2.3.2007 MASSIMO MORI POLITICA E MORALE IN KANT La

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2.3.2007 MASSIMO MORI POLITICA E MORALE IN KANT La
2.3.2007
MASSIMO MORI
POLITICA E MORALE IN KANT1
La politica appartiene alla sfera dell’agire pratico. L’opera che costituisce la summa
sistematica della filosofia pratica kantiana, la Metafisica del costumi (1797-98), si divide tuttavia in
due sole parti: la Dottrina del diritto e la Dottrina della virtù. La politica non vi trova una
collocazione specifica. Di essa Kant parla solo in forma funzionale, mettendola appunto in relazione
ora con il diritto ora con la morale. Non sembra quindi sussistere in Kant una “teoria della politica”
autonoma, indipendente dalle due fondamentali articolazioni della filosofia pratica. In particolare
Kant fa dipendere la politica dal diritto, del quale essa è la applicazione istituzionale e pragmatica.
Ma questo implica una contestuale forte implicazione con la morale. La definizione della politica
come “dottrina del diritto applicata” – secondo l’espressione usata recentemente da Volker Gerhardt
– introduce infatti a due questioni fondamentali. In primo luogo, in che cosa consiste la concezione
kantiana del diritto? E, in secondo luogo, che cosa si deve intendere per applicazione del diritto? Ma
a entrambe le domande non si può rispondere se non facendo ampio riferimento alle linee
fondamentali della morale kantiana. La politica, come applicazione della dottrina giuridica, non è
quindi meno implicata con la morale che con il diritto.
1. Il sistema delle libertà – Kant definisce il diritto come “l’insieme delle condizioni per
mezzo delle quali la volontà dell’uno può accordarsi con la volontà dell’altro secondo una legge
universale della libertà” (Metafisica dei costumi, Introduzione alla Dottrina del Diritto, sez. C). Il
diritto è dunque un sistema di compatibilità. Ciascun soggetto giuridico è portatore di una sfera di
libertà d’azione. L’esercizio di tale libertà deve essere reso compatibile con quello della libertà di
tutti gli altri. All’elemento della libertà Kant aggiunge anche quello della proprietà, con la
differenza che la libertà è un “diritto innato”, cioè un diritto che spetta a ogni uomo in quanto tale,
mentre la proprietà è un “diritto acquisito”, che non necessariamente è posseduto da ognuno, ma
richiede un atto giuridico specifico per essere riconosciuto. Nella misura in cui il soggetto giuridico
è portatore di proprietà accanto alla libertà, anche la proprietà deve comunque entrare in un sistema
di compatibilità reciproca, per cui il riconoscimento della mia proprietà da parte degli altri comporta
a sua volta il mio riconoscimento delle proprietà altrui. Il criterio di questa compatibilità, della
libertà come della proprietà, è una “legge universale” che viene stabilita dalla ragione umana.
Questa nozione kantiana di diritto non è del tutto originale. Che il diritto sia un sistema di
compatibilità di competenze giuridiche fondate su prerogative innate dell’uomo è una dottrina
fondamentale nella tradizione del giusnaturalismo, il quale presupponeva l’esistenza di un assetto
giuridico “naturale” previo alla costituzione del diritto positivo. L’originalità di Kant, il cui pensiero
è esso stesso espressione di giusnaturalismo, consiste propriamente nella diversa determinazione del
fondamento dell’ordine naturale. Nel giusnaturalismo si possono infatti distinguere tre fasi storiche.
Il giusnaturalismo antico e medievale, che affonda le sue radici nelle dottrine giuridiche dello
stoicismo, ma consegue le sue espressioni più mature con Agostino di Ippona e Tommaso
d’Aquino, conferiva all’ordine giuridico un fondamento metafisico e teologico: Dio è autore di una
lex aeterna, che viene impressa nella natura all’atto della creazione (diventando lex naturalis) ed è
1
Testo rivisto dall’Autore.
successivamente conosciuta dall’uomo mediante la ragione (lex rationalis). Il giusnaturalismo
moderno – il cui inizio viene solitamente ricondotto a Ugo Grozio, ma potrebbe più correttamente
essere retrodatato a Francisco Vitoria e alla scolastica spagnola del Cinquecento – concepisce
invece la natura, su cui si fonda il diritto, non (o non solo) come natura esterna, come struttura
metafisica del creato, ma primariamente come natura interna dell’uomo, cioè specificamente come
ragione (la quale riflette comunque l’ordine del creato). Il diritto ha un fondamento naturale perché
le azioni dell’uomo sono giuste o ingiuste, buone o cattive, in base alla loro conformità o difformità
rispetto alla ragione umana (convenientia aut disconvenientia cum ipsa natura rationali, dice
Grozio). Questa riconduzione della natura, fondamento del diritto, alla specificità della natura
umana, cioè alla ragione, vale pure per Kant, il quale sviluppa tuttavia una diversa concezione della
ragione. Essa non è più la ragione “dogmatica”, che rispecchia un ordine oggettivamente presente
nel mondo, ma la ragione “critica”, la quale determina la conoscenza in base alle proprie forme
trascendentali, cioè a condizioni conoscitive indipendenti dall’esperienza le quali, sul piano della
conoscenza della natura, ordinano secondo princìpi soggettivi i dati della sensibilità e, sul piano
della conoscenza pratica, producono norme che riflettono il modo di operare della ragione. Il
carattere sistematico e universale del diritto come insieme che rende compatibili le libertà
individuali secondo leggi generalizzabili, ad esempio, non è che il riflesso della struttura sistematica
della ragione e della validità universale dei suoi princìpi. L’ordine giuridico non è ritrovato nel
mondo, ma è una proiezione della ragione, così come l’ordine fisico della natura risulta dalla
applicazione ad essa dei princìpi a priori – cioè delle forme conoscitive – della ragione.
La ragione, e più precisamente la ragion pura pratica, costituisce dunque la radice
comune della morale e del diritto. Anche se non si esprime mai esplicitamente su questo punto,
Kant è infatti convinto che esista una sola ragione pura pratica, cioè una sola ragione trascendentale
che esercita la funzione di legislatrice universale. Di essa si danno tuttavia due usi: un uso eticomorale e un uso giuridico. Il primo investe la dimensione interiore dell’uomo, determinando non
solo l’azione esterna, ma anche la volontà interiore (l’intenzione) che presiede al comportamento.
Per essere buona questa volontà deve essere pura, cioè libera da ogni influenza della sensibilità (con
le sue passioni, le sue inclinazioni, i suoi interessi) e condizionata soltanto dalla legge della ragione.
Non si tratta solo di agire in base a motivi conformi al dovere, ma diversi dal dovere (ad esempio
amare il prossimo per il piacere che dà la filantropia), bensì di agire esclusivamente per il dovere.
L’uso giuridico della ragion pura pratica ha invece per oggetto solo le azioni esterne dell’uomo: non
interessano le motivazioni interiori in base a cui si agisce, ma soltanto la conformità esteriore
dell’azione alla legge. In questo modo, per un verso la legalità è contrapposta alla moralità, perché
può realizzarsi anche sulla base di moventi non morali (non rubo non perché me lo proibisce la
legge, ma perché temo di essere arrestato). Per altro verso tuttavia, il comando della ragione nel suo
uso giuridico ha lo stesso valore di quello della ragione nel suo uso pratico, poiché si tratta sempre
della stessa ragione universalmente legislatrice. L’insegnamento fondamentale della filosofia
pratica di Kant, tanto nell’ambito della morale quanto in quello del diritto, è dunque il carattere
assoluto della norma, che è fondata non sull’esperienza o sulla contingenza storica o sulla
convenzione umana, ma su quella ragione immutabile ed infallibile che costituisce l’essenza ultima
dell’uomo.
Il diritto naturale è quindi per Kant un diritto puramente razionale. Ciò presenta il vantaggio
di conferire alle norme giuridiche una validità assoluta (come imperativi categorici), poiché non
dipendono da alcunché di convenzionale o di contingente, sono garantiti dalla infallibilità della
ragione e hanno la perentorietà dei comandi razionali. Ma un diritto razionale presenta anche lo
svantaggio di essere meramente ideale. Esso comanda con una imperatività assoluta per chi ascolta
la ragione, ma non dispone di nessun strumento coercitivo per imporsi a chi sia riottoso di fronte al
dettato razionale. D’altra parte un diritto che non sia coercitivo non è un diritto, poiché
l’ordinamento giuridico si fonda sulla garanzia della reciprocità. Io sono tenuto a rispettare i diritti
degli altri soltanto in quanto essi rispettano i miei. Il diritto naturale, affidato all’insegnamento della
ragione, deve quindi trasformarsi in un diritto pubblico, che si impone con la forza della legge
positiva. L’idealista Kant fa suo, su questo punto, l’insegnamento del realista Hobbes, che aveva
insegnato come “accordi senza spada sono solo parole” (covenants without sword are only words).
Nel linguaggio giusnaturalistico, che è anche hobbesiano, occorre uscire dallo stato di natura, che è
una condizione di agiuridicità e di guerra, per entrare in una costituzione civile. Il diritto, per essere
veramente tale, deve tradursi in un diritto dello stato, con un potere costituito al di sopra delle parti
e con un apparato di leggi imposte coattivamente. La “teoria del diritto” deve necessariamente
trovare applicazione nella “teoria dello stato”.
2. La teoria dello stato – L’ideale politico di Kant è rappresentato dalla costituzione
repubblicana, che corrisponde grosso modo a ciò che nel linguaggio politico contemporaneo
intendiamo per stato democratico. Il repubblicanesimo di Kant ha una chiara matrice rousseauiana.
Esso è infatti fondato sulla nozione di volontà generale, espressione della volontà del popolo, al
quale soltanto spetta la sovranità. Come in Rousseau, la volontà generale non coincide con la
“volontà di tutti”, cioè non è la semplice somma numerica delle volontà singole, ma ha per oggetto
il bene generale dello stato. Come in Rousseau, la volontà generale si riferisce a un contratto sociale
originario, attraverso il quale la moltitudine di individui diventa un popolo unitario, in quanto
ciascuno contrae un patto di unione con tutti gli altri considerati come un unico corpo politico. In
questo modo lo stato repubblicano non si limita a realizzare coattivamente il diritto come sistema di
compatibilità tra le libertà, ma lo attua anche in base a criteri di giustizia. Le leggi con cui si
realizza coattivamente il diritto obbediscono infatti non a una volontà arbitraria, ma alla volontà
generale che, in Kant come in Rousseau, se è veramente tale, è sempre giusta, perché è la volontà di
tutto il popolo.
Questa forma repubblicana di governo richiede tuttavia il rispetto di due procedure
istituzionali. La prima (e qui Kant si discosta da Rousseau) è il sistema rappresentativo, che esclude
l’ipotesi rousseauiana della “democrazia diretta” o assembleare (per questo Kant parla di
costituzione repubblicana e non democratica, giacché l’idea di democrazia era ai suoi tempi
solitamente connessa con il modello di Rousseau). La democrazia diretta favorisce secondo Kant
quella che successivamente sarà detta la “dittatura della maggioranza”, in quanto le decisioni prese
a maggioranza nell’assemblea del popolo possono non rispecchiare veramente il bene generale,
bensì solo gli interessi della maggioranza, imposti alla minoranza senza che ciò sia giustificato dal
riferimento all’interesse dello stato. In altri termini Kant dubita che dalle decisioni assembleari della
democrazia diretta possa nascere una vera volontà generale, che riflette soltanto l’interesse dello
stato e non quello della fazione prevalente. Soltanto in un sistema in cui la volontà popolare si
esprime non direttamente, ma attraverso il filtro della rappresentanza, l’interesse generale del corpo
politico può effettivamente prevalere su quello degli individui particolari o delle loro
agglomerazioni. La seconda procedura istituzionale che caratterizza la costituzione repubblicana è
la separazione del potere legislativo da quello esecutivo. Qui Kant si avvicina a una tradizione che,
partendo da Locke, attraverso Bolinbroke giungeva a Montesquieu, il teorico classico della
separazione dei poteri. Ma il riferimento di Kant a Montesquieu è solo parziale. Quest’ultimo
attribuiva infatti alla separazione dei poteri la funzione di un controllo reciproco che, attraverso il
vicendevole bilanciamento (la balance des pouvoirs), impediva a ciascuno di prevaricare sugli altri.
Viceversa, in Kant è piuttosto presente, più rousseauianamente, la preoccupazione per il rispetto
della legge voluta dalla volontà generale, cioè dal popolo. Solo il popolo, in quanto unico sovrano,
può esercitare il potere legislativo, cioè può esprimere una volontà generale che si traduce in leggi
altrettanto generali, in quanto ispirate al perseguimento del bene comune alla totalità dello stato.
L’esecutivo (il governo) ha invece il compito di applicare le leggi generali ai casi particolari,
rendendole appunto esecutive. A differenza del sovrano legislatore, al di sopra della legge perché
esso stesso autore della legge, il potere esecutivo deve quindi sottostare ad essa, limitandosi ad
applicarla nei casi particolari. Di conseguenza, esso deve essere distinto dal potere legislativo
(sovrano), in modo da essergli in qualche modo subordinato (in quanto mero esecutore) e da dover
render conto del proprio operato nel caso che la legge venga applicata in modo scorretto. La
coincidenza del potere legislativo con quello esecutivo, che sospende queste garanzie di legittimità,
è considerata da Kant la caratteristica delle forme di governo dispotiche, cioè dell’opposto della
costituzione repubblicana. In questo caso il detentore del potere supremo – il re o il principe – ha
nelle sue mani sia il legislativo sia l’esecutivo: da un lato egli può fare le leggi che vuole, senza che
necessariamente esse rispondano alla volontà e agli interessi del popolo; d’altro lato può applicare
tali leggi senza che ci sia alcun controllo sulla modalità di esecuzione.
Se si eccettuano il governo repubblicano nato dalla Rivoluzione francese e pochi altri casi di
piccole repubbliche, gli stati con cui Kant si confronta storicamente erano quasi tutti governi di
questo genere. Gli stati settecenteschi hanno generalmente carattere assoluto: in essi i sovrani, nella
persona del re, promulgano ed applicano le leggi (o almeno presiedono alla loro applicazione): in
termini kantiani, sono dispotici. Ci si attenderebbe pertanto una loro radicale condanna da parte di
Kant. Invece egli non si perita di fornire agli stati esistenti, qualunque sia la loro natura
costituzionale, una piena legittimazione giuridica. Sul piano sostanziale questa giustificazione nasce
dal fatto che Kant ritiene che qualsiasi forma di diritto realizzato, per quanto imperfetto, sia da
preferirsi allo stato di natura, condizione di agiuridicità in cui vige la legge del più forte. Sul piano
formale egli sostiene che, anche se gli stati esistenti sono nati dall’unificazione forzata di una
moltitudine di individui, e anche se il governo è originariamente scaturito da una usurpazione
dell’ideale sovranità popolare attraverso un atto di violenza, in ogni caso il detentore effettivo del
potere deve essere considerato il sovrano legittimo, perché attraverso quella unificazione egli è
comunque diventato il rappresentante del popolo. Mettere in questione la legittimità del potere
costituito, o pensare di potervi legittimamente resistere, significherebbe minare l’unità dello stato,
che attraverso quel potere si è costituito e mantenuto, e ricadere in una condizione agiuridica e
conflittuale. Su queste argomentazioni si fonda la negazione da parte di Kant di qualsiasi diritto di
resistenza, che attraversa tutta la sua riflessione politica.
In questa prospettiva si inserisce anche la peculiare interpretazione che Kant dà del
contratto originario. Pur accogliendone l’idea – come si è visto – nella sua forma più radicale,
quella rousseauiana, Kant nega che il contratto originario possa essere considerato come un fatto,
che costituisce il fondamento originario dello stato. Anche la tradizione giusnaturalistica, in cui
nasce e si sviluppa il contrattualismo politico, non cadeva nell’ingenuità di ritenere il patto sociale
un fatto storicamente avvenuto: ma lo poneva comunque all’origine dello stato, poiché lo
considerava come stipulato tacitamente tra le parti. Kant respinge invece anche l’idea di un patto
tacito e riduce il contratto a un patto fittizio, cioè a una semplice ipotesi di lavoro che dobbiamo
assumere come modello normativo: si deve pertanto operare come se (als ob) alla base dell’unione
statale vi sia un patto originario e quindi, come se alla base dell’attività legislativa ci sia la volontà
generale del popolo. Il contratto originario non è un fatto, ma una semplice “idea” che deve servire
come “criterio” normativo – ideale appunto – per procedere nell’attività legislativa e politica. Una
legge sarà quindi ingiusta se nell’idea razionale è impossibile che tutto il popolo vi dia il suo
consenso, ma se ciò è possibile – anche solo in base a un’analisi razionale puramente teorica –
allora la legge deve considerarsi giusta, indipendentemente dal fatto che il popolo, qualora fosse
effettivamente convocato per esprimere un giudizio, desse parere favorevole o contrario. Il contratto
originario esprime quindi un criterio razionale – che ha la forza di un imperativo categorico – ma
non una condizione fattuale che conferisca, anche solo tacitamente, diritti contrattuali reali al
popolo. In base ad esso, pertanto, i sudditi non hanno alcun diritto di resistere al potere costituito,
qualunque sia la sua origine e in qualunque modo esso venga esercitato.
3. Politica e morale – Malgrado l’assoluto rifiuto del diritto di resistenza, Kant non assume
tuttavia una posizione rinunciataria. In un appunto rimasto inedito egli osserva che il potere
supremo dello stato è sempre indissolubilis, ma non per questo non è mutabilis in melius (Reflexion
7534, Gesammelte Schriften ed. dell’Accademia, XIX, p. 448). L’idea del contratto originario, se
non può servire come legittimazione di una politica eversiva dell’ordine costituito, rappresenta
tuttavia un criterio infallibile per la sua trasformazione. Anzi, il fatto che il contratto originario, che
è il supporto teorico della dottrina della volontà generale del popolo, cioè della costituzione
repubblicana, non abbia una natura effettivamente pattizia, ma esprima piuttosto un imperativo
razionale, lo rende normativamente assoluto. Esso non nasce da una convenzione tra gli uomini (che
ha sempre carattere relativo), ma esprime un comando assoluto della ragion pura pratica
universalmente legislatrice. Di qui derivano alcune considerazioni molto importanti per la
definizione della attività politica. In primo luogo, la vera politica, per Kant, non può essere gestione
di interessi particolari e neppure perseguimento di una pur generale “ragion di stato”, ma deve
mirare alla trasformazione dello stato nel senso di una sua progressiva approssimazione all’ideale
repubblicano. La politica è innanzitutto attività di trasformazione in meglio della struttura
istituzionale dello stato. Dal che consegue, in secondo luogo, che la politica deve avere un carattere
fondamentalmente riformistico. Gli obbiettivi politici non si ottengono repentinamente, con un
sovvertimento rivoluzionario dello stato, ma attraverso un processo temporale, in cui le istituzioni
“dispotiche” dello stato vengono progressivamente trasformate in “repubblicane”, ossia – nel
linguaggio odierno – democratiche. Negando ogni diritto di resistenza, Kant ritiene tuttavia che
queste riforme debbano venire dall’alto, cioè dal sovrano di fatto, dal detentore del potere costituito.
Nelle intenzioni di Kant si deve realizzare un processo per cui gli stessi stati dispotici, cioè assoluti,
adeguandosi all’idea razionale del contratto originario, si comportino secondo lo “spirito” dello
stato repubblicano, promulgando sempre più leggi che obbediscano esclusivamente alla norma della
volontà generale, cioè leggi che, almeno nell’idea della ragione, potrebbero essere approvate da
tutto il popolo, poiché sono state pensate nell’interesse del popolo. Qualche interprete ha sostenuto
che l’intensa attività riformatrice che ha trasformato l’assetto politico-sociale della Prussia negli
anni 1807-1809, soprattutto attraverso l’opera del ministro vom Stein, abbia trovato ispirazione
nell’opera kantiana. E’ difficile dire in quale misura questa tesi sia storicamente fondata. È invece
certo che, nell’immaginare un potere assoluto che operava comunque in nome degli interessi del
popolo, e dunque secondo la spirito repubblicano, Kant pensava a Federico II, il monarca che, pur
esercitando il potere nel modo più assoluto, si considerava il “primo servitore dello stato”.
Ma il carattere di imperativo razionale che compete all’idea dello stato repubblicano,
rispondente all’idea di una volontà generale che scaturisce da un contratto sociale, fornisce
soprattutto indicazioni non equivoche sulla relazione che intercorre tra politica e morale. Soltanto se
non si tiene conto del fondamento razionale assoluto del modello repubblicano si può parlare di un
conflitto tra le due attività umane. In nessun caso, comunque, questo contrasto può riferirsi al fatto
dell’esistenza di politici immorali, che usano la politica esclusivamente come strumento per i loro
interessi personali. Di questo Kant neppure parla, o si limita a qualche accenno subito accantonato.
L’alternativa riguarda soltanto il modo in cui più appropriatamente si possono conseguire i giusti
obiettivi della politica. Per il “moralista politico” essi si possono ottenere soltanto attraverso la
prudenza politica, che procede non in base a ideali della ragione ma sulla scorta dell’esperienza e
della conoscenza degli uomini nella loro reale natura. Per il “politico morale” invece non ci può
essere conflitto tra morale e politica: la morale rappresenta un imperativo assoluto a cui la politica si
deve necessariamente adeguare. La prudenza politica non è esclusa (il politico non deve essere un
ingenuo), ma è strumentalmente subordinata alla realizzazione dei fini morali. Nel primo caso la
completa realizzazione del diritto e delle sue condizioni è soltanto un “problema tecnico”, per il
quale occorre trovare soluzioni pratiche adeguate, che tengano conto esclusivamente delle
condizioni reali. Nel secondo caso si tratta invece di un “problema morale” che deve essere risolto
in base alle indicazioni della ragione, senza compromessi e senza astuzie. Da una parte il realismo,
dall’altra l’idealismo politico. Kant non ha ovviamente dubbi su quale sia la strada da percorrere: il
problema morale è distinto da quello puramente tecnico “come il cielo dalla terra” e in nessun modo
l’etica può essere piegata alle esigenze della politica, anche se esse appaiono più efficaci ai fini
della “ragion di stato”.
Ma questa opzione radicale per la morale contro la prudenza politica non significa per Kant
la rinuncia all’efficienza. È vero che in caso di conflitto, qualsiasi altra ragione deve cedere di
fronte all’imperativo etico: Fiat iustitia, pereat mundus, ripete Kant con l’imperatore Ferdinando I.
Ma in realtà, seguendo la giustizia voluta assolutamente dalla ragione, il mondo non perirà affatto.
In realtà, le strade della prudenza politica sono tortuose e insicure. Esse richiedono una conoscenza
della natura e dell’uomo che non può mai giungere a certezza. La prudenza politica è fondata
sull’esperienza, che è sempre particolare e contingente. Sul piano empirico è impossibile dire quali
procedure o quali elementi istituzionali siano i migliori in assoluto. Le soluzioni che si prospettano
al problema tecnico sono sempre relative. Viceversa, il comando della ragione, che impone senza
mezzi termini di realizzare progressivamente la costituzione repubblicana, è assolutamente univoco.
Operando secondo le indicazioni della morale non si sbaglia mai, e a poco a poco se ne vedranno
anche i risultati concreti, che conseguiranno in maniera spontanea, seppure non immediata, da un
comportamento razionale. In altri termini, l’idealismo politico si rivela essere la migliore forma di
realismo. Può darsi che la costituzione politica non si realizzi mai perfettamente, né all’interno dello
stato (come costituzione compiutamente repubblicana) né tra gli stati (come pace perpetua). Ma
mirando direttamente alla realizzazione dello scopo etico-giuridico comandato dalla ragione, si
procederà automaticamente a una progressiva razionalizzazione della realtà socio-politica e a un
graduale avvicinamento all’ideale razionale. La subordinazione assoluta della politica alla morale,
cioè, in altri termini, il riconoscimento della dimensione irriducibilmente normativa della politica, è
il vero strumento per rendere l’agire politico efficace oltreché giusto.
4. La pace: la ragione dell’uomo e le ragioni della politica – In realtà, non sempre Kant
tiene fede a questo suo principio. E questa défaillance avviene proprio in relazione all’aspetto del
suo pensiero politico che in questi ultimi anni ha forse maggiormente concentrato su di sé
l’attenzione non solo degli storici del pensiero, ma anche gli scrittori di teoria politica. Si tratta del
problema della pace perpetua. Kant è il primo filosofo che estende consapevolmente il modello del
contrattualismo classico dal piano interindividuale a quello internazionale. La ragione pura pratica
nel suo uso giuridico comanda infatti di uscire non solo dallo stato di natura tra gli uomini, entrando
in una costituzione civile (come già aveva insegnato Hobbes), ma anche dallo stato di natura (e di
guerra) in cui si trovano reciprocamente gli stati. Per far questo la ragione impone di istituire un
organismo politico internazionale che sia l’analogo perfetto di ciò che sul piano individuale è la
società statale. Secondo questo rapporto analogico, che oggi i politologi chiamano domestic
analogy, l’istituzione internazionale per la pace deve avvalersi di un potere centrale coercitivo
analogo al governo dei singoli stati: si tratta cioè di realizzare uno “stato di popoli” mondiale, nel
senso di uno stato federale che riunisca in un unico corpo politico tutti gli stati del mondo. In più
luoghi Kant ripete a chiare lettere che questo è il comando inequivocabile della ragione. Tuttavia la
prospettiva di un governo federale sopranazionale comportava un’idea alla quale l’odierna Unione
Europea, e soprattutto la prospettiva di un suo assetto costituzionale, ci hanno abituati: l’idea che il
processo di integrazione tra le nazioni, condizione indispensabile per la pace e la cooperazione
internazionale, comporti la progressiva perdita di “pezzi” di sovranità nazionale. Anche ai tempi di
Kant, questa stessa idea era stata accettata a livello regionale, seppure dopo molte discussioni ed
opposizioni, dagli Stati Uniti d’America che con la Convenzione di Philadelphia del 1787 avevano
trasformato la iniziale Confederazione in un vero e proprio stato federale. Ma l’idea della sovranità
assoluta dello stato, teorizzata da Bodin e successivamente sviluppata da tutta la tradizione
giusnaturalistica che definisce le linee portanti del pensiero politico moderno, con la pace di
Westfalia del 1648 era diventata uno dei pilastri del cosiddetto ius publicum europaeum. Proiettarsi
al di fuori di questa prospettiva era impresa che neppure Kant, che pure aveva rivoluzionato la
teoria della conoscenza e l’etica moderne, non riuscì a fare – sebbene conoscesse molto bene il caso
americano, che però addusse ad esempio negativo. In luogo dello “stato di popoli” egli si accontenta
dunque, in contrasto con l’indicazione della ragione, di una “confederazione dei popoli”, cioè di una
lega in cui gli stati si promettono di rinunciare alla guerra e di lavorare per la pace, mantenendo
però ciascuno la propria indipendenza sovrana. Il caso americano viene espressamente richiamato
come modello negativo. Quanto fosse debole questa proposta in termini di efficacia, giacché tutto
rimaneva affidato alla buona volontà dei sovrani anziché alle leggi internazionali, è ben chiaro a
Kant, che non a caso parla in proposito di un “surrogato negativo” della vera soluzione, lo stato
federale, “affinché non tutto vada perduto” (Per la pace perpetua, Secondo articolo definitivo).
Alcuni interpreti hanno difeso questa posizione kantiana, considerandola una prova di
realismo politico. Ma essi dimenticano che, come abbiamo visto, nell’impianto teorico
trascendentale il vero realismo politico consiste proprio nel mantenere determinata la volontà di
perseguire l’ideale della ragione. Indubbiamente ci si trova qui di fronte a una tensione interna al
pensiero di Kant; più precisamente, vi è una tensione tra l’accettazione di un dogma della politica
internazionale contemporanea, sia teorizzata sia praticata, e l’impianto teorico generale. Non è un
caso infatti che la forza dell’ideale torni a prevalere talvolta proprio nelle stesse pagine in cui Kant
si adatta al compromesso della confederazione per la pace e, sconsolatamente, si arrende al pensiero
che la pace perpetua sia “certamente un’idea impraticabile”. Tuttavia, anche in questo caso non
vengono meno né la normatività assoluta né l’utilità pragmatica di questa idea della ragione. “Ora la
ragione moralmente pratica pronuncia in noi il suo veto irrevocabile: ‘Non ci dev’essere nessuna
guerra, né tra me e te nello stato di natura né tra noi, come stati’” (Metafisica dei costumi. Dottrina
del diritto, § 62, Conclusione). Di conseguenza, il problema della realizzabilità della pace perpetua
diventa irrilevante, di fronte alla sua imperatività. “Dunque non si tratta più di sapere se la pace
perpetua sia una cosa reale o un non senso, e se noi non ci inganniamo nel nostro giudizio teorico,
quando accettiamo il primo caso; ma noi dobbiamo agire sul fondamento di essa, come se la cosa
fosse possibile, il che forse non è...” (ibidem). Seguire questa imperatività non significa però
soltanto obbedire al dovere per il dovere, anche sapendo che esso è una causa persa sul piano
dell’effettività. Infatti il perseguimento della prospettiva normativa, anche se non portasse mai alla
piena realizzazione dell’ideale, implica un suo graduale, progressivo avvicinamento. Sebbene solo
nella prospettiva di una “progressiva, indefinita approssimazione”, la pace perpetua “non è un’idea
vuota, bensì un compito che, assolto per gradi, si avvicina sempre più al suo adempimento” (Per la
pace perpetua, Appendice II). Nell’affermazione della normatività assoluta della politica, e insieme
nella fiducia della funzionalità anche pragmatica della norma razionale, risiede una intramontabile
attualità del pensiero politico kantiano. Obliterare questo aspetto, cercando di valorizzarne il
realismo, significa impoverirlo, riconoscendogli un merito, di cui altri sono stati più facilmente e
frequentemente maestri. Il pensiero che il vero realismo consiste nel perseguire con determinazione
l’idealità non è invece merce che si trovi in ogni bancarella.