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LIBRI
a cura di
Ci vuole più governance
nell’economia mondiale
Un libro di Paolo Savona prende di petto il problema della mancanza di governance
nell’economia globalizzata. Alla vigilia del G8, il libro diventa uno strumento utile
per chi voglia dire e fare qualcosa di non convenzionale su questo terreno. A partire
dal premier Silvio Berlusconi e dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti
e non si approfondisce la conoscenza di come
funziona il sistema degli scambi globali reali e
monetari, e quali sono i suoi difetti di governance, molto difficilmente si potrà riportare l’economia globale su un sentiero di sviluppo stabile. Questo
“Manuale per il G8” si prefigge di spiegare tutto ciò
agli sherpa che preparano il summit della Maddalena, con la speranza che la semplicità dell’esposizione e la maneggevolezza del libro inducano anche il
premier Silvio Berlusconi e il ministro dell’Economia
Giulio Tremonti a meditare sulla fondatezza dell’interpretazione in esso avanzata, per farsene portatori
nell’importante consesso.
La tesi di fondo è che la politica economica è stata finora concepita sul piano teorico e portata avanti su quello
pratico in funzione della tutela degli interessi nazionali.
Tuttavia, l’esistenza di ben 63 emergenze planetarie valutate dalla Federazione mondiale degli scienziati impongono la collocazione delle conoscenze finora accumulate in materia nel contesto globale, dando origine a
una loro reinterpretazione che l’autore chiama geopolitica economica. I contenuti di questa nuova disciplina
sono appunto oggetto di questo “Manuale”, che riflette
le lezioni di un corso sperimentale tenuto presso la
Scuola superiore della pubblica amministrazione e l’Università Telematica Guglielmo Marconi.
La genesi della crisi in corso è vista dall’autore nel con-
S
Il libro
Paolo Savona, Il governo dell’economia globale.
Dalle politiche nazionali alla geopolitica: un
manuale per il G8, Marsilio editore.
temporaneo realizzarsi di un eccesso strutturale di
domanda interna negli Stati Uniti, con punte di rilievo
nel Regno Unito e in Spagna, che, riflettendosi nei
deficit di conto corrente con l’estero, trova finanziamento nei surplus di altri Paesi, Cina, Germania e Giappone in testa. Questo stato di cose, però, è condizione necessaria, ma non sufficiente, dato che il
realizzarsi degli squilibri di bilancia estera dipende
dalla possibilità concessa dagli accordi di libero
scambio raggiunti in ambito Wto, l’Organizzazione
Mondiale del Commercio, di scegliere liberamente
(l’autore usa il termine à la carte) il rapporto di cambio. La Cina ha deciso di seguire un regime di cambi
fissi (o quasi), la Germania uno di cambi fissi all’interno dell’euroarea e flessibile all’esterno, e il Giappone
di praticare un regime dirty, ossia con interventi, ma
non sistematici, delle autorità. Queste diversità hanno
consentito di accumulare riserve ufficiali in misura ingente, pari a 7mila mld di dollari equivalenti.
Grazia Neri_R. Franceschin
L’autore
Paolo Savona è professore emerito di Politica economica
e docente di Geopolitica economica. Già ministro
dell’Industria, Segretario Generale della Programmazione
economica al ministero del Bilancio e Direttore del
Dipartimento per le politiche comunitarie alla Presidenza
del Consiglio, ha una vasta esperienza di studio e di
gestione dei problemi monetari e finanziari internazionali
maturata al Servizio Studi della Banca d’Italia.
Quando subentrano timori sulla stabilità del valore del
dollaro o quando i rendimenti degli investimenti in
questa moneta sono considerati insoddisfacenti o si
desiderano perseguire obiettivi strettamente politici,
queste riserve vengono convertite in parte in altre valute
– soprattutto in euro, moneta più stabile e meglio remunerata – o sono date in gestione ai Fondi sovrani di ricchezza, distorcendo il funzionamento del sistema monetario internazionale e degli scambi globali. Infatti, la
conversione di dollari a riserva causa conseguenze
geoeconomiche – concentrate soprattutto sull’euro,
che si rivaluta e scoraggia le esportazioni dell’area –
mentre l’attribuzione in gestione ai Fondi sovrani può
comportare conseguenze geopolitiche, per la possibilità
che le scelte di investimento perseguano fini di riequilibrio di potenza. Le necessità di finanziamento dei disavanzi esteri degli Stati Uniti, aggiunge l’autore, sono
state veicolo di diffusione dei titoli tossici e di rapida
contaminazione della crisi finanziaria americana a livello globale. Occorre pertanto una più stretta cooperazione internazionale sia per governare gli eccessi
strutturali di domanda interna, sia per imporre un
regime di cambio comune a chi desidera partecipare
agli scambi globali. Sarebbe inoltre motivo di saggezza
se il G8 concordasse una proposta di riforma delle regole che presiedono alla creazione e all’uso dei Diritti
Speciali di Prelievo del Fondo Monetario Internazionale,
imponendo a ciascun Paese di riferire il valore della
propria moneta a questo standard dei valori internazionale; in tal modo si sgancerebbe il sistema degli
scambi globali dall’uso duale di una moneta nazionale,
che mai potrà garantire il raggiungimento simultaneo
Intorno al Caspio:
aspettative e realtà
Ecco come conclude il libro di Bensi
sulla Cecenia e il Caucaso
l futuro politico ed economico della regione caucasica, la soluzione dei conflitti che la agitano, in primo luogo quello ceceno, la sorte degli Stati che ne
fanno parte, a cominciare dall’Azerbaigian, ma questo
vale anche per l’Armenia (guerra del Nagornyj Karabach) e per la Georgia, dipenderanno da come verrà
I
del duplice obiettivo di un maggiore equilibrio economico interno ed esterno. Questa impossibilità era già stata segnalata da Keynes nel corso delle trattative per
l’Accordo di Bretton Woods e propose la nascita del
bancor che venne respinta dagli Stati Uniti. La necessità di una moneta internazionale fu riconosciuta valida
con l’accordo di Rio de Janeiro del 1968, senza tuttavia
avere la forza politica di compiere il passo di assegnare
ai Dsp il ruolo di standard monetario globale.
Il “Manuale” si sofferma lungamente anche sulle nuove
regole di governance necessarie per un buon funzionamento della finanza globale e propone un unico regolamento per le banche e gli altri intermediari finanziari
sulla base di una duplice considerazione: la prima è
che, in presenza di diversità di regolamentazione, il sistema si dirige verso quei comparti dove la libertà di
azione è maggiore o totale, come accaduto per i contratti derivati; la seconda è che oggi i titoli sono apprezzati per il loro grado di liquidabilità a prescindere dalla
loro natura giuridica e, pertanto, le regole più stringenti
previste per la moneta, ossia per il titolo con massima
liquidabilità, andrebbero estese anche agli altri titoli.
L’autore non nasconde le difficoltà che incontrerebbe
l’accettazione di siffatti mutamenti di governance globale e conclude affermando che una proposta di
soluzione può essere anche rifiutata ma, se ben posta,
non può essere accantonata e, comunque, porta prestigio a chi l’avanza. È giunto il momento di avanzare
con chiarezza e fermezza quali sono le regole di governo del mercato globale affinché venga riportato al
servizio dello sviluppo e dell’ascesa civile della convivenza planetaria.
L’autore
Giovanni Bensi è un giornalista italiano
che per trent’anni ha lavorato nella redazione
di Radio Free Europe-Radio Liberty,
l’emittente americana che trasmetteva nei
territori dell’Urss e che tuttora trasmette
nell’Europa centro-orientale e in Russia.
Attualmente collabora con «Avvenire»
e con il quotidiano russo «Nezavisimaja
Gazeta». Slavista, Bensi ha pubblicato vari libri,
tra cui Allah contro Gorbaciov (1988)
e Nazionalità in Urss (1991).
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LIBRI
regolato il problema dell’estrazione e del trasporto del
petrolio nella regione caspica. Il Mar Caspio è il fulcro
intorno a cui ruotano non solo gli interessi dei Paesi
del Caucaso, ma anche quelli di una potenza regionale, la Turchia, e quelli geopolitici e geostrategici di due
potenze mondiali, gli Usa (“unica superpotenza rimasta”) e la Russia. Ricordiamo che secondo valutazioni
americane del 2000 le riserve petrolifere accertate del
Caspio costituiscono circa un quarto delle riserve dei
Paesi del Medio Oriente e ammontano a un volume
da sedici a trentadue miliardi di barili. “Molti analisti
di politica estera in Russia sostengono che nel prossimo futuro il Caspio entrerà in competizione sul mercato mondiale con i giacimenti russi di petrolio e gas
in Siberia occidentale”.
Fino al 1991, cioè allo sfaldamento dell’Urss, le cose
erano relativamente semplici, perché gli Stati che si affacciavano sul Mar Caspio erano soltanto due, l’Unione
Sovietica e l’Iran. Ma mentre la prima occupava tre rive,
occidentale, settentrionale e orientale, di questo mare
interno, o grande lago, il secondo si affacciava solo sulla sponda meridionale. Il regime giuridico del Caspio
era regolato dai due trattati sovietico-iraniani del 1921 e
1940, i quali in sostanza stabilivano che il Mar Caspio
era un condominio e che, fatta eccezione per una zona
di pesca esclusiva per l’uno e l’altro Paese della larghezza di dieci miglia, in esso non vi erano frontiere e i
natanti sia sovietici che iraniani potevano muoversi liberamente su tutta la superficie. Di fatto non era così:
l’Urss era allora la seconda potenza mondiale mentre
l’Iran era una potenza di terz’ordine, per di più legata
da rapporti di alleanza, mediante l’adesione alla Cento
(equivalente medio-orientale della Nato), all’antagonista
diretto dell’Urss, la prima superpotenza, gli Usa.
Con lo sfaldamento dell’Urss oggi si affacciano sul Caspio non più due, ma cinque Stati indipendenti: Russia,
Kazakistan, Azerbaigian, Turkmenistan e Iran. Se a
questo si aggiunge che dopo la caduta del comunismo
nuovi ingenti giacimenti di petrolio sono stati trovati sullo zoccolo continentale del Caspio, di fronte a Baku, e
nella regione settentrionale del Kazakistan, è evidente
che il problema si complica. Il solo Paese rivierasco che
preferirebbe mantenere lo status quo è la Russia, perché ciò le permetterebbe di avere voce in capitolo su
tutte le ricchezze naturali del Caspio, in qualunque sua
parte esse si trovino. Ancora il 6 agosto 2001 l’ambasciatore russo a Teheran, Aleksandr Mar’jasov, appena
nominato, nel suo primo incontro protocollare con il segretario del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale, hwajat-ul-islam Hasan Ruhani, ribadì: «La Russia
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Il libro
Giovanni Bensi, La Cecenia e la
polveriera del Caucaso. Popoli,
lingue, culture, religioni, guerre e
petrolio fra il Mar Nero e il Mar
Caspio, Nicolodi editore (euro 25)
crede che i trattati del 1921 e del 1940, firmati fra l’Iran
e l’ex Unione Sovietica, siano ancora validi e, come nel
passato la politica russa verso il Mar Caspio sia chiara e
questa posizione non sia cambiata». Tuttavia la situazione si è fatta sempre più insostenibile e, dietro la
pressione degli altri Stati rivieraschi, la Russia ha accettato di discutere una diversa regolazione del regime
giuridico del Caspio, regime che riguarda non solo il
petrolio, ma anche il gas naturale (di cui è particolarmente ricco il Turkmenistan, guidato dal dispotico Saparmurat Niyazov, detto türkmenbashı, “duce dei turkmeni”), la libertà di navigazione e i diritti di pesca. Dopo
laboriose trattative, una conferenza dei capi di Stato dei
cinque Paesi costieri venne fissata, su proposta di Niyazov, ad Ashgabat, capitale del Turkmenistan, per il
23-25 aprile 2002. Le parti si presentarono con tre
piattaforme differenti: 1) Russia (Vladimir Putin), Kazakistan (Nursultan Nazarbaev) e Azerbaigian (Heydar
Aliyev), in base al principio formulato da Putin: “Dividiamo il fondale, l’acqua è in comune”, proponevano di
dividere le risorse energetiche (petrolio e gas) del fondale fra i cinque Paesi secondo una linea mediana
“modificata” fra i settori del litorale appartenenti ai vari Stati. 2) L’Iran (hwajat-ul-islam Sayed Muhammad
Ha tami [Khatami]) proponeva di dividere il Caspio
non secondo la linea mediana, ma in modo tale che
ogni Stato rivierasco ricevesse il 20% della superficie.
3) Il Turkmenistan (Saparmurat Niyazov), infine, sosteneva la necessità di dividere in settori sia il fondale
del Caspio sia la massa idrica, ritagliando al centro
una zona larga venti miglia destinata alla libera navigazione.
Sembrava che vi fossero buone prospettive di riuscita.
Alla vigilia della conferenza Aliyev ostentò ottimismo: ricevendo il 21 aprile l’ambasciatore iraniano a Baku definì questo incontro “l’inizio di una nuova tappa della
cooperazione regionale” ed esaltò il Mar Caspio come
“un mare di pace, di amicizia e di buon vicinato”. Ma
già fin dal primo giorno dei lavori apparve chiaro quanto fosse difficile arrivare a un’intesa. Ne prese atto lo
stesso Putin che nel suo discorso constatò: «È evidente
che ora non riusciremo ad accordarci in una volta sola
(edinovremenno) su tutto il complesso dei problemi».
Di qui la proposta di «procedere verso una soluzione
concordata a tappe, un passo dopo l’altro». Questa
proposta apparve come un invito a definire i confini nazionali sul Caspio sulla base di accordi bilaterali. La
Russia di fatto già da anni si attiene a questo principio
che considera per sè vantaggioso, soprattutto nei rapporti con l’Azerbaigian, mentre l’Iran lo considera inaccettabile. Anzi, Khatami trovò il modo di polemizzare
con Aliyev accusando l’Azerbaigian di volersi appropriare di settori del Caspio disputati con l’Iran: si tratta
degli ormai famosi giacimenti di Azeri, Chıraq, e Güneshli che Baku non intende condividere con nessuno.
Il presidente iraniano insistette sulla necessità di continuare a rispettare i trattati sovietico-iraniani del 1921 e
1940, mentre Aliyev (già allora malfermo in salute) rispose piccato di non aver alcuna intenzione di interrompere i lavori di prospezione in zone rivendicate da
altri, richiamandosi alla “prassi consolidata” che attribuirebbe a Baku i giacimenti petroliferi in discussione.
Egli si richiamò poi al fatto che le compagnie petrolifere occidentali avevano già investito milioni di dollari
nelle ricerche sullo zoccolo continentale prospicente
all’Azerbaigian e non era possibile tornare indietro.
Aliyev si trovò sotto accusa anche da parte del Turkmenistan. Niyazov, con toni drammatici, puntò il dito
contro il presidente azerbaigiano: «Finché non saranno definite le linee litoranea e mediana – disse – non ci
si può appropriare di territori altrui. Ciò porterebbe inevitabilmente (objazatel’no) a conflitti, alla guerra. Non
sape te come ciò può cominciare? Intorno al Caspio
c’è odore di sangue!» Di fronte alle accuse del türkmenbashı, Aliyev rimase impassibile. Niyazov entrò in
polemica anche con la Russia, accusata di impedire
l’accesso diretto del gas turkmeno ai mercati occidentali e di arricchirsi a danno del Turkmenistan. Il Gazprom, il monopolio russo del gas, lamentò Niyazov, riceve il gas turkmeno alla frontiera con il Kazakistan al
prezzo di 54 dollari per 1000 metri cubi e lo rivende in
Europa a 120 dollari. «Alla Russia – sottolineò il türkmenbashı – rimangono 66 dollari per 1000 metri cubi». Niyazov respinse anche la proposta russa di creare
un’“alleanza del gas” fra i quattro Paesi della Csi (Russia, Kazakistan, Uzbekistan e Turkmenistan) con lo
scopo di influire sui prezzi mondiali di questa fonte di
energia. Una tale alleanza, secondo Niyazov, «non aiuterebbe affatto, ma frenerebbe solo i progetti [in corso].
Noi per ora siamo contrari all’alleanza del gas».
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identità. Il saggio
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Allam, Shirin Ebadi, Rocco Buttiglione, Romano Prodi
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Stefano Bianchini, Le
sfide della modernità,
idee, politiche e
percorsi dell’Europa
Orientale nel XIX e XX
secolo, Rubettino
editore. Professore di
Storia e istituzioni
dell’Europa orientale
all’Università di
Bologna, sede di Forlì,
Bianchini è direttore
dell’Istituto per
l’Europa centroorientale e balcanica e
coordinatore del
network internazionale Europe and the Balkans. Il
volume ricostruisce in modo sintetico e incisivo idee,
politiche e percorsi della modernità nella cosiddetta
Nuova Europa. Lo fa attraverso la comparazione dei
principali dibattiti e delle reciproche influenze
intercorse fra i diversi Paesi, dalla Russia alla
Iugoslavia, dalla Polonia alla Bulgaria, lungo un
arco cronologico di quasi due secoli.
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