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© Lend 2011. Lavinio (a cura di), Lingua e cultura nell’apprendimento linguistico
I DISCORSI SOCIALI NELLA LEZIONE DI LINGUA
Jean Claude Beacco
1. EDUCAZIONE INTERCULTURALE E LEZIONE DI LINGUA
Educazione interculturale e dimensioni culturali dell’insegnamento/
apprendimento delle lingue straniere non devono probabilmente essere confuse
anche se operano nello stesso settore: quello dei contatti culturali. La
«civilisation» nelle lezioni di lingua costituisce una modalità particolare di
quella pedagogia dell’interculturale che deve gestire tutto il campo, dai
problemi deontologici legati alla determinazione degli obiettivi educativi alla
concezione/realizzazione di scambi culturali nel quadro scolastico. Tale
ampiezza di campo tende a diluire alcune problematiche sempre
intercomunicanti e costituisce un ostacolo alla messa a punto di procedimenti
metodologici in senso stretto, salvo in qualche ambito particolarmente
identificabile e omogeneo (è il caso degli scambi scolastici). Ne consegue la
denominazione corrente, perfettamente adeguata, di educazione e non di
didattica interculturale utilizzata in modo volontaristico.
Questa distinzione non deve portare a credere che, nella lezione di lingua, le
scelte educative siano da ignorare o che procedano da sole. Ma è vero che il
rapporto con una cultura altra è, in questa situazione educativa, come
anestetizzato, essendo totalmente indiretto. Tanto più che, nel quadro europeo
almeno, la lezione di lingua non costituisce da sola un luogo di acculturazione
forte: apprendere una lingua a scuola è ancora apprendere una disciplina e
questo sapere non sembra in grado di avere un’incidenza – formatrice o
destabilizzatrice – sull’identità culturale dell’apprendente; ciò, almeno,
trattandosi di culture che non si trovano in posizione di modello, poiché è
chiaro che al di là della mondializzazione delle circolazioni culturali, il ruolo
dell’angloamericano, dello spagnolo e del francese, per esempio, non è identico
nella cultura dei media e nelle forme diverse delle «culture dei giovani»; cosa
che implica probabilmente strategie educative diversificate.
Comunque, sembra possibile circoscrivere alcune metodologie della
«civilisation» in seno alla lezione di lingua, che costituisce uno spazio definito
e delimitato al cui interno è dunque realizzabile la scelta di alcune tecniche,
dettate da obiettivi chiari.
È quindi lecito lasciare in sospeso il problema delle strategie educative, che
non è secondario, poiché i contatti culturali possono intendersi come:
- individuazione, all’interno di pratiche sociali ordinarie o di comportamenti,
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in modo da essere in grado di agire in una società straniera con efficacia,
cioè tramite una ‘naturalizzazione’ simbolica e provvisoria, in conformità
agli usi, visti tuttavia nella loro diversità regolata;
- contatto con i valori, attualizzati nei modi d’essere, dei prodotti della cultura
‘colta’, riconosciuti come potenzialmente universali e circolanti già da una
comunità alle altre. Questi flussi ed influenze culturali non hanno certo
aspettato gli educatori per diffondersi ed il problema allora non è più
interculturale ma intraculturale, poiché si tratta di capire come far accedere
a realizzazioni culturali, locali o straniere che siano, che accrescono
l’intelligibilità del mondo, tutti coloro che sono relegati nel consumo di
prodotti culturali mediati o ‘regionali’.
2. LA «CIVILISATION» NELLA LEZIONE DI LINGUA: SPECIFICITÀ
La situazione metodologica della «civilisation» nella lezione di lingua –
termine pericolosamente generale e problematico ma che nella didattica del
francese come lingua straniera designa convenzionalmente l’extralinguistico –
può essere descritta a grandi linee nel modo seguente:
- l’essenziale dell’insegnamento/apprendimento sta nella padronanza
linguistica. Le difficoltà, di comprensione almeno, di origine nettamente
culturale (per esempio, ignoranza del referente perché esso non esiste a
esiste sotto forme molto diverse nella cultura materna) non sono prese in
considerazione sistematicamente, ma casualmente nei «dialoghi» e nei
«documenti». Questa presenza della vita ordinaria e dell’attualità, sotto
forma di nomi propri non definiti o di sigle non sciolte (persone: Lalonde,
Fabius; luoghi: Matignon, Place Bauveau; nomi commerciali di prodotti:
un Président, deux Vichy, trois Monde, senza contare les Galfa, la Datar e
les Zup) che si danno per universalmente conosciuti, resta da descrivere
linguisticamente e semioticamente;
- la dissimmetria tra dimensione linguistica e dimensione culturale è, in
termini di attualizzazione, evidente. Per introdurre una lingua straniera in
classe, basta un solo locutore, nativo o non, in grado di praticarla
parzialmente. Il campione linguistico che ha l’insegnante come origine è
aperto e si trova completato o in parallelo con i campioni chiusi del libro di
testo o del dizionario di riferimento. Una lingua è facilmente trasportabile e
gli insegnanti sono, a questo proposito, – chiedo loro venia – in qualche
modo intercambiabili. Una cultura straniera non è trasportabile: ciò è
un’evidenza. Se ne possono introdurre in classe solo delle rappresentazioni
o dei simulacri, frammenti o parti, oggetti strappati al quotidiano, immagini
e discorsi. L’insegnante non si limita più al ruolo di mediatore inerte o
d’informatore rappresentativo. Se egli è in grado d’informare, lo è in quanto
divulgatore, intermediario fra un sapere/fonte e un uditorio. Se fa di più,
allora è come testimone, e non come esempio, tramite la propria esperienza
della cultura straniera: attraverso le motivazioni ‘prime’ che l’hanno
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condotto ad insegnare una lingua, questa lingua; attraverso la conoscenza
diretta che egli ha potuto costruirsi di questa nazione (viaggi turistici, stage
di formazione professionale iniziale o continua, letture, relazioni sociali,
ecc.); attraverso il legame creatosi con questa relazione obbligata con una
cultura altra (riserva, ammirazione prudente o infastidita, entusiasmo
sistematico, ecc.). Questa conoscenza diretta traspare necessariamente in
colloqui privati, confidenze, ricordi, aneddoti, osservazioni rapide che
possono arrivare fino a giudizi di valore, all’esortazione morale; tanto è vero
che, come si «fa grammatica» al di fuori dei momenti ufficialmente dedicati
alla sistematizzazione formale, si «fa civilisation» senza averlo previsto né
voluto;
- l’oggetto dell’insegnamento si costituisce in lingua e in «civilisation»
secondo procedure distinte. L’oggetto lingua, quale esso è costituito a questi
fini d’insegnamento, è un prodotto metodologico che non è dunque dato ma
per il quale esistono procedure di costruzione riconosciute: inventari
statistici, inventari funzionali, esclusione/inclusione fondate sulla norma
sociolinguistica ritenuta dominante, correttezza accademica, sentimento
estetico, cc. Ogni utilizzatore può, per lo meno, contestarne la
rappresentatività (campione) e la strutturazione (parole, schemi di enunciati,
atti di parola, repliche, testi, ecc.). La costituzione dell’oggetto cultura è di
tutt’altra complessità, in quanto non esiste grammatica di riferimento e,
quand’anche esistesse, il tenerne conto porterebbe a dosaggi di contenuti
impossibili. La rappresentatività di un oggetto culturale non è un dato
immediato. Attenersi ad una caratterizzazione media appiattisce a tal punto
le differenze che una simile opzione si presta alla fioritura di tutti gli
stereotipi possibili. Quanto all’identità culturale stessa, non sembra essere
recepita che come una costruzione storica, evidentemente non condivisa in
seno ad un gruppo che condivide tuttavia altri tratti: i cattolici, musulmani,
testimoni di Geova, massoni, protestanti ed ebrei francesi si riconoscono
nella morale laica della Repubblica? Chi rivendica una tradizione, chi
un’altra, e l’omogeneizzazione è vissuta come perdita dell’identità
‘regionale’. Per quanto riguarda l’identità nazionale, essa può ridursi ad un
insieme vuoto di più piccoli comuni denominatori o ad un connubio passepartout di «virtù» e di «difetti». La domanda «Che cos’è la Francia?» è una
domanda da straniero.
D’altra parte ciò ha poca importanza: la costituzione dell’oggetto-cultura
non è mai stato un problema metodologico all’ordine del giorno: tutto è buono,
di ciò che è straniero, per illustrare/esemplificare questa estraneità. Da notare,
sempre, la folclorizzazione delle culture nazionali nei manuali di lingua, ultimo
luogo in cui un educatore potrebbe aspettarsi di trovarla; si dovrà convenire che
la costituzione dell’oggetto-cultura non è neppure un problema;
- l’oggetto culturale non è strutturato nello stesso modo all’esterno e
all’interno. Per chi se ne avvicina dall’esterno, tutto è oggetto di
conoscenza: mancano le informazioni, i referenti, i sensi letterali, la
familiarità con le strutture che danno coerenza. Si persegue in primo luogo
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indefinitamente il significato immediato (RATP, 11 novembre, rugby,
alternanza, coabitazione, ecc.). Per chi lo guarda dall’interno, ci sono certo
dei significati chiusi e stabilizzati, comuni o no, ma ce ne sono altri la cui
definizione costituisce per l’appunto una posta in gioco sociale, politica o
ideologica, senza consenso pensabile. Il significato culturale di certe
«parole» non è stabilito dal dizionario: è negoziato da un gruppo all’altro e
si carica dei significati di questo interdiscorso dialettico o polemico. Ciò che
importa non è tanto il «senso» delle parole impiegate, quanto
l’individuazione delle condizioni di produzione del discorso che permette di
ricostituire i significati delle parole dissimulati da un troppo largo
significante (libertà, diritto, scuola, individuo, salario, cultura, ecc.). Questi
significati, lungi dall’esaurirsi in un’unica definizione, si costruiscono in tali
scambi discorsivi antagonisti;
- infine, la lezione di lingua non detiene, in seno all’istituzione scolastica, il
monopolio delle relazioni con 1’esterno. Altre discipline sono definite
trasversalmente alle culture, nazionali o no, come, a più d’un titolo, la storia
o la geografia così come la letteratura, la filosofia e le scienze esatte. Se la
lezione di lingua deve svolgere un ruolo specifico, non è probabilmente
quello di sostituirsi a queste discipline per la semplice ragione che spesso gli
insegnanti non ne hanno la padronanza. Tenere un corso di storia o
introdurre un argomento storico in francese, durante la lezione di francese,
equivale probabilmente a disconoscere l’interdisciplinarità. La specificità
della lezione di lingua esiste, ma la configurazione del contatto culturale che
le sarebbe proprio resta da definire.
Ogni teorizzazione metodologica dovrebbe tener conto di questi parametri,
senza escluderne evidentemente altri come le relazioni tra le culture messe in
contatto (continuità, rottura), le aspettative degli apprendenti, i loro
investimenti culturali, ecc.
3. I DISCORSI SOCIALI
In questo quadro si deve porre il problema delle fonti di informazione e dei
supporti didattici, se la classe è una sede nella quale la «civilisation» non entra
che sotto forme mediate, attraverso discorsi ed immagini, indipendentemente
dalla testimonianza individuale localizzata che l’insegnante è in grado di
portare. In materia, è prudente attenersi ai documenti autentici se non si vuole
introdurre una mediazione supplementare, una distorsione in più, quella
dell’autore di un manuale di lingua che confeziona supporti per le attività
d’insegnamento della «civilisation». I rischi sono molto considerevoli e ben
conosciuti: a caso, qualche citazione tratta dalla parte «civilisation» di un
manuale d’italiano come lingua straniera (pubblicato nel 1985):
Alle diciassette è d’obbligo per i bambini la merenda: pane e
cioccolata, pane e prosciutto, pane e mortadella, pane e marmellata o
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frutta [...].
È importante ricordare che sulla tavola italiana non manca mai il
vino economico e ottimo, e il pane.
I maccheroni e gli spaghetti: li mangia tutto il mondo, sono
presenti oggi nel dizionari di tutte le lingue, sono considerati cibo
italiano per eccellenza.
La pasta fa ingrassare? Certamente non più di altri cibi. La pasta
è l’alimento base degli italiani, che pure, in generale non sono più
grassi di altri popoli [...]».
‘
No comment.
Selezionare documenti autentici non permette di risolvere miracolosamente
il problema della rappresentatività, ma ciò evita almeno questo genere di deriva
generalizzante, terreno fertile per la nascita degli stereo tipi più resistenti.
Resta il fatto che i discorsi/immagini d’una società suscettibili d’entrare in
classe non si possono trattare e utilizzare didatticamente. in maniera uniforme:
non sono pretesti per dare o per portare informazioni intercambiabili: conviene
preservare la loro personalità culturale e linguistica. Questi «discorsi sociali»
sono da concepire come pratiche cognitive, regolate da un’epistemologia o
realizzate da un soggetto sociale al di fuori di ogni quadro scientifico,
produttrici di saperi su una data società e che prendono una forma linguistica.
Ci atterremo qui ai testi in circolazione, non disponendo di una tipologia
accettabile delle forme di «trasmissione culturale» tramite l’immagine/testo
della televisione (informazioni interviste, inchieste, tavole rotonde, tribune
politiche, pubblicità, ecc.). Ci sia permesso di sottolineare rapidamente fino a
che punto l’immagine sia utilizzata in modo limitato quanto selvaggio
nell’insegnamento delle lingue, dal punto di vista culturale di cui ci occupiamo
in questa sede.
.I discorsi sociali presentano le realtà culturali da punti di vista diversi e
sotto forme diverse. Si prestano a utilizzazioni distinte da parte degli
apprendenti e presentano difficoltà prevedibili, linguistiche e culturali anche
esse distinte, che descriviamo qui di seguito. Attualmente essi sono sfruttati in
modo molto diseguale.
In primo luogo menzioneremo il discorso ‘spontaneo’ degli apprendenti
stranieri1, così come quello degli insegnanti di lingua, che ci sono praticamente
sconosciuti. Che cosa si dice di culturale durante la lezione di lingua e come
ciò viene detto? Ecco ricerche da condurre che potrebbero essere chiarificatrici:
si potrebbero così mettere in parallelo il discorso ufficiale dell’insegnante e le
sue considerazioni laterali, le domande degli alunni, da repertoriare, le
rappresentazioni iniziali e le loro eventuali modifiche senza dimenticare il
discorso dei manuali di lingua che si basa sempre almeno su di una esplicita
analisi di contenuto di tipo storico e con intento esplicativo.
Viene poi il discorso sociale delle scienze propriamente sociali (sociologia,
1
L’insieme di questa tipologia è ripresa da Jenny J., 1983, «Les discours sociaux sur la
Jeunesse» in Lagree J.C. e Lew-Fai P. (a cura di), La jeunesse en questions, Paris, La
documentation française.
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antropologia, storia, demografia, economia, ecc.), prodotto della ricerca
scientifica ed universitaria, che hanno la funzione d’identificare e d’interpretare
i fenomeni della società e le loro evoluzioni, mediante. procedimenti
metodologici oggettivabili almeno parzialmente. Sia che avvenga sotto forma
di sintesi, sia nel quadro di analisi monografiche, questa produzione lavora con
concetti. L’intellegibilità della realtà immediata ne risulta avvantaggiata, ma
non la sua ‘presenza’, strappata com’è all’immediatezza e al particolare. La
realtà vi appare – trattandosi soprattutto di comportamenti, valori, credenze,
evoluzioni strutturali – come esemplare, epurata e assimilabile, impoverita
dall’astrazione. Linguisticamente, i testi delle scienze storiche, economiche e
sociali prendono la forma di generi testuali come l’articolo o la
comunicazione, la tesi o i testi destinati alla circolazione interna di una
comunità di pari, ai quali dunque i non-specialisti non hanno accesso.
Ma, al di là di questa circolazione primaria, esistono modalità di diffusione,
dalle forme generiche diverse (saggio, manuale, opera per un «grande
pubblico»), aperte ai non specialisti. Questi testi sono in linea di massima
prodotti tenendo conto di questo tipo di uditorio e di consumo. Senza postulare
l’unicità discorsiva di queste serie testuali e senza pregiudicare effetti di
mascheratura e di distinzione volti ad affermare lo statuto eminente
dell’intermediario o del produttore del testo in rapporto ai consumatori dello
stesso, vi si troveranno dunque un minimo di presupposti culturali e uno sforzo
di autodelucidazione interna (definizione, esplicitazioni, riscritture,
organizzazione generale chiarificata da impaginazione, titoli, iconografia, ecc.)
destinati ad assicurare a questi testi una grande leggibilità.
Vicini a questo blocco di discorsi, ma distinti per le loro implicazioni per
l’azione, troviamo i rapporti «ufficiali» o no (come quelli del Centre d’étude
des revenus et des coûts), di cui spesso la stampa si interessa: sono orientati
verso la conoscenza pratica in quanto prodotti su domanda di organismi di
governo o di gestione che devono risolvere problemi precisi: le istanze tecniche
sono portate ad analizzare situazioni al fine di elaborare conclusioni o
raccomandazioni. Questa elaborazione del sapere sociale quale può essere letta
sui libri bianchi o su studi affidati ad un esperto (o un gruppo d’esperti)
procede per confronto, e compromesso, fra punti di vista contraddittori, con i
soggetti sociali o le istituzioni implicati. Le poste in gioco sociali delle parti
riceventi vi sono ovviamente presenti e percettibili, ma non dirigono da sole la
costruzione del sapere sociale o le rappresentazioni della società offerte alla
lettura.
Allo stesso livello, probabilmente, ma orientato in modo diverso, bisogna
segnalare il sapere sociale prodotto dai sondaggi d’opinione. Esso è filtrato, in
quanto distaccato e spersonalizzato, ma lascia intravedere gli sfaldamenti
dell’opinione pubblica in modo chiaro, almeno per quanto riguarda le posizioni
estreme. Asettizzato a modo suo, ma sensibile alle differenze, questo sapere
sociale si avvicina all’avvenimento e al particolare e possiede una grande forza
di convinzione conferitagli dalla sua operatività quando è utilizzato in modo
previsionale (come nel caso dei sondaggi elettorali); tanto che tende a eclissare
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le altre forme di sapere su una società che non presenterebbero lo stesso grado
di oggettività. Il fatto è che i committenti di tali inchieste (gruppi politici,
organi d’informazione, ecc.) non sono sempre percettibili.
A causa degli effetti di conformità che suscitano, i sondaggi sono entrati nel
dibattito sociale, ma la forma, compatta, quantificata e generalizzabile, dei loro
prodotti tende a creare o a rafforzare l’effetto di stereotipo, cioè la diffusione di
verità o di regole generali poco sensibili alla differenziazione interna di una
società. Di grande leggibilità (risultati in cifre presentati sotto forma di tavole,
alto grado di ridondanza fra i dati e il loro commento), senza particolari
difficoltà culturali, essi propongono rappresentazioni semplificate dalla tecnica
stessa del sondaggio: queste fotografie dell’opinione pubblica degenerano
spesso in cliché. Ciò spiega probabilmente l’elevato consumo, nella didattica
delle lingue vive, di queste sintesi controllate e facilmente disponibili.
Ridiscendendo di un gradino verso il quotidiano, l’avvenimento, la realtà
‘direttamente’ percepibile, si incontra evidentemente il sapere sociale qual è
elaborato dai mass-media che danno la parola ai testimoni, ma che hanno anche
la funzione di interpretare quest’ultima. Tale elaborazione dell’attualità,
inserita in una visione ideologica che funge da griglia di selezione, è in larga
misura dipendente dalla composizione sociale degli utenti, truismo spesso
dimenticato nell’utilizzazione pedagogica di tali discorsi. I media sono legati
all’avvenimento senza molto distacco e li fanno diventare spettacolo. Solo
un’interpretazione esplicita permette al lettore straniero di riconoscere se un
avvenimento ha un significato culturale e sociale o se rientra nell’ordine del
fortuito, ed è dunque privo di significatività. Le procedure d’individuazione,
cioè d’analisi, diventano qui indispensabili. Ora, un mondo culturale
complesso, in cui la prossimità complice media-utenti è quasi di regola, è irto
di difficoltà: connotazioni, citazioni, non-detto perché dato per scontato, ecc.
La forma testuale di questi discorsi – scritti in particolare – è controllabile o
gestibile metodologicamente perché calata in generi che preservano una certa
trasversalità culturale (notizie brevi, rassegne di stampa, resoconti, ecc.).
Tuttavia, bisogna segnalare, nella stampa quotidiana e settimanale, alcuni testi
staccati dall’avvenimento come i reportage (con elementi di sintesi di natura
enciclopedica), i ritratti, gli articoli ad orientamento storico: il distacco che
permette di identificare circostanze ed attori può avvicinarli a certe produzioni
delle scienze sociali.
Resta il sapere sociale dei soggetti sociali stessi, testimoni o attori
dell’avvenimento, le cui considerazioni, dichiarazioni ufficiali meditate o
reazioni a caldo, sono diffuse dalla stampa o attuate negli scambi privati.
Nell’uno e nell’altro caso, trattandosi soprattutto di cittadini ‘comuni’, si tratta
di capire il loro discorso situandolo, identificandone le implicazioni. Gli attori
esprimono la loro testimonianza e la loro esperienza, spiegano ciò che li tocca.
Queste reazioni o commenti, passionali e di parte, parlano anche della realtà
sociale vissuta e sviluppano argomentazioni testarde, passe-partout, ma
ancorate a fatti vicini, palpabili. Comprendere questo sapere sociale alla prima
persona implica rapportare il particolare al generale, interpretare letteralmente
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questi discorsi linguisticamente imprevedibili, impregnati di un mondo e del
suo lessico, anche se sono parcellari, vivi e presenti, densi dunque e provvisti
di una grande forza emotiva. Questo sguardo individuale si ritrova anche nella
produzione artistica che rielabora l’esperienza e produce un sapere sociale
ambivalente «pertinente e ambiguo», come lo definisce lo storico Michel
Vovelle2, spesso ai margini, ma insostituibile, per l’ascolto dei segnali deboli
portatori di nuovo.
Tale esperienza interpretativa della realtà sociale si manifesta in linguaggi
semioticamente complessi, propri ad ogni campo di espressione artistica: la sua
interpretazione non ne è certo facilitata. Questo sapere sociale legato alla
persona e al momento, pertinente o tramite di luoghi comuni infondati, ma di
per se stessi significativi, rischia di essere difficile da utilizzare in un corso di
francese come lingua straniera.
Restano i segni, silenziosi, non verbali, non testuali o non discorsivi, grezzi
e da identificare, che parlano anch’essi della società: statue e colori delle
strade, ritmi quotidiani e taglio di capelli, manifesti e scritte, tutto ciò che è
visibile e che assume veramente un senso solo in serie. Materiale
d’osservazione per le scienze sociali stesse, possono produrre senso da soli o se
si rapportano a quadri generali che essi non forniscono. Alcuni entrano in
classe, concreti ma poveri, ed è questa astrazione per difetto che li rende atti ad
essere manipolati da studenti stranieri, perché sono alla loro portata3.
Ogni altra tipologia, dal momento che questa è non-gerarchica, o ogni altra
caratterizzazione dei saperi sociali, della loro forma e delle loro modalità, sono
ovviamente possibili. Ciò che è didatticamente importante è tener conto di
questa differente specificità di ognuna delle manifestazioni della conoscenza
delle società, immagine della loro diversità interna, che resta fondamentale per
la loro comprensione e per l’educazione interculturale.
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Vovelle M., 1982, Idéologies et mentalités, Paris, Maspero.
Si vedano le attività proposte in Beacco J.C., Lieutaud S., 1985, Tours de France – Travaux
pratiques de civilisation. Manuel et guide du professeur, Paris, Hachette.
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