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Stefano Calabrese, Anatomia del best seller. Come sono fatti i romanzi di successo di Paola Villani «Esiste una scatola nera del best seller? Conosciamo il segreto del suo destino?». È la domanda che apre l’ultimo libro di Stefano Calabrese, Anatomia del best seller. Come sono fatti i romanzi di successo (Roma-Bari, Laterza, 2015, pp. 181). Lo studio prende abbrivo da una «evidenza», registrata da indagini di mercato ma anche da ricerche sociologiche: il quasi improvviso (e anche inedito) aumento di vendite registrato dai best seller contemporanei; best seller che, nella crossmedialità, son davvero globali, attraversano paesi, ma anche codici, linguaggi e media diversi. Si tratterebbe di un crescente, diffuso, «bisogno di narratività» della società contemporanea, che si traduce in un decisivo mutamento delle abitudini, del numero e della fisionomia dei lettori dell’era globale. La lettura, insomma, la lettura del libro cartaceo, sembra farsi pratica sempre più diffusa, fino ai limiti della «dipendenza» psicologica; e questo proprio nella società del digitale, del dominio dell’immagine, della rapidità e dell’immediatezza. È quasi una sfida o provocazione contro le apocalittiche morti del romanzo, e della carta stampata, preconizzate da nostalgici, severi cantori dell’era post-Gutenberg. Se è indubitabile che la letteratura ‘alta’ cede il passo a quella di consumo, è pur vero che i best seller globali registrano record storici di vendite e di incassi. Lontano dal rimpianto per la progressiva regressione della lettura dei ‘classici’ così ben canonizzati dal notissimo manifesto di Calvino del 1981 (di sapore foscoliano) Italiani. Vi esorto ai classici, Calabrese si concentra sulla comprensione affatto neutra e libera da pregiudizi di questo nuovo «fenomeno». Studioso ormai navigato in questi perigliosi territori di indagine, aduso a maneggiare la materia scottante della contemporaneità con strumenti attinti alle scienze umane come anche alle neuroscienze, in particolare tra i primi ad approfondire il tema della lettura nell’età digitale, Calabrese notomizza la letteratura di consumo, le narrazioni oltre i romanzi, le storie contemporanee che avvincono il lettore, in una accezione sempre più vasta di testo e di storie (punto di partenza, naturalmente, l’imprescindibile Segre), che supera le definizioni di genere e approda sul grande universo dello storytelling. Studioso crossover, proprio come i testi che indaga ormai da decenni, Calabrese sembra avere tutti gli strumenti per maneggiare tanta materia, e per attraversare i confini disciplinari. Il professore di Comunicazione narrativa e Semiotica prova a leggere, interpretare e anche svelare le strutture delle scritture di successo, in una (da molti ancora discussa) accezione ampia di ‘campo letterario’ che lo colloca con coraggio su posizioni liminari. Lasciando alle spalle la lettura dei capolavori della repubblica delle Lettere, Calabrese decide quindi di ‘sporcarsi le mani’ nel magma indistinto della contemporaneità che ancora attende la manzoniana sentenza dei posteri. Astenendosi da giudizi di valore, decide di comprendere come e perché alcuni romanzi, o meglio storie, alcune narrazioni incontrano un successo planetario. Entra insomma nella fabbrica di un best seller, penetra i segreti dei grandi ‘casi’ editoriali della società globale e dell’era digitale. Pur celebrando la ‘morte dell’Autore’ – in richiamo a quello stesso epicedio che, con diversi fondamenti, si formulava già negli anni Sessanta – il percorso di Calabrese avanza non per titoli o per opere, ma propriamente per Autori, o meglio per quelli che ormai sono «brand name» dalla identità diffusa e «perfusa»: Murakami, Brown, Collins, Rowling, seguiti nelle acrobazie della crossmedialità di testi (meglio sarebbe texte) che appartengono sempre meno ai loro autori. Dimostrando coraggio e antiaccademismo, il saggio ha un approccio provocatorio sin dai titoli e dalle formule. Oltre infatti ad «Anatomia del best seller» della copertina, che non può non riportare alla mente il ‘classico’ Anatomia della critica di Northrop Frye (il Frye caro al maestro di Calabrese, Ezio Raimondi), si succedono titoli e formule degni di Rick Riordan e del suo Percy Jackson: «il romanzo smart»; «il transromanzo»; «la ricetta del successo: ingredienti e tempi di cottura secondo Stephanie Meyer». Oggetto dello studio di Calabrese sono esclusivamente quelle che egli definisce le «storie ad alta leggibilità», rivelate nei loro meccanismi strutturali e nella loro sopravvivenza crossmediale: dal romanzo al film alla serie al videogioco, o anche il percorso contrario. Il lettore viene condotto attraverso diversi casi editoriali, tutti tasselli del grande mosaico della narrazione contemporanea e del contemporaneo mercato editoriale, oltre che grande ritratto del lettore globale e multimediale che, oggi più di ieri, mostra di apprezzare e appassionarsi alla lettura, fino a intendere quest’ultima come azione terapeutica (come ha dimostrato anche Leah Price), individuando nella lettura immersiva di finzioni romanzesche un eccezionale farmacon contro la depressione. D a l Codice da Vinci alla saga di Harry Potter, a Cinquanta sfumature di grigio, fino alla riuscitissima serie di Geronimo Stilton: sono trionfi mondiali di proporzioni mai registrate prima da nessun capolavoro letterario. Una conferma a quanto già diagnosticato dagli economisti: secondo infatti Rolf Jensen, direttore del Copenhagen Institute for Futures Studies, le società globali hanno e sempre più avranno come prodotto interno lordo le storie; storie di prodotti, storie di individui, storie di territori. In questo nuovo paesaggio di consumi culturali (formula ormai desueta ma forse ancora valida se usata in modo neutro), uno degli assi portanti è proprio la «serializzazione». Serialità e transcodificazione: la fenomenologia del to be continued comprende trilogie e quadrilogie, ma anche adattamenti, dal romanzo al film, dalla fanfiction al romanzo. Quasi tutti i best seller contemporanei hanno infatti costituito catene seriali o transmediali; un testo si «reincarna» in un film o anche in un videogioco, in percorsi acrobatici che son guidati senza dubbio da precise strategie di marketing, ma anche da quella che Calabrese definisce la «svolta transmediale» della cultura occidentale, una svolta che non è indotta da un manipolo di imprenditori attenti solo al fatturato, ma da un cambio di gusto e di attese: «l’intermedialità è ormai una caratteristica costitutiva dell’attuale sistema dei mezzi di comunicazione nel punto di intersezione tra produzione e fruizione, esigenze commerciali e ambizioni artistiche, in modo tale che i media non vanno pensati semplicemente come indipendenti e contrapposti bensì come operanti su presupposti reciproci e ‘linkati’ sino a creare un flusso illimitato di adattamenti». Le narrazioni dunque non sono più prodotti finiti da esportare, ma format, cornici narrative in grado di ospitare storie di volta in volta differenti. «Il testo perde in risolutezza formale quanto guadagna in compartecipazione creativa. La storia raccontata si fa trasportare simultaneamente da molteplici media» in un nuovo ruolo del lettore che diviene davvero coautore, come nei celebri casi di fan fiction, in una globale comunità di «fan» («fandom») che determina il carattere meticcio delle narrazioni: «l’opera perde la sua centralità e si trasforma in un flusso continuo di diramazioni ‘authorized’ oppure no dall’autore, ma in grado di avere vita autonoma». Il caso di maggiore successo è forse proprio Cinquanta sfumature di grigio, nato come spin off da Twilight, imitazione quindi della Meyer e insieme anche della stessa E.L. James (al secolo Erika Leonard), che imita la Meyer, quindi imita se stessa (Master of the Universe) per poi esser trasposta in film, serie e videogiochi. In questa crossmedialità senza confini, la narrazione originaria si sgretola, limitandosi a fornire format di volta in volta declinantesi in altre storie, destinate a lettori dalla identità collettiva sempre più mossa e articolata. Sono prosumers, produttori e consumatori, secondo la fortunata formula di Henry Jenkins. Sono «fan», come «variante iperbolica del lettore moderno», che «rivendica il diritto all’autodeterminazione semiotica del testo e si pone in una condizione di avanzamento inarrestabile. Nomade, oltre che bracconiere, egli esercita una produttività al tempo stesso semiotica (scrive testi), sociale (consolida un format identitario), enunciazionale (agisce sulla circolazione dei significati all’interno della comunità virtuale)». Il lettore si configura come «un textual performer (artigiano della testualità) che aggredisce la produzione primaria di un autore per creare testi secondari, capaci di generare un vero e proprio universo immaginario condiviso». Sulle tracce della «scatola nera» o del «genoma del best seller globale», Calabrese rinviene la centralità – osservata anche da Frank Rose in un suo recente studio – della «immersività». È un altro ingrediente essenziale al successo del best seller; l’opera deve coinvolgere l’intero sistema percettivo; preferibilmente in prima persona, la narrazione deve «fingersi nel presente della lettura» come accade nel fortunatissimo Hunger Games della Collins o anche nei romanzi di Paulo Coelho, altro grande brand name, uno dei pochi scrittori a «scolpire la propria autorevolezza in un incessante selfie». Il lettore ama farsi condurre in un processo immersivo che lo conduce al di fuori del suo tempo e del suo spazio, sempre però a saziare – anche nel campo della fiction – quella che David Schields ha individuato come la «fame di realtà» del popolo del web; una tendenza che è già da alcuni anni ormai oggetto di studio più tradizionale nel campo proprio della letteratura come «ritorno al reale» della scrittura (si pensi al volume L’invenzione della realtà, curato nel 1994 da Monica Gemelli e Felice Piemontese, o al volume Finzione, cronaca, realtà curato da Hanna Serkowska nel 2011 solo per citare alcuni tra i più riusciti studi critici collettanei). Nello studio proprio dei meccanismi della narrazione e dell’atto della lettura, è quello che gli psicologi chiamano «trasporto narrativo»: «un individuo trasportato si trasforma in una specie di avatar coinvolto in prima persona nella storia a livello emotivo e cognitivo. Il linguaggio narrativo non si comporta dunque come mero sistema mirroring, che riflette la realtà esterna, ma costituisce la realtà stessa». Attraverso le pagine dell’agile saggio, si può comprendere che il segreto del successo di una narrazione risiede quasi in formule scientifiche: nel cogliere le mappature neurocognitive attraverso cui la nostra mente processa la realtà. Si prospetta una nuova frontiera della retorica, un sentiero quindi che parte dall’arte del dire e giunge fino ai processi neuronali. Si rivela, qui, il grande esperto di neuroretorica, sostenitore in Italia di un ambito di studi affatto innovativo, che si è venuto codificando in vera disciplina negli Stati Uniti. Era il 2010, infatti, quando l’autorevole rivista «Rethoric Society Quarterly» dedicava un numero monografico alla neuroretorica (neurorethorics), per lo studio delle dinamiche della comunicazione grazie alle nuove tecniche di neuro-imaging. Un percorso di studi che Calabrese ha arricchito e riportato anche nell’alveo degli studi letterari, nel tentativo di una integrazione disciplinare fino a qualche anno fa inimmaginabile. Calabrese quindi coglie prima di altri l’avvicinamento delle due sfere, hard sciences e studia humanitatis, le quali, per un movimento repentino, sembrerebbe spontaneo e quasi tellurico, son venute ad avvicinarsi. Già attrezzato a comprendere i ‘fenomeni’ narrativi della contemporaneità, Calabrese legge la letteratura sullo sfondo di inediti scenari. Coraggioso attraversatore di confini, egli si presenta – per rimanere in tema dei suoi studi – come nuovo eroe della critica, protagonista di una ‘serie’ che egli stesso sta scrivendo in questi ultimi anni: da www.letteratura.global.Il romanzo dopo il postmoderno (2005) al volume da lui curato e dedicato alla Neuroarratologia (2009); da La comunicazione narrativa. Dalla letteratura alla quotidianità (2010) a Retorica e scienze neurocognitive (2013). Sono titoli che potrebbero condursi all’interno di un’unica grande saga del critico contemporaneo, coraggioso invasore di territori e ‘campi’ (per attingere al linguaggio bellico ma anche alle note teorizzazioni di Pierre Bourdieu). Eroe protagonista e si direbbe sempre esule, affatto estraneo alla separazione dei saperi, e in grado di dialogare con i diversi ‘popoli’ confinanti: i letterati, i neuroscienziati, i sociologi, ma anche gli addetti al marketing. Il suo ultimo saggio è l’ultimo nato di questa affascinante saga della critica, che si offre agli addetti ai lavori, ma può intendersi anche come vademecum per scrittori, sceneggiatori e (perché no?) manager editoriali. Ed è forse uno specchio di riflessione per i lettori stessi, i nuovi prosumers che, se avanzano senza sosta nel corpo a corpo con gli autori, troveranno in questo saggio uno specchio riflessivo e rivelatore dei loro inconsapevoli procedimenti immersivi e della loro passione per la lettura di best seller. Una lettura che si offre loro anche come farmacon contro il male di vivere contemporaneo; fino a creare una pericolosa, quanto gradevole e sana, dipendenza.