prefazione - Gino Longo Memorie

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prefazione - Gino Longo Memorie
prefazione pag. 1
L'idea di questo libro nacque quasi per caso, durante un colloquio,
nell'estate del 1981, col compianto professor Giuseppe Del Bo, allora
presidente della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli per la storia del
movimento operaio. Stavamo concordando le modalità della cessione alla
Fondazione dei miei manoscritti scientifici e della mia biblioteca di lavoro,
quando Del Bo mi suggerì che sarebbe stata una buona idea, per facilitare il
lavoro dei futuri ricercatori, corredare il lascito di una breve auto biografìa
(sulle 200 pagine, disse) e di un piccolo archivio fotografico.
Lì per lì non ci pensai, ma poi l'idea prese a germogliare. Di cose da
raccontare ne avevo. Per cominciare la mia vita, senza che ne fossi stato
cosciente, si era intrecciata con gl i anni più salienti del XX secolo. Mi spiego:
se vogliamo riconoscere che il nuovo secolo in realtà inizia col 1914 (gli anni
che precedono non fanno che concludere il XIX) e termina in pratica col 1991
(dopo il crollo dell'URSS quello che è cominciato non sarà forse il XXI secolo,
ma sicuramente è un periodo del tutto nuovo), i miei " primi" settant'anni,
1923-1993, con questo secolo, che Eric J. Hobsbawn definì " il secolo breve",
coincidono quasi alla perfezione (*). Io nacqui sei anni dopo il 1917, fui
presente nel 1989-92 e sono ancora vivo oggi che siamo nel 1997.
______
(*)
Col crollo dell'URSS, ultimo retaggio della prima guerra mondiale, il sistema bipolare che
caratterizzò l'Europa ed il mondo per ben settantaquattro anni, dal 1917 al 1992, ebbe termine, e
venne sostituito temporaneamente da un sistema mondiale unipolare centrato attorno al vincitore
della guerra fredda, gli Stati Uniti d'America. Con ciò il XX secolo, iniziato nel 1904 col conflitto
franco-germanico per il Marocco, si può dire c hiuso col trionfo degli Stati Uniti, rimasti l'unica
potenza economica e militare a livello mondiale. Lo scontro si sposta ora tra gendarme e sudditi:
non è forse così che ai suoi tempi crollò l’impero romano?
prefazione pag. 2
Sono inoltre stato, come dire, uomo piuttosto fortunato: nella prima
metà del secolo (intendo qua gli anni che vanno dal 1914 alla fine degli anni
50) non soltanto ho vissuto eventi interessantissimi, ma mi sono pure trovato
in luoghi per così dire strat egici in momenti cruciali. La fine degli anni 20 a
Torino, gli inizi degli anni 30 in Francia ed in Belgio, gli anni del primo e del
secondo piani quinquennali in Russia, gli ultimi anni della III Repubblica dal patto di Monaco alla "drôle de guerre" - a Parigi. Ero a Berlino nel 1932,
alla vigilia della presa del potere da parte di Hitler, in Russia durante le
grandi purghe del 35-38, in Francia durante la disfatta del 1940. Fui a Mosca
quand’era
ancora
in
vigore
il
patto
russo -tedesco,
ed
al
momento
dell'aggressione nazista. Gli anni decisivi della seconda guerra mondiale, dal
1941 al 1945, li trascorsi in Russia; quelli della ricostruzione dell'Italia
distrutta e dell'avvìo della "democrazìa" tra il 1945 ed il 1952, a Roma. E gli
ultimi anni di Stalin, la sua morte, il XX congresso del PCUS, il " disgelo" e
l'ascesa di Krusciov li vissi di nuovo in Russia.
Conobbi di persona od incontrai, oltre all'intero gruppo dirigente del
PCI clandestino, anche personaggi come André Marty, Maurice Thorez, Anna
Pauker, Mathias Rakosi, Dimitrij Manuiljskij, Dolores Ibarruri, Wilhelm
Pieck, Walter Ulbricht, Ho Chi Minh. Vissi con i figli di Mao, sono stato
compagno di studi di Markus Wolf alla scuola dell'Internazionale ed
interprete di Stalin al Cremlino. Il tutto guar dandomi attorno con gli occhi
ben aperti, crescendo e formandomi in una situazione piena di colpi di scena
ed aperta a tutte le possibilità, tra vicende ed avventure anche personali.
Alla fine degli anni 50, dopo la conclusione della seconda guerra
mondiale, la "ricostruzione”, il piano Marshall e l'avvìo dell'integrazione
europea, ma soprattutto dopo l'uscita di scena degli uomini che a modo loro
avevano resa grande - nel bene e nel male - la prima metà del secolo, inizia
un periodo del tutto nuovo: a fare da spartiacque - in Russia, ma non soltanto
in Russia - sono gli anni che vanno dalla morte di Stalin alla cacciata di
Krusciov, 1953-1964. In Russia - ma non soltanto in Russia! - comincia quella
che fu poi chiamata “la stagnazione": un periodo di lento, poi di sempre più
rapido e comunque inesorabile degrado. Fino ad arrivare, nel 1989 -91, al
crollo per consunzione di quello che era stato un mondo a sé, il mondo del
"socialismo reale": ma assieme ad esso anche di un determinato ordine
mondiale fondato sulla "contrapposizione tra due sistemi ", ultima eredità
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della guerra del 1914-18. Bene: anche in questo secondo periodo, sia pure in
modo più defilato che non in quello precedente - ossìa non più in prima
persona - fui presente e testimone di parecchie co se in un mondo che stava
cambiando e diveniva diverso. Non posso lamentarmi: la dose di avventure
che mi è toccata in sorte - di cui al destino sono grato e che ricordo con
piacere, ed anche un po' di nostalgìa - sarebbe sicuramente bastata a riempire
più di una vita.
Non era quindi il materiale a farmi difetto: ne sarebbe potuto venir
fuori una specie di "reportage" a schizzi rapidi, che avrebbe potuto includere
componenti assai diverse. Le avventure di un ragazzino curioso - e con una
memoria di ferro - attraverso l'Europa degli anni venti -trenta; note sulle
vicende
del
gruppo
dell'emigrazione;
dirigente
rilievi
del
inediti
PCI
sulla
nel
vita
periodo
quotidiana
dell'illegalità
dei
e
funzionari
dell'Internazionale Comunista nel famoso albergo " Lux"; le tappe di una
formazione intellettuale nonostante tutto robusta, sistematica e testarda; il
diario di un ragazzo che fu sempre, come dire, passabilmente erotomane e
tale è rimasto; particolari sul come si viveva cinquant'anni fa; e tante, tante
altre cose. Trattandosi di un epoca ormai remota e lontana, non soltanto poco
nota ma addirittura oggi incomprensibile ai più, sarebbe stato interessante
tentare di farla rivivere. L'idea andava prendendo corpo: cominciai a
prendere appunti, a controllare fatti, ad accer tare date, a ripescare particolari
sepolti nella memoria, a documentarmi.
*
*
*
La cosa appariva importante, perché mi ero trovato, mio malgrado, ad
essere testimone di una rivoluzione fallita: avevo assistito per così dire di
persona alla creazione e degenerazione di una particolare struttura
economico-statale, al tradimento della rivoluzione da parte di chi ne
avrebbe dovuto indirizzare gli sviluppi e gestire i frutti, cioè da parte di un
ceto particolare che si sarebbe
sostituito
al proletariato, avrebbe
usurpato il potere politico e si sarebbe costituito in nuova classe
sfruttatrice. Affossando così il sogno della possibilità di costruire una
nuova
società,
senza
più
sfruttati
né
sfruttatori,
apparso
a
metà
dell’ottocento ma per alcuni versi ancor prima, che aveva alimentato per
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decenni le speranze di più generazioni, e per un momento era quasi sembrato
divenire realtà.
D’accordo, non era la prima volta che succedeva, sol che in questo caso
il fenomento ebbe conseguenze - per la posta in gioco, la durata e l’ampiezza
dell’esperimento, la massa delle popolazioni e dei paesi coinvolti - che non
esiterei a definire planetarie. Soltanto ora cominciamo a rendercene conto:
ci vorranno decenni per poter misurare l’ampiezza del disastro.
Quasi contemporaneamente a quanto accadeva nel sociale si verificava
anche un’altra rivoluzione, questa qua nel campo dei rapporti privati, che
un po’ impropriamente sarebbe stata definita “ sessuale”, di cui sin dal 1935
avevo anticipato la necessità, e delle cui premesse e sviluppi già a partire dal
1949 mi sarei fatto attento osservatore, quindi molto prima di quel 1965 che
ne viene comunemente considerato l’inizio.
Vi è un altro particolare che rendeva la cosa anche più stimolante. Oltre
ad essermi – per le particolarità della mia biografìa – trovato nei luoghi
giusti nei momenti giusti, avevo anche potuto affrontare – per la modalità
specifiche del mio crescere – i fatti e gli eventi privo di ogni paraocchi
ideologico precostituito: sin dai miei primi giorni mi ero infatti – ne
vedremo poi il perché - d’istinto collocato su posizioni che erano in nuce sia
libertarie che libertine. Ero miracolosamente sfuggito a qualsiasi forma di
precondizionamento ideologico, il che evidentemente costituiva un vantaggio
non indifferente.
Essendo un patito della logica, ben presto mi resi conto che l’essere
libertario in realtà non significava altro che voler affrontare senza
pregiudizi i problemi dello Stato, mentre l’essere libertino invece
significava voler affrontare allo stesso modo anche i problemi del sesso.
Significava in altri termini voler affrontare i problemi dello Stato e del sesso
così
come
avresti
fatto
con
qualsiasi
altro
problema,
ossìa
senza
preconcetti e preclusioni di sorta. Quindi se già ero libertino e libertario
per temperamento, ora lo divenni anche per principio. La cosa ha una
sua importanza, perché senza questo duplice approccio, al tempo stesso
libertario e libertino, sarebbe risultato assai difficile, per non dire
impossibile, comprendere i fatti e gli eventi de l XX secolo. E’ quest’approccio
che mi permise di capire meglio e prima di altri molti dei problemi della mia
epoca, e di non venire mai scavalcato dagli eventi.
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Vediamo le cose un po’ più da vicino. Tutto il XX secolo – visto col
senno di poi – appare pervaso da un anelito irrefrenabile di libertà e da una
formidabile spinta – anche se dagli esiti tuttora incerti – a liberarsi dalle
pastoie e dalle limitazioni esistenti, a rivoluzionare i rapporti sociali e
privati, a sovvertire, distruggere e sostituire tutte le strutture ereditate dal
passato. Stato, rapporti di proprietà e di potere, istituzioni ed ideologìe; ma
anche matrimonio e famiglia. Il XX fu un secolo non meno sovversivo e
rivoluzionario del settecento: semmai lo fu di più.
Sol che ecco, l’aspirazione a rivoluzionare, sovvertire e sostituire tutti i
rapporti e le strutture sociali esistenti si è incarnata nel novecento in due
filoni di lotta diversi (ma già era successo nel settecento), che a volte si sono
intersecati ma mai si sono fusi. Chi privilegiava il sociale e intendeva
rivoluzionare in primo luogo i rapporti di potere e di proprietà, all’atto
pratico si rivelava spesso prevaricatore ed autoritario, statalista e puritano, e
mostrava di tenere in poco o nessun conto le libertà personali, va nificando in
tal modo quegli stessi principi ai quali intendeva richiamarsi. Chi privilegiava
invece il privato e voleva non ridurre ma estendere le libertà personali,
compresa quella di aver rapporti sessuali con chi gli garbasse, in campo
economico
e
conservatrici.
sociale
I
si
primi
collocava
si
spesso
proclamarono
su
posizioni
prudentemente
rivoluzionari,
senza
voler
distinguere tra libertari e statalisti, i secondi libertini. Il che significa che
sia gli uni che gli altri si fermarono in realtà a metà strada: chi era
unicamente libertino manteneva - assieme agli statalisti - tutti i suoi
pregiudizi sullo Stato, mentre chi voleva essere soltanto libertario
manteneva tutti i suoi preconcetti sul sesso. Il che evidentemente è un
errore di metodo. In quanto agli statalisti, beh, si tennero sia gli uni che gli
altri... I due campi, anche se tutti e due contestatari dell’ordine costituito e
dell’ideologìa dominante, operarono quasi sempre separati, e furono spesso
in conflitto.
In altri termini, la lotta per l a “rivoluzione sociale”, da contrapporre
alle “rivoluzioni politiche” del settecento e dell’ottocento, si intrecciò spesso
ma non si incontrò mai con la lotta per l’emancipazione femminile e la
liberalizzazione dei costumi e dei rapporti sessuali, ossìa co n quella che
venne chiamata un po’ sbrigativamente la “ rivoluzione sessuale” e conseguì
forse risultati più duraturi. Ma in realtà non è possibile seguire e
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comprendere gli eventi del XX secolo se non si tengono presenti entrambi
gli aspetti: e per farlo è per l’appunto necessario collocarsi su posizioni che
siano contemporaneamente tanto libertarie – ossìa antistataliste – quanto
libertine. A riuscirvi furono in pochi: minoranza i rivoluzionari, minoranza i
libertini, quelli che seppero coniugare i due asp etti furono scarsissimi:
minoranza tra le minoranze. Timorosi di danneggiare ora l’uno ora l’altro dei
campi in lizza, tendevano inoltre a non porsi troppo in mostra, ed a essere
molto ma molto prudenti nelle conclusioni.
Tra gli scarsi precursori che mi tornano in mente potrei citare
solamente Restif de la Bretonne (1734 -1806), Charles Fourier (1772-1837),
Friedrich Engels (1820-1895), August Bebel (1840-1912), Paul Lafargue
(1842-1911), George Bernard Shaw (1856 -1950), Klara Zetkin (1857-1933),
Herbert Wells (1866-1946), Victor Margueritte (1866 -1942), Maksim Gorjkij
(1868-1936),
Léon
Blum
(1872-1950),
Bertrand
Russel
(1872-1970),
Aleksandra Kollontaj (1872-1952), buona parte dei politici sovietici degli anni
venti, Vladimir Majakovskij (1893 -1930), le
avanguardie
letterarie
ed
artistiche europee degli anni 20 e 30; e nel secondo dopoguerra forse Jean Paul Sartre (1905-1980) con Simone de Beauvoir (1908 -1986). Sicuramente
Roger Vailland (1907-1965), comunista e libertino, e Marguerite Duras (1914 1996). Pochi e dimenticati: il terreno in realtà resta ancora tutto da
dissodare. E nonostante la presenza ben visibile nella storia del XX secolo di
entrambe le tendenze di cui ho detto prima, agli occhi dei più io continuo in
sostanza a fare figura di mosca bianca . Per contro il mio giudizio risulta più
acuto, le mie osservazioni più pertinenti, la mia capacità di aderire ai
problemi maggiore. Se mi leggete, ve ne convincerete. E forse vi potrei
anche convincere a liberarvi da remore e timori : proclamarsi libertar i e
libertini non è disdicevole né obbrobrioso, i paraocchi non giovano a
nessuno.
*
*
*
Definito lo scopo, torniamo nuovamente al compito cui mi stavo per
accingere: l’idea di far rivivere la mia epoca era sì suggestiva, ma cosa avrei
dovuto porre al centro della narrazione? In un libro di memorie, perché di ciò
si sarebbe trattato, cosa è che può realmente interessare e coinvolgere il
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lettore? Lungo quale filo conduttore sistemare centinaia di fatti, impressioni,
annotazioni?
Per me, lettore assiduo di memorie altrui, non vi era dubbio: in un libro
di memorie ciò che interessa il lettore non è tanto l'ambiente o le circostanze
quanto la personalità del protagonista, la sua storia. In altri termini, ciò che
importava non era tanto recare testimon ianze - ve ne sono sempre troppe, il
più delle volte da prendere con le pinze - quanto porre risolutamente al
centro della narrazione un determinato personaggio: me stesso. Il resto era
contorno, ambientazione.
Quel che intendevo narrare doveva quindi ess ere anzitutto la mia storia,
la storia della mia formazione morale ancor più che intellettuale. Dovevo
spiegare come prese forma e si definì attraverso gli anni un certo mio
atteggiamento verso la vita, l'azione, la politica, le donne, la conoscenza, la
morte e tante altre cose ancora. Dovevo far vedere e far capire come e perché
ero divenuto quello che sono. Dovevo descrivere ciò che su di me aveva
influito: i libri che avevo letto, le persone che avevo conosciuto, gli eventi in
cui mi ero trovato coinvolto, i fatti e gli atteggiamenti che mi avevano colpito.
Parentesi: mi rendo perfettamente conto, ora che in sostanza vivo già in
quel XXI secolo che è iniziato anni fa, che quel che narrerò al lettore di oggi
rischia di apparire del tutto incredibile; il mondo infatti è cambiato troppo.
Un po' come accadde, a suo tempo, a Giacomo Casanova: ultimate le sue
"Memorie" nel 1793 ma pubblicate soltanto nel 1822 -28 per la traduzione
tedesca, e nel 1826-38 per l'edizione francese rivista da Jean Laforgue, quel
che vi era narrato - l'esposizione abbraccia gli anni 1732 -74 - apparve ai
lettori dei primi decenni del XIX secolo talmente inverosimile che i più si
rifiutarono di credere che tali personaggi, tali eventi e tale modo di vivere e
pensare avessero mai potuto esistere. Vi fu chi negò che Casanova potesse
essere un personaggio reale, e ritenne che lo si dovesse considerare pura
finzione letteraria, - le "Memorie" vennero infatti a lungo attribuite a
Stendhal, non piccolo elogio, - altri invece sostennero che sì, forse il
personaggio era realmente esistito, ma che quel che aveva scritto era da
ritenersi frutto di allucinata fantasìa, perchè tali cose " erano impossibili",
"non potevano essere state"; l'incredulità insomma fu quasi totale. Il mio
futuro lettore sarà forse tentato di assumere il medesimo atteggiamento:
ebbene, tengo a rassicurarlo, confermo sin da ora e nel modo più deciso che
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tutto quello che narro è realmente accaduto, è successo veramente, e che non
ho fatto nessuna concessione alla fantasìa. Paren tesi chiusa.
Tornando a quanto detto prima: non si cerchi nelle mie memorie quello
che non vi è e non vi può essere. Tenterò di essere sì preciso e documentato
sullo sfondo storico, sull'epoca in cui sono vissuto, controllando ogni qual
volta sia possibile i particolari resi vaghi dal tempo trascorso e dalle lacune
della memoria umana. Ma l'essere obiettivi in un libro di memorie vuol dire
soltanto descrivere con la massima onestà possibile la propria soggettività.
Per essere chiaro: non ho affatto la pret esa di descrivere le cose come sono
state in realtà (e chi può mai dire di saperlo?), bensì come le ho viste io,
allora ed in quel momento. Anzi, come le ricordo. O meglio: come credo di
ricordarle. Perché i ricordi sono un po' come i pezzi di antiquariato :
necessitano sempre di un restauro a posteriori. E la memoria è parente
dell'archeologìa: vi sono sempre vuoti e lacune da colmare, sequenze da
ricostruire. Per lo storico quindi le memorie in sé non hanno valore di
documento, salvo che sul loro autore, p ossono soltanto essere una fonte tra
tante altre. Per il lettore curioso invece possono essere molto, molto di più.
Perché? Perché una storia privata dovrebbe interessare un pubblico
sufficientemente vasto di lettori? Già: e perché allora sono così popolar i i
romanzi? Non sono forse storie private, quelle che raccontano? Rovesciamo la
domanda:
quali
sono
le
condizioni
perché
una
storia
privata
possa
coinvolgere il lettore? Fondamentalmente due: il protagonista deve essere
abbastanza qualunque, banale, simile al lettore stesso, di modo che
quest'ultimo possa facilmente identificarsi con lui; mentre le di lui vicende
debbono viceversa essere il più possibile diverse dal tran tran quotidiano del
lettore, devono cioè essere strane, meravigliose, sembrare fantast iche pur
essendo reali, essere in una parola romanzesche. Se poi il protagonista
incarna pure qualcosa che il lettore avrebbe voluto essere ma non ha osato, in
modo da vendicarlo delle sue rinunce e delle sue frustrazioni, allora il gioco è
fatto, si appassionerà. Ebbene, tutti questi ingredienti di un buon romanzo
nella mia storia personale v'erano: rimaneva solo da scriverlo. Rovesciando
l’animo come un guanto, e mostrandoti sincero fino allo spasimo. Non puoi
barare, ne va della tua credibilità.
Mi si dirà che questa è letteratura. Già, ma le memorie sono
letteratura. La differenza tra romanzo e memorialistica è una sola, e di
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scarso rilievo: mentre nel primo caso l'autore crea dal nulla o modifica a
volontà i fatti, le situazioni ed i personaggi, badan do unicamente a perseguire
la loro verità interiore, nel secondo caso ha limiti più rigidi e dovrà utilizzare
soltanto fatti, situazioni e personaggi realmente accaduti, esistiti. Ma sarà lui
a sceglierli. Anzi, la prima scelta verrà fatta d'istinto, dalla rimembranza. Che
riterrà alcuni tra i personaggi, le situazioni ed i fatti, cancellandone altri. Per
il resto fini e procedimenti sono gli stessi, e l'operare dell'autore, che si tratti
di memorie o di romanzo, rimane pura soggettività. Proprio per questo un
libro di memorie non è mai un documento, salvo che sull’autore. Ma ciò vale
anche per il romanzo.
Tanto è vero che i due generi si accavallano e si confondono più di
quanto si creda: le "Confessioni di un ottuagenario " di Ippolito Nievo sono
un romanzo, mentre la "Vita di Benvenuto Cellini fiorentino scritta da lui
medesimo" è un libro di memorie; ma se non ne foste al corrente, sareste
capaci di distinguere ove sta il romanzo e ove le memorie? Ed abbiamo visto
che le memorie di Casanova sono state a lungo ritenute un romanzo, di cui si
pensò anche di aver individuato l'autore. Per non parlare dell'impareggiabile
André Malraux (confesso che mi è rimasto simpatico, nonostante sia finito
ministro: era un avventuriero della più bell'acqua), nell'opera del quale
("Romans", 1928-37; "Miroir des limbes", 1967-75) è impossibile distinguere
dove cominci il romanzo e finiscano le memorie: i suoi romanzi hanno sempre
una forte componente autobiografica, seppur mitizzata, mentre le sue
"memorie", (anzi "Antimemorie"...) contengono sempre, e l'autore lo dichiara
apertamente, una buona dose di finzione.
Per illustrare meglio il mio pensiero, e cioè che i libri di memorie
interessano il lettore soltanto se sono la storia di un personaggio, elencherò
alcuni titoli di memorie che a me piacquero, interessarono e dalle quali
appresi parecchio.
Per cominciare Benvenuto Cellini (1500 -1571) ("Vita di Benvenuto
Cellini fiorentino scritta da lui medesimo ", 1728) e naturalmente Giacomo
Casanova (1725-1798) ("Histoire de sa vie, écrite par lui-même", 12 volumi,
1826-38). Poi Alfred de Musset (1810-1857) ("Confessions d'un enfant du
siècle", 1836, ma anche "Rolla" e "Gamiani", entrambi del 1833). Charles
Darwin (1809-1882) ("Autobiografìa", 1879), ma anche Anonimo Vittoriano
("La mia vita segreta", undici volumi, 1888). Tra gli autori a cavallo tra i due
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secoli citerei Frank Harris (1854-1931), l'amico e biografo di Oscar Wilde
("La mia vita ed i miei amori", quattro volumi, 1923); Nell Kimball (1854 1934) ("Memorie di una maîtresse americana", 1932); Aleksandr Benois
(1870-1960) ("Vita d'artista", due volumi doppi, 1954-1980). Infine, tra gli
autori di questo secolo, Charles Spencer Chaplin (1889 -1977) ("La mia vita",
1964); Victor Serge (1890-1947) ("Memorie di un rivoluzionario", 1951);
Vladimir Nabokov (1899-1977) ("Altre sponde", 1954); Teresa Noce (19001980) ("Rivoluzionaria professionale", 1975); Georges Simenon (1903-1989)
("Un homme comme un autre”, 1978; "Mémoires intimes", 1980; ed altri).
Come vedete, vengo a collocarmi in buona, anzi ottima compagnìa:
avventurieri, guitti, puttane, artisti, erotomani, scienziati, rivoluzionari,
nonché scrittori e poeti, tutti però indubbiamente personaggi. Inutile dire che
la scelta non è casuale, e che da ognuno di quegli autori ho imparato, e quindi
preso, qualcosa. Oltre ai libri di memorie mi sono ispirato, per l'esposizione,
anche alle "Vite parallele" di Plutarco (45-125), e per il peso da dare alle
riflessioni dell'autore, agli "Essais" di Michel de Montaigne (1533-1592). Ma
sempre in modo autonomo: non ho mai copiato nessuno. L’unico modo di
essere originale è di rimanere sé stesso.
Devo ammettere che a scrivere queste memorie mi sono divertito assai.
La ragione ne è semplice: la espose Giacomo Casanova nella prefazione alle
sue. Il descrivere la propria vita permette di riviverla una seconda volta, e se
ti eri divertito a viverla, replicherai il piacere. Settecentesca, la citazione è
troppo bella per lasciarla ammuffire in un testo oggi poco letto. Per di più è
completa soltanto nel testo originario delle memorie, pubblicato per la prima
volta dopo la seconda guerra mondiale, negli anni 60. " Dans cette année
1797, à l'âge de soixante et douze ans, où je peux dire vixi, quoique je respire
encore, je ne saurais me procurer un am usement plus agréable que celui de
m'entretenir de mes propres affaires... Me rappelant les plaisirs que j'eus je
me les renouvelle e je ris des peines que j'ai endurées, et que je ne sens plus ".
Di anni, al momento di chiudere queste mie memorie, duecento anni dopo, io
invece di settantadue ne avevo settantatré.
A viverla, la mia vita, non mi ero di certo annoiato. Forse si può dire di
me quello che Baudelaire scrisse degli scrittori del 700, di quei " voluttuosi"
che fecero la Rivoluzione francese: che vi ssero la loro vita come si trattasse di
un romanzo d'avventure, e probabilmente ebbero ragione. E' che si faceva
prefazione pag. 11
allora poca distinzione tra letteratura e vita, e quegli scrittori i loro romanzi
li vivevano in prima persona. Non l'ho mai fatta neppure io, quella
distinzione, per cui il piacere che trovo a rammentarmi le vicende della mia
vita ed a riordinarle in un discorso coerente è per così dire triplo: ciò che
vado scrivendo rappresenta, in fondo, tanto la mia " Recherche du temps
perdu" quanto la mia "Éducation sentimentale" e la mia "Comédie humaine".
E naturalmente i miei "Souvenirs d’égotisme", nonché la mia “Odissea”. In
quanto alle chiavi di lettura, potranno essere assai più d’una: dal romanzo
picaresco alla storia dell’utopìa. Una cosa è certa: no n vi annoierò.
*
*
*
Per chiudere, un avvertimento circa lingua e stile. E' chiaro che le mie
memorie le dovevo scrivere in italiano: se possono interessare, è in primo
luogo ai miei compatrioti. Ma l'italiano non è mai stato per me strumento
letterario, soltanto mezzo di comunicazione. L'imparai infatti ad orecchio
nella prima infanzia, non ho mai frequentato una scuola italiana, ho
cominciato ad usarlo nella pratica giornaliera assai tardi, soltanto dopo i 23
anni di età, e solamente per le necessità quotidiane o per la mia attività
giornalistica. Il francese ed il russo sono stati per me strumenti linguistici,
studiati, usati ed affinati come tali: l'italiano no. Il mio risulterà quindi un
linguaggio scarno, arido, senza metafore, immagini, ri cerche di stile, senza
cioè nessuno di quegli artifizi letterari che contribuiscono ad abbellire una
prosa o ad impreziosire uno stile. Ma forse sarà un vantaggio: il discorso che
ne vien fuori dovrà essere per forza di cose stringato, ridotto all'osso. Se nza
fronzoli e senza velleità, quindi più leggibile, anche se più denso. Banale,
ripetitivo e monotono? Forse, ma non si può avere tutto.
Vi è un’altra ragione per cui la specificità del mio linguaggio potrebbe
risolversi in un vantaggio: per rievocare un ’epoca serve un linguaggio
concreto, che sia in grado di restituire oggetti, sapori ed aromi di un tempo
che non esiste più. Un linguaggio che dovrà essere assai più vicino alla lingua
parlata che non a quella scritta, e naturalmente alla lingua parlata di ieri, non
a quella di oggi. E’ per tale ragione che userò camion invece di autocarro;
che indicherò – per marcare lo iato – l’accento – ai miei tempi facoltativo ma
caldamente raccomandato – anche sulle i che portano l’accento tonico e
prefazione pag. 12
precedono un’altra vocale, soprattutto se questa è terminale; che bandirò
ogni volta che sarà possibile l’abominevole n prima di una s impura (ai miei
tempi si poteva anche tollerare instaurare od inspirare, anche se solo in
casi precisi, ma non certamente constatare, considerato errore gravissimo e
gallicismo, mentre oggi lo usano un po’ tutti), e via così dicendo.
In quanto a sintassi, nel mentre tendo a semplificare e cerco di evitare i
giri di frase troppo involuti, un certo mio vezzo lo avrei. Consiste – per
marcare cesure e pause - in una maggiore abbondanza di virgole e più in
generale di segni di interpunzione di quello che comunemente si usa oggi. Per
me è un modo per spezzettare di più il periodo e procedere per singoli tocchi
o pennellate, anche a costo di framment are il discorso, e di imprimergli un
ritmo a volte saltellante. Ma così si riesce a sfaccettare meglio il quadro, ed a
farlo aderire meglio alla realtà.
Avete capito: il linguaggio non è mai anonimo, è personale. Anch'esso
fa parte di me, della mia storia, del mio modo di vedere le cose. Se all'inizio
vi imporrà qualche sforzo, scusatemene. Ma non scoraggiatevi: non ve ne
pentirete. La narrazione è piuttosto densa: sorbitemi a piccole dosi, diciamo
un capitolo per volta. Buon divertimento.
1981-1998