella sua oggettività, un rapporto soggettivo e un’interferenza fenomenica per impossessarsene e stabilire un contatto appropriativo (la stessa funzione che ha poi la lacerazione, che è ancora puro gesto, in Rotella). (...) Almeno a mio avviso, c’è una sostanziale distinzione da fare, una distinzione di stupidità e di intelligenza nell’uso stesso degli strumenti neo-dada, strumenti del resto in via di elaborazione quindi di già tangibile superamento; e questa distinzione ne implica un’altra, tra rinuncia al giudizio, che può essere cinismo o irresponsabilità, e sospensione del giudizio, che può essere un modo di fruire del momento di attesa che gli eventi stanno segnando, o sembra che stiano segnando. Potrei sospettarmi di comodo aposteriorismo ideologico (o pseudo-ideologico che sia) o, come dicono gli amici, di “schivate dialettiche”, se questa ipotesi non mi si fosse affacciata prima di procedere ad ogni altro tipo di esame. Come allora scrivevo, “l’informale s’è avventato sull’azione con un profondo bisogno di contemplazione, senza trovare una dialettica tra i due estremi, ma piuttosto riconoscendovi una disperata antinomia, ricomponibile, a prima vista, solo in un esito reciproco di nullità e di inutilità; un esito non dichiarato dall’informale, che ha lasciato in sospeso le sue conclusioni, ma subito mentalmente sollecitato ed espresso dal neo-dada, che ha accettato, acutamente, questa sospensione stessa come conclusione: sospensione che è, a suo modo, ancora, una provocazione all’inerzia». Maurizio Calvesi Repubblica di San Marino, Palazzo del Kursal, 7 luglio Franco Angeli, Gianfranco Baruchello, Tano Festa, Jannis Kounellis, Fabio Mauri, Mimmo Rotella, Mario Schifano e Giuseppe Uncini partecipano con altri artisti alla IV Biennale internazionale d’arte. Oltre l’Informale. Testi di Giulio Carlo Argan, Vicente Aguilera Cerni, Umbro Apollonio, Palma Bucarelli, Giuseppe Gatt e Pierre Restany. Bibliografia selezionata: − M. VOLPI, “Oltre l’informale” a San Marino, in «Avanti», 10 luglio. L’Aquila, Castello Cinquecentesco, 28 luglio Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Aspetti dell’arte contemporanea: rassegna internazionale di architettura, pittura, scultura, grafica. Omaggio a Cagli, omaggio a Fontana, omaggio a Quaroni. A cura di Antonio Bandiera, Sandro benedetti, Enrico Crispolti e Paolo Portoghesi. Bibliografia selezionata: − D. MICACCHI, Dieci artisti abruzzesi d’oggi, in «Avanti», 17 agosto. San Paolo del Brasile, Museo de Arte Moderna de São Paulo, settembre-dicembre Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Artistas Italianos de Hoje. Na 7° Bienal do Museo de Arte Moderna de São Paulo. Spoleto, Palazzo Collicola, 17 novembre Mario Schifano partecipa con altri artisti alla XI Mostra Nazionale di Arti FigurativePremio Spoleto. Parigi, Galerie J, dicembre Tano Festa. Testo di Pierre Restany. Roma, Galleria La Medusa, 16 dicembre Giuseppe Uncini espone con Gastone Biggi, Nicola Carrino, Nato Frascà e Achille Pace (Gruppo Uno). In tale occasione viene pubblicata la Dichiarazione di poetica del Gruppo Uno. Torino, Galleria Notizie, 17 dicembre Tano Festa, Jannis Kounellis e Mario Schifano espongono con Carla Accardi ed Enrico Castellani. 1964 Melbourne, Sidney, Brisbane, Argus Gallery, s.d. Luca Patella espone con altri artisti nella mostra Cent gravures de Paris (de l’Atelier 17). Roma, Galleria La Tartaruga, s.d. Gianfranco Barucello. Testo di Alain Jouffroy. Roma, Galleria Odyssia, s.d. Fabio Mauri. Disegni. Saint-Étienne, Musée d’Art et d’industrie, s.d. Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Cinquante Ans de “Collages”. Papiers collés, assemblages, collages, du Cubisme à nos Jours. Torino, Galleria Il Punto, s.d. Mario Schifano. 258 Valdagno, Fondazione Marzotto, s.d. Mario Schifano partecipa con altri artisti al Premio Marzotto. Roma, Galleria Arco d’Alibert, 15 gennaio Franco Angeli, Tano Festa, Gino Marotta e Mimmo Rotella espongono con Valerio Adami, Achille Perilli, Concetto Pozzati, Antonio Sanfilippo, Guido Strazza, Cy Twombly e altri artisti. Bibliografia selezionata: VICE, Collettiva all’Alibert, in «Il Tempo», 31 gennaio. Milano, Galleria dell’Ariete, 23 gennaio Franco Angeli. Testo di Nello Ponente. «(...) Il simbolo può essere destinato ad un altro scopo, al di là della stessa successione di significati che è andato via via assumendo. L’artista se ne impadronisce, lo adopera per un fine al quale non era stato destinato, lo riscatta attraverso un’operazione di lavoro. Simboli scaduti, significati divenuti troppo consueti per mantenere la loro validità di comunicazione, e simboli perfino di tragedia, orrore, liberazione e odio, ai quali la consuetudine ha tolto la tragedia, l’orrore, la liberazione e l’odio, acquistano una diversa dimensione figurale, si offrono ad una percezione che stabilisce una nuova presenza attraverso una verifica. Tutto questo mi sembra esistere alla base della problematica pittorica di Franco Angeli. In lui si avverte la presa di coscienza relativa alla possibilità di una proposta di immagini in una dimensione che ne recupera la condizione e in una coincidenza di fare pittorico e di percezione. Che cosa era il simbolo? In principio era il verbo. Quando è divenuto forma, narrazione contenuta e non evasiva, e tanto meno evasiva del fare pittorico, è tornato ad essere immagine non consueta, si è rivestito di un significato trasferito al di là dell’immediato riferimento nazionale che ha riacquistato efficacia e possibilità di comunicazione. Soprattutto, sulla sua apparenza nota, ha permesso una sperimentazione in funzione di dati ignoti, di recuperi mnemonici, di affermazioni ideologiche, con un procedimento nel quale l’artista ha individuato la sua capacità di reazione, la possibilità di compiere un’esperienza globale che possa riscattare la sua stessa condizione sottraendola ad ogni livellamento. Su questi dati che, di conseguenza, sono ancora données imnédiates de la coscience, Franco Angeli ha organizzato le pagine del suo reportage. Le ha definite e programmate, intendendo, per programma, la possibilità di una suite, la discorsività ciclica assunta da una verifica percettiva e manuale, la continuità di un metodologico procedere di operazioni. Questo reportage, però, non intende rinunciare ad una scelta dei simboli e neppure si limita alla presentazione oalla costruzione di un oggetto invariato e invariabile. Come dicevo, è soprattutto una verifica, anche del rapporto di transizione esistente tra i simboli decaduti e immagini reali. E però Angeli non si cura tanto della simbologia oppressiva del neocapitalisrno, delle immagini forzatamente convincenti propagandate dall’economia di consumo, ma ne cerca altre, più mitiche ma non per questo meno pericolose. Le ripropone all’attenzione e, attraverso la sovrapposizione di velature distinte e altrimenti colorate, crea una pausa sufficiente per indurre ad una riflessione. Si tratta perciò di un reportage sociale, non dissimile nei principi da altri di tendenza affine che vengono oggi proposti in vari modi dagli artisti europei e soprattutto americani. Con un’originalità, tuttavia, che mi pare consista nel fatto che Angeli non vuole limitarsi ad una denuncia passiva. (...) Il reportage si fa così finalistico, moralistico, puritano, dominato da un preciso impegno ideologico e politico. Probabilmente è vero, come è stato notato, che quasi tutte le ricerche artistiche attuali hanno un limite di carenza ideologica. Per Angeli mi sembra che avvenga il contrario: se mai è proprio l’eccesso della pressione ideologica che restringe il campo di elaborazione del linguaggio. Ma è un limite, questo, più facilmente superabile e del resto Angeli, dalle prime larvate proposte che richiedevano forse un completamento descrittivo, extrapittorico, è passato ad immagini più concrete e solide, di maggiore presenza e di più grande efficacia e qualità». Nello Ponente Bibliografia selezionata: − s.a., s.t., in «Merce e Mercati», 30 gennaio (mostra citata). − M.R., s.t., in «Avanti», 4 febbraio. «All’Ariete uno dei più rappresentativi giovani romani, Franco Angeli. Tema esclusivo ritmato sulle vaste tele sono i simboli, le “imprese” della nuova araldica, dagli atroci ai nobilissimi, l’aquila col fascio, la svastica, la croce di Lorena, la stella a mezzaluna della nuova Arabia, la falce e martello. La personale posizione impegnatissima dell’artista non suscita dubbi (e la presentazione di Ponente ne è garante), ma le opere in sé, purtroppo, non suscitano impressioni altrettanto limpide. È chiaro che Angeli, fiducioso (troppo) nelle nuovissime poetiche dell’obbiettività assoluta dell’oggetto-soggetto, punta sul fatto che, a esempio, oggi, una svastica non potrebbe che suscitare orrore, un’aquila mussoliniana, amaro ridicolo. Ma innanzitutto ho usato il condizionale a ragion veduta (chi parla delle “congiure della Biennale” si è proprio del tutto dimenticato dei suoi abbracci di Arcinazzo?), e in secondo luogo, sul piano specifico della resa linguistica, i simboli sono espressi su un piano indifferenziato, troppo oggettivo, di ricerche sottili e un poco frigide. L’idea di sovrapporre a una prima tela dipinta, di fondo uniforme e incolore, una seconda teletta semi-trasparente, di color vivace, nero blu verde rosso, se dà bellissimi effetti di trasparenza “effettiva” e sovrapposizioni di piani, e diversifica in qualità e simbolo il nero funereo delle svastiche dal rosso esplosivo di falce e martello, sa un po’ troppo di “trovata”, a grave scapito della carica polemica». − s.a., Franco Angeli all’Ariete, in «Carlino Sera», 7 febbraio. Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolati, 6 febbraio (bando) Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Renato Mambor e Cesare Tacchi partecipano alla selezione de I Premi di incoraggiamento 1964. Premio a Umberto Bignardi (per l’opera Il sole e le fasi di Marte, del 1963). Roma, Galleria La Tartaruga, 5 marzo Franco Angeli, Umberto Bignardi, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Sergio Lombardo, Renato Mambor e Cesare Tacchi. Bibliografia selezionata: − R. GUERRINI, Una realtà che non eravamo più abituati a vedere, in «Successo», a. VI, n. 4, Milano, aprile, pp. 80-82. Roma, Galleria La Nuova Pesa, 10 marzo Luca Patella. Mostra grafica. Testo di Ugo Attardi. «(...) Nell’esperienza di Patella le componenti culturali sono varie, ma ciò che prevale è il suo temperamento. Infatti, anche nella fase dove il giovane incisore rifiuta l’oggettività, è nella contraddizione fra la tendenza a un rigoroso formalismo e il sorgere di un certo automatismo, il senso di un conflitto fra la sua vera vocazione contenutista e la ragione teorica di una esperienza astratta. Né, devo dire, il gioco, o il contrasto, fra cultura-teoria e istinto plastico è assente anche nella fase dove egli volge il proprio interesse al mondo oggettivo. Non vorrei però essere frainteso: non dico che Patella sia un artista istintivo e non un intellettuale, dico solo che, in una fase di serio travaglio e di conflitto tra varie correnti di cultura, in definitiva, è la sua natura che anticipa e trova le possibili e giuste soluzioni. (...)».Ugo Attardi Roma, Galleria Anthea, 10 marzo Gino Marotta. Pitture di Gino Marotta. Testo di Emilio Villa. Anatomia ginomarotta (ripubblicato in «Leader», ottobre-novembre). Bibliografia selezionata: − s.a., s.t., in «The daily american», 12 marzo (mostra citata). − s.a., Espone all’Anthea Gino Marotta, in «Video stampa», a. III, n. 6, 13 marzo. − C. REFICE, Marotta, in «La Fiera Letteraria», a. XIX, n. 13, Roma, 29 marzo, p. 6. «Chi volesse capire l’arte di Gino Marotta – che ha una personale all’Anthea – avendo per viatico la presentazione di Emilio Villa, forse stenterebbe un pochino, tanto immaginifiche sono le parole del mariniano scrittore (“É del poeta il fin la meraviglia”). Tuttavia le ultime parole della chiusa colgono efficacemente uno dei più vivi aspetti della pittura di Marotta, quando alludono al “grande eteriale d’imponderabilità” presente nelle sue opere. È infatti in un’aura rarefatta, incognita che si muovono i personaggi di Marotta: strani personaggi, invero, lievi come fantasime amebiche, evocazioni di inconsce esistenze, di inqualificabili sensazioni. E, al di sopra di tutto, una intelligenza acuta, colta, consapevole, sottilemente polemica, che dà alle composizioni una lucidità singolare, inconfondibile. Se si pensa un poco alla sua attività, ai suoi legami con pittori come Dorazio, Perilli, Rotella e Turcato, già così definiti e ricchi per ciascuno, si valuterà di più l’originalità di questo artista che, accanto aloro, ha serbato un linguaggio suo proprio, idee chiarissime e intenti altrettanto chiaramente programmati. Contatti, rapporti, reminiscenze, echi? Comunque, tutto questo risulta come esperienza varia e approfondita: ma la personalità di Marotta ne esce intatta». − M. VENTUROLI, Numeri, diagrammi, sagome, quadrettature, in «Capitolium», a. XXXIX, n. 9-10, settembre-ottobre, p. 514. «Voglio finire questo “panorama” delle mostre romane con un elogio della mostra personale di Gino Marotta alla Galleria “Anthea” presentata da Emilio Villa: anche questo giovane opera nel clima delle ricerche successive all’esperienza dell’espressionismo astratto; però egli non si rassegna alle sequenze dei numeri, alle giustapposizioni di linee, ai traforatori di zone spaziali dei “ghestaltici”; anche lui, come i giovani pittori de “La Tartaruga”, dà una misura italiana della esperienza neo-costruttivista, chiamando in causa, intanto, e con libertà, gli schemi del cubismo analitico: le “figure in ambiente” dei Braque e dei Picasso 1910-15 si mescolano a forze meccaniche e dinamiche, di segni, frecce, leve, sfere campite in spazi colorati e spazi colorati a delimitare sfere (entro le quali, come in un occhio elettronico galleggiano altre sfere minori, e impronte di oggetti) si collocano con un ritmo vitale e giovane, in una tavolozza tra i rossi e gli azzurri, i bianchi e i neri, davvero maestra. Questi segni sovrapposti allo schema del museo d’avanguardia, cosa vogliono significare? Sono simboli? Sono indicazioni puramente pittoriche? Direi che è il mondo della scienza, di cui i “ghestaltici” d’oggi tanto si appassionano, reso pittoricamente, anzi fantasticamente; è una interpretazione emotiva della precisione tecnica, è il canto non razionale di un pittore, alla razionalità dell’ingegnere e dello scienziato». Roma, Libreria Einaudi, 11 marzo Fabio Mauri espone con altri artisti nella mostra Omaggio di pittori italiani alla Resistenza portoghese. Roma, Galleria La Salita, 14 marzo Tano Festa, Titina Maselli, Luca Patella, Mimmo Rotella e Mario Schifano espongono con Carla Accardi, Ettore Colla, Antonio Sanfilippo e Toti Scialoja nella mostra Presenze alla XXXII Biennale di Venezia. Mimmo Rotella espone anche in una sala personale. 259 Chicago, Gres Gallery Inc., 14 marzo Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra L’Affiche lacérée. Dufrêne, Hains, Rotella, Villeglé. Firenze, Palazzo Strozzi, 21 marzo Tano Festa, Mimmo Rotella e Mario Schifano partecipano con altri artisti alla II Mostra mercato nazionale d’Arte Contemporanea. Artisti della XXXII Biennale. Roma, Galleria Odyssia, primavera Mario Schifano Milano, Galleria dell’Ariete, 15 aprile Mario Schifano. Testo di Maurizio Calvesi. «La pittura di Schifano propone un nuovo modo di vedere; a voler essere più precisi, di percepire. Le sue immagini sono mediate da altre immagini, soprattutto fotografiche. Eppure il loro pregio più evidente è quello dell’immediatezza. Schifano, infatti, assimila dall’immagine fotomeccanica non già la resa minuziosa e veristica del dettaglio, ma, al contrario, l’istantaneità e la pregnanza: la suggestione del taglio dinamico, aperto sulla continuità del reale; la suggestione della messa a fuoco, con i suoi salti percettivi di vuoto e pieno, dal nitore dei primi piani alle dissolvenze di campo che riassumono la profondità: le atmosfere caglianti e tenute del bianco e nero, la smaltata luminosità e le fusioni dei pigmenti artificiali. Del reporter, Schifano fa suo il colpo d’occhio incisivo, mobile, e il tipo di contatto spregiudicato e vitale con le cose. Spregiudicato ma non indifferente, anzi a suo modo estremamente generoso e sensibile ai cangianti aspetti di una realtà che, pur svolgendosi interamente al di fuori di noi, cioè di una nostra intenzionata partecipazione, non esclude il nostro pronto, vivace inserimento. È la realtà della vita moderna, del paesaggio urbano non solo, delle campagne tagliate dalle autostrade, schermate dalle sagome opache delle macchine in sosta, fotografate dall’aereo, dettagliate dal finestrino dell’auto o da obbiettivi “grandangolari”. Ma tutto ciò non costituisce uno schema, una fredda falsariga per dubbie oleografie; sono nuove angolazioni cui l’occhio si va realmente abituando, nuovi orizzonti di immagini, strumentalità di visione di cui l’ipotesi percettiva si va appropriando e arricchendo; materiale non già da scartare con puristico sdegno da conservatori di museo, ma da assumere al livello della pittura nella ricerca di freschi valori di visione. Sui dati di un gusto moderno, Schifano s’arrischia a rilanciare quell’immortale operazione di sveltimento e di sintesi che scaturì dall’ottica impressionista». Maurizio Calvesi Bibliografia selezionata: − s.a., s.t., in «Gazzetta di Mantova,», 29 aprile (mostra citata). Roma, Galleria La Tartaruga, 15 aprile Jannis Kounellis. Testo di Cesare Vivaldi. «Chi avrebbe mai pensato che la sintassi sillabata, dura e tagliente dei primi quadri “veri” di Jannis Kounellis (grandi lettere, cifre, segni tipografici stampati in nero su fondo bianco: tele immediate seguenti inedite prove di assemblage ancor più dirette e ancor più brutali), chi avrebbe mai pensato dicevo che un modo così esplicito e violento, almeno in apparenza, di parlare fosse non l’iniziale, ancora incerta espressione di un temperamento estrovertito e focoso, rude e netto, bensì solo un modo di rompere il ghiaccio, un ingrossare la voce per vincere la timidezza e poi – acquisita piena coscienza dei propri mezzi e delle proprie qualità – dar libero sfogo a una natura di pittore tutta lirica, tutta introversa, trepida, sottile e commossa tanto da rasentare la dolcezza, la sensitività più squisita? (...) Il potere d’urto delle tele d’allora si è molto attenuato, e non è possibile oggi leggerle in chiave diversa dai quadri recenti. Basta notare con quale struggimento quei neri sbavano e si frangiano sul bianco della tela e della carta – che è sempre un bianco caldo un bianco avorio – per capire come anche tre o quattro anni fa la ricerca di Kounellis fosse strettamente pittorica, senza nessun interesse grafico, e agli antipodi tanto della “pulizia” e della precisione di un Capogrossi quanto della violenza espressionistica di un Kline. Palpitano quelle grandi lettere e cifre con una leggerezza che, nonostante la tinta fosca e opaca, le rende fragili e quasi inermi contro il bianco che le isola e le minaccia, e che spiega come le versioni colorate dei medesimi motivi “tipografici”, compiute uno e due anni dopo, non potessero essere eseguite che con una cromia estremamente delicata, quasi esangue: non rossi fuoco, blu intensi, verdi smeraldo, ma gialli citrini, celesti un po’ spenti, arancioni, terre. La stessa cromia che, con maggiori o minori accensioni, ritroviamo nei quadri del 1963-64, i quali costituiscono il grosso della presente mostra. Kounellis, dopo la fiammata iniziale che lo portò ad essere il primo dei giovani romani della “nuova ondata” a venire in luce e ad esporre, ha avuto momenti, anche lunghi, di stasi, di ripensamento, diciamo pure di crisi. Motivi personali, oltre che motivi d’insoddisfazione artistica lo hanno costretto a rallentare il ritmo del suo lavoro, o a interromperlo addirittura, sino alla bellissima ripresa dell’ultimo biennio. Natura problematica, solitaria, non facilmente portata alla conversazione e al commercio diretto delle idee, proprio mentre l’ambiente romano giovanile era in pieno fermento Kounellis appariva come ferino, chiuso in sé stesso, ostinato a tracciare le sue lettere e le sue cifre, e ad approfondire un problema che poteva sembrare senza uscita. Questa l’apparenza: un’apparenza che ingannò quasi tutti gli osservatori, anche i più attenti e i più fiduciosi. Ma la verità era che Kounellis, mentalmente e in teoria più ancora che nella prassi, stava proprio in quei momenti di crisi scoprendo le sue vere ragioni d’esser pittore. L’articolare lettere in nero o a colori su un piano era davvero un problema apparente: il problema reale, cui l’artista andava lentamente accostandosi, era articolare tutta la superficie del dipinto per mezzo del colore, effondere il proprio empito lirico usando sempre un “traguardo di controllo”, uno schema, un punto d’ancoraggio, ma senza lasciarsene irretire o impedire, senza – per l’appunto – farsene un problema. Il nuovo pilone d’ancoraggio è rappresentato non più dalle rigide lettere e cifre, ma da elementi figurativi molto schematici, del tutto antinaturalistici. All’inizio forse anche più elementare dei vecchi motivi tipografici (quei cartelli zebrati che sono appesi dietro a tanti grossi automezzi), poco a poco il dato figurale è divenuto più ricco: un arcobaleno, la luna nelle sue diverse fasi, il porto del Pireo, il mare. Limpida e chiara voce quella di Kounellis, intenerita dal suo stesso canto, o meglio dallo scoprire in sé una così duttile, strenua e felice capacità di canto. L’arcobaleno attraversa liquescenti pallori come un grido, come una lama di luce che squarci la nebbia: il mare si arrossa sotto un sole incredibilmente diafano, o si fa d’un lieve azzurro polveroso, o si tinge del rosa d’una guancia. Colori attutiti, in sordina, vibrano in queste tele; eppure c’è in loro la forza del solleone di Grecia, che spegne le tinte, le strema, le soffoca nella gran vampata bianca. Ecco: non sono colori estenuati di raffinatezza, ma sono colori “bruciati”, colori calcinati, ceneri di colori». Cesare Vivaldi Roma, Libreria Galleria Ferro di Cavallo, 17 aprile Sergio Lombardo, Renato Mambor e Cesare Tacchi. Testo di Gianni Novak. «(...) È questa operazione di recupero di dati, anche i più comuni e banali di una realtà riproposta attraverso le sollecitazioni delle fotografie dei rotocalchi, dei cartelloni reclamistici, addirittura dei grafici statistici, in poche parole l’accettare la mistificazione della realtà eseguita attraverso l’uso, o l’abuso, delle tecniche della pubblicità, che lascia talvolta ironicamente perplessi, talaltro genuinamente entusiasti, come le canzoni del festival di San Remo, per intendersi». Gianni Novak Torino, Galleria Sperone, 9 maggio Mimmo Rotella espone nella mostra inaugurale della Galleria con Roy Lichtenstein, Aldo Mondino e Michelangelo Pistoletto. Bibliografia selezionata: − s.a., s.t., in «Il Popolo», 21 maggio. Bologna, Galleria De’ Foscherari, 27 maggio Umberto Bignardi. Testo di Cesare Vivaldi. «Sono ormai sei anni che seguo il lavoro di Bignardi precisamente da quando nel 1959, inclusi una sua tela in una mostra romana di giovane pittura che si tenne alla Tartaruga. L’artista era allora appena uscito dall’Accademia e appariva orientato verso una sorta di action painting di ricca e sontuosa materia, esemplata su modelli illustri ed evidente ma sorprendentemente matura per la sua età, originale per il calore di inusitati rapporti cromatici (bonnardiani e bolognesi come possono essere bonnardiani taluni “acuti” del bolognese Corsi) e per la focosità, la facilità e la felicità dell’espressione pittorica. Tali qualità naturali Bignardi in tutti questi anni ha cercato sempre di comprimerle e soffocarle, mortificandole sotto impaginazioni rigorose o nascondendole il più possibile mediante l’uso del collage e di altri mezzi apparentemente estranei al suo temperamento, tanto da ingenerare a volte perplessità anche in chi – come il sottoscritto – non ha mai avuto dubbi sulle possibilità di un artista così dotato e sulla sincerità della sua vocazione. Ma il cammino di un pittore non sempre è rettilineo e semplice come si vorrebbe (soprattutto come lo vorrebbe il critico “interessato”) e, a conti fatti, bosogna dar ragione a Bignardi per tutti i suoi “sbandamenti”. Attraverso alternative di sfiducia e di ottimismo, attraverso crisi, attraverso errori anche gravi egli ha trovato se stesso nel modo splendido che questa mostra esemplifica; sicchè si può ben dire, oggi, che anche l’ostinata, incomprensibile mortificazione del proprio talento naturale gli è stata probabilmente necessaria per sfrondare per ridurre nei limiti della necessità la sua natura sovrabbondante (e divagante) fino a che non lo ha reso libero di abbandonarsi, senza più pericoli al puro piacere di dipingere. La maturità, per Bignardi, ha significato per l’appunto la liberazione da molte remore e da molti tabù (impostigli, e sia pure, da un apprentissage indispensabile), e un modo assolutamente spontaneo di accostarsi alla pittura e al “soggetto”. Non più problemi limitanti, non più complessi d’inferiorità o di superiorità di fronte alle figure, agli oggetti, alle cose del mondo e dell’esperienza visiva, ma un candido e felice appropriarsene. Per molti giovani la pop art ha avuto proprio questo significato liberatore; e a Roma, dove si è sempre stati attenti a quanto avveniva nella grande fucina americana si è subito compreso come attraverso l’esorcizzazione pop della civiltà di massa fosse possibile un nuovo contatto con le cose, mediato magari per il tramite dei mass media ma pur fecondo, un contatto che oltrepassasse i binari obbligati in cui ha voluto costringersi l’“accademia” degli Oldenburg, dei Warhol e dei Wesselman, che superasse la brutalità vulvaria, per risolversi in una pittura tutta nuova, cordiale, umana. La “giovane scuola di Roma”, partita dal new dada quasi nello stesso modo, e contemporaneamente, in cui son partiti i pop artists più noti va approdando a ben diversi lidi; e lo dimostra eloquentemente questa pittura di Bignardi così estroversa e sorridente, priva di ogni tetraggine pop, piena di grazia europea. Bignardi sa che ogni cosa è degna d’essere dipinta, che ogni cosa può entrare nella sua tela o nel suo foglio di carta. Tutto sta a trovare la misura giusta, per cui l’illustrazione di moda o la tavola sul volo degli uccelli o lo “spaccato” geologico diventino – pur restando se stessi, pur non perdendo il loro gusto di “citazioni” tipiche o almeno singolari – qualcosa di completamente diverso. Direi che proprio qui sta uno dei punti di differenziazione tra Bignardi (e la “scuola di Roma”) e gli americani; per i quali la citazione 260 ha da essere testuale, una replica fedele dell’originale, ingigantita perché diventi ossessiva, schiacciante, brutale. Mentre Bignardi trova nelle sue citazioni soltanto dei pretesti esili, non validi di per se stessi ma per l’elaborazione pittorica alla quale son sottoposti. Grazie all’appoggio, al pretesto, alla citazione, Bignardi è riuscito a liberare da ogni controllo il suo raffinato istinto di colorista. Obbligata a un soggetto la sua pittura non ha più bisogno di frenare e mortificare i propri mezzi, con risultati (soprattutto nei disegni e pastelli, del resto posteriori ai quadri esposti) che mi sembrano felicissimi ed evidenti anche in una mostra limitata come questa bolognese. Tra gli italiani della sua generazione Bignardi (dopo una maturazione resa difficile dalla stessa ricchezza del suo temperamento) è artista ormai pronto ad occupare nei prossimi anni un ruolo di prim’ordine». Cesare Vivaldi Bibliografia selezionata: − s.a., s.t., in «Avanti», 28 maggio. − s.a., Bignardi alla Foscherari, in «Carlino Sera», 29 maggio. − s.a., Il lancio di Bignardi, in «Carlino Sera», 1 giugno. − L.R., Bignardi alla Galleria “De’ Foscherari”, in «L’Avvenire d’Italia», 3 giugno − G. D’AGATA, Bignardi, in «L’Unità», 3 giugno. «Lo sviluppo delle tematiche artistiche contemporanee vede lo schieramento dei pittori sempre più nettamente diviso in due. Da una parte si situano coloro che concepiscono il lavoro artistico come un fatto naturale, spontaneo, come un problema di personalità, di vocazione, di attitudine congenita e congeniale, e credono quindi idealisticamente nella continuità delle forme, sorretti dalla cosiddetta ispirazione poetica; dall’altra stanno coloro che rifiutano di attribuire un valore decisivo ai presupposti di base (vocazione, attitudine, ispirazione, ecc.) e intendono perciò la produzione artistica come il risultato di un’operazione intellettuale, condotta sul piano delle possibilità linguistiche, come un vero e proprio atto conoscitivo, in altri termini. A questo secondo schieramento appartiene Umberto Bignardi, di cui è allestita in questi giorni una stimolante personale alla “de’ Foscherari” (presentazione di Cesare Vivaldi). Per Bignardi la realtà non è un’occasione per dare misura del proprio talento, non è un semplice pretesto: la realtà è un attento oggetto di studio, di osservazione scientifica, in senso galileiano e leonardiano. Vediamo infatti con quanta cura il pittore ricerca i vettori delle forze che determinano il volo degli uccelli; come analizza la figura umana impegnata nel salto con la corda; come si sforza di scomporre nei suoi elementi statici il moto delle onde. Accanto a questa linea di ricerca, Bignardi ne sviluppa un’altra, che scaturisce comunque dalla medesima radice. L’artista viene attratto dalla realtà dei “mass media”, dai simboli magici della civiltà della tecnica: nei confronti di questa realtà socialmente e storicamente determinata si esercita la felice operazione del conoscere. Con un procedimento inverso rispetto a quello seguito dagli artisti della “pop art”, Bignardi si sforza di smontare i miti dell’oggetto. Suo scopo è quello di liberare la sensibilità del consumatore, di restituirgli l’integrità del giudizio, e il vero, originario, sapore delle cose. I risultati fin qui conseguiti ci inducono a seguire il lavoro di questa artista con vivo interesse». − s.a., Bignardi, in «Carlino Sera», 3 giugno. − VICE, Bignardi, in «Il Resto del Carlino», 6 giugno. «(...) Del resto, basta osservare il grande quadro del Cielo blu o l’altro analogo in grandezza dell’Eclisse per convincersi sulle qualità pittoriche non comuni del giovane Bignardi. Il quale, però, lanciato a un’avventura più lontana, snobba il talento. Nel tentativo di interpretare una certa realtà del suo tempo, il pittore cerca un nuovo linguaggio a quella adeguato: per far questo è superflua la bravura. L’ossessiona la pubblicità nei settimanali femminili: bocche allineate per registrare la gamma dei rossetti; giostre di occhi variamente truccati dagli ombretti... Lo affascinano le illustrazioni dei libri di scienze del ginnasio: il volo a spirale degli uccelli, didatticamente punteggiato e infrecciato; la struttura geologica dei terreni, il pack popolare, le fasi degli eclissi, che l’artista ripropone con estrema semplicità, adombrata soltanto da un candore pensato. Per Bignardi, si capisce, questa è la via della libertà, della felicità e forse anche del successo». − F. SOLMI, Bologna: Bignardi, in «L’Unità», 13 giugno. «Un’edizione edulcorata, “priva di ogni tetraggine”, come scrive Cesare Vivaldi, della Pop art americana, ci presenta Umberto Bignardi, nella personale alla bolognese galleria “De’ Foscherari”. Tavole con voli sorridenti di uccelli, cariche di “spaccati” e del ripetersi continuo di una immagine, o dell’illustrazione di moda, si susseguono programmaticamente, direi, senza necessità, senza quel fervore cupo che caratterizza la pop americana e che rende per molti versi interessante questo tipo di “realismo capitalista”. Porsi di fronte agli oggetti – i cupi, ossessionanti, oggetti dei Wesselman, degli Oldemburg, dei Saul – con l’animo candido e cantante, potrà magari essere un modo per apparir diversi, per caratterizzarsi, nel quadro della “giovane scuola di Roma”, rispetto a un fatto culturale importato di peso per chiudere la falla lasciata spalancata dal rinnegato informale: ma non mi pare davvero che questo nuovo evadere nella pura pittura o nella “felicità dell’espressione pittorica” (Vivaldi fa i nomi addirittura di Bonnard e Corsi), sia qualcosa di più di un gioco formale attraverso il quale si tenta di contrabbandare una sorta di elegante naturalismo post-impressionistico. (…) Della pop art hanno assimilato la parte più superficiale, non cogliendo quanto di significativo, di illuminante sulla civiltà del dollaro e dei miracoli economici è in essa. Ma non è con gli strumenti di estetiche o poetiche formalistiche che si possono cogliere certi aspetti della cultura d’oggi. Occorre un impegno, anche etico, che quella “giovane scuola romana” evidentemente non ha». − E.C., s.t., in «Avanti», 21 giugno. Menton, Salons de la Résidence du Louvre, 29 maggio Giosetta Fioroni e Gino Marotta espongono con Corrado Cagli, Pietro Cascella, Antonio Consagra, Piero Dorazio, Achille Perilli e altri artisti nella mostra Peintres et sculpteurs de Rome, organizzata da Art Club di Roma. Testo di Giorgio De Marchis. Catania, Galleria Sicilia Arte, 6 giugno Luca Patella. Milano, Palazzo dell’Arte al Parco, 12 giugno Gino Marotta e Fabio Mauri partecipano con altri artisti alla XIII Triennale di Milano. Roma, Galleria La Tartaruga, 15 giugno Franco Angeli, Mario Ceroli, Jannis Kounellis, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Mimmo Rotella, Mario Schifano espongono con Cy Twombly nella mostra Otto giovani pittori romani. Venezia, XXXII Esposizione Biennale d’Arte, 20 giugno Franco Angeli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Mimmo Rotella e Mario Schifano espongono nel Padiglione italiano. Franco Angeli, Tano Festa, Giosetta Fioroni e Mario Schifano sono presentati da Maurizio Calvesi (Gruppi di opere: pitture e sculture), Mimmo Rotella, che ha una sala personale, è presentato da Pierre Restany. «(...) In Schifano gli smalti industriali stesi su supporti di carta (la carta di cui son fatti i manifesti, i giornali, che è dunque il tramite abituale delle immagini); il quadro costruito con pannelli giuntati come un cartellone; le inquadrature frammentarie che possono alludere ai tagli e ai campioni focali dell’obbiettivo; lo scalpiccìo della folla colto come dal veloce e preciso colpo d’occhio del reporter (individuabile è, nello stesso tempo, la citazione da Giacomo Balla, ma intesa come recupero poetico e come integrazione o commento dell’idea del movimento per sequenze, nel suo passaggio dalla pellicola alla pittura). In Festa, il prelievo fotografico di un’immagine di Michelangelo, l’iterazione e la frammentazione, l’accostamento di tecnica fotografica e di pittura a smalto, l’uso ritmico delle scritte che, insieme alla suddivisione del quadro in conchiusi pannelli contribuiscono ad alienare l’immagine, per consegnarla come ad una metafisica ma scettica aspettativa. Nella Maselli, la mediazione dell’immagine attraverso la fotografia, la tematica filmistica, il feticismo patetico del cartellone. Nella Fioroni, i quadri concepiti come sequenze collegate, l’immagine indiziata dalle fasi di un suo sviluppo come dal negativo al positivo, il predominio del caposchermo con i suoi vuoti, i bianchi e i toni alluminio. In Franco Angeli, l’impiego di simboli ed emblemi di diverse estrazioni e di fluido significato, dalla Lupa romana all’aquila imperiale ritrovata sul quarto di dollaro, le scritte allineate e sdoppiate; il velo materialmente calato sull’immagine per respingerla in una indistinta dimensione di memoria, che disperde il significato del simbolo nel momento stesso che si produce lo sforzo di recuperarlo e di interrogarlo o sottoporlo a critica. (…) Dai cieli cattivi e un po’ folli di Recalcati, digrignanti tra le sbarre e carichi di baconiano rancore, ai cieli in libertà di Schifano, sorpresi dallo sguardo rapidamente estatico dell’uomo a passeggio o in automobile, a suo agio nella breve vacanza cittadina, il modo di concepire la vita come la stessa pittura (che ha un senso decisamente più attivo nel secondo) si rivela diametralmente opposto. E così la determinante cesura in primo piano con cui lo stesso Recalcati tiene a bada e rinnega le sue immagini, da un senso molto diverso (meno pietoso e psicologicamente meno sicuro) dal gesto coprente, più per dissolvere che per respingere, di Angeli verso i suoi emblemi, pur biechi, taluni, e deturpati. In Recalcati parla una Milano europeistica, che non rinuncia alla solidarietà europea del dolore, del panico e dell’intellettualismo, in Schifano una Roma che, pur rifiutando il suo destino turistico, si compiace della sua disponibilità e si proietta, come per strumentarla più moderatamente, verso New York; quella New York che per la Maselli (anch’essa romana e fedele ad una sua storia pittorica di altre radici) rimane un traguardo mitologico, sfiorato da lucide nostalgie. La Roma di Angeli, invece, sente la propria disponibilità come inerzia e vuoto, come irrecuperabilità del ternpo, come l’arresto di una grande macchina di cui inutilmente si ricerca il guasto. Senso di arresto e sospensione che in Festa, nel verificarsi su svuotati testi rinascimentali, diviene metafisico, con la partecipazione di un’intelligenza ironica. (...) Così le patine d’argento e porporina di Del Pozzo, come di specchi senza più riflesso che suggellino storie morte di cose accumulate, servono un’intenzione ben diversa dai banchi alluminio della Fioroni, trepidamente impressionabili e disposti al racconto. (...)». Maurizio Calvesi «É impossibile capire veramente il cammino di Mimmo Rotella se non si ha l’idea esatta di quanto grande sia il suo attaccamento a Roma. Per questo uomo del Sud, questo calabrese, Roma è la Città per eccellenza, l’Urbe della tradizione e della storia, una metropoli tenace, ostinata, e anche indifferente, che proprio per questo ha finito per sopravvivere ai turisti, ai funzionari, agli ecclesiastici, ai pensionati. Di questa grandezza di Roma, al di là della storia stessa, e dei dizionari e dei musei, Rotella è impregnato fino in fondo. Ma questa sua visione abbagliante è fondamentalmente dinamica. Non è cioè ammirazione passiva, rimpianto nostalgico. Tutta la vita di Roma, (il segreto della sua organica grandezza) è li, a portata di mano, tutta intera nella virtualità di uno sguardo, sopra quei muri che ne hanno viste e subite tante e poi tante, e che alla fine sono riusciti a sopravvivere. Questo mondo è un quadro, giace nell’inerzia delle abitudini. Se arriva alla foce della poesia è proprio grazie alla virtualità di uno sguardo. Ecco ciò che Rotella ha avuto: l’immenso merito di vedere, e molto prima degli altri. (...) Ed ecco delinearsi la moralità intrinseca del gesto di questo artista: Rotella ci pone dinanzi agli occhi la realtà pubblicitaria di 261 oggi attraverso uno sguardo nuovo di cui si assume la piena responsabilità, lucido e cosciente delle ripercussioni del suo atto. Certo non è pura coincidenza che questo calabrese di Roma, al termine di un cammino solitario, percorso di nascosto e per molto tempo incompreso, si sia trovato senza saperlo sullo stesso sentiero di alcune altre avventure europee, vissute a Parigi allo stesso livello di esigenza espressiva. Da quel momento era normale che io servissi da trait d’union tra queste avventure sparse, e che Minimo Rotella aderisse al “Nouveau Réalisme”. Io penso che la presenza di Rotella sia un elemento capitale nella situazione artistica dell’Italia d’oggi, sia per tutto ciò che egli ci fa vedere che per ciò che ci spinge a pensare. Ancor più che far emergere, nel manifesto lacerato, nuove forme direttamente sorte dalla realtà sociologica e per questo capaci di trasformare radicalmente la nostra visione dell’universo che ci circonda; ancor più, infine, che ricaricare in un senso affettivo e poetico il reale, Rotella ci trasmette un messaggio di cultura, di umanità e di speranza». Pierre Restany Bibliografia selezionata: − AA.VV., Intervista con i pittori, in «Marcatrè», n. 8-9-10, Milano, luglio-agosto-settembre, pp. 219-263. − E. CRISPOLTI, Un’accusa e una difesa, in «Marcatrè», n. 8-9-10, Milano, luglio-agosto-settembre, pp. 178-185. − G. DORFLES, Scandalo a Venezia, in «L’Europeo», a. XX, n. 29, Milano, 19 luglio. − P. RESTANY, Biennale della irregolarità, in «Domus», n. 417, Milano, agosto, pp. 27-38. − M. VENTUROLI, Il padiglione italiano alla XXXII Biennale di Venezia, in «Comunità», n. 121, Roma, agosto, pp. 49-59. Firenze, Forte del Belvedere, Centro Proposte, 27 giugno Tano Festa, Gino Marotta, Mimmo Rotella e Mario Schifano espongono con Lucio Del Pezzo, Gastone Novelli, Achille Perilli a altri artisti in occasione del convegno di studio Arte e tecnologia. Gent, Museum voor Schone Kunsten, 10 luglio Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Figuratie en defiguratie. De menselijke figuur sedert Picasso. Termoli, Castello Svevo, agosto Gino Marotta partecipa con altri artisti alla Mostra Nazionale d’arte contemporanea. Premio di pittura Castello Svevo. Testi di Giulio Carlo Argan, Maurizio Calvesi, Giuseppe Gatt, Italo Tomassoni. L’Aja, Gementemuseum, settembre-ottobre Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Pop Art. Lund (Svezia), Lunds Konsthall Art Gallery, 25 settembre Umberto Bignardi, Claudio Cintoli e Mario Schifano espongono con altri artisti. Testo di Eje Högestätt. Bibliografia selezionata: − M. HANNE-BRAHAMMAR, Italiensk Pop-Konst, in «Arbetet», 2 ottobre. − P. LÜBECKER, Qualche cosa di completamente diverso. Pop art all’italiana ed altre opere di giovani pittori romani in una interessante manifestazione a Lund, in «Politiken», 10 ottobre. «Per Umberto Bignardi e Mario Schifano si impone un discorso affatto diverso. Essi ci assalgono con la loro pop art, arguta e ricca di problemi. Risentono della pop art americana, ma il loro linguaggio è italiano: profondo, raffinato e concludente. Ecco due artisti della nuova generazione, due artisti che non badano alle forme “ordinate”, ma che compensano questo fattore con la loro ricchezza d’idee ed il loro attaccamento alla frammentarietà. Ma non basta: essi guardano la vita quotidiana con occhi nuovi, osservano la frenesia e l’assurdità della vita e trovano un senso profondo nella piccola banalità. La loro descrizione di incidenti automobilistici, resi in modo da poterne seguire tutte le fasi salienti più drammatiche, i loro volti femminili che si differenziano nel trucco e nei movimenti della modella, i loro soli di varie grandezze e colori, i loro blocchetti schizzati dipinti in mezzo alla tela vuota, un vero quadro nel quadro, traggono la loro forza viva da un feticismo che ci conquista. Mentre il mondo attorno a noi tende a dissolversi essi si abbarbicano a ciò che hanno visto e che hanno afferrato». Bologna, Galleria La Loggia, ottobre Franco Angeli espone con Livio Marzot, Mario Nanni, Pietro Ruggeri, Sergio Romiti, Achille Perilli e Claudio Olivieri nella mostra Pittura contemporanea. Bibliografia selezionata: − G. D’AGATA, F. SOLMI, La Loggia, in «L’Unità», 21 ottobre. − s.a.,Otto pittori, in «Il Resto del Carlino», 23 ottobre. − C. CORAZZA, Otto pittori, in «L’Avvenire d’Italia», 28 ottobre. Roma, Galleria La Tartaruga, ottobre Franco Angeli, Gianfranco Baruchello, Umberto Bignardi, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Sergio Lombardo, Renato Mambor, Fabio Mauri, Mimmo Rotella, Mario Schifano e Cesare Tacchi partecipano insieme a Piero Dorazio, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo, Pasquale Santoro e Cy Twombly al Premio La Tartaruga. Premiato Achille Perilli. A cura di Plinio De Martiis. Bibliografia selezionata: − s.a., s.t., in «Collage», n. 3-4, dicembre , p. 118 (mostra citata). − L. TRUCCHI, Due premi indicativi, in «La Fiera Letteraria», a. XIX, n. 37 (nuova serie), Roma, 1 novembre, p. 8. Roma, Galleria La Salita, 6 ottobre Tano Festa, Titina Maselli, Mimmo Rotella e Mario Schifano espongono con Carla Accardi, Ettore Colla, Antonio Sanfilippo e Toti Scialoja nella mostra Presenze alla XXXII Biennale di Venezia. Pittsburgh, Museum of Art, Carnegie Institute, 30 ottobre Mimmo Rotella e Mario Schifano espongono con altri artisti nella mostra The 1964 Pittsburgh International Exhibition of Contemporary Painting and Sculpture. Roma, Libreria Galleria Ferro di Cavallo, novembre Mario Schifano espone disegni in collaborazione con il poeta Frank O’Hara nella mostra Parole e disegni. Bibliografia selezionata: − s.a., Mario Schifano – Frank O’Hara, in «Successo», a. VI, n. 10, Milano, ottobre. − M. FAGIOLO, O’Hara e Schifano al “Ferro di Cavallo”, in «Avanti», 5 novembre. «(...) Una pittura che non sa rinunciare al simbolo, e si colloca a brani sulla tela, puntando più sulle zone di colore neutro che sugli episodi spersi di figurazione. In queste ultime cose, quelle zone sono state riempite da righe di poesia, Schifano si è unito per un esperimento a Frank O’Hara, critico e poeta americano, e i risultatili vediamo non in una galleria ma in una libreria a due passi da piazza del Popolo. Si ripropone apertamente il problema dell’illustrazione d’un testo, affrontato in sensi diversi dagli artisti del 900. Schifano e O’Hara propongono un’opera integrata, dove testo e disegno nascono quasi insieme e poi si uniscono strettamente, e riesce quindi molto difficile districare il momento di esecuzione. Un nuovo rapporto tra testo e immagine, perché l’immagine con la sua narrazione anche minuta diventa testo, mentre il testo assumendo movimenti figurativi diventa immagine pittorica. Il poeta e il pittore si raccontano a vicenda i miti di questo nostro tempo di macchine e di morte. Le tragiche nuvole radioattive, il mondo filmico con le sue vamp, i semplici miti popolari d’Europa e d’USA, la macchina rossa di Dallas e l’invocazione a Manzoni per un nuovo Cinque maggio, l’alternativa cielo-inferno e miseria-nobiltà. Con un mordente senso della satira di costume, con un disegno e un colore ricchissimi. Molto interessante la tavola dello Scontro, dove nasce un dialogo tra poeta e pittore. Il poeta si lamenta che nello scontro frontale delle auto dipinto da Schifano non trova il sangue, mentre il pittore risponde di non sentirne il bisogno. Perché il senso del dramma è dato proprio dallo “scontro senza spargimento di sangue”, dalla sua disperata inutilità: proprio come nelle sculture di Chamberlain con rottami d’auto. (...)». − M. DIACONO, “Parole e disegni” di O’Hara e Schifano, in «Collage», n. 3-4, Palermo, dicembre, pp. 98-100. «Le alleanze tra pittura e poesia, realizzate sempre in un clima di eccezione e di privilegio, costituiscono una delle più frequenti inventiones dell’avanguardia, e ormai anche uno dei suoi più costanti fallimenti. L’insistita aspirazione dell’immagine a diventare logos, e del logos a concentrarsi nella fulminea comunicabilità dell’imago viene puntualmente frustrata e sconfitta dalla eterogeneità irrevocata dei due linguaggi, che ambiscono a farsi convergenti ma a cui ostinatamente non resta che rinnovare una fatica di Sisifo per attingere l’unità aurea primordiale che geroglifico ed ideogramma realizzavano. Non resta oggi alla scrittura che abdicare alla sua erosa e sbiadita semanticità, inseguendo il miracolo segreto, il mysterium, dell’essere non nel significato ma nel segno, protendendosi dunque in un’ansiosa domanda verso la pittura che, da parte sua, tende nella propria vena intellettualistica a svincolarsi dallo status millenario, dal marchio aristotelico di mimesis, per proporsi come linguaggio assoluto e integrale, segnaletico. I risulatati dei maestri Zen, di Hakuin e Tôrei,rappresentano l’orizzonte ancora inaccessibile d’uno sforzo che non vuole arrendersi alla, in apparenza, irreversibilità della storia. Le “parole e disegni” che Frank O’Hara e Mario Schifano hanno esposto alla galleria Ferro di Cavallo, hanno come progetto iniziale la precisa delimitazione delle rispettive competenze di parola e immagine. L’unico elemento che il poeta e il pittore si riconoscono comune è la superficie bianca su cui hanno deciso d’incontrarsi e di operare. Schifano vi proietta i paesaggi che diaristicamente gli comunica non la “natura” ma il mass medium rotocalchico e pubblicitario e attivamente li investe poi della più dichiarata sensibilità “impressionista” – un impressionismo “usato” freddamente, come “mito” culturale, apertamente denunciato dunque nel suo costituirsi anch’esso mass medium, fonte accettata e/o demistificata (la didascalia apposta spesso da Schifano, “en plein air”, è appunto la sigla esemplare di questa proclamata “indifferenza” culturale) – ; mentre sul residuo bianco della stessa superficie O’Hara interviene direttamente, poeticamente, con innegabile coscienza calli-grafica, riuscendo a farsi violentemente provocare, insieme, dalla inconsueta dimensione della pagina, dalla situazione cioè di privilegio grafico in cui viene a trovarsi, e dal modo e struttura dell’immagine già nota del pittore, fornendo così una sorta di parallelo scritturale al libero, ma controllatissimo, emozionale painting di Schifano. Un inconsueto movimento anima i fogli; non per niente O’Hara aveva attivamente accompagnato gli eventi di Pollock, De Kooning e Kline, e Schifano nell’ipervitalità del Greenwich Village approfondiva il senso d’una tradizione pittorica europea innestata “naturalmente” su alcune sconvolgenti istanze americane, col sottinteso telos magari di sconfiggere in pieno 262 il fascinum oggettuale e rivoltoso della pop. L’esito è stato comunque un momentaneo identificarsi del gesto del pittore e di quello del poeta, il quale non si limitava a trascrivere in margine o a complemento del disegno i testi elaborati in un working precedente, ma lasciava invece che la parola arrivasse al foglio come presenza immediata non diversamente dall’immagine del pittore, rompendo così spesso la struttura poetica che gli è abituale, fino a limitarsi all’annotazione, all’esclamazione, all’acrostico sarcastico, al gesto verbale. Mentre però il poeta doveva rinunciare alla propria misura per investirsi in qualche modo di quella del pittore, sovreccitandosi nello sforzo di andarsi oltre, Schifano con la tranquilla passività che gli veniva dalla coscienza dei propri limiti semantici non poteva non ribadire, a ogni foglio, la precarietà dei significati che gli si venivano affiancando, pure stimolando costantemente la scrittura verso la strada mitica del segno». Roma, Galleria La Tartaruga, 11 novembre Mario Ceroli. Testo di Maurizio Calvesi (Dritto e rovescio, pubblicato in Catalogo 2, Roma, La Tartaruga, febbraio 1965). «A parte le segnalazioni sporadiche (come la positiva citazione di Vivaldi nell’ultimo numero di D’Ars Agency) lo scultore Ceroli è nuovo alle cronache d’arte. A Roma lo si conosce da un anno circa, da quando Plinio De Martiis ha messo fuori qualche suo pezzo: come l’orologio, il telefono, il SI-NO, sculture in legno grezzo, a due facce, tutte di formato abbastanza notevole. Nel corso dell’estate e dell’autunno, Ceroli ha lavorato; nel suo studio s’è visto spuntare un Asso di fiori (destinato, esattamente dopo un secolo, a vendicare l’autore dell’“Olimpya” dell’ammonimento di Courbet, che un quadro “non è una carta da giuoco”), seguito da un Uomo di Leonardo. A breve distanza di tempo, poi questa produzione è apparsa nell’attuale personale della Galleria La Tartaruga, aumentata di quattro o cinque numeri, una carta d’Europa, un Telestar e, particolarmente notevoli, un Adamo ed Eva, e la Pantera. Il crescendo, intendo qualitativo, è stato nitido. Una bella stringatezza plastica dimostravano già le Lettere, poi il discorso si è anche articolato, individuando una serie di possibilità elementari ma nuove. È intervenuto anche il colore, in date zone del legno, mentre altre restano grezze e variate da tonalità naturali. Ma soprattutto s’è arricchito il giuoco della figurazione. Spesso l’immagine, ritagliata nel legno, ha per sfondo la sagoma vuota, il negativo del ritaglio; o, al contrario, è il pieno che fa da sfondo al vuoto; il profilato dei contorni acquista una staccata densità ed evidenza; sottolineato così dall’orlo d’aria che corre tutto intorno. (...) Proprio per il suo valore di puro contorno, all’interno dell’immagine l’intaglio può essere sostituito da un sottile tratto grafico sul legno, che può servire ad introdurre note più timide e accennate. Queste sculture hanno quasi sempre un rovescio dove, naturalmente, il giuoco dei rapporti tra pieno e vuoto si presenta invertito, ma anche arricchito da elementi che variano, con una ugual parte di prevedibilità e di sorpresa. Dritto e rovescio vogliono presentare, oltre che due aspetti compresenti e intrecciati dell’oggetto plastico, anche due momenti diversi della nostra appercezione psicologica della cosa, o dell’avvenimento, rappresentata. L’albero porta-mela la cui chioma riprende con forte stacco, sul davanti, i profili di Adamo ed Eva, nel retro è assente; solo in basso la tavola è occupata da un water, dove le frecce sembrano indicare il percorso di condanna che seguirà la mela evacuata. Non è, comunque sull’ironia di questa metamorfosi che l’opera fa leva, ma sul passaggio dall’“esterno” dell’albero a questa sorta di “interno” appartato e domesticamente segreto che è il retro; onde chi, con sussiego critico e desiderio d’informazione, faccia per girare dietro alla scultura, sia richiamato a tutt’altro gesto, quello quotidiano di aprir la porta del bagno. Rimorso per l’indiscreto affacciarsi e sorpresa, ma fino a un certo punto, perché potevate immaginarlo che Eva come Adamo, David come Michelangelo, o come il moderno Ulisse di Joyce, si ritiravano anch’essi in gabinetto. Anzi ora li vedete nell’atto un po’ in ombra e staticamente vergognoso di approntarsi a farlo: questo padre Adamo che è un David dal braccio sinistro finalmente rilassato, sceso come per appoggiare il pugno alla maniglia di una porta, mentre con la mano destra parrebbe apprestare a funzioni più modeste quel suo nudo fiammante, fiero nel segno di una così “benemerita” virilità. Mitologia del quotidiano o, scusate, proprio il contrario. Un mondo eroico, storico o ancestrale che viene così non dileggiato, ma allineato a quella stessa ironia che un po’ allevia, un po’ illustra e un po’ rivela il senso dell’avventura di tutti nel mondo. Che la storia, profana o sacra, che Michelangelo e l’arte e i tanti simboli di Roma diventino subito e necessariamente, per chi operi in questa città, parte ironicamente, o metafisicamente, o indifferentemente integrante di un certo tipo di ricognizione del quotidiano, l’hanno dimostrato Festa, Angeli, Tacchi con le sue vedute dal taxi, lo stesso Schifano con la testa di Leonardo. Ceroli non lo fa con il testardo ristagno di Festa, o con l’accennante e poeticamente sfocata ideologia di Angeli. Né con il puro gusto visivo degli altri, ma altrettanto en passant. La sua perspicuità plastica porta con sé, mi sembra, un senso di intelligente e di sano che si proietta con una venatura di non insinuante ironia sugli oggetti come sulla condizione stessa (e sulla storia) dell’uomo, condizione rispecchiata negli oggetti che non valgono spaesati e per sé, ma come testimonianze della sua presenza. Ed eccolo, l’uomo, l’uomo-centro-del-cosmo, quello di Leonardo, che in ultimo (e tutto sommato con inutile monumentalismo) avevamo visto diventare l’uomo di Ipoustéguy, ritrovarsi nudo e meschino ma disinvolto, nei panni di legno di Ceroli. Le sue braccia aperte non potranno piò aspirare a rivestirsi di penne, per emulare gli uccelli nel volo; ma un’altra e più domestica (anche se forse non meno utopistica) potrebbe essere l’aspirazione di quest’uomo-marionetta che viaggia in macchina (e che, volendo volare, non ha che da rivolgersi all’Alitalia): quello di prevenire la pancia facendo ginnastica al mattino. Un-due, su le braccia e le gambe, facendo perno sulle natiche muscolosette e sul pettorale sporgente. Un-due, vuoto-pieno, rosso-nero. Ma dove approdi l’ironia e in qual misura, invece, la scavalchi il puro gusto visivo, spregiudicato, di una immagine nitida, tirata (un po’ come in Lichtenstein), sgusciante da ogni convenzione spaziale e iconografica, rivissuta nell’invenzione e nel giuoco, è abbastanza difficile valutare». Maurizio Calvesi Bibliografia selezionata: − M. CALVESI, Mario Ceroli alla “Tartaruga”, Roma, in «Collage», n. 3-4, dicembre, pp. 110-115. Roma, Galleria Arco d’Alibert, 16 novembre Franco Angeli. Frammenti capitolini. Citazioni di articoli del Codice Penale e uno scritto dell’artista. «Roma, capitale d’Italia: città ministeriale barocca clericale, capitale politica cattolica cinematografica governativa: attori registi duchi conti assessori marchesi sottosegretari attrici produttori quotidiani fascisti ambasciatori arrivisti vescovi cardinali seminaristi preti monache sacramenti, meta turistica: monumenti lapidi piazze chiese san giovanni san sebastiano santa caterina san giuseppe santa maria del popolo santissimi apostoli confraternite opere pie opere assistenziali processi clamorosi per appropriazione indebita favoreggiamento speculazioni edilizie assegni a vuoto protesti cambiari offesa ai sentimenti nazionali alla religione alla morale a pubblico ufficiale: trasferimenti promozioni sfratti scatti decorazioni commemorazioni ricorrenze celebrazioni discriminazioni riconoscimenti onorificenze nostalgie lamentele suppliche concorsi parentele premi raccomandazioni e precedenze». Franco Angeli Bibliografia selezionata: − V. APULEO, Franco Angeli all’“Arco d’Alibert”, in «La Voce Repubblicana», 1 dicembre. «Piuttosto gratuita l’indicazione “frammenti capitolini” che Francesco Angeli dà alla sua personale allestita nello Studio d’Arte “Arco di Alibert”. E diciamo gratuita non per il significato letterale di una tale indicazione di tema, ma per le intenzioni che sono o almeno vorrebbero essere alla base del discorso dell’artista. Questi frammenti che hanno tutta l’aria di illustrazioni, non hanno nulla della preziosità del frammento, né risolvono la carica polemica che la trascrizione, a mo’ di leggenda, degli articoli del Codice Penale legittimamente l’osservatore si aspetterebbe da queste opere. Si risolvono così in qualcosa di epidermico, decorativo, più o meno ai limiti della trovata e dell’invenzione d’effetto». − D. MICACCHI, I “frammenti capitolini” di Franco Angeli, in «L’Unità», 5 dicembre. «Roma, capitale d’Italia: città ministeriale barocca clericale, capitale politica cattolica cinematografica governativa..., è il tema trattato, per emblemi, da Franco Angeli nei molti fogli che fanno aggressiva la sua mostra all’Arco d’Alibert (via Alibert, 2). E una novità dal punto di vista plastico: rispetto ai quadri della Biennale La lupa e Quarter dollar, non c’è più il velo che teneva lontano e lasciava intravedere l’emblema minaccioso. I simboli del potere borghese e clericale sono trattati con una pittura diretta, monumentale e di chiara lettura. Lo stile è raffinato e grottesco; la materia elaborata e preziosa restituisce la venerabile opulenza dell’emblema e in essa accenna un ghigno e un gesto che rivelano la mostruosità minacciosa. Lupe e aquile sono trattate con quella patinatura di materia-colore che è tipica di un Vacchi, l’ambiguità dell’emblema fra ufficialità e mostro è un risultato plastico più personale di Angeli. “Frammenti capitolini” ha titolato questi suoi fogli il pittore e di frammenti si tratta che, fuori dal contesto usuale, fuori anche dalla memoria e dai miti, mettono in truce evidenza quel che è nascosto o camuffato. Per quel che questi gouaches accennano su di un possibile sviluppo, si può dire che l’uso diretto dell’immagine a piena pittura segna per Angeli un netto passo avanti quanto a evidenza plastica. La posizione del giovane artista romano è già decisamente alternativa a quella di un Johns pittore della “bandiera americana”. L’ironia nera di Angeli è brutale e aggressiva: tiene a bada i mostri che maneggia, mette in ridicolo le aquile e i lupi che ci hanno tenuti a balia». − s.a., Arco D’Alibert, in «Il Popolo», 8 dicembre (mostra citata). − M. FAGIOLO, Per una figurazione “Novissima”, in «Marcatrè», n. 11-12-13, Milano, pp. 306-319. «(...) Non vogliamo in questa occasione fermarci sulla sua opera totale, perché allora dovremmo parlare di quelle sue immagini in silhouette che nascono dietrola tela, la quale prende in tal modo la funzione d’un “trasparente”, non più il supporto della pittura ma simbolo della materia che ostacola una visione pittorica. Questo ci sembra il vero significato, perché Angeli non è su una via medianica o evocativa di “presenze” larvali (come già chiariva Vivaldi nella mostra del ’60 alla “Salita”). Ma non vuole neanche fenomenizzare gli strati della memoria umana (come proponeva Vivaldi) perché gli basta la resa drammatica del rapporto difficile intercorrente tra l’artista e la materia. C’è anche da parte di Angeli (e lo ha notato Calvesi) lo strano desiderio di vanificare in una zona indistinta il simbolo, che pure il pittore si era affannato ad isolare: e un processo analogo è in certi quadri di Rotella, dove imanifesti lacerati sono incollati al contrario, e affiora appena l’immagine colorata.Il simbolo di Angeli è sempre mediato e mai immediato, perché il pittore non si limita a prendere atto d’una sfera superumana ma tangibile, perché il pittore ritrova qui simboli nella sfera umana. Così, la croce non è quella del Golgota, ma quella “seriale” presente nei cimiteri di guerra. La svastica deve ricordarci il momento buio dell’“entartete Kunst” (quando i nazisti stampigliavano con colossali croci uncinate le opere d’arte sgradite al regime). La lupa romana non è soltanto quella del museo, non è quella pretenziosa e snob del souvenir de Rome, ma è l’immagine più vulgata e insie- 263 me patetica: quella del tondo e verde cartellino del vigile notturno della capitale (uno ne abbiamo visto a terra, nello studio in disordine di Angeli).In questi ultimi gouaches assistiamo a colloqui di lupe, alla presentazioni delle papali chiavi-dorate, all’affiorare dell’emblematica aquila, a frammenti di civiche iscrizioni, periture come gli affiches, durature come le lapidi. L’immagine spesso decentrata sembra proprio invocare l’iscrizione a chiarimento, più spesso il campo bianco è riempito da scritte che sembrano cronicistiche e sono invece di impronta cabalistica.La forma si presenta a sprazzi, a bagliori colorati. La trattazione compendiaria dell’essere animale (aquila, lupa) si unisce alla trattazione riflessiva e microscopica dei brani di iscrizione. l’immagine si colloca in silhouette, spesso a frammenti, con la crudeltà del rostro, con l’implacabilità dell’artiglio. Una figurazione che forse parte dal burlesco ma arriva alla deflagrazione: ed è strano come questi miti “comunali” e “capitolini” possano trovare rispondenza nelle mitologie più avanzate della pittura, oggi. Angeli vuole trascrivere le impronte più labili della città, quelle destinate a cancellarsi: ed è la poetica d’un Dubuffet. Davanti all’artiglio e al rostro pensiamo alla aquila leit-motiv dell’ultimo Raushenberg: le iscrizioni variamente modulate si associano alla ricerca di Jasper Johns. Ma è lontanissima da noi l’idea che la pittura di Angeli sia “new-dada”. Proprio perché il pittore associa nel suo discorso intenzioni molteplici (e anche contraddittorie): con la volontà di esprimere tutto e la paura di non fare a tempo. (...)». Roma, Galleria Odyssia, 16 novembre Mario Schifano. Poesia di Nanni Balestrini. «Albero quadro per l’autunno / l’albero cioè un albero / verbale cioè un albero / il grigio è un albero / l’albero della pubblicità / albero sensibile / l’albero dell’albero / e ci sono altri alberi / quadro per l’incidente / su un piano verticale / che avviene all’improvviso / a livello puramente descrittivo / due metri per due metri / l’oggetto dell’immagine / sembrava che fosse più in alto / momentaneo e presto rimarginato / esterno di campagna / gli alberi in alto / quello che vedi si trasforma / e i nomi dei colori / di gesti compiuti di desideri / che allarga i limiti della natura / la riga rossa a destra / un nodo quando tramonta / da destra verso sinistra / la superficie del quadro / in un complesso di percezioni immediate / che si specchiano grigi / che si specchiano i grigi / attraverso lo schermo / è un evento impersonale dell’azione / mettendoci tutti i colori (...)». Nanni Balestrini Bibliografia selezionata: − s.a., Mario Schifano, in «L’Unità», 14 novembre. − M. FAGIOLO, Mario Schifano tra Futurismo e reportage, in «Avanti», 27 novembre. «(...) in vasti campi bianchi troviamo l’esplosione improvvisa di uno scontro, o la forma di un albero gigante (appena suggerito, ricordo d’una natura che non meritiamo più), o lo stridere di ingranaggi, o le file di individui in marcia verso qualcosa che non raggiungeranno mai, e sulla testa il cielo sfrangiato che si può intravedere tra i cornicioni della città. Alcuni parlano di pop-art, ma prima di tutto è una pop-art fatta coi mezzi classici del pittore (Vivaldi parla di “fame di pittura”), e poi Schifano ha tutto il diritto di servirsi di quei mezzi, perché sarebbe un inutile sperpero buttarli in un angolo buio e dimenticato. Punto di partenza americano, quindi, anche se il pittore ha saputo trasformare in linguaggio italiano i capziosi stimoli “internazionali”. Si potrebbe approfondire il rapporto di Schifano con il Futurismo e con Balla in particolare (…). Ma questi spunti sono rimescolati e resi operanti da una fantasia sfrenata, da un genio senza limiti, da una perentoria qualità figurativa. (…) Erano i mezzi della pop-art (del “reportage”) quelli che Schifano sfruttava nel 1963, presentando un Grande paesaggio italiano a colori, dove l’immagine era chiusa nel campo obbligato della foto-ricordo, e il colore sbavava lentamente, insinuando nella nostra mente un processo organico di putrefazione. Oggi, se il gioco ci è consentito, quel colore rappreso a grumi smaltati è tutto sgocciolato. Schifano dipinge è vero paesaggi, ma non sono più quelli coloratissimi delle insegne pubblicitarie (care ai “pop”), bensì quelli che si riflettono immediatamente sullo schermo mutevole della sua percezione. La mediazione tra natura e quadro non avviene più attraverso lo schermo labile dell’immagine di massa (pubblicità, segnalazioni, immagini filmiche) ma attraverso il sentimento individuale. Schifano rinuncia alla comoda attività del reporter per costruire una nuova realtà (non diremo una “super” realtà). Non accetta più passivamente la realtà di ogni giorno ma la verifica volta per volta, la seleziona, la spersonalizza o la esalta, ne sceglie un lato più interessante; non bada alla completezza delle informazioni (e quindi alla vastità) ma tende alla ricerca del particolare (e quindi alla profondità). Schifano non è il reporter pronto ad assorbire fatti e misfatti del mondo per restituirli cronisticamente, ma un uomo che non vuole evadere dai suoi compiti, primo fra tutti la critica cosciente della realtà. Un grande letterato che si diverte a fare il reporter. C’è in questa opera il senso modernissimo dell’esperimento, caro a ogni spirito libero (un quadro del ’63, due metri per due metri, presentava proprio l’effigie meditativa di Leonardo, empirista principe). È senza dubbio una esperienza diversa, che non può catalogarsi sotto il nome vieto di “nuova figurazione”, ma potrebbe definirsi “figurazione novissima” (come è quella di Franco Angeli): con riferimento alle vibranti e disarticolate proposte di Sanguineti e del suo gruppo. (…) A conclusione, vogliamo sottolineare due dati di fatto “formali”. Schifano non dipinge su una tela unica, ma accosta tele diverse, nel senso della lunghezza o dell’altezza, lasciando ben scoperta la frattura. Ma non c’è il senso dell’antico polittico che in ogni riquadro recava un’immagine chiusa in sé, e non c’è neanche il senso delle “strips” dei fumetti, autonome anche se legate da un filo logico. La pittura si svolge senza interruzioni su queste tele accostate: misterioso messaggio di molteplicità nell’unità, di suddivisione nella continuità, di frattura nell’ordine. Abbiamo parlato, prima d’una vasta tessitura monocroma, ma a ben vedere, nell’angolo o nel basso d’ogni dipinto, si può trovare un’iride di strisce colorate: il pittore per il momento rinuncia al colore, ma è ben cosciente della sua importanza. Siamo certi che prima o poi Schifano tornerà al colore: e non sarà più un colore metallico e “pubblicitario” come nelle esperienze ormai vissute, in una intensissima giovinezza pittorica». − M. FAGIOLO, Per una figurazione “Novissima”, in «Marcatrè», n. 11-12-13, Milano, pp. 306-319. − D. MICACCHI, La natura ritrovata di Schifano, in «L’Unità», 28 novembre. «(...) Ancora un anno fa era assai evidente la relazione con il gigantismo primitivo e cartellonistico dei Pop Artists, sia quando Schifano dipingeva monumentali frammenti di insegne sia quando abbozzava, soprattutto disegnando, piccoli frammenti della natura e della città. Ma anche allora l’interesse del pittore era per la tecnica e i mezzi Pop al fine di dilatare in maniera monumentale la sua personalissima tensione lirica verso la natura. Con i quadri di questa mostra Schifano ha fatto un passo avanti, e forse quello decisivo, nel senso che la tensione ha toccato il suo oggetto: la natura, con organicità, accenna a dispiegarsi frammento dopo frammento. (…) Certo i dipinti attuali di Schifano sono ancora più sommari che essenziali, più schematici che “semplici” e, proprio in senso contenutistico, il riaffiorare della natura in essi – come se l’erba fosse cresciuta infilandosi implacabile per le “scacchiere” di Mondrian – ha una prepotente forza di attrazione che, a una considerazione più distaccata, potrebbe anche attenuarsi (al confronto penso, ad esempio, alla presenza ossessiva della natura in alcuni dipinti di Guttuso e al travolgente desiderio della natura in opere recenti di Ferroni). Ciò che affascina dei dipinti di Schifano è, forse, anche ciò che è umanamente precario – come una testa di ponte della pittura sul continente Natura – : è la desiderata conciliazione dell’uomo con la natura, la tentazione di una pittura semplice, “senza angoscia” (come dice Nanni Balestrini). In definitiva la possibilità di una pittura naturale, calma, voluttuosa. Più avanti, con altri quadri di Schifano, ci auguriamo di poter dire prepotentemente terrestre. Qualcosa di nuovo e di prezioso è già la tenerezza del suo segno e l’accenno programmatico a una possibile colorazione del mondo nei toni e nei valori di un sereno e luminoso moto delle stagioni, dove l’uomo potrebbe tornare a integrarsi col suo tempo della “semina” e del “raccolto”». − D. MOROSINI, La pittura di Schifano e la pop-art in Italia, in «Paese Sera», 4 dicembre. − V. RUBIU, L’occhio fotografico di Schifano, in «Il Punto», 5 dicembre. «Con la recentissima serie di quadri esposti alla galleria Odyssia, Schifano stupisce i suoi stessi estimatori, che sono molti, e non solo in Italia. Una natura arrischiata in pieno “plein air”, con tanto di primavera e di ultimo autunno, fa davvero evento inconsueto in campo artistico, e più ancora l’audacia di agganciare in un’unica presa i tempi e i tempi sparsi della nostra esperienza percettiva. Perché il merito certo di Schifano, ma non il solo, sta proprio nel seguire secondo un suo ritmo individuale e imprevedibile questa interazione tra situazioni e contenuti diversi: un particolare di pubblicità Coca-Cola costretto ad assumere l’isolamento silenzioso di una natura morta, la diagnosi stagionale di un albero ischeletrito nei suoi rami contrastata dallo stimolo visivo di un colore come di vernice fresca. Questo, e altro ancora, non come semplice intenzione, ma con una padronanza quasi sprezzante del mezzo espressivo, che fa di per sé risultato. (…) Che è “pop”, certamente, come vuole l’attuale svolta nell’evoluzione del gusto, ma senza l’aggressività fisico-psicologica degli americani, e con questo di particolare: che la novità strutturale, l’uso di materiali prefabbricati o meglio i larghi imprestiti dalla fotografia e dalla grafica pubblicitaria non escludono e anzi rafforzano l’emozione di fronte allo spettacolo naturale. Così si spiega il felice paradosso di un nuovo modo di vedere le cose, che per essere frammentato e come adulterato in partenza da uno schema concettuale risulta nondimeno spontaneo, capace di contenere e suscitare l’emozione del tutto. Da una parte la scena esterna, la natura materialmente maneggiata: un albero e un “corpo in moto e in equilibrio”, un “volo felice” di colombi e un “indicente di macchina” disegnati con un ricalco dal vero, ma anche sdoppiati in profilature sommarie, in immaginari contorni, inesistenti nella realtà, con un che di mosso e di sbavato che li rende più vivamente presenti; dall’altra l’isolamento della scala cromatica, ma anche la struttura portante di un colore che, proprio perché intenzionato nella sua pura incidenza percettiva, quasi di carne viva, si fa subito qualità esterna, pronta, a trasformare l’eccitazione locale in una visione d’insieme, a installarsi per così dire nell’oggetto, pur rimanendone al di fuori. “L’aspetto del mondo per noi sarebbe sconvolto se riuscissimo a vedere come cose gli intervalli fra le cose – per esempio lo spazio tra gli alberi lungo il viale – e reciprocamente come sfondo le cose stesse, gli alberi del viale”. Per Schifano torna buona questa nota, in chiave di fenomenologia della percezione, di Merleau Ponty. Senza pretendere di sconvolgere il mondo, s’intende; bensì riattivandone la vista con un occhio fotografico e patetico insieme, la brusca efficacia di un disegno reinventato sull’oggetto; l’apprensione istintiva, la significazione elementare ed esplicita dei colori scalati. Colori che come hanno l’aria di conversare amabilmente a distanza, così riempiono gli “intervalli fra le cose; che mantengono un senso di morbidezza eppure sono ricchi di energia, sia che agiscano come una sorta di medio proporzionale fra ciò che semplicemente vediamo e ciò che percepiamo in sede estetica, sia che si visualizzino come una figura in proprio, con le altre figure, quelle ’vere’, a far da sfondo”. Fortunatamente siamo lontani mille miglia dallo sfruttamento metodico dell’occhio “percettivo” o specialistico, oggi di moda nel mondo dell’astratto (ma in Italia e in Germania molto più che negli Stati Uniti). Viva la faccia di Schifano che è troppo schietto e fantasioso per applicarsi a così meccanici esercizi. La sua pittura, facciamo nostre le parole di Maurizio Calvesi, apre su “nuovi orizzonti di immagini, strumentalità di visione di cui l’ipotesi percettiva si va appropriando e arricchendo; materiale non già da scartare con puristico sdegno da 264 conservatori di museo, ma da assumere al livello della pittura... Quel che conta è che questa pittura porta, nell’attuale crisi dei linguaggi, una ventata di novità, una risoluta, concreta possibilità di discorso, finalmente non escogitata, ma trovata». − s.a., Odyssia, in «Il Popolo», 27 dicembre. − M. VENTUROLI, Mario Schifano scienziato dell’immagine, in «Le Ore», 30 dicembre. «(...) la misura con la quale l’artista raccoglie i suggerimenti dei “mass media” è italiana, e così accade anche nei suoi colleghi Festa, Fioroni, Maselli, Angeli, Arcò. Cosa sono, dunque, quelle strisce che il pittore colloca, appena incominciate a svilupparsi, secondo una direzione orizzontale, di lato o alla sommità della tela, una tela che contiene solitamente una sorta di imbastitura, una sagoma di realtà oggettiva, albero, gente che cammina, colombi che volano? Sono prove di iride, gamme cromatiche sulle quali potrebbe essere condotta, volendo, tutta l’immagine, restata rarefatta, allo stadio di ipotesi figurativa. Mai come nei quadri di Schifano ho avvertito, direi quasi tattilmente, questo farsi dal nulla di una immagine della realtà esterna: per cui la sua ipotesi è reiterata in successive impronte o prove (come ad esempio la immagine degli uomini che camminano, dei piedi che si sollevano e si moltiplicano a guisa di un classico “dinamismo” futurista, appoggiato al cinema), in segmentazioni di linee, che ora circoscrivono uno spazio in sagome elementari, quasi di tirassegno, o di archetipo, ora delimitano nelle figure sommariamente disegnate (e assenti di chiaroscuri, di starti) una parte di esse, quasi che l’artista abbia voluto rappresentare con queste tracce un pensiero di piani, di zone di approfondimento, di zone che dovessero comunque essere diversificate. Il pittore sembra dare l’idea non già di un quadro finito, ma della stupefazione dinanzi a un pensiero pittorico, a una immagine in fieri sulla tela: gli ingredienti della immagine finita sono ancora scissi, di qua, le strisce di colore, cariche come una tavolozza, di là “il disegno” da riempire: eppure questa scissione non frustra, non si riduce a una carenza della semantica (ovvero di ciò che il quadro alla fine significa). (...)». − E. CRISPOLTI, Schifano all’Odyssia, in «Palatino», a. VIII (3° serie), n. 9-12, Roma, settembre-dicembre, p. 253. − V. SAVIANTONI, Mario Schifano, in «Arte Oggi», a. VII, n. 22, Roma, gennaio 1965, p. 57. «(...) L’estetica più attuale pare non tenga conto dei fattori: “forma o non-forma” della pittura e sembra che voglia orientarsi, superata la sua fase dialettica, verso la sintesi dei due concetti. Rappresentazione tipica di questo nuovo indirizzo è, a nostro avviso, l’opera di Schifano, la quale ha conquistato certe posizioni di rilievo insieme a certi valori di sintesi, posteriori al lungo travaglio delle ricerche formali. Il segno grafico è in Schifano un mezzo casuale, subalterno seppure amplificatorio, di rappresentazione, non necessariamente legato alla ispirazione (se di “ispirazione”, in senso tradizionale è il caso d parlare). L’artista descrive i motivi “ambientali” della realtà, e, in questi motivi, l’uomo acquista la stessa “dinamica” delle cose; si esprime o viene espresso) sulle stesse coordinate degli oggetti di uso e consumo generale. Con questo tipo di “pittura”, senza una mediazione vera e propria e passionale, l’autore dimostra di sapersi integrare nella civiltà attuale, di volerla accettare. E questo è, da una parte, il pregio; da un’altra il limite della sua “proposta”. Infatti se l’artista demitizzando il comportamento dell’uomo nella realtà, lo innerva nei dati palesi della nostra esistenza strumentale, ne abolisce tuttavia il potere di polemica e ne insidia la “presenza” e il valore dialettico. L’artista dunque accetta la massificazione dell’uomo? Ora è proprio questa massificazione che, nell’arte di Schifano, da un lato riduce l’uomo a cosa (lo ambienta cioè vicino all’oggetto, non ve lo oppone), d’altro canto, lo “recupera” (è forse l’unico recupero possibile?) alle possibilità della sua funzione “oggettiva”. Sulle estreme posizioni dello avanguardismo abbiamo quindi, oggi, da un lato le ricerche della “poetica” ghestaltica, agenti in profondità per la rivalutazione del “processo operativo dell’arte” (dall’intervista con Argan del sottoscritto: luglio 1964), dall’altro, il fenomeno del Pop-Art (scisso già nelle due correnti dell’arte “pop” tradizionale e dell’“optical art”) e, in mezzo, noi porremmo volentieri Schifano, coi suoi acquisti dell’una e dell’altra cultura e i suoi originali orientamenti novofigurativi. Caratteristica fondamentale dell’opera di Schifano mi pare sia, pertanto, proprio questo abbandono delle tematiche astrattiste e informaliste per un rilancio naturalistico, che appare (pur concedendo qualcosa ai richiami teoretici) originale e nel medesimo (causa certi effetti esclusivamente bucolici del racconto) sembra non avere interessi di rottura». (*) Venezia, Galleria del Cavallino, 4 dicembre Giuseppe Uncini espone con Gastone Biggi, Nicola Carrino e Nato Frascà (Gruppo Uno). Presentazione di Giulio Carlo Argan. Pubblicazione del Manifesto La Poetica della Percezione. Roma, Galleria Odyssia, 18 dicembre Franco Angeli, Gianfranco Baruchello, Umberto Bignardi, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Gino Marotta,Titina Maselli, Fabio Mauri e Mario Schifano espongono con Valerio Adami, Enrico Castellani e Lucio Del Pezzo nella mostra Disegni. Roma, Galleria La Salita, 19 dicembre Gianfranco Baruchello, Umberto Bignardi, Giosetta Fioroni, Fabio Mauri e Mario Schifano espongono con Gianni Colombo, Aldo Mondino, Giulio Paolini e altri artisti nella mostra Grande vendita: 12 giorni-200 articoli. 1965 Cortina d’Ampezzo, Galleria Haussmann, s.d. Mario Schifano espone con Valerio Adami, Rodolfo Aricò, Lucio Del Pezzo, Fabrizio Plessi e altri artisti nella mostra Otto pittori. Milano, Galleria Levi, s.d. Tano Festa espone con altri artisti nella mostra Operazione Goldfinger. Testo di Umberto Eco. Milano, Galleria Schwarz, s.d. Tano Festa. Parigi, Galerie Jolas, s.d. Franco Angeli. Roma, Galleria Arco d’Alibert, s.d. Fabio Mauri. Roma, Galleria La Fornarina, s.d. Mario Ceroli, Renato Mambor e Cesare Tacchi. Testo di Vittorio Rubiu. «Si dice disegni – di Ceroli, di Mambor, di Tacchi – ma in realtà sono qualcosa di diverso, un modo (oggi corrente) di rovesciare il luogo comune, il codice convenzionale del disegno, proprio come si rivolta un abito vecchio per farlo ridiventare nuovo. Meglio dire che questi disegni rientrano nella categoria (estetica, psicologica, ed altro) del prefabbricato, proprio perché c’è un rapporto di quasi identità, ma non di risonanza, tra la fotografia, l’immagine pubblicitaria o di massa e il disegno e una scultura di Ceroli, tra un disegno e un quadro di Tacchi (il caso di Mambor è diverso, come vedremo più avanti). Nel caso di Ceroli la distinzione è così evidente da sembrare una opposizione, sia pure di complemento. I suoi disegni hanno il valore di un testo psicologico da applicare, per contrasto, alla scultura. Le immagini, gli oggetti sono gli stessi, ma é come se il disegno sottraesse tutto quello che la scultura si preoccupa di aggiungere. Privati dei valori euforici che costituiscono un segno tipico, tra gli altri, delle sculture, questi disegni di Ceroli ci lasciano l’impressione minore, ma pulita, sottile, bene suggerita, di un messaggio simbolico al riparo di un tema stilistico. (E forse s’intende che il disegno fa stile, comunque lo si usi o intenzioni). Nel caso di Tacchi il disegno si sovrappone o penetra nell’immagine prefabbricata (che può essere anche un prodotto già confezionato, come la carta da parati). C’é dunque un’identità per contrasto che ha un valore dialettico. Anche qui, come in Ceroli, si ha m’impressione minore, poiché la fascinazione macroscopica, la volgare esuberanza dei quadri trova un limite preciso nel significato estetico del disegno in quanto tale, che predomina sull’apertura psicologica dell’immagine totale. Resta la validità operativa di un “disegno” che consente di distinguere quello che nei quadri si trova così allegramente e massimamente confuso. S’é detto che il caso Mambor è diverso: non tanto riguardo al modo dell’esecuzione, quanto al contenuto immaginativo. Anche la cultura d’immagine è diversa, dal momento che si tratta di registrare gli “incontri dell’ombrello con la macchina da scrivere sul tavolo di dissezione anatomica...”. Il bello è che questi incontri, e l’esigenza (anch’essa surrealista) di “spaesare le sensazioni”, trovano un Mambor per nulla intrigato dal paranoico o dall’ossessivo. Forse perché queste sensazioni, spaesate o incongrue sotto l’aspetto logico e della verosimiglianza, sono poi sapientemente unificate sotto l’aspetto formale della percezione visiva». Vittorio Rubiu Roma, Galleria La Salita, s.d. Mario Schifano espone con altri artisti nella Mostra di gruppo. Roma, Galleria La Tartaruga, s.d. Mario Schifano. Roma, Il Girasole, s.d. Luca Patella espone con altri artisti. San Paolo del Brasile, Museo de Arte Moderna de São Paulo, s.d. Mario Schifano partecipa con altri artisti alla IX Biennale d’arte contemporanea. Torino, Galleria Notizie, s.d. Tano Festa. Testo di Marisa Volpi. Verona, Galleria Ferrari, gennaio Pino Pascali espone con altri artisti nella mostra La critica e la giovane pittura oggi. Napoli, Libreria Guida , 11 gennaio Tano Festa, Mimmo Rotella e Mario Schifano espongono con altri artisti nella mostra Opere della Galleria d’Arte La Salita. Roma, Galleria La Tartaruga, 11 gennaio Pino Pascali. Testo di Cesare Vivaldi. «(...) Ancora una volta, nel caso di Pino Pascali, ho avuto il privilegio di assistere alla metamorfosi, di vedere dei tentativi pittorici diventare pittura. I pochi amici di Pascali 265 sanno benissimo quanto duro lavoro stia dietro un evento verificatosi, come quasi sempre accade, in un tempo brevissimo. Pascali lavora accanitamente da anni, standosene in disparte al di fuori del giro delle gallerie e degli interessi critici e mercantili, guardando tutti un po’ in cagnesco. Dopo un iniziale, promettentissimo periodo “neorealista” ante litteram, egli ha razzolato per un quadrienno, con esiti non troppo felici, fra riporti neo-dadaisti alquanto di seconda mano e le suggestioni del fumetto e della pubblicità, della pop-art insomma. Finché nel 1964, con i “rilievi” in parte ora esposti alla Tartaruga, è approdato a una terra tutta sua, a un’arte personale, di ottimo livello e per me interessantissima (a parte il notevole risultato estetico raggiunto) come una nuova conferma delle possibilità europee, anzi italiane, di superare la pop-art per creare una pittura e una scultura più complesse, più attente alla molteplicità del reale, se mi è lecito dirlo più “colte”. Questi “rilievi” di Pascali non sarebbero mai nati senza la pop-art, della quale – è ovvio – nessuno si sogna di disconoscere l’enorme importanza di rottura. Ma c’è in essi uno spessore culturale, contrastante la loro dichiarata semplicità, che li rende cosa molto lontana – tanto per mettere in campo un esempio – dai fumettoni brutali (e inerti, diciamolo pure) di un Lichtenstein. Il diaframma attraverso il quale l’oggetto è messo a fuoco, non è il mass media (e neppure l’obbiettivo fotografico, che sino a non molto tempo fa sembrava il minimo comune denominatore della giovane pittura romana) ma i miti tipici della nostra cultura spicciola: usati con gusto ironico e demistificante, ma insieme “presi sul serio”, per quel che valgono e contano realmente sotto la patina del luogo comune. Così Pascali ci restituisce un Colosseo, dei ruderi di colonne, un muro anche un omaggio ironico-commosso, a un passato, a una tradizione non tanto facilmente sopprimibili. Ma in questa mostra ciò che rivela meglio, più scopertamente, il rapporto odio-amore che lega Pascali alla realtà italiana, sono i grandi particolari di volti e di nudi femminili. Che in tali frammenti di corpi di donna ci sia un forte lievito surrealista mi sembra evidente. Queste gigantesse baudelairiane viste a pezzi e bocconi nascondono però qualcosa di più profondo del surrealismo, qualcosa di atavico e di ancestrale. Esse incombono, ci schiacciano, e l’atto di dominio è anche un atto di amore. Esse ci atterriscono, ci respingono e nello stesso tempo ci attraggono irresistibilmente. In forme modernissime, mi sembra, rivive in loro l’antico mito mediterraneo della Grande Madre, della quale ancora oggi siamo tutti succubi». Cesare Vivaldi Roma, Galleria La Tartaruga, 30 gennaio Giosetta Fioroni. Poesia di Nanni Balestrini, Quartina per Giosetta, pubblicata su Catalogo 2 (Roma, La Tartaruga, febbraio 1965). «I – e intanto che si muove sulla spiaggia che si alza sulla spiaggia seduta sulla spiaggia ritagliata e che cammina col gomito sulla pelle sollevata alzandolo e la spalla intanto la testa girata dall’altra parte sulla spiaggia bianca che si ferma e muovendosi intorno sulla pelle bianca e guardandola mentre seduta il gomito sollevato sulla spiaggia in questo modo si creano delle ombre / II – intorno ci sono le ragazze, che guardano, il sole che filtrava, col gomito alzato, con gli occhiali che guardano muovendosi da destra verso la spiaggia. occorre osservare la differenza, che si muovono intorno e guardano col gomito alzato, la pelle bianca, poi che riabbassano la spiaggia e intanto si solleva. giungendo oltre l’angolo dell’occhio. ritagliandola dove guarda mentre si solleva, e i capelli sciolti sulle spalle. occorre osservare la differenza fra. e allora le ragazze che restavano ferme. / III – e nasconde il mento sulla spalla ritagliata restando ferma mentre guarda ancora e intorno è tutta bianca la spiaggia che si muove intorno agli occhi alzati che si muovono nascosti e guardando allora in modo da formare un netto stacco un leggero liquido colorato sulla pelle per farli apparire più profondi / IV – e allora si alza in alto sullo zigomo verso la tempia e in piedi guardandosi intorno sul bordo della palpebra superiore compatta sul viso nudo oppure in mezzo alle guance oppure due centimetri sotto gli occhi si ferma restando, bianca sulla palpebra e sul lato esterno se si vuole dare un risalto particolare alle pupille se il viso è ovale che dà profondità all’occhio cerca di tracciare il contorno sulla spiaggia che incide contorni e lineamenti». Nanni Balestrini Bibliografia selezionata: − s.a., Giosetta Fioroni, in «Successo», a. VII, n. 2, Milano, febbraio, p. 91. − G. PARISE, Roma pop-art, in «Corriere d’Informazione», 5 febbraio. «(...) I soggetti di Giosetta Fioroni sono tutte donne, e donne giovani. E, va, detto subito, la sua è una pittura dei sentimenti femminili, o, per meglio dire, dell’essenza femminile. I quadri rappresentano momenti, istanti, rapidissimi segmenti di tempo e di momenti: si pensi ad istantanee di ragazze, scattate apparentemente a caso, che tuttavia assommano, concentrano e restituiscono, per mezzo di un solo atteggiamento della mano, o la formazione e la direzione di uno sguardo, tutte le componenti e dunque l’essenza di un carattere. Che il carattere dei soggetti, e dunque dei quadri di Giosetta Fioroni, sia autobiografico, appare con evidenza dal fatto che tutte le opere esposte possiedono una costante (e dominante) espressiva: questa costante è la delicatezza. Lo smalto d’argento che, ad eccezione di un quadro, è la sola materia impiegata, costituisce un’altra costante parallela a quella già indicata. E mostra la necessità e il grande pudore dell’artista nel vedere e toccare la realtà; di sfuggita, per accenni, rapidissimi istinti. Guardando i quadri di Giosetta Fioroni vien da pensare a quel grande artista della fotografia che è l’americano Richard Avedon. Grande ritrattista, tuttavia a noi pare grandissimo soprattutto nelle fotografie di moda, dove la figura femminile è evidentemente ogni volta un pretesto (perfino Marilyn Monroe) per ottenere, da quel grande matematico entomologo dell’apparenza femminile che egli è, l’equazione figurativa della donna. Non so fino a che punto Giosetta Fioroni sia attenta lettrice di Avedon, ma con lui ha molto a che fare. Come lui sa estrarre, o per meglio dire, infondere (perché sono i suoi) dalle figure o simboli femminili che usa, quei sentimenti ineffabili, difficilmente definibili, ancora più difficilmente analizzabili, che sono i soli a comporre quello che si dice lo stile e, in definitiva la poesia. A questo punto viene spontaneo un suggerimento all’artista: come l’uso dello smalto argenteo e niente più è utilissimo e molto spesso indispensabile all’opera, così quell’unico quadro di un ideale trittico liberty in cui è usato lo smalto rosso arancio dà la nota delle opere future. Ci piacerebbe vedere altri rossi di quel genere, altre superfici di quei toni smalto per unghie e, in generale, altri colori, per così dire, cosmetici, entrare a poco a poco in questo suo rarefatto e attonito “institute de beauté». − V. RUBIU, Giosetta Fioroni, in «Il Punto», Roma, 6 febbraio, p. 19. «(...) Ciò che soprattutto persuade nella pittura della Fioroni (Galleria La Tartaruga), per altri versi così esangue, anemica, è un certo modo di girare au ralenti la sua sequenza di istantanee, sino ad estraniarle in una sorta di distaccata presenza dall’evento in cui si rispecchiano; in uno spazio intermedio tra fotografia e pittura che viene colmato da un gusto altrettanto discreto che scaltrito della suggestione letteraria. Intendiamoci, nessuna indicazione o allusione di troppo in queste immagini spogliate di qualsiasi “messa in forma” psicologica o scopertamente emotiva; ma un’emozione più sottile più nascosta, che di primo acchito non sapresti bene spiegare, e che tuttavia sei come costretto a respirare, in un clima di stupore visivo ed insieme di calcolata naturalezza. Oltre tutto, quest’arte così delicata a sensibile, senza falsi splendori, fa l’effetto di una cura disintossicante, dopo le molte e ostentate truculenze visive che sembrano preparare un nuovo corso di engagement contenutistico. (...)». − M. VENTUROLI, La dolcezza delle imprimiture, in «Le Ore», 18 febbraio, p. 73. «(...) La Giosetta Fioroni è una delle poche artiste italiane d’oggi, con Titina Maselli (ma l’origine di quest’ultima è di altra natura) che porti nel fare per proiezioni una vena poetica, una tenerezza e una levità provvidenziali in questo metodo così esclusivista e ideologico. Applicare semplici ingrandimenti di fumetti e di fotografie, infatti, come mi è accaduto di vedere per taluni pop artisti statunitensi, è forse più coerente ad esprimere quella ribellione alla sudditanza della vecchia immagine tutta di pennello, tutta inventata per successive elaborazioni di colore, con un processo di concentramento plastico da dentro a fuori, dalla immagine interiore, cioè, all’immagine che salvasse questa interiorità con l’alibi di una certa verosimiglianza; ma non nasce la poesia soltanto limitandosi a sciogliere un inno ai prototipi dell’esteriore, del convenzionale, ai maximum dell’immagine ottica, come il cartellone o la foto a colori nei rotocalchi, il film, la reclam, scandita in mille guise e per mille bombardamenti. La Fioroni ha compreso che questo radicalismo ossessivo, di trasferire nelle tele immagini inerti ed elementari affidando la suggestione del quadro alla idea in sé, alla pura idea del recepimento, è sterile e che non ha valore di messaggio senza una adeguata coscienza stilistica, senza una cultura figurativa che assista e accompagni questo straordinario e nuovo processo di traduzione della immagine ready made in immagine di pittura. Benché impercettibilmente e talvolta col pericolo di subito raggelarsi in imprimiture più nette e polemiche, la tavolozza lavagna e grigiofumo della Fioroni – quando addirittura non parte per la tangente di squilli argento minio, e arancio – ammorbidisce le sagome, le fa posare sulla superficie neutra – che è poi l’equivalente del telone dello schermo – con una tenuità ed una eleganza maestre: per cui si avverte in lei la lunga lezione italiana del tono, l’amore per la bella pittura, per le cadenze in cui nulla si ripeta con monotonia: un severo languore, una dolcezza senza smancerie, uno sguardo fermo ma non impietoso». − D. MOROSINI, Le mostre d’arte a Roma – Fioroni e Adami bizzarri pittori pop-art, in «Paese Sera», 20 febbraio. − V. DEL GAIZO, Fioroni, in «La Fiera Letteraria», a. XL, n. 7, Roma, 21 febbraio, p. 11. Bruxelles, Palais des Beaux-Arts, 5 febbraio Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Pop Art Nouveau Réalisme etc. Torino, Galleria La Nuvola, 11 febbraio Tano Festa. Testo di Marisa Volpi. Bibliografia selezionata: − an.dra., Avanguardia di Festa, in «Stampa Sera», 6 marzo. − s.a., s.t., in «Successo», a. VII, n. 3, Milano, marzo (mostra citata). Firenze, Palazzo Strozzi, 6 marzo Gino Marotta partecipa con altri artisti alla Biennale degli interni di oggi, La casa abitata. Testo di Lara Vinca Masini. Lund, Lunds Konsthall, 19 marzo Mimmo Rotella espone nella mostra Le Merveilleux Moderne. Det Underbara Moderna. Det Underbara Idag. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 27 marzo Franco Angeli, Mario Ceroli, Tano Festa, Pino Pascali, Mimmo Rotella, Mario Schifano e Cesare Tacchi espongono con Enrico Castellani e altri artisti nella mostra Aspetti dell’arte contemporanea. A cura di Palma Bucarelli e Giorgio de Marchis. Bibliografia selezionata: − D. MICACCHI, Mostre di giovani “pop” a Roma. Una neo-metafisica degli oggetti della città, in «L’Unità», 10 aprile. «In questa ricca e interessante stagione artistica romana, la “Tartaruga” in primo 266 luogo, e poi “Odyssia” e “La Salita”, sono le gallerie che sistematicamente fanno conoscere le esperienze plastiche di giovani artisti romani i quali variamente si richiamo al gusto monumentale della “Pop-Art” nord-americana per i materiali della città, per i segnali, i mezzi e le tecniche della comunicazione di massa, per i fumetti e le immagini pubblicitarie e di consumo. A Roma questi giovani sono numerosi e attivi da anni. In questi mesi, però, la presentazione delle opere loro è diventata sistematica. (…) Dall’insieme di queste “personali” e da altre mostre di gruppo si ricava un dato culturale interessante. Si può dire, cioè, estensivamente, che la “PopArt” nordamericana con le sue tecniche oggettivistiche, ma anche con il suo feticismo per le merci e il consumo, sia un’esperienza assimilata ma superata. Resta il gigantismo dell’oggetto o del frammento della vita urbana ma si tratta di un gigantismo che finisce per accentuare la plasticità dell’oggetto con un “trompel’oeil” di gusto tutto europeo e italiano singolarmente vicino al gusto che fu della “Metafisica” e dei “Valori Plastici”. Naturalmente i valori tattili vengono cercati e affermati nella vita della città e non nel museo delle forme e dei pensieri: qui sta l’influenza positiva delle esperienze americane. E dagli oggetti e dai materiali della vita d’oggi vengono accolti innumerevoli stimoli per realizzare movimentate e scenografiche superfici che dèstino una sorta di stupore primitivo. Se il punto di partenza è stata la “Pop-Art”, il punto d’arrivo, o di passaggio, è piuttosto una nuova Metafisica dell’oggetto, una specie di Neo-Purismo stilizzante i materiali della città e riconducente ai valori plastici le suggestioni più eterogenee e più tecnicistiche. Domina un sentimento di una tenerezza fragile, un lirismo spettrale, un’ironia assai gracile per acerbità di giudizio. Lo scultore Mario Ceroli è nato in Abruzzo nel 1938, vive e lavora a Roma. Non conosco altre sue sculture che quelle presentate alla “Tartaruga”. Si tratta di grandi pannelli di legno dove sono ritagliate delle sagome umane o di animali, oppure di gigantesche lettere dell’alfabeto. Queste sculture sono certo nate sotto la suggestione dell’ironia “Pop” dell’inglese Joe Tilson, presente alla Biennale ultima con quelle sue raffinate “caricature” delle immagini che, nella città, monopolizzano e indirizzano verso le merci la nostra sensibilità. Ceroli è, però, più rude e forte dal punto di vista strettamente plastico mentre assai gracile è la sua ironia. Così il monumentalismo, privato dell’ironia, acquista un valore spettrale e metafisico: Adamo ed Eva di tutti i giorni; l’uomo non iscritto ma imballato nel cerchio “leonardesco”; le tigri che mostrano i denti per lucido da scarpe e i formaggini, le lettere di parole squassate e senza più significato. È piuttosto elementare come umorista ma ha un bel talento di costruttore che si applica alle cose della città con quella naturalezza con la quale, un tempo, un bel talento naturalista cominciava applicandosi al nudo, all’animale, alla pianta. Il giovane Ceroli non ha piccinerie e proprio il suo tagliare e sgrossare con l’ascia rivela un talento monumentale, anche in virtù dei suoi difetti, capace di isolare ed esaltare un oggetto della vita della città in una dimensione “metafisica”. In Pino Pascali, che prima di questa esperienza “Pop” ha oscillato vagamente fra neo-realismo e neo-dadaismo, questo volgere in metafisica il gigantismo “Pop” è ancor più deciso e stranamente strutturato su un sentimento di malinconia che è particolarmente evidente nei “rilievi” con la donna incinta e con la Roma di cartapesta. Mentre, nei “rilievi” con i particolari anatomici femminili, in ispecie quello con le grandi labbra laccate in rosso sullo smalto rosa pallido del volto affiorante dallo spettrale biancore della cementite, il pittore manifesta un’aggressività e un orrore di gusto surrealista, sempre però riconducendo il tutto a un ossessivo purismo plastico. La mostra più interessante di un artista legato al gusto “Pop” che si sia potuta vedere a Roma, dopo quella di Mario Schifano, è la mostra della pittrice Giosetta Fioroni. Alcuni aspetti tecnico-formali, più nella esecuzione che nella invenzione del quadro, stabiliscono una somiglianza di gusto fra la Fioroni e Schifano: l’immagine monocroma o con una lieve e gracile impronta di colore e di segno, la ripetizione del particolare, la realizzazione delle sagome delle figure per mezzo d’un proiettore, ecc. Ma Schifano realizza un’immagine gaia, naturalistica, arborescente, dinamica e la Fioroni, invece, un’immagine assolutamente statica, dilatata preziosamente nella sua origine freddamente meccanica e riproduttiva fino ad una malinconica evidenza metafisica, recuperando così a una sensibilità formale, ai valori plastici, le immagini più banali e più usate. Forse, a un Larry Rivers potrebbe essere riportata, alle fonti, la somiglianza “Pop” così evidente fra Schifano e la Fioroni. E siamo convinti che nei quadri della Fioroni la ripetizione non ha nulla di dinamico, di futuristico o cinematografico nel senso del Ballet mécanique di Léger. La ripetizione di un particolare o lo smembramento in una serie di particolari della figura o della sola testa di una figura-idolo femminile, la Cardinale o la Martinelli ad esempio, è fatta per ribadire la staticità, per sottolineare plasticamente, a volte con gracile grazia di sapore “liberty” (evidente in La ragazza sulla spiaggia), il recupero formale di un’immagine logorata dalla banalità del consumo. Una volta proiettata la sagoma sulla tela, ha inizio una delicata e affettuosa azione pittorica di restituzione della bellezza all’immagine fotografica. Giosetta Fioroni sembra lavorare su un relitto più che su uno scheletro d’immagine. Prima il suo segno modifica la sagoma e poi il colore, quasi sempre una metallica vernice cartellonistica, viene calato nella sagoma con forti contrasti di luce e ombra, oppure con un paziente giuoco di mezze tinte. La sagoma della figura-idolo è sempre assai più grande del vero in modo che il “fare” pittorico è sempre al di là del possibile ritratto. Questa pittura della Fioroni è molto sentimentale nella sua immobilità metafisica, con un non so che di tenero, infantilmente dolce e scanzonato, nella ripetizione dei motivi. Stranamente ricorda Vallotton e Morandi. Assai vicini per temperamento e risultati sono Cesare Tacchi e Ettore Innocente. C’è in loro un’adesione alla messa in scena “Pop2 di un Oldenburg: gli oggetti molli come la macchina da scrivere e il telefono realizzati in materie plastiche, oppure il gigantesco tubo di dentifricio mas- so in posa come la Paolina del Canova. Nelle pitture a rilievo (la tela è sollevata con imbottiture e le forme sono sottolineate con chiodi e cuciture da tappezziere) di questi due giovani l’ironia tempera la metafisica, specialmente col giuoco fra le banali stoffe dei divani e delle pareti dei fioriti interni piccolo-borghesi e le figure umane scese dai cartelloni per stendersi sui divani o chiacchierare sul sofà. Prodotti tipici di questa ironia metafisica, che ha più caro l’inganno ottico che il giudizio e che è una specie di apologia del banale, sono Poltrona, Renato e poltrona, le tre figure sul divano e la bionda verniciata d’oro di 007 Missione Goldfinger,realizzate da Cesare Tacchi; e, parimenti, La ragazza di Modigliani, Il riposo del guerriero e Cranach di Ettore Innocente che giuoca mollemente con l’ironia tracciando il disegno della sagoma di famose figure della pittura su veri letti, veri cuscini e vere lenzuola. Nel “combine” che porta il titolo Johnson alla Casa Bianca (il “pastiche”è fatto col nome e la figura del presidente americano e col nome e i moduli stilistici del pittore “Pop” Jasper Johns) c’è, però, una diversa evidenza metafisica. Quella poltrona vuota contro la bandiera stellata e quel disegno del presidente che trapassa dalla bandiera alla poltrona sono il frutto di un impegno morale che relega in secondo piano il divertimento. L’interesse di questi giovani sta dunque nel loro più o meno consapevole cercare dei valori plastici metafisici che possano generalizzare il banale e il volgare. Il loro limite, per ora, sta nel disimpegno morale, nell’ironia facile e nella freddezza divertita, ma non sempre divertente, dell’inganno ottico». (*) Roma, Galleria La Tartaruga, 27 marzo Cesare Tacchi. Bibliografia selezionata: − A. BOVI, Tacchi, in «Il Messaggero», 6 aprile. «Alla “Galleria la Tartaruga” in piazza del Popolo una mostra di opere di Cesare Tacchi. Questo giovane artista che espose due anni fa nella stessa Galleria è oggi nel vivo di una pop-art che si potrebbe definire intenzionalmente aristocratica nel segno che delinea la immagine umana con un’ampia sensibilità lineare di natura classica. Il segno scorre fluido a tracciare la figura di un giovane assiso in una poltrona delineata con tratto bianco sulla negativa del nero ed il fondo della superficie del quadro, intorno all’immagine, è tutta ricoperta di una sottile stoffa a fiorami, giallina, mentre l’altra poltrona che campeggia solitaria sul fondo di un diverso quadro è tutta di un rosso fiammante che dà al carminio. Il nudo di una donna distesa, di spalle, in una successiva opera è chiuso nella patina aurea come la vittima di Goldfinger. Non si può negare a Tacchi una sua personale sensibilità e originalità inventiva di carattere lievemente ironico nella polemica che si cela sotto la sua opera e che affiora chiaramente dalle immagini». Milano, Galleria Del Naviglio, 31 marzo Giosetta Fioroni. Nel catalogo della mostra pubblicata la poesia di Nanni Balestrini Quartina per Giosetta già presentata in occasione della mostra alla Galleria La Tartaruga (Roma, 30 gennaio 1965). Bibliografia selezionata: − s.a., Fioroni, in «L’Unità», 9 aprile. − s.a., Quadri in bianco e argento, in «Tempo», a. XXVII, n. 16, Milano, 21 aprile. Roma, Teatro di via Belsiana, aprile Luca Patella. Diapositive. Roma, Palazzo delle Esposizioni, aprile Franco Angeli, Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Renato Mambor, Gino Marotta, Fabio Mauri, Pino Pascali, Mario Schifano, Cesare Tacchi e Giuseppe Uncini partecipano con altri artisti alla V Rassegna d’Arti Figurative di Roma e Lazio che ospita anche una mostra retrospettiva di Francesco Lo Savio presentata da Filiberto Menna. «(...) Parlargli non era facile. Ti aggrovigliava in una rete fitta di idee sul filo di un discreto allusivo, irto, spezzato. Era come, ogni volta, ricominciare da capo, da un punto di vista sempre diverso e inatteso. Anche quando scriveva era così; ma ogni volta ti accorgevi che le sue parole portavano in una stessa direzione; tendevano a chiarire un nucleo di pensieri e di immagini che gli stava dietro come un tarlo. La sua inquietudine la toccavi con mano: ma era un irrequietezza intellettuale, che non sembrava toccare la sfera dell’esistenza. Ma forse era un’inquietudine esistenziale che cercava una via di uscita, di liberazione in una ricerca e in una sperimentazione artistica sorretta da una sorta di pacato furore intellettuale. Era un razionalista, ma lo era alla maniera di un Mondrian o di un Malevič, di cui parlava spesso con ammirazione grandissima. Credeva fortemente nell’arte, nelle possibilità di riscatto estetico della vita quotidiana, ma si era chiuso in una ricerca volontariamente, puritanamente, priva di contatti, perché non aveva fiducia in una reazione tra l’arte e la vita sulla base di un design asservito all’industria e di una architettura pronta alle ordinazioni, ma incapace o riluttante alla libera progettazione. Il suo era un rifiuto preliminare, che sembrava rifarsi al rimbaudiano “pas de commission”, ma non era un rifiuto nichilistico. Al contrario, si trattava della indispensabile premessa per ristabilire una nuova, più autentica relazione tra l’artista e la società. Intanto, si preoccupava di definire con chiarezza il proprio metodo e di ridurre alla massima semplicità i propri strumenti espressivi. I suoi dipinti monocromi nascono da questa esigenza, ma emanano una luce pacata che si diffonde all’esterno e sembra dare un ordine alle cose: ciò che egli perseguiva con questi quadri era appunto il “tentativo di contatto tra superficie estetica e spazio reale esterno”. Il colore non è più uno 267 strumento di espressione soggettiva, ma una superficie ottica attiva che emana luce coinvolgendo in essa lo spettatore e l’ambiente. Tra luce e spazio si stabilisce così, lentamente, una relazione in cui i due termini di binomio formano un ambiente totalmente nuovo, un’atmosfera pacata ed assorta, dove sembra finalmente possibile realizzare una perfetta unità di azione e contemplazione. L’accento contemplativo dei dipinti monocromi è sempre presente anche nelle opere successive di Lo Savio, nei “filtri” così come nei “metalli” e nelle “articolazioni totali”: ma nelle sue realizzazioni posteriori ai dipinti, l’artista mostra una più marcata tendenza a inglobare lo spazio esterno nella superficie estetica. Nei filtri il flusso ottico appare infatti più attivo e penetrante, quasi a vincere l’opacità e la resistenza dell’ambiente, mentre nei metalli viene affrontato il problema tridimensionale in vista di un più diretto contatto con lo spazio ambientale. “Nei metalli – ha scritto lo stesso artista nel suo volume Spazio - Luce, dedicato alla memoria di Piet Mondrian – l’azione si esplica con un possibile riscontro specifico del fatto tridimensionale, realizzando allo stesso tempo una partecipazione sociale chiara con oggetti che rimangono nel limbo dell’utile, ma di cui la qualità nella loro dignità civile è incontestabile”. Le ultime cose di Lo Savio, le articolazioni totali, nascono appunto dalla esigenza di realizzare una più attiva “partecipazione totale” e, pur restando anch’esse nel “limbo dell’utile” ci danno una più evidente analogia di quello spazio estetico totale che rappresenta il tema dominante della ricerca artistica di Lo Savio». Filiberto Menna Bibliografia selezionata: − E. CRISPOLTI, Appunti sulla V Rassegna di arti figurative di Roma e del Lazio, in «Palatino», a. IX (3° serie), n. 1-3, gennaio-marzo, pp. 39-42. − D. MICACCHI, Una mostra da rinnovare, in «Avanti», 16 maggio. Parigi, Galerie J, 2 aprile Mimmo Rotella. Vatican IV. Bibliografia selezionata: − O. HAHN, Reportage surréels. Rotella, Galerie J, in «L’Express», 19-25 aprile. − s.a., Il pittore Rotella espone a Parigi, in «Il Tempo», 27 aprile. Roma, Libreria Feltrinelli, 8 aprile Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Jannis Kounellis, Pino Pascali, Mimmo Rotella, Mario Schifano e Cesare Tacchi espongono con Giulio Turcato nella mostra Realtà dell’immagine. Testo di Giorgio de Marchis. «(...)Questi giovani romani operano in una delle grandi direzioni di ricerca seguite all’informale: una nuova arte di immagine, assai differente dalla figurazione di discendenza realistica o surrealista. La mostra si intitola Realtà dell’immagine e vuole mettere in luce un particolare modo di procedere basato sul prelievo e sulla manipolazione quasi oggettuale di immagini tratte o trovate nel contesto culturale che ci circonda, riconoscendo in esso un carattere di realtà formulata linguisticamente. Del resto il principio della linguisticità del reale era stato posto dall’informale distruggendo il privilegio gerarchico dei contenuti e riducendo il segno a mera segnicità. Questo volgersi alla Realtà dell’immagine per recuperare la possibilità di una comunicazione visuale oggettiva (così come l’altro esito dell’informale si volge all’indagine delle strutture delle percezioni) nega ogni ritorno a una funzione intermedia dell’arte, di carattere magico o simbolico: l’immagine assume un significato di cosa e non di tramite surreale e estrinseco, a un modello reverenziale. Dunque realtà dell’immagine e non immagine della realtà (...)». Giorgio De Marchis Bibliografia selezionata: − M. FAGIOLO, La realtà dell’immagine alla Libreria Feltrinelli, in «Avanti», 28 aprile. Roma, Galleria Odyssia, 10 aprile Franco Angeli, Tano Festa e Mario Schifano espongono con Enrico Castellani, Valerio Adami, Salvatore Aricò, Lucio Del Pezzo, Enzo Mari, Concetto Pozzati, Antonio Recalcati nella mostra Una generazione. Testi di Renato Barilli, Alberto Boatto, Maurizio Calvesi, Gillo Dorfles, Marisa Volpi. «Se la generazione degli artisti attestati oggi sui quarant’anni trasse la sua caratterizzazione storica, in primo luogo, dall’aver dovuto fare i conti con l’informale, si può già affermare che la diversa generazione dei “trentenni”, cui vuol essere dedicata questa mostra si caratterizza per la sua intensa partecipazione al clima di “nuova oggettività” seguito al tramonto dell’informale. Probabilmente i giovani pittori qui raccolti riporteranno da questo loro aderire, alle ricerche in chiave variamente oggettuale, un’impronta che poi non deporranno più per il resto della loro carriera, e varrà a qualificarli profondamente (...) Qui in Italia, il privilegiare il solo action painting fu invece un modo inconsapevole di riportare tutto quel fenomeno nell’ambito dell’arte astratta, ovvero di una concezione per cui l’opera pittorica è fatta di segni che significano solo sé stessi, e che quindi devono puntare solo su una bellezza e eleganza e purezza intrinseca. Non a caso, dicevamo, tale interpretazione a senso unico dell’informale partiva dall’ambiente romano, poiché esso era, ed è tuttora, quello più minacciato da facili ondate di pittura impressionistica. Le forze di “strapaese” sono in agguato, ben spalleggiate da una natura e da un paesaggio esuberanti, cordiali, gustosamente policromi. E allora la Roma-stracittà, disperatamente protesa a crearsi una tradizione e un ruolo di metropoli ad altro livello internazionale, si sente tenuta a castigare tale colorismo opprimente, e a darsi un feroce programma di austerity e di castigatezza. Ecco infatti, che anche nell’odierno clima oggettuale, Roma-stracittà bandisce fieramente la nuova primogenitura: c’è una corrente-principe, ed è la Pop Art. E c’è una sola filiale autorizzata, rappresentata dai giovani romani che si adoprano in proprio in questa stessa direzione. Ora siamo tutti convinti che in effetti la Pop Art riveste oggi una fondamentale importanza. Ma come interdirla? Quale, il vero spirito che la muove? L’artista Pop si rivolge all’oggetto quotidiano e banale per riscattarlo attraverso le armi di un’ossessione e di una nausea pressoché metafisiche, oppure si rivolge a un repertorio codificato di segni, di immagini cartellonistiche e pubblicitarie? Si accosta insomma al dentifricio, al telefono, alla bottiglietta della bibita mosso da una fame di prensione sul reale, dall’intento di celebrare la frusta e futile presenza di tali oggetti, oppure si preoccupa solo di “comporre” superfici autonome, e di utilizzare a tal scopo i segni degli oggetti così come in altre stagioni avrebbe utilizzato i segni altrettanto puri e autofondati delle figure geometriche, delle macchie e dei coaguli dell’informale? Interrogativi, questi tutt’altro che oziosi. Se infatti pensiamo a Schifano e a Festa, non possiamo non riconoscere l’entusiasmo, la dedizione con cui essi si rifanno alla Pop Art americana. Ma resta il forte sospetto che essi “riducano” la vera natura dei quel fenomeno, che cioè appunto lo formalizzino, lo sterilizzino. Non c’è più il corpo col mondo soffocante delle occorrenze quotidiane, ma l’uso di un codice cifrato. Angeli li può guardare ironicamente, perché in fondo egli li ha preceduti, ne ha come messo allo scoperto le intime propensioni. Non è vero forse che in lui certi oggetti comuni appaiono già del tutto stilizzati, simili a stemmi araldici? Certo, bisogna riconoscere, a parziale giustificazione del comportamento dei giovani romani, che strapaese è in agguato, che il vecchio cromatismo e impressionismo è pronto a rispuntar fuori sfruttando il comodo pretesto della nuova oggettualità (un esempio, la recente mostra di Attardi alla “Nuova Pesa”). Di qui, per reazione , l’ancora di salvezza di un purismo feroce e eroico (...)».Renato Barilli «(...)Da almeno più di cinque anni il nuovo corso culturale si muove giustamente sotto il segno dell’apertura, del confronto con il mondo, e pertanto chiede all’artista di affrontare un compito cui la nostra tradizione non prepara affatto – l’ultima lezione che ci è data, di un vero maestro qual’è Burri, è ancora la lezione di un uomo chiuso in sé stesso, di un uomo solo. In questo clima l’attenzione va a quei giovani artisti che assieme al problema dell’individuazione e della reinvenzione del reale si pongono quello di una messa a punto o almeno di un riesame del linguaggio oggettivo, con una condotta di diffidenza verso i commenti espliciti e le esuberanze dell’io, dal momento che in una cultura come la nostra è bene intaccare i tradizionali privilegi della soggettività. Nel complesso i giovani riuniti in questa antologia, dal titolo troppo ambizioso, rientrano in questo quadro. Si rifanno infatti in prevalenza a due momenti di una storia specificatamente italiana in cui la questione della realtà, del rapporto-mondo è stato affrontato con strumenti non di tipo naturalistico ma critico ed investigativo, non psicologico: alla metafisica – Del Pezzo, Pozzati, Festa, lo stesso Angeli, ma anche Pistoletto, sebbene forse più nella versione letteraria con il suo tema degli specchi che in quella propriamente pittorica – e, attraverso i chiari filtri dell’impressionismo, al futurismo, alla traduzione decongestionata ed oggettiva che ne ha dato il primo Balla futurista. Quando ricordo Giacomo Balla è il titolo di una serie di quadri di Schifano. Nel binomio uomo-mondo, il mondo è anche cultura, non solo oggetti ed affiches pubblicitari, ma siccome qui si tratta di eredità culturali rimesse in gioco, esse sollecitano un lavoro essenziale di degradazione al fine di coinvolgere quella cultura per gran parte istituzionalizzata nella spicciola cronaca di tutti i giorni. A chi guarda alla meta fisica contaminandola anche variamente con ingredienti affini – in particolare Magritte –, l’immagine assume il valore di citazione isolata nella sua incongruenza, e l’apertura al reale è allora quella dell’allusione perplessa o corrosiva – Festa e Angeli –; oppure di emblema rappresentativo del nostro universo artificiale inserito in mezzo a figure organiche in una sottolineatura polemica come in Pozzati. (...) Per chi invece come Schifano guarda al futurismo anche quale finestra che si affaccia su tutta l’avanguardia – il tema della macchina lo ha condotto ora a Picabia – la citazione presenta un valore pratico, assieme di presa abbreviata sul mondo e di veicolo per esprimere un proprio eccitato sentimento di vita. Ciò che costringe questi artisti a mettere a fuoco gli strumenti impiegati è la consapevolezza del nostro presente, individuato tuttavia sovente a un livello congeniale alla complessità dell’operazione culturale in cui si è impegnati, non tanto cioè nei prodotti in serie o nelle immagini commerciali, quanto in immagini che fanno appello ad un nuovo complesso atteggiamento psicologico e comportamentistico, dagli storici simboli di Angeli alle riproduzioni di opere d’arte passate o recenti di Festa, alla segnaletica di Pozzati che lega l’individuo a dei percorsi vincolanti. Diciamo che le figure sino a qui raccolte, gli stessi particolari di Schifano così lirici e vibranti, sono tuttora palesemente segnate dalla soggettività; basta appena rovesciare o sondare le immagini che ci circondano per accorgersi che fanno ancora parte di una circolazione umana, ed ecco che nel binomio uomo-mondo l’accento torna a sposarsi sul primo termine, malgrado gli ostacoli frapposti. Non solo in Del Pezzo, Angeli, Festa, Pozzati, Schifano, ma anche, con un massimo di direzione, in Adami che sconvolge il linguaggio banale del fumetto da lui sistematicamente assunto per spremerne un significato grottesco, per collegarlo ad un ambito di consapevole giudizio. (...) Siamo posti in sostanza di fronte al proposito di avviare un dialogo in prima persona con la realtà esterna per mezzo di un’intenzionale trasposizione pittorica ed estetica: e questo dialogo ovviamente non può andare incontro che a due diversi esiti. Un esito favorevole nel caso che esso pervenga ad un’effettiva misurazione dell’uomo e del mondo e ad un loro ridimensionamento reciproco: ciò che costituirebbe perfino un intervento tempestivo su una circolazione occidentale che, dopo la grande esplorazione dell’extra, sta riproponendo il problema dell’uomo assieme a quello dell’autonomia del linguaggio artistico nei confronti degli altri linguaggi e del reale. È quanto si può intravedere nell’ultimo lavoro di Dine e nelle ricerche che in Europa stanno portando avanti Kitaj e Télémaque tra gli atri; e da noi nella ricerca, di freschezza insospettata nel nostro circuito fatto di 268 aria chiusa, di Schifano. Un esito sfavorevole ed improduttivo se, privati della prosa così necessaria dell’extra, si confondesse di nuovo l’uomo con il prestigio formale ed il linguaggio con l’eleganza e corriva bellezza. Sarebbe come, dopo aver evitato la trappola dei contenuti programmatici, cadere banalmente in quella squisita della forma. Nel portare questo proposito di dialogo ad un risultato positivo sta tutta la tensione ed il senso della stagione difficile che viviamo”». Alberto Boatto «Uno degli aspetti più interessanti ed attuali di questa mostra è che essa è composta di artisti che rifiutano qualsiasi sbrodolante nozione di impegno, al di fuori di quello che è insito nel prodursi stesso del linguaggio; o anche, di riflesso nella possibilità di un rapporto, di un incontro dell’opera con la società, di una influenza che se ne possa sviluppare. Non si tratterà, comunque, di ideologie e suggestioni estranee alla specifica concretezza dell’opera, ma di un fatto visivo che si comunica e agisce come tale, con la sua chiarezza e vitalità di pensiero, quando è capace di implicarne, o comunque con i suoi pensieri di vitalità e chiarezza. (...) Può esserci, in questo senso, una “moralità” nel puro discorso di forme che fa Mari o Castellani, ma così anche nella pura immagine di Schifano: e altrettanto potrebbe dirsi per le ricerche meno “assolutamente” delineate di Festa, Adami Aricò, Angeli. (...) In generale, si può osservare che il bombardamento di immagini caratteristico del mondo moderno ha, invece di saturare, sviluppato e potenziato la nostra capacità di riceverne; ha suscitato una sorta di sete visiva. Qui abbiamo artisti che molto genericamente, possono rientrare nelle due categorie (“Pop” e “Op”) oggi dialettizzate anche in America. (...) Ma in quale punto si incontrano queste tendenze se non in questo: nel gusto di una visività integra, schioccante, che occupi limpidamente l’occhio. Un campo aperto di visualità quello Pop, che nell’arte ottica si riduce (a mio avviso anche in senso limitativo) a visivismo. Più o meno, poi questi potranno essere anche i limiti del momento. Meglio scavare in profondità entro un’area circoscritta, che alzare il polverone dell’impegno sugli sterminati campi della vanità intellettuale». Maurizio Calvesi «Le epoche culturali si coartano: gli scatti tra gli stili s’accorciano. Nel giro d’un decennio, tre, quattro, diverse maniere di concepire di creare l’arte si succedono; non solo, ma la rapidità con cui mutano gli stessi rappresentanti di quella che continuiamo a definire “una generazione” è sconcertante: artisti che ancora ieri vedevamo aggrappati all’informale sono diventati nel giro di pochi mesi seguaci dell’arte Pop, saranno domani assertori di quella programmata per ritornare, magari, in seguito ad una nuova esplorazione della figura o a nuove esperienze segniche e materiche. (...) È questo il nuovo pericolo: le ondate dell’Atlantico spazzano le nostre coste (artistiche s’intende) con un lento risucchio dopo essersi placate nel Mediterraneo, e perciò le influenze americane appaiono sbiadite e illeziosite nei nostri artisti. Dall’altro canto le nostre personalità più originali mancano di quel vigore che forse, con un altro background culturale, potrebbero presentare. (...) Preferisco perciò considerare gli artisti che qui espongono come personalità e fenomeni a se stanti, derivati soltanto da se stessi, miranti soltanto a trovare se stessi. E, così intesi, mi sembra di poter affermare che il loro messaggio, anche se è talvolta esitante tra diversi aspetti, è, tuttavia assai significativo. Significativo d’un paese, d’una generazione, di un’epoca culturale, in cui si vengono evolvendo gli ultimi anditi della volontà dell’uomo di captare le immagini (spesso fragili larve) d’una iconosfera quanto mai nebbiosa e confusa, in cui ancora continuano a lievitare (ed a levitare) certi emblemi e certi schemi simbolici d’una situazione politicamente ed eticamente tormentata. (E si pensi alle aquile e alle svastiche di Angeli, ai fumettoni, solo apparentemente allegri, di Adami, alle finte nature di Pozzati, alle immagini scarnificate di Recalcati, alle impronte fossilizzate di Aricò, ai detriti di oggetti culturali di Festa, alle asintattiche visioni, solo apparentemente realistiche, di Schifano). È, d’altro canto, un’epoca in cui cercano d’organizzarsi e di ritrovare una loro ragion d’essere armonica e strutturale le antiche forze dell’ordine e della ragione: d’un ordine diventato esso stesso simbolo e feticcio oggettualizzato come nelle calibratissime composizioni monocrome di Castellani o nelle eleganti e giocose composizioni artigianali di Del Pezzo, o nelle sapienti costruzioni di gradienti luminosi e di ambiguità percettive di Mari. Forse da questi incontri tra il mondo delle “cose in sé”, della fattualità oggettualizzata, e quello dell’immagine disincarnata, dell’icona smerciata e smerciabile, potrà ricostituirsi, in una “generazione” successiva, (o negli stessi protagonisti attuali, una volta passati ad altra generazione) un panorama artistico che sia più coerente ed organico, che vinca la diacronicità degli eventi e riesca a superare le scogliere acuminate della storia». Gillo Dorfles «Gli artisti presenti in questa mostra desiderano evidentemente proporsi per la loro qualità e non specificamente per la loro tendenza. Dall’astrattismo di Castellani, alla metafisica di Del Pezzo, alla figurazione simbolica di Angeli, i dieci giovani che si sono automaticamente raggruppati alla Odyssia, hanno afferrato ognuno un percorso radicale, con scarse possibilità di relazione, se non temporanee e frammentarie. La loro evoluzione non è per tutti prevedibile, il loro lavoro, costituisce comunque un punto d’arrivo qualificato, da cui altri più giovani sono partiti o possono partire. (...) È chiaro che i dieci pittori escludono come reazione intellettuale e di gusto, ogni elemento enfaticamente soggettivistico, ogni diario di emozioni, ogni contatto viscerale tra tecniche espressive e contenuti visivi, Tutti, anche Pozzati e Recalcati, trovano necessari argomenti formali che si oppongano all’indistinto, al pittoricistico del manierismo informale, come alla deformazione sadico-erotica che ne è derivata in alcuni settori, con l’ambiguo innesto – variamente dosato – di tecniche astratto-espressioniste nella repentina riassunzione di un decrepito surrealismo. Questa volta (veramente strabiliante!) ad uso di chissà quali istanze sociali altrettanto decrepite». Marisa Volpi Roma, Galleria La Tartaruga, 21 aprile Renato Mambor. Testo di Marisa Volpi, Gli accostamenti di Mambor, pubblicato in Catalogo 3 (Roma, La Tartaruga, giugno 1966). «Le immagini di Mambor sono i prototipi di una specie di moderno platonismo; la sedia, il cane, l’uomo, il treno, il letto, l’escavatrice, la gramigna, l’albero, la macchina da scrivere, la fontana, sono privi di ogni riferimento correlativo ad un prima, un dopo, un vicino, un lontano; manca ad essi non solo l’atmosfera pittoricista che legava le figure all’ambiente naturale e la prospettiva accademica che le organizzava spazialmente, manca ad esse il loro colore naturale, la compiutezza del loro disegno grafico, la coerenza di un contesto di relazioni con le altre figure. Si potrebbe pensare che l’artista voglia scoprire, senza clamorosi gesti scandalisti, ciò che rimane dell’oggetto, privato di ogni attributo storico della sua apprensione visiva, divenuto simbolo grafico di un aneddoto che non ha più alcun distinto. Nell’operazione di impoverimento sistematico della immagine-anemotiva, anespressiva, alirica – Mambor adotta metodi tipici alla pop-art (di cui è uno dei primi giovani esponenti italiani). Ma usando l’immagine depauperata dei suoi significati tradizionali, come termine base di un linguaggio da ricostituire ab novo, la pop-art italiana ha incontrato alcuni aspetti della pittura metafisica: l’isolamento astratto di un elemento dato della vita quotidiana, l’accostamento inconsueto con altri elementi del tutto estranei, sul piano di sospensione del tempo, proprio della pittura di De Chirico prima del ‘20. Mambor cerca di tenersi fuori da questa solennità, spettacolare, i cui simboli hanno un valore tanto più intenso quanto più risultano occasionali dalla realtà psichica della nevrosi. Gli accostamenti di Mambor intendono continuare l’operazione di sterilizzazione, iniziata con il procedimento di mediare la realtà visiva, prima attraverso la fotografia, poi attraverso la proiezione dei contorni di una parte dell’immagine fotografata sulla tela. Per esempio una locomotiva rossa viene disegnata, accanto a due letti rossi: proporzioni, colori, fondo, tutto denaturalizza (e, se vogliamo, destoricizza) queste due immagini. Impaginate con estrema limpidezza, esse sono unite dialetticamente sul piano della coscienza soltanto dal rapporto formale con il quale le si percepisce. Negli ultimi dipinti del 1965 Mambor sembra fare un inventario da presentare sulla scala della pura percezione, moduli del visibile accostati secondo leggi di concentrazione normale, senza tentare alcun lirismo né metafisico né estetico. Sembra volerci dire che per lui l’avventura verso questa specie di ultima Tule della spoliazione dei significati scaduti, continua, condotta con perseveranza analitica, piena di rigore e di sottigliezza». Marisa Volpi Bibliografia selezionata: − A. BOVI, Mambor, in «Il Messaggero», 3 maggio. Roma, Galleria La Nuova Pesa, 26 aprile. Titina Maselli. Testi di Renato Barilli, Enrico Crispolti e Duilio Morosini. Bibliografia selezionata: − D. MOROSINI, Titina Maselli espone oltre quindici anni di creazione artistica, in «Paese Sera», 6 maggio. − s.a., Maselli alla “Nuova Pesa”, in «Avanti», 8 maggio. − D. MICACCHI, La città di Titina Maselli, in «L’Unità», 8 maggio. − G. BRIGANTI, Un occhio a Roma e uno a New York, in «L’Espresso», a. XI, Roma, 9 maggio, p. 21. «Due meriti almeno deve riconoscere a Titina Maselli chiunque visiti la sua mostra antologica alla Nuova Pesa ove sono esposte trentaquattro opere che illustrano circa quindici anni di attività. Primo sarà quello della coerenza: che naturalmente non è solo fedeltà ai noti temi cittadini e notturni, ma piuttosto lineare approfondimento e metodica esplorazione delle possibilità espressive derivanti da quel suo particolare modo, tutto visuale e istintivo, di vedere le cose: certe determinate cose. Secondo, quello di un’esemplare coscienza per essersi essa imposta dei precisi limiti e per averli sempre lealmente rispettati o, se si vuole, freddamente accettati. Senza ulteriori ambizioni, che ognuno sa quanto spesso possano esser sbagliate. Due meriti, a ben pensarci, strettamente interdipendenti e che insieme costituiscono il dato più vero della sua personalità. A chiarire la quale non penso sia molto utile dopotutto, soffermarsi troppo ad indagare quali siano i suoi reali rapporti con la “pop art”. È un problema che sembra interessare molto i suoi prefatori che se insistono con qualche ragione su certi suoi meriti pionieristici, nei riguardi della cultura artistica italiana evidentemente, son costretti d’altra parte ad addurre ragioni a posteriori che saranno poi sempre intralciate dal dover ammettere la sua effettiva indipendenza da quel movimento. Anche se oggi rapporti, casuali o non casuali, possano istituirsi. Più interessante mi sembra invece, per restare fra noi, individuare quale sia il suo contributo all’attuale clima di “nuova oggettività” di cui tanto si parla e della quale la “pop art” deve considerarsi un episodio estremo o di rottura, meglio ancora di reazione: in un panorama molto ampio naturalmente. Vederla cioè, Titina nell’ambito di un panorama forse più ristretto, in relazione a quanti vivono oggi assillati dalla ricerca di dare un aspetto al reale, a quanti subiscono l’attrazione magnetica dell’attualità, sia pure come fonte delle più imprevedibili reazioni. (…) Ebbene, in quel difficile terreno, dobbiamo ammetterlo, Titina Maselli si muove a suo pieno agio, con una scaltrezza che non le ha tolto tuttavia il dono di una candida fiducia. Ci si è addentrata anzi tutta sola, e da vari anni ormai che quasi non ce ne eravamo accorti, facendo i suoi personali esperimenti, senza ingombrarsi di bagagli ideologici, rinunciando deliberatamente a tutto ciò che sapeva, o intuiva, superiore alle sue forze. S’è scelta quindi con cura il suo campo, ben limitato, sempre attenta a non farsi fuorviare da facili lusinghe. O accettandone alcune senza paura, come le suggestioni, apparentemente limitatrici, di tecniche visive (quelle del cartellone 269 pubblicitario, per esempio) che sarebbe inutile oggi respingere fuori del campo della pittura in nome d’una abitudine mentale che deriva ancora dagli antichi privilegi annessi ai “generi” ma che vanno piuttosto giudicate solo in relazione all’impegno dell’artista e all’estendersi del suo mondo interiore. Si è affidata, senza esitazioni, alle qualità percettive del suo occhio, sicura della scelta che operava nel campo del visibile, contenta di certe sue piccole, personali scoperte. E ne è nata una visione ottica, frammentaria, momentanea; una sorta di fotografia della memoria, che blocca in un lampo attimi di realtà percepiti dal nostro occhio distratto, ma sa centrarli con sicurezza, soprattutto con il piacere di restituirceli riconoscibili e familiari. Titina ha detto che vorrebbe che i suoi quadri fossero chiari, in un certo senso rivelatori. Adoperare parole come questa ultima è sempre difficile, ma non c’è dubbio che nel voler guadagnare alla realtà le cose che rappresenta essa operi con estrema chiarezza, e in maniera assai personale. Nelle sue ultime cose soprattutto. Perché se è doveroso sottolineare la fedeltà di Titina ai propri temi e la sua coerenza non le si può negare anche di aver progredito per la sua strada e non senza profitto. Il distacco fra le ultime opere del ’64 e del ’65 e le prime, intorno al ’50 è certo notevole. Per non parlare del vecchio “telefono” del ’48 che nei toni e nella struttura pittorica scopre le sue parentele con gli epigoni della scuola romana, alcuni dei suoi quadri più antichi, come i “calciatori” o “stadio”, tutti e due del ’50, denunciano con troppa evidenza le loro origini fotografiche. Non si tratta cioè, in questi casi, “di guadagnare alla realtà le cose esistenti” nella loro istantanea apparenza ma piuttosto di aver sostituito all’occhio l’obiettivo, cioè qualcosa di meccanico che fissa i gesti dei calciatori in azione in immagini che sono sempre diverse da quelle che ci consegna la memoria dopo averle desunte da una vivente realtà. Diverso, ripeto, il caso delle opere più recenti. La schiena dell’uomo in tweed appoggiato al bancone del bar, il grande bicchiere fra le dita enormi dell’ “uomo che beve” con i pesanti intagli del cristallo che riflettono le luci circostanti e il lampeggiare dell’occhio fisso, gli scambi aerei delle reti del filobus illuminati da un lampo azzurro e verde nel nero cielo notturno, il balenare dei vetri di un treno in corsa, sono immagini nuove e pur tanto familiari della nostra realtà cui Titina ha saputo conferire una presenza emblematica, non simbolica intendiamoci, enucleandole dalla memoria visiva con sicurezza e intelligenza. (...)». − V. APULEO, Titina Maselli a “La Nuova Pesa”, in «La Voce Repubblicana», 18 maggio. − L. TRUCCHI, C. VIVALDI, M. SAGER, Omaggio a Titina Maselli: Una parabola di “Tempi moderni”, in «L’Europa Letteraria», a. VI, n. 35, Roma, maggio-giugno 1965, pp. 117-123. (*) Venezia, Galleria del Leone, 30 aprile Tano Festa. Bibliografia selezionata: − s.a., Festa, in «Il Gazzettino – Venezia», 13 maggio. Milano, Galleria dell’Ariete, 12 maggio Gino Marotta. 10 Sculture. Testo di Giorgio Soavi. «Andando verso l’età, ci sono persone che esclamano: “…e una volta dal Papa potrei, con un certo sussiego, spiegargli che. Non ci metterei molto, caro mio, e sono certo che non tarderebbe a capire”. Ci sono altre persone che, alla fine del campionato mondiale conduttori, si precipitano su Fangio, gli battono sulla spalla e guardandolo dritto gli dicono con un certo sussiego: “ma bravo! Il mio Fangio!”. È ammesso che certi personaggi esistono. Esiste anche Gino Marotta. Quando fa lo scultore è più impolverato di Fangio, perché dal tempo in cui ha deciso di mettersi in gara con il mondo degli oggetti da riprodurre non ha esitato ad entrare nel vivo della battaglia. Marotta cerca il tipo che dovrebbe stare zitto e lasciarlo costruire tutto quello che sogna di sottrarre ai cosiddetti progettisti. Quando leggo in un giornale che l’Amministrazione dello Stato è in crisi perché l’inventario del materiale rotabile rivela paurosi disservizi e dissesti, il mio occhio interrompe la lettura e vede Marotta progettare treni e rotaie per le nuove Ferrovie dello Stato. Sono stato a spasso con Marotta in diverse fabbriche: nulla era mai abbastanza moderno, nel senso che quasi nulla di quanto quella fabbrica produceva riusciva a convincerlo che quei prodotti fossero il frutto di menti e inventori moderni. Quali sono, allora, le macchine o i prodotti “moderni”? È moderno mettere intorno a un potentissimo motore un seggiolino di ferro sul tipo di quelli dei guidatori di caterpillar, dragster o ruspe. Coloratelo di arancio rosso o argento e avrete un prodotto moderno. Ecco perché, nove volte su dieci, osservando i prodotti finiti di una fabbrica metalmeccanica, Marotta gode di più a guardare una macchina utensile che il prodotto leccato di un designer. Mi sembra che il suo atteggiamento sia di due tipi: il primo ha una netta caratteristica erotico-tecnologica, presente, anzi scoppiante non soltanto nei dettagli delle sue sculture, ma nel suo tipo di entusiasmo verso il paesaggio mondiale. Il secondo tempo è di natura pedagogica: Marotta vuole insegnare in che modo ci si guarda intorno, cosa si deve leggere, che cosa se ne ricava. (Com’è noioso). Pensa di avere un pubblico, anzi un popolo che segua o capisca. Il suo aeroplano dovrebbe somigliare a una sedia o a un lettino che vola non tanto velocemente, ma in modo che il passeggero e pilota non-curante possa aggiustarsi meglio il cuscino sotto la testa mentre la sua macchina vola a bassa quota sulle campagne lombarde o senesi. Tempo fa c’era Alberto Giacometti a colazione e mi è sembrato che Marotta, in ascolto, pronto a fare qualsiasi cosa, si ricordasse che il grande Alberto aveva fatto almeno una straordinaria scultura: quella della mano che sta nell’aria. Ora a me quella mano nell’aria ricorda un gesto gentile e memorabile: è uno scapaccione o una carezza». Giorgio Soavi Finale Emilia, Sala Comunale della Cultura, 15 maggio Luca Patella. Testo di Giorgio di Genova, Patella: un nuovo capitolo dell’incisione contemporanea. «Si potrebbe dire che per Patella la preoccupazione principale sia sempre stata quella di mantenere tutta intatta la spontaneità della visione: da ciò sono scaturite quasi tutte le sue innovazioni, poiché è ovvio che per un mezzo espressivo così elaborato come l’incisione esser spontaneo significa principalmente esser nuovo. Il cammino di Patella su tale strada è stato piuttosto lineare, ma sempre in progresso. (...) A questo punto il problema si complicava: bisognava uscir fuori dall’impasse, cioè: raggiunta la spontaneità, bisognava recuperare la chiarezza. Forse anche per tale esigenza Patella iniziava a fare delle incisioni a colori. L’introduzione del colore poteva servire allo scopo di ridare autonomia alle immagini al di là della scomposizione e dei grovigli segnici. Il colore, dunque, non era un abbellimento, esterno. (…) Tuttavia esse non hanno risolto appieno il problema del recupero della chiarezza, forse anche perché Patella si è un po’ lasciato prendere la mano dai risultati più propriamente tecnici.L’avvio al recupero della dovuta chiarezza espressiva Patella, invece, l’ha concretizzato in questi ultimi mesi con l’aiuto della fotografia, usata questa volta in modo diretto. Assimilata da tempo dalla pittura (ma nel nostro caso il riferimento è piuttosto alle serigrafie di Rauschenberg che ai fotomontaggi dadaisti), la fotografia ha trovato con Patella, per la prima volta a mia conoscenza, il suo impiego nell’incisione. Elaborate e trasformate alcune sue fotografie, Patella ha accomunato le immagini fotografiche a quelle incise, ottenendo dei risultati che, pure se ancora in via sperimentale, hanno arricchito di non poche nuove possibilità l’incisione nella direzione di quello che egli chiama naturalismo tecnico. (...)». Giorgio Di Genova Colonia, Istituto Italiano di Cultura, giugno Gino Marotta espone con altri artisti nella mostra Junge Maler von Heute Aus Rom (Giovani Pittori Romani di Oggi). Testo di Fortunato Bellonzi. Roma, Galleria La Tartaruga, giugno Mario Ceroli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Sergio Lombardo, Renato Mambor, Mario Schifano e Cesare Tacchi. Bibliografia selezionata: s.a., Mostra di 8 pittori alla Tartaruga, in «Il Giorno», 18 giugno. − M. FAGIOLO, Una mostra programma alla Tartaruga di Roma – Figurazione novissima, in «Avanti», 9 luglio. Venezia, Galleria del Cavallino, 7 luglio Giosetta Fioroni. Testo di Gillo Dorfles. Bibliografia selezionata: − s.a., Fioroni, in «Il Gazzettino di Venezia», 21 luglio. − R. GUERRINI, In sequesnza i ritratti di Giosetta Fioroni, in «Successo», a. VII, n. 8, Milano, agosto, pp. 80-81. Francavilla al Mare, 9 luglio Giosetta Fioroni, Gino Marotta, Fabio Mauri e Pino Pascali partecipano con altri artisti al XIX Premio di Pittura Michetti. A cura di A. Angelucci e G. Campanella. Testo di Maurizio Calvesi. Bibliografia selezionata: − s.a., Assegnato a Francavilla a Mare il Premio di Pittura “Michetti”, in «Il Messaggero», Roma, 12 luglio. − M. VENTUROLI, Il Premio Michetti di Francavilla al Mare, in «Le Ore», a. XIII, n. 33, Roma, 19 agosto, p. 13. − s.a., I premi dell’estate, in «Le Arti», a. XV, n. 9, Milano, settembre, pp. 34-35. Torre Astura, 22 luglio Mario Ceroli, Tano Festa, Sergio Lombardo, Renato Mambor, Fabio Mauri, Pino Pascali, Mario Schifano e Cesare Tacchi espongono con altri artisti nella mostra Corradino di Svevia,organizzata dalla Galleria La Salita. La mostra è stata ripetuta a Nettuno, Castello Sangallo (settembre) e a Roma, Galleria La Salita (novembre). San Benedetto del Tronto, Palazzo Scolastico “B. Caselli”, 25 luglio Gino Marotta partecipa con altri artisti alla V Mostra nazionale d’arte contemporanea di pittura e bianco e nero. Premio San Benedetto del Tronto. Repubblica di San Marino, Palazzo Kursaal, 31 luglio Mario Schifano partecipa con altri artisti alla V Biennale Internazionale d’Arte Contemporanea. Termoli, Palazzo del Comune, agosto Gino Marotta e Pino Pascali partecipano con altri artisti alla Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea per il Decennale delPremio Termoli. Palermo, Galleria Civica d’Arte Moderna, 2 settembre Mario Ceroli, Sergio Lombardo, Pino Pascali e Cesare Tacchi espongono con altri artisti nella mostra Documenti dell’Arte Oggettiva in Europa nell’ambito della manifestazione Revort 1. Bibliografia selezionata: − D. MICACCHI “Revort I” a Palermo, in «L’Unità», 19 settembre. 270 Ivrea, Centro Culturale Olivetti, 20 settembre Gino Marotta. Sculture e disegni di Gino Marotta. Testo di Gillo Dorfles. Nuove sculture di Gino Marotta (ripubblicato in «Metro», n. 10, ottobre). «È durato a lungo l’equivoco che ha relegato in un limbo senza speranza di riscatto l’arte “applicata”, pur di mantenere sollevata ad altezze sublimi l’arte cosiddetta pura, non contaminata da funzioni utilitarie, destinata solo a creare quel purissimo “godimento estetico” la cui fruizione, evidentemente, doveva essere appannaggio di ben pochi privilegiati. Ma, finalmente, alcune cose stanno mutando: ci s’avvede dell’importanza, della pregnanza, dell’irruenza, di tutta una larga schiera di opere rientranti solo di scorcio nel tradizionale panorama delle arti visuali, eppur destinate sempre di più ad assumere il massimo rilievo entro la civiltà contemporanea. Ecco l’universo incantato – forse “diabolico”, ma forse anche redentore – delle macchine prendere vita attorno a noi; ed ecco i prodotti sfornati da codeste macchine: gli infiniti, multiformi, affascinanti oggetti creati dal disegno industriale, progettati dai designer e poi ripetuti a migliaia, a centinaia di migliaia di copie nell’iterazione d’un prototipo unico e sempre eguale a se stesso. Questo processo dell’iterazione, della seriazione d’un elemento capostipite, disegnato già in vista d’una sua inesausta riproducibilità in una schiera infinita di esemplari, costituisce il primo grande fenomeno che differenzia la nostra epoca culturale da tutte quelle che la precedettero. Lo si voglia o no; lo si creda o meno: sta qui la fonte dei molti equivoci che si addensano attorno all’arte visuale dei nostri giorni: architettura, scultura, pittura. Che poi la pittura possa ancora compiacersi in preziosismi arcaici e arcani: che la scultura possa ricercare le patine, le corrosioni, le lebbre della materia; che l’architettura possa persistere in un atteggiamento nettamente artigianale (qual è quello della maggior parte dell’odierna edilizia non conta: conta invece il fatto che si possa intravedere per un prossimo futuro lo spalancarsi di incredibili possibilità creative, produttive, rese attuabili dalla produzione industriale e da una particolare forma mentis del progettatore, dell’artista. Giacché sarebbe stolto nascondersi: occorre che l’artista o in genere il progettista di forme sia cosciente della situazione che si è venuta lentamente creando attorno a lui e affronti i due fenomeni conturbanti ed entrambi estremamente pericolosi che si presentano: da un lato il fenomeno della feticizzazione del prodotto, il rischio della creazione di un “unicum” che possa divenire l’ibrida creatura di un connubio tra soggettività sfrenata e volontà di tutelare l’arte di élite; dall’altro lato il fenomeno dell’obiettivazione, standardizzante, livellatrice, del prodotto, che elimina già sul nascere ogni possibilità di distinzione, che “aliena” (è il caso di dirlo), all’atto stesso dell’iterare, quello che poteva essere un germe fecondo di nuova formatività. Ecco allora, che se l’artista sarà cosciente dei due pericoli, ma avrà anche compreso il valore indiscutibile del nuovo panorama tecnologico che gli si apre dinnanzi, potrà giungere all’ideazione di nuove strutture, fatte bensì col solo intento di soddisfare il suo istinto formativo, ma progettate, alla stessa stregua degli oggetti di disegno industriale, per la ripetizione, per la possibilità di una produzione, non più artigianale, ma industriale e quindi per una ripetizione che ne permetta la vasta, anche vastissima, infinita, diffusione. È un processo di questo genere che sta all’origine dell’ultima stagione produttiva di Gino Marotta. L’artista molisano – dopo aver percorso numerose e ardue, e persino spericolate, tappe creative che l’hanno condotto dal collage polimaterico alla scultura, dalla manipolazione di lamiere e bandoni alla creazione programmata di modelli costruttivistici e rigorosi – ha afferrato in questi ultimi anni l’importanza dell’oggetto di serie quale si è reso attuabile ai giorni nostri, con la sua inedita possibilità di essere “ideato prima che costruito”, di essere “finito prima di essere cominciato”, proprio per quella caratteristica tipica del Disegno Industriale, che così nettamente distingue tale settore da quello dell’artigianato. Così sono nati questi curiosi enigmatici ma anche così giocosi e gioiosi personaggi metallici e lignei. Oggetti metallici in acciaio inossidabile, creati con i più ortodossi sistemi industriali, dalla pressofusione alla saldatura autogena, e oggetti lignei creati mediante nuove macchine utensili e torni di nuovissima progettazione, oggetti di cui Marotta ha quasi sempre redatto un preciso meticoloso “disegno esecutivo” ( tale e quale quello che suole essere presentato per la costruzione di una macchina o di altro oggetto industriale) e che ha verniciato ricorrendo ai tipici colori dell’industria. Al posto degli antichi, ottocenteschi colori Lefranc, Lukas, Oxford, coi loro gialli cadmi, verdi Veronese, bianchi d’argento, terre di Siena; ecco il “giallo Shell”, il “giallo Agip” e il “bianco-spino Alfa Romeo”, l’“azzurro Dauphine”, il “rosso locomotiva”, l’arancione e il violetto delle resine poliestere uretaniche ed epossiliche. Una nuova tavolozza, non più tonale, non più atmosferica, ma di colori timbrici, assoluti, squillanti, senza incertezze né scrostature, né grommose anfrattuosità, senza compiacimenti materici. Colori fatti per essere nuovi, forme fatte per essere nette, precise, stagliate, come lo sono quelle dei grandi serbatoi di nafta, delle turbine, degli scafi delle navi, delle carrozzerie delle automobili, di certe mobili di serie. Queste esperienze sono ancora ad uno stadio iniziale e si discostano da quasi tutte quelle che le precedettero per una precisa “intenzionalità autopubblicitaria”, e persino pubblicitaria; una di coteste opere “può” assumere una particolare connotazione, divenire cioè indicativa d’un nome, d’un marchio, d’una ditta; d’un “servizio” pubblico: può cioè essere investita di una funzione referenziale che la trasformerà ipso facto, nel marchio stesso, nel segnale, nell’insegna. Si creerà così un’opera il cui valore, prima ancora che estetico, sarà semantico; l’opera diventerà segnale di alcunché, e attraverso tale semantizzazione, propalerà il suo stesso valore estetico. Tale potrà essere una sua utilizzazione pratica pubblicitaria ed autopubblicitaria ad un tempo: dove all’assenza di una funzione “utilitaria” (in senso spicciolo) si verrà sviluppando una funzione di richiamo e di prestigio (quale spesso assume la normale reclame grafica). Ma questo oggetto potrà anche valere per la sua pura struttura formale come una qualsiasi “statua” di veneranda memoria (anche se non avrà fatto nulla per scimmiottare alcune delle caratteristiche estrinseche delle statue tradizionali: la patina, la preziosità del materiale), e come tale potrà e dovrà essere giudicata e apprezzata per i suoi valori più specificamente estetici, per la sua forma, per il suo colore, per i ritmi e le scansioni spaziali che verrà creando, per il suo equilibrio e la sua simmetria o asimmetria, e via dicendo. Ecco, allora, che potremo emettere a suo riguardo tutti quegli appunti pro e contro che siam soliti rivolgere alle consuete opere plastiche. Potremo così osservare la felice vena inventiva che ha guidato alcune di queste creazioni marottiane vive di una loro beffarda e suasiva presenza o quella di altre dove l’elemento simbolico-sessuale è più evidente ed accentuato e altre ancora, dove l’incontro tra il mobile e il personaggio è reso più evidente dall’uso del legno e dal suo particolare trattamento. Si potrà forse osservare che queste creazioni, pur essendo concepite quali opere di serie alla stessa stregua di qualsiasi altro prodotto dell’industria (e col preciso intento di essere smerciabili ad un prezzo moderato), non sottostanno all’antico e aureo principio secondo il quale “la forma segue la funzione”. Ma, in realtà, si tratta di indagare quale sia la funzione che loro compete. Il compito di queste forme è appunto quello di allettare il nostro sguardo, di integrarsi e contrapporsi al paesaggio, di aggiungere una nota cromatica e plastica alla monotonia del nostro ambiente. Come tali, queste “sculture” adempiono egregiamente al loro scopo; e non è uno scopo da poco! Non solo, ma esse ci possono insegnare qualcosa di molto importante (o, meglio, lo possono insegnare proprio a certi tecnici che sanno tutto degli organismi meccanici e ben poco di quei meccanismi psicologici che pure regolano e guidano la nostra esistenza); e cioè: come molto spesso spetti proprio all’artista di scoprire la “trovata” fantastica destinata in un secondo tempo a generare l’invenzione tecnica. Per cui, in definitiva, sarà proprio la funzionalità, in questo caso, a “seguire la forma” con buona pace di quanto il vecchio Sullivan andava predicando agli albori dell’era tecnologica». Gillo Dorfles Bibliografia selezionata: − s.a., Sculture e disegni di Gino Marotta al Centro Culturale Olivetti di Ivrea, in «Sele Arte», a. XIII, n. 76, Firenze, pp. 35-42. Parigi, Galerie J., 1 ottobre Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Hommage à Nicéphore Niépce. Mostra allestita successivamente a Bruxelles, Galerie Cogeime, febbario 1966. Roma, Galleria Arco d’Alibert, 1 ottobre Claudio Cintoli espone con altri artisti nella mostra Nuove proposte. Lissone, Centro del Mobile, 17 ottobre Mario Schifano partecipa con altri artisti al XIV Premio Internazionale di pittura. Roma, Galleria La Tartaruga, 22 ottobre Tano Festa. Bibliografia selezionata: − s.a., Tano Festa, in «Successo», a. VII, n. 11, Milano, 5 novembre. − M. FAGIOLO, Un pittore regista alla Tartaruga, in «Avanti», 5 novembre. «Alla “Tartaruga” troviamo le ultime opere di Tano Festa. Il pittore (che ha attirato l’attenzione critica di Vivaldi, Restany; Calvesi, Volpi, ecc.) ci aveva di recente sconcertato con alcuni quadri confusi che oggi sono soltanto un ricordo. Questa pittura si inserisce nel quadro della figurazione “novissima”, attenta alle immagini della città, ai nuovi miti e riti della società, a una rinnovata comunicazione tra le diverse arti; e quindi si oppone apertamente a quel vecchio imbroglio che è la cosiddetta “nuova figurazione”, ultimo rifugio di realisti e surrealisti. (…) All’improvviso Festa sembra accorgersi di aver compiuto un cammino rettilineo e molto logico, comprende che gli spazi aperti degli inizi si erano racchiusi nella scansione del fotogramma. E allora comincia a proiettare sul piano del quadro un documentario: il primo passo per un regista. Ecco così nei fotogrammi duri come infissi entrare immagini di Michelangiolo, i souvenirs di paesi lontani, il ricordo di donne, e infine la contemplazione dei cieli. Dopo aver ritrovato lo spazio, Festa appresta i materiali per una narrazione completa: quella appunto di oggi. L’immagine è “alienata” (e quindi rimanda alla “metafisica”, come ha scritto Calvesi) ma resta terreno il mistero di questa pellicola che lentamente si impressiona per fissare i pezzi della macchina mondana. I quadri odierni, vedono una grande immagine che occupa tutto il quadro (un cielo o un’opera di Michelangiolo) a cui si sovrappone una serie di piccole immagini inquadrate in zone, come lo scorrimento verticale di una pellicola. Giocano sul doppio piano grande-piccolo, intero-particolare: sono veri “film a soggetto”. Festa viene così a criticare l’ingigantimento polemico dell’immagine, ma anche lo spezzettamento del frammento, con una immagine che è insieme una e tante (come direbbe Pirandello), che è tutto e parte, presentazione e rappresentazione. Non c’è l’accozzarsi confuso e ormai scontato di vari pezzi di realtà ma quasi una visione con un doppio cannocchiale, usato prima al dritto e poi al rovescio. E questa metafora è più che mai giustificata oggi che Festa guarda esclusivamente al cielo. Un cielo annuvolato, per ragioni strettamente compositive e non psicologiche: una nuvola inquadrata con altre può assicurare equilibrio, assortita in colori diversi può favorire l’arricchimento dell’immagine. A New York, Festa ha visto il cielo, si è identificato con il cielo, quando Mondrian si era lasciato influenzare dall’architettura e dalla terra. Ma l’omaggio a Vermeer resta intatto, non più al Vermeer degli interni borghese ma al Vermeer della veduta di Delft: poco paesaggio, pochi esseri umani, tutto cielo. 271 Gli accostamenti ingiustificati del periodo precedente ritrovano una loro ragione e una loro misura: oggi torniamo a riconoscere l’emblema di Festa in quel disegno in cui rendeva omaggio all’Amante dell’ingegnere di Carrà, e ritrovava lo spazio attraverso righe e squadre in primo piano. Anche Dadà, se riusciamo a sentire qualcosa dietro il frastuono di cocci rotti, voleva soltanto costruire, ridare un volto al mondo delle cose. Un metodo fine a se stesso è inutile se non venga applicato a qualificare un sistema (se non rispecchi le vere o false vicende del nostro mondo), ma un metodo deve esistere. E anzi la forza della pop art è proprio a livello linguistico, perché le implicazioni sociologiche e contenutistiche sono soltanto la vernice esteriore. Questi pezzi di pellicola impressionati che si sovrappongono al cielo monocromo sono però anche specchi dell’esistenza in terra (e vedi le allusioni al mestiere umile del pittore, alla storia dell’arte, alla vita festiva): e ricordiamo quel quadro di Festa intitolato La sala degli specchi. Resta anche il senso della “finestra” in questi fotogrammi, della finestra aperta sul mondo, incastrata sul cielo al dilà del mondo. Ovvero questi riquadri successivi sono come filtri sovrapposti al resto del quadro, che a volte influiscono coloristicamente (facendo variare il colore sottostante), a volte agiscono figurativamente (introducendo la sovrapposizione di un fotogramma, e quindi, lo spazio per la memoria). C’è insomma una ambiguità perenne perché lo specchio rimanda al fotogramma, il fotogramma allude alla finestra, la finestra rivela il filtro, e lo spazio (ancora una volta) non è uno ma tanti allo stesso tempo, è il luogo individuato da molte sovrapposizioni e non un luogo bloccato e immobile, non è uno spazio prospettico ma fantastico. Tano Festa ci dà la contemplazione attiva d’un cielo, che in tal modo diventa un gran telone da cinerama, come la vasta calotta di un planetario su cui proiettare sogni e ricordi. Ma è da notare il nuovo rigore costruttivo in questi cieli che non sono evocazioni di tono impressionistico, ma diagrammi statistici della natura. Ecco spiegarsi così quadri come “Cielo meccanico” e “Le dimensioni del cielo”. Come in certi quadri di Schifano, si sovrappone al cielo azzurro una serie di righe snodabili, il necessario confronto di misurazione, perché anche il cielo (dice Festa) è un fatto umano». − s.a., Tartaruga, in «Il Popolo», 9 novembre. − D. MOROSINI, Le “personali” romane di Tano Festa e Franco Sarnari – Due giovani pittori d’avanguardia, in «Paese Sera», 16 novembre. − s.a., Tano Festa, in «Il Telegrafo», novembre. Bologna, Museo Civico, 31 ottobre Titina Maselli espone con altri artisti nella mostra internazionale Il presente contestato: interventi della terza generazione. A cura di Franco Solmi e Max Clarac-Serou. Milano, Studio Marconi, 11 novembre Mario Schifano espone con Valerio Adami, Lucio Del Pezzo e Emilio Tadini. Roma, Palazzo delle Esposizioni, 20 novembre Franco Angeli, Mario Ceroli, Claudio Cintoli, Tano Festa, Gino Marotta, Mimmo Rotella, Mario Schifano e Giuseppe Uncini come Gruppo Uno (con Nicola Carrino e Nato Frascà) partecipano con Gianni Colombo, Eliseo Mattiacci, Achille Pace e altri artisti alla IX Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma. Verona, Galleria Zero, 25 novembre Franco Angeli. Half dollar. Testo di Maurizio Fagiolo dell’Arco (Angeli, peintre-moraliste). «(...) Angeli è la voce della coscienza per una umanità che dimentica facilmente, è il critico di questo mondo che rifiuta la critica, è il moralista del nostro tempo che, tutto sommato, non riesce a fare a meno della morale. (...) Ecco l’Half dollar americano, con l’aquila inquietante: le monete si frantumano, gli artigli aggressivi si spaccano. Tragica sinfonia per un massacro non certo di Half dollars, ma di simboli di potenza e giovinezza eterna: e l’allusione alle mitologie presidenziali USA, spesso troncate, non potrebbe essere più chiara. Ma poi, è soltanto un caso che l’aquila sia simbolo del potere costituito, ma anche leit-motiv dei nuovi riti del Ku Klux Klan?È soltanto un caso che il simbolo può essere manipolato e diventare uno e tanti allo stesso tempo? La svastica, all’origine simbolo della purezza, diventa immagine della follia omicida, la lupa romana all’origine simbolo di forza diventa immagine di pigra violenza, la falce-martello all’origine simbolo di unione fraterna diventa immagine del gelo staliniano: è proprio nello scambio di queste “formule” che sta il tragico della situazione. Anche quei fatti scarniti ed essenziali che sono i simboli possono diventare immagini, narrazioni, infine storia. (...) Ma prima di passare al valore del simbolo e al significato del moralismo di Angeli, si dovrà parlare del suo metodo, e pensare soprattutto alle sue opere più impegnative. I simboli del potere dipinti a forti tinte sono poi velati da una tela colorata che solo in parte lascia trasparire l’immagine. Angeli non vuole che il nostro interesse si sposti su questa parte del quadro perché non intende la tela come un di più ma come un equivalente della vernice arricchita dalla patina del tempo. Un quadro di Angeli, è volutamente un quadro antico, un quadro “patinato” proprio per cacciare il più lontano possibile il mondo del terrore. Ma il significato si complica. Nascendo le sue immagini dietro la tela, questa viene ad assumere la funzione di un “trasparente”, non è più il supporto della pittura ma immagine della materia che ostacola una visione pittorica. Il manifestarsi del rapporto difficile artista-materia. Cioè, ancora una volta, un simbolo. Questo velo-di-maia è il momento della contemplazione sovrapposto al momento dell’azione e della reazione, è un “filtro” (come quelli studiati da Lo Savio, compagno della prima mostra di Angeli) cioè un modo per “eliminare il flusso ottico” (un quadro di Angeli esige una attenzione prolungata, è una recherche privata). Se i filtri di Lo Savio additavano la necessità del metodo e la purezza d’una ricerca – luminosa, Angeli contamina il mondo delle idee con il mondo della vita. Simbolo e monocromo sono estratti coerentemente dalle prime opere basate sulla materia e sulla figurazione: cioè Angeli ha proceduto a un affinamento qualitativo, a una pregnanza purista. (...) Angeli accetta il mondo non perché lo trova il migliore dei mondi possibili ma perché non può farne a meno: la nausea dura appena un attimo perché le succede il ghigno e poi l’interesse e poi la contestazione e poi l’ironia, e infine un atto d’amore. Con l’eterno timore di essere fagocitato da quel mondo che aveva cominciato a disprezzare: una vita violenta, sembra dire Angeli, ma pur sempre una vita. In fondo Angeli è un Alceste moderno, il misantropo molieriano che cerca di mantenersi nel mondo anche se non l’accetta, un nuovo anacoreta che riesce a distinguersi pur vivendo accanitamente nella società». Maurizio Fagiolo dell’Arco Bibliografia selezionata: − M. FAGIOLO, Angeli pittore moralista, in «Avanti», 28 novembre. Roma, Galleria Odyssia, novembre-dicembre Milano, Studio Marconi, 16 dicembre Mario Schifano. Testo di Goffredo Parise. «A - Senta, mi parli un po’ di Mario Schifano e dei suoi quadri. / B - Sono la stessa cosa, Mario Schifano è i suoi quadri. Dunque guardi i quadri e conoscerà Schifano. / A - Allora, facciamo così: io guardo i quadri e lei mi parla di Schifano. In questo modo, anziché ricostruire in un tempo successivo la figura del pittore, questa si farà, per così dire, da sé, a mano a mano che io guarderò i quadri. Ora, purtroppo lei dovrà usare le parole cioè le metafore, mentre io, con molta minor fatica, userò lo sguardo. Vedremo fino a che punto la parola può correre parallela all’immagine. Insomma, alla fine saprò tutto dell’opera, per quanto mi è dato di ricevere per mezzo della mia sensibilità ottica; e saprò (vedremo che cosa) di Schifano grazie alla parola. D’accordo? / B - D’accordo. / A - Mi fermo e guardo questo quadro dal titolo Suicidio N.1 Lei parli. / B - Vede, per parlare di Schifano, sono costretto a fare un po’ di anatomia. Le parlerò cioè del suo corpo (in riposo e in movimento) e lei simultaneamente, applicherà, farà coincidere, o meglio stabilirà un’equivalenza di spazio tra quanto le apparirà dalle mie parole e i quadri che vede. Alla fine l’anatomia sarà anatomia comparata e applicata. Va bene? / A - Benissimo. / B - Dunque, Schifano è un uomo di trent’anni, di tipo sommariamente mediterraneo, se non arabo. In riposo il suo corpo, alto circa un metro e settanta, del peso di cinquantacinque chili, visto da angolazioni e distanze diverse, rivela innanzitutto un languore felino innocente e attonito. Come un piccolo puma di cui non si sospetta la muscolatura e lo scatto. Ho detto attonito, mi sente? Attonito è parola che si riferisce anche al quadro che lei sta guardando. Visto in movimento (cioè appena gli arti si sciolgono nel moto) il languore scompare e diventa leggerezza, ritmo e souplesse. Nel suo insieme di statica, dinamica e fonia, il corpo ha l’impronta nitida e al tempo stesso misteriosa dell’eleganza. Ora l’eleganza, come ogni pura forma, è del tutto priva di contenuti ideologici. Possiede tuttavia il mistero proprio dell’eleganza che è il suo contenuto stesso: e che si esprime, per così dire, da sé. / A - Scusi se la interrompo: quanto lei va dicendo si attaglia molto bene alla fattura, alla qualità pittorica, all’ampiezza e al respiro del segno nel quadro che sto guardando: non però al suo titolo che presuppone un contenuto. L’eleganza, la rapidità, la souplesse, anche la “felinità” si vedono subito, anzi si fanno vedere al primo colpo d’occhio. Ma un suicidio… / B - Eppure, se lei guarda bene, questo è proprio un suicidio. Del suicidio, cioè dell’atto evocato dal titolo, ha la nostalgia suggerita dagli elementi narrati (il parapetto, la pianta immota, il cielo immoto, vuoto e profondo). Dovrebbe essere un quadro tragico, in realtà è un quadro non solo felice, ma poetico e, appunto elegante. In altre parole il pittore pensa al suicidio come a una sorta di estasi estetica. Se lei mi ascoltasse… / A - Infinite scuse per l’interruzione. L’ascolto. / B - Una natura elegante tende sempre alla gelosa conservazione dell’elemento che la nutre e si espone raramente al contatto con la multiforme, violenta e pregnante realtà. La vera eleganza è anche timida. Ma quando si mostra lo fa con candore fulmineo, come, per completare e conchiudere la metafora del puma, Nurejev quando attraversa il palcoscenico con un salto acrobatico. Timidezza, autoconservazione, scatto, non vanno disgiunti tuttavia da altre componenti (fortissime) che sono l’esibizione e il narcisismo. / A - Si riferisce forse a questo quadro dal titolo Un’impronta umana nel mio lavoro dal ‘60 al ‘65? / B - Inparte, in parte. / A - Mi pare che queste ultime parole rappresentino assai bene questo quadro, che però possiede, oltre l’eleganza e la timidezza (narcisistica e felina) due altre qualità molto belle. / B - Cioè? / A - Il candore infantile e la favola. / B – Giustissimo. Comincia a conoscere un po’ di Schifano? / A - Un po’. Eccoci davanti a un quadro intitolato ALFA. È un incidente d’auto. Perché ALFA?Perché Goffredo Parise? Un amico morto, forse? / B - No, sono io. Perciò non le posso parlare di questo quadro. Gli sono affezionato e con l’affetto non si fa anatomia. / A - Naturale. Guardiamo allora questo Spazio. / B - Le parlavo della lievità della “massa” Schifano, nello spazio. Questa lievità, cioè la quasi assenza di peso dovuta appunto alla sua particolare dinamica (ambulatoria), non poteva non essergli utile per questo quadro. Infatti noi vediamo una parte dell’astronauta e della capsula spaziale che si fondono, grazie alla rapida e appena accennata stesura del colore (un solo colore) in un’unica zona frastagliata altamente decorativa. Questo quadro non è diverso, mettiamo da un Balenciaga, e potrebbe intitolansi (mondanamente) “cocktail spaziale”. Perché dunque il pittore si serve dell’idea spaziale? Per dare appunto spazio e allo stesso tempo per togliete ogni sospetto di staticità alla decora- 272 zione. Così un Balenciaga per esprimersi ha bisogno di essere indossato, di essere visto nell’aria e di muoversi. / A - Lei passa dall’anatomia all’alta moda, di punto in bianco. Va bene la metafora, che accetto, ma parliamo di un pittore, non di un sarto. / B - Ho voluto fare un breve puntata nell’altra moda per rivestire di una certa frivolezza l’anatomia di Schifano (ma anche della sua pittura). Oltretutto non c’è alcuno scandalo che questa mostra sia anche un defilé. / A - È vero, ha molto charme. Mi dica: Schifano è buono o cattivo? / B - Non è né buono, né cattivo. È innanzitutto un vero pittore. / A - Allora è simpatico o antipatico? / B - Molto simpatico, nonostante l’abuso del termine. / A - Perché? / B - Perché possiede il dono di comunicare ed esprimersi immediatamente e simultaneamente. Non usando schermi tra la sua apparenza e la sua assenza, come lei vede dai quadri e dal modo come sono dipinti, cioè in definitiva, mostrandosi, è naturalmente simpatico. / A - Èanche intelligente? / B - L’intelligenza di capire la vita nella sua immediatezza. La sua è una intelligenza artistica, fortemente istintiva. Inoltre, non vorrei ripetermi ma lo faccio ugualmente, la sua intelligenza dipende anch’essa dalla sua eleganza che, non dimentichiamolo,è l’elemento primo e massimo di Schifano. / A - Lei ha fatto il ritratto di una persona in perfetta armonia con sé stessa. / B - Be’sì. / A - Devo ammettere che l’armonia appare in tutti i quadri che ho visto. Ma senta, chi c’è alle nostre spalle? / B - Provi a indovinare. / A - Ma sì, ma certo, è Schifano». Goffredo Parise Bibliografia selezionata: − M. FAGIOLO, Ad ogni quadro si va a capo, in «Avanti», 24 novembre. − D. MICACCHI, Mario Schifano, in «L’Unità», 1 dicembre. «In un dialoghetto all’antica sulla pittura ma animato da un brio e un’ironia di scrittura tutta attuale, Goffredo Parise delinea un brillante ritratto di Mario Schifano per il catalogo della mostra d’un bel gruppo di opere recenti presentate dalla galleria “Odyssia” (via Ludovisi). Comincia dall’anatomia del tipo umano che gli si configura come quella di un puma, languido felino, innocente e attonito, i cui arti appena si sciolgono nel moto liberano leggerezza, ritmo, una misteriosa eleganza, una perfetta armonia. E di questa eleganza dice che, come ogni pura forma, è del tutto priva di contenuti ideologici. E dell’eleganza felina che non fa uso di schermi tra la sua apparenza e la sua essenza, prenderebbero forma i quadri armoniosi di un uomo armonioso il quale ha la bella qualità di capire la vita nella sua immediatezza. Alcuni particolari del ritratto che fa Parise, non c’è dubbio, corrispondono all’uomo e ai suoi quadri. Soltanto che questo felino non è così elegante, è anche vero che più d’un pensiero dominante – si, proprio i contenuti – gli frena e gli muove gli scatti, e che la sua armonia è un patetico e dolcissimo desiderio di armonia. Or sono pochi mesi Schifano fece una mostra assai bella: qualcosa che rassomigliava a una liberazione dell’uomo-pittore immerso nella natura ritrovata. Le tre versioni del quadro con gli alberi, ora esposte, più si collegano al precedente lavoro ma ne sono uno sviluppo pigro in senso decorativo. Come dire che il felino ha preso sonno sotto quegli alberi che aveva scovato nel deserto. C’è poi il grande quadro dal titolo Giulia (Goffredo Parise) che è uno sviluppo assai felice di certi disegni con particolari di macchine esposti nella precedente mostra: l’oggetto (a noi pare la carcassa rovesciata d’una automobile) ha una evidenza misteriosa; il colore puro e luminoso, armonizzato con bella maestria fra il grigio e l’azzurro, sembra materializzare una visione infantile e con quella facilità per la quale un oggetto fra le mani d’un fanciullo può fantasticamente divenire qualsiasi altra cosa. Anche nel quadro intitolato Un’impronta umana nel mio lavoro, dal ’60 al ’65 la visione è candida, infantile. I quadri nuovi – il passo avanti – sono alcune grandi pitture che raffigurano una finestra spalancata nel cielo. Il motivo dell’interno-esterno ha una lunga storia nella pittura moderna ed è un motivo che molti artisti italiani, in questi anni, hanno prediletto. Cosa hanno allora di originale, di poetico, queste finestre di Schifano? Ci sembra che l’originalità stia nella tensione che c’è tra l’artista e l’azzurro del cielo. Il pittore non sta tranquillo qui e il cielo impassibile là. Il disegno del vano della finestra ha un taglio obliquo, quasi l’immagine fosse afferrata nello stanco levarsi mattutino da un letto, l’azzurro abbaglia come ferisse, qualche oggetto appare appena delineato come un segno sommario e impreciso come se l’occhio non riuscisse a mettere a fuoco l’immagine e brancolasse nel biancore di calce delle pareti. Due di queste finestre portano il titolo Suicidio, ma l’immagine tradisce soltanto l’ossessione per l’azzurro che, a nostra sensibilità, è un’ossessione intellettuale di “cieli puliti” in senso morale più generale.In altri di questi quadri con la finestra Schifano sembra aver paura dell’ovvietà dell’immagine e, allora, la ironizza, ci scherza sopra da pittore, o la intellettualizza tracciando la sagoma argentea d’una scultura di Brancusi e scrivendo sulla tela il nome di Matisse. Ah! Matisse! Quel segno monumentale della gioia di vivere, quel sublime eros che Matisse conquistò in vecchiaia – era accaduto anche a Renoir –, quella capacità del maestro francese di accennare sulla tela con la sapienza d’una immensa esperienza di vita e di sentimenti, tutto ciò deve essere ben caro a Schifano. E, in lui, l’accenno e l’azzurro sono faticati, frutto di una tensione, di un volere a tutti i costi.Non lo diremmo un pittore elegante ma un pittore felice quando riesce a sentirsi dentro la vita, dentro una giornata luminosa. E un pittore anche timoroso di dire cose ovvie ma che tanto più libero sarà quanto più acquisterà fiducia nella propria facoltà di vedere con occhi primitivi, con fantasia consapevole. È anche, spesso, un pittore elegante perché la naturalezza dei suoi messi espressivi gli permette di fare molte cose, compresi quei divertimenti con i fogli di materia plastica trasparente e colorata che egli ritaglia e combina col segno e il colore a smalti (ma è meglio lasciarli nelle mani di Moholy-Nagy, di Arp, di Fontana). È il desiderio dell’azzurro, è questo contenuto che salva Schifano in giorni nei quali, per tante ragioni di vita e di cultura, dipingere un azzurro vero è difficile. A volte, quando si hanno tante cose nel cuore e nella mente e quando nel mondo accade quel che accade, è terribilmente difficile dipingere azzurro. Potrebbe essere una menzogna anche, in determinate circostanze». − s.a., s.t., in «Paese Sera», 22 dicembre. − G.K., Mario Schifano, in «Il Popolo», 28 dicembre. − s.a., s.t., in «Avanti», 29 dicembre. Firenze, Galleria del Gruppo 70, dicembre Pino Pascali espone con altri artisti nella mostra Luna Park. Zurigo, City Galerie, 1 dicembre Mario Ceroli, Mimmo Rotella e Mario Schifano espongono con Enrico Castellani, Piero Dorazio, Lucio Fontana e Michelangelo Pistoletto nella mostra 8 Italienische Künstler. Roma, Galleria La Tartaruga, 10 dicembre Mario Ceroli. Testo di Giorgio De Marchis, Ceroli costruisce una casa, pubblicato in Catalogo 3 (Roma, La Tartaruga, giugno 1966). «La casa, cassa, arca e chissà quante altre cose fuori e dentro fabbricata, chiusa, decorata con zelo di mitologo e buona arte di carpentiere, mostra subito la solidità di connessure, di stipiti, di chiodi, di travi, e l’evidenza di sagome di superfici, spigoli che la definiscono come luogo e come immagine. Come parallelepipedo in cui lati sono tetto, pareti, pavimenti, intorno a cui si gira accarezzando con un dito la ruvidità delle tavole, in cui si entra attraverso una porta. Non è tuttavia un tipo di scultura abitabile che conservi i valori plastici tradizionali, né di architettura fantastica. Non è scolpita cavando l’idea dal marmo con furori michelangioleschi né plasticando per caccole come dispiaceva ad Arturo Martini. È scultura ma non è scolpita, è costruita ma non è costruttivista. È tutta di legno, materiale e non materia, già formalmente determinato in tavole destinate all’imballaggio. Legno non scolpito ma ritagliato, connesso, inchiodato, incollato. La rigida e perpendicolare geometria della forma parallelepipeda non ha tanto un valore spaziale quanto archetipico, di temenos, di recinto. All’interno si accede varcando il limite della porta e chi vi entra si trova nello spazio denunciato dalle pareti esterne, ma si trova anche all’interno del temenos: la parete non definisce un volume ma recinge, il suo spessore ha una faccia esterna e una interna, di altro luogo. Lo spazio interno è alla nostra misura, ma in un’altra dimensione: varcando il limite vi siamo ammessi. È un interno popolato di immagini ricavate nello stesso legno, nelle tavole che costruiscono le pareti: un legno usato come corpo e forma di tutte le cose (...) A Roma c’è stata una intelligenza precisa della Pop Art americana come esito dell’informale, intelligenza resa possibile dallo stesso contributo romano all’informale dato con l’opera di Burri, per fare un solo nome. Se l’informale aveva oggettualizzato il segno riducendolo nello stesso tempo a pura segnicità, matrice di tutte le immagini possibili, e la materia a matericità di tutte le forme possibili, i giovani artisti hanno affrontato il problema di ritrovare una possibile oggettività di comunicazione attraverso le immagini senza dover ricorrere di nuovo ad una loro formulazione in forme simboliche disegnate e scolpite ma prelevandole dal mondo di immagini formulate che ci circonda e manipolandole in una dimensione oggettuale come elementi semantici del reale percepito. Nei limiti di una composizione e di una articolazione dello spazio affidate non al volume ma alla manipolazione di immagini sagomate nello spessore usuale del legno Ceroli opera con una istintiva sicurezza che ritrova inconsapevolmente l’eredità di certa scultura cubista e futurista, e con una così naturale aderenza al linguaggio attuale che vi può spiegare la massima ricchezza fantastica. Parte di un rituale, di una costruzione, di uno spazio mitico e reale, la figura umana non è più statua né rilievo ma elemento di una aggregazione iconograficamente predeterminato, non diversamente dallo stipite di una porta: il punto di partenza è la fotografia, la proiezione di un profilo sulla tavola di legno, poi ritagliato, spesso in più esemplari, sovrapposto e giustapposto ad altri. Lo spessore di questo disegno nello spessore della tavola, non delimita una metafora formale del reale, ma al contrario la presenza impenetrabile dell’immagine come reale formulato. (...)». Giorgio De Marchis Bibliografia selezionata: − L. TRUCCHI, Mario Ceroli alla Tartaruga, in «Momento Sera», 31 dicembre 1965 – 1 gennaio 1966. «Tra le pochissime personali degne di rilievo di queste magre settimane festive durante le quali le gallerie preferiscono allestire delle collettive, segnaliamo quella di Mario Ceroli alla Tartaruga. Ceroli è un “novissimo” della scultura; le sue figure, grandi sagome ritagliate in legno grezzo, hanno un valore che è insieme oggettivo e simbolico; il suo réportage è cioè sempre riscattato da una volontà di trasposizione emblematica e fantastica. Ma l’elemento più originale di Ceroli è il tentativo, spesso riuscito, di ambientare le proprie figure in uno spazio architettonico, al punto che mi pare giusto definire queste complicate composizioni delle “archisculture”. In alcune strutture a compartimenti o ad armadio, il ricordo di Louise Nevelson appare evidente e, di conseguenza, quello di Del Pezzo che così abilmente ha depurato, in chiave metafisica, il torreggiante barocchismo coloniale della scultrice americana. Ma una schietta, nativa vena artigiana – espressa in quel costruirsi da sé gli oggetti dei suoi assemblages senza prelevarli da manufatti – e la totale assenza di ossessioni maniacali, già distaccano Ceroli da questi maggiori e più complessi modelli. Non saprei invece immaginare dove questa salute narrativa, questa realistica normalità potranno portare in futuro il giovanissimo artista: staremo a vedere, dandogli fin da ora il credito che la sua autentica e promettente personalità ben merita». − G. BRIGANTI, Ceroli alla “Tartaruga” – Lo scultore con la sega elettrica, in «L’E- 273 spresso», 9 gennaio 1966. «(...) Il procedimento di Ceroli si apparenta in qualche modo, molto alla lontana, a quello della Pop Art. Il materiale che egli usa infatti è un materiale assai comune nel mondo dei consumi, può anzi considerarsi un materiale che rientra, come materiale di scarto, come rifiuto di un’operazione tecnologica, nel panorama della nostra ottica quotidiana. Sono quelle povere assicelle di legno, piallate rozzamente a macchina, che gli spedizionieri adoperano per farne casse da imballaggio e che, una volta adoperate, servono ancora per accendere il fuoco o per fare tramezzi e pareti nelle baracche delle bidonville. A ben considerare, già in questa scelta può trovarsi qualche indicazione, perché quel materiale che Ceroli adopera è in fondo qualcosa di molto diverso dall’anonimo rifiuto di una civiltà tecnologica raccattato nella spazzatura, perché quelle assicelle scabre sono materiale per un’operazione pur sempre artigianale, e in fondo tipicamente italiana, perché, dopo tutto, c’è ancora qualcosa di naturale, e di amico, nel legno che anche dopo adoperato continua a servire. Anche l’atteggiamento con cui Ceroli lavora i suoi legni è un atteggiamento felicemente artigianale. C’è qualcosa di paziente, di amorevole, di sano nelle sue semplici operazioni di carpenteria. Tra una sagoma e l’altra ci scappa ogni tanto qualche lettera, qualche mobile, qualche sedia, e si vede che le fa con amore, che ci si diverte. Il suo materiale, pur così umile, lo sceglie con attenzione, studia le diverse patine che il legno piallato assume col tempo, si preoccupa che le assi siano ben stagionate e arriva persino a garantire che dureranno a lungo, che possono stare persino all’aperto. Anche perché le sue macchinose e ingombranti composizioni difficilmente possono collocarsi nelle stanze di una comune abitazione; questo disinteresse per la collocazione, e quindi la commerciabilità, dei suoi prodotti torna, dopo tutto, a suo onore. Anche Ceroli, ai suoi inizi, ha ricorso ad immagini desunte dal mondo eroico della nostra figurativa (“L’uomo di Leonardo” preso dalla “figura vitruviana” o il David di Michelangelo) riportando quelle immagini, o simboli, nell’ambito della ricognizione del nostro panorama visivo. Ma l’ironia, appena accennata, lasciava il campo al piacere artigianesco. Per il nitido intaglio, per la ben connessa costruzione. Devo dire però che preferisco queste sue ultime cose esposte alla “Tartaruga” che tentano un più vivo inserto nel mondo delle immagini. C’è sempre qualcosa di sonoro, di fragrante, di vero, vorrei dire di umano e di antico nelle ben connesse costruzioni di legno grezzo. La sua “Scala” sembra un pezzo della gradinata del teatro Farnese di Parma, la sua “Casa” la vecchia e rozza biblioteca di un convento. E le invenzioni formali delle sagome delle figure non sono mai prive di certa metafisica nobiltà nel loro stringato rigore. Ma è soprattutto nell’intelligente recupero di ancestrali e sane doti artigianesche che consiste il merito maggiore della carpenteria di Ceroli». Cannes, Casinò Municipale, 19 dicembre Franco Angeli, Mario Ceroli, Tano Festa, Jannis Kounellis, Sergio Lombardo, Francesco Lo Savio, Pino Pascali, Mimmo Rotella, Mario Schifano e Cesare Tacchi espongono con Enrico Castellani, Piero Manzoni e altri nella mostra L’Art actuelle en Italie. Testo diPierre Restany. Mostra itinerante organizzata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma a cura di Palma Bucarelli e Giorgio De Marchis. Nell’anno seguente la mostra è stata presentata a Roma (marzo), Dortmund (maggio), Dusseldorf, Colonia, Bergen (ottobre), Oslo (novembre), Belfast, Edimburgo (dicembre). Bibliografia selezionata: − L. TRUCCHI, 33 pittori espongono in Provenza, in «La Fiera Letteraria», a. XLI, n. 1, Roma, 13 gennaio, p. 23. 1966 Amalfi, s.d. Mario Schifano partecipa con altri artisti alla Rassegna di arti figurative. Bologna, Galleria La Nuova Loggia, s.d. Mario Schifano espone con altri artisti. Bucarest, s.d. Mario Schifano espone con altri artisti nella mostra Artisti contemporanei oggi. Genova, Galleria Rotta, s.d. Mario Schifano espone con Valerio Adami, Enrico Baj, Lucio Del Pezzo e Emilio Tadini nella mostra Studio Marconi: Adami, Baj, Del Pezzo, Schifano, Tadini. New York, Bonino Gallery, s.d. Cesare Tacchi espone con altri artisti nella mostra Italy, new tendencies. Novara, Galleria Pozzi, s.d. Mario Schifano espone con altri artisti. Leeds, University Union British Arts Council, s.d. Tano Festa espone con altri artisti nella mostra Forma e Immagine. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, s.d. Gino Marotta espone nella Mostra delle opere acquistate. Roma, Libreria Galleria Ferro di Cavallo, s.d. Cesare Tacchi. Stoccolma, s.d. Mario Schifano espone con altri artisti nella mostra Arte moderna italiana. Tokyo, s.d. Luca Patella partecipa con altri artisti alla VI International Biennal of Prints. Mostra allestita successivamente a Kyoto. Verona, Galleria Ferrari, s.d. Mario Schifano espone con altri artisti. Torino, Galleria Il Punto, 5 gennaio Mario Schifano. Testo di D. Salmè. Bibliografia selezionata: − s.a., Le Rughe del’avanguardia, in «L’Unità», 12 gennaio. «L’occhio di Schifano, le sue tele sono un poco come il mirino di certi fotoreporter: attenti al modo meccanico del movimento, pronti a sottolineare la persistenza dinamica di un oggetto che passa. Il suo dissolversi, l’eccesso di intensità del campo bianco o nero congelato fino a essere una colata di grumi di smalto cagliato. E continua, anche in questa mostra, a piacermi la forza quasi espressionistica del segno, di una virulenza spregiudicata. Ma ormai la sua pittura ha raggiunto un’area al di fuori della forzatura problematica di cui qui esistono ancora dei residui: c’è una piacevolezza, una furberia ambigua di quadri dipinti ad allusivi, precisini precisini nella stesura, in cui qualcuno troverà dell’ironia e invece mi pare salti fuori in giochetto, la piacevolezza buona un poco per tutte le borse, specie quella oggi tanto in voga di una pittura di tono avanzato che sia ancora “dipinta” in cui si torni ad usufruire di quel modo di dipingere che pareva, appunto ieri, cancellato dal gioco dei nuovi artisti. Francamente il discorso non tiene, e questa sua virtuosistica marcia indietro mi pare una pesante remora sul suo lavoro, fino a ridurlo a poca cosa. Ma è sintomatico il fatto in se stesso, così com’è sintomatico il fatto che una pittura di contestazione che opponga il mito personale di un certo modo di realtà agli accadimenti di questi anni, né si sa come o dove, una volta chiamata ad una verifica di tenuta è apparsa nebulosa e polverosa. Forse è venuta l’ora di elaborare una figurazione veramente diversa, realistica nella misura in cui sa abbracciare criticamente i meccanismi dei miti pubblici d’oggi, i fantomatici mass-media, e usarli, e farli circolare, lasciando correre le ali estreme, la sperimentazione a orizzonte angusto come il sentimentalismo dei mondi privati eletti a solo orizzonte». − s.a., s.t., in «Gazzetta del Popolo», 25 gennaio. − G. ARPINO, Arpino: Dialoghi con i “Nuovi” - Schifano ha scelto le immagini, in «Il Tempo», 26 gennaio. «Lasciamo che siano le parole di Parise a presentare il pittore Mario Schifano: “... Schifano è un uomo di trent’anni, di tipo sommariamente mediterraneo, se non arabo, guardare i suoi quadri significa conoscere Schifano... La sua è una intelligenza artistica, fortemente istintiva, intuitiva. Inoltre è un’intelligenza che dipende dall’eleganza di Schifano, elemento primo e massimo della sua natura...”. Prima di dare il via al nostro colloquio, basterà aggiungere che Mario Schifano è già entrato in una cerchia di consensi elevatissimi (e rari, se si considerano le vicissitudini della pittura contemporanea). Alcune sue opere figurano in casa di Moravia, Guttuso, dello stesso Parise. Mi può raccontate come nasce un suo quadro? Nasce in modo molto semplice. Alcuni anni fa, certi miei quadri nascevano da ciò che mi colpiva in una determinata segnaletica stradale o da alcuni particolari di cartelloni pubblicitari. Ora potrei dire che nascono da determinate parole, che si dissociano, diventano immagini. Parole come “spazio”, “plastica”, o “Alfa”, o “suicidio”, parole che diventano paesaggi. Sono perfettamente cosciente dell’incompletezza dei miei quadri, è una incompletezza voluta... La parola stimolo, la parola che diventa immagine agisce in me, talvolta, come la vedo agire, in certi film di Godard, se questo può spiegare.... Lei certo si rende conto che noi tutti, ormai, non siamo più liberi di vedere, che i nostri riflessi sono troppo allenati, gli occhi troppo pieni di immagini. E così ci poniamo davanti a un quadro senza naturalezza e libertà. Come dovrebbe porsi una persona davanti a un suo quadro? Spero sempre di far quadri, cioè di far pittura, senza contenuti, senza inutili volontà di spiegazioni... Forse è giusto che la gente sia satura di immagini e veda e giudichi nella sua condizione di satura. Un fatto semmai è questo: che è la pittura, è il quadro che non si lega alla gente, ed è per questo che la gente non va nelle gallerie a vedere mostre... Non crede che tutta la pittura contemporanea esiga troppe spiegazioni letterarie, sia insomma un fatto importante dal punto di vista tecnico ma aggravato da mille suggestioni intellettuali, non libero come ad esempio fu libera l’esperienza pittorica degli impressionisti? Forse. Ma il fenomeno della pop-art ha sbloccato questa situazione con una nuova ondata di immagini libere, sostenute e prodotte da realtà esterne, evidenti, conosciute a tutti. Dopo l’esperienza della pop-art il discorso sulla pittura va liberandosi. E lo dico non essendo io né pop né op... Elio Vittorini scriveva nel ’60: “Anche nell’odierna congiuntura di figurativi e astratti che tendono ad escludersi vicendevolmente è l’espressionismo che tiene inchiodate le forze. Tre quarti di figurativi non sono in sostanza che degli espressionisti; idem tre quarti degli astratti, e appunto è quanto gli uni e gli altri hanno in comune di sostanza espressionistica che impedisce ogni loro sviluppo non di pura lettera o di superficie...”. Come giudica lei, oggi, questa affermazione? Vorrei sfuggire a questi discorsi di tipo storicistico. Credo che non mi ri- 274 guardino. Io vivo e lavoro nella contemporaneità, non mi sento di esprimere giudizi... Mi dia un breve elenco di quadri che le piacerebbe avere in casa. Un acquerello di Cézanne, alcuni disegni di Picabia, e poi disegni di Balla, di Boccioni... Con queste cose attorno sarei davvero contento... Qual è il colore che preferisce? Mi piacciono le carte con le serie di colori di certi prodotti industriali, di certi smalti, Relax, Duco, Ripolin, tutta una gamma di colori allineati... La pittura moderna non ha ancora annesso a sé tutti i luoghi della vita che ci appartiene, per esempio un laboratorio scientifico, una fabbrica, un grattacielo, magari un luogo come Cape Kennedy. Molti pittori moderni da Picasso a Matisse a Chagall, usciti dai loro studi, hanno decorato chiese, qualche palazzo tipo quello dell’Unesco a Parigi, ma anch’essi non sono riusciti a investire con la pittura i luoghi deputati della vita contemporanea. A lei, uscendo dalle tele, cosa piacerebbe dipingere? Non riesco a pensare a un luogo. Il mio paesaggio vero è il settimanale che sfoglio, sono certi tragitti cittadini più o meno abituali. Come dicevo prima, sono le parole che danno inizio a un mio quadro, oggi... Il direttore dell’istituto d’arte contemporanea di Filadelfia (USA), Samuel Adams Green, ha affermato di recente: “Se anche la pop-art si esaurisse domani, la sua affermazione varrebbe ancora come espressione della nostra epoca. Storia e nostalgia ne potranno alterare l’apprezzamento; retrospettivamente forse la pop-art potrà considerarsi romantica, celebrazione delle salsicce che hanno fatto felici i bambini durante le gite in famiglia, evocazione delle distese del nostro Paese umanizzate dai cartelloni pubblicitari, i fumetti che leggeremmo, le scatole di farinacei sulla ghiacciaia nella cucina di mamma, insomma l’antico sogno americano. quest’arte e questi artisti non chiedono scuse. La loro arte è immediata, brillante, allegra, gioiosa; affrontano l’oggi con piacere, con adesione. Celebrano la vita. Il domani lo lasciano all’avvenire...” come commenterebbe lei questo giudizio? Ma che persona simpatica! Ecco un uomo che ha capito tutto e velocemente. A me sembra che abbia perfettamente ragione. Ma non lo avevamo detto anche prima, che con la pop-art, comunque la si voglia giudicare, tutto è cambiato, tutto ricomincia e prende un’altra via? Potrebbe indicarmi tre date particolarmente importanti per lei, per il suo lavoro, tre date che hanno segnato una tappa, anche di minimo, anche di apparentemente gratuito? Non so. Non saprei. Per una persona come me, che si ritiene fortunata, forse non esistono date particolarmente significative. Potrebbero essere tre ma anche quaranta, anche cinquanta, privatissime e pubbliche, clamorose o di nessun conto. Davvero non so rispondere... Non so recuperare bene le date, quanto è accaduto ieri o l’altro ieri o l’anno scorso, non so riacciuffare giorni precisi ormai andati... Passato e futuro mi interessano sempre meno del presente, di oggi. Gliel’ho detto: vivo nella contemporaneità... Cosa ne pensa del potere, della suggestione, della forza dei giovani d’oggi? I giovani stanno divorando tutto, riescono a creare un autentico mito della loro stessa effettiva potenza, che è insieme concettuale e industriale, ribelle e a sé stante, appartata. Come si trova lei con questi giovani? Li capisce? Ne condivide le idee, gli atteggiamenti? O talvolta si sente escluso? Ha proprio ragione. I giovani stanno annettendosi tutto. A volte penso che i miei trent’anni siano già troppi. Ciò che i giovani ci fanno vedere oggi è una delle cose più curiose e divertenti che stiano capitando al mondo. Sì, divertenti. Ecco: non abbandonerei né tradirei i miei trent’anni, ma insieme – parallelamente, come dire? – mi piacerebbe avere anche i vent’anni, i diciott’anni di tutti questi Rolling Stones londinesi o americani, di tutti questi ragazzi... C’è una intelligenza oscura in quello che fanno, in quello che li spinge, in quello che sovvertono... Alla fine di un dialogo come questo, cosa le piacerebbe ancora aggiungere? Qualunque cosa: come avrà avvertito questa non è una intervista classica, anzi... Non so... Forse dovrei dire, o almeno sottolineare, che io credo alle immagini, e che ho coscienza di quanto siano limitate le immagini create dall’uomo-solamente-pittore. I miei interessi sono anche per l’uomo-fotografo, per l’uomo-operatore cinematografico; per l’uomo-regista. Amo molto il cinema, davvero, anche se attualmente, molte volte, si esce dalla visione di un film senza aver ricavato un granchè, o essendosi francamente annoiati. Ma è il mondo delle immagini che mi tenta. Mi piacerebbe fare un film sulla bomba atomica, ho anche bene in mente il titolo. Ma forse costerebbe troppo denaro... E vorrei fare fotografie, ci sono luoghi e cose e stagioni, l’estate ad esempio, che la fotografia renderebbe meglio dei colori usati in un quadro. Un certo tipo di fotografia può esprimere molto, oggi... Si, mi pare di aver detto tutto, a questo punto». (*) Bologna, Galleria Sanpetronio, 8 gennaio Mimmo Rotella espone con Raymond Hains nella mostra Gli “Affichistes” Raymond Hains & Mimmo Rotella. Napoli, Libreria Guida, 14 gennaio Renato Mambor e Pino Pascali. Testi di Marisa Volpi (testo già pubblicato in occasione della personale di Mambor a La Tartaruga del 21 aprile 1965), Maurizio Fagiolo dell’Arco (L’amor-vacui di Pascali) e Achille Bonito Oliva (Due dichiarazioni). «Ecco un muro, e su ogni mattone la scritta “pietra”; ecco l’invalicabile “muro del sonno” con tanti cuscini geometrizzati. Se un muro è formato di tanti mattoni, un quadro che rappresenta un muro è formato di tanti piccoli quadri. Ecco il senso della costruzione bianca di Pascali, del suo mimare la pietra in materia spugnosa, del suo dare un nome, cento nomi alla barriera. Il muro allora assume un significato prossimo ai grandi nudi di donna dello stesso Pascali: è un ostacolo, una barriera di silenzio che si deve infrangere. Pascali si costruisce questa bandiera-bianca, per contestarla subito dopo: non nel corpo della stessa opera ma con tutta una nuova mostra, quella in preparazione dei Cannoni (colossali giocattoli di monte perfettamente veri ma costruiti con frammenti eterogenei). Un cannone è un grosso stru- mento composto di cento pezzi, proprio come questi muri sono grosse barriere formate di cento mattoni. (...) Il quadro è oppressione di silenzio e non di clamore. Nel disordine impazzito che ci circonda. Pascali fissa un’immagine e gli dà i contorni del non-detto: il suo vulgarismo si unisce al più vasto rigore formale, il suo formalismo blasfemo strizza l’occhio ai paradisi artificiali dell’hard-edge. L’horror-vacui di tanta pittura odierna sta diventando amor-vacui, e in Pascali l’amor-vacui diventa allegoria”. Maurizio Fagiolo dell’Arco «1 – Fate il vostro gioco, e “Mambor dispone cubi anti-gravi per il gioco della destinazione”. In un tempo tecnologico l’attività ludica è più praticabile, perché la specializzazione nel lavoro elimina la possibilità di verificare immediatamente la “teleologia” dell’oggetto (non potendone seguire lungo la catena di montaggio la completa produzione) l’ottima salvezza per sublimare l’estraneità del pezzo (detrito) – isolato e umanitario è il gioco. Poi segue la strutturazione in cui i cubi-eventi vengono assunti come segni di una nuova forma, che sconfigge ogni ipotesi: statistica di combinazione (formula). La forma-azione libera. Gli elementi assunti nella loro più cinica “formalità” senza romantiche contrapposizioni tra realtà e io estetico – non programmabile. Così l’ambito di imprevedibilità è instaurato dal meta-elemento del cubo antigrave, spostato dal visitatore (con sentimento e leggerezza) di faccia al pezzo. Quando un’attività è facile dal lato meccanico non è detto che possa essere svolta senza alcun sentimento. Anche Maciste nei films solleva e soffre il suo stok quotidiano di cartone-realtà pressata. Qui l’ironia di disalienazione-intermittenza da parte di un “organizzato” che si fissa così anche come evento temporale, nel complesso delle sue attitudini. 2 – Il muro del sonno di Pascali. Così la funzione di straniamento comunicativo si prospetta nella ossessiva (perciò emblematica) serialità dell’oggetto. Sembra allora l’operazione eludente proprio per il rigore della scanzione, che nulla concede al gioco. O forse il gioco consiste proprio nella programmazione del manufatto. L’oggetto gonfio (o tumefatto) diventa una tentazione e al limite una perdizione per le caratteristiche asettiche in cui si offre. Lo scarto da compiere è contro l’oggetto con tutta la mortificazione della sua denominazione e verecondia, nitore. Il frammento seriale è assunto in tutta la sua incrostazione semantica, con la volontarietà delle associazioni orrificanti che può produrre. Allora la scandalosità si pone come sintomo di “sessuofobia” che immediatamente si fissa come “sessoluoghia”, dal momento che l’autore propone di verificare le mitografie piccolo-borghesi, le quali per essere tali si presentano come un congelamento della realtà, e per questo stanno veramente sempre a destra». Achille Bonito Oliva Bibliografia selezionata: − s.a., Mambor e Pascali alla Libreria Guida – Veninio Naldi alla Modern Art Agency, in «Il Mattino», 19 gennaio. «(...) La mostra di Mambor e Pascali alla “Guida” propone al pubblico napoletano due delle più recenti declinazioni della “pop art” italiana che è venuta assumendo col tempo una fisionomia propria rispetto ai prototipi americani, tanto che lo stesso termina “pop”, implicante una presa diretta sui mezzi di comunicazione di massa, non sembra del tutto pertinente per le correnti italiane che fanno largo posto alla ironia e ad una sorta di sospensione tra contemplativa e affabulatoria che ricorda in qualche misura la poetica metafisica. Come ha scritto Marisa Volpi nella presentazione al catalogo, questo aspetto della “pop art” italiana, che preferirei perciò definire piuttosto una “figurazione oggettuale”, si rivela in modi chiari soprattutto nell’opera di Mabor, il quale tende ad isolare le immagini dal loro contesto imprimendo alle sequenze narrative una sorta di rallentamento progressivo fino a pervenire a una immobilità assoluta, a una fissità innaturale dei gesti che perciò stesso assumono un aspetto inconsueto e appaiono destituiti dei consueti significati associativi. La Volpi ha colto molto bene questo aspetto dell’arte di Mambor sottolineando come nelle ultime opere le motivazioni narrative e di reportage cedono il posto a preoccupazioni di ordine percettivo. E in realtà nel lavoro recente di Mambor si può avvertire uno scatto, un progresso netto in direzione di una precisa, rigorosa, analitica definizione ottica delle immagini. La tematica di Pascali è molto diversa: se l’arte di Mambor consiste in un figurare per immagini, quella di Pascali è invece un figurare per oggetti. Volendo riferirsi alle esperienze più tipicamente “pop” degli americani, si potrebbe dire che la direzione di ricerca di Mambor richiama l’acutezza ottica di Lichtenstein, l’orientamento di Pascali tende piuttosto alla deformazione e al gigantismo di un Oldenburg. Ma per Mambor, l’orizzonte entro cui si muovono o, meglio, si presentano i suoi personaggi è l’orizzonte delle nostre città e dei nostri paesaggi con tutte le stratificazioni culturali e pittoresche che li caratterizza, e così per Pascali il gigantismo deformante non provoca il rifiuto e la nausea dell’oggetto esibito e imposto dai mass media, ma, al contrario, rappresenta una sorta di invenzione fantastica, un sognare ad occhi aperti e un manipolare con le proprie mani l’oggetto dei propri sogni. Voglio dire che in Pascali c’è una partecipazione gioiosa, sensuale, alle cose, ma anche la volontà di farsele da sé (e in questo ha visto giusto Maurizio Fagiolo nella presentazione al catalogo) sulla misura del proprio desiderio: “il nudo di donna di Pascali – ha scritto Maurizio Fagiolo – è come un pezzo di natura, con le curve orografiche, gli avvallamenti, i bacini: una natura vista dall’alto, un miraggio di donna nel quotidiano “deserto del sesso”. Nessuna contemplazione stanca e compiaciuta: fare una donna [è] come possederla». Napoli, Galleria Il Centro / Galleria Il Quadrante, 22 gennaio Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Giosetta Fioroni, Pino Pascali, Mario Schifano e Cesare Tacchi espongono con Lucio Del Pezzo e altri artisti nella mostra Tendenze confrontate. In catalogo dichiarazioni di alcuni artisti e testi di Alberto Boatto (Figurazione oggettuale) e Filiberto Menna (L’arte visuale). Mostra in seguito tenutasia 275 Stoccolma, Istituto Italiano di Cultura Lerici, 3 maggio. «(...) Una linea abbastanza netta divide all’interno la compattezza del gruppo degli espositori e da questa frattura discendono grosso modo due diverse indicazioni di realtà. Gli estremi della frattura sono segnati dai termini di recupero, degradazione del passato da una parte; eccitazione e seduzione del presente dall’altra. (...) L’oggettualità allora viene a delinearsi di due prevalenti tipi. Per coloro che sono impegnati a misurare il passato l’oggettualità rappresenta un punto di arrivo: l’opera si oggettualizza. L’oggettualità invece per gli artisti intenti a dare forma al presente si trova piuttosto all’inizio, occupa la fase d’avvio del lavoro artistico. Il movimento procede dunque su due opposte rotaie: è un tendere verso l’oggetto da una parte, è un distaccarsi dall’altra, un alterare. Tuttavia non si assiste mai ad un prelievo o ad una citazione diretta e testuale, perché ciò si rivelerebbe manchevole (…). (...) Se il termine pop indica il rifacimento di un oggetto di massa o di una figura commerciale, qualcosa che è rappresentativo per sé e non di un individuo in quanto uomo comune, misuriamo ora come esso possa sussistere qui da noi anche solo nel suo aspetto sociologico. Pop non è popolare nell’accezione europea ma ne è anzi l’opposto; è middle class, un’immensa classe borghese che in Italia è semmai in formazione, per cui allora questo spirito pop da noi non può trasmigrare che in forme mutate. Nella nostra società, pop diventa francamente popolare e perfino popolaresco, (come si fa nostalgicamente popolaresco nella nuova pittura inglese) ma cresciuto a disinvolto contatto di gomito con architetture e simboli storici come accade nella nostra esperienza quotidiana. Oppure diventa modello di vita, raffinatezza, accelerazione, agilità, eleganza, crudeltà, movimento, insomma partecipazione ad una realtà di fatto moderna ma non ancora deprezzata a luogo comune, bensì privilegio mondano, forse ancora per pochissimi battiti, d’una minoranza di happy few. Ci troviamo al di sopra e al di sotto del gusto tipicamente socializzato ed oggettualizzato della middle class (...). Nelle opere di questi artisti il problema della tradizione e del passato è posto in termini sdrammatizzati, e i miti vengono degradati coi filtri diversi dell’ironia del gioco. Ma ancora più direttamente si può seguire un’altra strada per ricondurli alla prosaicità quotidiana, riducendo tutto il repertorio ad una attrezzatura buona per una messa in scena teatrale, per uno spettacolo a prezzi da familiare. In tal modo viene a delinearsi anche il contributo offerto dai giovani artisti italiani a quella ricerca di una nuova dimensione spettacolare che non è delle meno stimolanti nel panorama dello sperimentalismo attuale. L’originalità di questa oggettualizzazione risiede dunque nello sforzo di degradare il passato e di travolgerlo in un pretesto spettacolare, ma questo è pure il suolimite, perché non si può sminuire che un patrimonio comune, già entrato largamente in circolazione, per cui il traguardo dell’assoluta novità sembra un miraggio inafferrabile.(...) Una specifica attenzione merita la questione linguistica nella sua stessa globalità che presenta già numerosi elementi distintivi. In questo particolare tipo di oggettualità, è interessante esaminare lo stile nei suoi riferimenti con la cosa. La prima annotazione da farsi è che lo stile non nasce e si modella sulla cosa o sulla figura oggettiva, né sulle convenzioni che contengono. Mentre ad esempio nell’americano Dine, e ancor più in quei due formidabili ideologhi che sono Lichtenstein e Warhol la logica serrata e dispotica dell’utensile, del fumetto e della foto detta praticamente il proprio linguaggio del pittore, qui direi che avvenga il contrario, ed è ancora il gusto, lo stile del pittore ad imporsi sulla cosa. Certo questo stile non si forma nel vuoto ma in un contesto culturale dove prevalgono due componenti. Una componente genericamente modellata su quei linguaggi, che sono poi modi di vedere e di formare, che offrono una assoluta garanzia di modernità. Sono naturalmente i linguaggi dei mass media alla cui scoperta hanno fatto da tramite per tutti questi artisti i pop. La propensione per la semplicità formale e la chiarezza comunicativa, la semplificazione lineare, il colore netto e non impastato e tendente al timbrico, il gusto soprattutto per la visività onde l’immagine blocca l’intero campo percettivo, il senso dell’artificialità che disincarna e raggela, tutto ciò che è di derivazione dei linguaggi industriali. A questa componente si mescola sovente con reciproche concessioni la tradizione maggiore dei linguaggi artistici moderni secondo le inclinazioni e le ricerche di ognuno (...)». Alberto Boatto «Le opere del “Gruppo T” di Milano, presenti in questa Mostra, segnano in maniera chiara la nuova fase operativa del gruppo contraddistinta da una più consapevole intenzionalità sperimentale e da una più approfondita ricerca di processualità strutturali dopo la fase iniziale caratterizzata piuttosto dalla realizzazione di oggetti cinetici dotati soprattutto di una fortissima carica indica. Questo approfondimento iematico appare evidente nelle opere recenti di Gianni Colombo, nelle quali la componente cinetica non esibisce più se stessa, ma è analizzata in vista di tre diversi tipi di prodotti e precisamente la creazione di strutturazioni cromatiche in plexiglas, di strutturazioni acentriche ruotanti e di strutturazioni cinevisuali abitabili (Dorfles). Si tratta di ricerche sperimentali tendenti tutte a dimostrare fenomeni di omogeneizzazione e di persistenza delle immagini e che mirano soprattutto a un discorso tecnico sulla visione senza troppo preoccuparsi di pervenire a risultati plastici finiti. (…)». Filiberto Menna Bibliografia selezionata: − s.a., Mostra italiana di “op-pop” nella capitale svedese, in «Il Messaggero», Roma, 4 maggio. Roma, Galleria L’Attico, 22 gennaio Umberto Bignardi. Testo di Alberto Boatto. «(...) Ovviamente la scelta di Bignardi non è originale che marginalmente – la Pop Art lo ha preceduto nella scelta della figurazione commerciale – mentre appare originale la particolare angolazione con cui centra il rapporto con questo materiale. Sebbene una medesima massa di immagini investa l’intero Occidente, l’eguaglianza di questo materiale messo in circolazione non impedisce una diversità nei modi di recezione, dato che il mondo presenta tuttora dei notevoli dislivelli fluitivi. Mentre per un abitante di New York lo scontro è diretto e non evitabile, per un europeo, e un italiano particolarmente si apre ancora un intervallo tra lui e l’immagine. Il dislivello si dimostra fortemente produttivo consentendo una scelta, una possibilità di scoperta, un attivo movimento di curiosità – che è moto di conoscenza – e un margine infine di viva eccitazione. Le figure della cronaca e della mitologia consumatrice, i modelli della bellezza e i richiami dell’erotismo intensificano il ritmo della comune esperienza, suggeriscono uno stile di vita ed è molto difficile sottrarsi alla loro seduzione. Insinuano che la vita e il presente si trovano altrove, così che la risposta dell’eccitazione può essere accompagnata da un desiderio di possesso e di conoscenza. Umberto Bignardi riesce a far convivere fra loro la curiosità e l’eccitazione; e vale a dire ad unire l’esercizio dell’intelligenza, la sottigliezza dell’analisi sul risvolto costante dell’ironia, alla rivelazione del fascino e della forza visiva e spettacolare delle immagini. (...) Nelle sequenze dei corpi in movimento ispirate a Muybridge Bignardi realizza un’animazione puramente grafica e coloristica impiegando all’interno della composizione un largo numero di strumenti stilistici e percettivi. La sequenza con la corsa del cavallo o la marcia dell’uomo moltiplica l’immagine dell’uomo e dell’animale ma la sequenza risulta ulteriormente animata dal diverso trattamento cui viene sottoposta ogni singola immagine. La sequenza rappresenta un tipico montaggio per contiguità logica e dinamica, come altrove l’artista impiega un montaggio per sovrapposizione e contaminazione d’immagini di provenienza molto diversa fra di loro, ed ognuna trattata in modo differente, non tanto per ottenere un effetto dinamico come nelle sequenze di Muybridge quanto per sottolineare proprio la contraddittorietà del materiale di origine e attraverso di essa della nostra epoca. Credo che questa sia la chiave di lettura della serie di montaggi L’impegno e il disimpegno. Infine, sempre per conseguire un effetto dinamico, costruisce la composizione attraverso la ripetizione scandita della stessa figura: parte cioè da una matrice fondamentale – il dettaglio di un volto femminile con l’accentuazione della bocca o dell’occhio bistrato – e poi la moltiplica, unisce gli elementi ripetuti variandone solo all’interno i dettagli. Con questo criterio potremmo dire di prefabbricazione architettonica ha eseguito, assieme ad alcuni disegni, due grandi quadri – Clairol 2 e 3 –: la composizione così ottenuta trasmette una notevole sensazione di movimento insolito e un po’ enfatico. Attraverso questa serie di processi abbastanza complessi ma percorsi in effetti dal segno e dal colore di Bignardi con grande leggerezza e misurata eleganza l’artista arriva a trasformare profondamente l’immagine di partenza, a contaminarla, a spingerla sulla strada della esibizione spettacolare e visiva. Siamo nuovamente di fronte alle “macchine” e ai cristalli dove le esperienze precedenti si intrecciano e si potenziano. (…)». Alberto Boatto Bibliografia selezionata: − L. TRUCCHI, Bignardi all’Attico, in «Momento Sera», 29-30 gennaio. «(...) Bignardi adopera infatti contenuti pop desunti dalle immagini pubblicitarie, e tecniche o metodi strettamente programmati, con effetti cinetici e visuali tipicamente op. qui sta la maggiore novità del suo brillante sperimentalismo. Questa mostra è un vero campionario di esperimenti, di trovate, di audaci “variazioni sul tema”. Una posizione, quella sperimentale, inflazionata e talora già stanca ma sempre legittima per un giovane, specialmente quando lo sperimentalismo è, come nel caso di Bignardi, una pelle vera e non un abito preso in prestito. Purtroppo il Prismobile grondante fili elettrici e prese di corrente non funzionava quando ho visitato la mostra e, quindi, ignoro l’effetto delle cento immagini muliebri ruotanti in un perenne caleidoscopio. Funzionava invece lo specchio Fantavisore ed era piacevole assistere a quel continuo nascere, proliferare e spegnersi delle immagini così da colpire i diversi piani di percezione ottica, impedendo sempre a chi guarda di fruire completamente di tutta l’opera. Una esperienza già fatta nel campo della pittura da Ferro. La mostra è, in ogni caso, interessante anche se un po’ troppo spettacolare, ma si tratta almeno di uno spettacolo di vitalità, di invenzione, di ottimismo». − s.a., Il rifiuto di Bignardi, in «La Voce Repubblicana», 9 febbraio. − D. MOROSINI, L’ottica di Bignardi arte e pubblicità, in «Paese Sera», 16 febbraio. «Fondere gli astratti esperimenti sulla percettività delle immagini – dell’optical art – con quelli della pop-art sulla concretezza della pubblicità o delle altre tecniche di persuasione: questo è, come scrive il prefattore Boatto, l’obiettivo del giovane Bignardi (Galleria “L’Attico”). Bignardi espone diversi momenti del suo lavoro. Disegni colorati, quadri, tecniche miste su vetro da un lato; dall’altro canto macchine da proiezione che scompongono, ricompongono (e moltiplicano) le figure. I disegni sono, in gran parte delle variazioni sui motivi della crono-fotografia, che ha anticipato il cinema (ed un omaggio – dichiarato – ai suoi pionieri della fine del secolo scorso). La stessa figura – Uomo che cammina, Donna che cade – fanno una sequenza che, alla fine, conduca l’uno ad erigersi come statua; l’altra a raggomitolarsi nelle sue membra. Alle variazioni del moto corrispondono quelle del colore, verde, giallo, azzurro, rosso, viola, spesso combinati tra di loro. Le tecniche miste su cristallo immobilizzano, invece – ed ingrandiscono od ingigantiscono, variandole cromaticamente – figure da affiche o da rotocalco. La scelta cade, indifferentemente, sull’oggetto di consumo o sull’episodio drammatico. L’autore considera, comunque, il trasferimento dall’opacità della tela – o della carta – alla trasparenza del vetro, come una transizione verso la proiezione luminosa in movimento: tramite prismi rotanti od uno 276 schermo che illumina ad uno ad uno, sino al raggiungimento di un totale, tutti i motivi in precedenza da lui trattati (pubblicità e brani di avvenimenti) con altre tecniche. Un modo, insomma di “risolvere” il dilemma cinema o pittura – nella vaga direzione del primo – come mezzo di espressione visiva. Ma è proprio la risposta a tale dilemma che viene a mancare, perché si tratta di risposta di compromesso. Agli antipodi, cioè, del modo in cui, p. es. un Guerreschi si è posto l’alternativa, per sintetizzarla con l’innesto del documento nella interpretazione plastica di esso (con mezzi tutti pittorici). Perché non esiste un “superamento” della pittura se non nella rinuncia alla sua specifica funzione. Quella di dar vita autonoma alle immagini col moto della fantasia che interviene nella realtà, collo spessore del giudizio plasticamente espressi. Lo stesso rilievo vale per il pittore pop europeo, che appunto, non rinuncia a questa funzione. Altrimenti non ci sono che due casi: o la scelta cade sulla lingua del cinema (ma anch’essa colle sue implicazioni interpretative e di responsabilità sociale dell’artista) oppure si opta per quello che, qui, si definisce lo “spettacolo” dell’arte in “concorrenza” con i mass media. Ma ciò non significa, in definitiva, l’integrazione dell’artista nell’ingranaggio stesso che produce i miti della persuasione collettiva? In breve: chi scrive è tentato di tornare indietro, a qui tali disegni colorati, col loro “potenziale” di espressività». − V. DEL GAIZO, Bignardi, in «La Fiera Letteraria», a. XLI, n. 6, Roma, 17 febbraio, p. 18. − M. FAGIOLO DELL’ARCO, Il Movimento Astratto di Umberto Bignardi, in «L’Avanti», 9 marzo, p. 5 (testo parzialmente ripubblicato nel catalogo della mostra tenutasi a Napoli, alla Galleria Il Cerchio, gennaio 1967). «Presentato da Boatto, Bignardi ha esposto all’“Attico” di Roma una serie di opere grafiche, oltre a dipinti e macchine ottiche. A Bignardi interessa la serie: l’iconografia prevede uccelli in volo, strati geologici, figure di atleti, cavalli in corsa, saltatori di ostacoli. Ogni movimento dà vita a una diversa immagine, e il quadro diventa un casellario. Dire dieci volte anche con minime variazioni, la stessa immagine è meglio che presentarne una sola, è quasi un ritrovare l’inizio della dimensione temporale. Torna così alle indagini del fotografo Muybridge che per primo fissò il movimento di uomini e animali, creando la base operativa per ogni tentativo di grafica. Non gli interessa il movimento dei futuristi, perché non vuole la “sensazione” del movimento. Gli interessa semmai il movimento. L’idea prima, l’archetipo. Non gli interessa il dinamismo effettivo ma mentale. L’immagine chiave è il fotofinish non il movimento che precede euforico al traguardo del futuro, ma il movimento che si ripiega indietro, che torna su se stesso. Con il movimento, Bignardi scompone l’immagine: dire che un movimento, anche il più rapido, corrisponde a dieci venti movimenti, dire che l’immagine pubblicitaria, anche la più oppressiva è una macchina che si potrà sempre smontare. Ecco l’arma migliore di Bignardi: l’analisi. E poi, al movimento sempre nuovo corrisponde la variazione del colore: è un’ipotesi di pittura fenomenologica, work in progress. Non ricostruire il movimento ma spezzettarlo in tante idee platoniche: non ricostruire il quadro dipinto, ma dare dieci versioni possibili di un quadro da dipingere. Convincono meno le macchine ottiche (un tentativo di neon art) che appaiono logico approdo, ma sono ancora in fase pre-sperimentale. Scrive Boatto: “Non è vero che le composizioni in movimento di Bignardi sono fatte per stare all’incrocio di una strada o al centro di una grande piazza?”. Ma sì, stanno già all’incrocio delle strade con reclames cinematografiche: semmai, è questo il punto debole dell’operazione neon, perché la macchina non interviene in funzione strutturale. Meglio sempre questa grafica, con il sogno di bloccare il movimento, di rifare il verso non si sa a chi, di arrendersi a ogni foglio per accorgersi alla fine di avere nella manica la carta vincente». Torino, Galleria Sperone, 26 gennaio Pino Pascali. Testi di Maurizio Calvesi (I cannoni di Pascali) e Vittorio Rubiu (I falsi giocattoli). «L’aspetto massiccio dei cannoni di Pascali, dove il metallo si mescola al compensato è, come si vede, ingannevole; più che con la Pop Art, la quale assume oggetti reali nella finzione della pittura, essi confinano con la scenografia, che illude l’occhio con gli accrocchi più finti. Per precisare, qui, la poetica dell’oggetto trovato (cara al Pascali dal ‘58, secondo un attacco americano che, sviluppato in un discorso sempre più autentico, sempre più dell’uomo, dell’artista, del personaggio Pascali, finisce ora per innestarsi meglio, con le dovutissime, infinite diversità ma con i conti che tornano sul troncone “romano” di Colla), qui la poetica dell’oggetto trovato, aiutato, integrato, sbocca, in modo del tutto imprevedibile nelle condizioni elementari della scenografia. E questo con il semplice ritrovato di spalmare sulle superfici dell’arnese bellico o parabellico risultante (fabbricato però con una intenzione in partenza mimetica, e orecchiante dal vero senza travolgimenti metafisici o surreali) un bel velo di vernice militare. Quella vernice che tra le mura delle caserme serve a fondere, di rincalzo all’odore della pasta e fagioli, camions, bocche da fuoco ed elmetti, cuori e motori, qui uniforma i pezzi scroccati qua e là, (dal contatore della luce, dal telefono, dalla seicento sfasciata), ne livella e nasconde le suture bizzarre, rende il tutto attendibile. Pur lasciando, ovviamente, ampio margine alla curiosità, al sospetto, alla perplessità: ma di che si tratta? Non c’è fine estetico (e tanto meno sculto-pittorico), è ovvio; è una recitazione esibitiva, un comizio pacifista, un pomeriggio di giochi, una brutta avventura della fantasia; è un happening affidato ai soli oggetti, uno spettacolo a scena piena-vuota. È una faccia del Paradosso. Cannoni eccepiti, estrapolati, spaesati, strasparati; missili tra virgolette, alette, virgoloni, alettoni. È qualcosa che (permettetemi; e intanto provate a ripetere molte volte: cannone, cannone) fa rotondo, trastullo, ingombro; che fa, soprattutto, Pascali, offrendoci forse persino un’indiscreta occhiata sul suo passato di adolescente un po’ grasso. Fa Pascali, e lega molto bene, anche con i grandi feticci neri o rosati dalle pronunciate bocche, presentati da Vivaldi lo scorso anno alla Tartaruga, dove il tema del sesso si risolveva in una contemplazione ironica e masturbatoria, dove cioè l’intervento critico dell’adulto si incrociava ai sedimenti infantili della smania erotica. Il lato infantile è sempre il migliore di noi, il più ricco di fantasia; l’esperienza dell’adulto non può portare che una carica critica, che ogni giorno corrode di più fino ahimè, a sostituirsi. Ma Pascali è lontano dal giorno della sostituzione, e dopo il tema del sesso ha affrontato, con lo stesso metro, quello della guerra: tra il gioco, l’ironia, e quel po’ di beffa che sta nel mezzo, per chi dovesse sul serio mettersi spavento (mandando a segno, così, l’istinto aggressivo, brutale, militaresco; che anch’esso un po’ qui per la sua minima parte, si esibisce. (…)». Maurizio Calvesi «Gli anni dell’infanzia... Avete mai giocato alla guerra? Ebbene, Pascali ha giocato a fare dei cannoni. È vero, a differenza delle bambole che sono in grado di ornare, questi cannoni non sparano. Ma non sono giocattoli. Oppure, se lo sono, diciamo che lo sono in modo diverso dal momento che forniscono il catalogo di tutto ciò che resta di un giocattolo, quando invece di farsi agire, sia messo di farsi contemplare. Ma prima di arrivare a questo, che è poi il punto di vista dello spettatore, che mani precise e abilissime, quanta dedizione artigianale, da parte di chi il giocattolo l’ha costruito con le sue mani. E che fantasia, in fondo, nel fare l’inventario di ogni singolo pezzo di recupero, un tubo idraulico, un carburatore Fiat, un terminale di pala da campeggio, un portabagagli, tre manopole da tornio... ogni cosa al suo posto; e da ultimo la vernice giusta, perché non ci siano dubbi che ci troviamo di fronte a un cannone, un vero cannone. Qui si scopre l’acutezza dell’analisi sul bricolage compiuta da Lévi-Strauss: “La poesia del bricolage nasce anche e soprattutto dal fatto che questo non si limita a portare a termine, o ad eseguire, ma parla, non soltanto con le cose, ma anche mediante le cose, raccontando attraverso le scelte che opera tra un numero limitato di possibili, il carattere e la vita del suo autore”. I cannoni di Pascali sono dunque qualcosa di più di ciò che sembrano. Sono l’ambientazione scenica di una passione infantile, una qualità latente di tempo ritrovato, un mito vissuto invece che passivamente accettato. S’è già detto che questi cannoni non sparano. Sono fatti per figurare in una mostra. Ma se proprio si mettessero a sparare, ricordiamoci i versi di Apollinaire: “Ah Dieu! Que la guerre est jolie...”». Vittorio Rubiu Bibliografia selezionata: − s.a., s.t., in «Cinema Sport», 19 febbraio (mostra citata). − V. RUBIU, I cannoni che non sparano, in «Avanti», 5 marzo. «(...) Pascali ha capito che nella scelta e nel modo con cui viene affrontato il soggetto è già un primo contenuto interpretativo; e che se poi a questa scelta e a questo modo corrisponde un’adeguata tecnica di esecuzione, vorrà dire che il contenuto interpretativo assumerà agli occhi di tutti un valore dimostrativo, paradigmatico del rapporto che s’è instaurato tra l’artista e il suo ambiente. Ora, nella scelta dei soggetti si ricava che come la retorica dell’immagine e la mitologia quotidiana sono tra i fenomeni tipici o primari del nostro tempo, così sono anche le relazioni dominanti dei quadri e delle sculture di Pino Pascali. Certamente c’è dell’altro da osservare e da indagare, ma a Pascali interessa questo e non altro. Vedere, ossia far letteralmente vedere, perché dietro ogni immagine si nasconda una retorica dell’immagine. Osservare, e frattanto dimostrare, che la psicologia dilatandosi, moltiplicandosi, “massificandosi”, diventa mitologia. E poiché le cose stanno così e non accennano a cambiare, e le immagini che ci circondano sono troppo grandi per tentare di rimpicciolirle ed i miti li respiriamo ogni giorno quasi senza accorgercene: tanto vale usare una tecnica di esecuzione che ci consenta di possedere a nostra volta ciò da cui sembriamo posseduti: fare della realtà un ricalco, e del ricalco una nuova realtà. Prendere un cannone, e dal momento che tutti, da destra o da sinistra, ci vedono soltanto un cannone, e dunque la guerra, cominciare col dire che si tratta di un oggetto costruito con i residui di altri oggetti, proprio come nel bricolage descritto da Lévi-Strauss. Un oggetto che somiglia a un cannone, ma che potrebbe anche non essere un cannone: una qualità latente di tempo ritrovato, l’infanzia, un animale totemico, un mito collettivo riplasmato in un’esperienza individuale, ma con un gioco, un antagonismo talmente simmetrico, da ritornare ingenuamente al punto originario del mito, della pratica rituale. Un mito vissuto, e dunque reinventato, invece che passivamente registrato. Ed è importante, e comunque estremamente significativo, come certi dati del pensiero mitico o “selvaggio”, che nei cubisti dei primi anni del secolo erano un modo di farsi cogliere alla sprovvista dal sentimento estetico, siano diventati ora una sorta di coscienza paradigmatica delle commutazioni segniche che vivono e proliferano all’interno di un’unica immagine. Questi cannoni e questi missili di Pascali ognuno li vede o li immagina come vuole: lo spettatore è all’opera, come l’artista. Per conto nostro, che questi cannoni e questi missili li abbiamo visti distruggere e ricreare pacificamente lo spazio pubblico di una galleria d’arte, diciamo che nonostante tutto non sparano, ma è come se sparassero. Gli spari, i razzi-segnali che hanno fatto esplodere di gioia Guillaume Apollinaire: “Ah Dieu! Que la guerre est jolie...”». Roma, Galleria Arco d’Alibert, 28 gennaio Franco Angeli. Half dollar. Bibliografia selezionata: − L. TRUCCHI, Angeli all’Arco d’Alibert, in «Momento Sera», 19-20 febbraio. «Franco Angeli ha finalmente strappato i velari che coprivano, ormai da troppo tempo, con polemica ostinazione, i suoi emblematici dipinti. Questa sua personale 277 all’Arco d’Alibert, che vuole essere in un certo senso una preparazione ad opere di maggiore impegno, segna comunque un grosso passo avanti nell’ispirato e mai finalistico sperimentalismo del giovane pittore. Si veda come Angeli ha saputo adattare, con la grazia vigorosa che gli è propria, la lezione pop ad una vicenda, ad una situazione (più storica che cronacistica) europee e più italiane. Così il grossolano oggettivismo pop diviene qui un mezzo non contingente e precario di documentazione e persino di denuncia. Una posizione di responsabilità, dunque, ma anche una nuova conferma di un talento lucido e agile dove una civile ironia corregge gli effetti polemici e un lirismo di buona lega tonifica i facili aggiornamenti». Milano, Galleria Schwarz, 5 febbraio Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Mouvement Dada. Berlin, Genève, Madrid, New York, Zürich. Roma, Galleria La Tartaruga, 5 febbraio Sergio Lombardo. Bibliografia selezionata: − A. BOVI, Mostre d’Arte – Lombardo, in «Il Messaggero», 23 febbraio. Roma, Galleria L’Obelisco, 7 febbraio Mario Ceroli, Tano Festa, Jannis Kounellis, Francesco Lo Savio, Gino Marotta, Pino Pascali, Mario Schifano, Cesare Tacchi e Giuseppe Uncini espongono con Nicola Carrino, Enrico Castellani, Gianni Colombo, Nato Frascà, Piero Manzoni, Salvatore Scarpitta e altri artisti nella mostra Bianco + Bianco. Testo di Murilo Mendes. Milano, Galleria del Naviglio, 10 febbraio Mario Ceroli. Testo di Gillo Dorfles. «(...) Le opere di Ceroli sono decisamente “sue”, e se ci convincevano fino a un certo punto alcuni dei più antichi lavori (Si-No, Orologio, Adamo e Eva, L’uomo di Leonardo, La Pantera; ecc.) dove era ancora troppo evidente il ricorso a facili simbologie prefabbricate, oggi, di fronte a questa serie di opere nuove e di grande impegno dobbiamo riconoscere non solo alla fantasia creativa dell’artista ma alla sua “visione del mondo” una dirittura e un’apertura non frequenti. Ecco: si veda la Grande Scala, con quelle figure statiche e allucinate, eppure estremamente drammatiche, con il curioso e sconcertante gioco delle ombre scolpite. O si veda la grande composizione del Piper, questo groviglio fitto e insieme aereo di danzatori che, pur nella così elementare sintassi delle silhouettes lignee, riesce a evocare il movimento, la frenesia della danza e al tempo stesso a comporre un tutto articolato e pregnante. O La Casa – che ricorda solo alla lontana certe scatole della Nevelson – carica di misteriosi trabocchetti, di invenzioni gustose, e che permette persino allo spettatore un diretto intervento sul gioco di certi profili. E si veda ancora L’ultima Cena con la serie dei dodici schematici “apostoli” intervallati dal “vuoto” del Cristo, dove la particolare predilezione di Ceroli per la serialità delle immagini appare in tutta la sua – qui davvero drammatica – evidenza (come già appariva, meno efficace, nel Mister e nella Venere). L’elemento seriale, iterativo, di queste scarne figure appiattite, costituisce uno dei maggiori momenti inventivi dell’artista romano. Attraverso la serie, infatti – e attraverso la strana tecnica del double-face– si viene a creare quella volumetricità che le “fette” di statua di per sé non possiedono, senza con ciò togliere alle opere la loro assurda precarietà fisica: questa loro larvale figuralità che non riesce mai a incarnarsi in un “tutto-tondo”, ma che, d’altronde, attraverso la proiezione delle ombre (che giocano, a lor volta, un ruolo importante) acquista quella densità spaziale, quella corposità, virtuale ma pur fenomenicamente presente, che ne costituisce il maggior fascino. (...)». Gillo Dorfles Bibliografia selezionata: − M. VALSECCHI, I ballerini di legno, in «Il Giorno», 18 febbraio. «Arcaicità e modernismo si intrecciano in filamenti stretti nelle sculture di legno – profili, sagome, più che statue a tutto tondo – presentate al Naviglio da un giovane artista abruzzese, Mario Ceroli. E questa mistione crea un fenomeno singolare, suggestivo, intricato di sensi differentissimi, con un fondo di ironia che si risvolta in sottili percezioni di inquietanti parvenze fantomatiche. Questa “piazza d’Italia” che riempie tutta una stanza della galleria con la sua scalinata di legno grezzo, dalle figure che salgono e scendono proiettando ombre oblique dietro il passo, e il frontale di uno strano palazzo con finestre e porte apribili, con lesene e balaustre di dove si affacciano lunghe serie di profili – il profilo di Goffredo Parise o del ritratto di dama del Pollajuolo che sta al Poldi Pezzoli – ci introduce subito in un’aria di magia metafisica e di bizzarra, ma nello stesso tempo rigorosamente modulata, invenzione barocca. Ma con un improvviso scarto quest’atmosfera, già tesa, si inquina per gli affastellamenti impensati di rettili, da ricordare le “scatole” surreali dell’americana Nevelson; sicché questo spettacolo proprio da “macchina” teatrale che ricorda il palcoscenico palladiano di Vicenza prende una coloritura psicologica che se non è ossessiva, vibra purtuttavia di un’attuale angoscia, come se questo materiale così mnemonicamente svegliato su immagini culturalmente e storicamente qualificate, si movesse sugli orli sfuggenti di una precarietà che minaccia la frana a ogni istante. Altrettanto dicasi per il groviglio di membra profilate e incastrate in fitto viluppo del gruppo che si intitola “Piper”, composto da una folla di ballerini scatenati in frenetiche danze; esso risale velocemente lungo i fili della memoria che conserva il senso di una meraviglia infantile per i “gruppi” pietistici portati a spalla durante le processioni del venerdì santo. Una scultura, quindi, che sembra annullarsi nella dimensione piatta di una sagoma, tra labirinti di sensazioni, e ciò non ostante riesce a insorgere con una sua vivezza contraddittoria, ironica e drammatica insieme, che resiste nella sua ambiguità così bruscamente attuale, alla corrosione delle immagini tradizionali e al rischio della ripetizione in serie. (...)». − s.a., Mario Ceroli, in «Carlino Sera», 18 febbraio. − s.a., Ceroli, in «L’Unità», 23 febbraio. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, marzo Franco Angeli, Mario Ceroli, Tano Festa, Jannis Kounellis, Francesco Lo Savio, Pino Pascali, Mimmo Rotella, Mario Schifano e Cesare Tacchi espongono con Enrico Castellani, Gianni Colombo, Piero Manzoni, Pasquale Santoro e altri artisti nella mostra Aspetti dell’arte italiana contemporanea. Mostra itinerante: Dortmund, Colonia, Bergen, Oslo, Belfast, Edimburgo, Tokyo (1966-67). Milano, Galleria Milano, 3 marzo Titina Maselli. Testo di Giuliano Briganti. Bibliografia selezionata: − m.d.m., “Assediato dai morti” disegnava la Resistenza, in «L’Unità», 26 marzo (mostra citata). − F. VINCITORIO, Maselli, in «La Fiera Letteraria», a. XLI, n. 11, 24 marzo, p. 28. Milano, Galleria Schwarz, Milano, 5 marzo Tano Festa. Testo di Maurizio Fagiolo dell’Arco (Il planetario di Tano Festa). «La pittura di Tano Festa si inserisce nel filone della figurazione “novissima”, calamitata dalle immagini della metropoli, dai nuovi miti e riti della società. 1961 – Festa espone alla “Salita” una serie di superfici basate sul monocromo e sull’estremo rigore formale. Vivaldi lo situa nel punto di incrocio tra neo-dadaismo, neo-geometrismo e nuovo-realismo. 1962-1963 – È il momento degli armadi, delle persiane, delle porte, dei pianoforti, delle lapidi, degli specchi (esposti a La Tartaruga di Roma, da Schwarz a Milano e alla GalerieJ di Parigi). Festa vuole adattare al suo rigido purismo alcuni pezzi dell’arredamento, e cerca i più solidi, quelli che hanno i contorni più taglienti (all’inizio, naturalmente c’è il Duchamp di Fresh Window). Vuole dare una personalità alla geometria, un peso terreno alla mistica del rigore: è una rottura all’insegna della costruzione, cerca di ritrovare le dimensioni di un ordine interno, prima di avventurarsi fuori, prima di aprire le finestre sul cielo o le porte all’interno del museo. 1963-1964 – All’improvviso Festa sembra accorgersi di aver compiuto un camnino rettilineo e molto logico, comprende che gli spazi aperti degli inizi si erano racchiusi nella scansione del fotogramma. E allora comincia a proiettare sul piano del quadro un documentario: il primo passo per un regista. Ecco così nei fotogrammi duri come infissi entrare le figure di Michelangiolo, i souvenirs di paesi lontani, le foto porn di donne, la presenza dei cieli. Dopo aver ritrovato lo spazio, Festa appresta i materiali per una narrazione completa: quella appunto di oggi. L’immagine è “alienata” (e quindi rimanda alla Metafisica, come ha scritto Calvesi) ma rimane terrestre il mistero di questa pellicola che lentamente si impressiona per fissare i pezzi della macchina mondana. 1965 – le dimensioni del cielo. È la contemplazione attiva d’un cielo, che in tal modo diventa un gran telone da cinerama, come la vasta calotta di un planetario su cui proiettare sogni e ricordi. La proiezione sarà una scultura di Michelangiolo, sarà un omaggio a Picasso: il quadro Il periodo blu unendo Michelangiolo a Picasso celebra con ironia le nozze tra il “sublime” antico e moderno. (...) Una grande immagine occupa tutto il quadro, e poi si sovrappone una serie di piccole immagini inquadrate in zone che funziona come lo scorrimento verticale di una pellicola. Giocano, questi quadri, sul doppio piano grande/piccolo, intero/ particolare: sono veri “film a soggetto”. Festa viene così a criticare l’ingigantimento polemico dell’oggetto, ma anche lo spezzettarsi del frammento, con una immagine che è insieme una e tante; che è tutto e parte, presentazione e rappresentazione. Non c’è l’accozzarsi confuso e ormai scontato di vari pezzi di realtà, ma quasi una visione con un doppio cannocchiale, usato prima al dritto e poi al rovescio. E la metafora è più che mai giustificata oggi che Festa guarda esclusivamente al cielo. (…)». Maurizio Fagiolo dell’Arco Bibliografia selezionata: − s.a., Tano Festa alla Schwarz, in «Carlino Sera», 11 marzo. − s.a., s.t., in «L’Italia», 17 marzo (mostra citata). − F. VINCITORIO, Festa, in «La Fiera Letteraria», a. XLI, n. 12, Roma, 31 marzo, p. 20. Napoli, Libreria Guida, 5 marzo Giuseppe Uncini espone con Nicola Carrino, Nato Frascà (Gruppo Uno) e Antonio Calderara. Testi di Filiberto Menna e Achille Bonito Oliva. «(...) Un compito dell’arte, oggi (il compito fondamentale): restituire alla percezione il suo carattere di esperienza originaria e formativa, la sua capacità di giudizio. Restituire alla percezione il suo ruolo fondamentale nell’esperienza del reale (e non solo dell’esperienza estetica) dopo tanti secoli di subordinazione nei confronti del concetto. L’arte visuale tende appunto a questo: a ridare forza e purezza all’atto percettivo e a fondare su di esso un nuovo rapporto tra individuo e ambiente. Ma la percezione non è una tabula rasa. L’occhio non è pura visibilità, ma è inestricabilmente legato a tutto il resto, e ne è pur sempre in qualche misura condizionato. Il problema, allora, non è quello di negare questo rapporto con ciò che ognuno possiede in sé di più irriducibilmente individuale e proprio, ma è il problema di renderlo esplicito, di portare alla luce, analizzandolo, il processo psichico profondo che nutre 278 e condiziona la nostra esperienza del reale. Per l’artista, il problema consiste allora non tanto nel rifiutare la propria individualità, il proprio irriducibile modo di formare, quanto nel sottoporlo ad una analisi critica, oggettivarlo proiettandolo all’esterno, concretizzandolo in strutture che ne rendano possibile la verifica. Carrino, Frascà e Uncini operano appunto in questa direzione (…). Dei tre artisti del gruppo, Frascà opera più direttamente nel senso di una pura sperimentazione visiva, condotta sui fenomeni di ambiguità percettiva e sul movimento virtuale di patterns ottenuti mediante l’impiego di colori fluorescenti. (...) In Uncini e Carrino si avverte maggiormente la presenza delle precedenti esperienze più marcatamente oggettuali: ma nelle sue opere recenti Uncini è venuto progressivamente alleggerendo la componente materica (e oggettuale) delle sue composizioni riducendole a pure strutture di visione fondate sul contrappunto tra linea e superficie. Nelle ultime realizzazioni l’artista è andato ancor più in là ponendo il problema di una percezione totale dello spazio tridimensionale servendosi della induzione delle forze percettive per delineare e suggerire piani e linee-forza sottesi alla forma. Carrino ha dovuto compiere il cammino forse più lungo per giungere a una definizione puramente percettiva della sua opera recente: l’artista muove infatti da una poetica che tendeva ad assimilare l’opera a un oggetto ed a collocarsi in una posizione intermedia tra eredità dadaista ed eredità costruttivista. Nelle ultime realizzazioni Carrino è pervenuto invece alla messa a punto di rigorose strutture di visione servendosi di superfici bianche a rilievi sulle quali la luce crea dei patterns impostati sull’alternanza, accuratamente calcolata, di zone illuminate e zone in ombra. (…)». Filiberto Menna «L’immagine logica dei fatti è il pensiero, ma l’oggetto estetico è sempre abitato da un comportamento individuale che pure diventa normatività assoluta perché il linguaggio usato è tipicamente denotativo nel senso che esiste un’operata corrispondenza tra segno e designato. Così Carrino costituisce un pattern tutto bianco in cui l’orientamento è dato dall’uso costante del colore (e fuori dal campo non c’è niente) e dentro al campo il bianco è compiutezza e nullità (atteggiamento epocale). Congelato sullo stesso timbro, il colore-freddo integra gli spazi-oggetto e realizza una quiete animata sotto forma di integrazione di livelli antagonisti. Si assiste così alla tensione che diventa comportamento depurato, tra una volontà del tempo e un valore ideologico della qualità (percettiva). Frascà agisce su patterns che hanno un comportamento di memoria mentale: l’uso di colori fluorescenti rimanda immediatamente, proprio per la qualità di estensione che essi hanno alla luce, all’atteggiamento della scena urbana, che è sempre dialetticamente pubblico e privato. Il rimando si costituisce attraverso un colore-evento che ordisce una trama lungo una rigida simmetria frontale e la differenziazione della figura si compie non soltanto per mezzo di unità aggiunte, ma anche attraverso una suddivisione interna. (…) Uncini presenta delle superfici solide che danno vigore ad un tema di motivi chiaramente dominanti. Non vi è nessun dubbio circa la particolare situazione di ogni singola unità nel sistema della profondità. Il rapporto spazio-tempo, messo in luce dallo schema strutturale risulta dal pattern percettivo dominante: un segno attivo è posto in contatto con una superficie passiva, la quale viene animata dall’energia che riceve. Il rapporto di tale incontro instaura un dualismo tra il rimando verso il mondo esterno (delle linee intensive che tagliano il campo fino agli angoli) e la necessità di un nucleo (la circolarità di una ideologia) che depuri dalla contemplazione di perdite visuali della realtà ed elabori così luoghi pubblici, cioè comportamenti percettivi di un nostro andare. Carrino, Frascà e Uncini approfondiscono così la possibilità di una verifica scientifica della praxis, intesa come recupero della naturalità del materiale impiegato-iniziale, ma anche come unica soluzione per il salto qualitativo da una natura (anche se di tipo seriale) alla storia, risentita vocazione del Gruppo. (...)». Achille Bonito Oliva Milano, Galleria Il Naviglio, 29 marzo Mimmo Rotella. L’automobile e Reportage 1963-1966. 448ª Mostra del Naviglio. Bibliografia selezionata: − s.a., s.t., in «Corriere della Sera», 5 aprile (mostra citata). − M. VALSECCHI, Rotella al Naviglio, in «Il Giorno», 6 aprile. «Rotella ha lasciato i suoi “manifesti strappati” (o décollages) ed è passato con le opere esposte ora al Naviglio, ma tentate già dal 1963, ad altre ricerche espressive. O per lo meno il manifesto pubblicitario è ancora uno dei materiali essenziali della sua officina, ma stavolta lo usa in proiezione figurativa e non più soltanto coloristica, utilizzando altri inserti di elementi della figurazione quotidiana al fine di cogliere un réportage sulla nostra cronaca più passeggera. Il procedimento è strettamente tecnico, di riporto fotografico, colorato alla fine con viraggi di acidi; per via di questa meccanicità sostanziale a Parigi si è coniato il termine di Mec-art. Non sorprendiamoci; altri mezzi tradizionali di arte accolgono in misura più o meno larga un procedimento meccanico o tecnicistico: la litografia, la serigrafia, che garantiscono anch’essi la produzione in serie. Non parlerei perciò di crisi della pittura da cavalletto, ma di un nuovo procedimento che si affianca a disposizione dell’artista; ciò che conta, al fine, è sempre il risultato: e qui, in un certo senso, si può risalire alla radice del collage, che da Picasso a Romagnoni ha trovato infinite applicazioni, e ora suscita un vago effetto di antica fotografia liberty, con una forse non voluta nostalgia dei vecchi fotogrammi cinematografici, Rotella tende a fissare l’attimo fuggente, il fantasma subito evanescente del mondo emotivo suscitato dalla rapidità percettiva della nostra rètina. La vita corre così in fretta, che travolge ogni successione temporale in un coagulo di presenze accavallate e il nostro rovello è di non perdere nulla di questa molteplicità frenetica del nostro presente, in’ironia intellettuale è al fondo dell’osservazione di Rotella; ma essa solleva nello stesso istante una tale visione precaria della nostra esistenza, da infliggerci un’ansiosa malinconia per questa frana del tempo e quindi di noi stessi, che diventa più struggente e allucinante proprio per questa incombenza crescente dell’evento meccanico». − s.a., s.t., in «L’Italia», 14 aprile (mostra citata). − s.a., Rotella, in «Gazzetta di Vigevano», 26 aprile. Roma, Galleria La Tartaruga, 18 aprile Mario Ceroli, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Mimmo Rotella e Cesare Tacchi espongono con Cy Twombly. Bibliografia selezionata: − V. RUBIU, Fioroni, Ceroli, Tacchi, in «Marcatrè», n. 19, 20, 21, 22, Milano, aprile, pp. 312-318. (*) Roma, Galleria La Tartaruga, 27 aprile Minimo Rotella. Rotella. Decollages-reportages 1954-1966. Testo di Guido Ballo (Pittura meccanica di Mimmo Rotella). «(...) Le opere di Mimmo Rotella, qui esposte, eseguite tutte con la tecnica foto-meccanica o industriale, (…) sono colorate a mano, ma altre più recenti sono colorate meccanicamente con sistema dei virages, dei bagni chimici colorati. Non c’è ancora una vera moltiplicazione in serie: si tratta più di una proposta, perché il processo si ferma a due, tre, al massimo quattro copie. Ma potrebbe svolgersi in migliaia di copie. Che valore ha dunque la foto in questa pittura meccanica di Mimmo Rotella? Vien da pensare, quasi con ironia, che la crisi della pittura figurativa sorse in fondo per la diffusione, nel costume di ogni giorno, della fotografia: almeno, il genere “ritratto” è senza dubbio scaduto per l’avvento della fotografia, anche se poi in realtà ogni genere, per la concretezza dei risultati diversi, usa sempre particolari mezzi espressivi, insostituibili. Oggi la fotografia riporta i pittori (anche se non usano più il pennello) all’immagine figurativa; e bisogna dire che, almeno in questo momento, è l’unica vera possibilità nuova di figurazione non ambigua. Il discorso del “riporto fotografico” merita poi un chiarimento: Rotella riporta la foto, dell’immagine che sceglie e fa sua, sulla tela sensibilizzata mediante la proiezione in camera oscura. Non si tratta dunque delle normali foto. Questa tecnica, come dicevo, è differente dalla serigrafia: ottiene effetti più meccanici. Ma poiché il problema tecnico non basta, qual’è il risultato, al di là della tecnica, in queste particolari immagini di Rotella? Da parte mia parlerei di realismo spettrale; nei ritmi compositivi, c’è lo sviluppo delle immagini dei suoi collages, ma la mediazione del gesto è qui superata, per cui l’immagine acquista un’allucinante tensione, più fredda nel processo, ma appunto per questo più spettrale nei tagli, nel potere evocativo, nella dinamica che sconvolge i fuochi compositivi, nel riferimento all’assurdo meccanico della vita: che è fatta sentire nella sua corsa ineluttabile e incombente. (...)». Guido Ballo Bibliografia selezionata: − M. VENTUROLI, Le mostre a Roma, in «Le Arti», a. XVI, n. 5, Milano, maggio, pp. 46-47. «(...) Alla Galleria La Tartaruga continua a tener desta l’attenzione del pubblico della pop art più scaltrito, la mostra antologica di Mimmo Rotella, assai bene scelta da Plinio De Martiis; dai collages per sottrazione (riconducibili ora che è passato il giusto tempo, al momento informale, piuttosto che a quello antesignano pop), a questi ultimi fotogrammi dilatati nelle atmosfere, il cammino di Rotella si presenta ricco di fantasia, sempre motivato da una ragione poetica, da uno sprezzo del già noto e del già percorso. Questa ultima fase mi lascia ancora perplesso anche perché mi pare ci siano molti altri a tentare la medesima via, ma non voglio ancora pronunciarmi. È un fatto che il periodo dei suoi manifesti appaia oggi assai più pittura di quanto non sembrasse sul momento». − G. GIUFFRÉ, Rotella, in «La Fiera Letteraria», a. XLI, n. 20, Roma, 26 maggio, p. 19. Anversa, Galerie ad Libitum, 29 aprile Mimmo Rotella espone con François Dufrêne e Jacques Villeglé nella mostra Dufrêne, Rotella, Villeglé. Décollages. Roma, Galleria Il Girasole e Teatro di via Belsiana, 30 aprile Luca Patella. L.P.: fotografie, proiezioni, acqueforti fotografiche e tele fotografiche. A cura di Maurizio Fagiolo dell’Arco. Testi di Maurizio Fagiolo dell’Arco (Una alchimia oggettiva), Maurizio Calvesi e dell’artista. «È la sperimentazione tecnica, lo spartiacque tra Patella e il compromesso della nuova-figurazione. Sintesi di tecniche, sintesi di strati diversi di figurazione: penetrazione nelle tecniche, compenetrazione nella figurazione. È chiaro dove vogliamo arrivare: a una prospettiva futurista. È futurista anche certa iconografia di Patella: le sue foto sono “foto-dinamiche” (al modo di Bragaglia), i suoi sentimenti sono “stati d’animo” (al modo di Boccioni). Ma tutto fuso in una rinnovata sperimentazione che accettando la via di una nuova oggettività (Rauschenberg, Warhol) sa riconoscerne la matrice segreta in un movimento a lungo disprezzato come il Futurismo. E questa, ci si permetta, è critica in atto, rinuncia alla passività, scelta. Dove si dimostra che a un momento che sembra di resa (l’adozione pura e semplice del mass-medium) può corrispondere il massimo di spinta in avanti. E c’è lo sforzo sincero di dire una cosa con altro tono di voce. Patella sa che la A non è poi tanto diversa dalla Z, sa che appartengono a uno stesso ordine qualitativo (anche se varia la quantità), ovvero sa che non è diversa la fotografia del rotocalco dall’inchiostro colorato o dalla sua foto istantanea: sa che tutto appartiene alla “qualità” del figurare. Figurare che cosa? 279 Figurare le cose – ma prima di tutto intervenire sul linguaggio: avete il coraggio di dire che una cosa è quella che è, che a volte il “pittore” (ma ne esistono ancora?) può solo metterle una cornicetta duplice di colore, rispettarla. Indagine psicologica? Ma no. La tecnica si unisce strettamente al reportage: ovvero, la sintesi della logica butta a mare una volta per sempre l’analisi della psiche. Sapere che l’immagine puo sempre essere trasformata dalla tecnica, dai solventi magici dell’incisione. Arrendersi all’immagine, ma intanto dire che anche uno strumento umile come l’incisione può prendere il comando: “quel che tocca oro diventa” Così che queste opere non sono descrizioni di alberi o di donne, e neanche di fotogrammi ma la messinscena di questa estrema, patetica, forma di alchimia». Maurizio Fagiolo dell’Arco «(...)Esponendo una serie di fotografie, Patella segnala, da un lato, il loro impiego nel quadro o nella grafica; dall’altro, dichiara apertamente la sua intenzione di sconfinare nell’animazione e nel cinema. Così, mentre ha l’aria di dar ossigeno alla “pittura”, al tempo stesso sembra dar ragione a chi ritiene che questo tipo di ossigeno non è che un veleno che provoca la morte. Ma può essere una morte apparente. Se l’esperienza è vitale, non può che apportare vita. Non si tratta, poi, di dadaistica “anti-pittura”, ma di un modo di arricchire l’esperienza artistica e di guadagnarle nuovi strumenti, nuove dimensioni. Quando poi si passa al cinema, con lo strumento cambia anche il tipo d’attività, d’accordo: ma ciò che interessa è la qualità del fenomeno estetico, la sua possibilità d’articolazione. Mi spiego. Patella probabilmente non sa, anzi di certo non sa, che Rauschenberg, ad esempio, sta appunto ora per dedicarsi alla macchina da presa, limitandosi intanto a prendere severe lezioni di tecnica da un operatore professionista; mentre Warhol ha già fatto alcuni tentativi (e da noi Schifano ha dichiarato, in un’intervista che sta per uscire, la sua intenzione di abbordare in modo più impegnativo, in futuro, la macchina da presa). Che cosa sarà il cinema di Rauschenberg e di Warhol? Qualcosa di strettamente connesso con la loro visione e poetica, necessariamente: questo nuovo e particolarissimo capitolo del cinema, il loro cinema, sarà condizionato dalla loro pittura, sarà tutt’uno con essa, come senso ultimo. Anche perché credo che ci sarà, rispetto al cinema dei cinematografi, e forse anche al cinema d’avanguardia, una differenza sostanziale: non solo non sarà un film abbordato con la mentalità della “produzione” e non solo non sarà un ciclo compiuto, sistematico di immagini più o meno narrative, ma sarà il nuovo riflesso di un’attenzione visiva variamente e liberamente sbrigliata o concentrata; le sequenze non potranno che essere improntate al gusto imperioso di un’elaborazione personale inventiva e “pittorica” nel senso di un occhio che non registra i dati dell’esterno in base a moduli percettivo-figurativi già costituiti e circolanti, ma che questi moduli continuamente rinnova e reinventa. Perché questo distingue per certo il pittore, anche quando faccia del cinema, dall’intellettuale di altra categoria: la capacità di rimuovere alle radici il modo di vedere. Penso, quindi che il cinema fatto dai pittori sarà una conquista da allinearsi ad altre già avvenute, nell’ambito della pop art: il cui merito è appunto di essere riuscita a riportare tutto un repertorio di immagini di massa e di strumenti tecnicistici, a quella misura individuale e artigianale che è sempre la misura dell’arte. (...)». Maurizio Calvesi «(...) Io penso che le tecniche figurative industriali socializzate possano fornirci importanti modi di azione collaborativa e qualità per rendere i sensi positivi o aggressivi della vita e della “natura” moderna. Attraverso queste tecniche, che hanno la qualità e il limite del “senza peso”, attraverso interventi lucidi – rapidi – oggettivi e oltre, senza preconcetti – cercando di sentire e capire – dobbiamo saggiare se l’astrazione artistica ha ancora possibilità di intervento. Vorrei fosse chiaro che queste cose, le dico, prima di tutto, a me stesso. Attualmente cerco di lavorare facendo sconfinare tra loro, in senso molteplice, fotografia – pittura fotografica – incisione fotografica – diapositive – animazione e film. Credo che si debba tentare di riscattare i mezzi tecnici – “oggettivi” dalla loro standardizzazione, saggiandone e inventandone le autentiche possibilità e che sia un problema importante cercare di mettere questi mezzi figurativi, con la loro impazienza e pazienza tecnica (particolarmente il cinema) in mano all’artista figurativo. Non cerco quindi di essere un “fotografo”: penso che la fotografia solo nel cinema, nella reclame e nel reportage ha trovato a volte buone qualità significative, già spesso troppo note. Le fotografie che espongo non sono trattate, ma corrispondono a immagini oggettive, prese in condizioni e con tecniche poco usuali (inquadratura, riflessi, movimenti, luce, sfocamenti, ravvicinamenti, sequenze, cambiamenti di colore). Già in sé, con tutti i loro limiti, non le ritengo un semplice materiale da costruzione, ma una delle dimensioni espressive, da poter elaborare o meno. In questa mostra vorrei riassumere e anticipare un certo lavoro svolto ultimamente, che va dal ricercare un rapporto tra i miei disegni espressivizzati e forme delle avanguardie del novecento e movimenti e forme oggettivo-tecniche (‘64-’65), allo sconfinamento verso queste ultime (‘65-’66). Un tentativo di creare per lo più immagini rapidamente sensitive (molto semplificate e oggettive o con molti interventi) ma con una precisa, trovata, calibrazione razionale della scena. Espongo anche alcune acqueforti fotografiche, che fanno parte di una serie che ho preparato per la Biennale e che sono l’ultimo lavoro svolto, a parte quello puramente fotografico e proiettivo. (...)».Luca Patella Milano, Galleria Cadario, 16 maggio Gino Marotta espone con Paolo Icaro, Carlo Lorenzetti, Attilio Pierelli, Alfredo Pizzo Greco e Remo Remotti, nella mostra Giovane scultura italiana. Testo di Gillo Dorfles. «C’è un filo conduttore a legare tra di loro le opere di questi sei artisti? Un filo tenue ma che sopporti il “peso” di queste sagome prevalentemente metalliche e spesso monumentali? Forse c’è; e forse è proprio in questa monumentalità (anche nelle opere più esigue) e in questo amore per il materiale polito e schietto dell’acciaio inossidabile, dell’alluminio, del legno verniciato al poliestere. Lo stesso aspetto che presentano, in definitiva, gli oggetti che quotidianamente ci circondano, prodotti della nostra “civiltà dei consumi”, dove l’ornamento è tradimento, dove il luccichio del metallo, lo scintillio variopinto delle vernici a smalto, ha sostituito le figurazioni, le decorazioni, gli altri mezzi di cui l’uomo di ieri così spesso si valeva di vincere l’horror vacui. Ma l’horro vacui – volere o no – ricompare sempre a perseguitare ogni nostra tendenza verso l’assoluto e l’impeccabile; e, se non sono più gli affastellamenti di figure o di segni, di volute e di sgocciolamenti, a contrastarlo saranno invece le serie di bulloni e di viti che percorrono gli spigoli nei cubi di Remo Remotti; sarà il gioco di luci e ombre delle lamiere che si contrappongono di Pierelli; le alternanti superfici cromatiche degli acciai di Lorenzetti; o, ancora – e qui davvero in forma più ornamentale – certi incavi, certi incastri di metallo e di legno nei lavori di Marotta, o le sottili raggere di lamine vibratili in quelli di Pizzo Greco, e le cromatizzazioni intense dei “giochi” di Icaro. Un comune denominatore, dunque, esiste nelle opere di questi sei “ricercatori della spazialità esterna e interna” (così mi sembra giusto definirli piuttosto che “scultori”). Se poi vogliamo analizzare, molto brevemente, l’opera d’ogni singolo ricercatore, il discorso si fa, necessariamente, più arduo. Se allora consideriamo – in ordine alfabetico questa volta – le opere di un Icaro – forse il più leggiadro, il più decorativo dei sei –, vedremo come nei suoi tubi dai colori vivaci, negli oggetti sospesi e oscillanti – quasi gavitelli spaziali o strumenti da giardino fantascientifico – egli mira a raggiungere una visione estremamente edonistica della plastica dove il colore si allea alle forme sinuose e barocche per dar vita a creature meccaniche non prive di una certa organicità vegetale. Diverso il discorso per Lorenzetti: agile ma compassato operatore di paraventi metallici, che sezionano lo spazio con un rigore che è spesso architettonico più che plastico, e dove anche il colore gioca spesso un ruolo preminente. Un altro scultore che è spesso intervenuto con i suoi elementi plastici nel cuore dell’opera architettonica è Gino Marotta: se le sue opere attuali sono meno autonome di quelle gettate in ghisa un paio d’anni or sono, esse presentano, tuttavia, dei motivi del tutto rivoluzionari: create con una tecnica nuova, “inventata” dall’autore, e di solito usata per la produzione di mobili in serie, sono diventate qualcosa di molto diverso dal pezzo d’arredamento, perché, nella loro “assurdità” funzionale, costituiscono un esempio tipico di come sia possibile oggi creare artigianalmente elementi analoghi a quelli di serie, trasferendo su questi ultimi le caratteristiche di precisione e di lindore che solo la macchina può insegnare. L’incontro della macchina e dell’uomo è presente, del resto, anche nei lavori di Pierelli. Che sfrutta un materiale in apparenza freddo e ostile come la lamiera d’acciaio e attraverso pochi e acuti interventi la rende vibrante e mutevole, costruendone degli elementi dove la sobrietà del medium si sposa con la casualità del risultato, sempre indeterminato e imprevisto, anche in seguito agli apporti dell’incidenza luminosa. Per Pizzo Greco, invece, la precisa programmazione, in un senso pressoché costruttivista è essenziale: i suoi lavori – quasi sempre purtroppo in scala ridotta – valgono soprattutto come modulatori spaziali, e potrebbero costituire domani le porte d’ingresso di cittadelle atomiche o le verande metalliche di qualche giardino venusiano. Quanto a Remotti i suoi cubi, le sue piastre bidimensionali, sono più “pittorici” di quelli degli altri cinque artisti, anche se l’elemento cromatico ne è quasi sempre assente. Il suo valersi di solito d’un materiale come l’alluminio, attraverso il gioco di ombre e le serie di viti e bulloni, così da esaltarne il valore di “texture”, dà vita ad un interessante fenomeno di “pittura-oggetto” dove s’integrano e si riallacciano i destini paralleli delle arti visuali. Queste, in definitiva, le principali caratteristiche dei sei ricercatori; e ci sembra che, non a caso, si siano accordati – fuori da ogni programmatico raggruppamento – con intendimenti così autonomi eppure così omologhi, a dimostrare come artisti di età diversa, di provenienza diversa, di impostazione culturale e sociale ancora più diversa, abbiano sincronicamente e quasi per un impulso automatico, dato inizio a delle ricerche non dissimili da quelle che altri artisti – in Inghilterra, negli U.S.A, in Germania, e altrove – stanno a lor volta intraprendendo; proprio a significare uno stesso bisogno di accostarsi all’universo tecnologico senza rinunciare alle esigenze fantastiche della creatività umana». Gillo Dorfles Bruxelles, Galerie Aujourd’hui, Palais des Beaux-Arts, 12 maggio Gino Marotta. Gino Marotta. Sculptures récentes. Testo di Giuseppe Marchiori. Bibliografia selezionata: − s.a., A la galerie Aujourd’hui a Bruxelles, in «Beaux.Arts», n. 1129, 12 maggio. Firenze, Centro Proposte / Garden House del Cinquale, giugno Gino Marotta espone nella mostra Icaro, Lorenzetti, Marotta, Pierelli, Pizzo Greco, Remotti. Testi di Giuseppe Gatt (La scultura-oggetto), Lara Vinca Masini (Sculture per una nuova città) e Italo Tomassoni (Naturalismo tecnologico di Marotta, Pierelli, Lorenzetti, Remotti, Icaro, Pizzo Greco). Roma, Galleria Arco d’Alibert, 30 maggio Gino Marotta espone con Paolo Icaro, Carlo Lorenzetti, Attilio Pierelli, Alfredo Pizzo Greco e Remo Remotti nella mostra La nuova scultura italiana. Bibliografia selezionata: − J. SILLECK, New Italian Sculpture, in «Daily American», 17 giugno. − B. ALFIERI, G. MARCHIORI, La nuova scultura italiana, in «Metro», n. 11, agosto. 280 Parigi, Musée Rodin, giugno Pino Pascali espone con altri artisti nella mostra Troisiéme Exposition International de Sculpture Contemporaine. Roma, Galleria La Salita, giugno Tano Festa e Mario Schifano espongono con Gianni Colombo e altri artisti. Venezia, Ca’ Giustinian, giugno Pino Pascali espone con altri artisti nella mostra Luna Park. Milano, Galleria Il Naviglio, 6 giugno Mario Ceroli, Giosetta Fioroni, Gino Marotta e Cesare Tacchi espongono con altri artisti nella mostra Nuove tendenze in Italia. Testo di Gillo Dorfles. «La situazione dell’arte visuale, quale si è venuta configurando nel corso degli ultimi mesi in Italia, è in certo senso, assai più chiara e netta di quanto non fosse negli anni scorsi, quando gravavano sul panorama nazionale i retaggi di un passato ottocentesco e postimpressionista non del tutto tramontato o i rigurgiti d’un periodo novecentesco intriso di retorica fascista.Oggi, invece, anche le vampate neorealiste e surrealiste vanno smorzandosi, anche le maree informali (che, ancora due o tre anni or sono tendevano a dilagare) si sono in buona parte prosciugate. Quali, allora, possiamo considerare “nuove tendenze”? (Sempre tenendo conto – ben inteso – che l’aggettivo “nuovo” è il più pericolosamente vicino a “vecchio”, e che l’obsolescenza delle forme artistiche non è certo destinata a cessare nell’immediato futuro!). La Nuova Tendenza, in realtà si può articolare in due grandi filoni, derivati, in certo qual modo, dall’op e dal pop ma con una impostazione più peculiare per l’Italia che per altre nazioni. La prima delle due correnti è quella rigorosamente non figurativa che, dunque, prosegue il cammino già tracciato dai concretisti “classici”, e poi da alcuni ricercatori ottico-percettivi, ed è quella che si è svolta soprattutto alla creazione di elementi oggettuali: pitture-oggetto, sculture-oggetto, capaci d valere all’infuori da ogni iconicità figurativa, e tali da promuovere la dinamizzazione dello spazio ambientale attraverso la peculiare modulazione delle loro composizioni, bi o tridimensionali. Tra gli artisti più profondamente impegnati in questo settore abbiamo voluto dare in questa mostra la preferenza (scusandoci per alcune inevitabili omissioni dovute al fatto di aver tralasciato sia gli artisti ormai troppo noti e maturi – come un Fontana o Munari – sia quelli ancora troppo giovani e acerbi) a Castellani, Bonalumi, Scheggi, Alviani, Colombo, Varisco e agli scultori Pierelli, Remotti, Marotta. Un’analisi approfondita dell’opera di ogni artista non sarebbe possibile in questa sede; vorrei soltanto ricordare come Castellani rappresenti oggi quello tra gli artisti italiani che ha saputo con maggior rigore e coerenza intraprendere da anni questo genere di ricerche, mentre Bonalumi e Scheggi costituiscono, a lor volta, due ottimi esempi di questo aspetto della pittura oggettuale. Di un genere diverso è l’opera di Alviani che si riallaccia, da un lato – per le sue ricerche ottico percettivistiche – a quella dei cinetici Colombo e Grazia Varisco (che abbiamo scelto come i più maturi tra i cinetisti nostrani) per l’altro verso a quelle – più decisamente tridimensionali di Marotta, Remotti, Pierelli. La stretta parentela tra queste ultime opere (le grandi strutture inossidabili di Pierelli, le composizioni geometriche in alluminio di Remotti, e le più fantasiose costruzioni meccanomorfe di Marotta) e le precedenti, sta oltretutto a denotare un’analoga tendenza di pittura e scultura verso pure strutturazioni di materiali moderni che hanno fatto piazza pulita delle patine, delle incrostrazioni, delle piacevolezze materiche care al bronzo e al legno; che sono dunque volte verso l’aspetto più tecnologico e meno artigianale dell’arte visiva (…)». Gillo Dorfles Godard). Passa in primo piano la percezione, l’immediata azione-reazione col mondo, passa in secondo piano il “mito della profondità”. Via in su e via in giù: pittura e fotografia. Schifano parte dalla fotografia: diluisce con la sua fresca pittura il mondo a rotocalco, si riconosce “pittore” prima di sentirsi reporter. Schifano arriva alla fotografia; nell’opera ultima si sforzadi mimare con la sua “pittura” la fotografia, ricerca l’impronta ingiallita del dagherrotipo, ritrova la storia della fotografia e la colloca (insieme al Futurismo e al Suprematismo) in questa patetica recherche delle avanguardie perdute. (...) I quadri ultimi sono effervescenti; lo spazio è fluttuante, profondissimo, colmo di sovrapposizioni (Schifano ha scoperto Picabia e il suo studio di “trasparenze”). Questo spazio trasparente trova una forma-simbolica nei quadri con plexiglas colorati, i quali potranno anche essere un omaggio alla OpArt, ma servono a Schifano per introdurre nuove dimensioni (ricordare, fantasticare, sognare forse). Tuttavia lo spazio trasparente di Picabia è uno spazio onirico, quello di Schifano è uno spazio sociale. La vita non si dà come una serie di fotogrammi bloccati dal flash ma come una sintesi: perché la nostra visione è sempre influenzata dall’ambiente, tende a compenetrare interno ed esterno. Ed è l’idea base di Boccioni. (...)». Maurizio Fagiolo dell’Arco Venezia, XXXIII Esposizione Biennale d’Arte, 18 giugno Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Luca Patella e Giuseppe Uncini espongono con altri artisti. Testo di Nello Ponente. «(...) Valeriano Trubbiani, Colombo Manuelli, Pasquale Santoro e Mario Ceroli sono quattro giovani scultori che si presentano con opere estremamente diverse, ma quanto mai interessanti. (...) In Santoro il trafilato metallico suggerisce, invece, con un più deciso rifiuto del volume, una densità spaziale interna ed esterna, attuata per mezzo di una modulazione plastica definita come un intreccio, non esclusivamente lineare, di valori di superficie e di valori di profondità. (...) La Cassa-Sistina di Ceroli segna una evoluzione nel pur breve percorso dell’artista. Ceroli si muove in un’area culturale ben precisa, che accoglie le suggestioni dell’art de reportage e di una figurazione simbolica, ma ha individuato un procedimento ed un modulo del tutto personali. La figurazione di Ceroli è fatta di immagini colte dalla realtà contemporanea, che acquistano la loro validità artistica, e quindi non semplicemente documentaria, attraverso l’intenzionale riferimento, ad una modalità di lavoro, artigianale. La cassa, cioè la struttura esterna, non è soltanto un contenitore, è la definizione dell’ambiente lasciato allo spettatore che, così, è pienamente partecipe, ed egli stesso protagonista, della vicenda che si svolge all’interno e che può essere variata semplicemente mutando la posizione, e quindi il rapporto con lo spazio, dei profili intagliati. (…). Oltre le opere di Ceroli, sono un esempio diquesto tipo di ricerca, solo apparentemente disimpegnata, quelle di Devalle, i disegni di Bignardi, le superfici di Pistoletto, i dipinti di Laura Grisi. Il disegno di Bignardi tende a dare l’illusione di una superficie riflettente, nella quale ogni figura viene a muoversi senza precisione, come se non fosse possibile sostare per un attimo a raccogliere un pensiero. L’oggettivazione è spinta al massimo nelle esperienze che si svolgono nell’ambito delle poetiche del costruttivismo. (...). Tutto nelle strutture del linguaggio e nelle modalità operative sembra voler essere il motto di questi artisti. Tutta l’ideologia nella forma e la forma deve scaturire dal rapporto che si stabilisce, dopo un esame oggettivo della situazione, con la civiltà tecnologica. (...). Le strutture di Uncini, i rigorosi intrecci lineari in serrata connessione cromatica di Frascà, le nitide superfici elaborate però con materiale d’urto di Carrino (i tre artisti del Gruppo Uno), sono altrettanti esempi di quella poetica che vuol ritrovare, nella purezza della forma, un riscatto per la propria condizione. (...)». Nello Ponente Roma, Galleria La Tartaruga, 10 giugno Franco Angeli, Mario Ceroli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Sergio Lombardo, Renato Mambor, Pino Pascali e Cesare Tacchi espongono con Ettore Innocente nella mostra Roma 1966: Realtà dell’immagine. Milano, Civico Padiglione d’Arte Contemporanea, 24 giugno Mimmo Rotella e Tano Festa espongono con altri artisti nella mostra Cinquant’anni di Dada. Dada in Italia 1916-1966. La mostra è in collaborazione con la Galleria Schwarz di Milano. Testi di Arturo Schwarz e Daniela Palazzoli. Venezia, Teatro La Fenice, 14 giugno Umberto Bignardi espone con Valerio Adami, Rafael Canogar e Hervé Telemaque nella mostra Lavori in corso, organizzata da Fabio Sargentini. Spoleto, Galleria Space-Time, 26 giugno Giuseppe Uncini espone con Nicola Carrino e Nato Frascà (Gruppo Uno) nell’ambito del Festival dei Due Mondi. Venezia, Galleria del Canale, 15 giugno Mario Schifano espone con Valerio Adami, Enrico Baj, Lucio Del Pezzo, Emilio Tadini nella mostra Metafora 66, organizzata con lo Studio Marconi di Milano. Testo di Maurizio Fagiolo dell’Arco. «(...) L’“artista” d’oggi (non più artiste-peintre, ma tecnico dell’immagine) si trova aperte due strade. O proporre nuovi oggetti utili a rinnovare e stimolare le capacità ottiche: ed ecco allora la “geometria della libertà” di Dorazio e Castellani, ecco 1e proposte “programmate” di Alviani, Mari, del “Gruppo T”. O proporre l’accettazione e il rifacimento di alcuni oggetti quotidiani per tentare un nuovo tipo di didattica: non più prima o dopo le cose, ma nel corpo stesso delle cose, in re come direbbe un positivista. È la via di Adami, Del Pezzo, Schifano (è la via ancora di Rotella, Pistoletto, Ceroli, Angeli, Festa, Pascali, Tacchi, Mondino, Marchegiani). (...)L’arma di Schifano è il régard, un occhio-obiettivo, una camera fotografica mentale. Non vede una cosa ma la vede “inquadrata”, la vede “angolata”, considera cioè il mondo-della-vita dietro uno schermo, che è oggettivo ma finisce per dare un’impronta “astratta” agli ultimi frammenti mondani. È il “monologo esterno” di un grande Voyeur come Robbe-Grillet, o meglio del cinema che da Robbe-Grillet ha preso il via (culminato in Parigi, Galerie Zunini, 28 giugno Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Donner à voir. Parigi, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, estate Mimmo Rotella partecipa con altri artisti al Salon Comparaisons. Francavilla a Mare, luglio Giosetta Fioroni partecipa al XX Premio Nazionale di Pittura Michetti. Sassoferrato, Palazzo Oliva, 24 luglio Gino Marotta partecipa con altri artisti alla XVI edizione del Premio Internazionale di pittura/scultura/grafica e libro d’artista “G.B. Salvi” e “Piccola Europa”. Testo di Giovanni Maria Farroni. Porec (Jugoslavia), agosto Mario Ceroli, Sergio Lombardo, Renato Mambor, Pino Pascali, Mimmo Rotella, Mario Schifano e Cesare Tacchi partecipano con altri artisti alla VI Annuale Porec. 281 Termoli, Palazzo del Comune, agosto Sergio Lombardo, Gino Marotta e Luca Patella partecipano con altri artisti alla XI Mostra Nazionale di Arte Contemporanea. Premio Termoli. Testo di Corrado Maltese. Avezzano, Palazzo del Liceo, agosto Umberto Bignardi, Renato Mambor e Pino Pascali partecipano con altri artisti al XVII Premio Avezzano. Catalogo con antologia critica e varie presentazioni, fra cui quella di Marisa Volpi per Renato Mambor (riproduce quella della mostra presso la Libreria Guida di Napoli del 14 gennaio 1966). Avezzano, Palazzo del Liceo, 14 agosto Gino Marotta partecipa con altri artisti al XVII Premio Avezzano. Testi di Gillo Dorfles e Giuseppe Marchiori. Roma, Galleria La Tartaruga, settembre Mario Ceroli, Tano Festa, Jannis Kounellis, Mimmo Rotella e Mario Schifano espongono con Enrico Castellani e Cy Twombly. Spoleto, Palazzo Collicola, settembre Franco Angeli, Mario Ceroli e Pino Pascali partecipano con altri artisti al XII Premio Spoleto. Primo Premio a Mario Ceroli, secondo Premio a Pino Pascali. Testo di Maurizio Calvesi. Venezia, Galleria Il Canale, 10 settembre Mario Schifano. Futurismo rivisitato. Ossigeno, Ossigeno. Testo di Maurizio Fagiolo dell’Arco. Roma, Palazzo Brancaccio, 17 settembre Gino Marotta e Giuseppe Uncini partecipano con altri artisti alla I Rassegna de I Romani Contemporanei. Testi di Mario Rivosecchi e Maurizio Lichtner. Amalfi, ottobre Umberto Bignardi e Giosetta Fioroni partecipano con altri artisti allaI Rassegna di pittura di Amalfi. Aspetti del “ritorno alle cose stesse”. A cura di Renato Barilli. «La realtà messa tra virgolette, ecco un modo efficace per siglare l’operazione pop. E comprendiamo anche la ragione che induce così spesso gli artisti pop (da noi: Schifano, Festa, la Fioroni, la Grisi, Bignardi, Ruffi…) a “nominare” le cose messe tra virgolette, a stampigliare cioè, sopra o sotto di esse, la loro definizione lessicale. È un modo per ricordare che non si tratta più della cosa naturale, con cui abbiamo a che fare tutti i giorni, ma di una cosa “messa tra virgolette”, assolutizzata, sollevata a un piano di valore». Renato Barilli Bibliografia selezionata: − F. MENNA, Aboliti i premi tradizionali, in «La Fiera Letteraria», a. XLI, n. 42, Roma, 27 ottobre, p. 18. Bari, Palazzo della Provincia, ottobre Franco Angeli e Mario Ceroli espongono alla Biennale Nazionale d’Arte Contemporanea. Testi di Guido Ballo, Duilio Morosini, Mario Valsecchi e altri. Genova, Galleria La Polena, ottobre Gino Marotta espone con Carlo Lorenzetti, Remo Remotti e altri artisti nella mostra Nuova scultura italiana. Testi di Giuseppe Gatt e Enrico Crispolti. Bibliografia selezionata: − C. CASATI, Il design scultura, in «Domus»,n. 444, novembre Torino, Castello del Valentino, 1 ottobre Mario Schifano, Tano Festa e Mimmo Rotella espongono con altri artisti nella mostra Lettura del linguaggio visivo. New York, Sidney Janis Gallery, 3 ottobre Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Erotic Art ’66. Milano, Galleria dell’Ariete, 5 ottobre Franco Angeli. America, America (half dollar). Bibliografia selezionata: − s.a., s.t., in «Nazione Sera», 14 ottobre (mostra citata). − F. VINCITORIO, Franco Angeli, in «La Fiera Letteraria», a. XLI, n. 42, Roma, 27 ottobre, p. 20. riferimenti sono espressioni libere ed oggi egli riprende quel suo filo conduttore di linguaggio del ’63 che gli faceva dire: “Quando stavo in Grecia, appena finito un quadro lo mettevo in musica e lo cantavo. Ma allora dipingevo solo quei segni neri che sono un po’ come le note della musica bizantina. Il mare sono riuscito a dipingerlo solo qui, adesso” (Catalogo Uno). Kounellis aveva già una raffinata sensibilità pittorica di natura poetica (…). Come se la immaginazione nata da fatti della natura, visti e uditi, sorgesse dalla memoria, da una lontananza continua e modulata di echi. Oggi, qualche cosa che nasce sempre dalla memoria, egli la precisa con grande sensibilità pittorica, come ombra e luce e come immagine di fiore aperto che nasce dalla superficie dello spazio. Esigenza umana e poetica: “Mi raccontava un’amica che andava in Persia che vicino all’Abadan c’erano dei villaggi nel deserto, ma villaggi di pochissime persone. Ogni villaggio era chiuso con il verde e dentro c’erano delle stradine, così che passavano da una casa all’altra e sopra c’erano tende per coprirle. E nel villaggio un odore di rose: spruzzavano quest’acqua profumata di rose e la dànno anche da bere per rinfrescare la gente. Ma ogni villaggio ha una sua fisionomia precisa, sociale, sue leggi, tutto; sono dei millenni, magari, che questi vivono nella stessa maniera, ma lì è possibile vivere. A me piacerebbe moltissimo stare in questo villaggio” (Catalogo Tre). È evidente che una situazione di mass-media non copre tutta l’area della vita del mondo. Del resto neppure l’Europa come una pop “genericamente programmata” pretenderebbe». − s.a., Kounellis all’Arco d’Alibert, in «Momento Sera», 22-23 ottobre. «All’Arco d’Alibert disegni e collages di Jannis Kounellis per i quali si potrebbe applicare, meglio che per qualsiasi altro, una indagine “testuale”. La “teoria testuale” è infatti quella parte della moderna estetica che si occupa degli “oggetti d’arte”, rappresentati tanto da parole quanto da segni grafici, ma sarebbe un discorso che ci porterebbe alla constatazione che Kounellis non solo conosce la “teoria testuale” ma l’applica di proposito nelle sue opere strettamente sperimentali e strutturali. Le ben note, gigantesche lettere dell’alfabeto, compite in nero su larghi spazi bianchi, i soliti simboli segnaletici e segni grafico e fiori ritagliati, ancora bianco su nero e nero su bianco. Una ricerca di ritmi grafici, volutamente monotona ma condotta con indubbio gusto oltre che con rigore quasi scientifico». − G. GIUFFRÉ, Kounellis, in «La Fiera Letteraria», a. XLI, n. 43, Roma, 3 novembre, pp. 17-18. «Pittura di estrema attualità, questa di Jannis Kounellis, si svolge tuttavia in sordina, senza offrirsi ai clamori né offrirne, seguendo il filo di un discorso raccolto nell’ambito di un’esperienza tutta interiore. La sua personale, con cui l’Arco d’Alibert apre la stagione, presenta due gruppi diversi di lavori, disegni e collages, strettamente connessi. Nei disegni, che recano il titolo “alfabeto”, Kounellis si rifà alle radici del linguaggio grafico; piuttosto che servirsi di elementi dati per tessere la trama del proprio racconto, riparte “ab novo”, crea nuovi simboli grafici, i quali solo in apparenza provengono da matrici preesistenti. Anzi, la chiave forse è proprio qui; numeri, lettere, segnali, derivano quella sorta di aurorale trepidazione, la vibrante presenza che li dispiega vivi sul foglio, proprio dall’essere noti eppure appena scoperti: disinseriti da contesti, valori, significati tradizionali, a tentare nuovi contesti e significati e valori – e superfici, spazi, scansioni – ancora disarticolati e incongruenti eppure ricchi di stimoli e suggestioni.Ciò che nei disegni avviene per gli elementi originari della grafia, nei collages si ripete per alcune immagini elementari: una casa, una porta, un’insegna, un’organizzazione iconografica soltanto in apparenza più concludente. Pensiamo per un istante (ci si perdoni il paragone didascalico) ad una porta dipinta ad esempio da Guttuso. Essa con tutta evidenza sarà porta di una certa casa, attraverso cui passa certa gente, che mostra o cela certe cose. Una porta di Kounellis si schiuderebbe su un mondo che non è il nostro, un mondo dalla consistenza impossibile, abitato da ectoplasmi, da larve. E quelle insegne non ingannano alcuno: “Colori”, “Hotel”, “Barbiere”, non sono che parole senza senso, ipotesi assurde. Non sono per gli uomini quegli stipiti su cui si estenua il pallore di due rombi colorati; non lo è l’estrema raffinatezza di quell’asettica bianca che illividisce muri e battenti.Simboli e immagini ai confini estremi d’una sensibilità macerata nell’isolamento aristocratico d’una torre d’avorio, in un preziosismo non pago e non quieto, certamente, ma incapace di crescere se non su se stesso, nella rarefazione di esperienze e argomenti da cui progressivamente è stata espunta la presenza dell’altro. Per questo, Kounellis, artista, a nostro parere, di qualità rare, ci sembra come pochi legato a fil doppio alle inquietudini che sono come il supporto della nostra – e di noi, individui – situazione; oltre ogni retorica di problematiche estroverse o denunciatarie». Milano, Galleria Blu, 17 ottobre Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Pittura Meccanica. Roma, Galleria Arco d’Alibert, 7 ottobre Jannis Kounellis. Alfabeto. Testo di Mario Diacono. Bibliografia selezionata: − A. BOVI, Mostre d’Arte – Kounellis, in «Il Messaggero», 21 ottobre. «Alla Galleria “Arco d’Alibert” in vicolo dell’Orto di Napoli una interessante mostra del giovane pittore greco Jannis Kounellis. Questo artista che Plinio de Martiis aveva già indicato in precedenti rassegne e che è stimato in Italia ed all’estero, oggi si presenta con opere del ’65 e di quest’anno. La sua grafica pittorica e poetica dei segni e delle lettere non ha alcun riferimento con l’emblematica di Angeli. I suoi Roma, Libreria Galleria Ferro di Cavallo, 27 ottobre. Cesare Tacchi.Testo di Maurizio Fagiolo dell’Arco. La commedia di costume di Tacchi (da Rapporto 60, le arti oggi in Italia, Roma, Bulzoni, 1966. Ripubblicato comeLe tappezzerie di Cesare Tacchi –Tra commedia borghese e di costume, in «Avanti», 26 gennaio 1966). Bibliografia selezionata: − D.M., Cesare Tacchi: arabesco e pittura, in «Paese Sera», 11 novembre. − L. TRUCCHI, Tacchi al Ferro di Cavallo, in «Momento Sera», 12-13 novembre. «Cesare Tacchi presenta al Ferro di Cavallo le sue ultime opere composte con pezzi di stoffa per tappezzerie, alternati con estese zone di colore, incise, a loro volta, da 282 forti ricalchi grafici. Una trovata, questa delle tappezzerie a fiori, desunta da alcune opere di Picabia – quali Printemps del 1938 – ma elaborata con un nuovo gusto narrativo. Siamo, dunque, nell’ambito di una tipica “pop all’italiana”, sempre più lontana dall’originaria pop americana e dal suo pregnante spirito polemico. Anche i mass media da noi perdono mordente e si addomesticano tra una dilettazione dell’oggetto, magari in chiave neometafisica, ed una calligrafica ricerca stilistica. Ma non è un rimprovero: comunque si tratta di una scelta che il giovane Tacchi saprà forse domani approfondire e portare più avanti, fino ad un linguaggio maggiormente autonomo e personale». − G. GIUFFRÉ, Tacchi, in «La Fiera Letteraria», a. XLI, n. 45, Roma, 17 novembre, pp. 19. − E.M., Tacchi, in «Palatino», a. X (4° serie), n. 3-4, luglio-dicembre, p. 289. Roma, Galleria Arco d’Alibert, 28 ottobre Jannis Kounellis. Alfabeto. Roma, Galleria L’Attico, 29 ottobre Pino Pascali. Testi di Maurizio Calvesi, Alberto Boatto e Vittorio Rubiu. Mostra in due tempi: nel primo tempo (29 ottobre-21 novembre) il ciclo dello Zoo e dei Trofei; nel secondo tempo (21 novembre-3 dicembre) Il Mare, Scogliera, Barca che affonda, due Balene. «Ogni volta che un gallerista intelligente (primo fu il bravissimo Plinio, poi Enzo Sperone, ora Fabio Sargentini) si risolve ad esporre una mandata di opere di Pascali, ne ho particolarmente piacere e anzi provo una specie di sollievo; perché, avendo in precedenza visitato il suo studio, sempre mi ero chiesto: dove mai potrà mostrarle? È un problema quantitativo, di spazio, di dimensioni. La prima volta che vi andai Pascali aveva, oltre ad alcune stanze, un terrazzo pieno di oggetti più o meno neo-dadaisticamente (a partire dagli anni Sessanta) combinati, e riserve di incredibili rottami, tra cui, non so, la metà di un aeroplano. Ma allora aveva fatto una serie di tele con grossi rigonfiamenti, a pancia a labbra o a mammelle, e si accontentò di esporne un paio con altri oggetti più o meno a parete. La sua incontinenza si manifestò con i cannoni. Alla seconda visita ne ritrovai il terrazzo pieno: erano da esporre così; li rividi in un garage, qualche tempo dopo e disperai. Invece finirono, con ottimo successo, a Torino. Ma il garage rimase sgombro per poco; quando vi rimisi piede (è il caso di dirlo, così al singolare, perché l’altro non arrivava a poggiare da nessuna parte) era inondato di cose; anche inondato è proprio il caso di dire, infatti vi erano alcune dozzine di onde (un intero “mare”) con dorsi e code di animali acquatici e barche in naufragio; né basta, se tutto intorno giacevano ippopotami al naturale, pezzi di giraffe e via discorrendo. È quanto, in due riprese, potrete vedere in questa mostra. Arte come giuoco? Che i cannoni fossero dei grossi trastulli fu subito capito, e quasi letteralmente giocattoli erano la pignatta semovente, la frutta bipede ecc, con cui un paio d’anni fa Pascali intendeva allestire un suo teatrino. Opere come giocattoli, allora, più che arte come giuoco, il che, almeno all’atto pratico, è diverso per questo: che l’arte intesa come giuoco (essendo poi il giuoco inteso come zipitì-zipitè) si riduce a bagattella o a giuoco, appunto, anche metaforico di specchi tra l’inesistente nucleo e il cosiddetto fruitore; quando col “fattelo da te” non si distrugge, attivizzando paradossalmente la fruizione, il principio stesso della comunicazione artistica, che è assolutamente basato su un dare e su un ricevere, anzi sulla capacità dell’opera di investire il riguardante, in qualche modo di sopraffarlo. Mentre l’opera-giocattolo di Pascali si limita ad assumere, del giocattolo, il ruolo favoloso, cioè la capacità d’essere al centro di una ricostruzione del mondo dalle basi, e anzi di promuoverla. Pascali non vuole farvi giuocare con questi presunti balocchi; tutto è già fatto, ci si è già baloccato lui, la sua favola (tra biblica e disneyana) se l’è già costruita e vuole soltanto portarvene al cospetto; il suo “disegno” o la sua “parabola” li ha già architettati e tracciati, metaforicamente e letteralmente. Arte con accenti di favola, ma anche favola nella dimensione dell’arte. Ecco poi che cosa rivelano di comune l’arte e la favola, la capacità di creare un universo. Un mondo dove la fantasia (mi si scusi la parola) s’incontra con la forma. È la forma che, appropriandosi degli andamenti divagati e rarefatti della favola, li traduce in una vistosa concretezza; è la forma che dà il suggello, con le sue linee scorrevoli ma chiuse, ad una realtà altrettanto scorrevole e chiusa: fluida e, appunto, favoleggiante, ma eccepita e offerta intera alla contemplazione, realtà dell’arte. (…) Continua a trattarsi dell’esigenza di scacciare il mondo circostante per surrogarlo con la prepotente proiezione di un mondo a proprio piacimento e simiglianza (come, più tipicamente, è stato per Oldenburg). Insomma rubando il mestiere se non al Padreterno (a parte il tema quasi trapelante della Genesi e dell’Arca), almeno all’architetto». Maurizio Calvesi «La chiave psicanalitica è tentante per penetrare nel mondo di Pino Pascali e quale test capitale d’analisi si offre la batteria di cannoni che precede gli animali recenti. L’arma in Pascali manca alla sua funzione; il perfetto ordigno bellico; l’aggressività non arriva al suo fine giacché da queste canne non erutteranno mai granate né bombe. Come simbolo il cannone qui è forse anche troppo parlante nel significato di decezione e di frustrazione. Da questo arsenale in esclusiva allo zoo privato il salto sembra anche troppo grande; e tuttavia il tema indicato dai cannoni continua ed anzi trasformandosi s’approfondisce. Ancora la rapacità viene meno; l’imperfezione grava su queste bianche carcasse, gli animali non sono in grado d’azzannare, di mordere e neanche di muoversi. Se il grosso calibro è privato della sua potenza di fuoco, il dinosauro, il rinoceronte, le giraffe sono privi di gambe, corna, teste. Il tema si precisa dunque in quello della castrazione che avvia il motivo d’alleggerimento proiettivo della mutilazione: se cercassimo infine altre prove le troveremmo all’origine medesima dell’opera edita di Pascali e dovremmo concludere sulla coerenza e necessità: nei rilievi di donna. Sono frammenti di corpi femminili ma il termine frammento si dimostra impreciso, troppo formale e astratto. In realtà sono anatomie, parti del corpo uscite dalle mani gentilmente sadiche di un Jack lo Squartatore il cui teatro d’azione amatorio-punitivo resti l’immaginario, sezioni degli organi primari e secondari del sesso, pube, seno, bocca. (...) Se Pascali costruisse una testa di donna come ha già costruito la dentellata testa del drago, essa non andrebbe ad allinearsi accanto alla Taylor dell’artista americano ma piuttosto si disporrebbe vicina alle teste mozzate del Battista così ambigue e nevrotiche sul piatto di qualche Salomè. Il sogno si tiene in stretto rapporto con l’unità totale delle creature e dei fenomeni; però il trauma che occupa Pascali impedisce agli esseri viventi di filtrare nel sogno come nelle sculture conservando la loro interezza: infligge loro una punizione fisica. La frammentazione opera sull’oggettività artificiale; la mutilazione sull’organico, lo psichismo, il subconscio da cui vengono fuori in Pascali donne e archeosauri, armi belliche e cetacei. “Sono ossessionato dall’immagine di vedere una parte di me, un dito, staccarsi dalla mia mano e cadere. Vedermelo dal di fuori”. È una confessione illuminante che mentre conferma il motivo della mutilazione introduce ottimamente l’altro motivo centrale in Pascali: quello dell’oggettività, del rapporto visivo. Pur restando una proiezione di noi la forma oggettiva infatti instaura una distanza. Poiché il simbolo non esaurisce la scultura di Pascali: essa è soprattutto una forma oggettuale che occupa spazio e si dispone davanti a noi. Di contro alla compiutezza della forma, il mancato funzionamento del cannone non sviluppa il tema della decezione interiore ma introduce una situazione ironica: quella appunto della minaccia cui non seguono i fatti, della terribilità che si sgonfia; lo scherzo del cannone che non spara. È una situazione già da proverbio tipo “cane che abbaia non morde” o da farsaccia da Pirgopolinice e da Capitan Fracassa fino all’Ubu Roi della sua memorabile campagna polacca. Ma in queste sculture l’ironia è implicita e la situazione teatrale spinta al limite di tolleranza, sul punto d’esplodere viene di colpo congelata come in una gag di Max Linder. Ecco che un incidente angoscioso come l’atto mancato del sogno chiudendosi in una forma esatta acquista un diverso senso (uno psicanalista direbbe si sublima), e l’ironia interviene a medicare le ferite. E dopo l’artiglieria, l’animale ai cui piedi giace la sua testa, magari con una puntuta arma d’offesa come il corno del rinoceronte, è una figura ironica a somiglianza delle statue acefale, tra i resti archeologi che complicano a sproposito i nostri parcheggi municipali, con la testa presuntuosa rotolata nell’erba ai suoi piedi. L’ironia di Pascali non fa parte del nucleo primo del suo mondo che è invece oppresso, prigioniero, da un uomo con la fronte rovesciata ancora verso il suo interno. L’ironia è il risultato (e sono propenso a ritenerlo involontario, ciò che non esclude poi la consapevolezza) di un incontro, la fortunosa riuscita di un’intersecazione. Non è per niente ironica la situazione di chi perde un dito; può diventarla quando la perdita venga sentita come un fatto che non ci riguarda. Tra l’ispirazione tratta dall’onirismo e l’approdo parodistico (puntualmente allontanato) sta il lavoro di Pascali che è sempre manuale: da costruttore nelle donne e negli animali, da bricoleur nei cannoni. La febbre acuta e cronica del fare, il dono delle mani sono la provvidenza di Pascali, quanto gli consente di rompere l’isolamento e, una volta messo in moto, d’oggettivare il suo mondo. Così con tipico processo di transfert potrà alla fine vedere dall’esterno il suo mignolo amputato nella decapitata testa del bestione selvaggio. (...) Ma infine questi animali, essenziali come fregi araldici, richiamano una storia aulica di forme astratte dalla sempre pletorica natura senza tuttavia voltare del tutto le spalle ad essa. Qui vorremmo fare il nome delle forme neoclassiche e dare a Pascali la patente di neoclassico mancato come fortunatamente deve esserlo un uomo nato nel 1935 ed operante nel 1966; un uomo che ha frequentato dada non già per cultura ma perché si è trovato implicato, anche lui in non dissimili gravi balbettamenti. E dacché il neoclassicismo manca a sua volta il suo vero obiettivo, ne consegue che lo scacco di Pascali sale addirittura dalla seconda potenza al cubo. Per altro il classico ed il neoclassico si scambiano i ruoli di tentatore sui nostri esatti, impersonali, ragionevoli anni; e poi tali richiami qui da noi s’inquinano di familiari suggestioni metafisiche: rappresentando storicamente la metafisica un’eccentrica declinazione linguistica del vocabolario classico. Alcuni indizi spingono a formulare per Pascali questa ipotesi: non ultimo il lieve scatto temporale con cui si muove, allo stello modo che si trova arretrato il sogno rispetto ad una realtà misurata solo sul pratico attivismo. Ed in particolare il suo procedimento formale che ha per traguardo l’oggettività, la stilizzazione, l’immobile congelamento. In simile cerchio d’ipotesi le donne prendono un leggero sapore sepolcrale, come il bianco che ora aleggia sovrano, questo non colore da purezza fuori della vita. Nella confusa catena di forme classiche e neoclassiche l’anello più prossimo al suo bestiario fantastico è tenuto da Jean Arp: Decapitazione della scultura di Pascali vi si riattacca con evidenza, ma come la contraffazione si riconnette al modello, la parodia al soggetto. (...) La scultura vive di un bianco effetto diffusivo come seduzione ma anche come distanza. Non c’è equilibrio se non grazie al soccorso dell’ironia formale». Alberto Boatto «Il mare è fatto di onde, e il mare di Pino Pascali è fatto di onde. Quelle del mare raffigurano un moto continuo e indivisibile, quelle di Pascali sono immobili e divisibili, solide, composte di scodelle di tela e di legno che si uniscono fra di loro come le tessere di un mosaico. Questo mare che non è un mare è di proporzioni vaste come la pianta di una casa. Per di più c’è un fulmine. Anche il fulmine è di legno e tocca la cresta delle onde, è una cosa di mezzo fra il serpente e la corda degli Sciamani che sta per drizzarsi al cielo. Stranamente bello, gigantescamente regolare, di una 283 geometria inventata il mare di Pascali ha una forza di suggestione immediata. È anche e soprattutto un oggetto antinaturalistico e antisimbolico. In ultima analisi è un segno estetico che vale per se stesso. (...)». Vittorio Rubiu Bibliografia selezionata: − s.a., Pascali, in «Il Messaggero», 8 novembre. − D. MICACCHI, Il cimitero degli animali, in «L’Unità», 3 dicembre. «(...) Da un punto di vista strettamente plastico si deve dire che Pascali è ancora più un dissacratore ironico di forme che un costruttore: questo giustifica la sua rozzezza elementare, il suo fare provocatorio ma stimolante, il suo volgere al riso la riflessione culturale. Innegabile è il suo temperamento monumentale, il suo sentire grande, grosso. Ma se Pascali non fosse dotato di “humor” e non sentisse subito il risvolto ridicolo di una monumentalità senza contenuto, egli, come tanti altri, resterebbe schiacciato sotto la seriosità avanguardistico-accademica. Invece, accompagna lui stesso i suoi bestioni al cimitero, versa un lacrimone per il rinoceronte che perde il corno come tutte le statue perdono il naso, poi sembra nascondersi divertito dietro una delle tante carcasse in attesa di quanti computamente porteranno fiori. Gli animali, in questi giorni, sono stati sostituiti con un mare, una scogliera, una barca che affonda e due balene: non è cambiato gran che, forse soltanto accentuato il senso del palcoscenico. C’è un che di precario nel divertimento di Pascali: difficile è intuire quanto può reggere il giuoco per quanto spassoso e colto sia. Più durevole era, in un certo senso, l’erotismo cartellonistico “pop” delle precedenti sculture colorate: bocche, seni, monti di Venere, ecc., trattati come grandi segnali della città. Le sculture attuali sono a un passo da quelle gigantesche figure che vengono fatte saltare, in Messico, per la festa dei morti, a forza di fuochi artificiali. Ma non è detto che Pascali, col suo estro, non sia capace di fare anche questo, magari per ripresentarsi domani con tutto un suo nuovo mondo di forme, forse meno precarie». − S. PINTO, Due mostre a Roma. Pascali all’Attico; Ceroli alla Tartaruga, in «Avanti», 3 dicembre. − V. DEL GAIZO, Mostre Romane, in «La Fiera Letteraria», a. XLI, n. 48, Roma, 8 dicembre, p. 23. «(...) Pascali, al contrario, adopera la tela come fosse marmo col risultato di creare volontariamente un’illusione nell’atto stesso di distruggerla e di rinviare a qualcos’altro. Le sue opere sono state definite “scogli portatili” e, a vederle, così robuste e prominenti pur nella loro tangibile inconsistenza, l’immaginazione ricorre a quei mostri preistorici di cui non è rimasto che il ricordo o lo scheletro: l’intelaiatura nel caso specifico, che fa da supporto all’involucro e ne denuncia la caducità. Non so se sia nell’intenzione del giovane scultore di suggerire qualcosa di simile, ma è un fatto che i suoi fragili e mastodontici giocattoli costringono lo spettatore a riproporsi il problema dell’apparenza e della sostanza nel flusso delle cose che furono e più non sono, che sono e più non saranno: questo senza preamboli né sermoni, anzi con la semplicità propria di chi attende spensieratamente al suo gioco. Di qui l’importanza dell’attuale mostra de L’Attico, che mi sembra segnare alla maggiore personalizzazione dell’artista nei confronti di quelle esperienze americane o italiane tra cui era venuto formandosi. (...)». − V. APULEO, Le quinte sceniche di Pascali, in «La Voce Repubblicana», 11 dicembre. «Il discorso di Pascali che espone alla Galleria “L’Attico” si dichiara, sin dalle prime battute, discorso ottimistico, convinto come ci appare delle possibilità che all’uomo vengono da una sua posizione di ironia verso una determinata realtà. Un modo ironico e divertito di guardare ad una realtà storica per non lasciarsi travolgere da questa realtà. Una condizione poetica che disincantatamente trasforma la materia in atmosfera, rifugiandosi così nell’intuizione metafisica. E se questo poi si tramuterà in decorazione, in scenografia, come in effetti accade, per Pascali non ha importanza perché per lui l’obiettivo è di non fare scultura pur restando scultore. Di demitizzare cioè il monumento trasformandolo in quinte sceniche di un palcoscenico immaginario sul quale tutti noi ci muoviamo. I suoi cannoni di un tempo si trasformano così in giocattoli, come oggi i suoi animali si trasformano in carcasse senza perdere però mai quell’aspetto esteriore di dignità e di potenza. Il rinoceronte resta quindi monumentale ma inoffensivo così come lo era il cannone, la giraffa si riduce a stele simbolica aperta a tutte le implicazioni. Gli stessi trofei di caccia si riducono a simboli (che siano onirici, fantastici, o altro, non conta) inoffensivi proprio a combattere la retorica del trofeo. E questa immensa superficie cosiddetta marina, non è altro che il labirinto poetico di una coscienza nei cui meandri l’artista cerca il proprio spazio, la propria dimensione, e con lui, almeno nelle intenzioni di Pascali, dovrebbe trovarla la umanità stessa. Qualcosa in sostanza, in bilico tra il gioco e il dramma, nel tentativo di dare dimensioni nuove ad un discorso già annoso di esperienze e risultati (Arp, Burri, le architetture di Le Corbusier) che nella impossibilità di risolversi fuori dalle categorie, cerca, attraverso l’ironia di riportarsi ad una condizione esistenziale». − L. TRUCCHI, Pascali all’Attico, in «Momento Sera», 11 dicembre. «La continua, accelerata evoluzione delle forme e delle idee sta già dando luogo ad una nuova pittura e ad una nuova scultura ormai lontane tanto dall’arte pop quanto da quella op. Cosi, ad esempio, non potremmo definire pop le sculture che Pino Pascali ha esposto all’Attico – in due tornate successive, rispettivamente dedicate agli “Animali” e al “Mare” – anche se il gusto del monumentale e del precario che le caratterizza, deriva direttamente dalla pop-art. Le sculture di Pascali (ma anche qui la distinzione in generi si fa sempre più difficile ed inutile) sono costituite da bianche forme in tela, costruite su scheletri di legno, secondo il metodo usato dagli aeromodellisti e già applicato da alcuni artisti inglesi e americani. Queste opere vanno comunque viste e godute nel loro composito significato narrativo, e anche se ciascuno dei numerosi pezzi che compongono sia il “Mare”, sia gli “Animali” è una scultura a sé stante che, di volta in volta, ricorda Arp, Brancusi e Moore, non si può tuttavia prescindere dall’effetto scenografico dell’insieme, effetto che, del resto, può essere modificato a seconda del tipo di fruizione richiesta. Ma al di sopra di questa massima utilizzazione pratica, le sculture di Pascali sono dei veri sogni pietrificati, anche se la componente onirica è camuffata da un ironico gioco un po’ alla Disney. Apparentemente impertinenti e vitalistiche queste opere nascondono dunque un sottofondo traumatico abbastanza angosciante. C’è infine da rilevare che da un punto di vista formale non tutte le sculture sono dello stesso valore, molte peccano di banale verismo, difetto che non si avverte, ad esempio, nei brani che compongono le sculture di quel grande e vero plastico che è Ipoustéguy. Ma Pascali è ancora agli inizi e con le doti autentiche che ha non gli mancherà certo l’occasione di approfondire e di rendere più rigorose le sue geniali ricerche». − R. MARGONARI, Le giraffe decapitate di Pascali, in «Gazzetta di Mantova», 14 dicembre. − BERENICE, Morbidezza,in «Paese Sera», 22 dicembre. «In due riprese Pino Pascali espone all’Attico i nuclei più recenti della propria invenzione, la “Serie degli animali” e “Il mare”. Rinoceronti, serpenti, dinosauri, giraffe, rettili, trofei di caccia compongono la prima versione della mostra; mare e cioè onde, scogli, barche, balene, la seconda. Tutti questi oggetti sono realizzati a rilievo, su fondi di legno ricoperti di tela, ma danno l’impressione di una notevole morbidezza come se invece che col legno fossero imbottiti con gomma piuma o bambagia. Hanno quindi contorni addolciti, morbidi e fantastici, pastosi quanto lo può essere un disegno d’invenzione e meno un progetto realizzato. Hanno contorni ondulati, vivacissimi. Riempiono, anzi sommergono l’ambiente in cui vengono posti. Escludono la possibilità di qualsivoglia intromissione esterna alla loro resa di una realtà, e perciò fanno l’ambiente, ma non soltanto, sono l’ambiente e non possono esserlo che in modo totale. Per soddisfare l’aspettativa naturalistica dell’uomo contemporaneo, a volte si mostrano nella loro interezza, ma più spesso sono singole parti dell’animale o dello scoglio, coda di pesce o testa di pesce, sezione di scogliera attaccata non si sa come, immagine frammentaria per un occhio abituato alla ricerca del frammento e a godere della forma del frammento. In ciò mi pare ci sia una personalissima forma d’ironia, in questo frammento di oggetto dai contorni precisi monumentalizzato. Ma ci sono anche due tecniche rubate alla fotografia e alla scenografia rispettivamente: alla prima la ricerca della messa a fuoco e della suggestione dell’immagine, in quanto rapporto luce-ombra e alla seconda l’invenzione dell’ambiente, di un ambiente artificioso che imperiosamente estromette il naturale e il consueto». − E.M., Pascali, in «Palatino», a. X (4° serie), n. 3-4, luglio-dicembre, p. 290. Roma, Galleria La Tartaruga, 3 novembre Mimmo Rotella espone con Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Robert Rauschenberg e James Rosenquist in una mostra di litografie. Milano, Studio Marconi, 8 novembre Mario Schifano. Inventario con anima e senza anima. Roma, Galleria La Tartaruga, 19 novembre Mario Ceroli. Testo di Maurizio Calvesi (Le idee sono di tutti) e lettera di Goffredo Parise. «(...) La sua plastica per ritaglio su tavole di legno è diventata, se possibile (ma sembrerà impossibile solo a chi non riconoscesse gli accorgimenti e la malizia disegnativa delle prime opere), più nuda. Non solo le zonature di colore sono scomparse, ma meno coltivato è il gusto proiettivamente e intensamente plastico del profilo: che pure continua a dare sintesi fluide e straordinarie, come l’uomo che sale la scala, ovvero Il collezionista. La sagoma ritagliata, la silhouette ha in effetti due valenze: l’una formale e diremo (sebbene ingiustamente) calligrafica, l’altra ideografica (l’ideogramma non è plastico o sintetico, ma solo lineare e sommario). Ora Ceroli tende piuttosto a sacrificare il kalòs (l’estetico) alla idea. (...) E attenzione, perché “idea” ha la stessa radice di “idein”, vedere: ma per l’appunto, se si può dire che queste nuove sagome di Ceroli non sono che delle idee, lo sono in un senso pre-platonico ed etimologico: “schemi visibili”; dove il mentale confina insomma strettamente col visivo, anche se non con l’estetico, né con il contemplativo. Cina non punta alla seduzione estetica, ma ad una eccitazione tutta intellettuale... “molto simile a quella che si provava a scuola quando il professore cominciava la sua lezione di geometria con queste parole: prendiamo un punto nell’infinito...”. Questo è stato detto, da Parise, proprio per i palazzi imperiali di Pechino, “e in fondo anche per la Cina”, questa “convenzione dell’ordine, insieme astratta e figurativa”. Più che emissari fonici di ripetizioni infinite (per Parise il cinese “è un puro strumento fonico in serie le cui capacità di ripetersi sono teoricamente infinite come per tutti gli strumenti in serie”), i cinesi di Ceroli sono essi stessi, addirittura, elementi in serie ripetuti all’infinito, sono insomma tante “idee” di cinesi, tanti schemi visibili che ripetuti danno l’“idea”, il dilagante schema visibile della ripetizione (cinese). (...) La serialità, è ovvio, è l’opposto dell’unicità e della centralità, e l’immagine seriale è un’immagine che non si focalizza in un ambiente, ma invade ed annulla l’ambiente, creando un particolare condizionamento percettivo: ma è questo condizionamento che Ceroli non cerca. Anche la figurazione seriale di Ceroli invade l’ambiente; ma al 284 centro non c’è lo spettatore circondato e bombardato, percettivamente sopraffatto, strapazzato. Intanto nell’opera di Ceroli non si può penetrare: si, la Cassa Sistina, ma la Cassa Sistina era piuttosto un modulor, sia pure paradossale, o una lanterna magica introflessa, qualcosa che implicava insomma pur sempre l’idea di proiezione e proporzione, non una gabbia da elettrochoc. Sull’opera di Ceroli ci si può soltanto affacciare, come poi nella stessa Cassa Sistina; anche quando la sua scultura è ambientale, voglio dire invade l’ambiente, come Cina, si tratta di un’opera e di un ambiente da possedersi non già centralmente, da spettatore integrato, riconfuso, o magari succube e azzerato, ma dicevo, prospetticamente e proporzionalmente, anche secondo diversi punti di vista, da spettatore angolato e staccato, e soprattutto da spettatore pensante, coordinante, mentalmente provocato ed attivo. (...) Naturalmente angolazioni e proporzioni agiscono a un livello non contemplativo: ma di nuda provocazione mentale. Troppi elementi, comunque, riconducono ad una linea di cultura mediterranea: non sconfessata, ma smontata nello humor e riattivizzata in nuovi meccanismi psicologici. Non può venir meno, si capisce da quanto detto, il tema dello spazio. Nel Burri l’idea e il significato plastico lo schema visibile e la visione si coinnestano nell’equivalenza (che è propria del principio di proporzione) dei termini di rapporto e di spazio. L’idea infatti (la stessa espressa da Il collezionista) è che il quadro, l’opera d’arte non è che l’estremo di un rapporto, non vive che in questo rapporto, è la costruzione di un rapporto; il quadro diventa una delle pareti di uno spazio (astratto, pregnante: Burri)di cui l’uomo seduto che guarda è parte strutturale: anche lo spazio è schematicamente, struttura, rapporto. (...) Ma, appunto, siamo all’apposto dell’idea di Platone, o di quella unica e irripetibile del Rinascimento e dell’Alberti: non il modello di uno spazio, ma il suo schema psicologicamente percorribile; non il progetto puramente mentale, che al solo tradursi si contamina e si corrompe, ma l’idea che invoca la corruzione del visibile, il consumo della materia, le approssimazioni del caso. E la tavola di legno, docile ma variata, pulita ma grezza, compatta ma giuntata, rappresenta lo schermo più verisimile del fenomenica, su cui l’idea matrice (la silhouette di carta) stampandosi, anzi trasferendosi, si realizza in senso anti-platonico, pre-platonico, e si realizza proprio anche nella ripetizione secondo minime variazioni di posizione e di forma (un po’ come, appunto, le idee-atomi di Democrito?) che sono il marchio e la garanzia dell’esistenzialità delle idee, e la condizione del loro propagarsi anche fisico-ambientale. “Le idee sono di tutti” dice Quaroni, che non per nulla è un urbanista». Maurizio Calvesi «Caro Mario, (Quanti Mario e Marie nella mia vita, e tutti, tutti con un destino, ma non certo felice come il tuo!), sono molto contento di scriverti questa “lettera-trattatelloconversazione su alcune forme di passione espressiva”; lettera di auguri in occasione della nuova mostra dovuta non soltanto al tuo quasi crudele accanimento espressivo, ma, bisogna dirlo, (anche se vuole a tutti icosti che non si dica e se si dice protesta come un estroso volatile) alla bruciante passione “visiva” di Plinio De Martiis che non si limita ad esporti, ma, da buon coreografo, soprattutto ti esibisce. Giusta, naturale, fatale show, perché il vostro è l’incontro di due passioni: la sua appunto “visiva” o se vogliamo scenica, coreografica, registica, la tua espressiva ed esibizionistica. Sì, proprio come un grande attore in mano a un regista. E quale regista, in questo caso, non si farebbe prendere dalla passione? Parliamo della tua passione. Di che passione si tratta? Abbiamo già detto che si tratta di passione espressiva ma il termine mi appare così generico che sento proprio la necessità, anche per me, espressiva, e non soltanto didascalica, di esprimermi meglio: cioè di analizzarla, di scomporla, di “guardarla” e di ricomporla (espressivamente) dopo aver conosciuto o tentato di conoscere alcuni elementi che la “fanno” e che sono quelli che mi hanno colpito dai primi giorni della nostra amicizia. La tua passione si può, grosso modo, in modo un po’ alchimistico, sezionare in due gonfie forme, carnose e tutte pulsazioni, come si trattasse di tagliare in due con un bisturi una grossa impossibile cellula. Queste due forme “ideali” (perché, come si sa, gli elementi di una cellula si compenetrano e non si possono sezionare se non a rischio della distruzione totale) sono passione e tensione. La prima è fisica, cioè oscura, cupa, e quasi dolorosa come tutte le cose fisiche; la seconda è intellettuale e, come tutte le cose dell’intelletto, pura, astratta, crudele eroica e un pa’ demoniaca. Mi debbo spiegare meglio? Provo. Proviamo: Sei un uomo silenzioso e agente. Non hai altri rapporti (fisici e intellettuali) che con la materia del tuo lavoro. La materia del tuo lavoro è il legno (non voglio tener conto del ferro e della lamiera che mi sembrano a te meno congeniali, rapidi “excursus” sperimentali) e, nella fattispecie, semplici e quasi astratte tavole di abete. Il tuo rapporto con queste astratte tavole di abete non è affatto lo stesso di uno scultore di fronte a una materia in qualche modo “plastica”; come, che so, l’argilla, o il marmo o il bronzo o la pietra o il blocco di legno o il ferro, bensì quello di un contadino-geometra o per essere più esatti quello di un falegname con un prodotto della natura già umiliato e violentato in partenza dalla sega circolare nelle segherie. È dunque non soltanto un rapporto fisico (un nodo di chiodi, sega, un rumore di martello e di sega, polvere di legno, biancore cigliare di legno ecc.) ma quel che più conta, che conta moltissimo, è un umile rapporto d’ordine. Lo stesso rapporto d’ordine creativo-artigianale che ha un falegname nei confronti della tavola d’abete quando deve costruire un oggetto utile all’uomo. Quest’ordine caro Mario, è l’ordine umanistico. Cioè il rapporto diretto tra colui che fa e la propria materia. Insomma, tre te e il legno non c’è alcun mediatore se non quegli strumenti (sega, martello ecc.) che sono, diciamo così, il prolungamento della propria mano inventato dall’uomo per istituire appunto quel rapporto d’ordine. In altre parole gli umili strumenti di sempre e l’umile materia di sempre. In questo rapporto d’ordine (si parla naturalmente di un ordine che sfugge a definizioni o, per meglio dire, su di un ordine sempre e per sempre avvolto nel mistero) tu esprimi naturalmente la tua nascita, la tua educazione, la tua antica e forse biologica vocazione agli elementi di quella natura (l’Abruzzo boscoso) tra i quali e per i quali è sorta la passione fisica di cui ho parlato. Ma l’altra passione, quella intellettuale, crudele, eroica e un po’ demoniaca, quella che il falegname, non possiede? Come il falegname proietta sulle sue tavole di abete un suo ordine geometrico ai fini dell’utilità diretta all’uomo (tavoli, sedie, armadi ecc.) così tuproietti sulle tue tavole di abete un tuo ordine geometrico ai fini dell’utilità indiretta all’uomo: la sua rappresentazione, la sua mimesi, la sua trasformazione in legno, oggetto di legno. I due ordini geometrici (del falegname e tuo) sono dunque equivalenti; oggetti fruibili dagli arti, dalla fisicità dell’uomo quelli del falegname, oggetti fruibili dal pensiero, dall’emozione, o semplicemente dai puri strumenti visivi i tuoi. Cioè un accanito lavoro di recupero della dimensione umana (che oggi i falegnami hanno abbandonato per la truce fabbrica borghese); salvo tu, falegname mitomane, piccolo Rimbaud della falegnameria. Ho detto mitomane (mitomania di artista neoumanistico, neorinascimentale si capisce) sai perché? Per le dimensioni delle tue sculture; che ingigantiscono, si fanno sempre più grandi, enormi. Non basteranno i saloni di una esposizione, di un museo, non basteranno i saloni Farnese o i capannoni in acciaio e vetro, da Pentagono, costruiti apposta, per le tue folle meccaniche di piatti uomini in serie. Com’è giusto. Forse la Cina, basterà. Tuo». Goffredo Parise Bibliografia selezionata:. − D. MICACCHI, L’uomo in serie di Mario Ceroli, in «L’Unità», 6 dicembre. «Goffredo Parise, presentatore con Maurizio Calvesi, della mostra di Mario Ceroli alla “Tartaruga”, parla di mitomania neoumanistica, o meglio neorinascimentale, a proposito della dimensione figurativa “gigantesca” prediletta dal giovane scultore. Mitomania certo, e nutrita di quelle “passioni equivalenti”, artigiana e intellettuale, di cui dice Parise. Ma la dimensione non ha alcun carattere monumentale (conoscitivo-apologetico): è piuttosto uno schema ideologico e iconografico moltiplicato serialmente, uno schema il cui valore plastico è dato dall’ironia. In sostanza proprio il fare contestando, ma con quanto “humor”!, di Ceroli rende evidente la carenza di valori umanistici che possano sostenere la dimensione monumentale. Per dirla con parole di un altro giovane artista romano, lo Schifano, si tratta di un “rinascimento rivisitato”. Uno dei primi schemi plastici “neorinascimentali” di Ceroli è stato quello del famoso uomo leonardesco iscritto nel cerchio diventato una sagoma da incassare e da inscatolare, nulla più che un grosso segnale pubblicitario. Già in questo primitivo schema il risvolto ironico e beffardo svuotava l’iconografia di ogni monumentalità. Negli altri schemi plastici derivati dalla vita quotidiana la ironia era il carattere dominante e si manifestava non tanto nel “gigantesco” quanto nel “seriale”. Ed è nel senso di schemi iconografici del vivere e sentire di massa – si vedano Cina e La fila – che oggi si caratterizza la plastica di Ceroli; oppure nel senso di immagini, sempre meno schemi, assai corrosive nell’ironia della sempre risorgente mitologia dell’arte o degli oggetti – si vedano Burri e Il collezionista, nonché i molti oggetti “op” rifatti con grottesca esibizione e molta bravura dalla “passione del falegname”». − V. DEL GAIZO, Mostre Romane, in «La Fiera Letteraria», 8 dicembre (mostra citata). − L. TRUCCHI, Genovese al Bilico. Ceroli alla Tartaruga, in «Momento Sera», 19-20 dicembre. − A. BOVI, Ceroli, in «Il Messaggero», 19 dicembre. «Alla galleria “La Tartaruga” in piazza del Popolo espone il giovane artista abruzzese Mario Ceroli che, a mio giudizio, in questa rassegna, mostra un lato interessante della sua ricerca in rapporto alla “immagine”, alla “sua ripetizione”, al “suo movimento” nella visuale critica di un contesto sociale e di una sua pericolosa situazione in misura di “collettività anonima che avanza o si immobilizza senza più discernersi in individuo, ritrovarsi come personalità autonoma libera e cosciente”. In questo senso la “visuale critica” di Ceroli che ritaglia in sagome ripetibili i contorni delle immagini, partendo da una idea iniziale, anche se diversamente impostata di Lombardo, e le colloca in una “situazione di apparente movimento” ricorda un aspetto efficace di tutta la tendenza ironica e polemica del movimento “dada” dei suoi inizi. In un’epoca in cui la tecnologia minaccia di diventare puro tecnicismo, l’intelligenza livellamento di massa, la passione pervicace e cieca follia come quella di un risorto neonazismo in marcia, è necessario che noi non ci formuliamo nella mente una falsa e inesistente immagine, ma visualizziamo la reale “esistente e moltiplicantesi immagine di una realtà”. In tal senso la sua ironia che ha un sottofondo di cosciente amarezza è molto più viva e di una pungente, stimolante critica che non la pop-grande fumetto di incombente tristezza di Lichtenstein o la visuale della cartellonistica illustrativa di Rosenquist, “di fronte alla quale – diceva Richter – a noi ci vien fatto di sederci, magari immalinconiti, ma per nulla scossi come lo saremmo dinanzi ad una autentica fotografia». − s.a., Tartaruga, in «Il Popolo», 20 dicembre. Roma, Galleria La Tartaruga, 15 dicembre Gianfranco Baruchello, Mario Ceroli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Sergio Lombardo, Renato Mambor, Fabio Mauri, Pino Pascali e Cesare Tacchi espongono con Cy Twombly. Torino, Galleria Stein, 15 dicembre Mario Schifano. 285 Genova, Galleria Il Deposito, 20 dicembre Mario Ceroli e Pino Pascali espongono con Enrico Castellani e altri artisti nella mostra Situazione ‘66. Torino, Il Punto, 22 dicembre Mimmo Rotella. 1967 Genova, Galleria Rotta, s.d. Mario Schifano espone con altri artisti. Indianapolis, Harron Museum of Art, s.d. Cesare Tacchi espone con altri artisti nella mostra Painting and Sculpture today. La Haye, Musée Municipal, s.d. Tano Festa espone con altri artisti nella mostra Art contemporain de l’Italie. Padova, Galleria La Chiocciola, s.d. Mario Schifano espone con altri artisti. Parigi, Galleria Blumenthal, s.d. Mario Schifano espone con altri artisti. Trento, Museo della Provincia, s.d. Cesare Tacchi partecipa con altri artisti al Premio Provincia di Trento – Mostra Nazionale di Pittura. Livorno, Casa della Cultura, gennaio Umberto Bignardi, Giosetta Fioroni, Titina Maselli e Pino Pascali partecipano all’VIII Premio Modigliani. Premiati Umberto Bignardi, Pino Pascali e Titina Maselli. Pescara, Galleria G3, gennaio Pino Pascali espone con altri artisti nella mostra Oltre la scultura. Roma, Galleria Il Cerchio, gennaio Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Pino Pascali, Mario Schifano e Cesare Tacchi espongono con Getulio Alviani, Enrico Castellani, Gianni Colombo e Fernando Andrea Massironi nella mostra Realtà dell’immagine e strutture della visione. Testi di Maurizio Calvesi e Giuseppe Gatt, con antologia critica. «(...) Due esigenze sono spesso positivamente compresenti, nell’opera attuale: l’impiego di materiali assunti nell’ambito merceologico e tecnologico-industriale del mondo moderno, dalla stoffa alla plastica e all’alluminio, e l’articolazione fisica dell’opera oltre i confini del tradizionale e piatto riquadro a parete. Entrambe le esigenze concorrono poi a determinare quello che la critica ha definito il carattere “oggettuale” delle nuove immagini e delle nuove strutture. Da più tendenze si converge versa l’oggettualità: ne vuole essere un’indicazione questa mostra, composta di artisti che, oggi, praticamente hanno smesso di usare il pennello, o almeno diusarlo esclusivamente (anche se lo hanno usato, taluni, fino a ieri, in opere che già nell’ambito stesso dalla pittura “dipinta” miravano a qualificare oggettualmente l’immagine riportata). Nelle opere che oggi questi artisti realizzano, l’immagine, quando c’è, non si proietta sulla superficie; anzi, poiché l’immagine non è più “rappresentata”, ma data, coincidendo oggettualmente, appunto, con l’opera stessa, ecco che con la necessità di una proiezione, è venuto meno anche lo schermo, cioè la piatta superficie di tela. Questa superficie si muove, tende ad assumere lo spessore e i contorni tridimensionali di un oggetto. (...)». Maurizio Calvesi «In occasione della recente mostra Tendenze confrontate ordinata da Menna e Boatto a “Il Centro” di Napoli (mostra che aveva più di un punto in comune con la presente esposizione), il rifiuto delle ipotesi neo-surrealiste veniva motivato dalla rinuncia ad un “programma velleitario e antistorico di (...)giudicare addirittura attraverso l’esercizio di una personale idiosincrasia onde evitare l’errore di scambiare per autentica passione storica e civile lo sforzo di sublimare una irrilevante frustrazione privata” (Boatto). Pur non essendo la nostra discriminante critica altrettanto drastica, molti dei motivi che ci hanno indotto a non includere nel nostro repertorio di ipotesi i linguaggi della cosiddetta nuova figurazione (e dei suoi derivati) sono imedesimi. (...) Tale motivo, se spiega le ragioni diun’esclusione, giustifica anche i criteri di una scelta operata nel senso dirappresentare, nell’ambito diun medesimo contesto dialettico e vicendevolmente stimolante, le tendenze organiche di più rilevante incidenza sia sociologica che linguistica. Mettendo, dunque, insieme talune risultanze significative della ricerca visuale e delle poetiche di derivazione pop (tanto per usare dei termini d’uso, ma che risultano ormai inadeguati), non solo si è voluto dare una ricapitolazione esemplificativa delle ricerche che si contendono oggi universalmente il campo mondiale (ed è un compito storico): ma si è voluto anche mostrare, con precise indicazioni di carattere critico, che fra le due tendenze esistono possibilità di confronto e, nello stesso tempo, possibilità di convergenza. Del resto, come ha già ampiamente dimostrato la poetica optical nordamericana (che, in fondo, è un portato di compresenti linguaggi pop e visuali), non credo sia lontano il tempo in cui – sulla via tacciata della ricerca gestaltica dell’arte fruibile e “funzionale” – le opere d’arte saranno “abitabili”: entreranno, cioè, nella vita di tutti igiorni, come qualunque altro oggetto, determinando condizioni “urbanistiche” ampliamente auspicabili anche sul piano sociologico. Ebbene, tali opere avranno una morfologia fortemente condizionata dalle attuali ricerche oggettuali in senso visivo e “popolare”». Giuseppe Gatt Bibliografia selezionata: − L. TRUCCHI, Collettiva al Cerchio, in «Momento Sera», 22 gennaio. «È sorto a Roma un “Centro nazionale per le mostre d’arte in Italia e all’Estero”. Il Centro che fa capo alla galleria “Il cerchio” presenta sotto il problematico titolo “Realtà dell’immagine e strutture della visione”, una collettiva di giovani ma conosciutissimi: Bignardi, Ceroli, Pascali, Schifano, Tacchi, Alviani, Castellani, Colombo, Massironi, Scheggi. Purtroppo le opere sono tutte arcinote e già ripetutamente esposte nelle varie gallerie, speriamo dunque che la mostra sia stata presentata a Roma prima di essere inviata all’estero e, in tal senso, era forse opportuno indicarne il futuro itinerario. Se poi così non fosse essa avrebbe ben poco senso. La tendenziosa antologia critica raccolta nel lussuoso catalogo che accompagna questa esposizione mi pare voglia dimostrare la convergenza tra la pop-art e l’op-art. l’argomento per lo più trattato qui con saccente ermetismo, è, di per sé già vecchio: la pop e la op nella loro forma pura sono di fatto già superate; in quanto poi alla loro possibile integrazione, che questa mostra del resto non documenta, ho già parlato, credo proprio per prima, sulla Fiera letteraria del 27 giugno 1965, in un articolo intitolato Poo e op tra “riti e miti” nel quale prevedevo la confluenza ideologica e linguistica delle due tendenze». Bologna, Museo Civico, 15 gennaio Franco Angeli, Renato Mambor, Gino Marotta, Mario Schifano espongono con altri artisti nella mostra Arte Contemporanea in Emilia e Romagna. Testo di Tullio Vietri. Bibliografia selezionata: − G. DORFLES, “Poesie visuelle” et arts plastiques “litteraires” en Italie, in «L’Oeil», n.145, gennaio, pp. 24-30. «Peut-on parler d’une tendance des arts plastiques vers la recherche d’un élément “littéraire”? Dans un certain sens, oui. Mais il se passe aujourd’hui un phénomène signifìcatif: alors qu’une grande partie des arts visuels s’oriente vers une production de série, visant, en quelque sorte, à imiter l’objet industriel et à s’identifìer a lui, on assiste en même temps à un réveil des pro-ductions artistiques par où la peinture et la sculpture sont ramenées à leur matrice manuelle et retrouvent la “préciosité” d’exécution à laquelle tant de racines profondes rattachent ces formes d’expression créatrice. De plus, même lorsque les artistes recourent a des moyens modernes de reproduction et de répliques en sèrie, ils s’en tiennent a un type de «procédés» qui se rattache au livre, à la publication typographique, plus qu’à l›objet artisanal de jadis. (…). (…) Parmi d’autres sculpteurs pour lesquels l’élément narratif et littéraire revêt une certaine importance, on peut citer le Napolitain Perez (dont j’ai parlé à une autre occasion), le Romain Marotta, avec ses fìgures à la fois anthropomorphes et “mécanomorphes”, obtenues par un travail complexe du bois, suivi de l’application de vernis acryliques; (…) Il est encore trop tôt pour juger de 1a qualité et de la durée que peuvent avoir les expériences plastiques et picturales dont nous venons de parler. Une chose me semble certaine: la nécessité, qui s’est affìrmée ces derniers temps, par de nombreuses formes de créations artistiques et dans de nombreux pays du monde, d’arriver à un processus d’intégration et d’inter-relation qui permette à chaque artiste de s’attacher à un événement et de retrouver, dans un langage commun, une possibilité aecrue d’être compris par un public toujours plus vaste». − B. ALFIERI, Marotta, o del classicismo, in «Metro», n. 12, 1 marzo e in «Flash» n. 1, giugno. Roma, Galleria La Tartaruga, 21 gennaio Mario Schifano. Bibliografia selezionata: − A. BOVI, Schifano, in «Il Messaggero», 2 febbraio. «Alla Galleria “La Tartaruga” in piazza di Spagna una mostra del giovane artista Mario Schifano che dal ’59 ha tenuto rassegne personali in Italia e all’estero. Mi sembra interessante confrontare la personale milanese tenuta all’Ariete nel ’64 dove è detto nel catalogo: “del reporter, Schifano fa suo il colpo d’occhio incisivo, mobile e il tipo di contatto spregiudicato e vitale con le cose”, con l’attuale mostra e con un indirizzo molto chiaro e preciso di un aspetto rilevante della pop americana. Oggi la varietà e mobilità del segno si intensifica, con la intensità stessa della percezione di colore, il verde ad esempio (riprendendo alcune passate esperienze) in quelle interessanti annotazioni che egli ci trascrive sul foglio. In altre opere esposte, Schifano ci indica con una viva mobilità visuale le immagini o il ritmo sempre vario di “movimenti”, per esempio delle gambe disegnate con rapide accentuazioni lineari che dànno, nella retina delle vibrazioni, una mobilità continua, a seconda del punto in cui l’occhio dell’osservatore si pone. Ma in un dipinto particolarmente mi sembra che sia andato oltre un aspetto ben preciso della pop-americana: quello che ha il fondo dipinto da larghi piani, di puro colore verticale e che dal marrone procedono successivamente con una particolare luminosità al giallo arancione, al grigio azzurrino, all’azzurro e quindi al rosso rubino. Su questo fondo egli disegna rapido una figurazione con dei segni che nascono da un estremo di un piano e poi si dimensionano nella immagine precisa e anche affettuosa ed umana di un bambino in 286 movimento. In questa visuale che ha indubbiamente un rapporto con la intensità di comunicazione pop, tenendo anche conto del fondo a piani di colore vari, intenso e luminoso, la figurazione della immagine non è oggettivamente fredda, spietata, cruda, come nel paradosso, quanto a suo modo realistico, del cartellone pubblicitario, del grande fumetto, dell’oggetto tout-court, ma intenzionalmente e quindi in altro senso realistica, cioè come “presenza” umana». − D. MICACCHI, L’ossigeno di Mario Schifano, in «L’Unità», 7 febbraio. «(...) Le opere ora esposte alla “Tartaruga”, in piazza del Popolo, sono caratterizzate dallo stesso lirismo ma la tensione espressiva si è sciolta, articolata in un’esperienza plastica più complessa. Ci sono quadri formalmente più tesi, sperimentali anche, come Omaggio a Malevič e Futurismo rivisitato (una fotografia del gruppo futurista privo di Balla): sono le opere nelle quali la volontà di Schifano di dare “ossigeno” alla pittura è più fertile e più provocatoria, ci sono altri quadri, invece, formalmente più placati, come il trittico che varia il motivo dell’orizzonte sfiorato dalla grande nuvola dentro cui, a vortice dalla terra sale la scritta Approssimativamente; come la triste, paurosa finestra notturna e la malinconica e tenerissima favola del bimbo con l’orso (Io sono infantile) che è il punto più puro del lirismo in questa mostra; come infine A Balla, un bellissimo pannello, assai lungo e stretto, con la folla nella strada: selva frenetica di gambe tagliate dal polpaccio in giù che nel movimento a sequenza delle forme ricorda ancora certe invenzioni di Balla, ma le sopravanza in qualcosa che non è sperimentale, per quel senso convulso e drammatico, di folla che si unisce e si scioglie senza quiete. Una novità tecnica e formale caratterizza tutti i quadri: è la sovrapposizione al quadro di una superficie di plastica che in qualche modo rende lontana e tremula l’immagine disegnata e dipinta o aggiunge colore in modo secco e vitreo. L’effetto di “schermo” e di lontananza tremula è molto forte nella finestra di notte, crea un pulviscolo nel pannello con le gambe. L’effetto di colore è intenso e luminoso in Futurismo rivisitato, struggente per sottolineatura sentimentale e di smarrito incanto nel quadro col bambino. L’effetto di “allontanamento” è ottenuto con una lastra di plastica che ha una finissima retinatura (l’effetto si potrebbe dire di un “divisionismo psicologico”). L’effetto di colore è raggiunto con la trasparenza perfetta della materia di perspex. (…). la totale schermatura del quadro è interessante e curiosa nel suo effetto: per un verso è l’assunzione avanguardistica portata alla conseguenza estrema di un materiale moderno (operazione però sempre reversibile), per l’altro verso il materiale è formalmente composto e usato con un gusto antico di velatura, non fa che sottolineare pateticamente il lirismo strutturale del disegno sulla tela e del colore stesso. L’efficacia maggiore – e la inseparabilità dello schermo dalla pittura – è raggiunta in quadri dove il materiale partecipa ad una sorta di celebrazione gioiosa, bel alta sulle tante piccinerie della pittura, del mestiere del pittore felicemente inserito fra i mestieri di oggi: dico di Omaggio a Malevič e di Futurismo rivisitato che anche per la concezione monumentale senza enfasi risultano pitture di bella naturalezza decorativa. Il quadro dedicato a Malevič è anche il più libero nella composizione e di un equilibrio magistrale fra forma, colore e materiale trasparente: credo che un’opera come questa non sarebbe dispiaciuta al costruttivista sovietico El Lissitzkij sia per l’eredità che raccoglie della pittura “tradizionale” sia per la progettazione d’una pittura svincolata da luoghi abitudinari e suscettibile di reggere il confronto con l’ambiente dinamico e aperto della vita contemporanea. Quanto al quadro raffigurante il bimbo con l’orsacchiotto, chiunque in vita sua abbia mai fissato l’occhio su quegli attimi di stupefatta sospensione che colgono i fanciulli misteriosamente nei loro giuochi – e a noi può sembrare che la mente loro sia traversata di pensieri che sono solo i nostri – non potrà dimenticare il quadro di Schifano per questa affettuosa costruzione di segni un po’ esaltati e un po’ tremanti. Per comodità illustrativa abbiamo separato più del giusto il momento lirico dal momento avanguardistico. Ma, in realtà, nella pittura non esiste netta separazione. Utilissima è la visione dei fogli disegnati e a collage che con maniera più veloce e immediata rivelano la complementarietà dei due momenti in Schifano, forse il talento più libero e avventuroso da quel fondamento di tenace lirismo della nuova generazione. Comunque davvero un inesauribile creatore di forme e un plastico di rara naturalezza». − D.M., Schifano: Futurismo ed altre leggende, in «Paese Sera», 11 febbraio. «La sensibilità del giovane Schifano al fascino dell’avventura vissuta dai futuristi ai primi del secolo è toccante e disarmante ad un tempo. Egli guarda a quel passato di cui sappiamo tutto – virtù e vizi –, come qualcosa di favoloso. Il suo sguardo è pulito (stupito, entusiasta, affettuosamente scettico). Ma la tradizione sulla tela è tanto fresca, quanto abile e smaliziata: da funambolo dell’arte. Nelle sue tre versioni di Futurismo rivisitato – esposte alla “Tartaruga” – la tecnica del riporto – dalla foto alla tela – ci rimanda, svuotate di volti e corpi (documento “truccato”, ombra cinese) le bombette e le palandrane della nota foto di gruppo con Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni, Severini. Sopra la composizione, riquadri di plastica variamente colorata celebrano la nascita di un nuovo “stupefacente giuoco”. C’è un po’ di tutto, qua dentro: la battuta di spirito dadaista, la fantasmagoria dei films di Richter, la tenera malinconia che si cela nei comics di Chaplin. (…) torniamo, dunque, ai “suoi” futuristi, da fotografia pateticamente ingiallita, irriverenti e simpatici fantasmi che non torneranno più. Questo svagato e nostalgico fantasticare, non privo di fascino, ma affidato – anche – all’acrobatica e labile improvvisazione – è, poi, quanto di più autentico Schifano sappia darci oggi? Non lo credo. I suoi paesaggi immaginari – volubilmente librati nel bianco della tela (nuvole, brandelli di cielo, scarniti rami di primavera, grandi stelle argentee, “pubblicitarie” e natalizie) sono, magari, altrettanto fragili, ma trattati con un abbandono più vero: fedele all’estro di quel talentoso (ed un po’ anacronistico) scapigliato dei nostri giorni che è Schifano. Lo stesso accade anche in un quadro come Finestra, che è, poi, il migliore della mostra. È il solo esempio, tra l’altro, di un impiego funzionale della lastra di plastica zigrinata – sovrapposta alla tela – di cui Schifano fa uso ed abuso dovunque. Qui essa ingenera un flou tra il cinematografico e il pittorico che avvicina e allontana il balcone, che ci fa oscillare tra notte ed alba (tra le cose afferrabili ed inafferrabili, tra eccitazione e malinconia). Una vena “crepuscolare”, dunque: ma che contrasta curiosamente col clamore di una tecnica choc, colla quale l’autore vorrebbe consacrare (nella scia del neo-oggettivismo americano) la sua rottura con l’ottica “tradizionale”. Una vena che – proprio per codesta contraddizione – dovrebbe consentire a Schifano di mirare a quadri altrettanto “aerei” ma intrisi di ben altre implicazioni fantastiche; ben più attenti al palpito di questa nostra civiltà, sospinta da incalzanti trasformazioni dei valori: avvincente perché sospesa ad un avvenire “meraviglioso” (come Schifano) o ad avvenire catastrofico (a seconda di ciò che noi sapremo farne colle nostre mani)». − L. TRUCCHI, Schifano alla Tartaruga, in «Momento Sera», 11-12 febbraio. «Fin dalla sua prima apparizione nel 1960, in una collettiva alla Salita, con Uncini, Lo Savio, Festa e Angeli, Mario Schifano ha dimostrato un grande senso di sicurezza anche negli esperimenti più audaci ed una particolare grazia, ad un tempo trepida e spavalda, nello affrontare il quadro; qualità, queste, che, anche oggi, fanno di lui il pittore romano, della sua generazione, forse più ricco di felicità creativa. È da qualche anno che Schifano persegue una pittura di reportage, basata su poche immagini realistiche, ricostruite mnemonicamente come altrettanti fotogrammi emblematici, colti da un occhio sempre fresco ed avido. Ora il reportage di Schifano si è allargato e complicato ed alle immagini di paesaggio si sono sovrapposte altre immagini – per il pittore particolarmente suggestive – di un suo privato reportage culturale che va da Matisse a Jasper Johns. In queste sue opere recenti, esposte alla Tartaruga, Schifano dà prova di essere arrivato ad una originale assimilazione e rielaborazione intellettuale di quelle avanguardie, ma parafrasandone addirittura le opere più famose, divenute, appunto, per lui, come altrettante immagini privilegiate di un suo ideale paesaggio culturale. Tutte le volte che vedo un quadro di Schifano mi viene in mente una pagina di Dubuffet: Apercevoir, del 1958. “L’attenzione, afferma il pittore francese, uccide ciò che tocca. È un errore credere che guardando le cose attentamente si finisca con il conoscerle meglio. Lo sguardo fila come il baco da seta, ed in un istante si avvolge di un opaco bossolo che ci priva della vera vista... Finito il primo abboccamento non rimane più nulla”. Del resto già la Gestalt-Psychologie, ha insegnato, e da tempo, che “percepire” non vuol dire “prendere coscienza” di tutto ciò che la vista o l’udito o il tatto trasmettono, ma istantaneamente estrarre un riassunto per sommi capi, dando così luogo a “quei provvisori concetti percettuali che sono la base o il rudimento dello schema preconcettuale”. Ebbene Schifano, così naturalmente aiutato dal suo occhio audace e con l’efficace mediazione sia della fotografia, sia di suggestivi trucchi di plastiche trasparenti, che allontanano l’immagine pur conferendone una blanda palpitazione, quasi un respiro vitale, non fa che mettere in atto questi principi percettivi e salva per noi brani, frammenti, essenze di realtà. Fuori dagli influssi oppressivi della coscienza, della cultura e della stessa ragione, queste immagini conservano tutto il peso inconsapevole ma ben concreto del loro felice esistere». − M. FAGIOLO, Il Futurismo di Schifano, in «Avanti», 12 febbraio. Genova, Galleria La Bertesca, febbraio Mario Schifano Bibliografia selezionata: − s.a., I simboli di Schifano a “La Bertesca”, in «Il Corriere del Pomeriggio», 20 febbraio (mostra citata). Milano, Civica Galleria d’Arte Moderna, 9 febbraio Franco Angeli, Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Pino Pascali, Mario Schifano e Cesare Tacchi partecipano con altri artisti al Salone Internazionale dei Giovani. Testo di Guido Ballo. Reggio Emilia, Sala comunale delle Esposizioni, marzo Titina Maselli. Bibliografia selezionata: − g.n, La pittura della Maselli è discutibile ma coraggiosa, in «Il Resto del Carlino», 21 marzo. Eindhoven, Stedelijk Van Abbemuseum, 10 marzo Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Artypo. Kunst, gemaakt met behulp van grafische technieken. Roma, Galleria Arco d’Alibert, 10 marzo Franco Angeli. America, America. Bibliografia selezionata: − G. GIUFFRÉ, L’America di Franco Angeli, in «La Fiera Letteraria», a. XLII, n. 14, Roma, 6 aprile, p. 25. − G. BRIGANTI, La politica nel pennello, in «L’Espresso», 9 aprile. «(...) Angeli viene qualificato solitamente dalla critica d’appoggio come un moralista. Non lo conosco, ma spero che ciò gli dispiaccia, perché c’è sempre qualcosa di sospetto nella nozione di moralismo. Come metterla poi col non impegno, con lo sguardo, col reportage? A dire il vero di moralismo proprio non si tratta. Tale 287 qualifica evidentemente gli deriva dal fatto che egli ha sempre avuto a che fare con i simboli: simboli politici come la falce e il martello, la croce di Lorena, la svastica, le aquile imperiali o imperialistiche dal becco adunco, le figure dei sigilli presidenziali delle monete di mezzo dollaro, o semplicemente con forme araldiche e con tutto il ciarpame pseudosimbolico che serve d’etichetta alle moderne mitologie. Ma non si possono qualificare le sue intenzioni come esplicitamente denunciatarie. L’immediatezza del suo attuale modo di dipingere, la rapidità delle invenzioni che sembrano escludere ogni preventivo pensamento, sono ben lontane naturalmente da quella precisione ossessiva che caratterizzando ed esasperando la natura visiva di quei simboli ne possa rivelare un volto diverso e nascosto. I simboli vogliono essere piuttosto quello che sono, ed anche con una certa approssimazione: Angeli sembra anzi volerli scancellare, annullare, appena dipinti, con progressive sbavature che li riducono a labili impronte. Una intenzione diversa in vero non manca, perché i mezzi dollari si frantumano, gli artigli aggressivi delle aquile si sgretolano, con facile allusione. Ma troppo facile, forse, per illudere un giovane di trent’anni nato in questo disincantato mondo. Troppo facile per indurlo in tentazione. E così, in quest’ultima sua mostra, Angeli dimostra di aver abbandonato, come per stanchezza, per mancanza di convinzione, per nuove distrazioni, quel tanto di lugubre, di funereo, che caratterizzava i suoi simboli del potere, così come essi apparivano sul fondo notturno, velati da una tela trasparente, non privi di una sinistra efficacia, e di seguire piuttosto, pur senza cambiare soggetti, una vena più immediata ed estroversa cui forse non è estranea l’influenza dello stesso Schifano». Roma, Galleria L’Attico, 11 marzo Jannis Kounellis. Il giardino, i giuochi. Testo di Alberto Boatto (A rose is…). «Tra i diversi accorgimenti per dilatare l’arte fuori dal quadro ed invadere lo spazio, Jannis Kounellis ne ha adottato uno dei più sottili ed ironicamente affascinanti che io oggi conosca: appuntando rose provvisorie per lo spazio. L’innocente invasione si fonda su un’unità iconografica assai semplice: una rosa nelle triplice versione di chiusa, matura e sfiorita, viene ripetuta su dei grandi pannelli accostati strategicamente uno all’altro al fine di creare un environment. Ma aperto: nella catena dei fiori si allargano alcune smagliature; la successione ci conduce davanti ad un vuoto suggerendoci l’immagine intima ed immateriale con cui ognuno di noi deve riempire quella assenza. L’effetto è di penetrare in un giardino congelato da un sogno in vena di allegorie, di stilizzazione e di purismo. La consueta scala di rapporto vi è capovolta, e non già illusoriamente, come l’abitante di Lilliput contro lo stelo mostruoso del fiore di tanta banale oleografia pseudosurrealista, ma realmente: noi con la nostra fisicità insuperabile ci troviamo accerchiati dalle gigantesche rose. Ma siccome la linea divisoria fra regola ed eccezione, da cui trae partito lo spaesamento, appare pasticciata da troppe orme di violatori, al punto da non riconoscerne più il tracciato, Kounellis la ristabilisce all’interno stesso dell’ambiente da lui allestito. E con l’ambizione di codificarla in forma definitiva. Se la norma è la rosa dei giardinieri e dei fiorai, e l’infrazione la rosa dei suoi quadri, richiamando la natura nel contesto del suo entourage, Kounellis ne sottolinea in un fantastico contrasto l’artisticità. Numerose gabbie con dentro vivi uccelli fanno da cornice mobile e sonora alla sua più ampia composizione di rose. Si porta così acqua agli uccelli ma non alle rose: l’eccesso di naturalità – messa in mostra com’è nel volatile in gabbia – proclama l’assoluta artificialità dei fiori: il volo difficoltoso ed il canto degli uccelli imprigionati, l’estenuato profilo araldico delle rose. Raggiunte dall’artificiale, le rose non vogliono spartire nulla con la sensualità imitativa di una splendida natura morta olandese, bensì intendono dispiegare la loro essenza di segni-simboli di rose: il passaggio fra segno figurate e linguistico essendo piano più volte lo ha dimostrato la stessa opera di Kounellis. Avendo preso queste precauzioni, l’artista greco è disposto ora a dare libero corso al suo fantastico lirismo. Lirismo è qui la concentrazione sul motivo poetico, sentire verticalmente: mentre fantasia è l’altezza dell’intensità che disperde la concentrazione, sentire circolarmente ed in modo diffusivo. Questo duplice movimento non incontra nessun ostacolo nell’intelletto, che funge anzi da consenso e da sostegno, assieme all’implicita ironia che delega al passerotto ingabbiato l’onere di rappresentare il libero “stato di natura” dicontro alla falsità dello “stato di arte” (...) Tuttavia, di proporzioni fuori misura, nero contro bianco, la rosa vuole catturare, con la percezione visiva, ogni nostra capacità di concentrazione. Ma presentandosi anche bianco su campo bianco, l’immagine tende a dissolversi trascinando con sé la nostra attenzione. Nonostante l’apparenza che appresta sempre inganni, l’immagine di Kounellis nasce sempre da una sovrabbondanza d’ispirazione, intellettuale, lirica, immaginativa, stilistica, che l’artista provvede a tendere al massimo. Come adesso nelle composizioni bianche dove la rosa bianca non è più che un contorno appena rilevato, un’ombreggiatura, si materializza un miraggio fantastico, svapora un sogno, oscilla un emozionato pensiero, pronti a perdersi nel tutto bianco, nello spazio vuoto, nel suono bianco, dove ogni cosa s’immagina disponibile. (...) Figurativamente questa concatenazione di fiori ricorda le cose moltiplicate all’infinito da specchi che si fronteggiano. Ogni rosa non è la rosa, rimanda ad altro, alla vera rosa, più reale nella sua essenza (diremo platonica? diremo mistica?) che nelle sue incarnazioni, situandosi essa sempre al di là dell’immagine che, pur evocandola, una logica interna spinge infine a cancellare. Non è affatto il fiore letterale diAndy Warhol, essendo ad un tempo una sosta e un transito, un simbolo. Kounellis vorrebbe che nel corso delle pause aperte nella successione, nel vuoto e nel silenzio del nostro interno su cui si modula il canto dell’uccello, si elaborasse una rosa intima, mentale e favolosa, la terza rosa, non composta né di petali né di segni. Dopo tanta tauto- logia (a rose is a rose),e visualità più o meno responsabile (la rosa è un gradiente scalare di rossi), ecco adesso che un giovane artista viene a proporci un’immagine a “funzionamento interno”. L’idea della ripetizione come fenomeno speculare apre sui “giochi” di Kounellis, dove vi trova testuale conferma. Come il principio dello spaesamento, già avvito nell’entourage di fiori, trova egualmente una realizzazione esplicita. Nella costruzione in legno a forma di cassa aperta sul davanti ed abitabile, lo specchio sulle pareti interne, catturando l’immagine dello spettatore, lo compromette nell’event che si svolge nella cassa. Un uomo immobile su una sedia sogna mentre ai suoi piedi transitano rumorosi e fischianti trenini elettrici in miniatura. La situazione ha chiaro sapore di nostalgia e di fuga, di fantasticheria ad occhi spalancati, uno stato d’animo sospeso trascinato via dalle simmetrie disegnate dagli specchi. L’immagine resta ancora un veicolo per indicare un altrove: se nelle rose la tensione è fra concentrazione ed effusione, sogno e meditazione, nei “giochi” essa sembra divisa fra riconoscimento (il mio volto rubato dallo specchio) ed evasione commentata con frigida e surreale ironia». Alberto Boatto Bibliografia selezionata: − L. TRUCCHI, Kounellis all’Attico. Mattiacci alla Tartaruga in «Momento Sera», 17-18 marzo. «La tela bianca è per Kounellis la vertigine, la tentazione di tutte le possibilità; ma non appena il pittore posa sulla tela la prima pennellata o la incide con un segno o la macchia con un collage, tutte queste possibilità sembrano finire, annullarsi. Ecco perché Kounellis lascia sempre più bianche e più vuote le proprie tele. Per questa sua personale all’Attico il pittore si accontenta addirittura di deporre sulle tele, sempre più bianche sempre più vuote, un’unica grande rosa nera ritagliata in stoffa. Kounellis canta la rosa, come un qualunque giovane poeta di tutti i tempi, ma il suo canto è muto e funebre e, forse per questo, egli ha incorniciato una tela gigantesca di gabbie di metallo gremite di ignari uccelletti. Ma la rosa non è né “fresca” né “aulentissima”, le gabbie sono anguste e chiuse e gli uccelletti, ingordi ed infelici, non cantano: come è triste e, sopratutto, come è noioso ed inutile questo exploit pasquale di Kounellis». − s.a., Jannis Kounellis, in «L’Espresso», 9 aprile. le d’argento, qualche grammo, residuo dell’ipotetica colossale combustione. Se è vero non so, sarebbe comunque un processo antieconomico, e in pratica nessuno si sognerebbe di tentarlo mai. L’ha tentato, a suo modo, Giosetta, nel campo della pittura, dove operazioni delgenere sono ammesse, perché qui lo spreco non sempre vuol dire perdita, ela penuria del ricavo spesso vuoi dire qualità. Anche i quadri di Giosetta sono il risultato di una analoga combustione. Non per quel tanto d’argento che v’affiora, ma perché provengono dal mondo già tutto immaginato, già tutto trasformato nelle immagini che quotidianamente inavvertitamente consumiamo. Giosetta ha bisogno di renderlo bruciante, questo consumo, per reperire il materiale che le occorre. Non ha tempo per passare attraverso i vari stadi di un processo riduttivo della realtà. Lei non opera direttamente sulla realtà ma su una folla di ombre seducenti, e deve sottrarne una al caso. Con questa immagine scampata lei fa i suoi esperimenti come il fisico con la materia. Per sorprenderla nella sua genesi, all’origine. Isola anche lei il suo atomo e scopre un im-segno che ha l’apparenza, ma solo l’apparenza, di un fotogramma. Lo ingrandisce in modo intollerabile per costringerci a guardarlo come lo ha guardato lei, con le pupille dilatate da una furiosa attenzione. Vuole estorcerne il segreto, per sapere, né più né meno, di che cosa è fatta la suggestione che nascerà poi da questa proto-immagine. Per saperlo ora, quando è ancora virtuale, e isolata, e al di fuori di ogni contesto. Perciò l’argentea sinopia di Giosetta, programmaticamente neutra ed incolore, fotogramma-emblema del mondo già immaginato in cui viviamo, sembra in moto e immota. La danza dell’atomo e l’immobilità della molla compressa. Se scattasse potrebbe rivelare la potenza distruttiva che è nella seduzione dell’immagine. (...)». Raffaele La Capria Bibliografia selezionata: − BERENICE, La donna in serie, in «Paese Sera», Roma, 18 marzo. − M. VALSECCHI, Parzini e Giosetta Fioroni, in «Il Giorno», Milano, 24 marzo, p. 11. − s.a., Fioroni, in «L’Unità», 2 aprile. − s.a., Giosetta Fioroni, in «L’Espresso», 9 aprile. Milano, Galleria del Naviglio, 22 marzo Giosetta Fioroni. Testi di Alberto Boatto e Raffaele La Capria. «Le ragazze sgranano gli occhi: sporgono la testa in avanti sotto ampie cloches: oppure osservano un punto lontano inaccessibile al nostro sguardo. Qualunque cosa facciano, sicure del loro charme, dove l’artificialità del maquillage ha stretto alleanza con l’artificialità della foto, attendono delle vere ondate d’ammirazione. Qualcuna arriva a nascondersi persino dietro due lenti da sole anche troppo esplicite e grandi: tanta discrezione non è altro che un nuovo accorgimento per eccitare la curiosità. Già simile attitudine fissa il tema dei quadri di Giosetta Fioroni: l’immagine è qui oggetto di un’attenzione e soggetto di una seduzione visiva; attira su di sé gli sguardi nel mentre restituisce desiderio, glamour e falsità. Salomonicamente foto epittura, ma non proprio in parti eguali, concorrono alla duplicità, al moto di dare e di avere di queste figure da rotocalco: se alla foto spetta la vanità dichi vuole essere assolutamente visto, la pittura sostiene il ruolo indiscreto del voyeur. Fino da quando, proiettando la foto sulla tela, sceglie l’inquadratura o la serie d’inquadrature di approccio, ossia prende individualmente posizione nei confronti dell’immagine, la pittrice rinuncia ai molti privilegi della neutralità per i difficili vantaggi della percezione. Per l’indifferente Warhol il taglio stesso dell’istantanea di agenzia va anche troppo bene; nella Fioroni la scelta della angolazione, autorizzandolo, introduce l’impiego di uno stile personale, avvia un compromesso dialogo con l’iconografia ed il linguaggio meccanico. Le ultime scelte della pittrice, stringendo l’inquadratura sul volto, non fanno altro che maggiormente compromettere il suo attivo sguardo in quella trappola che nella fotografia, culmina nel ritratto femminile, nel ritratto della bellezza tout court. (...)Se nell’immediatezza della foto assieme alla vicinanza della bellezza chiamano in campo l’acutezza visiva e l’attenzione, l’unione dirisonanza e di fascino muovono la sensibilità, l’emozione, le esperienze e la stessa memoria personale. Anche se l’intelligenza arriva a bruciare nell’istantaneità del presente l’artificialità della foto e la falsità della bellezza, la loro presenza si prolunga attraverso lo scatto totalmente irrazionale della risonanza. (...) Ma la Fioroni invece accetta il gioco di intelligenza e di emozione che desta in noi la foto ela bellezza artificiale, segue tutte le sollecitazioni, e le fa esplicite: in tal modo la sua immagine diventa eloquente. L’acutezza percettiva e l’intelligenza sono autorizzate a smontare il volto: ecco che la faccia di una donna si presenta divisa orizzontalmente in due sezioni di differenti colori. (...) L’emozione – che possiede una coltivata memoria di esperienze – rialza l’eleganza dell’immagine attraverso l’evocazione delle tessere del mosaico, del fregio liberty, dell’effetto ottico op. In tal modo intelligibilità, fascino e mistificazione convergono su questi volti; l’eccesso di analisi edi dimostrazione della loro falsità non arriva ad eliminare il fascino che si fonda proprio sulla falsità, sull’artificiale, sulla elaborazione consapevole. Ciòche adombra queste immagini eloquenti è il problema della bellezza come fuga, orrore della natura. A questa fuga la foto è venuta in aiuto giacché l’impasto della pellicola si è saldato perfettamente all’artificio deicosmetici e dei fard, con cui il volto femminile rincorre la realtà della maschera». Alberto Boatto «Bruciando qualche tonnellata di pellicola cinematografica – cioè quel centinaio di films che ci hanno accompagnato nel tempo diuna vita, cioè quei milioni di immagini che hanno condizionato la nostra visione – si ricaverebbe, pare, una percentua- Roma, Teatro di via Belsiana, aprile Luca Patella. Film, diapositive e “comportamenti”, eseguiti da Carlo Cecchi. 288 Parigi, Galerie Stadler, aprile Pino Pascali espone con altri artisti nella mostra Art Objectif. New York, Bonino Gallery, 4 aprile Mario Ceroli. Bologna, Galleria De’ Foscherari, 8 aprile Franco Angeli, Mario Ceroli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Pino Pascali, Mario Schifano e Cesare Tacchi espongono nella mostra 8 pittori romani organizzata in collaborazione con la Galleria La Tartaruga di Roma. Testo di Maurizio Calvesi. «Se piazza del popolo non significasse, come significa, piazza del pioppo, potrebbe esserci una specie di destinazione (ma chi ci dice che il destino non sia anche ignorante?) nel rimando da popolo a pop. Scuola di piazza del Popolo, ovvero il Pop romano: sono infatti le due definizioni più frequenti anche se, ovviamente, la seconda è odiosa agli interessati, come qualsiasi etichetta genericamente cumulativa e, in sostanza, impropria. (Ma stiamo attenti, che, il posticino disdegnato e ancor caldo non arrivi ad occuparlo col cappello di Fieschi l’arruffapop dell’ultima ora). Le due definizioni più frequenti, dicevo, con cui si è voluto indicare un insieme di fatti e di artisti che dal 1960 in poi hanno avuto in comune certi caratteri sì, ma soprattutto un clima; un clima che si è formato intorno ad una galleria di piazza del Popolo che pur avendo per totem uno degli animali più impacciati e rinchiusi è stata, negli ultimi anni, forse la galleria più agile e aperta (e sia detto senza togliere il merito ad altre gallerie che, anche proprio in relazione a questo stesso clima, hanno svolto un ruolo e dato contributi come “La Salita”). E raggruppare certi nomi non si può senza pensare anche ad altri, ad esempio all’“antefatto” di Mimmo Rotella. Poi ci fu il caso di Kounellis, il trio Angeli-Festa-Schifano e le prime sortite di Bignardi e Giosetta Fioroni; poi ancora un terzetto Lombardo, Mambor e Tacchi; infine altre due entrate in scena, quella di Ceroli e quella di Pascali. Non mi riferisco ai tempi di lavoro di questi artisti, ma ai tempi della loro apparizione, a piazza del Popolo, certo. Non vorrei parlare dei singoli artisti. (...) Vorrei piuttosto limitarmi a rispondere (...) a quelle che sono le obbiezione che più comunemente si sono mosse e si muovono a queste proposte. (...) E le obbiezioni sono principalmente due. La prima è sollevata (in nome di quel “purismo” che poi esso stesso costituisce il secondo capo d’accusa (soprattutto qui a Roma), ed è l’accusa del “novecentismo”, cioè del “ritorno” all’italiana, ritorno al “figurativo”, s’intende. La pop art, si dice, è un fenomeno americano; queste cose, da noi, non rappresentano che velleità superficiali, impazienze di chi recalcitra sulla dura via della virtù (cioè dell’astrazione programmatica). Ed è vero che la pop art è stato un fenomeno americano, specie se si pensa ai suoi caratteri distintivi più esterni. Ma è anche vero che questi caratteri distintivi esterni non si sono ritrovati, in questi artisti, quasi mai. La tematica anzi, è stata sempre nostrana. I “paesaggi” erano quelli della neo-nata autostrada del sole e bisogna anzi dire (non per un’assurda pretesa di pareggiare i conti con una situazione troppo più potente, radicata e centrale come quella americana, ma per rivendicare le solite scintille disseminate nella nostra genialità), bisogna dire che questo tema specifico del paesaggio nella sua elementare giustapposizione di mare-terra-cielo è appar- sa da noi (fine del ‘62 - inizi del ‘63) prima di trovare un riscontro nell’invenzione pur radicalmente diversa, e senza addentellati, di Lichtenstein; e così sono apparsi prima da noi i dislocamenti dell’immagine in senso che impropriamente si direbbe dinamico, comunque “neo-futuristico”, correttivo insomma della pura serialità (che impropriamente potrebbe dirsi statica) di Warhol. Michelangelo, poi, Leonardo, le vedute di Roma, i simboli di Roma, questo è stato un repertorio tipicamente italiano, inutile dirlo. Facile trasposizione? non so, certo il senso espressivo è stato ed è totalmente diverso dalle cose americane, e poi c’era una piattaforma di cultura anche per questo, cioè il De Chirico metafisico; infine il gusto di certi materiali, legno o stoffa, la dimensione artigianale, tutto questo ha corrisposto non ad una traduzione, ma ad una tradizione, e soprattutto ad una condizione, autenticamente italiana. (...) L’altra accusa che si muove, ma fuori di Roma, è quella appunto del “purismo” romano, un denominatore comune che, in effetti, è riconoscibile in molti aspetti della cultura figurativa romana, anche se tra loro in polemica e in cattivo rapporto di stima. Il “purismo” corrisponderebbe ad una forma di freddezza, di impassibilità con sfumature ciniche o nel migliore dei casi d’assenteismo, senza comunicazione con la vita; a un eccesso di formalismo, o di unilateralismo formale, ad un rifiuto, infine, di quella contaminazione che altri invoca invece come rimedio struttural-semantico-ideologico-esistenziale. Invocazione che si fa ascoltare a livello teorico, ma che all’atto pratico rischia di venire in soccorso soprattutto alla confusione, alla sovrapposizione delle idee e non alla loro dialettica, ad una carenza, infine, di “stile”, cioè di linguaggio. A mio modo di vedere la freddezza, o soltanto la nudità, del “purismo” romano va intesa, almeno nei casi migliori, nei suoi margini di energia intellettuale e di aggressiva presenza proprio nella vita, e va comunque valutata nel suo rapporto indubbiamente sincronico con i fatti in corso dell’arte. Infatti non sembra dubbio che oggi l’arte attraversi un momento di crisi proprio in quanto “oggetto ansioso” (...)». Maurizio Calvesi Napoli, Modern Art Agency, 18 aprile Umberto Bignardi. Bibliografia selezionata: − F. MENNA, s.t., in «Il Mattino», 18 aprile. «La Modern Art Agency presenta una serie di opere recenti di Umberto Bignardi tutte impostate sulla scomposizione analitica del movimento umano e animale. Bignardi muove dalla serie di studi fotografici sul movimento eseguita da Muybridge nel secolo scorso con una tecnica consistente nel registrare con la cronografia le diverse fasi di un movimento elementare ripreso in sequenza. Per Bignardi, naturalmente, si tratta solo di un punto di partenza, in quanto il suo interesse converge sulle immagini e sulla percezione di immagini proprie della nostra condizione di abitanti delle moderne città industriali e pubblicitarie. Si tratta di prendere atto di questa nuova situazione antropologica ma nello stesso tempo di studiare analiticamente i processi di formazione di questo nuovo mondo di immagini e di messaggi. Il movimento è quindi il leitmotiv dell’opera di Bignardi e si comprende come le ricerche del giovane artista siano sfociate nella realizzazione di macchine visive (Prismobile e Fantavisore) e in quella di films sperimentali». Sanremo, Galleria Il Posto, 26 aprile Giuseppe Uncini espone con Nicola Carrino e Nato Frascà (Gruppo Uno). Amsterdam, Galerie 20, 28 aprile Mimmo Rotella. Mimmo Rotella: du Nouveau Réalisme à l’Art Typographique. Roma, Galleria La Salita, 28 aprile Tano Festa. Opere 1960-66.Conversazione tra Giorgio de Marchis e Tano Festa. «Giorgio De Marchis - Da che data cominciano i quadri che esponi in questa mostra? / Tano Festa - La mostra è fatta tutta con quadri della collezione di Liverani, a cominciare dal 1960, cioè da quelli monocromi con strisce di carta incollate, come quello lì tutto rosso, che furono esposti per la prima volta alla nota mostra dei cinque pittori fatta alla Salita, appunto nel 1960. Agli inizi del 1960 ho cominciato a fare un tipo di lavoro che tuttora mi interessa, prima erano solo ricerche da apprendista. / G.D.M. - Ma che cosa facevi prima del 1960? / F.A. - Mi interessava la pittura americana, che si poteva vedere a Roma in quegli anni, Matta, Gorky, De Kooning, e sopratturtu Rothko che fu esposto in una mostra alla Tartaruga nel 1959, con Scarpitta e Kline. Nel 1960 ho cominciato a fare quadri monocromi con le strisce ma non pensavo più alla pittura degli altri, l’incentivo di questi quadri sono state le cose che c’erano intorno, che guardavo, la strada, le strisce pedonali, l’ambiente, gli oggetti. Poi ho cambiato in parte le strisce di carta con strisce di legno rigide come in questi quadri rossi e neri, ma la materia non mi ha mai interessato in senso espressivo. / G.D.M. La mostra dei cinque pittori nel 1960 alla Salita fu presentata, se non mi sbaglio da Restany. Che reazioni provocò nell’ambiente romano? / F.A. - Direi di polemica ma anche di grande attenzione. Era un po’ l’uscita di una generazione con caratteri di rottura verso l’informale. La critica parlava sia Nouveau Réalisme, che di Neocostruttivismo. / G.D.M. - Questi quadri del ‘61 e ‘62 con strisce di legno, hanno sempre come supporto la tela? / F.A. - Sì, ricoperta di carta: non è il supporto della pittura nel senso tradizionale ma un elemento solido del quadro. / G.D.M. – C’è legno e carta ma anche diversi colori in questi quadri dove la striscia di legno crea dei riquadri rettangolari. / F.A. - Sì, c’è come un telaio o una riquadratura: attraverso la geometria 289 sentivo che c’era dell’altro, forme semplici che alludevano anche a un modo di vedere la realtà: per esempio in questi quadri del 1961 che si chiamano Via Veneto, Via del Lavatore, i colori semplici sono quelli dell’astrattismo classico, tradizionale, di Mondrian per esempio, ritrovati in un senso araldico e reale nello stesso tempo: il verde è quello di un semaforo e non di un prato, le stesure piatte e squillanti sono quelle che si ritrovano nei colori della pubblicità per le strade. Dopo queste forme geometriche ho cominciato nel 1962 a ricostruire i primi oggetti, le finestre, le porte, gli armadi, ancora collegati con i quadri del 1961; è come riconoscere le cose che si hanno più vicine, è chiaro che non mi sarebbe venuto in mente di guardare un cavallo. In queste cose vedevo un tipo di struttura, una specie di geometria applicata, quella dell’astrattismo divenuta reale in un oggetto che appare pieno di una carica emotiva. / G.D.M. - Perché ricostruivi le finestre invece di dipingerle? / F.A. - Perché non avevo nessun interesse all’objet trouvé ma invece all’oggetto ricostruito: se lo dipingi sei condizionato in partenza dal suo senso più ovvio, invece ricostruito diventa inservibile diventa presente. I primi oggetti che ho fatto sono oggetti da interno, di arredamento, di mobilio; li ho ricostruiti perché appunto voglio rendere questi oggetti quando si percepiscono non nel momento dell’uso ma in quello della contemplazione, cioè mentre noi usiamo un oggetto non abbiamo coscienza dell’oggetto bensì acquistiamo coscienza del suo essere utile, invece l’oggetto ricostruito, finito, inutile ti dà più un senso di una presenza. Dopo le finestre ho fatto i pianoforti e poi gli obelischi. Nel 1964 ho fatto una serie di quadri su Michelangelo, non più oggetti. Comunque penso che il problema sia lo stesso, questa visione un po’ privata si allarga dalla casa alla piazza e al museo. Ti ricordi che ti parlavo di iconografia? cioè io quando ho fatto questi michelangeli, fra l’altro non ero mai andato a vedere la Cappella Sistina, erano cose profondamente legate a Roma, al tipo di immagine che si consuma qui. Ti ricordi il discorso che ti facevo: un americano dipinge la Coca Cola, come valore per me Michelangelo è la stessa cosa nel senso che siamo in un paese dove invece di consumare cibi in scatola consumiamo la Gioconda sui cioccolatini. / G.D.M. - Dal punto di vista tecnico, come son fatti questi quadri su Michelangelo? / F.A. -Sono collages fotografici incollati sul legno, io poi su questi collages dipingo delle zone anche per assimilare l’immagine al fondo, proprio per non dare questo senso che a me non interessa, del collage. Questa cosa la pensai nel ‘63 a Parigi al Louvre vedendo la Grande Odalisca che poi ne ho fatto un quadro, cioè pensavo che un quadro quando piace, uno l’assume come assume qualsiasi altro oggetto: io guardavo questa Grande Odalisca e pensavo “questa cosa mi piace, potrei metterla in un quadro come potrei metterci una pianta, una macchina, una persiana”. G.D.M. - Come immagine trovata? / F.A. - Mai come immagine trovata per caso, non è che uno fa un percorso casuale per la città e si serve delle immagini come un trovarobe. Uno deve seguire un po’ la sua vocazione, la sua storia. / G.D.M. - Una delle accuse verso la nostra generazione è l’affinità con la scuola di New York. / F.A. - Vorrei proprio dire che si tratta di affinità, forse affinità nei modi operativi, nel modo di guardare, mentre la scelta dei temi è molto legata alla propria città. La Pop Art è legata a New York, ma un certo tipo di sensibilità è una cosa generale che esiste a New York come a Roma: voglio dire che ogni generazione ha il suo tipo di sensibilità. C’è un modo di guardare l’oggetto, pensa anche a Robbe-Grillet, riguardo al quale la Pop Art, come sensibilità, non è una cosa americana: è americana l’immensa quantità di miti e di immagini usate dagli artisti di New York. / G.D.M. -Hai detto prima che il collage nel senso classico non ti interessa. / F.A. - Nel 1963 questo modo di usare il collage come protagonista del quadro non c’era, il collage era usato più nel senso dell’assemblage, dell’insieme di molti frammenti. In questo quadro che si chiama Dalla creazione dell’uomo c’è una doppia immagine, l’immagine fotografica, più obiettiva, più vicina all’originale che ho voluto contrapporre ad una immagine soggettiva, trascritta manualmente, ricalcandola con la carta velina, cioè ho voluto dare nello stesso quadro due modi diversi di prendere contatto con l’immagine. / G.D.M. - Con i tuoi quadri ispirati a Michelangelo, che sono poi più recenti, hai abbandonato il collage. / F.A. - Sì, prima li disegno sulla tela bianca servendomi di un proiettore e poi dipingo a smalto. / G.D.M. - E queste riquadrature? / F.A. - È come creare un altro contesto individuando un punto del quadro e isolandolo, trattandolo diversamente: è un intervento, dato che col proiettore in fondo uno si limita solo a riportare l’immagine. Queste linee che fanno fedelmente parte della figura proiettata io non le guardo più rispetto alla figura ma le risolvo in una zona come una cosa astratta. / G.D.M. - E questi quadri con scorci di cielo, nuvole e palline? / F.A. - Li ho fatti nel ‘65, sono i cieli newyorkesi: io i cieli li facevo già nel ‘63, mi veniva proprio naturale inserirli in oggetti come le finestre e le persiane, poi li ho fatti come soggetto principale. Queste palline non hanno un carattere ironico anche se a New York in quel momento era talmente tutto Op che anche il cielo finiva per essere visto a palline, a strisce, a quadrettini. Direi che questi elementi diventano elementi grammaticali di un gioco, anche se uno mette un quadrato giallo vicino a un quadrato blu come in una opera costruttivista. Poi ci sono questi riquadri che sono come fotogrammi, che creano pezzi diversi, diversi quadri nello stesso quadro, più contesti sullo stesso piano. / G.D.M. - L’ultima che hai fatto è ancora una trascrizione da Michelangelo, il Peccato Originale della Cappella Sistina. / F.A. - Sì, è del ‘66, in questi ultimi mesi sono stato a New York e non ho fatto altro. In questo vi sono più colori perché è come se fosse un solo grande fotogramma, anzi un fumettone con parecchie figure, ma la struttura grafica del quadro e il modo di dare il colore hanno lo stesso significato che nei quadri precedenti». Bibliografia selezionata: − s.a., Festa, in «L’Espresso», 30 aprile (mostra citata). − s.a., Festa alla Salita, in «Momento Sera», 12 maggio. − A. BOVI, Festa, in «Il Messaggero», 16 maggio. − D. MOROSINI, Festa, in «Paese Sera», 27 maggio. «Lo stesso discorso può essere rifatto a rovescio per un giovane di formazione pop, come Tano Festa (agli antipodi dell’arte di movimento). Espone lavori tra il ’60 e il ’66 (alla Salita). Vuol far capire dove è andato, in questi anni, e dove va. Un cammino c’è, qui verso l’auto-coscienza e verso la consapevolezza tout court. Ma vediamo “come”. Dalla astrazione geometrica, ai trittici di legno e smalto con l’oggetto grezzo, appena “travestito” (i due battenti – neri – della persiana, accanto al pannello campito, bidimensionale, di azzurro cielo), alle variazioni tra affiche e fotogramma – sul Michelangelo della Sistina: queste ultime, sempre un po’ meno meccaniche coll’andar del tempo, tanto che sboccano altrove, versione del ’66, dove il “ricalco” michelangiolesco è traversato da vari piani di colore-luce (gialli, blu, azzurri, neri) e ritmi lineari della città d’oggi. A questo punto l’autore si pone altre domande, meno semplicistiche. Una, soprattutto: che riguarda la possibile “impasse” che sta davanti a chi crede di dire tutto (del presente e del passato) colla sola addizione della pittura al documento. Il quadro che pone meglio tale domanda è il recente Peccato originale, dove il mito incomincia a vivere tra di noi. L’ulteriore ostacolo da superare per Festa? Abbattere la barriera dell’effimero, direi. Riuscire, cioè a sbarazzarsi della troppa fiducia nelle risorse ironico-mimetiche del documento visivo atto a concedere all’artista il dovuto distacco per discriminare i valori creati dall’uomo. La tecnica della informazione (raramente persuasione) pubblicitaria va – in simili casi – ridimensionata (e capovolta, se occorre) dentro lo spessore vero della cultura e della storia. Secondo la logica – tanto per capirci – che fa di Rosenquist il pittore che è (dentro l’anonimato del gusto pop). Anzi, direi, più là dello stesso Rosenquist, se uno ce la fa (e ci tiene davvero a questo linguaggio)». Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna, 28 aprile Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Gino Marotta, Mimmo Rotella, Mario Schifano, Cesare Tacchi e Giuseppe Uncini espongono con Carla Accardi, Giuseppe Capogrossi, Claudio Cintoli, Lucio Del Pezzo e altri artisti nella mostra Il Museo sperimentale d’arte contemporanea. A cura di Germano Celant. Testi di Eugenio Battisti (Un’utopia realizzabile), Germano Celant (Situazione 67), Luigi Mallè (Per un museo sperimentale d’arte contemporanea) e Aldo Passoni (In ore di disagio una aperta fiducia nel mondo della tecnologia). L’Aja, Haags Gementemuseum, 29 aprile Giosetta Fioroni e Mario Schifano espongono con altri artisti nella mostra Arte italiana contemporanea. Legnano, Museo Pagani, maggio Gino Marotta partecipa con altri artisti allaIII Mostra Internazionale di Scultura. Bibliografia selezionata: − G. CAVAZINI, Aperta la terza mostra internazionale all’aperto – Sculture tra gli alberi alla Fondazione Pagani, in «Gazzetta di Parma», 27 maggio. − s.a., Mostre d’arte – Le sculture nel parco, in «Avanti», 28 maggio. Genova, Galleria Il Deposito, Gruppo Cooperativo di Boccadasse, 6 maggio Umberto Bignardi. Testo di Germano Celant. «Lo sviluppo macroscopico assunto dalle comunicazioni di massa, in particolare dal cinema e dalla televisione con i loro processi diacronici di presentazione delle immagini, conferisce oggi un’attualità a questi fenomeni e ai loro campi di significazione e di organizzazione linguistica. La presenza di nuove strutture iconografiche ispirate alla tecnica filmica, quali la foto narrazione o il fumetto, la cartellonistica mobile o le moving pictures, hanno infatti sollecitato nell’artista una riflessione estetica sul montaggio e sull’inquadratura delle immagini in movimento. Tra i diversi contributi creativi si è venuto caratterizzando un filone teso all’analisi degli elementi costitutivi del linguaggio cinematografico. L’interesse si è portato allo studio delle forme in movimento, sbriciolate in infinite immagini particolari, per ricercare una registrazione-creazione della genetica estetica del film. Una posizione che presenta due angolazioni critiche. L’una, intesa a sottolineare l’accumulo acritico della quantità impressionante di informazione visiva, si propone, nel presentare il fotogramma scandito nel tempo, di disallineare lo spettatore alla “visione disattenta” (Adorno), per ricordare come l’immagine diacronica si articoli in discorso mediante il montaggio e la successione di più fotogrammi. Una sorta di controllo che blocca il turbinio delle immagini per proporle “in moviola”, regredite ad “istantanee” per una comunicazione consapevole. L’altra, volta a creare una sorta di “scaletta” estetica mediante progetti figurali, tende alla strutturazione di una nuova iconografia filmica. Un tentativo di design proteso a produrre nuovi passaggi e nuove sequenze di immagini. Così in Bignardi, il cui lavoro si ispira alle ricerche di dinamismo dei fotogrammi di Muybridge, il disegno assume la doppia funzione di strumento d’analisi critica e di progetto per un nuovo design filmico. Le immagini di animali o di uomini in movimento formano sequenze di gesti di base, Il loro montaggio, organizzato secondo i tempi e gli spazi cinematografici, avviene per stacco, le figure “fingono” il movimento e si coniugano sulla superficie per rimandare il destinatario ad un film da farsi, richiedono allo spettatore una collaborazione, quella di dare al design la compiutezza dinamico-visiva che esse non hanno, ma a cui richiamano. A precisare la necessità di questa collaborazione ai momenti del disegno, Bignardi presenta 290 una chiara analogia grafica tra le lettere dell’alfabeto (indicazione linguistiche e temporali) e le figure, con il loro tratteggio sfondo e colore. Un intervento mimetico sottile che affascina e permette la partecipazione istintiva al movimento immaginario. In seguito, esaurito l’atteggiamento di fascinazione per questa lettura, la stessa analogia diventa strumento critico. Lo spettatore analizza i momenti dell’alfabeto visivo di Bignardi. Individua la coazione tra fonema e grafema, reagisce “per conto suo” al comportamento dei personaggi e alla genetica dei loro gesti. Parimenti nel “Fantavisore”, un programmatore di immagini su una superficie riflettente, l’atteggiamento critico segue la partecipazione emotiva. Le figure appaiono casualmente e gradatamente sullo schermo a formare un mosaico di immagini contrastanti ed interagenti. L’immaginazione rappresentativa del fatto filmico si arricchisce così della componente cinematica. Lo spettatore assomma, al fonema e al grafema, il cinema, realizza così il fatto cinematografico. Il design di Bignardi si concretizza, accentua il suo significato per arrivare a prospettare una nuova possibilità di specifico filmico». Germano Celant Roma, Galleria Carola Barbato, 9 maggio Gino Marotta espone con altri artisti nella mostra Oggetti di Design. Belgrado, Galerija Doma Omladine, 16 maggio Claudio Cintoli e Gino Marotta espongono con altri artisti nella mostra Dimenzije realnog. Testo di Enrico Crispolti (Dimensioni del reale). Roma, Galleria Il Fante di Spade, 19 maggio Titina Maselli. Bibliografia selezionata: − L. TRUCCHI, Maselli al Fante di Spade, in «Momento Sera», 27 maggio. «Ho già osservato in altre occasioni come la pittura di Titina Maselli non solo fa parte della vasta corrente neo-oggettiva ma, anzi, le sua storia – date alla mano – vada spesso interpretata come un caso, sia pure anomalo, di pop-art ante litteram. Ma se gli artisti pop partendo soprattutto da immagini indirette già elaborate della realtà, quali i fumetti, il reportage fotografico, la pubblicità, e cioè dagli idola e dai miti della civiltà di massa, approdano poi quasi ad una nuova metafisica, al contrario Titina Maselli operando una scelta personalissima e squisitamente intellettuale di alcuni brani di realtà da lei prediletti ed idealizzati e non badando a dipingere tanto le cose quanto i loro conflitti, resta nell’ambito di una narrazione ancora realistica, sebbene depurata al massimo così da risultare esemplarmente emblematica. La sua pittura è, quindi, pur nella voluta mancanza di enfasi, di passione, una pittura rapportuale ed umanistica, quanto quella pop è, invece, il più delle volte una pittura solitaria e merceologica. “Vorrei che i miei quadri – ha scritto Titina Maselli – fossero chiari come quelle scene che Chaplin ripete decine di volte, per accertarsi di essere capito...”. E ancora: “Io cerco sempre di rendere le cose nel modo più chiaro e più iperbolico possibile. L’iperbole non ha niente a che fare con l’enfasi. Il mio obiettivo è di cogliere la realtà (tanta realtà) in una sola cosa, in un solo momento”.Da questa breve ma illuminante dichiarazione di poetica appare evidente come la scelta volutamente rastremata e persino monotona operata dalla Maselli sia, alla pari, tanto una scelta di contenuti quanto di forme. Direi anzi che in lei il contenuto abbia di per sé stesso determinato e coinvolto la forma, il linguaggio. Contenuti, i suoi, tipici; scampoli di una più vasta realtà: la parte per il tutto, i dettagli per l’insieme, la parabola per il racconto. Anche in questa castità narrativa, in questa economia tematica così oculatamente mantenuta e tesaurizzata in anni e anni di ostinate “esercitazioni sul tema”, la Maselli dimostra la struttura e la radice culturale europea della sua particolare nuova oggettività. Ed il fatto per me sensazionale, sta proprio nella sua scelta oggettiva: una scelta azzardosa e, però, non abnorme ed eccentrica come può sembrare a prima vista, se è vero, come è vero, che la sua metropoli, i suoi notturni illuminati a raffiche dalle luci intermittenti delle insegne, gli sfreccianti subways, i grattacieli sinistri, e i boxeurs, i calciatori, gli anonimi frequentatori dei luncheonettes e degli stadi, gli vengono da ben lontano. Quando, circa diciotto anni fa, Titina Maselli, dipingeva i primi notturni, piazza Fiume che costituiva allora il suo prediletto punto di osservazione e di ispirazione, era poco più di una piazzola di periferia, in ogni caso un centro modesto, assai meno caotico di quel che non sia oggi, eppure quei notturni erano già quelli di una metropoli: nodi di fili fosforescenti contro il nero profondo del cielo, taxi in corsa, posteggi gremiti, scritte al neon e un senso vivo,ansioso del ritmo frenetico della grande città trasformavano la domestica piazza Fiume quasi in un angolo di Piccadilly o di Broadway. Titina Maselli era dunque nata per la grande città e difatti non conosco nessuno che sia strutturalmente più cittadino di lei. La sua stessa cultura pittorica prende le mosse dall’arte francese degli anni ’10-’20 quando, cioè, Parigi era la città per antonomasia. Il mito del progresso tecnologico, il culto della velocità e della macchina, il gusto degli spettacoli urbani non assumono perciò in lei alcun aspetto traumatizzante od esaltante: Titina Maselli è sempre stata “integrata”, hanno lavorato a spianarle il terreno verso una modernità totale la generazione dei Boccioni e dei Delaunay, dei Léger e dei Duchamp, coi i quali e dai quali incomincia appunto la sua ideale storia dell’arte. L’orfismo, il futurismo, il costruttivismo, non costituiscono per la Maselli dei revivals più o meno bene assimilati ma delle costanti, delle componenti che per lei divengono quasi ataviche, ereditarie, come per altri lo possono essere il barocco, il classico, l’arte popolare. Una scelta precoce e rabdomantica le fece scartare ancora giovanissima il tonalismo romano. Enfant du siècle Titina Maselli, nata e cresciuta in un ambiente dove pure la cultura romana dava forse i suoi frutti migliori, ha presto deragliato da quei binari già consunti, anche se capaci di portare ancora rari viaggiatori verso alcuni pochi itinerari avventurosamente squisiti. Certo, ed oggi ad anni di distanza possiamo dirlo, il suo percorso controcorrente fu tutt’altro che facile ed a suo modo quasi eroico, in quel silenzio cordiale che subito lo neutralizzò etichettandolo per una forma un po’ distorta (femminile forse!) dell’imperante neorealismo. Dopo una prima mostra all’Obelisco (1948) presentata da Corrado Alvaro ed una più matura nel 1951 alla galleria del Pincio, la Maselli partì per New York e qui ebbe la conferma completa della giustezza delle proprie scelte. D’allora fu soprattutto la forma, il linguaggio che si affinò e solidificò per meglio aderire a quel suo campionario di objets modernes, a quei suoi personaggi sempre più spogli di valori sentimentali sempre più legati al loro ambiente oggettivo. L’assenza di un ordine naturalista, la libera trascrizione geometrica degli oggetti, il forte contrasto di linee e volumi, di luci e di ombre, la ricerca del movimento e la tendenza a far rientrare nel quadro realtà e irrealtà, quasi applicando in forma nuova le teoria futuristica della “simultaneità degli stati d’animo plastici”, caratterizzano anche oggi l’iconografia lapidaria della Maselli. Tuttavia in queste opere recenti esposte al Fante di Spade, l’occhio della pittrice sembra tendere meno all’ingrandimento parossistico dell’oggetto. Più di un flash il suo occhio è oggi una veloce macchina da presa che corre sulle cose e ce ne dà una efficace sintesi. Da qui una maggiore purificazione compositiva, colori più forti ed essenziali, linee più semplici e geometriche ed un ritorno ai temi prediletti della prima giovinezza, ai paesaggi cittadini, ai tralicci di fili contro un irreale cielo rosso di tramonto, al fiume lento e monotono delle macchine tra le quinte di giganteschi palazzi. Un elemento nuovo, quasi astratto, illimpidisce, oggi, la concretezza oggettiva della Maselli quasi a conferire al suo Blow Up un suo particolare carattere estatico». Essen, Galerie M.E. Thelen, giugno Pino Pascali. Testo di Udo Kultermann. Roma, Galleria L’Attico, 8 giugno Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Jannis Kounellis, Pino Pascali e Mario Schifano espongono con Piero Gilardi e Michelangelo Pistoletto nella mostra Fuoco,Immagine, Acqua, Terra. Testi di Alberto Boatto (Lo spazio dello spettacolo)e di Maurizio Calvesi (Lo spazio degli elementi). «Il quadro, questa antiquata finestra affacciantesi sull’al di là, è riuscita sempre meno a trattenere nella sua eomice tutto lo spettacolo del mondo. Così si è incaricato Duchamp a sbatterci sugli occhi le imposte di quella finestra, dimostrando una volta per tutte nel suo irritante estremismo didattico che la rappresentazione, almeno di quel tipo, era finita. Calato il telone sull’illusione, lo spettacolo dall’al di là si è rovesciato nel di qua, e non rimandando più ad un “altrove” ma svolgendosi nel “qui”, d’ora in avanti occorre non già fingere bensì fare spettacolo. (...) Lo spettacolo delle immagini: Bignardi e Schifano – Bignardi e Schifano puntano sull’evento, creano uno spettacolo nel tempo attraverso rispettivamente un ritmo d’immagini e una sequenza d’immagini. Schifano ha sempre collegato l’immagine al tempo, cogliendola nell’istante veloce della sua apparizione e avvertendola nella sua relatività, come un’immagine che entri casualmente all’interno di un qualunque campo ottico. L’occhio è appunto il campo, fresco ma coltivato, vergine ma formato dalle immagini artificiali e dalla loro particolare qualità visiva. Se la realtà è simile a tanti nastri scorrenti davanti ad un obiettivo, per affermare un’immagine occorre rapidità di presa, ed allora il ricalco dell’immagine sulla tela va benissimo per fissarla e smaterializzandola conservare la sua leggerezza: l’atto risalta pari alla velocità dei nastri. Ma accanto alla rapidità della presa, la necessità di sottolineare la provvisorietà dell’immagine, di allontanarla, e Schifano ricorre sia ad una cornice attorno all’immagine (il campo, la sua artificialità), sia recentemente ad uno schermo materiale di plastica. L’immagine è ma può anche non essere e come è portata dall’istante, dal successivo viene cancellata e sostituita da una nuova. (...) Mentre Pistoletto rientra in un nodo culturale fra il surrealismo e la metafisica (la conoscenza ora passibile ma ridotta a visione, a conoscenza di superficie), un nodo che ha intersecato il realismo ed in lui precisamente la brutalità dei pop, Schifano come Bignardi è piuttosto sulla linea dell’impressionismo e del futurismo con agganci al pop più veloci e felici. Passare ora al cinema non è che uno sconfinamento logico; disporre cioè di un obiettivo più aderente al trascorrere del mondo su cui si è sempre affacciata la sua pittura, allargare la partecipazione ad una pluralità d’immagini. (...) Con Schifano Bignardi punta sullo spettacolo temporale delle immagini: ma possiede una concezione del tempo più astratta e mentale. Per quanto mediato, riportato al ritmo delle immagini artificiali, il tempo di Schifano è ancora quello dell’io o di un occhio individuale, lirico: per Bignardi il tempo è rigidamente meccanico, scorre secondo lo scatto dell’obiettivo: non è tanto istante o successione quanto scansione, ritmo spezzato e ripetizione così che può ritornare al punto di partenza e ricominciare da capo annullarsi ogni volta ed ogni volta riprendere. Il campo naturale è già assorbito e risolto nel tempo della macchina, per cui in Bignardi l’impressionismo cede alla visione della foto stroboscopica e per questo l’artista è creatore di macchine cinetiche che rendono effettivo il movimento delle immagini. E recentemente poi l’adozione di un supporto cilindrico per le immagini, fa sì che il flusso ritornante sia anche ruotante, concluso in sé, non possieda né principio né fine, non entri più nemmeno in rapporto con una cornice statica. (...) La pantomima: Ceroli – Ceroli ci riporta insieme alla fisicità dell’oggetto e ad una porzione di spazio occupata spettacolarmente attraverso la ripetizione prima ritmica e quindi dislocata delle sagome. Il tempo poi sfrangia 291 questa situazione circoscritta, la percorre, spinge, al contrario di quanto accade in Pistoletto, la staticità versa il movimento, la stasi verso l’evento, idealmente infatti le sue figure partono dalla stasi della metafisica, ma fortunatamente vengano poi scaraventate fuori da quello spazio e da quel teatro illusionistico, verso uno spazio ed un teatro effettivi e giornalieri. Anche qui la rappresentazione ha ceduto alla presenza, e la presenza necessita di una veste reale: il legno e la falegnameria rappresentano la traduzione a livello quotidiano e concreto ma sempre tradizionale della loro aulicità di partenza. Incontrandosi con la realtà il personaggio si è moltiplicato, è scaduto a folla, ha invaso lo spazio con la liturgia di tutte le folle che si muovono, salgono e scendono la scalinata, avanzano riunite, siedono sulla panca e sulla seggetta, ballano lo yé-yé. Di questo spettacolo le sagome sono protagoniste, un gradino almeno più in su della messa in scena, però al pari dello spettatore chiamato ancora una volta a sostenere un ruolo inventivo di partner nei confronti delle silhouette appiattite. Ed è questa partecipazione del partner che, portando il tempo nella dimensione dello spazio scenografico, trasforma la rigidità in evento. (...) Lo spettacolo degli elementi primordiali: Kounellis e Pascali – Alla falsa terra e al falso mare di Gilardi, Kounellis contrappone l’autentico fuoco, Pascali la vera terra e la vera acqua dissetante e trasparente: Kounellis e Pascali ritrovano così gli elementi primordiali, le materie prime di cui gli antichi pensavano essere fatto l’universo. Il ritrovamento non è più iconografico, ma franco, diretto e reale. Dopo il segno della natura nei paesaggi di Schifano, nel mare di Lichtenstein, nei fiori di Warhol, nelle rose di Kounellis, nelle farfalle di Ceroli, dopo il falso naturale di Gilardi, ecco che due giovani artisti riscoprono le materie che compongono il mondo creando con esse una spettacolo. Il ritrovamento è importante, poiché il quadro di questa operazione è ancora quello fissato da Pistoletto: cioè è nel quadro di una spazio tecnico, funzionale, come lo è lo spazio della città e dei suoi sogni, che avviene il ritrovamento. C’è voluta la fine della rappresentazione così facile a fingere l’acqua, il fuoco, la terra, il ritorno al senso fisico della presenza, della materia, dell’oggetto, perché fosse possibile riproporre non come evasione ma come realtà questi elementi primi. Kounellis li ritrova lungo il senso della sua fantasticheria contemplativa, avvertita ora come una dimensione del reale, al punto che nella rosa di fiamme il fantastico alla lettera prende fuoco. Pascali lungo la sua dispotica dimensione di favole, di ammobiliare la spazio coi suoi sogni, di portare allo scoperto e nella concretezza, ritrova l’acqua nelle sue pozzanghere colorate. Fantastico, sogno oppure infanzia circolano nella realtà, entrano nella spazio e lo ingombrano, tracciano in Pascali lunghi movimenti al rallentatore come di chi si trova silenziosamente e biancamente trasportato a sua insaputa in una perduta dimensione di favola: oppure in Kounellis muovono i passi concentrici attorno alla corolla fiammeggiante, dove il più sottile degli elementi esercita il suo aereo incantamento, celebra la liturgia del fuoco. Queste materie vengono fuori alla fine dell’avventura dell’artificiale, percorrendola sino in fondo e tenendola sempre presente. Tuttavia il limite aperto segnato da Pistoletto può ancora una volta servirci: entro questo limite infatti che tutto raccoglie, il fuoco, l’acqua e la terra congiungendosi tra loro e trascinando alla fine nella loro suggestione anche il legno, lo specchio e la stessa luce artificiale finiscono per delineare un’ipotesi di nuova natura, uno stato di naturalità ritrovata, di primitività radicata e riaffiorante. È questo supplemento di natura e non già risarcimento compensatorio come accadeva nell’informale, il possibile significato della spettacolo che ricompone unitariamente la cornice riflettente di Pistoletto». Alberto Boatto «Scriveva nel 1913 Ardengo Soffici rivolto al pubblico: “la critica italiana, responsabile di ogni vostra ignoranza, è di una imbecillità e ignominia tali da disonorare per sempre il paese che la tollera”. La situazione forse non è cambiata e non resta che girare la citazione ai direttori dei grandi quotidiani italiani (tranne rarissime eccezione, certo). Pure un merito la ha, questa critica , ed è di confermare la nostra fiducia nella necessità dell’avanguardia. (...) Ma pardon! è uno sfogo che non c’entra con lo spirito lucido e sereno di questi artisti e di questa mostra. Il fiore di fuoco di Kounellis non è fatto per bollare i “professori ubriaconi e ignoranti” di futuristica memoria. È fatto per proporre, dopo i colori primi, gli elementi in pittura: insieme all’acqua e alla terra delle pozzanghere di Pascali. È quasi la conseguenza logica di un interesse trasferito, dalla tavolozza, alla materia, ma con quello stesso amore del semplice, dell’assoluto che animò la polemica dei divisionisti, dei fauves, di Mondrian contro gli impasti pittorici. Un simile “divisionismo” della materia che porta all’accostamento dei suoi mitici elementi, sta paradossalmente in questo stesso rapporto al materialismo informale. E c’è anche la terra come concretezza, rappresentata dal legno di Ceroli, ex-allievo di uno scultore fedele alla creta come Leoncillo e che poi corrisponde ad una confessione delle origini: il legno-terra che è il suo Abruzzo montagnoso come il fuoco del greco Kounellis è la fiamma di Prometeo e di Olimpia, e l’acqua di Pascali è di nuovo il mare, Bari (anche i bianchi animali decapitati si ritrovano, del resto, sui portali di San Nicola). L’aria? L’aria è inglobata da tutti, è l’elemento fisico dello spazio che costituisce il tema stesso di questa mostra. (...) La somma degli elementi cromatici, nella spazio divisionista, è la luce. Qui invece la luce non ha una preminenza gerarchica, non è che un altro elemento primo, come nelle macchine di Bignardi. È il quinto elemento, che Aristotele identificava nell’etere. E ancora all’epoca del divisionismo si credeva che la luce fosse immateriale e si trasmettesse nell’etere. Einstein ha visto che l’etere è una fantasia e che la luce è materia, e già simultaneamente a lui i futuristi pensarono alla luce (elettrica) come semplice elemento di una composizione “polimaterica”. Dileguato, con l’etere, l’ultimo punto fermo dell’universo, si aprì la dimensione della relatività e del continuo spazio-temporale. In Bignardi, direi, questo continuo è proprio l’immagine-luce nelle sue se- quenze e combinazioni: egli, insomma, dilata ed articola il suo spazio anche nel tempo, lo identifica conla luce in un’idea di flusso. Acqua, fuoco, terra, aria erano i principi della materia vivente, in sostanza componevano un’allegoria della vita. E certo qui è chiara la convergenza arte-vita: convergenza ma non identità. C’è un rapporto d’attrazione dialettica, una nuova dialettica. (…) Il dialogo principale è tra immagine e realtà, spazio e ambiente, materia e forma. Il pregio di questo dialogo è di non concludere ma di prenderci nel rimpallo, più a meno traumaticamente, più a meno dolcemente. La natura di Pascali è forma e quindi spazio, mentre è anche materia ed ambiente. In Pistoletto la dialettica non è, come in Pascali, di forma-materia, ma di immagine-realtà e si risolve in una prevaricazione della seconda sulla prima. Lo specchio non è quella cosa che riduce la realtà ad immagine, pur dando dell’immagine la versione più realistica che si possa desiderare? In Gilardi la natura non è forma, all’opposto di Pascali. La sua dialettica è, proprio come per Pistoletto, fra immagine e realtà: ma ad un livello degradato. Infatti vi assistiamo (momento costitutivo) ad una diminuzione, post-romantica e borghese, della realtà a “natura” e nel contempo (momento dell’immagine) ad una falsificazione della natura, e proprio dei suoi connotati più miticamente genuini: dunque a sua volta l’immagine è degradata ad artificio e in ultima analisi la prevaricazione dell’immagine sulla realtà viene a significare la sconfitta del mito, o meglio (o peggio) il sua asservimento, ad opera di una tecnica mistificatrice. Sia Pascali che Gilardi, comunque, “producono” natura. Ma mentre Pascali integra all’idea di natura la concretezza della forma e condensa l’ambiente in spazio, Gilardi giuoca su una scambio di ambienti e non integra ma contrappone, in una sintesi sola illusiva, natura e tecnica. I suoi grandi rotoli sono come il cappello del prestigiatore, da cui escono a frotte colombe (o gabbiani) e mazzi di fiori (o metri di prato) e il pubblico gode di quello che però sa bene essere un trucco. Immagine e realtà, forma e materia dialettizzano nel teatro di Ceroli: dove le assi del palcoscenico si sono drizzate per assumere fisionomie di personaggi. C’è però un comporsi, interno all’opera stessa, di questi estremi. Se non fosse così formalizzata, l’immagine non potrebbe attribuirsi un simile supporto, irreale rispetto al soggetto, brutalmente reale in sé, come il legno. Si dà cioè l’opposto di Pistoletto, la cui immagine (applicata sulla superficie specchiante) non è affatto formalizzata, anche se sospesa nell’attimo catturante del primo riconoscimento: deve competere con le immagini specchiate e quindi essere ingannevole, pura immagine, praticamente senza supporto e senza materia. (…) Con Pistoletto sei immerso in uno spazio dove tu stesso agisci incontrollato e che puoi modificare. È anche quello di Pistoletto spettacolo, ma c’è la stessa differenza, appunto, che tra teatro e happening. In Schifano l’uso dell’immagine non è dialettico o competitivo con la realtà, ma apodittico, nel senso che si autagiustifica. Se gli altri, per aprirsi allo spazio, aboliscono lo schermo protettivo (del dipinto intendo) Schifano moltiplica il giuoco degli schermi. L’immagine è “la cosa”: l’immagine che vive nell’aria-luce, l’aria-luce del sua neo-impressionismo e neo-futurismo. L’aria-luce è ora nella materia proiezione, il veicolo dell’immagine, il suo più conseguente modo di spazializzarsi. L’immagine infatti è pur sempre l’unica essenza di realtà, per una capacità infantile e pulita di sognare. Con anima, Io sono infantile, sono titoli di quadri di Schifano. Ad uno dei suoi bambini, di nome Schi, Piaget rivolge alcune domande: “Con che cosa si sogna?” – “Con l’anima” risponde Schi. “Dov‘è il sogno?” – “È quando si vede nero che il sogno viene”. “Ma dov’è?” – “Davanti agli occhi, e va contro il muro”. È proprio il cinema di Schifano. (…) Anche quando l’immagine è impegnata, come in queste proiezioni sul Vietnam, ricordo ossessivo e incubo più che sogno (Tutt’a un tratto la cosa ritorna nella nostra anima, così ancora Schi descrive ricordo), il feticismo dell’immagine come tale è palese. È un feticismo del vedere, che qui dunque Schifano realizza non più trasportando il veduto sulla tela, ma prestandovi attraverso l’obbiettivo il suo occhio feticista, profano e gentile. Religioso e brusco, al contrario, è Kounellis, che vorrebbe prestarci il suo cuore e magari il suo cervello. Anche Kounellis infatti cerca un’essenza, ma non la trova con l’occhio, perché è l’essenza irriducibile del sacro. Davvero il suo fuoco, prima che un elemento visivo, è quasi un simbolo, un fulcro, un mitico ombelico di realtà: un elemento non di accesso o di incontro con il reale, ma di iniziazione ad un reale che si allontana mentre ne sei preso, come un punto all’infinito, e potrebbe risucchiarti nella pura contemplazione. Tornando al tema dello spazio, lo sconfinare dello spazio formale nell’ambiente e il mutarsi della rappresentazione in presenza, corrispondono alla sostituzione di uno spazio retrospettivo in quanto ri-cordato, ri-proposto, ri-evocato, con uno spazio flagrante, accordato (con il reale), proposto, evocato alla pura attualità. Scopriamo che persino l’hic et nunc degli informali era una religione del tempo, cioè una nostalgia del passato, una fiducia nel presente, punto sfuggente e inafferrabile, una paura del futuro. Qui invece passato e futuro risultano cancellati, o mere appendici mentre il presente ha una sua larga piattaforma, non di tempo ma di spazio (di tempo-spazio). Attualità è presenza simultanea, percezione di più cose intorno a noi: è dislocarsi (muoversi) a dislocare simbolicamente attraverso le immagini o le sensazioni le cose verso di noi (televisione, arte di reportage, arte spaziale, arte psicodetica). Più in assoluto, infatti, più “primariamente” oin questo caso più “elementarmente”, l’attualità non è che una convergenza e una cattura di spazi, un giuoco possessivo il più possibile esteso e coinvolgente, e anche in questo senso queste opere che si dislocano e ci dislocano sono attuali». Maurizio Calvesi Bibliografia selezionata: − M. DIACONO, s.t., in «bit», luglio. «Sotto il tema “Lo spazio dello spettacolo: lo spazio degli elementi” sono raccolte opere recentissime di Bignardi, Schifano, Kounellis, Pascali, Ceroli, Gilardi e Pistoletto. 292 L’assemblage è forse eterogeneo almeno nel senso che le due opere esposte di Gilardi e Pistoletto rimangono statiche nei confronti della dinamicità o chiara spettacolarità delle altre. Neppure i due temi, quello dello spettacolo e quello degli elementi primordiali convergono in una lettura mono-dimensionale: sono più accostati che fusi. Comunque, da anni non ricordavo a Roma una mostra così provocante, almeno come progetto di alcuni pittori di gettarsi nell’esperienza, non molto frequentata finora in Europa, del quadro-evento. In questo senso, è suscettibile di essere quadro-spettacolo ogni opera in cui uno degli elementi che lo compongono sta in un divenire incessante e allora sarà soprattutto l’opera che “va a film”, come le auto vanno a benzina, a costituire un optimum di quadro-spettacolo. Però, per le due opere di Bignardi e Schifano, forse non è ancora oziosa la domanda: lo spettacolo, sta nel film o nell’opera? Perché l’opera è ancora “muta”, quando la pellicola tace; sicché l’opera-spettacolo sta per ora al primo gradino dell’operazione combinatoria. Però qui non c’è solo genericamente “spettacolo”, ma specificamente lo spettacolo del primario e del primordiale: terra, aria, acqua, fuoco. Sarebbe forse possibile una lettura anche in chiave simbolica dell’acqua e della terra di Pascali, del fuoco di Kounellis, però attraverso una psicoanalisi del pittore più che dell’opera. Questa, chiaramente, vuole restare nell’ambito d’una ricostruzione genetica della physis, evocata come spettacolo del suo stadio germinale elementare; l’acqua è proprio l’acqua, il fuoco è fatto di fiamma, ecc.: gli elementi nel loro darsi come fatti primi fisici, sensuali, non mentali. (…)». − L. TRUCCHI, Collettiva all’Attico, in «Momento Sera», 15 luglio. «Non sono del tutto convinta – come scrive l’amico Boatto nella sua presentazione a questa bella collettiva di fine stagione allestita all’Attico – che il quadro sia ormai una “antiquata finestra” che non riesce più a trattenere negli angusti limiti della cornice, tutto lo spettacolo del mondo, a tal punto che l’artista deve ormai creare degli spettacoli “per se stesso e senza altri testimoni”. Non sono convinta perché ritengo che il quadro non sia “lo spettacolo del mondo” ma l’antispettacolo, il talismano del mondo. La visione del pittore è infatti un modo di “vedere e di avere a distanza”, un modo, insieme fisico e metafisico, di possedere il reale oltre il reale stesso e non di raccontare o di parafrasare lo spettacolo del mondo. Ciò non toglie, sia chiaro, che l’esigenza dell’artista di uscire dai limiti tradizionali della cornice e della statua e di cercare spazi più ampi e duttili, sia legittima. Del resto questa esigenza chi si constata sempre più visitando le grandi mostre internazionali e che, proprio in questi giorni, ha dato luogo alla interessante rassegna di Foligno, non cambia affatto il concetto della visione che permane identico anche se lo spazio in cui si effettua non è più quello tradizionale. Voglio dire, cioè, che pur in un nuovo, più vasto “campo” spaziale e temporale, l’artista compie, a ben vedere, la suaoperazione visionaria, ed il suo occhio sempre revisionista crea più che uno spettacolo un talismano: il talismano del mondo. Ed è questo aspetto magico, profondamente enigmatico, anche là dove pare più esplicito, che mi pare la caratteristica comune delle opere dei sette artisti riuniti all’Attico: Bignardi, Ceroli, Gilardi, Kounellis, Pascali, Pistoletto, Schifano. Ho parlato già altre volte di questi artisti, sia con aperti elogi sia con qualche riserva; ma qui, in questa eterogenea eppure armoniosa promiscuità, le loro diverse personalità si impongono. La grande sala all’Attico è stata trasformata in uno spazio molto suggestivo, esemplarmente attuale. Una sala così com’è, con il suo forte peso di “evento”, esemplifica molto bene una nostra situazione artistica, tra le più vitali ed autonome, capace di reggere gagliardamente il confronto con altre espressioni della giovane arte americana ed europea. Una sala, insomma, che non sfigurerebbe in nessuna rassegna internazionale di avanguardia». − s.a.,Arte come spettacolo all’“Attico”, in «Momento Sera», 31 luglio. Macerata, Galleria Scipione, 9 giugno Mario Schifano Bibliografia selezionata: − M. MERCURI, Perplessità su Schifano, in «Il Resto del Carlino», 6 giugno. «(...) Qualche critico più “ferrato” e più “aggiornato”, di noi, scriverebbe magari che il discorso pittorico dell’artista “nonostante ogni apparenza è tutto nella pittura”, direbbe forse che ogni foglio è una pagina comunque schiarita, con poche efficaci illuminazioni di colore, con segni di vario significato intesi come nervature logiche del dire e del narrare pittorico d’avanguardia. Qualche critico direbbe queste ed altre cose ancora, ma noi, piuttosto “provinciali” e per nulla “allineati”, possiamo solo dire che Schifano pittore, in questa occasione, ha “snobbato” la città, con quadri allineati solo con quel fenomeno conforme ai tanti capaci di increspare la superficie del costume, senza rinnovare la sostanza. Nelle opere esposte infatti, per la maggior parte collages, è dato ritrovare solo una monotona ricorrenza di motivi grafici contornanti poco azzurro, il bianco, il nero, un tocco di verde, tanto da poter individuare solo una piccola dose di buon gusto decorativo e una evidente carenza di elementi concreti, una “parvenza di rivelazione e una mancanza di creazione”, come direbbe Henry Michaux. Essi infatti presentano un “paesaggio anemico”, quasi leucemico, pezzi colmi di “indistinto”, che non è l’infinito, ma un succedaneo di specie ambigua, qualcosa insomma di epidermico che nasce da una forza che stimola ma non appaga, suggerisce ma non dice, qualcosa sospeso fra cielo e terra, simile a un satellite artificiale dal quale l’uomo non attenda più suggerimenti perché anche l’ultima batteria solare ha perso le residua carica, annunciando una inevitabile, silenziosa disintegrazione. (...)». Roma, Galleria Qui Arte Contemporanea, 21 giugno Jannis Kounellis, Sergio Lombardo, Pino Pascali e Giuseppe Uncini espongono con Renato Livi e Carlo Lorenzetti nella mostra La terza dimensione. A cura di Marisa Volpi. «Gli artisti che esponiamo non hanno alcuna relazione tra di loro, se non forse Pascali e Kounellis per amicizia e comunità di intenti creativi. Schematicamente si può dire che una parte di essi fanno spettacolo (Kounellis, Pascali, Lombardo), un’altra architettura (Uncini, Lorenzetti, Livi). Ma per alcuni, come Lorenzetti e Pascali, la definizione si può agevolmente invertire. Quello che è certo è che nessuno di essi si serve più della pittura e della scultura in senso tradizionale: o intendono dar luogo allo “choc” di un evento, ritrovando la poesia in un continuo rovesciamento dei termini natura-artificio, o esplorano lo spazio, dando alla geometria una funzione vitale, animata, campartecipe degli elementi fisici dello spazio reale (il vento in certe sculture di Lorenzetti, la luce e l’ombra nelle sculture di Uncini, ecc.). (...) Uncini proviene dall’informale, dalla parete di cemento e metallo. Dopo aveme decantato la materia in un ordine geometrico dinamico, ha risolto di sostituire alla materia lo spazio, e ora l’alluminio satinato si articola in movimenti progettati accuratamente, lasciando un più libero slancio alla fantasia concreta, artigianale che lo ha sempre isolato in una sorta di passionalità e rigore “antichi”. (...) Se per Uncini, Lorenzetti e Livi il discorso riguarda la forma assunta dall’oggetto-metalto, dall’oggetto-quadro, come agenti su di noi “dopo” la progettazione, in Kounellis, Pascali e Lombardo la creazione dell’oggetto richiede attenzione lungo tutto il suo percorso, come per un quadro di Pollock, o un allestimento di Warhol: in essi permane il senso del gesto dada-informale-pop. Lombardo per esempio prende una forma tricuspidata, un tronco d’albero, una curva, compone sulla loro sconcertante banalità pezzi di scala grandiosa nelle proporzioni e nei rapporti. L’opera comincia già nel momento della scelta iconografica e dei materiali (formica), come intenzione provocatrice e polemica. L’artista intende dare importanza all’ovvio e la geometria non è certo usata in funzione sublimante. Pascati e Kounellis intendono portare lo “choc” della vita in una tradizione artistica isterilita dalla forma. Intento evidentemente non nuovo, ma sono assolutamente nuovi i mezzi di cui essi si servono: dal carattere mistificante dei materiali usati che per converso demistifica la violenza immaginativa di cui sono essi stessi intelligenti ed ironici fautori, all’aspetto coinvolgente, spettacolare delle loro invenzioni, alla necessità di sfuggire con esse ogni significato estetico. Fiori di cotone attaccati con bottoni automatici, fiori di bronzo con la fiamma vera, gabbie di uccelli veri disposte a cornice di un quadro con fiori di cotone (Kounellis), pezzi di barche che calano a picco; pesci, trofei di caccia, tutto immacolatamente bianco (o nero), decolorato si direbbe (un mondo dopo il diluvio), pozzanghere d’acqua vera, cubi di terra vera (Pascali). (...) Gli artisti esposti rispondono a nostro avviso, in modo sia pure del tutto diverso, a questa stessa esigenza di invadere lo spazio reale, di sottoporlo alla loro fantasia». Marisa Volpi Bibliografia selezionata: − L. TRUCCHI, Terza dimensione a “Qui Arte Contemporanea”, in «Momento Sera», 15 luglio. «Se la collettiva all’Attico si propone indirettamente di indagare le possibilità di dilatare e ambientare l’immagine oltre i limiti tradizionali del quadro e della scultura, la mostra allestita, a cura di Marisa Volpi, nella sede della rivista Qui Arte Contemporanea, parte da una premessa speculativa e critica ben precisa: la terza dimensione. L’interesse dell’esposizione sta soprattutto nell’aver avvicinato sei artisti – Kounellis, Livi, Lombardo, Lorenzetti, Pascali, Uncini – di estrazione diversa, ma tutti egualmente impegnati in questa ricerca. Prova, anche questa, che dopo molte divisioni di tendenza ci si accorge finalmente che non sono tanto le formulazioni formali quanto i comuni risultati che contano e vanno analizzati. Esattamente come nei primi anni del secolo, quando le ricerche dei fauves, dei cubisti, dei futuristi, tendevano, sia pure in modi difformi, ad una trasformazione e persino distruzione dell’ottica tradizionale, così oggi gli artisti, pur operando su campi linguisticamente diversi, perseguono risultati similari o, quanto meno, concomitanti. Uno di questi comuni temi di indagine è, appunto, la terza dimensione, la rottura cioè dei consueti argini spaziali e temporali, l’abolizione del limite della bidimensionalità. Un limite, osserva Marisa Volpi, ormai “contestato dal bisogno di vivere e far vivere direttamente nello spazio che ci circonda, di rendere questo spazio fantastico, regolato, adatto al ritmo assolutamente nuovo dell’esistenza moderna e ad una sensibilità insieme più schietta e più spregiudicata, ma anche più inerme e più pericolosamente compressa dalla quantità enorme di stimolazioni insensate cui la sottopone il conformismo della civiltà industriale”». Roma, Calcografia Nazionale, 24 giugno Luca Patella. Senza peso: films e diapositive. Presentazione di Alberto Boatto. Spoleto, Palazzo Ancaiani, 30 giugno Franco Angeli, Tano Festa, Jannis Kounellis, Pino Pascali e Cesare Tacchi espongono con Ettore Innocente, Eliseo Mattiacci e altri artisti nella mostra Undici artisti italiani negli anni Sessanta all’interno del Festival dei Due Mondi. Bibliografia selezionata: − s.a., La mostra degli “artisti degli anni Sessanta”, in «Il Tempo», Roma, 3 luglio. − G. DEL RE, Una mostra per soli magri, in «Il Messaggero», 4 luglio. Spoleto, Palazzo Ancaiani, 30 giugno Tano Festa espone con altri artisti nella mostra Disegni italiani moderni. Testo di Giovanni Carandente. 293 Carrara, Palazzo del Comune, luglio Gino Marotta partecipa con altri artisti alla V Biennale Internazionale di scultura. Testo di Mario De Micheli. Foligno, Palazzo Trinci, 2 luglio Mario Ceroli, Tano Festa, Gino Marotta e Pino Pascali espongono con Gianni Colombo. Enrico Castellani e Eliseo Mattiacci nella mostra Lo spazio dell’immagine. Testi di Umbro Apollonio, Giulio Carlo Argan, Palma Bucarelli, Maurizio Calvesi, Germano Celant, Giorgio De Marchis, Gillo Dorfles, Christopher Finch, Udo Kultermann, Giuseppe Marchiori, Lara Vinca Masini. «(...) L’ultima avventura romantica dell’arte moderna aveva visto una contrapposizione responsabile di ricerche avviate con rigorosi metodi scientifici e con un severo impegno morale. Senza confondere arte e scienza, arte e tecnologia, ma impostandone il rapporto su basi realistiche, di solida consistenza teorica, gli agguerriti sperimentatori hanno operato e operano con la certezza di contribuire alla creazione di un coordinato sistema, in cui le ipotesi di spazio trovino conferma, costituendo in essi necessari della struttura di una nuova visione. (...)». Giuseppe Marchiori «(...) Che si stia vivendo un processo di trasformazione dei modi espressivi, ma anche delle operazioni economiche che ne dovrebbero curare l’espansione pare innegabile, tanto evidenti sono i segni della misura di crisi cui si è giunti. Basta del resto guardarsi intorno nel campo della pratica e chiedersi chi mai è in grado di acquisire, poniamo, la Stanza da bagno bianca (1962) di Jim Dine oppure la Cassa Sistina (1966) di Mario Ceroli oppure L’ultima missione del Dr. Schweitzer (1965-66) di Öyvind Fahlström oppure Ambiente multidimensionale (1966) del Gruppo T: non nel senso del costo, ma in quanto a sufficienza di adeguato callocamento. E poi, domandiamaci ancora: è questo l’obiettivo cui mirano? (...) Il compito più arduo che viene oggi delegato alla creatività contemporanea sta nel contestare razionalità e scientifismo senza per altro sconfessare gli utili che di quelli si ricavano: nel realizzo cioè di opere che si plasmino all’interno di quei processi logici, non ne sovvertano la catena strutturale, non concedano a ibridismi di sorta. Va presa insomma in considerazione una certa autonomia sintagmatica che si levi grazie al discoprimento di un metodo dal quale non sia proscritto l’apporto immaginativo, ma questo sia soltanto controllato, impedito di mortificare la sua funzione ad un pretto risalto controverso per grado evocativo o elusivo. Questi spazi, questi ambienti che diversi si sono provati di erigere a livello estetico della più estesa fruizione pretendono più ancora: di conquistare l’area urbana, così da divenire discorso comune, realtà condivisa e chiarificata. (...) È questa la dimensione che si ricerca, il centro focale che saldi realtà e trascendenza, e quella che prefigura un ordine coesivo e soddisfatto, qualunque divisa possa indossare diversa da quella rassegnata o conservatrice. L’integrarsi di natura e vita rimane un problema, è comunque una probabilità, ma essa fa parte della nostra coscienza, nè risultano alla fine tra le più concrete che mettano a disposizione di tutti una peculiarità garantita ad ogni livello e sulla quale quindi le ipoteche non possono essere che privilegiate». Umbro Apollonio «“Un’analisi sperimentale dello sviluppo mentale – scrive Guido Petter introducendo Piaget (1966) – può permettere di distinguere, nella struttura di una nozione che all’indagine epistemologica si presenta ormai interamente formata, ciò che vi è di primario e ciò che vi è di derivato o di inessenziale, dando a tale struttura il necessario rilievo e permettendo di cogliere in modo più completo le operazioni mentali dalle quali essa ha origine, o che essa implica. Un esempio (...): risulta che sul piano della rappresentazione dei rapporti spaziali i primi rapporti correttamente utilizzati da un bambino sono quelli di ordine topologico, e che solo con qualche anno di ritardo vengono utilizzati in modo corretto anche i rapporti euclidei; ai dati di questa analisi genetica corrisponde perfettamente il fatto che, nella storia della matematica, la topologia si è sviluppata – come conoscenza sistematica e riflessa nei rapporti topologici – venti secoli dopo la geometria euclidea, in armonia con il principio secondo il quale si prende coscienza tanto più tardi di certi rapporti quanto più essi hanno nella nostra vita mentale un carattere primario, fondamentale”. Questo è utile per comprendere di che tipo è la critica che si può muovere, in arte, al razionalismo, come applicazione di una “assiomatica della ragione”, per dirla ancora con Piaget e con Petter, cioè di una logica intesa come “modello di quello che dovrebbe essere un pensiero che avesse raggiunto un completo sviluppo e fosse del tutto esente da errori”. La critica può nascere non già da un’assurda incomprensibile mozione di “irrazionalismo” negativamente anarchico; ma da un bisogno di approfondimento e riscoperta di elementi fondamentali che il razionalismo, operando all’apice genetico-storico dello sviluppo del pensiero umano, ha necessariamente cancellati. (...) È il caso appunto della topologia che si sviluppa, in matematica, con netto ritardo su una geometria di antichissima impostazione euclidea; ed è concordante che proprio un interesse topotogico, succedendo al coordinamento mentale ancora euclideo di Mondrian e degli astratti, si sia affermato nell’attuale momento “oggettuale” dell’arte, di cui la pop è stata una delle manifestazioni più vistose. E certo non c’è conseguenza più esplicita di una visione topologica dell’oggetto, e quindi dello spazio, che eliminare lo spazio come rappresentazione ed esprimerlo come realtà, invaderlo, viverlo. Siamo, come è facile comprendere, al tema di questa mostra; ma l’abbiamo appena sfiorato, non certo esaurito nelle sue ragioni. La topologia non ci rimanda infatti che ad una delle strutture primarie di cui si cerca il recupero: strutture primarie che dunque, a loro volta, non saranno soltanto quelle che oggi si arrogano l’esclusiva della definizione, avendo poi diritto a questa definizione solo a metà: solo nella misura, voglio dire, di cui l’occupazione di spazio che ci propongono è realmente primaria; solo nella misura in cui si tratta di un fondamentale possesso dello spazio. Altre volte potrebbe infatti trattarsi di un formalismo accademico che, abbandonato il limbo ottocentesco dell’interiorità e dello psicologismo, abbracci la megalomania dell’esibizione. (...) Ma strutture primarie, tornando al discorso, son tutte le strutture elementari sia fisiche che psichiche, gli elementi fondamentali che l’arte oggi ripropone alla nostra attenzione coinvolgendoci anche spazialmente nel suo “campo”: dagli stessi elementi fisici primordiali che alcuni artisti romani hanno appena introdotto nelle loro ricerche, fino alla ventilata estetica psicodelica, riallacciantesi quest’ultima ad esperienze che in sostanza tendono ad individuare la “struttura primaria” di una conoscenza ontologica e trascendentale, o magica.In comune c’è l’aspirazione a recuperare un dato primordiale, inerente alla nascita di noi stessi, del mondo. L’indagine delle strutture del primario è un tipico tratto, se ci si riflette, della cultura contemporanea, ed ha fasi parallele, proprio, alla preparazione e allo svolgimento delle avanguardie, dal tardo Ottocento in poi. Freud le ha cercate nell’inconscio, collegando, l’inconscio all’infanzia; Stanley Hall e Piaget le hanno cercate nel bambino; gli etnologi, da Lévy-Bruhl a Lévi-Strauss, nel selvaggio collegando, anche, il selvaggio al bambino; Köhler nella percezione. Futurismo e surrealismo si sono occupati delle due fondamentali strutture del primario, l’infantile e l’inconscio. Maria Montessori ha insegnato, sul piano educativo, il rispetto del bambino. Con Jung il primario è diventato archetipico e invocando il recupero dello “stato infantile” della coscienza egli invitava a prendere in considerazione i diritti dell’inconscio collettivo (più simboli dell’inconscio collettivo Jung ravviserebbe in questa mostra, il bosco, l’acqua, il pozzo): pena la nevrosi e addirittura la conflagrazione, che non è mancata. (…) Ora, infine, la priorità del neo-dadaismo di Colla, e a maggior ragione Fontana con la priorità del suo “ambiente spaziale”, ci offrono un solido punto d’appoggio contro una possibile contestazione, che dall’affacciarsi della pop art ci siamo sentiti spesso rivolgere: si contesta la legittimità di esperienze, che sarebbero dominio della cultura americana. Ci si accusa di allineamento ad una moda che, da noi, non avrebbe nemmen ragione d’essere come tale. Naturalmente questa accusa è mossa da chi ha letto a livello iconografico la pop art, cioè da chi ne ha fatto la lettura più ottusa e fuorviante. Ma ecco che riportate al comune denominatore di uno spazio-ambiente, esperienze di estrazione pop o invece solo più astrattamente “oggettuate”, concordano in una conclusione fondamentale, sia pure abbordandola in forme tra loro dialettiche, al di là di qualsiasi divergenza iconografica. L’accusa può comunque pur sempre sussistere, giacché potrebbe sussistere una lettura in chiave di mero esibizionismo pop, almeno di certe manifestazioni più sconfinanti nella spettacolo. Bisognerà allora intendere anche la consequenzialità ad una tradizione italiana che nasce con il barocco, con Bernini, torna ad affermarsi in forme non meno travolgenti ed internazionali con Rossini e l’opera, si reincarna nella personalità pirotecnica di Marinetti e nelle ardite ipotesi del futurismo. Una tradizione che ha avuto il suo doppio centro in Roma e in Milano e nella quale, del resto, si colloca anche lo spazialismo di Fontana, con una coloritura cosmicoavvenieristica, pur nella sua nuova misura mentale. Sarebbe proficuo illustrarla, questa linea, ma qui non potremo fare che un rapido cenno alla rivoluzione spazio-ambientale della Fontana dei Fiumi e di Fontan de’ Trevi, agli apparati scenografici destinati al consumo del fuoco; o al senso centrifugo, invadente della musica rossiniana. Di Marinetti, questo sconosciuto, conosciamo ormai diverse cose, sufficienti a farci capire come l’environment, in sostanza, sia nato con il futurismo e non solo perché Boccioni e Carrà dissero una volta di voler “porre lo spettatore al centro del quadro”. Meno nota è la tarda sintesi teatrale (credo già verso il ‘40) di Marinetti che porta un titolo suggestivo, “la spazio vivente”, e i cui protagonisti sono gli architetti “spaziali”, in uno scenario che sembra nato da un incrocio tra te fantasie di Balla e dello stesso Marinetti (non per nulla il nome del protagonista, “Ballamar, pittore e architetto spaziale”, sembra un incrocio dei toro nomi). (...) Ed ecco alcune proposte di Ballamar formulate con la tecnica invadente, appunto, del crescendo “Creeremo i teatri delle ombre proiettate, edifici il cui profilo mobile ornato di nuvole artificiali di alluminio, cristallo o stoffe stamperà sulla pianura circostante un dramma di ombre ingigantite. Riplasmiamo il mare mediante nuovi tipi di onde! Nuove molle d’acqua, nuove spirali d’acqua con progressione aritmetica e progressione geometrica, botole ellittiche d’acqua altalenante. Sopra molti triangoli d’acqua equilateri avremo nuove curve di mare che lanceranno da un foro del loro dorso la loro verde bianca anima gassosa (...). Un organo marino modulerà le forme del mare e del vento mediante tubi verticali, fori, botole e tunnels elastici graduati. Riplasmiamo il cielo! Architetture espansive e polimateriche si uniranno alle nuvole, alla pioggia, alla neve, alla nebbia, alle tenebre (...). Creeremo l’acchiappasole, enorme imbuto guarnito di mille specchi rapidamente agitati. Non ho finito!... Continuerò domani!...”. In Vulcano, uno dei protagonisti provoca un’eruzione artificiale dell’Etna “che simula una eruzione più luminosa di tutte quelle ricordate”. Nel dialogo contenuto nella stessa commedia tra “trasfiguratore” e “realista”, Marinetti si pone con acutezza, per quanto in forme relative ad una sua precisa poetica, anche il problema tecnico-figurativo e tecnico-psicologico di un’appropriazione trasfigurativa e sintetica del reale su così vasta scala. Ma un’esigenza soprattutto è basilare e indicativa. Riplasmare il mondo, rifare (nei due sensi) una montagna, un prato, un bosco, rifare il mare e il cielo. È la conseguenza estrema della fuoriusciuta dell’arte verso la spazio della vita ed è un’ambizione che riaffiora infatti potenzialmente, od anche per dichiarazioni esplicite (pensiamo ad Oldenburg) nell’arte attuale. Una tipica struttura primaria è messa a nudo da questo atteggiamento: l’artificialismo, termine coniato per la fisica di Aristotele allorché questi, considerando ogni realtà fisica come il 294 prodotto di un’arte, “parla come uno scultore”, e dal Piaget ripreso per indicare l’atteggiamento del fanciullo che considera le cose naturali come il prodotto di una fabbricazione umana. L’artificialismo infantile nasce da un sentimento di partecipazione primitiva. Secondo i bambini di Piaget, il mare “è un gran buco e c’è stata messa dentro dell’acqua” proveniente “dai tubi e dai rubinetti” in uno stadio più avanzato dello sviluppo mentale dell’arte umana si sostituiscono l’acqua e la terra, dalla cui azione tutto si genera. Ma allora, venendo ad un esempio, appunto quello dell’acqua, che ritroviamo nella presente mostra: sarà l’acqua di Bernini, il mare di Marinetti, un simbolo dell’inconscio secondo Jung, l’oggetto simbolico di un artificialismo di recupero infantile? Può essere, ovviamente, tutto questo insieme. (...) C’è una cultura conscia e una cultura inconscia, una cultura di raggio internazionale e una di radici nazionali; ci sono diversi livelli, poi, di cultura, affondati e affioranti. Attraverso i complessi incroci di queste sue forme e di questi livelli, la cultura si attualizza nell’opera, provocandola e legittimandola, nel tempo storico e nello spazio geografico». Maurizio Calvesi «Qual’è oggi il sistema strutturale tipico della ricerca visuale? Certamente l’essere caratterizzato da uno svolgersi diacronico, che tende ad istituirsi come vero e proprio “processo”, ma un processo di tipo particolare, che non mira solamente ad evolversi per passare da una stadio A ad una stadio B, ma che si pone come “tendere dinamico” che partendo da una struttura stilistica, quella della ricerca visuale, cerca di approdare ad una struttura stilistica diversa, quella della scultura o dell’architettura o dell’urbanistica, per “passare”, pur rimanendo nell’ambito visuale, da un sistema linguistico ad un altro. Praticamente ci troviamo dinnanzi ad un processo “statico”, che non intende procedere, assistiamo all’evolversi di una struttura che fa del suo decantarsi da un linguaggio all’altro la propria caratterizzazione strutturale, stiamo forse assistendo ad un’“ipotesi di movimento” in cui la volontà ipotizzata di definire i significati di una struttura linguistica con i significati di un’altra, si sta concretizzando. La ricerca visuale, nella sua tensione di divenire una forma, che si muove verso l’altra forma, per focalizzare l’osmosi e il passaggio dallo stadio visivo alla stadio spazio-temporale, ha condotto l’immagine dal significare lo spazio ad essere lo spazio, per rivivere empiricamente il passaggio da uno all’altro si è modificata per costituirsi come im-spazio. In questo caso ha inteso porre fine al suo specifico spaziale per istituire uno spazio aperto alla tanto idealizzata progettazione totale. Collocati sull’asse di questo mutamento di senso sia di lettura che di progettazione gli artisti si sono posti il problema di come agire di fronte al sistema ambientale, non più considerato come spazio-contenitore, ma come “campo” (Calvesi) di forze spazio-visuali. Ne sono scaturiti, per ora, due diversi modi, derivati dalle ricerche programmate ed oggettuati, di organizzare e creare l’insieme ambientale. L’uno, di cui si fanno partecipi i ricercatori programmati italiani – presenti con Alviani, A. Biasi, Boriani, Castellani, Fabro, Scheggi, Gruppo Mid, Gruppo t e Gruppo n – e gli artisti americani delle Strutture primarie, è quello che considera l’im-spazio in modo che esso “produca figure” programmaticamente organizzate, dotate di un’articolazione centripeta, che abbia quale fulcro della lettura-creazione lo spettatore, per un’accentrazione dei vettori visuali, che nel caso specifico tendono ad identificarsi con moduli visuali. Dato come sottinteso alla base di ogni creazione il design, inteso come controllo integrale della produzione, questa ricerca propone l’instaurazione di un im-spazio programmato, determinato e circoscrivente lo spettatore; considera l’im-spazio come ‘quantità definita’ di forze spazio-visuali, e aspira a rispondere all’esigenza di coordinare a priori il sistema percettivo e comportamentistico dello spettatore, che si trova così “inestricabilmente implicato”(Menna). Un progettare quindi che tende a strutturare concretamente la spazio dell’esistenza per non concedere che alcuna contingenza sia lasciata decisione inimediata. L’altro tipo di intervento è quello di organizzare ‘in figure’ le forme esistenti attraverso l’instaurazione di un nuovo senso. Il problema sorge dalla complessità di reperire, per ricrearle, le forme, che nell’ambito dell’im-spazio programmato rispondono a canoni astratti e che nel caso di questa seconda ricerca si ricollegano al panorama della civiltà dei consumi e dell’immagine. In quest’ambito, occupato dagli artisti oggettuali – presenti con Ceroli, Festa, Gilardi, Marotta, Mattiacci, Notati, Pascali, Pistoletto –, le forme traggono senso non più dalla loro coordinazione, ma dalla sconnessione della loro funzionalità, sconnessione che deriva dalla loro strutturazione “aperta”, sorta da una nuova diversa funzionalità, che si costituisce come nuova relazione intenzionale di intervento. Il “campo” è ora disarticolato ed indeterminato, la tendenza vettoriale dei “frammenti” visivi, quasi sempre sineddoche visive del mondo quotidiano, è di ordine centrifugo, tende a dilatarsi a porre l’im-spazio come “quantità indefinita”, continuamente “decentrabile” e disponibile ad un’ulteriore apertura. Il frammento di im-spazio diventa un’entità separata, genera e si genera in rapporto agli altri frammenti; l’im-spazio non è più intenso come dato, costruito, costretto e verificato, ma è visto come “processo” con possibilltà di crescita, da fase a fase. La scelta tematica è sentita come complessa, soggetta a sviluppo, ne sono testimonianza i “salti” tematici, ma non metodologici di molti artisti oggettuali; le proposte di im-spazio oggettuale sono presentate come entità spaziali separate, che formano sì proposizione, ma una proposizione presa come tutto, a carattere indeterminato. Nulla è stato ancora definito, perché ogni entità ha bisogno di un universo sistematico che fornisca la condizione necessaria di un ulteriore ambito di significazione. Un im-spazio a circolo aperto, a tempo reale, individualmente sensoriale, che agisce, per violenza, sullo spettatore, non più fulcro, ma tangente del sistema spazio-visuale, un im-spazio, per concludere, che procede geneticamente insieme allo spettatore continuamente rigettato “ai bordi” della proposta dalla forza centrifuga dei frammenti oggettuali». Germano Celant «Le ricerche dell’arte contemporanea hanno mutato profondamente la nozione di spazio a cui si ricorre abitualmente nel linguaggio critico: di fronte a molte opere che oggi si producono è impossibile giudicare sulla base dei valori di schermo o di superficie propri del quadro o di quelli di rilievo e di volume propri della scultura, dal momento che le immagini vengono offerte alla nostra esperienza in uno spazio diverso e in diversa relazione con noi: invece di immagini dipinte o scolpite ci vengono offerte immagini che sembrano occupare in qualche modo un luogo dello spazio loro proprio, così come lo occupa lo spettatore, anziché essere ospitate in una rappresentazione dello spazio stesso. Questa occupazione dello spazio non avviene nello stesso modo di una statua o di un’architettura tradizionali che per quanto massa o peso abbiano restano sempre legate a un tipo di rappresentazione; senza contare che questa nuova spazialità sembra nascere dalle ultime esperienze della pittura, come se la pittura stessa avesse acquistato uno spessore, un peso, la facoltà di dislocarsi in dimensioni multiple, di lasciare il carattere di ombra per prendere corpo. Del resto le tecniche della pittura sono mutate insieme alle sue forme e lo stesso è avvenuto per la scultura che ha assunto spesso tecniche pittoriche rivestendosi di colore, articolandosi in superfici non più intese come involucro, sostituendo al modellato lo spessore dei materiali usati. È una spazialità che si è manifestata con tutta evidenza nella realizzazione di ambienti plastico-spaziali ad opera di artisti attivi nelle direzioni di ricerca successive all’informale, sia nell’area pop che in quella delle ricerche visuali: nel primo caso fin dall’inizio, con il nome di environment (cui ha dedicato di recente un importante articolo P. Restany), nel secondo caso come ambienti ottici e cinetici, infine anche nelle così dette strutture primarie. Sembra dunque che la sensibilità pop non possa essere ridotta a una novità meramente iconografica nell’ambito della tradizionale produzione di quadri, nè quella visuale ad un’esangue esercitazione astratta di discendenza costruttivista o neoplastica. (...) Non credo tuttavia che questo genere di ricerche ambientali costituisca un fatto di rottura, una innovazione linguistica rivoluzionaria, anzi al contrario che sia una messa a fuoco, sotto un punto di vista particolare e macroscopico, del significato delle ricerche successive all’informale (soprattutto americano). (...) Di fronte agli esiti dell’informale, mentre le ricerche visuali venivano interpretate come un revival del costruttivismo del 1920, è indicativo che il fenomeno pop, apparendo come figurativo a una banale lettura iconografica, abbia dato luogo ad una interpretazione “realistica” sulle coordinate spaziali e temporali del realismo tradizionale. (...) In realtà la rinuncia agli universali che l’informale aveva sofferto come tragedia esistenziale, la distruzione del privilegio gerarchico dei contenuti, la pura registrazione della propria esistenza, la riduzione del segno a oggetto, la impossibilità a rappresentare intesa come impossibilità a comunicare hanno non solo portato alla crisi dell’informale, ma anche lasciato una eredità fortemente critica nei riguardi del linguaggio tradizionale alla generazione successiva che si volge ad analizzare le strutture della percezione o la realtà semantica del percepito. Il segno, perduta la facoltà di rappresentare, viene ritrovato alla fine di un processo di cui lo spettatore è parte attiva oppure viene prelevato già formulato in immagine d’uso e manipolato come un oggetto: l’alternativa alla impossibilità di rappresentare è cercata nella manipolazione, nella fabbricazione, nella combinazione di elementi oggettivi (oggetti e segni), secondo ipotesi di lavoro il cui risultato è una “cosa”. In questo modo un’opera visuale o un’opera pop hanno quel carattere tattile, presente, immediato che abolisce la differenza tra spazio dello spettatore e spazio dell’immagine. È un mutamento profondo che ha già le sue radici in un quadro di Pollock a di Burri dove nulla più è rappresentazione ma tutto è presente: l’azione di Pollock sul campo della tela che registra il gesto del pittore, la fisicità dell’immagine di Burri che coincide sempre con la materia (essendo questa sempre materiale già formato e non materia amorfa atta a rappresentare qualsiasi cosa, così come a sua volta l’immagine che di essa percepiamo non potrebbe essere mai dipinta). Questo spazio dell’azione e della materia, questo modo dell’immagine di oggettivarsi al termine di un processo ad un tempo percettivo e manuale si dilata nelle ricerche ambientali in una spazio che non sapendo come meglio definire chiamerei teatrale, ma il paragone non va frainteso in un senso banale di spettacolo e di scenografia: anche il senso del teatro va interpretato secondo una sensibilità attuale. Si tratta dunque di uno spazio non rappresentato ma agibile, in cui lo spettatore è chiamato a una partecipazione più che a una comunicazione, un luogo di eventi (e bisognerebbe vedere di quanto l’esito ambientate della pop art è debitore agli happenings o viceversa) in cui lo spettatore è abitante e parte del gioco: un gioco gratuito e consapevole di cui non si conoscono le battute in anticipo ma che non cela nessun senso riposto. Questa teatralità sembra lasciarsi alle spalle quanti hanno creduto che la pop art indicasse solo un caso di realismo da sviluppare come realismo narrativo: esiste anche la possibilità di una pop art non figurativa, e ciò in modo ben diverso dall’astrattismo classico, cioè esiste una spazialità dell’immagine e non una iconografia pop, una oggettualizzazione che è il contrario della figurazione, di cui la formulazione ambientale è la miglior riprova». Giorgio De Marchis «Non è da oggi che una sottile uggia, una non ben definita insofferenza, insidia pittura e scultura di fronte al “quadro da cavalletto”, alla “statua saprammobile”, e quest’uggia, questa insofferenza, è ben lecita: in un’età come la nostra dove nuove forme espressive (cinema, TV) hanno invaso gli spazi, accorciato i tempi; dove le grandi scritte luminose hanno reso possibili figurazioni notturne su scala urbana; dove i grandi fotomontaggi, i cartelloni pubblicitari, hanno permesso la dilatazione dell’immagine figurale a dimensioni chilometriche, era prevedibile che l’artista vi- 295 suale non potesse più accontentarsi dei pochi palmi di tela da dipingere a olio o a tempera, o del mucchietto di creta. (...) Senza voler qui riandare alle diverse tappe storiche che hanno coinvolto alla situazione odierna (è ovvio che, dal futurismo allo “spazialismo” milanese, dal costruttivismo russo al neoplasticismo olandese si sono verificate innumerevoli premesse indispensabili all’attuale momento evolutivo), credo che meriti conto di sottolineare, in questa sede, come negli ultimi due o tre lustri gli esempi d’un tendere di molta arte d’avanguardia verso la creazione di “entità” spaziali ben determinate, siano stati vivaci e perentori: si pensi solo alle vere e proprie “pareti” costituite dei dipinti di Rothko (per citare il caso di un continuatore del tonalismo pittorico tradizionale), o si pensi, alle opere di Calder ideate sempre quali caratterizzatrici ambientali o più ancora a quelle di Frederick Kiesler, questo troppo spesso dimenticato architetto-scultore, che già una ventina d’anni or sono ideava le sue “galassie” lignee entro cui si poteva stendere un’amaca e dormire o le sue “case senza fine”, grandi sculture cave e percorribiti. Da Fontana poi sono indubbiamente “discesi”, molti dei nostri artisti migliori. Basterà osservare, in questa mostra, le sale dedicate a Castellani, Bonalumi, Scheggi, per avvedersi che sono, pur con notevoli divergenze e con singolari caratteristiche autonome, derivate dalla lezione di Fontana. Ad un altro indirizzo, pure questo oggi assai diffuso in tutto il mondo e di cui l’Italia possiede alcuni ottimi rappresentanti, appartengono le sale dei diversi artisti cinetici e “programmati”, (come quelli del Gruppo T, del Gruppo N, di Alviani, del gruppo MID, di Fabro, ecc.). Tale indirizzo, infatti, costituisce uno dei traguardi obbligati per molte moderne espressioni visuali: liberandosi dalla figurazione, alleandosi all’architettura e ai mass media, la pittura tendeva sempre più a valersi del dinamismo della luce e della sua integrazione con gli spazi architettonici sia interni che esterni. Ma per dimostrare – se ce ne fosse bisogno – come l’uomo, anche dopo aver scardinato la spazio, anche dopo aver ripudiato la figurazione tradizionale, continua ad avvertire il bisogno di “iconicizzare” il suo ambiente, di integrare il suo habitat con immagini tratte dal mondo esterno e attivate dalla sua fantasia, ecco alcuni artisti (scultori e pittori) almeno parzialmente rientrati nell’ambito della figurazione come Marotta, Ceroli, Notari, Gilardi, Pascali, Pistoletto, Festa, le cui opere necessitano quasi sempre d’un’integrazione spaziale, sono, cioè, state ideate già in partenza in funzione dei particolari che le dovevano contenere e non sono qui esibite secondo una vieta sistemazione archeologica e museografica». Gillo Dorfles «(...) Ciò che è necessario è quello che Lawrence Alloway ha definito come “the fine pop-art continuum”. La pittura dei primi anni Sessanta è stata un avvio in questa direzione, ma c’è ancora un lungo cammino da percorrere. Una delle prime e più riuscite applicazioni di questo continuo su scala ambientale è stata le mostra allestita da Richard Hamilton alla Whitecapel Gallery di Londra nel 1956 come ampio sfruttamento delle tecniche percettive. Pezzi di massimo spicco erano un robot alto quasi 10 metri (con occhi e denti scintillanti) che si allontanava ghermendo una divetta del cinema svenuta, un ingrandimento fotografico di Marilyn Monroe ed un’enorme bottiglia di birra Guinness. Questi pezzi di grandi proporzioni furono collocati sul fondo della mostra. Sul davanti furono messi piccoli oggetti in modo che lo spettatore si trovasse di fronte ad un senso di prospettiva rovesciata. Un altro elemento di questa parte dell’ambientazione era costituito da un pavimento morbido che sfumava dal nero al bianco per aggiungere illusione prospettica. Altrove il pavimento di un corridoio presentava un’alternanza di striscie tonali in modo da creare l’effetto di ondeggiamento, effetto ulteriormente accentuato da disegni otticamente sconvolgenti dipinti sulle pareti. Un’altra sensazione del pavimento – parte di una capsula fantascientifica – era dipinta con vernice rossa fluorescente, coperta con una vasta griglia metallica e inondata di luce nera. In una stanza alta alcuni rotor a rilievo di Duchamp ruotavano in un ambiente che di per sé era un’illusione ottica. Odori aleggiavano tutt’intorno. Diversi films venivano proiettati nello stesso momento mentre un juke-box suonava davanti ad un ampio collage di cartelloni cinematografici che s’incurvava come uno schermo panoramico. Questa massa di sensazioni affollate nello spazio limitato dell’ambiente creava un autentico complesso spazio-temporale. In contrasto con gli ambienti puramente spaziali che (con la notevole eccezione del living-unit di Paolozzi-Smithson) costituivano la parte restante della mostra – e che a stento sembravano esistere anche allora – la realtà di questo complesso spazio-temporale persiste anche oggi, oltre dieci anni da quando è cessata la sua esistenza fisica. Hamilton ed alcuni pochi altri hanno restituito all’arte il senso della realtà. È necessario ora consolidare quanto essi hanno conseguito». Cristopher Finch «(...) Il nuovo rapporto con lo spazio, quale si è venuto delineando con i viaggi spaziati, con i traffici internazionali, con le scienze, trova la sua espressione anche nell’arte, anzi, caso mai, qui è lì che probabilmente si è manifestato in primo luogo come visione. Si parla di un superamento dei limiti fra arte e vita, fra opera e osservatore, fenomeno che si è manifestato prima nel campo dell’architettura. Nuriaki Kurokawa e Oskar Hansen parlavano della “open form” in contrapposizione alla “closed form”. Masato Otaka e Fumihiko Maki hanno proposto l’idea della “group form”. Reinmar Pietila ha tentato una nuova definizione del concetto di forma risalendo all’origine morfologica della parola stessa. Bastano le nuove esperienze dell’urbanistica, oggi certamente la più importante categoria dell’arte, a non lasciare dubbio sulla validità e necessità delle forme aperte. Gli stessi sforzi sono riscontrabili anche nella pittura e nella scultura. Una partecipazione attiva è divenuta necessaria, non solo al fine di una interpretazione, ma anche al fine di una collaborazione dell’osservatore d’un tempo, che oggi è chiamato ad essere con-creatore. (...) Tutte le capacità e possibilità dell’uomo devono esser attivate anche dall’esperienza con un’arte qual’è quella che si prospetta con gli Environment, poiché soltanto attraverso un rapporto reciproco fra opera e osservatore, ciò che di per sé è incompiuto si completa in un nuovo tutto in sé conchiuso. Questo “tutto” ha pertanto un carattere dinamico, è un processo più che un’opera, un’azione più che un oggetto. (...) Dietro la confusione di nomi falsi come Pop-Art, ABC Art, MiniArt, Op Art, Junk Art, Nouveau Réalisme, si deve giungere a delle produzioni artistiche che si sottraggono, come sempre, ad una denominazione generalizzante. L’arte di oggi si riferisce alle comuni premesse della nostra epoca, che sono la società di massa, le comunicazioni di massa, le (future) creazioni di massa. Gli artisti giungono per diverse strade alle manifestazioni di questo nostro tempo e della nostra arte, che è in rapporto inscindibile con tutta quella del passato. (...) Non si tratta più di un linguaggio tradotto, di un linguaggio cioè simbolico o metaforico, accessibile soltanto ad una mente aperta, ma si tratta di immediatezza, autenticità, documentazione vicina alla realtà nel tempo e nello spazio, e nulla più. (…) Anche la raffigurazione di spazi interi, come viene rappresentata da Pascali, Festa, Castellani, Ceroli, Scheggi e dai gruppi N e T, spiega che l’effetto è reale e senza metafore, che non è la circoscrizione di un significato recondito, ma l’effetto equivale all’idea. Anche lo spazio in cui si trovano opera ed osservatore è parte integrante dell’effetto il cui fine è autenticità, e il tempo è inserito nell’arte figurativa con un significato in passato sconosciuto. (…) Non si è dunque persa di vista la realtà riguardo all’osservatore, came potrebbe sembrare, e neppure la si è riconquistata, ma, proprio nello sforzo di coglierne l’essenza profonda, si è scoperto l’osservatore, vale a dire il con-creatore. L’artista è divenuto mediatore dell’esperienza e dell’azione, azionatore di quel ponte divenuto tanto necessario fra l’uomo e l’opera d’arte. Come tale egli va al di là del tempo e dello spazio – come anche in tutta l’arte del passato – e plasma lo spirito col quale l’uomo guarda alla realtà. Ciò rende possibile l’esistere in senso più vasto. L’artista è colui che ci rende capaci di orientarci nel nostro mondo». Udo Kultermann «Lo spazio dell’Immagine si pone come tema di contestazione del tipo di condizionamento al quale ci costringe la civiltà dei consumi, per mezzo, appunto, dell’immagine, anzi della cangerie di oggetti e di immagini nei quali siamo costantemente immersi. L’immagine è divenuta arbitra assoluta del mondo quotidiano dell’uomo attuale della sua nuova realtà, che non è più naturale, ma tutta costruita, e che si identifica, a questo punto, definitivamente con la città (…). Ma attenzione! La spazio della “evironmental art” non è lo spazio architettonico: è un suggerimento di spazio, che presuppone, non investe la spazio dell’architettura: che addirittura, talvolta, distrugge lo spazio architettonico, tende alla “non architettura” (si parla infatti troppo spesso, di contenitori anonimi, inesistenti, nei quali gli oggetti stessi divengono modulatori di spazio). Il rischio è quello dello scambio errato delle competenze: che l’artista, cioè, si improvvisi architetto di interni, affrontando l’argomento di una scala necessariamente diversa, da una scala che non sempre regge alla macroscopizzazione. Dalla parte opposta l’architetto si pone, sempre più, come modellatore di “oggetti” plastico-architettonici:in nome delle acquisizioni tecnologiche, della infinitamente aumentata libertà della grammatica e della linguistica delle tecniche costruttive, si fa operatore plastico, lavorando in funzione di uno spazio piuttosto monocentrico che non ambientale. Tutto questo a scapito, a mio avviso, di quella possibilità di collaborazione a livello interdisciplinare, che solo oggi diviene attuabile, anzi, necessaria; che è la sola capace di dire, a questo punto, una parola decisiva e positiva, la sola capace di investire totalmente la spazio vivibile dell’uomo, di ricollocare l’arte nella sua funzione di orientamento attivo nella vita umana, attraverso quella facoltà di creatività che è propria del fenomeno artistico». Lara Vinca Masini Bibliografia selezionata: − G. CELANT, Lo spazio dell’immagine, in «bit», n. 3-4, giugno-luglio. «La ricerca visuale nel suo tentativo di muoversi da una forma all’altra, da un linguaggio ad un altro è approdata in questi anni alla esigenza di focalizzare il principio di osmosi tra architettura e scultura-pittura. L’immagine si sforza oggi di non significare solamente lo spazio, ma di essere lo spazio. Collocati sull’asse di questo cambiamento di senso, critici ed artisti si sono posti il problema di come agire criticamente e creativamente di fronte a questo nuovo concetto di immagine-spazio. Impossibile ormai considerare lo spazio come contenitore, plausibile quindi arrivare al concetto di « campo » di forze spazio-visuali come ha fatto Calvesi. Immediata attestazione del nuovo indirizzo critico e “poetico” la mostra organizzata sotto il titolo “lo spazio dell’immagine” che presenta due diversi modi, scaturiti dalle ricerche programmate ed oggettuali, di considerare l’insieme spazio-visuale. L’uno, di cui si fanno partecipi i ricercatori visuali e cioè nel caso della mostra, Alviani, Biasi, Boriani, Castellani, Fabro, Scheggi, Gruppo Mid, Gruppo n e Gruppo t, è quello che intende l’im-spazio programmaticamente, in modo che esso produca figure dotate di un’organizzazione strutturale. Proposta che sottintende nel suo concretizzarsi un preciso design dell’ambiente realizzato e considera lo spazio come quantità definita. Un progettare quindi che tende a strutturare concretamente lo spazio dell’esistenza e il comportamento percettivo dello spettatore, per non lasciare nulla all’arbitrio e all’indeterminazione immediata. L’altro tipo di ricerca, occupato dagli artisti oggettuali, presenti con Ceroli, Festa, Gilardi, Marotta, Mattiacci, Pascali, Pistoletto, propone un’altra soluzione di im-spazio. Gli ambienti rispecchiano infatti un “campo” disarticolato di forze spazio-visuali, offrono una serie di frammenti ottici, sorta di sineddoche visive del mondo quotidiano, che si intendono parte di un processo più ampio, dilatabile all’infinito. La scelta tematica è infatti più complessa, meno programmatica, le componenti degli ambienti si costituiscono come fattori di un processo con possibilità di crescita da fase a fase. Nulla è stato ancora definito, l’im-spazio è a circolo 296 aperto, a tempo reale, violenta lo spettatore e ne subisce poi la lettura, l’azione, si pone come quantità indeterminata continuamente disponibile». − s.a., Lo spazio dell’immagine. Una mostra singolare nelle sale di palazzo Trinci, in «La Nazione», 2 luglio. − G. MARCHIORI, Lo spazio dell’immagine, in «Flash», n. 2, luglio. − s.a., Inaugurata la rassegna Lo Spazio dell’immagine. La mostra di Palazzo Trinci accostamento tra antico e moderno, in «La Nazione», 4 luglio. − s.a., Lo spazio dell’Immagine, in «Avanti», 7 luglio. − T. TRINI, A Foligno, in «Domus», n. 453, agosto. «Senza trombe né pifferi si è aperta la prima edizione di una mostra che si può considerare fin d’ora la mostra numero uno della stagione estiva. Basta non lasciarsi frastornare dai fuochi d’artificio degli innumerevoli premi e biennali.Unamostra che ha direttamente impegnato gli artisti e non solo i critici. Li si è visti collaborare a stretto contatto con gli architetti, i falegnami, i pompieri. Tutti insieme a lavorare per venti giorni su di un tema preciso di cui era ora – a quest’ora – che ci si occupasse. Si trattava di una esperienza collettiva per un’arte collettiva. Sono stati invitati gli artisti adatti per il tema adatto, evitando la kermesse, tralasciando ahimè qualche altro artista che poteva risultare ugualmente adatto. E c’è stato, come in ogni novità, anche il caos: la mostra, il tema, le commissioni, gli inviti, che cosa faccio e che cosa non faccio, tutto deciso all’ultimo momento o quasi. Lavorando giorno e notte, gli artisti hanno avuto la loro festa prima della vernice. (…) Il titolo della mostra: “Lo spazio dell’immagine”, credo che vada capito nel senso che fra tutti i problemi che interessano quest’anno le immagini, qui ci si preoccupa soprattutto del loro rapporto con lo spazio, che le modella e ne è modellato. Alla Biennale della giovane pittura, a Bologna, è il “tempo dell’immagine” che viene osservato: tempo della contestazione, della polemica e dei neofigurativi, della pioggia ideologica, un tempo cane, insomma. Mentre a San Marino la sesta Biennale permette di dare un’occhiata a tutte o quasi “le nuove tecniche d’immagine” più recenti. Così l’immagine è stata sistemata al completo. A Palazzo Trinci, nei giorni dell’allestimento della mostra, gli artisti si sono trovati a sperimentare non solo un ambiente, un problema plastico-spaziale, ma anche un clima, una situazione operativa abbastanza eccitante, a parte le condizioni soddisfacenti d’organizzazione, se è vero che vanno raccontando – come è vero il loro abituale disgusto delle manifestazioni pubbliche alle quali partecipano, ma guai se non li invitano – che a Foligno si sono tutti impegnati fino in fondo, pronti a collaborare l’un con l’altro, romani milanesi e torinesi; la mostra l’avevano nelle loro mani. Niente intrallazzi critici, dunque, niente manovre politiche, niente premi. Non era facile mettere a frutto gli interni severi della sede concessa dal Comune al comitato organizzatore, presieduto da Giuseppe Marchiori, ed è stato bene che se la sbrigassero gli artisti stessi, ognuno con la sua stanza e il suo problema. Coadiuvati dagli architetti Radi e Bruno, si sono suddivisi i locali secondo le loro specifiche necessità, li hanno ricostruiti, schermati, lasciati a nudo. E nell’attività febbrile, tra i pompieri che riempivanoil“mare” di Pino Pascali, i programmati con i loro piccoli guasti al congegno, i pozzi, il tubo a verme, la gabbia, il cubo, il blu abitabile e l’ambiente bianco, lo spazio dell’immagine si è riflesso sull’artista. È diventato lo spazio dell’artista: lo spazio dell’esperienza operativa, collettiva, di scambio immediato e attivo, dove gli artisti che non fanno più un’arte individuale possano finalmente non lavorare più da soli. Questa mostra lo ha appena suggerito, potrebbe essere in qualche modo sviluppato nelle manifestazioni successive che saranno impostate, come la prima, su un particolare problema critico o operativo. Sono stati giorni pieni di stimoli, ha detto Mario Ceroli, qualcuno avrebbe dovuto filmare quel che è successo lì dentro. (…) Dei costruttori di oggetti, quelli che circoscrivono totalmente lo spazio sono i più vicini al lavoro dell’architetto. Chi ha realizzato un lavoro del tutto nuovo e affascinante è Gino Marotta: un bosco raggelato, trasparente, cattivo e tuttavia poetico, stampato in plastica sotto vuoto. (…)». − G. BRIGANTI, Lo spettatore si tuffa nello spazio, in «L’Espresso», a. XIII, n. 32, Roma, 6 agosto, p. 20. «(...) La mostra, dunque, è dedicata a quella che è indubbiamente una delle più esplicite aspirazioni dell’arte contemporanea: l’aspirazione di creare ex novo uno spazio anziché rappresentarlo, la volontà programmatica di eludere gli schemi tradizionali di “pittura” e di “scultura” evitando di esprimersi in opere isolate e isolabili, quadro o statua, realizzando invece veri e propri ambienti plastico-spaziali, opere che determinino intorno a loro lo strutturarsi di uno specifico spazio ambientale. L’“environment” insomma, che assume a sue prerogative l’apertura, la libertà, la dinamica. Che un siffatto concetto dello spazio, nuovo o meno che sia, nel suo intento di non rappresentare ma di occupare lo spazio stesso coinvolgendo lo spettatore e immettendolo nel suo campo d’azione possa, nell’attuale contingenza, essere nato anziché dall’architettura dalle ultime esperienze della pittura dopo l’informale è certo un fatto e come tale va accettato e analizzato per indagare soprattutto le ragioni che sono all’origine del suo configurarsi. Ma è proprio nell’ambito di questa analisi che penso sia per lo meno prudente astenersi da quelle generalità che pur incidendo sulle strutture della percezione si basano su un facile meccanismo di rapporti; generalità che spesso si invocano per postulare teoricamente alcune proposte artistiche quando si tende a vedere in esse l’unica espressione possibile della situazione attuale. Il che, ritengo, non sia valido postulare né a priori né a posteriori. A generalizzare poi, nel caso presente, si rischia di assumere come esempi perfetti di “environment” la Fontana di Trevi, il porticato di San Pietro o, per essere più pertinenti, la Stanza del pavone di Whistler. Va detto intanto che l’insofferenza per il “quadro da cavalletto”, per la statua isolata, la reazione contro le ricette tradizionali della pittura “a olio” non sono davvero, in se stessi, fatti nuovi. tutt’altro. È già nella seconda metà dell’Ottocento che, nelle arti figurative, i motivi fondamentali della ricerca erano tesi ad abbattere i costringenti motivi fra arti maggiori e arti minori, a rinunciare cioè a quelli che erano ritenuti i secolari privilegi delle prime, comela rappresentazione della profondità spaziale nell’illusione prospettica ed altre cose ancora che cadono sotto i vaghi termini di pittoricismo. Il che, non va dimenticato, implicava a sua volta un tentativo di “ritorno” (i preraffaelliti) ad un’ideale antica dignità espressiva. Il tutto in un clima di ricerca unitaria che era pronta ad assimilare le più diverse tecniche artistiche e che trovava vita nell’ambito di un vasto socialismo umanitario e utopistico. Oltre ad una comune fiducia nelle prerogative autonome di validità estetica insite in determinate forme (“La bellezza della forma è prodotta da linee nascenti l’una dall’altra in ondulazioni graduali” asseriva Owen nel 1856) che era, in quegli anni, alla base delle grammatiche dell’ornamento e che animava il sorgere delle “Schools of design”, il rapporto forse più consistente fra quelle ricerche e le attuali consiste proprio nell’indubbio coincidere, al livello delle intenzioni, di finalità sociali che si pongono in netta polemica con le strutture dominanti della società contemporanea. all’umanitarismo e allo spirito democratico di allora che propugnava il diritto per tutti di fruire di prodotti armonicamente concepiti e si opponeva quindi al trionfo della quantità sulla qualità che era prodotto dalla rivoluzione industriale, fa riscontro oggi, sulla scia delle nuove nozioni acquisite dalla psicologia, la ricerca delle regole visuali di una sorta di igiene mentale che depuri l’aria inquinata da tutte le immagini che ci sono imposte dalla condizionante civiltà dei consumi e dalla sua innaturale e disumana realtà. Ricerche quindi che si pongono come tema di contestazione e va notato come, sotto questo aspetto, alcune manifestazioni di purismo formale dell’arte contemporanea, validamente presenti alla mostra, si avvicinano più che ad altre esperienze all’azione vorrei dire analgesica e tonificante delle “pareti” di Rothko, il quale tuttavia si serve dei mezzi del tonalismo pittorico tradizionale e resta nei confini del “quadro”. È proprio in ragione di questi fini che si deve riconoscere allo “environment” e ad alcune ricerche d’arte programmata che lo costeggiano, l’assoluta mancanza di intenzioni provocatorie, cioè un profondo distacco dal linguaggio neo-dada. Sbalordire il pubblico non è considerato davvero mezzo legittimo: v’è piuttosto nella volontà di ricercare inesplorate combinazioni di forme, di luci e di colori un’attitudine quasi pedantesca o artigianale che preferisce magari classificarsi come non-arte che come trovata intellettualistica. Ma al di là di queste, che sono intenzioni, il punto sostanziale è un altro. all’origine delle nuove ricerche cinetiche, programmate o di “environment” troviamo una sfiducia sostanziale nel “segno” cui si contesta, nell’ambito della civiltà visiva odierna, la facoltà di rappresentare, di ritrovare il passato potere espressivo, evocativo. Come dire: non più linguaggio tradotto, inteso come linguaggio simbolico e metaforico, ma immediata documentazione della realtà che significhi solo il fatto in se stesso. Non è certo un concetto molto chiaro e teorizzabile con coerenza anche se può tradursi in quello che sembrano conclamare buona parte delle opere esposte a Foligno. L’“happening” insomma, o qualcosa di molto simile; il fatto in se stesso, che non ha bisogno di giustificazioni, di interpretazioni, che parla da sé. Ma, attenzione, con questi principi il risultato può essere molto diverso da quanto ci si può attendere cullandosi nell’illusione di “apertura” derivata dal fatto di aver promosso, in tal modo, lo spettatore a co-creatore, a partecipe attivo (come se non fosse sempre così) immettendolo nello spazio stesso dell’opera o costringendolo magari a determinate operazioni. Il rischio difficilmente evitabile è quello di impressioni prefabbricate, uniche, su di un solo binario, fisiche, momentanee, senza risonanza. Sterili, insomma, per restare a quella che è l’impostazione teorica dei fatti, si potrebbe anche dire che la lunga storia dei rapporti fra arte e natura, che è quanto dire uno dei modi del configurarsi dei rapporti fra l’uomo e la realtà esterna, è giunta ancora al passo della identificazione, cioè, nel caso particolare, alla proiezione, al transfert. La invocata “partecipazione primitiva” significa, dopo tutto, l’uso di una sola delle funzioni fondamentali della coscienza: la sensazione. Riconoscere meccanismi e scopi, istituire relazioni, dare alle sensazioni un valore per tramite dei sentimenti, convogliarle nell’ambito dell’idea del tempo, in quanto intuizione tesa verso possibilità future, sono altre funzioni, altrettanto fondamentali della coscienza. Le nuove ricerche, se non erro, sembrano deliberatamente volerle mettere da parte. In teoria almeno. Resta il fatto che l’espressione artistica elude sempre, per la sua stessa natura, gli schemi teorici, anche quando più si illude di teorizzare. Ad ogni intenzione bisogna pur sempre riconoscere la possibilità di realizzarsi affondando le proprie radici nel terreno misterioso e profondo da cui nascono le intuizioni artistiche. Anche se restano al livello più semplice di invenzione. È per questo che ci ricorderemo del purissimo “ambiente bianco” di Castellani, magari de “Il Tubo” di Mattiacci, o anche dei “32 MQ di mare circa” di Pascali, e poi di Ceroli e di Colla, sebbene comportino un discorso diverso. Nè dimenticheremo, soprattutto, l’impressione generale della mostra, dovuta all’intelligente adattamento degli architetti Bruno e Radi». − V. RUBIU, Trentadue mq. di mare circa, in «La Fiera Letteraria», a. XLII, n. 37, Roma, 17 agosto, p. 24. «Se si eccettua il titolo, talmente vecchio e generico da non lasciar capire di che si tratti, questa mostra di Foligno è davvero nuova, la più nuova che si sia mai fatta in Italia. E, per cominciare dall’esterno, nuova, sebbene tra le più antiche dell’Umbria, è la città di Foligno, dove, ch’io sappia, non si erano mai organizzate mostre d’arte contemporanea. E nuova è la sede, Palazzo Trinci, che è un capolavoro dell’architettura gotica, e a tutto si poteva pensare meno che si adattasse a ospitare le stranezze di una ventina di giovani artisti (invitati dal comitato organizzatore della 297 mostra a esporre non già quadri o sculture ma interi ambienti plastico-spaziali).Ma non c’è solo il presente, c’è anche, a titolo di documentazione storica, il passato prossimo, rappresentato dall’ambiente spaziale o camera a luce nera di Lucio Fontana ricostruita su precisa indicazione dell’artista come era nel ’49 presso la Galleria del Naviglio di Milano. Inoltre una specie di personale retrospettiva di Ettore Colla che, con l’aria di vecchio e insieme di nuovo che si portano dappresso le sue sculture, introduce benissimo alla mostra del piano superiore.Non lo spazio preesistente, che da sempre e sia pure con determinati accorgimenti fa da sfondo al quadro o alla scultura, ma un succedersi di cavità autosufficienti che sono al tempo stesso lo spazio e l’immagine. Queste cavità non insorgono contro l’austero palazzo medievale perché semplicemente lo nascondono. Il più delle volte almeno. Se si eccettua il caso di Pistoletto che utilizza le grandi immagini “cortesi” dipinte sui muri della sala, dove si specchiano, insieme col visitatore, nelle sue vere da pozzo con la lastra lucente nel fondo. Una trovata, ma anche più di una trovata. In realtà l’integrazione di ambiente, visitatori, oggettivazione dell’immagine è perfetta. Ma tolto questo caso e quello di Ceroli, per il resto è come diventare degli speleologi: si passa da cavità in cavità, ora trovando il nero, ora il bianco, ora l’azzurro, ora il rosa. (...)». − Odr, Una curiosa e interessante mostra collettiva a Foligno. Rifiutano il cavalletto gli artisti spaziali, in «Paese Sera», 24 agosto. − G. CELANT, Lo Spazio a Foligno, in «Casabella», a. XXI, n. 318, settembre. − M. VALSECCHI, Una nuova spazialità, in «Il Tempo», a. XXIX, n. 37, 12 settembre. − G. CELANT, A Foligno Lo spazio dell’immagine 1967, in «D’Ars», a. VIII, n. 36-37, p. 62-69, ottobre. − G. DORFLES, Lo spazio dell’immagine a Foligno, in «Art International», a. XI, n. 8, 20 ottobre. «Of all the events of the current Italian summer and autumn season, the most singular and – despite its tendentiousness – the most conclusive has, in my opinion, been the exhibition held at the Palazzo Trinci, Foligno. Others (such as the San Marino Biennale) may have been on a larger and more international scale, or devoted to a specific theme (“Science Fiction” at Trieste) or to a single art (sculpture at the Cararra Biennale), but the special quality of this particular show is that it was planned, from the start, to draw attention to one of the most crucial aspects of the present-day artistic situation: teè prevalence of spatial research in the visual arts. (…) I must immcdiately cite Gino Marotta’s Specular Enchanted Forest as one of the most successful of all. I believe his work is so sensational because he employs very simple materials which have not, however, been used before in this kind of experiment. His thin sheets of printed opalescent metachrylate were press-cut into vaguely arboreal shapes and hinged on the vertical axis. This allowed him to achieve an interplay of images reflected on the specular-plate partitions in such a way that the undulating translucent outlines produced an overall effect that was convincingly “organic” and yet technological at the same time. It was no accident that he called this unit “ Natural-artificial”, to emphasize the clamorous encounter today ofobjective elements created from technological materials, and the possibility of “naturalizing” them. (…)» Repubblica di San Marino, Palazzo dei Congressi, 15 luglio Franco Angeli, Gianfranco Baruchello, Mario Ceroli, Gino Marotta, Pino Pascali, Luca Patella, Mimmo Rotella, Mario Schifano e Giuseppe Uncini partecipano con Enrico Castellani, Nicola Carrino, Nato Frascà alla VI Biennale d’Arte Repubblica di San Marino. Nuove tecniche d’immagine. Testi di Giulio Carlo Argan, Maurizio Calvesi (Ottico tattile ed ottico sonoro), Gillo Dorfles (L’Eden di Gino Marotta), Maurizio Fagiolo dell’Arco (Nuova frontiera dell’immagine),Otto Hahn, Jurgen Claus e antologia critica. «Gli artisti della tendenza detta di “nuova figurazione” rifiutano la degradazione sociale dell’artista e la trasformazione radicale dei mezzi linguistici; rimangono sostanzialmente legati alle tecniche tradizionali di rappresentazione; disprezzano la società alienata perché distaccata dalla natura e dalla naturalità dei sentimenti, moralmente psichicamente, e fisicamente deformata e corrotta. (…) Le altre due grandi correnti vanno comunemente sotto il nome di Op e Pop, e conviene chiamarle con queste sigle che sembrano marchi di fabbrica. Partono da presupposti affatto diversi: danno per oggettivamente compiuta la riduzione della figura sociale dell’artista a quella del tecnico a dell’operatore industriale, ma non accettano la limitazione e la subordinazione della sua attività nell’ambito del sistema. Perché gli adepti delle due correnti non stanno in fabbrica, rispettivamente nell’ufficio progettazione e nell’ufficio delle pubbliche relazioni? È tanto chiaro che l’artista Op, l’analista delle strutture dell’immagine, sta all’artista Pop, l’inventore di immagini psicologicamente stimolanti, come il designer, il progettista industriale, sta al grafico pubblicitario, all’ideatore di slogan visivi, al disegnatare di fumetti destinati a influenzare direttamente a indirettamente la psicologia dei consumatori. Eppure l’artista Op e l’artista Pop non sono operatori industriali: si limitano a supporsi tali per ipotesi di lavoro. Non si pongono il problema dell’eventuale applicazione della loro ricerca alla produzione e al consumo. Come potrebbero porselo se la produzione industriale, quale che sia il grado della sua qualità estetica, è appunto il dato da cui partono e che si propongono di elaborare e superare? La loro attività muove da una situazione data, e precisamente dalla scissione dell’arte in due tipi di operazione rispettivamente inerenti alla struttura e alla figura degli oggetti, alla loro costruzione e alla loro distribuzione attraverso i canali del consumo. Ammettendo per ipotesi che un valore, estetico, non merceologico, possa conseguirsi mediante i procedimenti tecnologici dell’industria, in quale dei due settori bisognerà cercarlo? E potrà mai essere “settoriale” il valore estetico, che per definizione implica una piena esperienza della realtà? È vero che produzione e consumo formano un ciclo; ma, allora, in quale punto del circolo si pone, in quale si adempie l’istanza del valore estetico? Per gli artisti delle correnti visive e cinetiche si pone al principio, come un’idea-immagine la cui struttura dovrebbe riprodursi, sia pure con varianti specifiche, in ogni tipo di oggetto: e si pone come struttura spaziale o di relazione, sicché l’oggetto è considerato soltanto come sito di relazioni, forma capace di conservare intatto il proprio valore in qualsiasi situazione. Per gli artisti Pop si pone alla fine, come sembianza dell’oggetto ingigantita e trasfigurata dall’ingordigia o dalla sazietà del consumo. Gli uni e gli altri, infine, mettono tra parentesi la fase propriamente merceologica, quella in cui gli oggetti vengono materialmente fatti venduti, consumati, ed in cui, dunque, non sono valutabili come immagini. Assumendo il prodotto industriale come dato e ponendolo così fuori causa, assumono ugualmente come date le materie e le tecniche industriali: le quali, per essere già sperimentate, non sono più suscettibili di sperimentazione. Sarebbe veramente assurdo supporre che l’elaborazione artistica di quei dati miri comunque al progresso della tecnologia della produzione e del consumo. Rispetto alla gamma dei materiali e alla complessità dei procedimenti messi in opera dalla grande industria, le plastiche e i congegni cinetici degli artisti “programmati” sono, bisogna riconoscerlo, di una elementarità sconcertante, ma sicuramente evoluta per sottolineare che la funzione di quelle materie e di quei congegni è puramente simbolica né altro vuole indicare se non che la ricerca d’immagine, quella che conta, è posta sotto il segno della Tecnologia. Parallelamente, il gusto dell’inflazione, dell’esagerazione, del travisamento e dello scambio dei significati oggettivi tradisce negli artisti Pop un atteggiamento ironico, “a posteriori”; non è certo un’analisi di mercato né uno studio sull’efficacia suggestiva dell’appello pubblicitario, ma una presa in giro del mercato e della pubblicità, e soprattutto dei loro riflessi e postumi psicologici. A che qui l’opera dell’artista non pretende d’intervenire direttamente nei fenomeni del consumo, ma si pone sotto il segno del Consumo. Oggetto dell’interesse, nei due casi, non è il ciclo economico di produzione e consumo, ma il comportamento dell’individuo coinvolto nel ciclo. L’uomo-produttore e l’uomo-consumatore sono, non c’è bisogno di dirlo, la stesso uomo: come produttore è serio, volitivo, efficiente; come consumatore è non serio, disordinato, incostante, feroce e buffonesco insieme. In breve: l’essere che, in laboratorio, si comporta con la lucida disciplina, il rigore quasi ascetico praticato dai “programmati”, vede poi il mondo come gli artisti Pop: irreprensibile sul lavoro, è un pagliaccio nella vita. Non è colpa sua, così vuole il Sistema. La diagnosi è esatta, ma non è soltanto una diagnosi. Messe a confronto, le due correnti dimostrano che, finché si agisce all’interno dell’apparato, non si arriva a separare e riscattare l’immagine dall’oggetto-merce per l’ovvia ragione che l’industria, in definitiva, non fa altro che mercificare immagini. Le costituisce in altrettanti “tabù”. Degrada la relazione intersoggettiva dell’“eros” alla banalità brutale del sesso, coprendola poi con divieti legali che sono tanti subdoli stimoli all’infrazione: non è meglio che gli individui si ribellino facendo le porcherie invece che la rivoluzione? La tipologia sessuale si ripete in scala politica: l’autorità scade in potere, il potere in banale possesso a cui corrisponde, da parte dell’individuo de-politicizzato, una servitù: il sado-masochismo sessuale diventa sado-masochismo politico. Termine comune alla brutalità sessuale e alla brutalità politica, la morte. Demitizzata anch’essa, diventa davvero la morte del topo: non più esperienza ultima e sublimante, ma offesa degradante del Potere o del Caso all’individuo, assassinio esecuzione incidente. La discesa dall’“eros” al sesso, dall’autorità politica al sopruso poliziesco, dall’austerità della morte al ribrezzo del cadavere non è soltanto una caduta a piombo dal sacro nel reale: è anche perdita dell’immagine, fine dell’immaginazione. L’alienazione non si manifesta più nell’una che nell’altra tendenza: si manifesta nella scissione dell’arte nelle due polarità della comunicabilità senza comunicazione e della comunicazione inibita per mancanza di camunicabilità. Nell’aria torpida e infetta della Pop si soffoca; nell’aria asettica e rarefatta della Op non si respira. Nasce allora, e non risolve nulla, la tesi ludica, del “si fa per gioco”: e se ne appropriano, con pari prontezza, le due correnti. Alienazione-evasione: binomio classico. Agli alti livelli (e questa Biennale si propone di dimostrarla con le rassegne dedicate a tre leaders della cultura artistica contemporanea: Dorazio, Lichtenstein, Vasarely) la situazione non si è mai chiusa. Si è mantenuto fermo il nucleo del problema, l’immagine come percezione intellettiva; si è conservato, di fronte al problema, un atteggiamento critico. L’intervento critico è stato risolutivo: alludo alla critica vera e propria, partecipante o impegnata, ma anche all’intelligenza critica che va connessa con l’operazione artistica e alla coscienza, che l’artista ha preso, del carattere culturale della propria funzione sociale». Giulio Carlo Argan «(...) L’eliminazione (almeno potenziale) della rappresentazione non esclude le possibilità allusive dell’immagine. È chiaro ad esempio che un’allusività dell’immagine sussiste largamente in pittori che usano il riporto fotografico, o decisamente fotografano o filmano, e poi in molti altri casi. Ma è anche vero che qui la dimensione dell’immagine finisce per esser proposta come tale, come una presenza, che pur ricalcando fedelmente una realtà oggettiva (anzi proprio per questo) se ne stacca e se ne isola. Il distacco è prodotto in effetti dall’isolamento (e spesso dall’otticizzazione, cioè dall’esagerazione dei caratteri ottici dell’immagine, mediante inversioni chiaroscurali, sgranatura, ecc.):da un isolamento sensoriale del dato visivo che ha perduto i valori integrativi fondamentali del tatto, dell’olfatto, dell’udito. Mentre la pittura naturalistica (come in cinema naturalistico, del resto) tende a surrogare in 298 qualche modo questi valori, in vista di una totalità di rappresentazione, oggi il film d’artista insiste sull’isolamento e sfasamento dell’immagine, che vive così una sua vita distaccata, segue una sua logica di movimenti al di fuori dello spazio e al di là del racconto. Il dato puramente visivo è così esaltato, e sottoposto ad analisi. Anzi direi che le immagini dei films, o le immagini fotografiche o riportate, nella loro presenza ubiquitaria e senza peso, astratta dai pertinenti suoni e odori, concentrata nella pura mobilità, costituiscono il polo dialetticamente opposto all’oggetto puro, concretamente materiale, spazialmente localizzato, datato di tutti gli attributi e sapori della realtà, in lotta con un suo destino statico. Comunque il tattile non sempre si contrappone al visivo (considerando come visivo per eccellenza l’immagine fotografica o filmica), ma può trovare degli scambi e dei trasferimenti nel visivo, o meglio nell’ottico: se qualifichiamo come ottico un aspetto più strettamente fisiologico della percezione visiva. Tanto si potrebbe constatare nell’ambito delle “strutture primarie”, ma già nella pop art attraverso un confronto fra i due estremi, visivo e tattite, di questa corrente. Cioè Lichtenstein e Oldenborg. (...) Mi chiedo perché a questo punto, dopo aver parlato di ottico e di tattile, la considerazione mentale dell’arte cinetica e programmata mi suggerisce l’introduzione di un’altra classe di sensibile: il sonoro. È che in questo settore la provocazione ottica non è, come altrove, compatta e frontale, incentrata sui valori elementari e primari del rilievo, dunque sui moduli del tattile. Qui invece lo stimolo ottico parrebbe articolarsi sui moduli del sonoro: ritmo e frequenza. Risalendo ancora ai capostipiti, in Lichtenstein abbiamo in effetti un’otticità sensuosa, concreta, che traduce delle istanze tattili; in Vasarely l’ottico è astrattamente ghestaltico, risponde a modulazione della luce secondo principi di ritmo e di frequenza. Non per nulla, poi, il capostipite ideale delle ricerche ottico-ghestaltiche è Mondrian con il suo Victory Boogie Woogie, preparato da tutta la sua ricerca ritmica. Più che all’occupazione di uno spazio, la superficie captante di Vasarely allude alla formazione di un campo. In effetti, questa distinzione tra una tendenzialità tattile ed una sonora del visivo e dell’ottico, può entro certi limiti riallacciarsi alla distinzione tra spazio come relatività topologica, nella quale s’afferma l’oggetto che tale spazio modella a sua misura e proiezione, e campo come raggio di un’interazione opera-soggetto. A questa distinzione di recente accennavamo anche per valutare delle possibilità d’integrazione che poi, a livello teorico e psicologico, sono già insite nel concetto di “campo topologico” di Lewin; giacché anche il campo implica uno spazio topologico, amodulare e adirezionale, tale da adattarsi all’azione di avvicinamento e allontanamento della percezione, secondo la teoria dinamica del Lewin. Il tattile e il sonoro, nella rosa dei fenomeni artistici attuali, non si pongono esclusivamente come tendenzialità dell’ottico: ma anche come dimensioni effettive, concretamente integrative dell’una e dell’altra accezione del visivo. Ed anche nella situazione italiana, di cui non vorrei questa volta ripetere i nomi, ma che non è certo tra le meno vive oggi, ed è anzi tra le meno conformistiche e tra le più positivamente sfumate (giacché il rischio è certa stabilizzazione accademica della ricerca), si può constatare questo trapasso dal tattile al sonoro: dal tattile, che al caso limite si manifesta spessamente nel ruvido o nel cedevole, al sonoro che anche è reperibile in forme letterali (non intendo alludere tanto al sonoro dei films, dove il suono può essere puro accompagnamento dell’immagine, sebbene sia indubbio che l’immagine come sequenza tende più al sonoro che al tattile; quanto, piuttosto, all’integrazione sonora di alcune costruzioni di luce-movimento). In ogni caso, questo sconfinamento del visivo nelle due direzioni, e così la dialettica di spazio e campo sottolineano, con l’assunto dell’opera come presenza, il deciso proporsi della fruizione come relazione: e in questa proposta è veramente reperibile un nuovo principio di socialità dell’arte». Maurizio Calvesi «L”Eden di Marotta” – questo Eden dai colori «psichedelici» (per usare un troppo facile aggettivo di moda) che proietta sulle onde del mare o sugli arabeschi del cielo le bande rosa-turchesi-verdi-arancioni di una sottana yé-yé – è in fondo la diretta prosecuzione, la conseguenza logica di un lavoro intrapreso dall’artista ben cinque anni or sono con i suoi mobili antropo-meccanomorfi o con le sue, ancora precedenti (1959) sculture segnaletiche: l’aspetto tecnologico dato dai colori acrilici, dalle vernici epossiliche, dagli smalti poliesteri, unito alla componente astrattamente iconica di una figurazione che è già struttura architettonica, ma è anche riflesso dell’aggressività chiassosa dei massmedia. Ma qui lo scultore ha compiuto – crediamo – un passo innanzi perché ha superato una certa situazione dispersiva delle precedenti sculture in legno plasticato talvolta ancora troppo irrazionalmente ornamentali, riuscendo a costruire un insieme omogeneo e spazialmente organico che è ad un tempo racconto e documento di costume (troppo chiaro, ma anche troppo ricco il tema perché ci si soffermi a precisare le istanze socialmente allusive di questo “Eden-Luna Park”) e rigorosa composizione plastica. Ecco: i singoli elementi delle ondulazioni marine, delle grandi nuvole candide, costituenti con le loro sfrangiature solidificate quasi delle quinte di un teatrino metafìsico, vengono a realizzare un gioco serratto di eventi plastico-cromatici. Eventi-oggetti: dove il divenire una dimensione spazio-temporale si sposa alla “Verdinglichung” della robusta composizione» Gillo Dorfles «(...) L’action painting è l’ultima proposta di immagine globale, l’estremo tentativo di soggettività in un mondo sempre più teso all’oggettività. Eppure avvertiamo dietro la finta incoscienza della pressione tecnologica una coscienza dolorante di questo massima problema, avvertiamo nella scelta del “diavolo” dell’esistenza una mossa tattica, per non confessare che l’unica alternativa è il “diavolo” della tecnica. La più completa proposta tecnica dopo l’action painting, a parte le più limitate ricerche dell’arte programmata, è la pop art. Un “nuovo pensiero”, un metodo per lavorare nel baratro between art and tife, cioè tra oggettivo e soggettivo, tra tecnica e immagine appunto. L’artista chiede in prestito all’industria il suo procedimento tecnico: indi la esemplare freddezza e precisione, indi la mediazione tra civiltà di produzione e civiltà dei consumi. Immagine e tecnica, o meglio tecnica dell’immaginazione, o ancora meglio immagine della tecnica. Perché gli artisti, partiti con la volontà (alibi?) di frantumare l’immagine, si trovano a ricostruirla pazientemente. Si propongono di dare una struttura ai segreti meccanismi dell’immaginazione, ma intanto è proprio la tecnica a imporre la sua legge, a ricevere il brevetto di immagine. E alla fine, ogni pezzo costruito in laboratorio diventa un esempio di progettazione e un modello di comportamento, diventa insomma un’immagine della tecnica. (...) L’immagine fotografica. Paradossalmente è il grado zero: l’immagine nota a tutti, clausola d’un possibile “contratto sociale”. Immagine pre-fabbricata che si presenta alla ribalta dell’immaginazione per essere ri-fabbricata. Scuola, dello sguardo che esige un occhio fotografico più che un’arida mimesi della fotografia. Il museo del rotocalco e del manifesto, la poetica del rispecchiamento: l’artista si riconosce nelle cose e si ritrova mass-man. Si ritorna alle proposte del Futurismo, alla “divina luce elettrica”, all’idea che “all’inizio fu il movimento”. E si giunge alla programmazione, all’intervento nel design e nell’urbanistica. La regola corregge l’emozione, la scienza si aggancia alla coscienza. Luce-movimento-programmazione. La ricerca viene portata nel campo dell’instabilità e l’artista esige la collaborazione dello spettatore. Astrazione oggettuale. Una geometria allineata alla nozione di Oggetto (anche per la segreta alleanza col design), una idea pura ricostruita artigianalmente. L’ingombro spaziale è sintomo di una “visione del mondo” che diventa un trionfale entrare nel mondo. E l’astrattismo non è più inteso nel senso storico (intuizione, espressione, didattica, fantasia) ma come ricerca visuale, come persuasione ottica. Materia schermo. Il plexiglas per costruire immagini: ovvero, una zona di confronto “smilitarizzata”, perché non siamo più a livello di poetica o di tecnica. Un materiale duttile e trasparente, ideale per uno studio “in vitro” dell’immagine. Un materiale che si può presentare come forma assoluta o come arricchimento e commento dell’immagine (il retroterra industriale, lo spazio del supermarket, la sfocatura della memoria). Strutture nello spazio. Ci sono proposte di serialità commerciale ed esistenziale: l’uomo divenuto sagoma, modulor, ombra della sua ombra. E poi le primary structures, l’arte abc, i massimi mezzi per i minimi risultati: una serie di proposte basate sulla progettazione e sul modulo. Una nuovissima “tabula rasa” applicata non più allo schermo della tela ma all’ambiente. L’ornamento è un crimine? Ecco allora la “tabula rasa” dello spazio. Environment. Uno spazio ambiente, che disprezza l’uomo-spettatore (il satellite del pianeta arte) e accetta l’uomo-attore. Un settore collegato alle “strutture nello spazio”, soltanto che al movimento centripeto si alterna la forza centrifuga. Uno spazio tra arte e vita, nel nodo magico della platea, ai limiti della proposta di azione giocosa: dove gioco e teatro sono appunto gli ultimi barlumi di una (ancora possibile) idea “sociale” dell’arte. Film. Non un settore supplementare della mostra ma, diremmo, la proposta più aperta di “nuova tecnica d’immagine”. Un linguaggio scelto dall’avanguardia (Futurismo, Dada) proprio per uscire dai confini della Repubblica delle arti. Passa in primo piano l’occhio (dell’artista, dello spettatore) in questa lucida sintesi delle arti. Basta con la falsità dell’impegno totale di “saper vedere”: cominciamo una buona volta a guardare. Una serie di ipotesi, dunque. E la tesi? Non certo quella ottimistica del progresso (populorum progressio?) ma quella più responsabile dell’esperienza. Provare e riprovare: questo è il problema. Alla critica il compito di registrare tempestivamente i fatti: non si tratta di seguire la moda (come malignamente si dice) ma di riuscire a vedere oggi quello che ci accade sotto gli occhi. La lunga avventura di quest’arte pronta a tracciarsi ogni giorno una “nuova frontiera” che appare a molti estremista e definitiva ma che infallibilmente verrà oltrepassata già domani». Maurizio Fagiolo dell’Arco «Pollock, Vasarely, Fontana, dans les années 1945-1955, furent les premiers à se détacher des séquelles de l’art illusionniste. L’œuvre cessa d’être une transposition, une apparence, impression d’une presence, équivalence charnelle, simulacre d’une lumière, illusion d’espace...Le tableau devint un objet, une présence réelle, qui ne renovyait plus à un spectacle pensé ou imaginé par le peintre, et que celui-ci représentait “comme s’il l’avait vu”. Les peintres d’aprés 1955 pour suivirent dans la voie de l’objectivité. Sur ce plan, on peut considérer que Rauschenberg et Jasper Johns ont rempli un rôle réflexif semblable à celui du Cubisme. Ils ont étudié les rapports entre l’objet, l’image et le fait pictural, sans recourir aux notions naturalistes d’espace, de perspective etc...Cela permit la naissance du Pop Art qui est un art objectif, et non pas, comme le croit certains esprits superficiels, un retour à la figuration illusionniste. L’Art Objectif comporte de nombreuses branches: cinétique, optique, hard-edge, Pop, Minimal, Nouveaux-Réalistes, mécanique, recherche de matièr, de nouveaux matériaux, exploration des possibilités scientifiques...On peut même imaginer un Art Objectif “illusioniste”: l’exemple serait Magritte qui utilise une façon de peindre neutre, impersonnelle, afin de faire des œuvres dont la valeur réside dans l’idée et non dans l’exécution. Les diverses branches sont unies par le fait qu’il s’agit d’un art de présentation, et non plus de re-présentation. L’illusion de l’événement est remplacé par l’événement lui-même. Et on comprend comment cette forme d’art a débouché sur l’ “Environnement”: le problème n’est plus d’évoquer une ambiance, mais de la créer réellement. L’Art Objectif communique sa signification au nivesau de la structure, comme l’art traditionnel, d’ailleurs. En comparant l’utilisation que Rauschenberg, Warhol, Martial Raysse, et Alain Jacquet font de l’image photographique, on s’aperçoit que chacun oriente l’attention vers une structure et un caractère personnel; l’un utilise sa transparence, l’autre son irréalité figée et 299 tragique, le troisième l’utilise comme un masque qui arrête le temps. Le choix de la 6ème Biennale de San Marino s’est porté vers les artistes qui poursuivent cette voie objective, et dont le travail se porte sur la mise à jour de nouvelles structures. L’art ici représenté n’a rien à voir avec la spectacle de la nature. C’est plutôt une tentative pour réfléchir su la nouvelle nature créé par l’homme, ouune tentative pour inventer au organiser les éléments de cette nouvelle nature». Otto Hahn Bibliografia selezionata: − V. RUBIU, Come uccellini allo spiedo, in «La Fiera Letteraria», a. XLII, n. 34,24 agosto, p. 23. «Parata internazionale dell’arte giovane a S. Marino per la mostra “Nuove tecniche dell’immagine”. Il tema, le tecniche e le materie industriali come contenuto base di molta arte d’oggi, si chiarisce meglio con i sottotitoli critici che presentano gli artisti raggruppati in sei sezioni: astrazione oggettuale e costruzione dell’oggetto, environment o ricerca di uno spazio-ambiente, film, immagine fotografica o riportata, materia schermo (il plexiglass), strutture nello spazio, tecnologia (luce, movimento, programmazione). Ma non tutti gli artisti vi stavano comodi, Schifano nel plexiglass, ad esempio, ma si può sempre mentalmente spostare un artista da una sezione all’altra, senza che per questo l’orientamento generale della mostra ne risulti alterato. Ma veniamo agli artisti od operatori estetici come li chiama qualche critico già perfettamente inserito nel sistema. Si comincia con un’opera all’aperto dello scultore Icaro, un “campo” di tubi di ferro tagliati e verniciati di verde. Il campo e il verde fanno pensare alla natura, i tubi il ferro e la vernice all’industria, l’insieme è qualcosa di molto freddo calcolato e scostante, una “struttura nello spazio”, come suggerisce il catalogo e anch’io sono portato a credere. L’ambiguità percettiva tra natura e industria non c’entra, c’entra invece una situazione di neutralità espressiva che per far presa sul pubblico esige uno spazio vuoto intorno a sé e non l’attenzione distratta di chi entra ed esce dal palazzo. Ma ecco appena entrati la Cina di Ceroli. Batti batti la fantasia di Ceroli doveva esplodere in un’idea cinese dello spazio. Certo che non capita tutti i giorni di vedere la Cina esposta in una mostra d’arte e l’idea costituisce di per sé una specie di rivoluzione culturale. Dunque Ceroli ha ritagliato duecento sagome di legno, sistemandole in modo che appaiono schierate a passo di parata, o se preferite infilandole l’una sull’altra come uccellini allo spiedo, dandoci un’immagine segnaletica ma se Dio vuole scherzosa della Cina maoista. E non basta. Forzando il ritmo delle iterazioni e delle profilature, facendole attraversare e come mettere in movimento dagli sguardi degli spettatori, Ceroli ha realizzato l’immagine di uno spazio che cresce si moltiplica in se stesso e si moltiplicano i cinesi sulla faccia della Cina. Com’era facile prevedere, di cose pop e op non se ne vedono molte a s. Marino. Una mostra non inventa nulla, segue il corso dei tempi, e i giovani oggi si muovono in una direzione che pur dovendo molto al pop e all’op è già qualcosa di molto diverso. Del resto, le mostre omaggio a Lichtenstein e Vasarely significano proprio questo, che per farli entrare nella storia li si esclude dal presente in atto. Dunque la situazione è un’altra e ha anche un nome, strutture primarie o strutture nello spazio. Peccato che a S. Marino si sia rimasti con la voglia di sapere cosa effettivamente siano. E questo per la semplice ragione che molti artisti rappresentativi di quest’ultima tendenza, Judd King Tucker, sebbene invitati, sono venuti a mancare all’ultimo momento per difficoltà organizzative; e altri, come Bob Morris, c’erano, ma con una sola “struttura”, e talmente male ambientata nello spazio da sembrare che non ci fosse. Perché, se ho ben capito, uno dei possibili contenuti interpretativi delle strutture primarie sta nel loro porsi a metà strada tra l’arte e la non arte. Un’idea pop, in fondo. Con questo di diverso. Che mentre i pop l’hanno applicata al repertorio dei cosiddetti mass-media, facendo in modo che attraverso il loro intervento ciò che si dava come non arte potesse anche apparire come arte, gli artisti delle strutture primarie, mantenendone il senso ma rovesciandone il percorso, applicano questa idea a un repertorio di forme già largamente utilizzate dagli astrattisti e costruttivisti. Ma tutto questo, ripeto, a S. Marino si presume molto più che non si veda. Per conto mio, ove fosse stato possibile, avrei ambientato in un unico spazio astrazione oggettuale e strutture primarie, mettendovi anche, piccolo omaggio alla memoria, Yves Klein le monocrome. Non dico dimenticandomi ma nemmeno lasciandomi sfiorare dal dubbio che fosse necessario l’omaggio a Dorazio, questo campione delle magnifiche sorti e regressive dell’astrattismo. Perché dei nuovi astratti – Stella Richard, Smith Brunelle, Insley Flavin – si possono dire tante cose, che hanno molto cervello e poco cuore, e sono sistematici in tutto, anche nel volere agire sul quadro trasformandolo in un oggetto o in una struttura primaria: ma sono nuovi, appunto, inventano qualcosa, esplorano una sorta di spazio intermedio tra la pittura e la scultura, rischiano la non arte, non si limitano a garantire l’arte portando le idee all’ammasso. È un discorso che vale anche per i retinici, i cinetici, i programmatori in chiave tecnologica della luce e del movimento. Di Warhol, presente a S. Marino con tre quadri, due grandi e uno piccolo, già noti perché esposti più volte da Gian Enzo Sperone a Torino e a Milano, ma non con il film che pure era stato annunciato, di Warhol convince soprattutto l’invenzione critica per cui ha sottratto la fotografia ai suoi falsi valori estetici, condensandone l’artisticità nel fatto stesso di proporla come quadro, e per il resto restituendola al suo ruolo di testimone del tragico o dell’effimero quotidiano. Pistoletto ignora deliberatamente il valore di reportage della fotografia, l’utilizza nel modo più semplice e disadorno, nient’altro che una messa in posa di persone quasi sempre viste di spalle, un gesto fra i tanti che si compiono nella vita d’ogni giorno. Eppure, una volta ingrandita e riportata sullo specchio del quadro questa esistenza pressoché priva di significato acquista una presenza, una necessità, una facoltà di apparizione che lo spettatore e tutto ciò che si pone e passa davanti allo specchio del quadro degrada al rango d’inutili comparse. Posso sbagliarmi, ma Pistoletto è il solo che dopo Warhol ha avuto un’idea nuova dell’immagine fotografica o riportata. Ed è un vero peccato che in sede di dibattito per il conferimento dei Premi Palma Bucarelli, sollecitata dal pubblico, abbia riconosciuto i meriti di Pistoletto, e di Ceroli e di Pascali, ma a cose fatte, quando le medaglie erano già state virtualmente assegnate, Ceroli e Pistoletto ignorati, Pascali segnalato dai relatori Aguilera Cerni Delevy Dorfles, e poi concordemente sacrificato a Castellani. Nè si capisce allora perché mai Argan e la Bucarelli si siano adattati alla parte così secondaria di provocatore e moderatrice del dibattito, quando avevano tutto il prestigio e l’autorità per intervenirvi in un modo molto più attivo e diretto. E io non vorrei nemmeno entrare nel merito dei premi. Perché Genovès, l’artista premiato per la sezione dell’immagine fotografica o riportata, figurava con un quadro che in gergo si dice “non esiste”, e infatti dopo la premiazione il pubblico è andato in massa a vedere il quadro, tanto poco se n’era accorto. Ma Genovès è spagnolo, e spagnolo era uno dei membri della giuria e la Spagna va sempre e comunque risarcita del fatto di continuare a essere franchista. E il ballottaggio tra Castellani e Pascali s’è rivelato una trovata critica che ponendo i due artisti sullo stesso piano di ricerca sminuiva la personalità di entrambi. Senza dire che Castellani è un artista già largamente noto e premiato in Italia e all’estero, mentre Pascali è da poco più di due anni che ha cominciato a farsi conoscere, ma con una ricchezza e varietà di idee, e un senso così spettacolare della capacità che ha di realizzarle, da lasciare stupefatti anche i suoi ammiratori che sono tanti. Dunque i premiati sono stati quattro, Genovès, Castellani, Marchegiani, e Bruce Conner per il film. È anche vero che il pubblico ha reagito, ma si sa come vanno a finire queste cose, tutto si aggiusta a parole, molta gente pensava già al mare, e una mostra come questa di s. Marino non era poi male, meglio forse di Venezia». − O. FELLINI, Nuove tecniche di immagine alla VI Biennale di San Marino, in «Flash», n. 3-4, settembre-ottobre. − M. FAGIOLO, Sesta Biennale d’Arte di San Marino –La nuova frontiera dell’immagine, in «D’Ars», a. VIII, n. 35, pp.17- 21. «É molto difficile organizzare una mostra d’arte tempestiva: si oppongono ragioni pratiche, la carenza di informazione rapida, il naturale compromesso nelle giurie. Le poche eccezioni confermano la regola.La VI Biennale di San Marino (“Oltre l’informale”) fu una mostra tempestiva: si chiarì l’esaurimento, per ragioni interne, del’“action painting” (unito alla pittura materica e all’“informale” vero e proprio) e si presentarono dialetticamente le due tendenze guida: da un lato la “pop art” (unita al “nouveau réalisme”, alla pittura di réportage) e dall’altro la ricerca visiva (con l’arte programmata, la tecnologia ma anche l’“hard edge”). La VI Biennale di San Marino arriva al momento opportuno, quando da parti diverse si dichiara compiuta l’azione di queste due tendenze guida e infatti vuole essere in primo luogo una verifica di quella dialettica e poi un esame delle nuove tendenze emerse in questi ultimissimi tempi: dall’“environment”, alle “primary structures”, dalla astrazione oggettuale all’integrazione filmica. “Nuove tecniche d’immagine” è il tema dell’esposizione. Ormai, ne siamo certi, la funzione della critica non è più quella di fare grossi panorami. Si tratta, oggi che l’arte si avvia per strade diversissime, di scegliere una via (il più possibile ricca di traverse e di incroci) e di percorrerla fino in fondo. Altri potrà proporre la sua via, e soltanto allora dovrà nascere un confronto, un rapporto sulla situazione. Una mostra non può essere più una “visione globale dell’arte” ma deve scegliere una precisa angolatura critica (altrimenti detta “cattiveria” o “parzialità”). Siamo perciò grati alla Repubblica di san Marino (e all’infaticabile organizzatore G.F. Dasi) per questa possibilità di impostare un discorso oggettivo e soggettivo allo stesso tempo. Il tema “nuove tecniche d’immagine” è molto preciso e allo stesso tempo comprensivo delle direzioni più vivaci della ricerca artistica odierna. Si è evitata intenzionalmente una mostra intesa come kermesse, con inviti a carattere di riconoscimento ufficiale: gli inviti sono stati rivolti di preferenza agli “specialisti” dei problemi sui quali (in questa occasione) la commissione ha posto l’accento. È una mostra settoriale, ma in senso critico, e non impostata cioè col solito criterio della “rotazione”. Inoltre nell’ambito delle poetiche, si sono scelti artisti nei quali è più esplicita la determinazione di una nuova tecnica di struttura dell’immagine. La commissione ha indicato alcune vie di ricerca come le più affermate o stimolanti nel panorama odierno e, senza farne sezioni rigide, le ha proposte come sottotitoli della mostra. Sono direzioni di ricerca nelle quali emergono, più chiaramente che in altre, le differenze rispetto alle tecniche tradizionali che, intenzionalmente ma non polemicamente, non saranno rappresentate nella mostra. Inoltre, si è voluto puntare non soltanto su una mostra di situazione ma anche su una selezione di qualità, prendendo quindi in considerazione la novità di una tecnica ma anche l’efficacia della sua applicazione. Gli artisti sono stati invitati (altro aspetto nuovo) con una sola opera, particolarmente dimostrativa delle loro più recenti ricerche in uno o più settori: ad alcuni artisti che operano in ricerche di “ambiente” si è data la possibilità di costruire un “environment”. (...)». − AA.VV, Sesta Biennale d’Arte di San Marino, in «D’Ars», a. VIII, n. 36-37, pp. 22-45 (pubblicati i seguenti scritti: G.C. ARGAN, Discorso di apertura, pp. 23-27; V. AGUILERA CERNI, Premessa al dibattito, pp. 28-35; O. HANN, Riflessioni su una scelta e un premio, pp. 38-43; s.a., Attribuzione dei premi, pp. 44-45). San Benedetto del Tronto, Palazzo Scolastico Gabrielli, 22 luglio Franco Angeli, Claudio Cintoli, Giosetta Fioroni e Mario Schifano partecipano alla VII Biennale d’Arte Contemporanea. Rassegna di Pittura e Grafica nella sezione 300 Tendenze d’oggi. Testi di Luciano Marucci e Marisa Volpi. Francavilla a Mare, agosto Giosetta Fioroni e Luca Patella partecipano al XXI Premio Nazionale di Pittura Michetti. Testo di Palma Bucarelli. Münster/Westfalen, Im hause Dieter + Ulla Baumewerd, 5 agosto Gino Marotta. Il cielo di Gino Marotta. Naturale-Artificiale. Scritto di Gino Marotta. Avezzano, Palazzo del Liceo, 10 agosto Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Jannis Kounellis, Pino Pascali e Mario Schifano partecipano con altri artisti al XVIII Premio Avezzano – Proposte uno. Brescia, Galleria d’Arte Moderna, settembre Umberto Bignardi espone con altri artisti. Tokyo, National Museum of Modern Art, 2 settembre Mario Ceroli, Tano Festa, Sergio Lombardo, Gino Marotta, Pino Pascali e Mario Schifano espongono con altri artisti nella mostra Exhibition of Contemporary Italian Art. A cura di Palma Bucarelli e Masaioshi Homma. Testo di Palma Bucarelli (mostra allestita successivamente a Kyoto). «I don’t know if one can speak of a real and true corrent of Pop Art in Itaty. In any case, Italian currents tending in that direction avoid a complete break with the problems of figuration and form and are lacking in that quality of ostentatious polemic with traditional artistic values that they have had in the United States. One certainly cannot speak of Pop solutions in the “urban landscapes” that Rotella creates with unusual evocative force from decollages of advertising posters, or in Adami’s compositions, inspired, by the collage type, of the images popularized in cartoons, or in the images of Schifano, who aims to identify or, rather, to superimpose or render simultaneous, optical perception and psychological perception. Not can Pop be mentioned in connection with the reflecting pictures of Pistoletto, whose aim is to implicate the viewer in the space of the image, to set up a strange, ambiguous relation between the “moment” of the figure in the painting and the “moment” in the existence of the one looking at it. Much has been said today of the Op-Pop convergence; actually, in Italy, it is not so much the combination of the two tendencies that, according to their premises, would seem to be diametrically opposed, as it is the integration of concrete images, often borrowed from the images diffused by the mass media, in structured, often rigorously geometric patterns. We see this in the works of Festa, Marotta, Moriconi, and even in the creations of Manzoni, that promising artis who was lost to ustoo soon. He was the keenest interpreter in Italy of that spirit of demystification that Dadaism, with Duchamp, had introduced to European art a half-century ago. (...) Lo Savio, another young artist who died too soon, was perhaps the first to propose the problem of the identification – or the reduction to unity – of an ideal, theoretical, geometric space and a space that is empiric, or a space of existence. His entire work, in fact, was an attempt to unite the two terms in a single formal unity, in a single plastic object, the object symbolic af spacelight. (…) Castellani unhesitatingly confronts the rarefied spaces, the purely geometric planes of the purest 15th century perspective, and those geometric planes become a candid, plastic material that seems to draw the observer down in a slow descent. Bonalumi also concentrates on the theme of space – not only a visual spade, but a space that is tactile, flexible, elastic, geometric, an physical at the same time. Not even in the youngest and most unprejudiced artists does the thought of space give way to the exclusive and obsessive presence of things. Pascali constructs strange objects of large dimensions; he goes so far as to translate the waves and depths of the sea into plastic images. Actually, he wants to make objects in which the internal space can be felt and in which the plastic surface is nothing more than the limit between the pressure of an axternal space and the tension of an internal space. Ceroli creates statues out of the rough wood of packing cases; it is his way of taking the myth out of sculpture, of destroying the myth of the simulacrum. His shapes, precisely bccause they are thus whittled and profiled, suggest and soletimes create a space around them; often they seem to have flattened as if they were pressed into the depth of a perspective, constrained to contain themselves within the limits of a perspective plane. Lombardo’s search is also in space, he, too, avails himself of extremely simple formal schemes and of industrial materials. His aim is to insert into reality a formal scheme so strong as to construct space, to substitute completely the space-ambient». Palma Bucarelli San Paolo del Brasile, Museo d’Arte Moderna de São Paolo, 23 settembre Franco Angeli, Mario Ceroli, Gino Marotta e Pino Pascali partecipano alla sezione italiana della IX Biennale di Arte Contemporanea. Testo di Gillo Dorfles. Genova, Galleria La Bertesca, 27 settembre Jannis Kounellis e Pino Pascali espongono con Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Giulio Paolini ed Emilio Prini nella sezione Arte Povera. Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Renato Mambor e Cesare Tacchi espongono con Paolo Icaro ed Eliseo Mattiacci nella sezione ImSpazio. Testo di Germano Celant. «L’immagine abbraccia lo spazio, si fa spazio. Si svolge nel tempo e diventa cinema. Si dilata su e con le pareti e diventa architettura. Invade le strade e i quartieri e si fa urbanistica. Procede e si evolve; non solamente per passare da uno stadio ad uno successivo, ma per approdare ad una struttura stilistica “diversa”. Seppur tende a rimanere nell’ambito visuale, il linguaggio per immagini cerca di approdare ad una struttura più aperta, più mondana, aspira ad integrarsi ai sistemi linguistici dell’architettura e dell’urbanistica. Praticamente stiamo presenziando ad un processo che non intende avanzare. Assistiamo al modificarsi di un progettare che identifica ora la sua tipicità nel decantarsi da un sistema all’altro. Stiamo forse assistendo al movimento di una ricerca, quella visuale, che tenta di definirsi attraverso la struttura linguistica dell’architettura e dell’urbanistica. La ricerca artistica sta forse mettendo a fuoco quel passaggio in cui l’immagine dal significare passa ad essere lo spazio. Tende a rivivere empiricamente l’osmosi da un sistema all’altro, per costruirsi come imspazio. In questo senso sembrano collocarsi in America i lavori di Sol Lewitt, Davis, Carl Andre, Bob Morris, Tony DeLap, Ronal Bladen, Robert Grosvenor, per quanto riguarda le Strutture primarie, Marisol, Segal, Oldenburg, Chrissa, Falhström per la new-image. In Italia, dopo la fondamentale mostra Lo spazio dell’immagine, (Foligno, luglio 1967), da cui derivano queste mie osservazioni sull’imspazio, gli ambienti di Castellani, Scheggi, Bonalumi, Alviani, Uncini, Gruppo N, Boriani, De Vecchi e Colombo per le ricerche programmate, Pistoletto, Piacentino, Marotta, Gilardi, Ceroli, Tacchi, Bignardi, Icaro, Mambor e Mattiacci per le ricerche oggettuali. Questi ultimi, che presentiamo in questa mostra, operano, già da tempo, in questa nuova dimensione progettuale, che mira ad intendere lo spazio dell’immagine, non più come spazio contenitare, ma come “campo” di forze spazio-visuali. Le loro opere presentano infatti una strutturazione “aperta” di frammenti visivi, formano imspazio a circolo aperto, a tempo reale, individualmente sensoriale, di ordine psicofisico, che agisce con e sullo spettatore. Uno imspazio che procede geneticamente insieme ad esso, costituendosi come piena integrazione di spazio ed immagine, sempre in continua dialettica. Passando ad analizzare le varie realizzazioni, presentate qui, possiamo notare come, dopo La Cina è vicina e La gabbia per cento uccelli, Ceroli con il suo posteggio abbia realizzato una nuova gabbia, ideologicamente più sarcastica, che equivale a L’America è vicina. Là erano le masse compatte del “pericolo giallo”; inquadrate ed anonime, nel loro procedere scandite secondo i detti di Mao. Qui sono i simboli del White Power. Una sequenza ossessiva di macchine (Where’s the man?), ammassate al ritmo di “fiat light”. Una sequenza ossessiva di immagini familiari e consuete, ormai pienamente integrate, diventate simbolo sociale del nostro proletariato “rivoluzionario”. Un materiale grezzo, il legno, che mina una situazione complessa, una corsa ad occupare il primo posto, sotto la direzione dell’attento e un po’ malvagio signore del parking, il distaccato posteggiatore Ceroli. Da Ceroti ad Icaro il passaggio è quasi impalpabile. Da una gabbia ideologica si passa ad una gabbia vera, una cassa-casa aperta, di elementi metallici, che vive quale filtro teso a porre l’imspazio in posizione ambigua. La gabbia è contenitore o è contenuta? Penetrando in essa, siamo in una spazio chiuso a entriamo in uno spazio aperto? Siamo liberi fuori o dentro? Qual’è il nostro posto? Impossibile una risposta. Anche qui come nel caso del posteggio di Ceroli, il guardiano non risponde. Attende la vostra entrata e accetta la vostra uscita, sicuro che nulla cambierà del vostro stato, certo però di avervi marcato quale sicuro cliente. Quale di questo spazio “integrato”, dunque, il modo di fruirlo e di agirlo? Nel mentre entriamo ed usciamo chiedendoci quale sia il valore di questa gabbia-filtro, la fruiamo nella sua vera ragione di essere gabbia, nel suo dissociare la nostra percezione ed azione ambulatoria e mentale, da una posizione “in” ad una “out” o da una posizione “out” ad una “in”. La storia non cambia e continua. Inutile non comprare la cinquecento, come inutile non entrare, siamo sempre “dentro”. Parimenti “ambigua”, in senso oggettuale, si presenta la poltrona di Tacchi. Vera granchio ad infinite braccia e sedili, un oggetto non più di tapisserie passiva, ma attiva. Un’ameba di pelle rossa che ad ogni contatto umano si distende, emettendo i suoi prolungamenti, per soffocarci e succhiare così il nostro corpo non più in effige, come nelle opere precedenti di Tacchi, ma in naturale. Un antirelax che stimola a diffidare degli oggetti di abbandono quotidiano, la cui famigliarizzazione, come afferma Anders, giova all’alienazione, poiché sono strumenti che tolgono all’uomo la capacità d’accorgersi che lo hanno straniato dal mondo e il mondo da lui. “Rotor vision” è l’oggetto cinematico realizzato da Bignardi. Come un rotor si perde la dimensione ponderale e fisica del nostro corpo nello spazio così col rotor vision, l’immagine “particolare”, i gesti primari, (qui il lavoro di Bignardi si ricollega alle ipotesi del new american, cinema e all’arte povera, il ritorno di Muybridge e i nuovi lavori con Leonardi e Ricci, ne sono la conferma. Bignardi deve approdare al cinema!), si centrifuga sulle pareti, sugli oggetti, sullo spettatore, perde la dimensione di immagine fissa, di quadro, di tela, di superficie immobite percepibile; diventa imspazio puro. La macchina fulcro-nucleo della visione spinge, infatti, l’immagine nello spazio, non si cura di invaderlo, di sovrapporsi ad altre immagini, come un’insaziabile image-machine divora, costruendo imspazio, ogni gesto e da ogni ambiente con cui viene a contatto. Se il rotor vision divora, il tubo di Mattiacci distrugge e violenta lo spazio. Basta collocarlo ed eccolo dipanarsi, percorrere stanze, corridoi, scale, intere case, quartieri, città. Vero event plastico, passivamente accetta ogni posizione, ogni collocazione, si crea e si riproduce per affermare la sua onnipresenza e ubiquità. Dispotico tiranno spaziale, non rispetta la nostra privacy, approda al nostro letto, ascolta i nostri discorsi, vive con noi. Cosa abbiamo fatto per meritarci simile mostro? Antirelax, dissociazione, violenza, tutto si può catalogare. Ed ecco le impagine di Mambor. Paziente e meticoloso sterilizzatore di forme e di gesti creativi. Le sue tele bianche sono pagine su cui scrivere o effigiare i momenti e gli strumenti di Ceroli, Tacchi, Mattiacci, Remotti, Pascali,… oppure le forme sem- 301 plici degli oggetti quotidiani, il fucile, 1a resistenza (quella elettrica, s’intende, vade retro ideologia!); oppure la scala cromatica, gli elementi che compongono il nostro panorama percettivo, culturale e non. Un grande quaderno, un vero diario, invero, su cui Mambor annota di volta in volta ogni gesto, ogni colore, ogni artista che viene a cadere sotto il suo sguardo. Vano ed erroneo accusarlo di plagio, di imitazione, di prelievo, come una macchina schiacciasassi la sua tela registra, annota, sterilizza, per depositarci innanzi, quale catalogo spazio-visivo, tutti gli strumenti e i particolari del mondo». Germano Celant Parigi, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, 29 settembre Mario Ceroli, Tano Festa, Jannis Kounellis, Pino Pascali e Mario Schifano (sezione pittura e scultura), Luca Patella (sezione fotografia, premiato), Jannis Kounellis (sezione scenografia), ancora Luca Patella e Mario Schifano (sezione film) partecipano con altri artisti alla V Biennale de Paris. Testo di Palma Bucarelli, Commissario Generale per la sezione italiana. Altri testi di Alberto Boatto (sezione film) e di Giuseppe Bartolucci (sezione scenografia). «(...) Dans la composition de la présentation italienne, nous ne nous sonmmes pas proposés de caractériser une situation nationale qui, heureusement, n’existe pas: nous nous sommes préoccupés seulement de démontrer que les jeunes artistes italiens, comme ceux d’autres pays, apportent une contribution d’expérimentation à la recherche esthétique, et que cette contribution ne manque pas de signification et d’actualité». Palma Bucarelli «Déjà le manifeste de la cinématographie futuriste du lointain 1916, en liant étroitement cinéma et visualité, avait prévu l’actuel débordelent: “nous offrons de nouvelles inspirations .car les limites du tableau”. Pour ces ciné-peintres le cinéma est avant tout un œil. Pour Mario Schifano et Luca Patella la photographie sert d’intermédiaire entre la peinture et le cinéma, et leur intérêt prédominant pour cet aspect visuel est démontré par le fait qu’ils perçoivent le monde déjà sous forme d’images. A remarquer les images objectives de la télévision chez Schifano et les images encore objectives de la circulation le long d’une artére urbaine imprimée sur les vitrines et les capots des automobiles chez Patella. Ce sont sur ces plaques naturellement impressionables que Patella pointe sa caméra. De plus l’objectif fragmente, grâce à des moynes visuels des visions trop quotidiennes et rapproche deux recherches bien autrement caractérisées. Dans Soirée Schifano a monté des passages de programmes de télévision qu’il a repris tui-meme sur l’écran: speakers, annonces publicitaires, gestes d’acteurs, cyclistes en action, chanteurs, déclarations d’hommes politiques. Dans le montage par courtes phrases on exploite de léger décalage du rythme cinématographique et télévisif; et un virage de couleurs acides, le violet, l’orange, le jaune-vert altèrent ultérieurement la phrase syncopée. (…) Dans la fluidité des images de Trois, et ça suffit de Patella, dans leur enlacement et dans leur modification réciproques, une vision fantastique, lyrique et discrète se déroule et finit par reobjectivité. Le fantastique représente ici l’entvers d’une vision familière comme celle des autos et des piétons dans la rue, mais constitue en nême temps une forme originale d’étrangeté. Dépaysés comme le sont à présent les autos et les passants ils flottent à la dérive “sans poids”. (...)». Alberto Boatto «Les deux exemples de scénographie proposés ont pour but d’orienter les diverses tendances qui se sont manifestées ces dernières années, à des niveaux et avec des résultats différents. Ainsi la scénographie de Kounellis est la plus “ouverte” et la plus novatrice, dans la mesure où, sur des données élémentaires de pure “visualité”, il construit un espace scénique “nu”, dont la réduction des éléments techniques et la proposition de nouveaux matériaux apparaissent bien positives. (...)». Giuseppe Bartolucci Bibliografia selezionata: − L. BOCCHI, Aperta la Biennale di Parigi dedicata ai pittori d’avanguardia, in «Corriere della sera», 30 settembre. Milano, Galleria Jolas, ottobre Pino Pascali. Testo di Cesare Brandi. Mostra in due tempi: nel primo tempo le opere bianche, nel secondo tempo le opere di terra. Bibliografia selezionata: − d.bu, s.t., in «Corriere della Sera», 30 novembre. − V. RUBIU, Acqua fatta d’acqua, in «La Fiera Letteraria», a. XLII, n. 52, Roma, 28 dicembre, p. 23 (mostra citata). Milano, Studio Marconi, ottobre Mario Schifano espone nella mostra Tuttestelle. Bibliografia selezionata: − G. ZINCONE, Fontana di stelle, in «Corriere d’Informazione», 20 ottobre. «Probabilmente ci sarà ancora qualcuno che, generalizzando, parlerà di pop-art a proposito di Mario Schifano, anche dopo aver visto la sua mostra “Tutte stelle” allo studio Marconi. Ma Schifano fin dall’anno scorso, col “Futurismo rivisitato”, si è posto in una costellazione ben precisa, quasi in una zona isolata della ricerca poetica e intellettuale. In questa mostra l’ascendenza Jasper Johns-Dine-Rivers continua a farsi sentire, ma è chiaro che la poesia ha ormai preso il sopravvento sulla contestazione. Il tutto-dal-vero pop, del resto, è sempre stato soltanto un pretesto per Schifano. Già nella sua preistoria fatta di scritte pubblicitarie agite col colore, di elementi meccanici e grafici (frecce, scritte, fotografie, automobili) e di solidi geometrici raggelanti, si avvertiva una tensione verso il superamento del contesto psicologico che lasciava un largo margine al lavoro sull’oggetto-quadro. Ora questa doppia tensione, poetica e tecnica, ha trovato il suo limite. Ed è comprensibile che oggi Schifano dica di non voler più dipingere e di volersi dedicare esclusivamente allo spettacolo (un suo film, “Anna Carini in agosto vista dalle farfalle (colori naturali)” viene proiettato allo Studio Marconi). “Tutte stelle” è una mostra globale, un quadro unico variato fino all’ossessione; e una sorpresa autentica per chi la visiti: Perché Schifano è riuscito a coniugare la complessità intellettuale con la più sconcertante castigatezza espressiva. I quadri esposti sono molti, ma il soggetto è uno: palme e stelle, queste ultime disposte secondo una ondulazione liberissima, in colori acidi e “catarifrangenti” come quelli di certi manifesti pubblicitari. Sulla tela dipinta a spruzzo in combinazioni intercambiabili c’è uno schermo: un telaio rovesciato di plastica opaca, scandito da una striscia verticale trasparente (il confronto e la conferma dell’intuizione poetica o, se volete del sogno). Per chi ama in un quadro, i “significati”, ne offriamo un campionario fruibile (con o senza ironia) a tutti i livelli: la trasformazione del quotidiano in poesia e viceversa; l’evasione da catturarsi attraverso una finestra appannata; il primo pacchetto di sigarette (Giubek) di una adolescenza irreparabile; il presepe senza i Re Magi; l’idea di bellezza appresa da un manifesto commerciale; le bandiere di Johns (stelle e strisce) esplose al cospetto della natura; il quadro-illusione, il quadro-innocenza, il quadro-televisione. O più semplicemente, per chi si accosti attraverso gli schemi di plastica alle fontane di stelle di Schifano, la coscienza lucidissima, naïve e intellettuale insieme, di una disperata e impellente esigenza di poesia. Per essere perfette, cioè universali, queste composizioni avrebbero bisogno di poco. E questo poco è l’umiltà di spogliarsi dell’ironia, che in Schifano non è altro che pudore e forse paura di quel tanto di sragionante che l’abbandono poetico si porta appresso. Per questo preferiamo non credergli quando Schifano dice che non farà più quadri. (…) È importante, nella situazione attuale della pittura italiana (piena di debiti contratti con i maestri statunitensi), che un artista come Schifano si sia Sganciato dalla polemica diretta e abbia scelto la strada dell’autonomia poetica. Dal “Futurismo rivisitato” a “Tutte stelle” c’è soltanto un’impercettibile svolta nella tecnica, ma, quanto alle scelte sostanziali, c’è un autentico scatto. È sperabile che il nostro pittore non voglia irrigidire questa sua stagione di grazia nella sigla, nella contemplazione estetica del risultato raggiunto». Lecco, Galleria Stefanoni, 18 ottobre Mario Schifano. Testo di Eligio Cesana. «Mario Schifano si è rivelato e si conferma tra i maggiori protagonisti della pittura italiana degli anni Sessanta: di tutti forse il più tempestivo e fecondo nell’ideazione e nella capacità disviluppare imprevedibilmente le premesse da cui muove. (...)Ha passato in rassegna imarchi grafici più famosi, poi ha cominciato a traguardare le immagini attraverso una sagoma obbligata come quella dello schermo cinematografico. Si è soffermato con nuova attenzione sulle vecchie fantasie stroboscopiche di Duchamp e sulle bande bianche e nere dell’arte “op”. Ha riveduto le colature degli informalisti scoprendovi ignorate sapidità ed ha “rivisitato” i futuristi per un estemporaneo omaggio, incantandosi però soprattutto davanti all’immagine vagamente patetica dei suoi protagonisti, riuniti a posare per la foto ricordo. (...) La sua visita al museo d’arte moderna e contemporanea, si è rivelata didecisiva pregnanza. Non per scienza o per magia, ma per la supersensibilità propria del rabdomante, dell’ambiente dell’imagérie d’élite. Schifano ha avvertito la presenza diflussi sotterranei impreveduti e li ha estratti per una fruizione nuova e diversa. Il fatto elementare e sorprendente è che da stilemi rigidamente codificati, ha saputo estrarre una radice squisitamente pittorica: guarda al mondo delle immagini di repertorio, come un tempo il pittore guardava alla realtà naturale e ne restituisce una lettura in termini pittorici, che significa per il modo in cui si esprime e non per quello che rappresenta, benché sia pregno di contenuti di per sé stimolanti. Una pittura rigorosamente attuale, che evita ogni luogo comune o consumato, ogni “pittoricismo”, per giungere al fruitore icastica e graffiante; che mina preferibilmente linguaggi non pittorici o antipittorici tuttavia riscattandoli su un piano di chiara significanza estetica; che è attenta ad ogni suggerimento stimolante da qualunque parte provenga. Un linguaggio eterodosso nei termini e nella sintassi, ma che si rivela carico di valori pittorici, benché diversissimi da quelli consacrati nella tradizione. Non c’è polemica o calcolo palese nel gesto di Schifano ma solo sorprendente potere: come nel mito di Mida, rende pittura quello che tocca. (...)». Eligio Cesana Bibliografia selezionata: − s.a., s.t., in «Il Giornale di Lecco», 16 ottobre. − s.a., Schifano alla Stefanoni di Lecco, in «L’Ordine», 20 ottobre. Chicago, Museum of Contemporary Art, 24 ottobre Gianfranco Baruchello espone con Dick Higgins, Masami Kodama, Shusaku Arakawa, Allan Kaprow, Wolf Vostel e altri artisti nella mostra Pictures to be read / Poetry to be seen. Lissone, Centro del Mobile, 29 ottobre Gino Marotta partecipa con altri artisti al XV Premio Lissone. Testi di Gian Alberto Dell’Acqua e Luciano Caramel. Roma, Teatro di Via Belsiana, novembre Franco Angeli, Tano Festa, Luca Patella e Mario Schifano partecipano al ciclo di proiezioni Esperienze, organizzato dallo stesso Schifano. 302 Montreal, novembre Gino Marotta espone con altri artisti nella mostra Montreal Expo Habitat. Roma, Galleria La Salita, 8 novembre Francesco La Savio. Dipinti, metalli, articolazioni totali 1959-1963. Bibliografia selezionata: − s.a., Lo Savio, in «Il Popolo», 2 dicembre. «Alcune tra le ultime opere progettate ed esguite da Lo Savio, prima della sua tragica scomparsa, sono esposte alla Salita. Datate 1959-1963, indicano nella severità progettuale ed esecutiva, il rigore di una ricerca la quale, se pure rimasta drammaticamente interrotta, può ben ancora continuare a valere, con tutti gli avvertimenti più pregnanti, nell’arco delle esplorazioni strutturali più complesse del nostro tempo». Roma, Galleria L’Attico, 11 novembre Jannis Kounellis. Bibliografia selezionata: − S. ORIENTI, Kounellis, in «Il Popolo», 2 dicembre. «La mostra di Kounellis all’Attico ha suscitato grande scalpore, trovando subito nei critici, d’appoggio alle ultimissime correnti, un consenso, scontato nei suoi schemi, ma sorprendente se posto in relazione a quanto è esposto: piante grasse in contenitori metallici (peraltro ideati con costrutta ed essenziale elaborazione), un pappagallo vivo, un acquario. La nuova frontiera “pop” di marca nostrana avverte in essi un mezzo di recupero dei termini di natura ed innocenza. Ci interessava Kounellis fino a qualche mese fa, quando l’attrito inventivo appariva assai più attivo nei fiori infiammati; ma quel recupero di cui si parla, ci sembra, in maniera deludente, rifarsi ad una “naiveté” la quale, sempre uggiosa, e raramente autentica, è qui incoerentemente sconfessata dalle mediazioni attraverso le quali è proposta». − L. TRUCCHI, Kounellis all’Attico, in «Momento Sera», 15-16 dicembre. «Non ero stata troppo benigna parlando, la scorsa primavera, della mostra di Jannis Kounellis all’Attico. Quell’impasto non ben risolto di pop e di scoperto simbolismo naturalistico mi aveva negativamente impressionata. Kounellis era in un momento di trapasso, ogni linguaggio pittorico lo irritava profondamente, sembrava che avesse bisogno di disintossicarsi da qualsiasi formalismo, ma non trovava ancora il coraggio di saltare il fosso. Oggi Kounellis ha fatto il gran rifiuto: ha abbandonato la pittura ed è passato direttamente alla natura, ad una natura non rappresentata ma addirittura concreta ed ha messo su all’Attico un suo giardino, una oasi ideale, con aiuole di terra vera, piante grasse, acquario ed uno stupendo pappagallo in libertà che becca e sorvola beato sul suo piccolo regno vegetale. Anche in catalogo, invece dei soliti discorsi dei critici, Kounellis ha registrato le meravigliose osservazioni di alcuni bambini, introdotti nella sala della mostra prima della inaugurazione. Ebbene Kounellis questa volta ha fatto centro: il suo giardino è la realizzazione di un sogno. E dato che ormai anche gli addobbi natalizi delle strade cercano un linguaggio più o meno plastico, salire dalla falsa “sala da ballo” di Piazza di Spagna gremita in questi giorni di rossi lampadari, all’oasi tropicale di Kounellis, può essere, può essere molto riposante. Questo ritorno a zero, questo rifiuto totale, questa neo-metafisica-concreta ci ripropone in un mondo di “oggetti” le integre “cose” della genesi. Certo la strada è pericolosa e questo nuovo exploit di Kounellis, meditato più in uno spirito hippie che in una salutare soggiacenza filosofica alla Jean Jacques Rousseau, può veramente portare alla paventata morte dell’arte». della realtà e un modo di vedere la realtà. Come ha sottolineato Calvesi a proposito della scultura di Ceroli “idea” ha la stessa radice di idein, vedere: ma per l’appunto, se si può dire che queste nuove sagome di Ceroli non sono che delle idee,lo sono in un senso pre-platonico ed etimologico: schemi visivi; dove il mentale confina insomma strettamente col visivo, anche se non con l’estetico, né con il contemplativo. Ancora una volta ci troviamo di fronte a termini che si pongono tra loro in relazione dialettica, quali il caldo e il freddo, la partecipazione e l’ironia, il mentale e il visivo. Il fatto è che Ceroli è tutto costruito su termini antinomici: nella sua storia artistica, in cui coesistono pazienza artigianale e sottigliezza intellettuale, come nella sua stessa presenza fisica, cordiale e aperta ma anche improvvisamente sfuggente dietro lo schermo di una fredda e distaccata ironia». New York, Sidney Janis Gallery, 6 dicembre Mimmo Rotella espone con altri artisti nella mostra Homage to Marilyn Monroe. Roma, Galleria La Salita, 13 dicembre Franco Angeli, Tano Festa, Francesco Lo Savio, Titina Maselli, Fabio Mauri, Mimmo Rotella e Mario Schifano espongono con altri artisti nella mostra X Anniversario. Napoli, Palazzo Reale, 28 dicembre Mario Ceroli, Gino Marotta e Pino Pascali partecipano con altri artisti alla III Rassegna d’Arte del Mezzogiorno – Sculture a Palazzo Reale. Testo di Cesare Brandi. Milano, Galleria dell’ Ariete, 21 novembre Gino Marotta espone con altri artisti nella mostra Luce movimento in Europa. Bologna, Galleria De’ Foscherari, dicembre Mario Ceroli e Pino Pascali espongono con altri artisti nella mostra Collage 1. Napoli, Galleria Modern Art Agency, dicembre Mario Ceroli Bibliografia selezionata: − F. MENNA, La mostra di Ceroli alla “Modern Art Agency, in «Il Mattino», 8 dicembre. «(...) Emerge chiaramente da queste opere quello che si può considerare l’aspetto fondamentale della ricerca di Ceroli, ossia un atteggiamento di fronte alla realtà circostante disponibile ad accogliere di questa i dati sempre diversi e nello stesso tempo attento a condurre sulla molteplicità e la accidentalità di una sorta di riduzione all’essenziale, allo schema. La scultura di Ceroli è fatta di sagome ritagliate in legno rappresentanti figure, oggetti, monumenti: ma tutto ciò che costituisce gli attributi secondari della realtà viene metodicamente eliminato, semplificato, ridotto a pochi elementi essenziali, allo schema, appunto della sagoma e della silhouette. In questo c’è un margine di ambiguità che consente all’artista di aprirsi con allegria sui molteplici aspetti della vita cittadina e nello stesso tempo di esercitare su di essi una operazione sofisticata ed ironica. Si tratta di una operazione calda e fredda, partecipe e distaccata, un amore-odio, se volete, nell’atteggiamento di Ceroli c’è anche un margine di dandysmo, ossia la volontà di attraversare la vita con provocante eleganza. La sua modernità consiste appunto in questo e non importa se i dati dell’operazione sono attinti al panorama monumentale delle nostre città e in particolare di Roma o più direttamente alla vita vissuta: il rudere archeologico o i ragazzi del “piper” sono mediati sempre da uno schema, che è in definitiva, un’idea 303