13 Dirittura e dolcezza

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13 Dirittura e dolcezza
Dirittura e dolcezza
Ecco, sono qui, naufragato nel mezzo di questa pianura spianata dal gelo di un vento che, mi hanno detto, è
partito appena questa mattina dalla Siberia, una piana
così vasta che non riesco a immaginarla tutta quant’è, e
vedo solo che va da orizzonte a orizzonte.
Io che sono nato e cresciuto negli spazi striminziti tra
una collina di sassi irsuti di saggina spettinata dalla brezza
dolce di maestrale, e uno sprofondo di mare scuro oltre ogni
blu di matita, ora mi perdo in questa terra come in un oceano.
E cerco tra le nebbie che fumano come se in questo freddo
covassero silenziosi vulcani, un sole che ogni volta che appare
è sempre dalla parte sbagliata. Sono agli antipodi; dall’altra
parte, là da me, vediamo tramontare il sole, qui lo vedono
nascere. E io che ho mangiato pane senza aver mai visto un
filo di grano crescere tra i sassi dei miei campi, e a dire il vero
non ho mai visto neppure una spiga, se non nel libro della
prima elementare, so che in questa immensità di zolle, fresate
con un’arte che ridisegna la terra come fosse la trama di una
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stola votiva, ha già preso il suo lento germoglio il grano per
tutto il pane che il mondo ha voglia di mangiare. Cerco di
sentire il suo lento respiro, ma non ho l’udito così fine, non ho
abbastanza familiarità con la musica che questa terra canta
da qualche parte nel cuore delle sue interiora.
Da laggiù, sul filo dell’orizzonte, ancora adesso che si fa
quasi notte, arriva dai filari di una vigna appena percettibile
il clic, cli, cli di un potatore. Questa è una musica che conosco, anche se non conosco queste viti e quel modo che hanno
loro di potarle. Ma li ho guardati farlo, e il gesto è lo stesso,
identico a quello di mio padre, di mio nonno, uguale al mio,
se ancora mi fosse rimasta una vigna da potare. Il gesto del
potatore è un gesto segreto, ai suoi stessi occhi un gesto sacro.
Mio padre andava alla sera a potare, nell’ora incerta
tra il tramonto e la notte, e nel primo mattino, tra il violetto
dell’ultima notte e il rosato dell’aurora, perché, lo sapevamo,
sono quelle le ore in cui le streghe quietano e non vanno in
giro a fare i loro soliti dispetti. E il potatore può lavorare
tranquillo, la sua mano ferma e leggera, il suo spirito concentrato e libero, e il suo gesto netto come la giustizia. Non c’era
nessuna buona ragione perché chicchessia potesse rivolgere la
parola al potatore, distrarlo dal suo gesto, come fosse il prete
che celebra la sua messa. Del resto dipendeva da quelle strane ore e da ciò che accadeva tra lui e la vigna, se la famiglia
avrebbe avuto da vendemmiare e vendere qualcosa prima che
arrivasse un altro inverno, e nuove scarpe e un cappotto in
casa, e una motozappa nel fienile; sì, dipendeva dalla serenità
del suo gesto, e dalla intelligenza della sua cesoia.
Ho ascoltato mio padre parlare alla vigna, come ho sentito, distintamente, mia nonna parlare alle verze e ai radicchi
che coltivava. Non so cosa si dicessero, ma ho buone ragioni
per pensare che stipulassero accordi segreti, e intime alleanze,
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e so che la mia stessa vita la devo all’onestà di quegli accordi,
alla durevolezza di quelle alleanze.
E ora, in una terra così lontana e diversa e in tempi così
mutati, ascolto il clic cli cli del potatore e mi chiedo se in fin
dei conti non sia cambiato nulla, non nella parte più essenziale, antica e intima della terra e degli umani che la lavorano. Forse qui non crederanno, o non ci crederanno più, alle
streghe dispettose, ma in questo gelido imbrunire, quel leggero rumore di cesoie, quella flebile musica, mi parla ancora
di qualcosa di sacro, mi dice che forse si stanno ancora rinnovando gli antichi accordi in nome dell’eterna alleanza che
ancora porterà scarpe e cappotti e motozappe, e vino, e pane.
Sono cose che ancora servono, sono cose che forse possono
ancora arrivare avendo la cesoia saggia come un giudice e la
mano ferma come la giustizia. E intanto si sta facendo notte. Sulla strada provinciale,
dritta fin dove riesco a vedere, saettano i fari di rade automobili, e tra i vapori della campagna appaiono e scompaiono fantasmi di grandi case con grandi fienili e grandi alberi
attorno; lungo la strada, un balenio di spettri acquatici che
emergono e sprofondano in un attimo mi ricordano che qui
c’è acqua ovunque, acqua selvatica e acqua domestica. Ma
vengo anch’io da un canale, anche se minuscolo come minuto
è il mio fiume, e so come l’acqua addomesticata sia ancora
popolata dai suoi antichi abitanti, e tra questi, da mostri dormienti nel fondo per secoli, che poi, improvvisi, si alzano sopra le correnti, vendicativi e furenti come tempeste. Chissà se
qui, come sul mio canale, a quei mostri piace sopra ogni altra
cosa agguantare i ragazzini che si sporgono sulla corrente per
pescare i cavedani con il retino. Chissà se i cavedani sono ancora buoni come li ricordo, e, soprattutto, chissà se i ragazzini
hanno ancora quell’appetito insaziabile che avevo io; perché,
forse, i cavedani non sono un granché per chi non ha proprio
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quella gran voglia di mangiarsi il mondo tutto quanto.
Cammino sul ciglio di una strada che mi è stata indicata
tra le tante che affettano la pianura, vado con il mio passo
corto, l’andatura di chi non fa altro che scendere e salire, e
cerco di non farmi prendere dalla vertigine che mi danno le
linee rette. È facile perdersi quando non c’è un solo ostacolo tra il tuo cammino e l’orizzonte, qualcosa di abbastanza
notevole che possa essere un segnale affidabile per farti da
riferimento. Qui è come il mare: solo chi lo conosce bene sa
valutare le distanze, così da non finire per schiattare di fatica
mentre cerca di guadagnare la riva; quella che sembra lì, a
dieci bracciate appena, e invece non arriva mai. Le strade, i canali, i solchi, i filari di questa terra sono
tutti diritti in un modo quasi metafisico. E quando la terra si
alza in un’onda, la strada vira in una curva, il canale in un
gomito, non c’è mai durezza, improvvisa asperità, ma accade
in modo dolce, morbido; e io mi trovo a sorprendermi come
al cospetto di una notizia inaspettata e curiosa.
Dirittura e dolcezza. Per un ligure, figlio dei discendenti degli scorbutici e lupeschi apui, cresciuto scendendo e salendo per strade faticose e gradini scoscesi, sono due modi
dell’essere delle cose che non ha mai visto assieme, non in
questo modo così aperto e naturale.
Dirittura e dolcezza. Guardando la gente di questa terra, ascoltandola, annusandola, osservandola vivere, lavorare, ho incontrato uomini e donne di cui posso dire: ecco come
sono, diritti e dolci. Non mi è mai capitato in nessuna altra
parte di questo Paese, dove non mancano, spesso bel oltre
sotto la superficie apparente, né la dirittura né la dolcezza,
ma assai raramente riunite assieme, e non con la naturalezza, l’inevitabilità di un modo di essere che prescinde dalla
volontà; come se questa singolarità fosse un retaggio genetico, un mandato del genoma. Del resto, se sono qui, ora, è
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per qualcosa che ha a che fare con la dirittura e la dolcezza.
Sono qui per i lumini.
Nonostante che qui sia tutto piatto, diritto e deserto, alla
fine non mi sono perso, e riconosco le case che mi hanno indicato, la chiesa, il palazzetto con le lapidi e le targhe, la farmacia. Uno dei tanti paesi di questa terra sciorinati lungo la
via, aperti ai campi, senza difese di torri e mura, come se chi
li ha edificati non avesse per la mente nulla di cui aver paura. Sono paesi di contadini, paesi di braccianti, di muratori e
di artigiani che hanno messo bottega sotto casa per fornire i
braccianti, i contadini e i muratori.
Il paese dove sono nato è una rocca al culmine della collina di case strette e chiuse in se stesse a fare da barriera contro il mondo, porte e finestre aperte sugli angusti cortili; un
paese fortezza, così come gli altri della mia terra, nati dalla
necessità di difendersi da tutto: dal salmastro, dai saraceni,
dalla spietatezza dell’orizzonte marino, dalla durezza della
sua luce.
Sembra che qui non temano niente.
No, so cosa può portar via la terra a questi contadini:
l’acqua selvaggia del grande Fiume e dell’esercito dei suoi fratelli minori e figli e figliolini, a cui gran parte di questa terra
hanno sottratto.
No, so cosa può portar via il pane a questi braccianti:
l’ingordigia del loro padrone.
E né per difesa dall’acqua, né dal padrone, servono rocche e castelli. E infatti loro, uscendo dalle loro case aperte al
mondo, sono partiti a costruire altro. Hanno costruito canali
e canaline e condotte per addomesticare le furie del Fiume, e
argini e casse per edificare terre dalle paludi. Hanno costruito
cooperative e fratellanze e unioni, e mettono mano ai loro destini, ammorbidendo la superbia dei padroni delle terre, comprandone migliaia e migliaia di tornature, e di tutto quanto.
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Per intraprendere ognuna di queste cose occorre essere in molti, e molto uniti, e molto coraggiosi e fidenti l’uno nell’altro.
Hanno dovuto aguzzare la vista dei loro occhi e del loro cuore
per imparare a vedere oltre la foschia degli acquitrini, al di
là delle palizzate dell’ineluttabilità dei destini. Hanno dovuto
imparare assai presto a non aver paura dell’incognita vastità
degli orizzonti, ad entrare in confidenza con loro, perché per
questa terra e per questa gente non c’è riparo di sorta dalla
vastità.
Ma sono qui per i lumini.
Sono qui per assistere a un fatto di dirittura e dolcezza. E
lascio che la nebbia inghiotta le luci del paese alle mie spalle,
e come mi è stato detto tiro ancora diritto per un po’. Sempre
diritto, non si può sbagliare, poi le vedrà. E nel mezzo della
notte, ora che si è fatto anche silenzio di automobili e buio di
fari, lì, discosta dalla strada la misura di un orto, c’è una casa.
Una di queste case di contadini che ti dicono di essere state
costruite mattone per mattone con la fatica e la trepidazione
di un attraversamento del Mar Rosso. Tirate su nelle silenziose bestemmie di una preghiera di fatica. Non così diverse da
nessun’altra casa di contadino, fatte della stessa materia di
necessità e speranza. Due stanze giù, due stanze su, una porta
e due finestre a basso, tre finestre al piano, e niente che serva
di più. C’è dunque questa casa nel buio, senonché a ciascuna
delle sue tre finestre, fioco ma distinto, che ci sia ma non dia
troppo nell’occhio, che dica senza che si metta a urlare, un
lume. Un lume rosso, un lume bianco, un lume verde.
Mi siedo su un paracarro, mi accendo un pezzo di toscano, e mi metto lì a guardare, ad ammirare tutta quella dirittura, tutta quella dolcezza.
E’centosettant’anni che accendono quei lumini la notte
del nove febbraio, una notte come questa nel cuore dell’inverno, dritta al cuore della nebbia. In quella casa e in altre,
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mi hanno detto, nella piana tra Ravenna e Forlì, e ancora su
tra le colline, lungo le vie all’Appennino. Son lumini e non
lampade per non apparire troppo, perché per molti anni accenderli è stato reato grave, massima offesa all’autorità che
aveva potestà sul tempo e sullo spirito, sulla carne e sull’anima di quelle genti. Minuscole fiammelle nel buio, mascherate di carta dei tre colori di una bandiera bandita, di un’idea
peccaminosa, di un sogno sconfitto. Quei lumini si accendono
dal nove febbraio del 1850 per ricordare la fondazione della
Repubblica Romana.
Quella Repubblica voluta da un popolo che nessuno tra
i padroni della Storia aveva mai visto esistere, quello stato
di “democrazia pura” retto da uomini eletti con il suffragio
dell’universo popolo, che per quattro mesi ha vissuto nella
meraviglia del mondo intero, coltivando un sogno di libertà
dal bisogno, dall’ignoranza e dal dominio del forte, assediata
dagli eserciti più forti d’Europa. Quella Repubblica annientata dai cannoni perché era intollerabile che il sogno potesse
prosperare nella realtà, quello stato che ha schierato il suo
reggimento sparuto di studenti ad ultima difesa, perché anche
un solo attimo prima di soccombere potesse promulgare la
sua Costituzione.
Per dieci anni sono state luci clandestine, perseguitate
dalla gendarmeria pontificia, per novantacinque mal sopportate dalle guardie regie, negli ultimi sessantacinque ignorate
da qualsivoglia autorità, che non ricorda neppure più l’esistenza non troppo remota di una Repubblica che è stata il
meglio di ciò che ora è.
È per questo che sono qui, per essere tra quelli che non
ignorano, per dire a questa notte forestiera che io ricordo e so
che c’è chi ricorda con più fermezza e più luce di me. Sono qui
per rendere omaggio ai perseveranti.
In cosa perseverano questi uomini della piana, vite fatte
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con le mani, occhi piantati sui loro campi? Perché proprio
loro sono gli ultimi custodi della ormai antica Repubblica che
i loro figli e loro stessi non hanno nemmeno più trovato nei
libri di scuola? Ho conosciuto un po’ di quella gente, e so chi
abita la casa dei lumini. Ho chiesto, ho fatto loro domande.
Nella casa dei lumini vivono due vecchi, lui e lei, e solo come
si guardano capisci quasi tutto della vita che hanno vissuto,
di quella che ancora intendono vivere. Una vita che senza la
perfetta intesa dei gesti e dei pensieri non sarebbe mai potuta arrivare fin qui; sposi, e fratelli, e figli l’uno dell’altro.
Prima braccianti, poi mezzadri, e infine contadini della loro
terra. Li guardi, li ascolti nella loro parlata placida e aperta,
e non vedi né miseria né disincanto, e solo puoi immaginare
quanto patire di fatica e miseria, quanta fatica di sperare abbiano occupato i loro giorni da quando sono nati. Guardi le
loro mani, quelle vecchie morse arrugginite, e non credi che
possano tenere nulla di diverso dal manico di una vanga. Invece stringono con delicatezza struggente le tue, ti porgono il
bicchiere colmo del loro vino con la maestria di giocolieri. Gli
chiedo dei lumini, e il vecchio fa un gesto con la mano e dice
solo: è l’idea. È l’idea che rimane, è quel che resta vivo nelle
generazioni: l’ideale. Che tutti possano vivere bene, semplicemente; e in pace, semplicemente, e in libertà, semplicemente,
e nel giusto. Per questo accendono ancora i lumini, così come
hanno fatto i loro nonni e i loro padri per centocinquant’anni:
perché resti ancora vivo il semplice pensiero del bene, della
giustizia, della pace, della libertà.Hanno cresciuto un figlio e
lo hanno fatto studiare. Il suo pensiero è più articolato, le sue
spiegazioni più complesse, ma anche lui accende a casa sua
i lumini per le stesse semplici ragioni. E la loro semplicità le
rende ancora più presenti. Anche la Repubblica Romana era
un sogno di semplicità, mi spiega dolcemente il vecchio, e annuisce a sua moglie, come se la loro intesa fosse nata là, nel
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