Il fatto di N`Gba. Pietro Semino

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Il fatto di N`Gba. Pietro Semino
Pietro Semino
IL FATTO DI N’GBA
Grafica: Edizioni Altravista
Copertina: Ouroboros srl (Rossanigo Mattia, Tessaro Miriam)
Redazione: Nicoletta Civardi
Tutti i diritti sono riservati. La riproduzione, anche parziale e con qualsiasi
mezzo, non è consentita senza la preventiva autorizzazione scritta dell’editore.
Ogni riferimento a fatti, cose o persone è puramente casuale.
Prima edizione Aprile 2008
© Copyright 2008 Edizioni Altravista
Edizioni Altravista
via Emilia, 28 - 27050 - Torrazza Coste (PV)
tel. 0383 364 859 fax 0383 377 926
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ISBN 978-88-95458-04-5
Look above...
we are not alone.
HANS BLICK DI ILANZ
Esistono nell’universo pianeti identici alla Terra? È possibile che in
essi vivano esseri simili a noi? Quante volte questi dubbi hanno
solcato il pensiero di milioni di persone, in ogni angolo del nostro
globo? Quante volte hanno bussato alla mente di più e più persone in
una notte d’estate quando, in vacanza, libere da ogni assillo, erano
più propense alla meditazione, se non alla riflessione? Quante volte,
anche Hans Blick da fanciullo ha posto queste domande ai suoi
genitori, ricevendone in risposta un: «Chissà, può darsi...».
Dell’infanzia di Hans, di Hans Blick di Ilanz, c’è ancora chi ricorda il particolare di quelle notti, che lui trascorse intento a osservare il cielo terso del Graubünden, con fare rapito, affascinato,
quasi incantato.
Ormai è un giovane uomo, ma all’età di cinque anni qualcuno
lo ricorda ancora: ad Hans il buio piaceva un sacco, perché in esso
– diceva – si sentiva protetto, al sicuro.
Hans era un bimbo dai grandi occhi verdi molto espressivi, paffutello e carino e l’oscurità rappresentava come un meraviglioso
mantello dentro il quale nulla aveva da temere.
Quell’anno si era a pochi giorni dal Natale e Hans Blick si tro-
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vava a trascorrere le festività con papà e mamma nella vicina
Flims, in un gioco di acquisti, colori e musiche da far salire l’entusiasmo al diapason.
Forse non se ne rese conto, ma fu allora che visse l’eventochiave della sua infanzia: era notte, la camera della casa padronale
di zio Ernst era buia, e sempre odorosa di legno appena piallato,
e Hans se ne stava come suo solito a contemplare, attraverso il
vetro gelido della finestra, lo sfavillante cielo dei Grigioni. All’improvviso le luci del grosso borgo fra gli abeti si spensero e
due lucine, che a lui parvero due stelle, solcando fulminee il firmamento si andarono ad arrestare in prossimità della Luna, tonda,
piena e chiara come non mai.
Inutile dire che per Hans fu una piacevole sorpresa; quelle due
luci, un poco bizzarre, ondeggianti, scomparvero poi dalla sua
vista con la rapidità con la quale si spegne una fiammella.
Così come d’un tratto era venuta a mancare, di colpo l’illuminazione a Flims ritornò sovrana, mentre un Hans Blick pieno di
stupore non riuscì a staccarsi dalla finestra, se non dopo molte
ore. La mattina successiva, quando scese a colazione, sentì raccontare cose del tutto insolite: due oggetti luminosi erano stati
avvistati la sera prima da qualcuno nelle combe ghiacciate del
comprensorio di Flims e del Laax-Falera gremito di sciatori.
Un boscaiolo poi, raccontò allarmato di aver visto gli alberi della
zona detta di Specht, ossia del Picchio, segnati da curiose bruciature. In alcuni punti del terreno poi, si erano aperte delle particolari fenditure circolari. Seguirono altre testimonianze in merito a
stranezze più o meno verificabili, forse anche qualche riunione,
ma di quanto fosse realmente accaduto quella sera nell’area degli
alberi ad alto fusto e delle baragge del basso Specht beh, non ci è
dato di sapere. Forse il sempre ben informato Die Südostschweiz
dedicò una mezza news o qualche semplice riga di colore. E le
due luci si affievolirono fino a spegnersi anche nella memoria della
gente della comunità.
Passarono gli anni e per Hans venne il tempo delle scuole superiori. Hans era un ragazzo tranquillo sotto quei capelli castani
che promettevano vitalità e sorprese; si distingueva in geografia
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astronomica, scienze e matematica stellare nonché nel campo
della storia, e in collegio, alle partite di pallone con i suoi coetanei, preferiva di gran lunga un buon libro, capace di condurlo fra
le più antiche ed anche meno conosciute civiltà esistite sulla Terra.
Certo il suo atteggiamento, involontariamente altezzoso e introverso dava terribilmente fastidio ai suoi compagni di collegio,
sia a quelli del primario di Coira, sia a quelli del secondario di Zurigo, tutto pavimenti in tavolato in listoni di larice hart. Ogni adolescente medio non esitava a ostentare per lui forte malvagità,
derisione, o persino avversione. Cosa che faceva non poco soffrire
il giovane Hans, il quale pareva tornare felice solo con il sopraggiungere delle vacanze estive, quando poteva finalmente fare ritorno a Ilanz e alle letture del giornale in idioma romancio La
Quotidiana.
Gli anni prima del collegio a Coira...
Hans non riusciva a trattenere un sospiro o una lacrima di nostalgia nel dirlo. Sul finire di una estate marcata da una misteriosa
invasione di coccinelle, si trasferì nella casa attigua alla sua una famigliola di Vrin, composta da papà, mamma e da una bimba di
due anni più grande di lui.
La bambina si chiamava Jeanne-Marie e, come è facile immaginare, tra loro nacque presto una forte amicizia, non tanto per una
spontanea simpatia, dovuta alla coetaneità, quanto per gli stessi
svaghi, hobbies e interessi che li accomunavano.
Jeanne-Marie, minuta, pallida e con un visino incorniciato da due
piccole trecce bionde che scendevano ribelli sulle esili spalle, diventò presto per Hans, oltre che amica, anche confidente, se non
angelo custode. Il loro legame viveva anche delle tante serate trascorse insieme ad ascoltare antiche dicerie e storie fantastiche dalla
viva voce di papà Jakob: una sorta di burlone sognatore, che si faceva del tutto serio ogniqualvolta si metteva ad osservare la volta
celeste: «A occhio nudo, in una notte di stelle, se ne possono contare si e no quattromila – diceva con il naso volto in alto – mentre
con un moderno telescopio si può captare la luce di almeno cento
e più miliardi di astri limitati alla sola nostra galassia; voglio dire
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siamo una briciola, un punto luminoso tra altri dieci miliardi di
punti luminosi rappresentanti di altrettante galassie sparse nell’incommensurabile sconfinata vastità dell’universo. È quasi irragionevole pensare di esserne noi gli unici esclusivi abitanti».
Con Jeanne-Marie come inseparabile compagna, quello che trascorsero insieme fu per Hans il più bel periodo della sua vita,
quello con il maggior numero di magnifici ricordi: il sublime ritrovarsi, di tanto in tanto, per intere giornate a fare gite in bicicletta
e passeggiate nella splendida cornice naturale esaltata dai minuscoli laghi di Cauma, Cresta e Tuleritg; per non dire delle altrettanto memorabili immersioni estive lungo i sentieri più segreti
delle Rheinschlucht – le gole del Reno – che portavano ai ghiaioni
di Schluein, dove in gommone i due potevano raggiungere un isolotto, per stare tranquilli, nella capanna a piramide che si erano
costruiti da soli, con del compensato e con dei legni di nocciòlo
di un vicino boschetto.
Lo stesso anno in cui la famiglia di Jeanne-Marie si era trasferita a Ilanz, sul finire di settembre il clima era ancora insolitamente
caldo, e sempre dannatamente intensa l’invasione di sciami di insetti dalla livrea rossa o giallastra, a pois neri. Sulla via per Ilanz, Jeanne-Marie e Hans, dopo l’abetaia di Marcon e al limite del pendio
dalle mille rosacee dai fruttini di colore rugginoso, camminavano
mano nella mano, con gli occhi gioiosi, i sorrisi candidi, in quell’aria d’idilliaca semplicità e spensieratezza; d’un tratto però si imbatterono in una sconosciuta-vecchia signora vestita di grigio. Con
fare misterioso ella raccontò di ipotizzare la loro storia a venire;
Jeanne-Marie, ambasciatrice itinerante in difesa dell’ambiente;
Hans, viaggiatore al centro di fatti talmente insoliti da non ottenere credibilità al raccontarli.
«Ma – aggiunse con tono enigmatico – una grande forza vi aiuterà».
Di quella vecchia con un non so che di argenteo, dagli occhi
cupi e profondi, la pelle abbronzata e i capelli bianchi trattenuti
dietro la nuca da un fazzoletto di sgargianti colori, i due non ne
seppero mai più nulla, anche se ripensandoci, a distanza di anni,
Jeanne-Marie e Hans convenivano nell’affermare che quella creatura, concreta o no, aveva indovinato a pieno parte dello loro storia. Con un brivido.
SULLA VIA DEL MESSICO
Hans Blick, dopo aver abbandonato gli studi di matematica, decise di studiare lingue e volle andare a Trieste. La città a vocazione
multietnica, dal fascino asburgico, mitteleuropea e sveviana aveva
forse da sempre suscitato in lui una specie di curiosità mitologica.
Trieste, luogo contraddittorio, denso di ideogrammi sonori e di inspiegabili richiami, pur nella sua anticonformistica permeabilità,
pareva far riemergere nel suo Io lontane letture e riflessioni in cui
ad Hans piaceva perdersi, guardando senza vedere, tanto nella
schiuma di un’onda sul mare quanto in quella di un cappuccino
che dal Castello in poi la gente del posto chiama caffellatte, il fascino
della teoria delle bolle di Charles Boys, scienziato, che nell’Ottocento spiegava la forma stessa dell’universo come una serie di
bolle, forme schiumose dentro cui galleggiano pianeti, sistemi solari e intere galassie.
In questo ambiente balcanico e identitario, flagellato talvolta
dalla bora o pervaso da rèfoli tiepidi di un insolito scirocco, Hans
sfogliava pagine di storia, di fisica e di metafisica, camminando
nel reticolo delle fodre, le viuzze antiche, fino alle Rive, per inseguire con lo sguardo le scie di navi liberty e dei traghetti passeggeri e merci in movimento nel golfo con i loro preziosi carichi, al
profumo di caffè. Trieste porto di consegna, sede di torrefa-
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zioni, di esperti crudisti, spedizionieri e decaffeinizzatori; Trieste, dove bere il caffè è un rito e l’espresso al bar può essere
chiamato nero, se il caffè è liscio; deca, se decaffeinato; macchia,
se macchiato o goccia, se gocciato e in caffetteria la parola capo,
vuol dire cappuccino, ma in tazza piccola e per capo in bi’ tutti
intendono un cappuccino mini, servito in un bicchiere da vino;
la Trieste di Saba e da decrittare; proprio così: in una Trieste
magica Hans cresceva e ogni giorno si arricchiva di sapere e di
sapori, nella città degli infiniti spazi e spruzzi di un mare potente e invasivo, che alla lunga aveva fatto sbocciare nel suo
cuore un’incontrollabile voglia di viaggiare.
Una volta rientrato a Ilanz Hans descrisse a Jeanne-Marie della
sua nuova, implacabile sete di conoscere il mondo, e il suo desiderio di imbarcarsi, giusto pretesto per visitare paesi lontani senza
dover necessariamente disporre di una qualsiasi somma di danaro,
che lui in effetti non possedeva.
Per realizzare tutto questo Hans – che all’epoca portava occhialetti d’oro e un codino da hidalgo di provincia – si dette molto
da fare: bussò a numerose porte di agenzie marittime, a Chiasso,
Genova, Montecarlo, fino a quando una compagnia di navigazione gli offrì un’occasione di imbarco: stava per diventare dj a
bordo di un piroscafo, impegnato in crociere quindicinali, da Wilmington, California, ai maggiori centri messicani del Pacifico.
Incarico interessante, per Hans desideroso di intraprendere una
vita d’evasione; un impiego perfetto, disc-jockey a bordo, capace
di regalare al ragazzo indipendenza economica, divertimento e
viaggi senza dover patire scomodità e disagi.
Gli sembrò proprio un ottimo punto di partenza per la rotta
verso la felicità.
Decollo memorabile da Zurigo Kloten, ora Hans era in viaggio
verso gli Usa, per andare a raggiungere la sua nave, la sua vita.
I suoi pensieri erano tutti concentrati a immaginarsi come sarebbe stata l’unità da crociera, in continuo su e giù dalla California ai principali empori marittimi della costiera messicana, con il
suo carico umano di gente verbosa, sovente velleitaria, che condivideva un simbolo del benessere diffuso con fare carezzevole,
alla maniera dei vip, della gente famosa o di coloro che sono toc-
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cati dalla grazia nobilitante di un lavoro ammirevole o di impegno.
L’istinto gli suggeriva che tutto sarebbe stato meraviglioso, si sentiva leggero, euforico.
Il suo B747 era in volo e Hans ormai sapeva che le dodici ore
di aereo e i meno nove scatti di fuso orario che gli si prospettavano, avrebbero cambiato la sua vita.
«A Ilanz – pensò, osservando il personale di cabina servire un
primo snack – quando oggi, intorno alla mezzanotte del Pacific
Time, arriverò sulla costa ovest degli Stati Uniti, saranno le 9 di
domani mattina».
Un calcolo fin troppo semplice per lui. Alle 24, all’ora della
California, mentre allo snack corner, tutto poltrone e velluti
rossi del Royal Lancer Motel di Long Beach, Hans finalmente,
poteva affrontare uno spuntino a base di tørrfisk, stoccafisso
norvegese, birra Tsingtao e gelato di mirtilli, in Svizzera, gli
orologi segnavano effettivamente le ore 9 di mattina; di un
giorno però non ancora iniziato per Hans. «In questo preciso
momento zio Ernst sarà alle prese con la solita spalmata di Murmeltiersalbe, la pomata di grasso di marmotta, indispensabile alla
cura dei suoi reumatismi»: in questo tono correvano i suoi pensieri, mentre gli occhi vagavano tutt’intorno senza sosta.
Più tardi, guardando il mappamondo nella hall del Royal Lancer, immersa nelle note di un jazz spensierato alla Benny Goodman, quasi stentava a credere di aver compiuto un così grande
balzo sul pianeta Terra.
Ma a quell’idea, Hans, si sarebbe presto abituato.
Hans fu condotto all’unità da crociera parcheggiata al molo di
attracco di Wilmington: l’emozione per la novità gli stritolò lo stomaco come in una morsa.
Al pier del porto di Los Angeles riservato ai transatlantici e alle
imbarcazioni di prestigio, il giovane salì a bordo di un troneggiante, evoluto status symbol vacanziero, tutto impavesato e illuminato a festa perché pronto all’imminente levata d’ancore per le
mete più gettonate del tropico messicano; era l’ammiraglia di una
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compagnia crocieristica internazionale. Era un natante di lusso,
di super lusso, del tutto simile a un palazzo, a un grande albergo
navigante, contraddistinto da quell’alto standard di servizio, facente parte del suo stesso Dna.
Una volta a bordo, oltre una prima promenade interna di negozi
e uffici, Hans si diresse al cuore pensante della nave, dove un addetto commissario si prodigò di assegnargli una cabina privata
con balconcino sospeso sul mare, e un posto a tavola nella saletta
dello staff di terza. Poi, con il naso all’insù, rapito dall’andirivieni
degli ascensori panoramici, non gli rimase che prendere confidenza con la nave alla ricerca della sua camera con tanto di tv, divano e asciugacapelli griffato. In quell’ambiente da favola, una
volta terminato di sistemare le sue cose, Hans, senza perdere
tempo, volle subito visionare il suo nuovo posto di lavoro: la discoteca. Non gli restò altro che approfittare della mondanità della
cena per poter conoscere parte di un equipaggio a lui più vicino:
dal parrucchiere – un belga in tutto e per tutto simile al famoso
Poirot di Agatha Christie, con la sua Monique – ai sei componenti
afroamericani dell’orchestra jazz; e poi due soubrettes di Morehead City, North Carolina; il fotografo di San Francisco, sempre
in grande forma fisica: barba leggermente incolta, vacanze a Yerevan, in Armenia, con capatine all’esclusivo bed&breakfast Villa
Delenda di Yeznik Koghbatsi 22 – e tre ragazze australiane – Theresia, Sharyn e Sue – di Hervey Bay, Queensland, addette al perfumer’s shop.
L’ammiraglia? Era un grande albergo multistelle, e per l’ennesima volta si stava staccando dal suo attracco di Wilmington per
iniziare – lontano dai ferry cruise e competitor vari – un viaggio oceanico di routine, questa volta con una novità a bordo: il giovane elvetico di Ilanz. Pronto a immergersi nel suo nuovo ruolo, già
all’inizio del viaggio lo si ritrova super impegnato in discoteca tra
passeggeri eccitati dalla musica e dai cocktail, preparati da un
olandese di nome Jan. Il giorno dopo, in navigazione, Hans si ritagliò un angolo di tempo, per godersi la magia del momento.
Il cielo era coperto e il mare calmo.
Di tanto in tanto un tonfo sordo contro la fiancata, faceva intuire che un’onda di rimando, un cetaceo o una grossa tartaruga
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avevano avuto la sfortuna di trovarsi sulla stessa rotta. E la nave
fendeva le acque, implacabile verso la meta.
Lavorando, riposando, frequentando la libreria e i saloni ricreativi di bordo, i giorni trascorrevano veloci, per niente monotoni,
per Hans sempre intento a scoprire anche gli angoli più reconditi
della sua nuova casa sul mare, sempre osservando curioso quei
passeggeri che andavano in discoteca per stordirsi, e che magari
si felicitavano per l’acquisto di un biglietto per un concerto o per
un’escursione che avrebbero fatto di lì a qualche giorno.
In quella folla, in quel mare travolgente di un unico mostro dalle
mille teste, Hans, di sera in sera, assisteva alla nascita di nuove
amicizie e strani amori, compreso il suo misterioso, per il Messico, ormai sempre più vicino.
Il suo primo incontro con il Messico lo ebbe in una mattina di
maggio, al quarto giorno di navigazione diretta da Wilmington.
Per Hans e il suo mondo segreto, il Messico si materializzò nella
verzura dello stato di Jalisco, e nel dondolio di un tappeto di meduse stretto tra Cabo Corrientes e Punta Mita, mentre la nave procedeva lenta verso l’ingresso di una larga baia nascosta dalle
evanescenti foschie di un’alba tropicale.
Quel mattino, nell’aria appiccicaticcia, satura di umidità e salsedine, odori di selva, muschi e legno di cocco si mescolavano ai
profumi della colazione servita a buffet sul ponte e alle note lontane di un’orchestra mariachis; intanto la nave avanzava sempre più
lenta in un alito di nebbia tiepida e colorata dalla quale, in lontananza emergevano sempre con più distinzione sulla linea scura
della baia barche e case dei pescatori di marlin e aguasas, seguite da
abitazioni e alberghi di inconfondibile stile coloniale.
E palme, palme da cocco, yagua, macartura, aifane, facevano da
cornice alla stazione turistica attraversata dal río Cuale luogo eletto
di una pregiata varietà di orchidee e giardino di farfalle dai colori
vivaci, grandi talvolta come una mano.
Un vero paradiso per Hans e per i crocieristi la suggestiva
Puerto Vallarta delle infinite bougainvillee e delle fiammeggianti De-
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lonix regia, dove per pochi pesos si poteva noleggiare un cavallo e
su questo lasciarsi trasportare sino alla villa dei Burton, o poco
più in là, alla ricerca di quelle vecchie costruzioni dai ritmi orizzontali e robusti, abitate da piccole, grasse, olivastre señoras dai visi
lucidi di un fetido untume olezzante di tortillas, che si muovevano
a balzi, parlando forte tra i banani, arrostendo radici e frutti del
pane, ignorando le donne più giovani pepate e provocanti, sempre intente a cantare come fa il vento fra le canne da zucchero,
aspettando mariti, amici o altro con fare sapiente e consapevole.
Oltre il pueblito e la zona portuale, Puerto Vallarta per Hans significò, in quel primo viaggio, prendere confidenza con le allegre, vivaci, hacienditas dai tetti di tegole rosse, dotate di ampie
vetrate e vani molto luminosi, con i cespugli d’hibiscus e le scure
macchie di ficus, accarezzate da brillanti fronde di cocco, sibilanti
ascoltatrici dell’immutato parlottare delle onde. Se ne inebriò i
sensi fino al tramonto.
Scese la sera e si presentò in un vulcano di luci dalle gradazioni
incandescenti, portando, con il vento e il brillio tremolante di
quella montagna d’acciaio in rada, il momento della partenza con
rotta su Acapulco, già punteggiata da miriadi di luci fioche sotto
un groviglio di cumulonembi neri in bellicose evoluzioni.
La nave, in quel primo viaggio, toccò Zihuatanejo – dove la selva
scendeva quasi intatta sin sulla spiaggia – e poi Mazatlán, importante scalo marittimo e punto di partenza di numerose regate veliche e gare di pesca ai marlin negros, puntando quindi su Cabo San
Lucas e sull’isolotto roccioso di Guadalupe, per mostrare ai turisti
una fauna inconsueta di pellicani e mammiferi marini.
Tutto era nuovo, e il sapore della novità era magnifico.
Passavano i mesi e le crociere lungo questi itinerari esotici si ripetevano, e l’esperienza portava Hans ad approfondire una conoscenza diretta degli statunitensi e del loro modo di concepire la
vita, al di là delle bevute di bourbon con ghiaccio, dei loro sguardi
trasognati e di quelle regine incontrastate di quel caleidoscopico
caos galleggiante, fasciate in sete lucide e fruscianti, che volevano
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attirare a tutti i costi un qualsiasi straccio d’uomo, seducendolo
col petto e il fondo schiena sempre in mostra.
In quel bailamme c’era però una cosa che non riusciva ancora
a focalizzare: ad ogni approdo a Puerto Vallarta, il giovane sentiva
inspiegabilmente l’impeto di recarsi alle antiche vestigia spagnole,
che spuntavano come fantasmi dalla fitta vegetazione di felci e
liane dell’oltre Tropicana. E a ogni viaggio, dopo il rituale pellegrinaggio su quei resti datati 1541, risalenti ai momenti di gloria
del conquistador don Pedro de Alvarado, in Hans affioravano come
strani ricordi che potevano riferirsi a memorie forse sepolte nei
suoi stessi cromosomi, ereditate da antichissimi suoi probabili avi.
Che fossero Spagnoli?
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