Leggi i racconti scritti dalla III C

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Leggi i racconti scritti dalla III C
CONCORSO “ADOTTA UN DIRITTO”
AMNESTY KIDS! – A.S. 2009/2010
Primo premio
CATEGORIA SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO
Testi scritti
Scuola secondaria di I grado “A. Frank”, classe III C
Villa Lagarina (TN)
Insegnante referente: Marzia Stedile
Articolo 32
I bambini e gli adolescenti non devono svolgere lavori pesanti e pericolosi per la loro salute o che impediscano
loro di frequentare la scuola. Ogni Stato deve stabilire per legge a quale età si può lavorare, con quali orari e
condizioni; lo Stato deve punire chi non rispetta la legislazione in materia.
E LUCE FU!
Cominciavo a dubitare che Dio esistesse: la mia vita peggiorava di giorno in giorno, avevo esaurito
anche la speranza che per 14 anni mi aveva sorretto, evitandomi di cadere nel”buco nero” della
sofferenza che conduce ad una morte accelerata.
Tutto quello che mi era rimasto era un fratello di 7 anni; i miei genitori ci avevano abbandonati sul
ciglio una strada polverosa, in un quartiere desolato di una città che ho voluto rimuovere dalla mia
mente…
Lavoravo tutti i giorni insieme a mio fratello nella piantagione di cotone, dove mi guadagnavo
qualcosa da sfamarmi.
Lavoravamo anche più di dodici ore e ci pagavano poco, a volte persino niente, e se solo provavamo
a lamentarci venivamo frustati. Non c'era mai tregua: il sorvegliante, appena qualcuno osava
accasciarsi a terra, urlava:”Cosa succede? Già stanche, bestiacce? Vuoi che ti rimetta in piedi io con
una bella frustata?”. Quanto avrei voluto che provasse lui a svolgere il nostro lavoro: avrei voluto che lo
facesse fino allo sfinimento, sotto i colpi della frusta.
La cosa positiva era che almeno a noi ragazzi avevano dato uno spazio in cui dormire, seppur
ristretto e poco dignitoso. Eravamo in venti, tutti ammassati in una stanza e le nostre cose e oggetti
personali bisognava tenerseli stretti, perché non ci si poteva fidare di nessuno. Nella stanza c’era solo
una piccola apertura con il vetro in frantumi. Non c’erano letti: il pavimento era sommerso dalle coperte
e stracci dei ragazzi. Tra noi non c'era distinzione: si dormiva tutti assieme, maschi e femmine.
I muri erano sporchi e pieni di scritte e incisioni, mancavano luce e acqua . Non ci potevamo lavare
e l'acqua ci veniva distribuita una volta al giorno, mezzo litro ciascuno.
Un giorno però dalla finestra vidi un uomo vestito elegantemente, un cappello in testa.
Doveva essere qualcuno di importante! Dissi agli altri: “Guardate, chi sarà quell’uomo? Sarà qui per
noi? Scopriamolo!”. Corsi verso di lui, incurante delle grida del sorvegliante, … e vidi il mio padrone
trascinato via a forza da alcuni uomini. Anch’io fui portato via insieme ai miei compagni di sventura.
Fu l’inizio di una nuova vita per me: non fu certo facile vivere nell’Istituto in attesa di una nuova
famiglia, sospeso tra fame di affetto e paura di essere separato da mio fratello… Finalmente fummo
adottati.
Ora vivo con un'anziana signora assieme a mio fratello. Lei è buona, non ci fa lavorare, ci manda a
scuola, perché impariamo a leggere e scrivere. Non so che fine abbia fatto il nostro padrone, ma
quando l’ho chiesto all'anziana signora, lei mi ha risposto:”Era un uomo cattivo che vi trattava male e
ora è andato in prigione!”.
Sono davvero contenta che non torturi più nessuno e che la mia vita sia cambiata. Proprio non ce la
facevo più.
CONCORSO “ADOTTA UN DIRITTO”
AMNESTY KIDS! – A.S. 2009/2010
Articolo 20
Gli Stati devono aiutare particolarmente i bambini e gli adolescenti che non possono stare con la loro famiglia,
ricorrendo ad una protezione sostitutiva, stabilita dalla legge di ciascun Paese (affido familiare, adozione,
istituto ecc..). Nello scegliere la soluzione si dovrà tener conto delle origini etniche, religiose, culturali e
linguistiche di quei bambini e adolescenti.
QUELLA NOTTE, A WASLALA…
Quando mi sveglio nel cuore della notte, sento ancora le grida di mia madre:
– Stanno arrivando! Sveglia, Pablito, scappa, corri più forte che puoi – e poi più niente: solo il
silenzio.
Chissà quanto tempo rimasi sotto il tetto della mia capanna crollata, distrutta dalla furia dei militari.
Non so perché attaccarono il nostro villaggio, nessuno lo aveva capito; in pochi rimasero vivi per
scoprirlo. Mi destò all’improvviso un odore confuso di paglia mista ad acqua, sangue e morte. Mi
facevano male la testa, il collo, la schiena e più di tutto il petto. Oggi mi chiedo se fosse semplicemente
una costola o piuttosto il cuore.
Anche i cani quella mattina vagavano confusi e impauriti, soli e disperati, proprio come me.
A chi avrei chiesto aiuto? Chi si sarebbe occupato di me? Potevo pure gridare e chiedere risposta,
ma niente: solo il vento era lì a farmi compagnia.
Rimanere da solo a Waslala, in Nicaragua, significa doversi nascondere nella foresta, arrangiarsi a
cercare il cibo o un posto dove dormire. La gente è troppo povera per accogliere un’altra bocca da
sfamare. Ed io non avevo niente da dare in cambio: ero troppo piccolo e troppo magro per poter
lavorare.
Non potevo contare che su me stesso e sulla fortuna, o almeno sulla speranza che la sfortuna e le
disgrazie fossero per me finite. Mi pareva di aver saldato il mio debito con la vita.
Allora cominciai a camminare su strade polverose, la gamba dolorante e lo stomaco vuoto. Nel mio
vagare, pensai anche di raggiungere uno dei centri di raccolta per orfani, ma ebbi paura: mi sarebbe
potuto succedere di nuovo qualcosa di brutto là dentro?
Dormivo sotto le foglie e uscivo preferibilmente di notte come una volpe per cercare da mangiare;
talora qualcuno dei contadini si accorgeva che stavo rubando la frutta o le uova, e mi rincorreva
urlando – Vattene via, ladro.
Dodici anni erano pochi per cercare un lavoro e troppi per far pena a qualcuno che mi concedesse
casa, cibo, calore familiare… Niente avrebbe potuto restituirmi la mia Waslala, un villaggio bellissimo, ai
margini della foresta, con un piccolo ruscello dove le mamme lavavano e noi bambini giocavamo a
tuffarci e a catturare i pesci con le mani. Bastò una sola notte a distruggere tutto: la nostra casa, il
nostro villaggio, la nostra vita e la nostra speranza.
La gamba che non avevo potuto curare continuava a farmi male finché un giorno svenni, forse per il
dolore forse per la fame, proprio vicino alla casa del contadino al quale rubavo spesso le carote.
Quando riaprii gli occhi, mi ritrovai in un centro di accoglienza, in mezzo a tanti bambini come me o
poco più grandi. Ricordo ancora quella voce rassicurante che mi sussurrò all’orecchio: “Non
preoccuparti, qui sei al sicuro”.
…Sono trascorsi dieci anni da allora e sono ancora nel Centro, dove lavoro come operatore per
aiutare tanti altri bambini che come me hanno perso tutto. Ora ho una casa, una famiglia e rivendico il
diritto ad essere felice.
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Articolo 18
I genitori o i tutori legali devono curare l'educazione e lo sviluppo dei bambini e degli adolescenti. Gli Stati li
devono aiutare rendendo più facile il loro compito.
Articolo 19
Gli Stati hanno l’obbligo di proteggere i bambini e gli adolescenti da ogni forma di violenza, maltrattamento e
sfruttamento.
TRA GLI STREET CHILDREN DI MERU
Corro. Sotto un cielo tappezzato da incombenti nubi che promettono pioggia da mesi ma non
mantengono mai.
Corro, e le piantagioni di tè e di banani sfilano veloci davanti a me.
Corro, e la terra rossiccia mi penetra tra le dita dei piedi nudi.
Corro alzando nuvole di polvere. La conosco questa terra: ho passato ore a pulire le scarpe di turisti
europei, perché tra gli altri lavori sono anche stato lustrascarpe a Meru, paese a nord di Nairobi, a
cavallo dell’Equatore.
Ogni mattina mi sveglio presto per raggiungere il villaggio: qui, con lavori occasionali, posso
guadagnare fino a cinquanta scellini in una giornata, grazie ai quali posso avere un pasto ed aiutare la
mia numerosa famiglia.
Mi accorgo di essere ormai arrivato quando odoro il puzzo acre della spazzatura in combustione,
con la quale i bimbi più piccoli tostano le noccioline sotto la sabbia che poi vendono. Il centro del
villaggio è costituito dalla stazione dei matatu (mezzo di trasporto tipico del Kenya) e da una manciata
di negozi di ogni genere, contrassegnati dai marchi dei gestori telefonici locali.
Mi infilo con decisione in una viuzza laterale dove mi aspettano Denis e altri bambini. Lui sta
distribuendo gli incarichi: “Tu resti qui” mi dice, additando un mucchio di rifiuti “e separi il cartone
dalla plastica, dai tappi a corona e dal vetro”. Mi consegna infine dei sacchi da riempire. Ognuno ha la
propria mansione; ci dileguiamo. I patti sono chiari: non dobbiamo farci notare.
Fuori di qui, non molto lontano, ci sono missioni di suore e scuole, una delle quali è proprio nella
baraccopoli. Negli stretti vicoli di Meru c’è tutto il mondo che appartiene a noi bambini invisibili, a noi
“street children”, che qui operiamo e qui spesso viviamo. Alcuni di noi, questa sera, si coricheranno ai
lati della strada, protetti dal freddo con buste di plastica; altri non sanno ancora se i loro genitori li
accoglieranno in casa; altri ancora, non riuscendo a trovare un lavoro, chiederanno la carità e
cercheranno di stordirsi con la colla per non sentire la fame.
Beh, io, che non vado a scuola e sono spesso maltrattato e sottopagato, mi considero comunque
fortunato… Comincio a separare i rifiuti sotto il sole cocente. A lavoro terminato, uno degli scagnozzi di
Denis soppesa il carico ad occhio e mi consegna qualche banconota spiegazzata…
È sera ormai e torno a casa. Giusto il tempo di un breve sonno poco ristoratore…
Di buon mattino Denis mi affida il suo carretto con cui trasportare i bagagli dei turisti. Il lavoro è
piuttosto leggero e consente di guadagnare somme elevate: gli Europei non hanno infatti un grande
fiuto per gli affari, al contrario di me, che riesco a guadagnare anche un centinaio di scellini a bagaglio.
I clienti li rincorro, li tiro per le maniche, li richiamo in inglese, ma loro mi respingono. Nessuno pare
aver bisogno di me, e a sera ho guadagnato meno di quanto mi occorre per il solo noleggio del carretto.
Denis se ne accorge, sputa per terra e lancia una serie di insulti contro i “mzungu” (uomini bianchi)
e naturalmente contro di me. Poi mi molla un ceffone con il dorso della mano, in pieno viso. Barcollo
intontito dal dolore e dalla sorpresa, lui mi spintona, mi fa cadere all’indietro e poi se la dà a gambe.
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Sono a terra terra, ma a pochi centimetri dal mio naso, un lembo di vestito immacolato fluttua sopra
un paio di scarpe da ginnastica. Quando a fatica mi alzo, realizzo di trovarmi davanti a una suora
piuttosto anziana dagli occhi vispi. Lei mi osserva per qualche secondo con vivace curiosità, poi mi
rivolge gentilmente qualche domanda in inglese. Chiede di poter parlare con i miei genitori. Pur
malvolentieri, l’accompagno. A casa, la suora parlotta a lungo con i miei, a volte alzano la voce, e
qualche parola giunge sulla strada, fuori casa, dove io sto in attesa.
Ecco uscire mio padre: mi dice che continuerò a lavorare per la famiglia solo il pomeriggio. Cosa farò
dunque la mattina? Non oso chiederlo, ma il regalo di una bellissima penna da parte della suora, mi
rende tutto più chiaro. La stringo al petto, felice, con la certezza che la mia vita cambierà per sempre.
Corro. Sotto un cielo tappezzato da incombenti nubi, ora tagliate da una lama di luce che accende la
speranza.
Corro. Non vorrei fare tardi a scuola.
Articolo 32
I bambini e gli adolescenti non devono svolgere lavori pesanti e pericolosi per la loro salute o che impediscano
loro di frequentare la scuola. Ogni Stato deve stabilire per legge a quale età si può lavorare, con quali orari e
condizioni; lo Stato deve punire chi non rispetta la legislazione in materia.
IO, SCHIAVO SENZA VIA DI SCAMPO?
Queste stramaledette piantagioni di cacao!
Accidenti a loro! Sono anni che mi ammazzo di lavoro insieme a moltissimi altri bambini, perché i
nostri genitori hanno contratto grossissimi debiti e cercano in qualche modo di risanarli. Ma loro
sapranno come si vive qui? Dormiamo per terra dentro capanne di fango e paglia, dalle quali possiamo
uscire solo per lavorare.
Riceviamo, al massimo, due dollari al giorno per dodici ore di lavoro; a pranzo solo due banane,
senza smettere di lavorare; a cena, zuppa di mais.
Vietato rifiutarsi di lavorare: verremmo picchiati, flagellati con la cinghia del motore dei trattori o
bruciati con le sigarette. Io ne so qualcosa…
Il sorvegliante attraverso spesso a cavallo la piantagione per controllare il nostro lavoro e ci insulta,
preoccupato che il raccolto non sia sufficiente:”Forza, lavorate, brutti negri che non siete altro!„. Se
potessi, giuro che gli salterei addosso… Prima o poi temo che lo farò!
Quanto vorrei poter andare a scuola, imparare, divertirmi, giocare, avere un po’ di tempo per me da
poter trascorrere come voglio io… Invece, sono condannato a marcire in questo campo enorme,
sfruttato e maltrattato…
E’ vita questa?
… Cinque anni: questa “tortura” è andata avanti così per circa cinque anni, finché i rappresentanti
dell’ ONG Anti-Slavery non mi hanno liberato. Ora sono qui a raccontare di un lavoro che è spesso
invisibile, in quanto i bambini lo fanno per aiutare la loro famiglia o, com’è successo a me, dopo essere
stati venduti come schiavi.
Ora so che nella mia Africa esiste da tempo questa piaga; qui quasi un bambino su tre lavora anche
se, ovviamente, chi utilizza manodopera infantile non lo dichiara perché esistono leggi che proibiscono
il lavoro dei bambini e puniscono severamente chi non le rispetta.
Voglio urlarlo al Mondo, voglio che il Mondo ci guardi!