Le impervie vie dell`illecito endofamiliare: vio

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Le impervie vie dell`illecito endofamiliare: vio
Le impervie vie dell’illecito endofamiliare: violazione dei doveri coniugali, addebito, responsabilità civile.
di Alessandra Arceri
SOMMARIO: Principio di diritto. – 1. Lo sviluppo del giudizio e i motivi della decisione. – 2.
Domanda di separazione e domanda risarcitoria: un’inedita affermazione di connessione. –
3. La responsabilità civile endofamiliare: un tema sempre più ricorrente. – 4. Pronuncia di
addebito ed elemento costitutivo dell’illecito. Tra antichi miti e nuove prospettive emergenti.
Principio di diritto.
Con la pronuncia in esame il Tribunale di Reggio Calabria,
decidendo in un giudizio di separazione connotato da domanda di
reciproco addebito, delinea in modo peculiare il rapporto tra violazione dei doveri coniugali e diritto al risarcimento del danno esistenziale, affermando, da un lato, che la domanda risarcitoria può trovare ingresso, in quanto connessa alla domanda principale, nel giudizio di separazione, ma specificando, dall’altro, che essa trae
dall’addebito della separazione il momento genetico e costitutivo
dell’illecito.
1.
Lo sviluppo del giudizio e i motivi della decisione.
All’epilogo di un giudizio di separazione coniugale caratterizzato da
tormentate vicissudini processuali, il Tribunale di Reggio Calabria si
trova a dover pronunciare su duplice e reciproca richiesta di addebito, e
correlata domanda risarcitoria, che la sola moglie propone in considerazione del danno (esistenziale) provocato dai comportamenti del marito, contrari ai doveri matrimoniali, indicato nell’ammontare di 150.000
euro.
Il Tribunale, dopo aver affermato che la domanda risarcitoria può
trovare senz’altro cittadinanza nell’ambito del giudizio di separazione
coniugale, essendo strettamente connessa in funzione di accessorietà
alla domanda principale, ritiene pur tuttavia di respingerla, affermando
che la stessa è diretto portato della pronuncia di addebito; difettando la
prova di violazioni atte ad ascrivere all’uno o all’altro coniuge il fallimento del matrimonio, per effetto di comportamenti contrari ai doveri
delinati nell’art. 143 c.c., non sussisterebbe, dunque, la possibilità di
ravvisare alcun pregiudizio risarcibile.
Ritiene in particolare il Tribunale che non siano suscettibili di fondare pronuncia di addebito della separazione, e conseguentemente di risarcimento dei danni, pretese violazioni dei reciproci doveri di solidarietà consistenti in atti e fatti posti in essere, in alternativa, o prima della celebrazione del matrimonio (il Tribunale osserva che gli stessi, sia
pure utili a comprendere il clima ed i presupposti in presenza dei quali
il matrimonio è stato celebrato, non hanno alcuna influenza sulla ricostruzione dei motivi del fallimento di esso), o dopo la comparizione dei
coniugi dinanzi al Presidente del Tribunale, quando ormai
l’impossibilità di proseguire la convivenza era stata già accertata, emettendosi autorizzazione a vivere separati. Vi era stata, è vero, anche rappresentazione di fatti e circostanze avvenute in costanza di matrimonio,
ma in relazione agli stessi il Tribunale ritiene che si tratti di questioni
non già concernenti violazioni di precisi doveri matrimoniali, quanto
piuttosto la manifestazione di diversità caratteriale tra coniugi, e di difficoltà comunicative tra gli stessi. In definitiva, nessuno degli elementi
rappresentati – e sui quali le parti avevano richiesto l’ammissione di attività istruttoria – sarebbe rilevante per ottenere le invocate pronunce,
sul presupposto che l’una (quella risarcitoria) debba giocoforza essere
dipendente dall’altra (quella di addebito).
2.
Domanda di separazione e domanda risarcitoria:
un’inedita affermazione di connessione.
La possibilità delle parti di introdurre, nel procedimento di separazione o di divorzio, domande diverse da quelle concernenti propriamente lo status ed i provvedimenti accessori al mutamento di esso (affidamento della prole, cd. diritto di visita o di frequentazione, mante-
nimento del coniuge e dei figli, assegnazione del domicilio familiare) è
condizionata, come noto, dal rispetto di due fondamentali principi: da
un lato, quello secondo il quale per far luogo alla competenza per connessione, ai sensi dell’art. 40 c.p.c., non è sufficiente la sussistenza di
una qualsiasi interdipendenza tra cause pendenti dinanzi ad un medesimo giudice, ma è necessario che intercorra uno dei rapporti qualificati
specificatamente contemplati dagli artt. 31 e ss. c.p.c. (accessorietà,
garanzia, cumulo soggettivo, pregiudizialità, compensazione e riconvenzione); dall’altro, quello in forza del quale l’art. 40, terzo comma,
c.p.c., e la statuita prevalenza del rito ordinario sui riti speciali, non può
operare nelle fattispecie di cumulo soggettivo ed oggettivo, vale a dire
nelle situazioni in cui il sommarsi di domande diverse, tra gli stessi
soggetti, davanti ad un medesimo giudice, dipende esclusivamente dalla volontà delle parti. Se ciò fosse consentito, verrebbe a crearsi uno
strumento di agevole utilizzazione per sottrarsi, volontariamente, alla
regola del giudice precostituito per legge, affermata dall’art. 25 Cost.:
detto in altre parole, la cumulativa proposizione di domande soggette a
riti diversi presuppone, indefettibilmente, che tra esse intercorrano le
ipotesi di connessione qualificata già rammentate (così si esprime P.
CORDER, Giudizio contenzioso di separazione e di divorzio, in Separazione, divorzio, annullamento, opera diretta da G. Sicchiero, Bologna
2005, 681 e ss.; ibidem, Procedimenti contenziosi di primo grado di separazione e di divorzio, in La separazione, il divorzio – Trattato teorico-pratico diretto da G. Autorino Stanzione, Torino 2005). La giurisprudenza, recependo i principi di cui si è detto, infatti, ha sempre osteggiato i tentativi, diffusi, di introdurre nelle cause di separazione e
divorzio domande relative a questioni correlate, ma non strettamente
connesse al titolo delle domande principali, tra le quali, indubbiamente,
quella di risarcimento danni per la violazione dei doveri matrimoniali
inizia ad essere – anche sulla scorta di una giurisprudenza sempre più
prolifica in materia – una delle più frequenti. Ma l’esemplificazione potrebbe estendersi alle domande di scioglimento della comunione legale,
alle domande di riconoscimento degli incrementi apportati con proprie
opere o proprio denaro all’immobile di proprietà esclusiva o di proprietà comune, alle domande di restituzione dei contributi di mantenimento
versati nonostante l’accertata insussistenza del diritto alla percezione, e
via dicendo.
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Pronunciandosi su dette ipotesi, la S.C. si è mostrata, come anticipato,
per lo più contraria, tranne qualche isolata eccezione (v., per esempio,
Cass. 30 luglio 1984, n. 4554, in Rep. Foro It., 1985, voce Separazione
dei coniugi, n. 66, che ha ammesso la cumulabilità tra domanda di separazione coniugale e quella di restituzione della somme versate in precedenza ad uno dei coniugi, in ipotesi di pretesa insussistenza ab origine del diritto del percipiente, nonché Cass. 19 settembre 1997, n. 9313,
in Giur. It. 1998, I, p. 883, con nota di VULLO, che ha ammesso la
possibilità di proporre in via riconvenzionale, nel giudizio di divorzio,
la domanda di scioglimento della comunione legale), escludendo la
possibilità d’introdurre, accanto alle domande tassativamente tipizzate
dalla disciplina della separazione coniugale e del divorzio, domande ulteriori, non strettamente connesse all’oggetto della domanda principale
(così, si è esclusa per esempio la possibilità di proporre domanda di
scioglimento della comunione legale, contrariamente a quanto ritenuto
dalla pronuncia poc’anzi citata, da parte di Cass. 12 gennaio 2000, n.
266, in Fam. Dir., 2000, 593, con nota di PORCARI, Sono cumulabili
ex art. 40 c.p.c. domanda di divorzio e domanda di divisione dei beni
comuni?; del pari, si è esclusa la cumulabilità di: domanda di separazione o divorzio e domanda di restituzione dei beni e delle somme sottratte da uno dei coniugi in costanza di convivenza o dopo la fine di
questa: Cass. 15 maggio 2001, n. 6660; domanda di separazione o divorzio e domande concernenti l’accertamento della proprietà di determinati beni immobili o dell’incremento di valore apportato agli stessi:
Cass. 25 marzo 2003, n. 4367; domanda di separazione personael e
domanda avente ad oggetto la corresponsione di corrispettivo per le
prestazioni lavorative effettuate da un coniuge nei confronti dell’altro
in costanza di matrimonio: Cass. 8 gennaio 1983, n. 141, in Rep. Foro
It., 1983, voce Competenza civile).
Si è giustamente rimarcato, a prescindere dai motivi di carattere strettamente tecnico che ostano al riconoscimento di un rapporto di connessione qualificata tra domanda di separazione o divorzio e diritti di natura personale e patrimoniale che non possano qualificarsi «accessori»
o consequenziali secondo la nozione strettamente ricavabile dagli artt.
155 e ss. c.c., che l’introduzione nei suddetti processi di ulteriori questioni, soggette ad istruttorie di lunga durata, ed a volte di carattere tecnico-specialistico (si pensi alla valutazione degli incrementi patrimoniali registrati dal patrimonio individuale o comune), determinerebbe
un indesiderabile appesantimento di tali processi, a discapito di esigenze fondamentali, in primo luogo quella di sollecita definizione delle posizioni legate allo status, e soprattutto legate ai diritti ed alle aspettative
dei figli minori, che verrebbero a questo punto sacrificate e compromesse in nome della soddisfazione di interessi egoistici, di natura
schiettamente patrimoniale.
La pronuncia in commento, con un enunciato che non trova precedenti,
ritiene che la domanda risarcitoria proposta dalla moglie possa considerarsi senz’altro connessa, in modo qualificato, alla principale domanda
di separazione coniugale con addebito, in termini di «accessorietà»: e
questo perché i giudici del Tribunale di Reggio Calabria ritengono che
il diritto al risarcimento azionato dalla donna (a differenza di altre domande restitutorie pure avanzate nel medesimo giudizio, che sono state
dichiarate inammissibili in applicazione dei consolidati principi di cui
si è fatto cenno) trovi la sua diretta ed indispensabile scaturigine nella
domanda di addebito. Così intesa, ovviamente, la domanda di ristoro
dei danni patiti è senza tema di smentita dipendente dall’accertamento
di responsabilità per il fallimento dell’unione coniugale. Ma si tratta,
come si vedrà, di un’affermazione sotto svariati profili discutibile.
3.
La responsabilità civile endofamiliare: un tema sempre
più ricorrente.
Il tema della responsabilità civile in ambito familiare è, già da tempo, ampiamente discusso in dottrina e giurisprudenza. Inizialmente,
l’opinione prevalente era restìa ad ammettere che nell’ambito dei rapporti tra familiari potesse fare ingresso la responsabilità aquiliana. Ciò
in quanto l’ordinamento ricollegava alla violazione dei doveri matrimoniali precise e tipizzate conseguenze, così mostrando di voler precludere l’ingresso ad altre possibili forme di reazione o di tutela in favore della vittima di quei comportamenti. E d’altra parte, sembrava incoerente ammettere chicchessia a lamentare un «danno da separazione»
o un «danno da divorzio»: se la legge stessa consente ad ogni individuo
il diritto di separarsi, e di porre fine all’esperienza matrimoniale con
definitiva recisione del vincolo originario, spesso per contrarne nuovi,
se la legge stessa non assicura alcuno strumento atto a costringere i genitori ad amare e ad accudire i propri figli, se la legge stessa non può
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impedire comportamenti disinteressati anche dal punto di vista materiale nei confronti del partner o nei confronti dei figli, allora non è dato
scorgere alcuna via per qualificare tali comportamenti contra jus o non
jure (si vedano, sul punto, le interessanti osservazioni di G. SEBASTO,
in Familia, Quaderni, Illeciti tra familiari, violenza domestica, risarcimento del danno, Milano 2006, 71 e ss.; v., altresì, tra le opere più recenti, G. FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, Nuovi percorsi di diritto di famiglia, Collana diretta da M. Sesta, Milano 2006; G.
CASSANO, La giurisprudenza degli illeciti nel diritto di famiglia,
Maggioli 2007, con premessa di P. CENDON; E. BELLISARIO, Violazione dei doveri coniugali e risarcimento del danno, in Il Nuovo Diritto di Famiglia, a cura di G. Ferrando, vol. I, Bologna 2007, 742).
Emblematica di tale impostazione è la sentenza pronunciata dal S.C. in
data 22 marzo 1993, n. 3367 (cui è seguita, nei medesimi termini, Cass.
6 aprile 1993, n. 4108, in Rep. Foro It., 1993, voce Separazione dei coniugi, n. 60), che ben riassume l’antico modo di ragionare della giurisprudenza di legittimità in merito all’illecito endofamiliare: si affermava infatti che «la tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. non può essere invocata per la mancanza di un danno ingiusto, che presuppone la lesione di una posizione soggettiva attiva tutelata come diritto perfetto. Ora,
l’addebito della separazione ad un coniuge comporta solo gli effetti
previsti dalla legge, ma non realizza la violazione di un diritto
dell’altro coniuge».
Le cose, da allora, sono drasticamente mutate, ed il lavorìo della giurisprudenza, intorno al concetto di danno ingiusto ed alle clausole generali della responsabilità civile, ha fatto sì che un numero sempre maggiore di posizioni soggettive fosse attratto nella sfera di tutela degli artt.
2043 c.c.: enorme importanza, in questo cammino, ha indubbiamente
rivestito la sentenza SS.UU. n. 500/1999, la quale ebbe per la prima a
volta ad ammettere che, ai fini della configurabilità della responsabilità
aquiliana, non riveste importanza precipua la formale qualificazione
giuridica della posizione giuridica vantata dal soggetto leso. Ricorre
danno ingiusto, nel pensiero espresso dal S.C., ogni qualvolta la lesione
colpisce un interesse meritevole di tutela, tanto che sia intollerabile –
da parte dell’ordinamento – lasciare le conseguenze a carico della vittima. Compito del giudice, in sostanza, è quello di comparare i differenti interessi in gioco, privilegiando senz’altro quello del soggetto leso
se il sacrificio della sua posizione non appaia giustificato dalla realiz-
zazione del contrapposto interesse del soggetto autore del comportamento pregiudizievole.
Per quanto specificamente riguarda le violazioni dei doveri familiari,
i profondi mutamenti di cui si è già trattato hanno posto fine all’idea
che la famiglia possa essere un luogo meno garantito di altri, all’interno
del quale i familiari godono, in ragione di tale qualità, un’immunità tale
da sottrarli ad ogni responsabilità risarcitoria, rendendo, nel contempo,
la vittima di tali comportamenti, proprio perché «familiare», meno tutelata di altre, soggetta a menomazioni della propria dignità, della propria
personalità, delle proprie aspirazioni, non già protette a tutto campo, ma
settorialmente, cioè a livello penalistico, o anche congiuntamente mediante adozione dei provvedimenti disciplinati e noti all’interno della
«cittadella» del diritto di famiglia, giammai, invece, accedendo al generale rimedio della responsabilità aquiliana. La svolta è stata segnata
dapprima da alcune pronunce di merito (in particolare, Trib. Milano 10
febbraio 1999, in Fam. Dir., 2001, 185, con nota adesiva di BONA;
Trib. Firenze, 13 giugno 2000, ivi, 161, con nota adesiva di DOGLIOTTI), ma poi anche la Suprema Corte ha intrapreso il coraggioso
cammino. Dapprima, con sentenza 7 giugno 2000, n. 7713 (in Danno e
Resp., 2000, 835, con nota di MONATERI e PONZANELLI) essa ha
ritenuto, in caso di inadempimento degli obblighi di mantenimento nei
confronti di un figlio, che la ritardata corresponsione di quanto dovuto,
anche in ipotesi maggiorato di rivalutazione monetaria ed interessi per
il ritardo, non sia comportamento bastevole a riparare il danno, ulteriore e diverso rispetto al mero ritardo, che la violazione ha prodotto. La
prolungata mancanza di quei mezzi che l’adempimento regolare e tempestivo avrebbe potuto assicurare, infatti, determina ulteriori danni di
carattere irreversibile, come per esempio può essere un’esistenza diversa da quella che avrebbe potuto essere, caratterizzata da minori agi, minori gioie, meno opportunità di crescita e di affermazione sociale. Si
pensi al pregiudizio evidente che verrebbe a patire, per esempio, il figlio di un professionista, per effetto del reiterato disinteressamento di
quel genitore nei di lui confronti, per aver condotto un’esistenza dimessa, optando per studi di qualità inferiore a quelli cui avrebbe potuto aspirare in caso di solidarietà da parte del genitore inadempiente, ed accontentandosi, in giovanissima età, di un lavoro umile, di rango assai
inferiore rispetto a quello cui avrebbe potuto aspirare se l’obbligato al
mantenimento avesse regolarmente adempiuto ai propri doveri.
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Ma l’ipotesi di inadempimento di obblighi di contenuto economico è
certo di più immediata assimilabilità alle tradizionali ipotesi di responsabilità aquiliana: si tratta pur sempre, infatti, di doveri cui sono speculari diritti assistiti da mezzi di coazione piuttosto incisivi ed efficienti,
azionabili monitoriamente, il cui mancato soddisfacimento dà luogo a
pregiudizi sensibili ed oggettivamente riscontrabili, sia pure anche per
il tramite di un giudizio ipotetico (la supposizione di «quel che avrebbe
potuto essere», delle aspettative e delle chanches perdute, oltre che, naturalmente, la privazione di una figura genitoriale). Di contro, è assai
più coraggiosa l’affermazione di rilevanza, a fini risarcitori, della violazione di altri diritti, che proprio in quanto afferenti agli aspetti personali
ed intimi del rapporto, non danno origine a pretese assistite da mezzi di
dissuasione, o attuabili coattivamente, e la cui violazione dà origine,
molte volte, a pregiudizi il più delle volte non empiricamente riscontrabili, come la sofferenza, la minor gioia di vivere, il mutamento delle
proprie abitudini e del modo di approcciarsi all’esistenza. In sintesi, ciò
che oggi si chiama «danno esistenziale», con tutte le difficoltà probatorie che, nell’elaborazione giurisprudenziale, sono state ben colte, giacchè, se è vero che nel nostro ordinamento è da rifiutare l’idea di un
danno «in re ipsa», conseguente in via automatica alla lesione di determinate posizioni giuridiche soggettive, è altrettanto vero che a fronte
dell’attività che si traduce nella violazione di sentimenti ed aspettative
(sempre che, ovviamente, relativi a posizioni costituzionalmente rilevanti), la prova del danno è a volte soddisfatta con il ricorso a massime
di comune esperienza, a valutazioni probabilistiche, non essendo possibile alcuna rigorosa dimostrazione. Si è così giunti, in questa sintetica
ricostruzione, all’ultimo e coraggioso approdo della Suprema Corte (si
intende fare riferimento all’ormai storica sentenza 10 maggio 2005, n.
9801, in Familia, 2005, 875, con nota di CARICATO, ed in Fam. Dir.,
2005, 365 e ss., con note di SESTA e FACCI), con cui, finalmente, si è
qualificato «ingiusto» il danno discendente dalla violazione di doveri
coniugali tradizionalmente confinati tra gli aspetti esclusivamente personali ed intimi della convivenza, quali la fedeltà, la correttezza e la
buona fede, posizioni, tutte, sfornite di quell’immediata afferenza ad
entità economicamente valutabili, come possono essere assegno di
mantenimento o di divorzio, il cui mancato adempimento non è certamente assistito da tutte le cautele ed i mezzi di coazione che sono propri dei doveri più strettamente attinenti all’erogazione dei mezzi di sus-
sistenza dei familiari più deboli (osserva acutamente FACCI, in nota
alla sentenza citata, p. 374, che ogni automatismo tra pronuncia di addebito e risarcimento del danno deve esser escluso in considerazione
che, «soprattutto con riferimento ai doveri coniugali di carattere personale, si assiste ad un processo di tendenziale “degiuridificazione”,
ovverosia di “progressivo deperimento delle conseguenze giuridiche,
per il caso di inosservanza dei doveri matrimoniali di carattere personale»). Ed anzi, ben si potrebbe dire che la violazione degli stessi è implicitamente assentita, per certi aspetti, dall’ordinamento, laddove, consentendo a ciascun coniuge di separarsi, ottenere il divorzio, risposarsi,
dà per scontata l’eventualità che costui si sia disinnamorato dell’ex coniuge, lo abbia abbandonato sentimentalmente, ed abbia rivolto, in modo più o meno repentino, più o meno foriero di sofferenze per il «lasciato», i propri interessi affettivi verso un’altra persona. Ebbene, la
Cassazione ha risolto tale apparente contraddizione affermando (in un
caso in cui il marito aveva taciuto, da prima delle nozze, la propria impotenza alla moglie, che quindi si era vista deprivata di un aspetto fondamentale della vita coniugale, non riuscendo pertanto ad appagare, in
essa, le aspettative ed i desideri che ciascun individuo può legittimamente attendersi appagati nel matrimonio) che i comportamenti di un
coniuge contrari ai doveri matrimoniali possono costituire presupposto
per l’affermazione di responsabilità risarcitoria nei riguardi dell’altro
solo ove, per la loro intrinseca gravità, si pongano come fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona (si afferma, a chiarimento di
tale enunciazione, che non possono pertanto venire in rilievo «i comportamenti di minima efficacia lesiva, suscettibili di trovare composizione all’interno della famiglia, in forza di quello spirito di comprensione e tolleranza che è parte del dovere di reciproca assistenza»), come possono essere la salute fisica e psichica, l’integrità morale, la dignità, l’onore e la reputazione.
Reputo, a proposito di quanto si è scritto su tale recente svolta giurisprudenziale, non pienamente convincente la tesi, pur autorevolmente
espressa, secondo la quale – posto che non può esistere, per le ragioni
enunciate, nessun automatismo tra violazione dei doveri coniugali e risarcimento – la linea di discrimine nel giudizio di bilanciamento tra i
contrapposti interessi delle parti, in caso di violazione dei doveri familiari, debba essere individuata nel «dolo» che sorregge il comportamento antigiuridico (cfr. FACCI, op. ult. cit., p. 376, dove l’autore osserva:
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«E’ di tutta evidenza, comunque che nel giudizio di bilanciamento tra
gli interessi contrapposti ha avuto un ruolo di primo piano la condotta
dolosa del coniuge. A tal proposito, si può segnalare che, nell’ambito
della responsabilità civile, il dolo può incidere sulla stessa qualificazione di ingiustizia del danno, rendendo risarcibili danni che, altrimenti, non potrebbero ricevere tale qualifica e che quindi sarebbero irrilevanti se posti in essere con colpa. Si viene a creare una interferenza tra
colpevolezza ed ingiustizia del danno: attraverso l’elemento soggettivo
del dolo, nel giudizio di bilanciamento degli interessi in conflitto,
l’ordinamento esprime un giudizio di meritevolezza dell’interesse del
danneggiato al risarcimento»). Se così fosse, il diritto al risarcimento
dovrebbe essere sempre riconosciuto in presenza di violazioni che, per
loro stessa natura, sono sempre dolose: si pensi all’infedeltà coniugale,
che – essendo tra l’altro la causa statisticamente più frequente di addebito – non è naturalisticamente pensabile in forma colposa, o ad altre
violazioni di particolare frequenza tra coniugi che si separano burrascosamente (quali le offese alla dignità, all’onore ed alla reputazione). In
ogni modo, mentre questi ultimi beni non porrebbero particolari difficoltà, in quanto da tempo la loro lesione dolosa è riconosciuta – anche
al di fuori del consorzio coniugale, che in ogni caso non può mai rappresentare, come si è chiarito, una «zona franca» – come fonte di pregiudizio risarcibile, la tesi in oggetto non chiarisce in che termini, e sulla scorta di quali presupposti, potrebbe evitarsi allora la responsabilità
risarcitoria in caso di violazione (sempre volontaria) del dovere di fedeltà. Quando oltretutto è certo, proprio sulle premesse che si sono operate, che il fatto stesso della separazione, o comunque della decisione di
abbandonare sentimentalmente una persona per accostarsi ad un’altra, è
proprio ciò che l’ordinamento esplicitamente ed implicitamente consente. A mio avviso, pur non consentendo l’economia della presente trattazione una compiuta disamina sul punto, l’essenza dell’illecito, nel caso
di specie, risiede proprio in quell’esigenza di bilanciamento di interessi
contrapposti che la fondamentale pronuncia SS.UU. n. 500/1999 ha individuato: al di là delle aggressioni di tale gravità da collocarsi in modo
più che evidente al di fuori di ogni possibilità di «bilanciamento» (come potrebbero essere percosse, lesioni, atti di vituperio, violenza sessuale ecc.), occorre dunque procedere ad una comparazione tra le posizioni delle parti, verificando, in particolare, se quanto posto in essere
dal coniuge colpevole della violazione del dovere matrimoniale non
travalichi i limiti di ciò che è fisiologicamente necessario per esercitare
le facoltà che pure l’ordinamento gli riconosce. Secondo uno schema di
raziocinio che rammenta assai, se non addirittura può soprapporsi, a
quello dell’«abuso del diritto». Soltanto in questo caso, è da ritenersi, la
condotta contraria ai doveri matrimoniali comporterà, per il coniuge
colpevole, in aggiunta alle eventuali sanzioni previste dal diritto di famiglia (sempre che, ovviamente, possa ravvisarsi un nesso di causalità
tra la condotta suindicata e la frattura dell’unione matrimoniale), anche
responsabilità aquiliana.
4.
Pronuncia di addebito ed elemento costitutivo
dell’illecito. Tra antichi miti e nuove prospettive.
Così delineati i tratti essenziali della nuova responsabilità endofamiliare, nei confronti dei figli e del coniuge, non può non cogliersi
l’autonomia concettuale e sostanziale, pur in presenza dei medesimi
presupposti, della domanda di addebito rispetto a quella di risarcimento
dei danni. La prima tende infatti all’accertamento della responsabilità
di uno dei coniugi, resosi autore di gravi violazioni dei doveri coniugali, in ordine al fallimento del matrimonio, e decreta il regime dei futuri
rapporti patrimoniali tra coniugi (il coniuge cui viene addebitata la separazione non ha infatti diritto all’assegno di mantenimento, e viene escluso dal novero dei successibili); la seconda si proietta verso il passato, e tende ad accertare se, per il tramite della violazione di doveri che,
sulla scorta di quanto recentemente affermato dalla nostra giurisprudenza, sono di rango primario e correlati a posizioni costituzionalmente
garantite, si siano arrecate lesioni a valori fondamentali della persona.
Si tratta, dunque, di accertamenti completamente autonomi, e l’uno
non può ritenersi assorbito dall’altro: in altri termini, così come in presenza di violazioni matrimoniali particolarmente gravi potrà sussistere
addebito, ma non responsabilità risarcitoria del coniuge autore di esse,
al contrario potranno esservi ipotesi in cui le medesime violazioni, pur
non avendo svolto efficacia causale sull’intollerabilità della convivenza
(in ipotesi, perché le stesse sono andate ad incidere su rapporto di coppia ormai deteriorato irreversibilmente), rilevano ai fini
dell’affermazione della responsabilità risarcitoria (questo concetto è efficacemente sottolineato da P. CENDON, Violazione dei doveri coniu-
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gali e risarcimento del danno, introduzione all’opera di G. CASSANO,
cit., 79. Ivi altri riferimenti dottrinali).
Gli esempi, in quest’ultimo caso, sono semplici da ipotizzare: si
pensi al caso in cui, pur essendosi per altra via determinata insanabile
frattura dell’armonia coniugale, uno dei coniugi faccia mancare
all’altro i mezzi di sostentamento, omettendo di provvedere adeguatamente alle sue esigenze, o lo estrometta dal domicilio coniugale, costringendolo a reperire sistemazioni abitative precarie e tali da peggiorare sensibilmente la qualità di vita, o neghi i mezzi di sussistenza ai
figli della coppia, pur in presenza di un quadro di dissafezione reciproca.
In sintesi, non può condividersi l’affermazione secondo la quale la
pronuncia di risarcimento dei danni conseguenti alla violazione dei doveri matrimoniali consegue, necessariamente e quasi automaticamente,
alla pronuncia di addebito.
Le violazioni dei doveri matrimoniali che determinano
l’intollerabilità della convivenza sono, in molti casi, è vero, quelle medesime violazioni che giustificano e supportano la domanda risarcitoria,
ma da ciò non può trarsi, quale logico corollario, che se non può pronunciarsi addebito, allora dev’essere esclusa anche la responsabilità aquiliana.
Con riguardo alla vicenda che si commenta, è assai probabile che,
nella sostanza, i giudici del Tribunale di Reggio Calabria abbiano correttamente escluso la rilevanza delle circostanze tutte che erano state
reciprocamente indicate a supporto delle rispettive richieste tanto ai fini
dell’addebito, quanto ai fini della responsabilità risarcitoria.
Pare di comprendere, tra le righe del provvedimento, che già da prima di contrarre le nozze i due avessero manifestato caratteri inconciliabili, inclinazione all’incomprensione reciproca ed evidenti incapacità
comunicative. Problemi che ovviamente, durante il matrimonio, si erano acuìti piuttosto che risolversi: tant’è che il Tribunale osserva che le
intemperanze ed i litigi che si erano manifestati durante il matrimonio
erano più la chiara dimostrazione delle contrapposte peculiarità caratteriali che il derivato di specifiche violazioni matrimoniali. Insomma, il
tutto era stato partorito da un tragico errore nella reciproca scelta. Se
così effettivamente era, bene hanno fatto i giudici della sentenza commentata ad escludere la rilevanza di tutti i capitoli dedotti a supportare
entrambe le tipologie di domande introdotte nel giudizio.
Ciò che non può condividersi, invece, è l’affermazione secondo la
quale non potrebbe esservi responsabilità risarcitoria in difetto di pronuncia di addebito della separazione.
Concludendo queste osservazioni, mi piace rammentare le parole di
un chiaro autore, il quale, prendendo atto della inesorabile e progressiva svalutazione dei doveri più personali ed intimi del matrimonio, sempre più sacrificati sull’altare dei bisogni egoistici del singolo, efficacemente rileva che, proprio per il tramite della via extracontrattuale, essi
potrebbero registrare in futuro una straordinaria ed auspicabile reviviscenza (SESTA, Diritto di famiglia, Padova 2005, 117). Il che a significare che alla libertà – ormai incondizionatamente riconosciuta – di affrancarsi da vincoli non più congeniali a chi li ha contratti non può, in
ogni caso, affiancarsi la facoltà di arrecare impunemente danno.
ALESSANDRA ARCERI
Giudice del Tribunale di Bologna
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