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Roberto Alonge La passione dei sensi nel “Rosmersholm” di Ibsen Ibsen non è il poeta delle passioni amorose. Nella lingua ibseniana c’è molta misura, molto controllo, cioè molta repressione, per quanto riguarda il lessico del cuore e dell’eros. Il verbo elske (amare) e il sostantivo kærlighed (amore) presentano scarse frequenze. Se contiamo in maniera unitaria le due voci, ne possiamo registrare circa duecento, limitatamente ai dodici testi della maturità ibseniana (i cosiddetti drammi contemporanei). Gli scarti sono anche consistenti: Il costruttore Solness ha una sola ricorrenza; Un nemico del popolo tre; Spettri, L’anitra selvatica e La donna del mare cinque. Il testo massimo è rappresentato proprio da Rosmersholm che, a pari merito con Una casa di bambola, colleziona – tra elske e kærlighed – ventidue ricorrenze. D’altra parte, almeno a prima vista, il plot di Rosmersholm, dovrebbe guidare decisamente nel senso di una esplorazione della passione travolgente: una donna che ha spinto al suicidio la rivale, per tentare di sposarne il marito. A prendere per buona la critica, non ci sarebbe da esitare. Esemplifico citando Scipio Slataper, peraltro uno dei critici più acuti di Ibsen (e uno dei pochissimi di nazionalità italiana), secondo il quale Rebekka, appena conosce Rosmer, “s’innamora di lui brutalmente. Vuol averlo, con la tenacia indeprecabile della passione carnale che non gira gli ostacoli. E’ la violenza diritta, la domanda del sangue, l’animale vichingio, Rebecca; è il mare, la vita franca, il largo mondo, Parigi: la gioia”1. Ma in realtà l’universo ibseniano è sempre assai enigmatico e sfuggente. Se sembra esserci almeno un po’ di amore, in Rosmersholm – stando agli indici numerici delle Concordanze ibseniane - è tutto da verificare che ci sia della vera passione. Apriamo il testo, finale dell’atto secondo. E’ appena terminato un doppio traumatico dialogo, prima con Kroll e poi con Mortensgård. Rosmer è rimasto solo con Rebekka. E’ Rosmer che parla: Io pensavo che presto o tardi la nostra bella pura relazione amicale [skønne rene venneforhold] sarebbe stata incompresa e sospettata. Non da Kroll. Da parte sua mai avrei potuto pensare una cosa simile. Ma da parte di quei molti dalla mente grossolana e dagli occhi torbidi [uædle øjne]. Oh sì, tu capisci, – io avevo una www.turindamsreview.unito.it 1 buona ragione per questo, quando gelosamente gettavo un velo sopra la nostra intesa. Era un segreto [hemmelighed] pericoloso. (p. 392)2 Rosmer è un pastore luterano dimessosi dall’incarico, che – sotto l’influsso della laica signorina West – è diventato addirittura ateo. Ma seguita ad esprimersi come un prete: “gli occhi torbidi” [uædle øjne] sono quelli del Vangelo (Matteo, 6. 23; Luca, 11.34). Se dunque parla di pura relazione amicale, non abbiamo ragione per non credergli, anche se noi abbiamo letto Freud, e lui no (e Ibsen nemmeno). Resta però il fatto che la moglie di Rosmer (benché anche lei ignara di letture psicanalitiche) non ci abbia creduto né punto né poco, a quella pura amicizia. Si è uccisa, gettandosi nella gora del mulino, pensando che Rebekka fosse incinta e che Rosmer dovesse rapidamente provvedere alla bisogna con un matrimonio riparatore. Rosmer cerca di rendersi conto di come sia potuto avvenire tanto misunderstanding: ROSMER Tu devi vedere, – non le è sfuggito, che noi leggevamo gli stessi libri. Che noi ci cercavamo l’un l’altro [hinanden] e parlavamo insieme di queste cose nuove. Ma io non lo capisco! Perché io ero così sollecito a fare attenzione a lei. Quando ci ripenso, mi sembra che a costo della mia vita avrei voluto tenerla fuori da tutte le nostre cose. Oppure non ho fatto sempre così, Rebekka? REBEKKA Sì, sì, certamente. ROSMER E tu anche. E nonostante questo –! Oh, questo è terribile da pensare! Dunque lei è stata qua, lei – nel suo amore malato [syge kærlighed], – taceva e taceva, – ci sorvegliava, – notava tutto, e, – interpretava falsamente tutto. (p. 393) Osserviamo questo definizione, “amore malato”. Perché l’amore della buona e candida Beate (nome significativo, visto che nomina sunt omina...) deve essere definito “malato”? Per capire dobbiamo fare un passo indietro, ritornare all’inizio del secondo atto, dialogo fra Rosmer e Kroll. E’ Rosmer che parla al cognato: [...] Io ti ho raccontato della sua irrefrenabile, selvaggia passionalità [ustyrlige, vilde lidenskabelighed], – che lei pretendeva, io dovessi ricambiare. Oh, quale orrore, ella mi infondeva! [Å, den rædsel, hun indgød mig!] (p. 377) Sia detto in una sorta di ideale parentesi: è curiosa la tecnica spiazzante di Ibsen, che ci presenta dapprima – nelle scene iniziali del primo atto – un profilo di Beate che detesta i profumi, anche quelli dei fiori, cioè una immagine di donna malaticcia e malinconica, quasi spenta, al punto da www.turindamsreview.unito.it 2 autorizzare Slataper a scrivere di una “ammorbante Beata”3, e poi invece, all’improvviso, introduce un ritratto di donna sensuale. Forse l’intensa richiesta erotica di Beate è collegata alla speranza di avere figli, ma, certo, non meno curiosa è la reazione di Rosmer. Rædsel è “orrore”, una sola ricorrenza in Rosmersholm. La richiesta di amore, cioè di sesso, da parte della legittima consorte, infonde “orrore” in Rosmer (si noti l’enfasi del punto esclamativo). Ciò che lo spaventa è lo scatenamento dei sensi, la “passionalità” (lidensikabelighed, una sola ricorrenza in Rosmersholm, ma quasi un hapax, con una seconda (e ultima) frequenza in un’opera giovanile, Olaf Liljekrans), connotata come “selvaggia” (vilde) e “irrefrenabile” (ustyrlige). Il primo aggettivo è facilmente comprensibile, corrisponde all’inglese wild; il secondo è costruito con vocale privativa (ustyrlige), in riferimento a un verbo styre che significa “governare”, “frenare”. Rosmer, da buon uomo di chiesa, è abituato a tenere sotto controllo gli istinti, le pulsioni profonde, animalesche. Il lettore novecentesco – spirito libero e fatalmente anche un po’ libertino – potrebbe essere portato a immaginare che Rosmer non ha tanta voglia di andare a letto con la moglie Beate, ma che sarebbe assai più disponibile con la più giovane, colta e affascinante Rebekka West. Ed è tempo, allora, di tornare ai conversari Rosmer-Rebekka. Facciamo un passo avanti, inizio del terzo atto. A furia di parlare e di scandagliare il passato e il presente, di spaccare il capello in quattro, Rosmer arriva alla conclusione che la moglie non ha frainteso; non c’è stato misunderstanding. Beate aveva colto nel segno, aveva indovinato che fra i due colombi c’era amore, anche se aveva esagerato nella tempistica, credendo che ci fosse già stato anche un po’ di commercio sessuale: ROSMER [...] Beate forse ha visto comunque giusto. REBEKKA In che cosa, tu intendi? ROSMER Ha visto giusto, quando ha creduto che io ti amassi, Rebekka. REBEKKA Ha visto giusto in questo! ROSMER (posa il cappello sul tavolo). Io mi tormento con questa domanda, – se noi due non abbiamo ingannato tutto il tempo noi stessi – quando noi chiamavamo la nostra relazione [forhold] quale amicizia [venskab]. REBEKKA Tu intendi forse, che la si poteva ben chiamare una –? ROSMER – una relazione amorosa [kærlighedsforhold]. Sì, capisci, io intendo questo. Già mentre Beate viveva era a te che io rivolgevo tutti i miei pensieri. Eri solo tu, che mi attiravi. Era presso di te che io sentivo [følte] quella tranquilla [stille], gioiosa felicità senza desiderio [begærløse]. Se noi ci pensiamo bene, Rebekka, – la nostra vita in comune ha incominciato come un dolce, pieno di mistero, www.turindamsreview.unito.it 3 innamoramento di bambini [barneforelskelse]. Senza richieste e senza sogni [Uden krav og uden drømme]. Non sentivi [følte] anche tu in simile modo? Dimmelo. REBEKKA (combatte con sé stessa). Oh, – io non so, che cosa devo risponderti. ROSMER Ed è questa vita intima l’uno con l’altro [i hinanden], e l’uno per l’altro [for hinanden], che noi abbiamo preso per amicizia [venskab]. No, vedi, – la nostra relazione è stata un matrimonio spirituale [åndeligt ægteskab] – forse proprio sin dai primi giorni. Per questo la colpa è presso di me. Io non avevo il diritto, – non avevo il permesso a causa di Beate. REBEKKA Non il permesso di vivere nella felicità? Lo credi, Rosmer? ROSMER Lei vedeva la nostra relazione con gli occhi del suo amore. Giudicava la nostra relazione secondo la natura del suo amore. Naturalmente. Beate non poteva giudicare diversamente da come ha fatto. REBEKKA Ma come puoi tu accusare te stesso per le aberrazioni di Beate! ROSMER Nell’amore per me, – alla sua maniera, – si è gettata nella gora del mulino. Il fatto sta certo, Rebekka. Mai ne potrò uscire fuori. (pp. 406-407) E’ una analisi lucida e spietata, ma anche onesta. Era amore, e non amicizia, perché tutti i pensieri erano per Rebekka; perché era un vivere i hinanden og for hinanden, “l’uno con l’altro e l’uno per l’altro”, ma mai carnalmente. Si trattava di un “matrimonio spirituale” [åndeligt ægteskab], di un “innamoramento di bambini”, perché, “senza richieste”, cioè senza richieste sessuali. L’infanzia come stadio per definizione (almeno sino a Freud) senza sessualità, appunto (e, comunque, anche dopo Freud, senza sessualità genitale). Si faccia attenzione alla splendida descrizione di quella “felicità”, che è “gioiosa” ma anche “tranquilla”, perché “senza desiderio”, begærløse, dove, ancora una volta, il termine è chiaro, costruito su un altro suffisso privativo (løs, simile all’inglese less). Naturalmente, se si legge Ibsen nella tradizione Einaudi di Anita Rho (che pure è la più nobile, la sempre amata dai registi, compreso il mio amico Massimo Castri) non si capisce nulla: “quella profonda felicità fatta di calma e di beatitudine”, traduce la Rho, cancellando appunto l’idea del “senza desiderio”4. Ma anche dal punto di vista stilistico si perde molto. La Rho traduce “v’è colpa da parte mia”, ma il testo originale usa un’espressione diversa, er der brøde hos mig, letteralmente “è la colpa presso di me”, che è calco biblico, veterotestamentario, giustamente, perché Rosmer è uomo di chiesa, abituato a leggere le Scritture. Il Vecchio Testamento non meno del Nuovo. Il fatto che Rosmer debba parlare da prete è importante, perché ci aiuta a tenerci lontani dalla tentazione di leggere in lui una doppiezza che in effetti non c’è. Rosmer non è Tartufo. Può ammettere di amare Rebekka, di averla amata “sin dai primi giorni”, ma alla sua maniera, cioè www.turindamsreview.unito.it 4 spiritualmente. Il guaio è che – per un vero uomo di chiesa (e non per un Tartufo da strapazzo) – il peccato e l’adulterio restano peccato e adulterio, anche se confinati nella dimensione mentale, anche se non c’è mai passaggio all’atto. Il tradimento coniugale è in quel vivere in fusione con un’altra donna, leggere gli stessi libri, parlare delle stesse cose, in una comune progettualità esistenziale che tagliava fuori Beate, che la marginalizzava implacabilmente, crudelmente. Si osservi come Rosmer insista con ben tre corsivi (ovviamente inesistenti nella traduzione della Rho, e sempre in tutte le traduzioni italiane, ma non solo italiane, a dire il vero): “Lei vedeva la nostra relazione con gli occhi del suo amore. Giudicava la nostra relazione secondo la natura del suo amore”; “Nell’amore per me, – alla sua maniera, – si è gettata nella gora del mulino”. Ma soffermiamoci sul gioco di rispondenze fra i due dialoganti. Rosmer utilizza lo stesso verbo føle, “sentire” (l’inglese feel): “Era presso di te che io sentivo [følte] quella tranquilla gioiosa felicità senza desiderio”; “Non sentivi [følte] anche tu in simile modo?”. Stesso verbo, e stesso tempo passato, per andare a stringere una stessa (presunta) reazione. E qui abbiamo una prima sorpresa: Rebekka “combatte con sé stessa” dice la didascalia. In Ibsen, si sa, le didascalie sono sempre strategiche, sempre intenzionali, aiutano a leggere le pulsioni segrete dei personaggi, non sono mai banali, piattamente descrittive, realistiche. Solo la pigrizia dei critici continua ad ascrivere Ibsen al Naturalismo. Rebekka è in imbarazzo, esita, si blocca, non risponde subito, ribatte in modo evasivo (“Oh, – io non so, che cosa devo risponderti”). Non riusciamo ancora a capire il senso di questo turbamento di Rebekka, di questo suo impaccio, ma – per il momento – ne prendiamo nota, a futura memoria. Un indizio è però evidente: Rebekka non sentiva allo stesso modo di Rosmer. Non sappiamo bene come sia il suo modo di rapportarsi all’amore, ma certamente è diverso, non è propriamente quello di Rosmer, che è spirituale, senza desiderio. Detto in altro modo: non conosciamo il tipo di amore di Rebekka per Rosmer, ma conosciamo quello di Rosmer per Rebekka. Un amore platonico: fortissimo, a suo modo anche adulterino, ma pur sempre platonico. Che resta tale anche quando Beate si è tolta di mezzo. Vivono sotto lo stesso tetto: lui, il dominus della casa, l’ultimo rampollo di una grande dinastia, di una casata di signori feudali del territorio; e lei, la dama di compagnia della signora Beate. Che continua ad abitare in quella casa, www.turindamsreview.unito.it 5 anche adesso che la signora Beate è morta. Si è trasformata in dama di compagnia del di lei marito. I due si danno del lei davanti agli altri, ma in privato, quando sono soli, si danno del tu. Lei può prendersi la libertà di andare a nascondersi nella camera di letto di lui, per origliare. E può circolare liberamente per casa in vestaglia. Una situazione border line, problematica, difficilmente credibile. Ma difficilmente credibile solo da parte di chi ha l’occhio impuro. Solo chi non ha saldi convincimenti religiosi ignora che lo spirito è forte, anche se la carne è debole. Che c’è (che ci può essere) la repressione delle tentazioni. Lo stesso Kroll (che ha un forte radicamento nei valori della tradizione religiosa) non dubita della loro convivenza spirituale. Comincia a dubitare (e a fare insinuazioni pesanti) solo nel momento in cui scopre che Rosmer ha abbandonato la fede dei padri, che è diventato un libero pensatore5. Naturalmente, una società non religiosa (solo fintamente religiosa) come quella italiana ha difficoltà a intendere tutto questo. La Duse ha raccontato come il pubblico italiano, a differenza di quello scandinavo, ridesse clamorosamente al finale del primo atto, quando Rosmer e Rebekka si scambiano la buona notte, prima di ritirarsi nelle proprie rispettive camere da letto da single6. Non ci potevano proprio credere, a due casti coabitatori di casa. E’ necessario comprendere bene questo punto, per poter intendere correttamente la svolta capitale del testo, che si determina in finale di secondo atto, dopo che Rosmer ha avuto un dialogo tempestoso con Kroll, nonché un dialogo illuminante con Mortensgård: Rosmer chiede a Rebekka di sposarlo. La motivazione della proposta matrimoniale rinvia proprio all’orizzonte dei problemi su cui ci siamo soffermati. Ascoltiamo i termini della richiesta: ROSMER [...] Ma ciò che, sin dall’inizio, ci ha unito, – ciò che ci lega così intimamente l’un l’altro [til hinanden], – la nostra comune credenza in una pura vita in comune tra uomo e donna – REBEKKA Sì, sì, – ebbene? ROSMER Io voglio dire che una tale relazione, – tale quale la nostra, - non si adatta piuttosto a una condotta di vita risolta in una tranquilla felice pace –? REBEKKA E allora! ROSMER Ma ora si apre davanti a me una vita di lotta e di turbolenze e di forti emozioni. [...] (p. 396) www.turindamsreview.unito.it 6 Rosmer ha deciso di impegnarsi nella vita sociale, di essere l’apostolo del Progresso e della Libertà, di contro ai rinnegati valori della tradizione e della religione. Ma per fare questo deve avere una vita personale chiara, cristallina. Nel momento in cui entra in contatto con il mondo, non può non tener conto delle cattiverie del mondo, dei pettegolezzi, delle miserabili meschinerie. Quella paradossale convivenza platonica fra due adulti è fruibile solo nella misura in cui Rosmer vive al di fuori della comunità, in un suo spazio di isolamento discreto e riservato, ma diventerà inevitabilmente oggetto di attacchi strumentali, nel calore della battaglia politico-sociale che Rosmer intende ingaggiare. Messa così, non è una gran bella richiesta matrimoniale (sembra un matrimonio d’interesse, più che un matrimonio d’amore), ma, a tutta prima, per Rebekka potrebbe anche bastare. Le repliche immediate di Rebekka hanno un segno positivo, bene evidenziato – al solito – dalle didascalie. REBEKKA (per un momento attonita, grida di gioia). Tua moglie! Tua –! Io! ROSMER Bene. Proviamoci. Noi due saremo uno. Non ci deve più essere dello spazio vuoto lasciato dalla morta. REBEKKA Io – al posto di Beate –! ROSMER Così lei sarà fuori di questione. Completamente fuori. Di giorno e di notte, per sempre. REBEKKA (piano e tremante) Tu lo credi, Rosmer? ROSMER Deve avvenire così! Deve! Io non posso – io non voglio passare la vita con un cadavere sulle spalle. Aiutami a disfarmene, Rebekka. E soffochiamo tutti i ricordi nella libertà, nella allegrezza e nella passione [lidenskab]. Tu sarai per me l’unica moglie che io abbia mai avuto. REBEKKA (dominandosi). Non tornare più su questo. Io non diventerò mai tua moglie. (p. 397) Il rifiuto di Rebekka è un bel mistero. Tanto più che Rosmer rinnova la sua offerta matrimoniale anche nel terzo atto, e di nuovo Rebekka rifiuta. Si è infilata in quella casa per questo, e per questo ha spinto al suicidio la povera Beate. Ma, sul punto di raccogliere il frutto del suo lavoro diabolico, rinuncia. Rinvio tuttavia la questione alle battute finali di questo intervento. Per il momento preferisco concentrarmi sul linguaggio di Rosmer, sull’enfasi del suo invito alla “passione”, lidenskab, termine che ricorre una sola volta in Rosmersholm, ma che è comunque assai raro nell’intera produzione ibseniana: undici ricorrenze in tutto, distribuite in solo otto dei ventisei testi ibseniani, ma un totale di otto concordanze nei www.turindamsreview.unito.it 7 drammi giovanili, e solo un totale di tre nei dodici drammi contemporanei (una frequenza a testa per Rosmersholm, John Gabriel Borkman e Quando noi morti ci destiamo). Ancora peggio per lidenskabelighed, “passionalità” (già ricordato in apertura di queste pagine, alla terza citazione), quasi un hapax, abbiamo detto. E un hapax vero e proprio è kærlighedsforhold, “relazione amorosa” (riportato nella quarta citazione di queste pagine). Basterebbe questo a farci capire che non ci sono grandi venti passionali a scuotere l’universo ibseniano. Rosmer, in questo punto, parla di “passione”, ma visibilmente a freddo. Il linguaggio che gli viene meglio è quello solito, da sacerdote: “Noi due saremo uno”, citazione del Genesi, 2.24. Insomma, Rosmer si vuole sposare per poter entrare in politica, e poco gli importa della passione dei sensi, anche se cerca di riempirsene la bocca. La passione dei sensi non sa proprio dove stia di casa: né a titolo personale, né a titolo di Rebekka. E’ così estraneo a quel tipo di esperienza da non riuscire a immaginare che almeno Rebekka possa avere dei brividi di sensualità. Nel quarto atto, dopo il secondo rifiuto alla seconda proposta matrimoniale, si impone un dialogo di una bellezza lunare: REBEKKA [...] – Ma poi è arrivato il cominciamento di questo, che ha spezzato la volontà in me – e mi ha atterrita così miserevolmente per tutta la vita. ROSMER Cosa è arrivato? Parla, in modo che io possa capirti. REBEKKA Allora è arrivato su di me, – quel selvaggio, incoercibile desiderio [vilde, ubetvingelige begær] –. Oh, Rosmer –! ROSMER Desiderio [begær]? Tu–! Di cosa? REBEKKA Di te. ROSMER (vuole alzarsi). Cosa è questo! REBEKKA (lo ferma). Resta seduto, caro. Ora tu devi ascoltare ancora altro. ROSMER E tu vuoi dire – che tu mi hai amato – in simile modo [på slig vis]! REBEKKA Mi sembrava che questo fosse amore – a quel tempo. Ma non lo era. Era quello che ti ho detto. Era un selvaggio, incoercibile desiderio [vildt, ubetvingeligt begær] ROSMER (con pena). Rebekka, – sei veramente tu, – tu – tu, che stai lì a raccontarmi tutto questo! (p. 426) E’ assolutamente comica questa reazione di Rosmer, che ripete meccanicamente, con l’aria stupefatta, il termine tabù (“desiderio”) esibito da Rebekka. Fa penosamente fatica a trovare un complemento di specificazione: desiderio, ma desiderio di che cosa? Non gli passa per il www.turindamsreview.unito.it 8 cervello che lui, proprio lui, possa essere stato oggetto di desiderio da parte di Rebekka. E’ interessante come Rebekka ripeta, identico, il trinomio lessicale tabù (“selvaggio, incoercibile desiderio”), ma ancora più interessante che uno dei tre termini sia identico a quello che usava Rosmer parlando a Kroll nel secondo atto, riferendosi alla passione erotica di Beate: vilde lidenskabelighed, “selvaggia passionalità”. Mentre il begær (desiderio), rinvia direttamente alla “tranquilla, gioiosa felicità senza desiderio” (begærløse) su cui abbiamo già insistito. L’amore di Rebekka per Rosmer era carico di un “selvaggio, incoercibile desiderio”, ma quello di Rosmer per Rebekka era una “tranquilla, gioiosa felicità senza desiderio”. E’ tempo però di ampliare il cerchio, di tentare qualche teorizzazione di carattere più generale. D’altra parte Ibsen è un autore assai sincronico, scrive sempre lo stesso dramma, sia pure con una serie di varianti. Questa coppia Rosmer-Rebekka anticipa di otto anni la coppia Allmers-Rita del Piccolo Eyolf: una stessa figura di donna passionale, erotica, alle prese con un uomo freddo, se non frigido, velleitariamente teso a una grande impresa che non riesce nemmeno a iniziare. Ma proviamo ad allargare il quadro del nostro obiettivo. Accanto a inetti come Rosmer e Allmers ci sono, nell’universo ibseniano, protagonisti vincenti, che realizzano e si realizzano? Certo che ce ne sono, sin dall’inizio, sin dal primo testo della stagione moderna di Ibsen: il Bernick de Le colonne della società, e dopo di lui, in ordine cronologico, il vecchio Werle de L’anitra selvatica, gli eroi eponimi de Il costruttore Solness e del John Gabriel Borkman, fino al Rubek di Quando noi morti ci destiamo, ultimo dramma di Ibsen. Tutti personaggi che hanno qualcosa in comune con la coppia RosmerAllmrers, ed è il rifiuto dell’impegno erotico: se non proprio la repressione del sesso, almeno la sua svalutazione a bassa esigenza fisiologica, da risolvere con pratiche svelte, affidate al buon cuore di donne subalterne (amanti di passaggio, governanti, mogli sposate senza amore, per interesse economico). Voglio dire che tutti questi personaggi vittoriosi sono certamente più charmants, si rivelano cioè più seducenti, e qualche volta li vediamo all’opera, nella funzione di seduttori, ma non è una attività che li coinvolga mai molto: vivono tutti, essenzialmente, per il lavoro, per quella che considerano la loro missione sociale: capitani d’industria, banchieri, artisti di successo. Insomma, la prima conclusione – che mi sembra necessario tirare – è che i Rosmer e gli Allmers sono solo l’altra faccia (la brutta copia) di Bernick, Werle senior, Solness, Borkman, Rubek www.turindamsreview.unito.it 9 , e tutti quanti – gli uni e gli altri – dicono una sola cosa: che la civiltà si realizza a spese della repressione sessuale, che il minimo possibile di soddisfacimento degli istinti è il prezzo da pagare per edificare la civiltà borghese del Capitale. Ecco, il mio prossimo libro ibseniano (dopo id ue che ho scritto) si intitolerà così, Ibsen, eros e civiltà, con una allusione ovvia a Marcuse. O più esplicitamente: Ibsen, eros (represso) e civiltà (borghese). Ho citato solo una mezza dozzina dei drammi contemporanei del nostro, ma per verificare la riprova della bontà dell’assunto è sufficiente gettare uno sguardo all’altra mezza dozzina di testi. Cosa avviene quando in Ibsen non scatta la repressione sessuale? Ci sono personaggi che vivono felicemente la vita del sesso, o che guardano solo al sesso? Sì, ci sono, ma sono tutti, invariabilmente, connotati ferocemente come piccoli gretti maschietti, bersaglio di commiserazione e di sarcasmo. Pensiamo a Alving padre e figlio di Spettri, puttanieri incalliti, puniti con la sifilide e destinati a morte oscena per rimbambimento cerebrale. E pensiamo allo squallido Torvald di Una casa di bambola, l’unico personaggio maschile di Ibsen che abbia una ricca e soddisfatta attività sessuale (con talune cadenze torbide, sadiche, da marito padrone). O pensiamo ancora al grigio medico condotto Wangel de La donna del mare, che, rimasto vedovo, si è comperato – molto cinicamente – una seconda moglie (povera ma giovane), e la cui unica sofferenza esistenziale è quella di essere costretto all’astinenza, da due anni e mezzo, per le incomprensibili fisime della mogliettina. Per non dire del grigissimo (e ridicolo) Tesman di Hedda Gabler, con la sua soddisfatta sessualità coniugale, certificata da una gravidanza in piena regola. Verifichiamo qui (sia detto rapidamente) un curioso paradosso: in Ibsen la passione dei sensi non si esprime mai fuori del matrimonio, come nella grande tradizione occidentale, dai Trovatori in poi, ma, semmai, proprio e solo all’interno del matrimonio. I protagonisti ibseniani non sono nemmeno lontanamente sfiorati dall’idea di prendersi un amante per scatenarsi sessualmente. A Torvald e a Tesman bastano ed avanzano le proprie consorti; e a Rita, a Beate, a Wangel basterebbero (se fossero disponibili) i rispettivi coniugi7. Conclusione delle conclusioni: un universo, questo ibseniano, in cui la repressione sessuale dominante consente ai maschi brillanti di edificare le proprie imprese sociali (e a quelli non brillanti di sognarle e di vagheggiarle soltanto), mentre fuori da questa ottica di sublimazione non ci sono che sotto-uomini, poveri omuncoli, degni di disprezzo e di www.turindamsreview.unito.it 10 irrisione. In quanto all’altra metà del cielo, alle donne, vivono una vita sentimentalmente arida, duramente represse nei loro slanci erotici, condannate alla sola missione materna, che è peraltro talvolta inibita (Il costruttore Solness, John Gabriel Borkman), talaltra infelice (Spettri), e qualche volta rifiutata dalle donne stesse, con gesto di eversiva oltranza (Il piccolo Eyolf, Hedda Gabler). Non è un mondo felice. Ma è il mondo di Ibsen (e non è sicuro che il nostro sia migliore...). Ma devo qualche annotazione sullo strano duplice rifiuto di Rebekka, a fronte della duplice offerta matrimoniale di Rosmer (che è poi anche il modo più onesto, da parte mia, di rispondere al titolo del convegno, Verità indicibili). Ibsen, d’altra parte, è il grande maestro del non detto, cioè di tutto ciò che viene solo alluso, insufflato, sussurrato. Sicché questa glossa finale proprio si impone, è doverosa. Il punto di partenza è nell’atto terzo, incontro molto ravvicinato fra Kroll e Rebekka. Kroll è venuto a proporre un onesto patto fra banditi: darà, da parte sua, la benedizione al matrimonio di Rebekka con Rosmner, ma a condizione che Rebekka tenga Rosmer nel partito politico dei conservatori (anziché aizzarlo a farsi capobanda del partito dei liberali progressisti). Per arrivare a trattare da una posizione di forza, Kroll si permette di ricordare alla fanciulla ciò che ella è, una avventuriera, una bastardella, mentre Rosmer è l’ultimo rampollo di un casato illustre. Naturalmente Kroll non usa il nostro linguaggio volutamente scoperto e provocatorio, ma impiega la solita lingua vittoriana, fatta di morbide insinuazioni, di calcolate perifrasi. Ce n’è però abbastanza perché il dialogo ibseniano riveli le sue sorprese, affidate essenzialmente – come sempre – allo spazio bianco delle didascalie: KROLL Io credevo veramente che lei avesse la piena informazione. Altrimenti sarebbe singolare che lei si sia fatta adottare dal dottor West – REBEKKA (si alza). Ah ecco! Ora comprendo. KROLL – che lei abbia assunto il nome di lui. Il nome di sua madre era Gamvik. REBEKKA (cammina per la stanza). Il nome di mio padre era Gamvik, signor preside. KROLL. La professione di sua madre doveva metterla continuamente in contatto con il medico condotto. REBEKKA In questo lei ha ragione. KROLL E lui la prende con sé – subito dopo che sua madre è morta. La tratta duramente. E tuttavia lei resta con lui. Lei sa, che egli non le lascerà in eredità un solo quattrino. Lei ha ricevuto solo una cassa di libri. E tuttavia resiste a stare con lui. Lo compatisce. Lo cura fino all’ultimo. www.turindamsreview.unito.it 11 REBEKKA (accanto al tavolo, lo guarda con scherno). E che io abbia fatto tutto questo, – lei lo spiega, con quanto di immorale, – quanto di criminale c’è nella mia origine! KROLL Ciò che lei ha fatto per lui io lo attribuisco a un istinto filiale involontario. Tutto il suo impegno per il resto io lo considero la manifestazione della sua nascita. REBEKKA (violentemente). Ma non c’è una parola di vero in tutto quello che lei ha detto! (pp. 411-412) Tutte le didascalie si riferiscono a Rebekka, ne fotografano lo stato di tensione, sino all’esplosione finale, al “violentemente” (heftigt), che ha due sole ricorrenze in Rosmersholm (la seconda a p. 419), entrambe riferite a Rebekka, ed entrambe in dialogo con Kroll, a denunciare lo stress della giovane, ogni volta che si confronta con il suo implacabile contraddittore. Nel passo in questione è evidente che c’è una carica aggressiva, assolutamente sproporzionata alla posta in gioco delle battute dell’interlocutore. Kroll sta dicendo, in buona sostanza, che Rebekka si è occupata mirabilmente di un vecchio duro e collerico, perché ha intuito, in qualche modo, che ne era la figlia carnale, e non solo la figlia adottiva. Nell’Ottocento vittoriano, naturalmente, la nascita illegittima non era propriamente auspicabile, ma per la laica e progressista signorina West non è ipotesi che giustifichi tanta violenza. Poco avanti Rebekka grida ancora “Questo non è vero!”, e la didascalia segnala di nuovo l’oltranza del porgere (“erompe”, bryder ud, p. 412), o ancora: “cammina intorno, stringe e torce le mani” (p. 413). La spiegazione ci viene da Freud, autore di uno splendido saggio di analisi letterario-poliziesca della pièce ibseniana8, che spiega in modo convincente che Rebekka è stata l’amante del dottor West, dopo la morte della propria madre, compagna di vita dello stesso dottor West. Ibsen costruisce dunque un dialogo infernale: Kroll ignora che Rebekka è stata l’amante del dottor West ma ha buone ragioni per pensare che ne è la figlia carnale; Rebekka, a sua volta, ignora di essere la figlia carnale del dottor West, ma sa di esserne stata l’amante. Ognuno dei due interlocutori conosce solo metà della verità complessiva. Il guaio è che nel corso dell’incontro Rebekka scopre anche la metà che le era celata, e questo spiega la sua reazione scomposta. Che però, proprio per la sua caratteristica eccessiva, insinua – molto probabilmente – qualche sospetto in Kroll circa il tipo di rapporto intercorso fra i due. Si osservino infatti le repliche di Kroll: “Ma, cara, – perché si adira in nome di Dio? Lei mi www.turindamsreview.unito.it 12 spaventa! Cosa devo credere e pensare –! [...] Sì sì, prendiamo per buona questa spiegazione – per il momento” (p. 413). 1. Scipio Slataper, Ibsen, Firenze, Sansoni, 1944, p. 270. Cito per mia comodità da questa, ma la prima edizione è del 1916. 2. Cito dall’Edizione del Centenario, Henrik Ibsen, Samlede Verker, a cura di F. Bull, H. Koht, e D.A. Seip, Oslo, Gyldendal, 1928-1958, vol. X (traduzioni mie). 3. Scipio Slataper, Ibsen, cit., p. 271. Per l’inizio di Rosmersholm cfr. Roberto Alonge, “Rosmersholm”, Prologo, in “Studi nordici”, VII, 2000, pp. 231-234. 4. Henrik Ibsen, I drammi, tr. it. di Anita Rho, Torino, Einaudi, 1959, vol. III, p. 305. 5. “ROSMER […] Da un anno e più, – da quando Beate se ne è andata, – Rebekka West ed io abbiamo vissuto soli qui a Rosmersholm. Per tutto questo tempo tu eri a conoscenza dell’accusa di Beate contro di noi. Ma mai per un attimo io ho rimarcato che tu fossi scandalizzato che Rebekka ed io vivessimo qui insieme. KROLL Io non sapevo prima di ieri sera, che erano un uomo rinnegato e una – donna emancipata, a fare questa vita in comune. ROSMER Ah –! Tu non credi dunque che presso dei rinnegati e delle persone emancipate possa trovarsi lo spirito di purezza? Tu non credi, che essi possano avere l’esigenza della moralità in loro come un bisogno naturale! KROLL Io non mi fido molto di quel tipo di moralità, che non ha la sua radice nella fede della chiesa” (pp. 380-381). 6. Cfr. Franco Perrelli, Echi nordici di grandi attori italiani, Firenze, Le Lettere, 2004, p. 181. 7. Rinvio ai miei vari libri e saggi ibseniani, riportati puntigliosamente nel mio sito, www.personalweb.unito.it/roberto.alonge/index.php 8. Cfr. Sigmund Freud, Coloro che soccombono al successo, in Opere, tr. it., Torino, Boringhieri, 1990, vol. 8, pp. 643-650. www.turindamsreview.unito.it 13