Il bendaggio funzionale in esiti di distorsione della

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Il bendaggio funzionale in esiti di distorsione della
EUR MED PHYS 2008;44(Suppl. 1 to No. 3)
Il bendaggio funzionale in esiti di distorsione
della tibiotarsica quale supporto al sistema propriocettivo:
studio sperimentale di efficacia
F. LENARDUZZI1, S. PLATEO2, L. VISENTIN2, A. CELIA1, L. FEDELE1, F. SARTOR1
1S.O.C.
Introduzione
La sensibilità propriocettiva è indispensabile non solo per praticare sport ma anche per la vita di tutti i giorni. Senza non saremmo in
grado di compiere correttamente i movimenti più elementari, come
afferrare un oggetto o camminare. Nella sua totale assenza al buio o
ad occhi chiusi non potremmo sapere in che posizione si trovano i
nostri arti, se braccia e gambe sono flesse o estese o se i muscoli
sono rilassati o contratti.
Questa sensibilità può essere “danneggiata” da una distorsione o
da un danno articolare che interessa i legamenti e che può compromettere la funzionalità di articolazioni ricche di terminazioni quali la
caviglia. Mancanza di controllo, cedimenti ed instabilità ne sono le
nefaste conseguenze.
La distorsione di caviglia è senza dubbio uno degli eventi traumatici più frequenti nello sportivo, si rende quindi necessario ridurre al
minimo i fattori di rischio e stabilire delle condotte che portino a
prevenire l’insorgere ed il reiterarsi della problematica.
La distorsione può infatti limitare la funzionalità dinamica e statica del piede e ridurre la prestazione sportiva. Le recidive, piuttosto
frequenti, possono addirittura lasciare postumi che compromettono
la normale deambulazione.
Tibiotarsica e patologia capsulo-ligamentosa
L’articolazione tibiotarsica è una troclea a ginglimo angolare, che
risulta formata dalla faccia articolare della tibia, dalle facce dei malleoli tibiale e peroneale e dalle superfici malleolare e trocleare dell’astragalo. Il malleolo peroneale è più distale e posteriore rispetto al
malleolo tibiale. Tibia e perone sono mantenuti uniti dalla membrana interossea e dai legamenti tibio peroneali a livello della sindesmosi. Nel mortaio tibio peroneale si incastra l’astragalo, che presenta una troclea convessa dall’avanti all’indietro. La troclea astragalica
è più larga nella parte anteriore, per cui nella flessione dorsale,
quando la parte anteriore si impegna nel mortaio, la congruenza e
quindi la stabilità articolare sono maggiori rispetto alla flessione
plantare.
Essendo una troclea, la tibiotarsica possiede un solo grado di
libertà ma coadiuvata dal complesso articolare del piede e dalla rotazione assiale del ginocchio, realizza l’equivalente di una sola articolazione con tre gradi di libertà che permette di orientare la volta
plantare in tutte le direzioni, per adattarla alle asperità del terreno. I
tre assi principali di questo complesso articolare si incontrano
approssimativamente a livello del retropiede ed in posizione di riferimento risultano perpendicolari tra loro. L’asse trasversale che passa
per i malleoli e corrisponde all’asse della tibiotarsica, condiziona la
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di Medicina Fisica e Riabilitazione,
Azienda Ospedaliera “S. Maria degli Angeli”, Pordenone;
2U.O. Medicina fisica e Riabilitazione, U.S.L.L. 9, Treviso
flesso estensione; l’asse longitudinale della gamba è verticale e condiziona abduzione ed adduzione. Ed infine l’asse longitudinale del
piede è orizzontale e condiziona pronazione e supinazione. Questi
movimenti non esistono però allo stato puro ed un movimento in
uno dei piani è sempre accompagnato ad un movimento negli altri
due. Così adduzione, supinazione ed una modesta estensione originano la posizione in inversione. (Kapandji 2002).
La stabilità della tibiotarsica è garantita da elementi passivi ed
attivi. Gli elementi passivi sono: scheletrici (costituiti dai malleoli
mediale e laterale, che limitano i movimenti laterali e le rotazioni)
fibrosi e capsulo legamentosi (costituiti dai legamenti tibio peroneali
e collaterali).
La capsula fibrosa è rinforzata dai legamenti suddivisi in due
gruppi di sostegno principali, l’apparato legamentoso mediale e
quello laterale.
Il legamento collaterale mediale (o deltoideo) è un robusto complesso legamentoso di forma triangolare responsabile della stabilità
mediale della caviglia. Da un’origine comune sull’apice del malleolo
tibiale si divide a ventaglio in quattro fasci che prendono il nome
dalle loro inserzioni distali e sono i legamenti: tibio astragalico anteriore (TAA), tibio navicolare (TN), tibio calcaneare (TC) e tibio astragalico posteriore (TAP).
Il legamento collaterale laterale è anch’esso una struttura formata
da un insieme di legamenti che formano un complesso meno robusto rispetto a quello mediale: il suo ruolo è stabilizzare lateralmente
la caviglia ed è formato dai legamenti peroneo astragalico anteriore
(PAA), peroneo calcaneare (PC) e peroneo astragalico posteriore
(PAP).
I legamenti tibio peroneali sono rappresentati da: membrana interossea (che unisce tibia e perone per tutta la loro lunghezza e che
termina distalmente con il robusto legamento interosseo, posto
appena sopra la sindesmosi) legamento peroneo tibiale anteriore
(con andamento orizzontale, unisce anteriormente le estremità distali
delle ossa della gamba; è estremamente robusto e di difficile rottura
pertanto in violenti traumi distorsivi la sua resistenza può provocare
fratture da strappo del malleolo tibiale).
La stabilità attiva della tibiotarsica è garantita dai tendini della
muscolatura estrinseca del piede: i peronei sul versante laterale;
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tibiale anteriore, estensore lungo delle dita e dell’alluce anteriormente; tibiale posteriore, flessore lungo delle dita e dell’alluce medialmente e tricipite surale posteriormente. Importanza particolare rivestono i muscoli tibiale posteriore e peroneo lungo, i cui tendini passano rispettivamente dietro al malleolo interno ed esterno, incrociandosi sotto la volta plantare ed inserendosi l’uno con diverse diramazioni fino alla base del quarto metatarso e l’altro alla base del primo metatarso. I tendini di questi due muscoli esercitano una contenzione attiva nei movimenti laterali della caviglia, agendo sinergicamente ai legamenti collaterali del lato corrispondente.
Propriocezione
Propriocettività è un termine introdotto da Sherrington per definire gli stimoli sensoriali che originano, nel corso di movimenti guidati
centralmente, da particolari strutture: i propriocettori. La loro funzione è fornire informazioni di retroazione sui movimenti dell’organismo, in altre parole di segnalare, istante per istante, i movimenti che
l’organismo sta compiendo, in modo da consentire di conoscere
sempre, anche ad occhi chiusi, la posizione del corpo e dei suoi
segmenti nello spazio.
È una sensibilità derivata dall’integrazione di senso di posizione,
sensazioni pressorie e senso dell’equilibrio.
I propriocettori sono terminazioni nervose che si trovano nei
muscoli (fusi neuromuscolari), nei tendini (organi tendinei del Golgi) e nelle capsule articolari (recettori di Pacini e Ruffini). Gli organi
del Golgi ad esempio, danno informazioni sulla posizione e sulla
direzione del movimento; i corpuscoli di Pacini reagiscono a movimenti bruschi come gli stiramenti; i recettori del Ruffini avvertono
quando un’articolazione non si muove o viene mobilizzata passivamente; i fusi neuromuscolari ed i recettori tendinei segnalano ogni
variazione della lunghezza del muscolo sia in allungamento che in
accorciamento. Le afferenze da essi generate, originano un arco
riflesso che è alla base dei meccanismi di protezione messi in atto a
livello spinale (componente incosciente), raggiungono altre zone del
midollo o del cervello e contribuiscono insieme alle afferenze provenienti da altri organi di senso (vista e sistema vestibolare) a determinare postura ed equilibrio; a livello della corteccia motoria, del
cervelletto e dei gangli della base, sono oggetto di elaborazioni
superiori e sono in parte responsabili delle sensazioni coscienti che
riguardano la posizione articolare “joint position sense” e la sensazione del movimento dei segmenti corporei nello spazio. Non è
quindi scorretto dire che una lesione ad un’articolazione possa portare ad una parziale deafferentazione e che questa possa interferire
con i meccanismi riflessi. Informazioni della sensibilità propriocettiva
errate od insufficienti che raggiungono i centri corticali modificano
la sensazione percepita coscientemente ed originano una risposta
motoria non adeguata alla situazione reale dell’articolazione.
I propriocettori hanno una funzione importante nel controllo della contrazione dei muscoli scheletrici e attraverso quest’ultima è
esplicata la maggior parte delle funzioni del corpo.
I propriocettori hanno pure un ruolo protettivo rispetto ai nocicettori, evidenziato dalle indagini a proposito della velocità di conduzione dei rispettivi segnali: in un arco riflesso integro, la velocità
di conduzione del segnale sensitivo dei propriocettori è di circa 70100 m/s, mentre quella dei nocicettori varia da 4,9 a 5,2 m/s in rapporto al tipo di fibra (Riva 1998 - Kratter 1998). Rivestono pertanto
rilevanza i propriocettori dei muscoli cosiddetti stabilizzatori, cioè di
quei distretti muscolari che variano la propria tensione isometrica in
ragione delle condizioni esterne per assicurare che l’articolazione
lavori in un range angolare fisiologico.
L’attivazione dei propriocettori, unita a quella del sistema neuromuscolare, sembra infatti migliorare i meccanismi di autoregolazione
dell’atleta.
2
I deficit propriocettivi hanno un ruolo significativo nel favorire
nuove lesioni e possono contribuire a patologie degenerative attraverso la riduzione della stabilità funzionale articolare.
Distorsione ed instabilità
La distorsione è la perdita momentanea ed incompleta dei rapporti articolari fra due capi ossei.
Nella maggior parte degli studi epidemiologici, il 95% delle
distorsioni è causato da un movimento in inversione (che si scarica
sulle strutture legamentose laterali della caviglia). Questo meccanismo è favorito dalla struttura anatomica, infatti la posizione del malleolo tibiale offre una stabilità ed un contenimento inferiori a quello
peroneale, senza contare che il compartimento legamentoso laterale
è meno robusto di quello mediale. Gran parte degli atleti che l’hanno subita riportano sintomi che persistono anche due anni dopo il
trauma.
Classificazione clinico-funzionale delle distorsioni
1. Primo grado o lieve: si caratterizza per microstiramenti o minime
rotture di un piccolo numero di fibre. Il danno produce dolore
anche se c’è una minima perdita di integrità strutturale. Segni:
nessuna mobilità anomala, sensibilità locale, minima ecchimosi,
lieve gonfiore.
2. Secondo grado o moderata: comporta un danno moderato al tessuto legamentoso con perdita di una certa integrità strutturale.
Comprende una vasta gamma di lesioni che vanno dal limite
appena superiore alla lesione lieve al confine appena inferiore
alla rottura completa. Le forme più severe possono residuare
un’instabilità funzionale, malgrado l’ottimo programma riabilitativo svolto. Segni: mobilità anomala di un certo grado, debolezza
strutturale significativa, ecchimosi e gonfiore moderati, spesso
presente un’emartro. Implicazioni funzionali: tendenza alla recidiva, necessità di protezione da ulteriori insulti, immobilizzazione
relativa, col tempo si può allungare ulteriormente.
3. Terzo grado o grave: implica la rottura completa di uno o più
legamenti e ampie lacerazioni capsulari con perdita dell’integrità
strutturale. Richiede immobilizzazione completa o relativa nel
periodo che va dalle tre alle sei settimane. Può essere associata
ad un danno alle strutture tendinee e nei casi veramente gravi a
lesioni osteocondrali o osteocondritiche. Conduce sovente a
ricorrenti instabilità ed a fenomeni degenerativi a carico dell’articolazione, con il passare del tempo. In caso di lesione di terzo
grado la valutazione iniziale rivelerà un test del cassetto anteriore
positivo. Segni: perdita di integrità strutturale, mobilità anomala
notevole, ecchimosi significativa, emartro (Casonato 2000).
L’instabilità articolare della caviglia è strettamente correlata al grado del danno anatomico legamentoso. Un’instabilità di minima entità
si verifica con la lacerazione del legamento peroneo astragalico
anteriore poiché quest’ultimo decorre attraverso la sola articolazione
talo crurale. Un’instabilità marcata si verifica con la rottura del legamento peroneo calcaneare, dal momento che esso attraversa sia l’articolazione sottoastragalica che quella talocrurale. Per di più il trauma a livello del peroneo calcaneare è secondario alla rottura completa del PAA. Per contro, le distorsioni del legamento collaterale
mediale o legamento deltoideo, sono rare.
Lephart schematizza il processo con cui una lesione legamentosa
tende a recidivare attraverso l’instabilità funzionale conseguente al
deficit propriocettivo e all’instabilità strutturale secondaria alla lesione stessa.
Freeman e Wyke (1965) furono i primi ad ipotizzare che una cronica instabilità di caviglia sia dovuta a parziale deafferentazione dei
meccanorecettori articolari, conseguente a trauma. Essi osservarono
clinicamente una ridotta capacità nel mantenere l’appoggio monopo-
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dalico dal lato in cui la caviglia aveva subito una distorsione rispetto
all’arto sano.
Freeman sostiene infatti che le lesioni ai legamenti di piede e
caviglia spesso causano un deficit propriocettivo che riguarda i
muscoli dell’arto leso e che questo deficit è responsabile del sintomo
denominato “giving way” ovvero la sensazione di instabilità cronica.
Lynch e Restrom (1999) hanno calcolato che in un terzo dei
pazienti che hanno avuto una lesione a carico della caviglia, permane una sintomatologia cronica. I sintomi ed i segni di solito comprendono tendiniti, sinoviti, rigidità muscolare, gonfiore, debolezza
e sensazione di giving way.
L’instabilità si manifesta quindi in due modalità, meccanica e funzionale. L’instabilità meccanica è dovuta alla lassità legamentosa
insorta in seguito allo stiramento eccessivo o alla rottura dei legamenti coinvolti nel trauma. E si riferisce pertanto ad una misurazione obiettiva. L’instabilità funzionale invece è quella descritta da Freeman per i pazienti che riferiscono la sensazione di giving way. Ed è
quindi un sintomo soggettivo.
Tropp et al affermano che non c’è una correlazione costante tra
instabilità meccanica e funzionale, dal momento che più di metà
delle caviglie affette da instabilità funzionale si sono dimostrate stabili dal punto di vista meccanico.
Le cause descritte per l’instabilità comprendono alcuni fattori
meccanici (lassità legamentosa, retropiede varo, tendine d’Achille
accorciato con rigidità del tricipite surale) o un deficit propriocettivo
post trauma, un ipostenia dei peronieri od ancora un ritardo di attivazione degli stessi.
Forkin et al. hanno osservato che soggetti con anamnesi di distorsioni ricorrenti hanno una minore capacità di riconoscere il movimento ed una minor capacità di equilibrio in appoggio monopodalico dal lato leso rispetto a quello sano; l’instabilità funzionale si
accompagna quindi ad una incoordinazione motoria derivante da
una deafferentazione articolare.
Nel 1991 Konradsen rileva mediante elettromiografia ed analisi
del movimento, un prolungato tempo di reazione peroneale all’improvvisa inversione del piano di appoggio monopodalico ed una
maggiore oscillazione posturale in soggetti con instabilità funzionale.
Vi sarebbe quindi un alto grado di correlazione tra oscillazione
posturale e tempo di reazione peroneale. Ciò andrebbe a supportare
la teoria secondo cui l’instabilità funzionale sarebbe associata ad un
deficit nel riflesso periferico di stabilizzazione e l’azione di stabilizzazione riflessa sarebbe mediata dai recettori muscolo tendinei.
I traumi distorsivi della caviglia rappresentano una patologia di
largo riscontro nella pratica di molti sport; la frequenza di tali traumi, varia però a seconda della disciplina praticata.
Sport e prevenzione
I fattori di rischio che concorrono a determinare le lesioni si
distinguono in fattori intrinseci (lassità legamentosa propria o per
traumi precedenti, altre alterazioni della meccanica o della cinematica del piede) estrinseci (cadute da salti, contatto diretto con i piedi
dell’avversario) e psicologici (problematiche psico emozionali).
L’infortunio sportivo è il risultato di una complessa interazione di
questi fattori. Nello specifico, per le distorsioni di caviglia nello sport
il fattore di rischio più comune è sicuramente la presenza di precedenti distorsioni.
Secondo Slogard et al. (1995) le lesioni alla caviglia sono le maggiori responsabili di assenza alla partecipazione sportiva nella pallavolo.
L’aspetto predominante di un corretto approccio riabilitativo è
rappresentato dalla prevenzione sia di tipo attivo che passivo.
Un’efficace prevenzione delle lesioni distorsive richiede un’estrema attenzione nella preparazione dell’atleta sia dal punto di vista
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fisico che tecnico. È utile mirare al potenziamento di ordine specifico del distretto anatomico. È infatti ben noto il ruolo stabilizzante
del tibiale posteriore sulla pinza tibio-peroneale e dei peronieri sul
legamento peroneo astragalico anteriore e sul peroneo calcaneare. E
la cura dell’aspetto tecnico, finalizzata all’apprendimento della
migliore modalità di esecuzione del gesto atletico, rappresenta un’ulteriore fattore di prevenzione.
Infine, ma non meno importante, la prevenzione di tipo passivo
riguarda l’uso di fasciature, bendaggi e tutori più o meno rigidi.
1.1 Bendaggio funzionale (taping)
Il bendaggio dinamico ad immobilizzazione parziale, definito più
comunemente bendaggio funzionale, utilizzando bende adesive di
vario tipo, elastiche e non, mira a costruire un supporto esterno in
grado di stabilizzare, e sostenere tra loro le componenti di un articolazione e di vicariare o scaricare strutture muscolo tendinee.
Può essere quindi impiegato per difendere sia una struttura sana
che una traumatizzata, quando questa viene sottoposta a sollecitazioni massimali e di conseguenza potenzialmente lesive.
Lo scopo del bendaggio è quindi contenere una qualunque sollecitazione eccessiva, non bloccando tutti i movimenti ma limitando
solo quelli a rischio. Ad esempio, nella lesione del compartimento
esterno di caviglia per trauma in inversione, la realizzazione del
bendaggio funzionale limita esclusivamente i movimenti in supinazione, lasciando piena articolarità alla flesso estensione.
La conservazione di un movimento almeno parziale è estremamente importante, soprattutto in ambito sportivo, in quanto permette di evitare tutte le complicazioni derivate da una prolungata immobilizzazione, quali ipotonotrofie muscolari, alterazioni della sensibilità propriocettiva, limitazioni di articolarità e possibili infiammazioni
delle strutture periarticolari alla ripresa dell’attività. Movimenti funzionali minimi e controllati, secondo determinate linee di forza, possono solo giovare alla riparazione della lesione, coadiuvando ad
orientare al meglio la deposizione delle fibre collagene.
Il bendaggio ha quindi un ruolo fondamentale nella prevenzione
sia di traumi che di situazioni rischiose per le caratteristiche fisiche
dell’atleta e per il tipo di attività; previene anche ricadute o recidive
alla ripresa della stessa.
Il bendaggio svolge diverse azioni:
– Azione biomeccanica di contenzione: con caratteristiche di sostegno e stabilizzazione articolare e scarico funzionale di unità
muscolo tendinee. Offre un’efficace protezione meccanica riducendo l’angolo di mobilità dell’articolazione del 35 – 40% a parità
di forza applicata. L’azione di contenzione e stabilizzazione
dipende dalla quantità delle bende applicate e dalla loro elasticità;
– Azione esterocettiva: lo stretto contatto del bendaggio con la cute
trasmette su quest’ultima e sulle zone sottostanti uno stimolo di
trazione quando si tenta di compiere il movimento limitato dalla
fasciatura. I meccanoreccettori sono sensibili alle deformazioni
della pelle sia trasversali che longitudinali. Questo stimolo agisce
come segnale di allarme per la muscolatura stabilizzante, che viene così sollecitata ad intervenire prontamente in difesa delle
strutture capsulolegamentose;
– Azione trofica – vasomotoria: il massaggio vascolare dovuto
all’attività muscolare viene amplificato dal bendaggio, con conseguente aumento della circolazione, che comporta effetti positivi
sulla riduzione dell’edema e sul drenaggio dei cataboliti;
– Azione antalgica: dovuta prevalentemente alla limitazione ed al
riposo della struttura lesa. Questo effetto si ottiene sia attraverso
la riduzione delle sollecitazioni meccaniche sulle strutture che
sono state stirate sia attraverso una riduzione dello spasmo
muscolare protettivo. A questo proposito è importante ricordare
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che la riduzione o la scomparsa del dolore non deve far pensare
ad una guarigione della lesione e non deve indurre ad un precoce abbandono del trattamento o del bendaggio.
– Azione psicologica: la sensazione di contenzione offerta dal bendaggio offre tranquillità e sicurezza all’atleta, consentendogli
spesso un notevole miglioramento della prestazione sportiva.
Controindicazioni assolute al bendaggio adesivo sono sensibilità
o allergia al tipo di adesivo, fragilità della cute con presenza di abrasioni, escoriazioni o piaghe, manifestazioni dermatologiche di vario
tipo, turbe trofiche, vascolari o neurosensitive importanti, varici ed
edema organizzato.
Thacker et al. (1999) nella loro revisione della letteratura sono
arrivati alla conclusione che bendaggi, tutori ed ortesi correttamente
applicati non condizionano negativamente la performance sportiva.
Atleti che hanno subito distorsioni moderate o severe devono indossarli fin anche a sei mesi dopo il trauma.
Gli studi di Loher, Alt e Gollhofer (1999) avvalendosi di metodi
elettromiografici e goniometrici hanno accertato l’efficacia del bendaggio prima e dopo l’allenamento attraverso la simulazione di trauma in inversione. L’ampiezza massima di inversione è stata ridotta
circa del 35%. La stabilità articolare è risultata positivamente influenzata da un’aumentata sensibilità propriocettiva. E’ stata però accertata una riduzione nell’efficacia del bendaggio dopo 30 minuti di allenamento. A simili conclusioni era arrivato anche lo studio di Robbins et al (1995).
Anche diversi studi precedenti (vedi Glick 1976, Fumich 1981 e
Myburgh 1984) furono concordi nell’affermare che vi è una progressiva riduzione di efficacia del bendaggio nel tempo.
Più recentemente il bendaggio funzionale è stato confrontato con
diversi tipi di tutori, con risultati controversi. Mentre per Handoll et
al. (2001) non vi sono significative differenze di efficacia tra tutori e
bendaggio, Venrhagen Van Mechelen e De Vente (2000) sostengono
che i tutori sono più efficaci del bendaggio nella prevenzione delle
distorsioni di caviglia.
Il bendaggio funzionale deve essere applicato in base a giusti
principi ma il peggior bendaggio risulta proprio essere quello standard. Si deve sempre tener conto delle esigenze specifiche di ogni
singolo atleta e interpretare per lui la fasciatura, in funzione della
migliore risoluzione del problema. Bisogna allora partire da una diagnosi esatta che tenga conto dello stato reale della lesione, per poter
formulare un’indicazione corretta che consideri anche il contesto di
utilizzo e le varianti della tecnica.
1.2 Bendaggio utilizzato
Il bendaggio funzionale utilizzato nello studio è quello preventivo e la sua costruzione deriva dalla somma di un bendaggio base
elastico, denominato “Louisiana” e dal cosidetto cesto meccanico
rigido.
Per il bendaggio base è stata utilizzata una benda monoelastica
alta 7,5 cm applicata con una tensione media, in considerazione del
fatto che il bendaggio viene mantenuto solo per il tempo dell’esercizio fisico. Durante l’applicazione il piede è stato mantenuto in posizione zero per favorire l’avvolgimento della benda.
Il bendaggio è iniziato dal malleolo laterale, con la benda perpendicolare all’asse longitudinale della gamba. Dal malleolo ci si è
portati sul collo del piede e di qui verso l’interno e sulla pianta. Si è
saliti poi con la benda dal bordo esterno del piede, appena anteriormente al tallone. Trazionando leggermente la benda si è impegnata
l’area compresa tra il malleolo esterno e il tallone verso il tendine
d’Achille. Questo passaggio rappresenta un punto forte di richiamo
dell’azione dei muscoli peronieri lungo e breve. Incrociato il tendine
d’Achille si è saliti sul malleolo tibiale. Così si è incrociato il passaggio precedente sul collo del piede. Si è scesi sulla pianta uscendo
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dal bordo interno del piede, appena anteriormente al tallone. Si è
impegnata la zona compresa tra malleolo interno e tallone, attivando
l’azione del muscolo tibiale posteriore grazie ad un aumento leggero
della tensione della benda. Incrociato il tendine d’Achille si è saliti
esternamente sul malleolo peroneale. Si è ripetuto il passaggio anteriore sul collo del piede. Si è proseguiti quindi sulla pianta del piede
per risalire esternamente, impegnando anteriormente il collo del piede. Da lì si è risaliti infine sulla gamba con i giri a spirale.
Il cesto meccanico rigido che è stato sovrapposto alla benda
monoelastica, è così definito perché costruito utilizzando un sistema
di nastri intrecciati orizzontalmente e longitudinalmente. Per la sua
realizzazione è stata impiegata benda anelastica adesiva (tape) alta 5
cm.
La costruzione è iniziata con il posizionamento di un ancoraggio
nell’area più prossimale del bendaggio ed uno in quella più distale.
Con il fine di proteggere il legamento peroneo-calcaneare si è partiti
dall’ancoraggio prossimale, sul lato interno della gamba, applicando
una staffa parallela all’asse longitudinale della gamba e diretta verso
il malleolo tibiale. Passati sulla pianta del piede, ci si è portati verso
il malleolo peroneale, dopo aver strappato il cerotto sulla misura del
bendaggio base. E’ stato necessario esercitare una certa trazione sul
tape nel corso della sua applicazione sul lato esterno della gamba.
Per assicurare una particolare protezione al legamento peroneoastragalico anteriore si è partiti dal dorso del piede verso il malleolo
esterno, seguendo la direzione del legamento. Si è incrociato poi il
tendine di Achille posteriormente, proseguendo fin sul malleolo
interno. Dal malleolo tibiale il nastro si è saliti fino ad incrociarsi
con l’ancoraggio distale, formando così un blocco che garantisse la
stabilità del retropiede sul piano orizzontale. Le staffe così realizzate
sono state fissate con semicerchi di tape. Il cesto rigido è risultato
completo nel momento in cui entrambe le staffe sono state coperte
dal fissaggio. Per garantire una maggiore libertà nella flesso-estensione, è stato lasciato libero il collo del piede dai nastri di fissaggio
(Stella 2001).
1.3 Delos Postural Proprioceptive System Professional
Il mantenimento dell’equilibrio è possibile grazie ad un complesso meccanismo di controllo in cui si integrano le informazioni di origine visiva, propriocettiva e vestibolare. L’informazione visiva è indispensabile per rendere precisa la gestione della postura e del movimento in relazione alla situazione ambientale. L’informazione propriocettiva con un flusso continuo di informazioni da muscoli, tendini ed articolazioni, consente al SNC di essere costantemente aggiornato sulla posizione dei segmenti corporei e sulla velocità con cui
essi si muovono. Il sistema vestibolare fornisce informazioni sulle
posizioni statiche, dinamiche e sulle accelerazioni angolari e lineari
della testa. L’equilibrio non è rappresentato da una situazione definita, ma deriva da un continuo adattamento tonico-posturale-coordinativo.
La pedana stabilometrica Delos utilizzata nelle prove ha consentito di effettuare test in grado di valutare la stabilità posturale monopodalica quantificando la strategia precauzionale, propriocettiva,
visiva e vestibolare. E precisamente il Test di Riva statico ed il Test
di Riva dinamico.
Il Test di Riva statico monopodalico è utile per valutare il livello
di motricità nei movimenti antigravitari, il rischio di caduta e soprattutto la dipendenza visiva. Il Test di Riva dinamico monopodalico
valuta l’efficienza del sistema visuo-propriocettivo, le strategie di
controllo posturale e le capacità coordinative di base da cui dipende
la qualità dei movimenti antigravitari dai più semplici ai più complessi. Valuta inoltre la stabilità funzionale dell’arto inferiore ed è
perciò particolarmente indicato in caso di traumi capsulo-legamentosi alla caviglia ed al ginocchio.
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Tabella I.
Articolarità
Range di riferimento
FB
ZS
TC
GF
FM
DNF
SF
BS
VC
CD
MM
CF
PS
DA
20°-30°
30°-50°
45°-50°
25°-30°
10°
35°
5°
10°
20°
40°
10°
25°
10°
38°
3°
12°
10°
38°
5°
22°
8°
40°
8°
15°
12°
28°
10°
14°
15°
34°
20°*
10°
12°
28°
8°
15°
15°
38°
8°
15°
11°
30°
8°
15°
9°
28°
25°
7°
22°
48°
35°
18°
12°
35°
18°
12°
20°
30°
18°
5°
FB
ZS
TC
GF
FM
DF
SF
BS
VC
CD
MM
CF
PS
DA
Media
6,9
5,1
5,8
5
4,8
4
5,1
4,8
4,5
5,9
4,7
4
5,1
5,6
4,4
5,9
3,9
4,3
4,1
3,4
3,1
7
3,8
3
4,1
3,3
4
5,4
4,3
4,8
4,4
3,5
5,5
6,6
4,3
4,9
6,7
2
1,8
4,7
3
2,9
5,5
4
4,1
flex dorsale
flex plantare
Supinazione
Pronazione
*=posizione di partenza già supinata di 10°
Tabella II.
Prima prova
Seconda prova
Terza prova
Materiali e metodi
I pazienti presi in esame sono tutti atleti in attività rispettivamente
di rugby (in prevalenza), calcio e pallavolo. Il range di età oscilla dai
19 ai 40 anni. Sono stati considerati solo atleti che hanno subito nell’arco della loro carriera sportiva almeno una distorsione in inversione. Sette dei quattordici atleti esaminati hanno riportato una distorsione grave (III grado) negli ultimi sette anni (la più recente risale a
sei mesi prima dello studio). I rimanenti hanno subito distorsioni di
II grado in alcuni casi reiterate (la più lontana risale a 10 anni fa e la
più recente a 4 mesi). Nessuno di loro ha subito nell’articolazione in
questione fratture o interventi chirurgici.
Tutti gli atleti sono stati informati sui test da svolgere e sulla corretta modalità di esecuzione ed è stato fatto far loro un test di prova.
Prima delle prove sono stati inoltre sottoposti ad una visita medica
in cui si sono valutati forza muscolare, articolarità, sensibilità, dolore
ed instabilità.
Gli atleti hanno svolto una prima serie di prove (Test di Riva statico e dinamico) a caviglia libera, sono quindi stati bendati ed hanno
subito ripetuto le stesse prove. Il bendaggio funzionale utilizzato è
stato confezionato così come descritto nel capitolo precedente. Successivamente è stato loro richiesto di svolgere una seduta di allenamento, ovvero di correre per trenta minuti su terreno piano in un’area asfaltata. Non si è potuto usufruire di un tapis roulant (non presente nella struttura in cui si sono svolte le prove) e perciò non si è
potuta verificare la velocità con cui gli atleti hanno corso. Alla fine
dell’allenamento è stata svolta la terza serie di prove, in tutto e per
tutto identiche alle precedenti. Tutti gli atleti sono stati bendati dallo
stesso fisioterapista, con lo stesso materiale e le stesse modalità.
Il Test di Riva statico prevede 4 prove della durata di 20 secondi
in cui l’atleta deve mantenere la postura monopodalica dapprima
ad occhi aperti e quindi ad occhi chiusi. Il Test di Riva dinamico
comporta 12 prove sulla tavoletta DEB (Delos Equilibrium Board)
sempre in postura monopodalica, della durata di 30 secondi, 4 delle
quali sono state effettuate con vincolo agli arti superiori (mani ai
fianchi).
Risultati
Nella valutazione dell’articolarità, come si vede in tabella I, si è
riscontrata una notevole riduzione dell’ampiezza del range in tutti i
movimenti ed in particolare in supinazione. Da segnalare anche il
confronto con l’arto controlaterale. È stato rilevato infatti un lieve
Vol. 44 - Suppl. 1 to No. 3
deficit articolare anche nelle caviglie che non hanno subito traumi
rilevanti.
Dal punto di vista della forza muscolare e della sensibilità, nessun deficit è stato rilevato. Il segno del cassetto anteriore è risultato
negativo in quasi tutti gli atleti con la sola eccezione dei tre casi di
distorsione più gravi, casi in cui è tuttora presente dolore, specie in
zona retromalleolare, anche a distanza di anni dal trauma.
Tutti gli atleti hanno riferito di sentirsi molto più stabili con il
bendaggio piuttosto che senza, anche nei casi in cui la differenza
alle prove non era così netta.
Tra i valori significativi del Test di Riva dinamico spicca l’indicatore DVC/IUT relativo alla priorità posturale. Questo indicatore confronta l’ampiezza del “cono posturale” con il valore “instabilità
uomo-tavola” (instabilità totale del sistema) ed esprime in percentuale la strategia posturale utilizzata. La messa in quiete del tronco e del
capo dovrebbe prevalere sulla stabilizzazione della tavola ed in tal
caso la strategia risulterebbe corretta (priorità posturale > 60%).
Mentre nelle prove effettuate solo due casi su quattordici hanno
messo in atto la strategia corretta, negli altri la strategia è quasi sempre inadeguata (pp<60%) o invertita (<40%).Valori percentuali lontani dallo zero identificano prevalenza di strategie di tipo vestibolare.
Alla situazione di instabilità creata dalla tavoletta, gli atleti hanno
risposto con un controllo basato per lo più su continui movimenti
del tronco e degli arti superiori, piuttosto che compensare con movimenti dell’arto inferiore.
In generale nel raffronto tra le tre prove degli atleti si rileva un
netto miglioramento sia per quanto riguarda l’aumento di stabilità,
con riduzione significativa del tempo di appoggio, che per quanto
concerne la riduzione di ampiezza del cono posturale. Gli atleti nelle prove con bendaggio, hanno sentito molto meno la necessità di
appoggiarsi alla barra ed hanno ridotto di parecchi gradi l’ampiezza
dei movimenti di oscillazione. Miglioramento che è rimasto pressoché costante nelle prove dopo allenamento, come si vede dai referti
delle prove allegati, che corrispondono alla prima ed alla terza prova di una delle atlete.
Soprattutto nella terza prova rispetto alle precedenti è emersa
una maggiore difficoltà a mantenere l’equilibrio in un unico caso.
L’atleta in questione è stato operato nel 2004 in seguito ad un trauma in cui ha riportato la lesione di crociato anteriore, menisco
mediale e collaterale interno.
Sempre nel Test di Riva dinamico è riportato un valore che permette di confrontare le prove di tutti gli atleti: l’indice di errore
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LENARDUZZI
IL BENDAGGIO FUNZIONALE IN ESITI DI DISTORSIONE DELLA TIBIOTARSICA QUALE SUPPORTO AL SISTEMA PROPRIOCETTIVO...
Bibliografia
Figura 1.
medio. Quest’ultimo indica di quanti gradi il soggetto si è scostato
mediamente dal compito assegnato (mantenere la tavoletta orizzontale). Valori elevati sono indice di un basso livello di precisione e di
uno scarso controllo propriocettivo.
Nella Figura 1 si possono osservare i valori relativi all’errore
medio di tutti gli atleti nelle tre prove affrontate.
Nella tabella II appare inoltre la media dei valori delle prove stesse. Da quest’ultima si evince che tra la prima e la seconda prova vi è
stata una riduzione dell’errore in media del 27% che rimane pressoché invariata nella terza.
Conclusioni
Analizzando i dati raccolti dai quattordici casi esaminati ed osservando grafico e tabella riepilogativi, si possono trarre delle conclusioni di ordine generale.
Si può affermare che il bendaggio ha prodotto un miglioramento
degno di nota nelle prestazioni degli atleti osservati: infatti tra la
media della prima prova (5,5 a caviglia nuda) e le medie delle prove
successive (4,0 e 4,1) si riscontra un miglioramento di performance
rispettivamente del 27% e - sorprendentemente - del 25%.
Il bendaggio funzionale, quindi, ristabilisce il controllo del sistema nervoso centrale e periferico sull’articolazione attraverso il sistema muscolare andando ad agire sulle afferenze propriocettive.
Il bendaggio funzionale, pertanto può avere un ruolo fondamentale nel ridurre significativamente l’incidenza di nuove distorsioni e
facilitare il ritorno all’attività sportiva.
Ed anche nel caso in cui il bendaggio arrivi a perdere l’efficacia
oggettiva, si rivela comunque di supporto - probabilmente - a livello
psicologico, tanto che le prove effettuate dopo mezzora di corsa
sono state equivalenti se non addirittura in qualche caso migliori di
quelle a bendaggio appena fatto. O forse il pur debole effetto compressivo è sufficiente a stimolare positivamente il sistema propriocettivo.
Dalle osservazioni sulla pedana stabilometrica si è anche osservato che una volta bloccata parzialmente la caviglia attraverso il bendaggio, vi è un aumento di lavoro a livello del ginocchio per stabilizzare l’arto inferiore: nel caso in cui questo sia stato oggetto di
traumi precedenti, si nota una maggiore difficoltà a mantenere l’equilibrio e quindi un peggioramento della prestazione. La scelta dell’utilizzo del bendaggio non può quindi prescindere da un esame
completo ed accurato dell’atleta e da un’anamnesi patologica accurata.
In conseguenza delle considerazioni qui esposte, si ritiene pertanto consigliabile l’utilizzo del bendaggio funzionale a scopo preventivo nella pratica sportiva, o qualora la ripresa agonistica debba
accordarsi con precedenti traumi distorsivi.
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October 2008