Terrore a New Dehli, 55 morti
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Terrore a New Dehli, 55 morti
quotidiano comunista - anno XXXV n. 262 D O M E N I C A 3 0 O T T O B R E euro 1,10 con Le Monde Diplomatique 1 euro in più in Sicilia con L’Isola Possibile 1 euro in più 2 0 0 5 Foto Ap Parole in guerra GABRIELE POLO ha fatto solo per senso di responsabilità. Così si comportano i grandi statisti. Anche se di solito dicono di farlo per il bene dei loro governati: spesso mentono, ma almeno cercano una scusa. Invece Silvio Berlusconi ha deciso di appoggiare - politicamente e poi militarmente - la guerra in Iraq pensando al bene del suo leader di riferimento, George W. Bush. Non ci fossero di mezzo morti, anche italiani, e una precipitazione nella paura internazionale, ci sarebbe da ridere. Ma forse non è nemmeno la sudditanza verso l’amico americano la chiave di lettura del comportamento del nostro presidente del consiglio. Forse il problema è la sua leggerezza. Quella con cui ha mandato i soldati italiani in Iraq è pari alle dichiarazioni da pentito di ieri: perché nessuno è così sciocco da credere che esse siano vere, sono solo lo schermo politico con cui cerca di ridurre il danno del suo operato. Pacche sulla spalle, barzellette, parole in libertà sono un tutt’uno: lo stile di un guitto. Anche qui, se non ci fossero in gioco vite umane, ce la potremmo cavare con una risata. Il guaio è che quella leggerezza ci ricade addosso ogni giorno. Chissà come la valuteranno le truppe scelte spedite a Nassirya? O i parenti dei morti nell’attentato contro la caserma italiana di quella città? O i sequestrati e chi è impazzito per poterli liberare? Per non parlare dei parenti e degli amici di Nicola Calipari. La leggerezza di parole pronunciate solo per contenere una caduta di consenso politico diventano terribilmente pesanti, si trasformano in un insulto oltraggioso. Intanto la guerra dilaga, in tutte le sue forme. Per allontanarla dal loro territorio gli Stati uniti l’hanno ben piantata nel cuore del Medio Oriente, credendo di circoscriverla in un pezzo di deserto dove i morti contano poco perché lontani da noi. Invece ha tracimato a est e a ovest: partendo dalla «base» irachena, passando per la consueta Palestina, è arrivata a Madrid e a Londra, ha varcato i confini dell’Indo, trasformando ovunque conflitti diversi tra loro in un unico combattimento. Non cesserà fino a quando il cosidetto Occidente metterà in discussione se stesso, e saprà condividere con il resto del mondo quei valori di libertà di cui ha riempito le proprie costituzioni tradite. Non basterà un cambio di governo in Italia, né la benvenuta crisi dei neocon americani e un nuovo inquilino alla Casa Bianca. Servirà una revisione più profonda, l’individuazione di un senso del limite alla potenza e al consumo che oggi dettano le politiche dei ricchi. Altrimenti continueremo ad ascoltare parole in libertà cui non segue mai un fatto coerente. E nessuno potrà più essere creduto. L’ Balle spaziali «Io la guerra non la volevo». Parola di Silvio Berlusconi che «confessa» di aver fatto di tutto per convincere Bush a non invadere l’Iraq. Di fronte al crollo di consensi, «il presidente pacifista» è l’ultima trovata del Cavaliere SICILIA Anche negli Usa il disastro iracheno manda in crisi i vertici politici. Bufera sulla Casa bianca dopo l’incriminazione del braccio destro di Cheney per le false prove sulle armi di distruzione di massa. Il presidente è «rattristato» A PAGINA 3 ROMA MASSACRO DEL CIRCEO Unione nel caos primarie Senza casa in corteo «Ghira è morto nel ‘94» Borsellino: «Io, la novità» Diecimila contro gli sfratti Era latitante da trent’anni Regionali, la Margherita lancia il suo candidato per le primarie dell’Unione: l’ex di Forza Italia Latteri. Ds in mezzo al guado. Intervista a Rita Borsellino: con me l’antimafia per costruire A PAGINA 7 Caro affitti, speculazione e sfratti. La lotta per la casa ha un nuovo beniamino: il presidente del municipio X di Roma (Cinecittà) che requisisce gli alloggi sfitti. E un nuovo avversario: il sindaco di Bologna A PAGINA 8 Terrore a New Dehli, 55 morti smarriti per capire che cosa fosse successo ai loro congiunti scomparsi. Il primo ministro indiano, Manmohan Singh, ha parlato di un «atto di terrorismo». La polizia di Dehli indaga sui gruppi estremisti islamici. Immediata è stata la condanna del governo pakistano, a sottolineare il nuovo clima di distensione tra i due Paesi. Il governo di New Delhi ha invitato la popolazione a mantenere la calma, mentre venivano raf- CONTRORDINE ENERGIA I record del magico Giulio A Rimini convegno mondiale sull’esaurimento dei combustibili fossili, tra fonti alternative e ritorno al nucleare PICCIONI A PAGINA 4 EUROPA Wto alla prova Gli Stati uniti minacciano di far saltare i negoziati con l'Unione europea MERLO E PIANTA A PAGINA 10 Il signor ministro del disastro economico Giulio Tremonti aveva occupato la sua scrivania al ministero dell’economia nel 2001 con un’aria burbanzosa e scanzonata. Fece notare che aveva la scrivania di Quintino Sella (me’ cojoni!), mostrò alle compiacenti telecamere un grafico da cui risultava che il governo uscente gli aveva lasciato un buco spaventoso, e si accinse subito al suo lavoro di stregone dei numeri. Qualcosa nella magica pozione non ha funzionato, nemmeno le alchimie con- ALESSANDRO ROBECCHI tabili, le entrate una-tantum, i condoni. E quanto agli immobili pubblici messi in vendita, si sa che qui nessuno è fesso, e davanti ai cartelli «vendesi» gli italiani hanno fatto marameo. Le roboanti previsioni sul miracolo italiano venivano ritoccate ogni giorno. La stima del prodotto interno lordo calava a vista d’occhio, praticamente minuto per minuto, ritoccata di mezzo punto, di un punto, di un punto e mezzo. Gli italiani prima di uscire di casa guardavano le previsioni del tempo e la nuova stima del pil, tanto per sapere ogni mattina di quanto erano più poveri grazie alla nuova banda del buco, e di quanto si era sbagliato Tremonti. Come finì è noto, con le orecchie sempre più basse e l’aria sempre più afflitta, il Tremonti dovette andarsene, sfiduciato da Gianfranco Fini in vena di antagonismo. Meno di due mesi fa, lo stesso Gianfranco Fini – questa volta in vena di dadaismo – ac- forzate le misure di sicurezza anche nei centri commerciali di Bombay, capitale economica dell’India. La prima bomba è esplosa alle 17:40 ora locale, le 14:10 in Italia, nel quartiere di Paharganj, non distante dalla stazione centrale, una zona molto frequentata da turisti. Pochi minuti dopo le altre due detonazioni nel mercato di Sarojini Nagar e a Govindpuri, ambedue nella zona sud della città. A PAGINA 2 Pier Paolo Pasolini coglie a braccia aperte il ministro Tremonti, che torna alla scrivania di Quintino Sella sfrattando il reggente Siniscalco. Ed è subito record: una manovra finanziaria, poi una manovra correttiva, poi un’altra manovra correttiva. In pratica tre leggi finanziarie in due settimane. Per la seconda volta, accorata denuncia: è tornato e ha trovato un buco enorme – roba da portare i libri in tribunale – questa volta lasciato non dai comunisti, ma da Siniscalco. SEGUE A PAGINA 7 30 anni dopo la morte. Le foto rare e i testi da riscoprire del poeta che, solo, riusciva a vedere la bellezza e gli orrori dell’Italia in trasformazione 2 NOVEMBRE CON il manifesto MERCOLEDÌ SPED. IN ABB. POST. - 45% ART. 2 COMMA 20/BL. 662/96 - ROMA ISSN 0025-2158 Tre bombe al plastico hanno fatto strage in diversi mercati di New Delhi, gremiti di famiglie che facevano acquisti per prepararsi alle più importanti ricorrenze indù e musulmana dell’anno. Almeno 55 morti e centinaia i feriti. Corpi carbonizzati, sangue, vetri in frantumi e rottami fumanti sui luoghi della strage, dove i soccorritori si adoperavano per comporre cadaveri e aiutare i feriti. I superstiti si aggiravano IL MANIFESTO Petrolio fino a quando? La polizia annuncia la fine della caccia al neofascista Andrea Ghira condannato con Izzo e Guido per il massacro del Circeo nel ’75. Donatella Colasanti, che si salvò: «Non ci credo, è un depistaggio» A PAGINA 9 il manifesto domenica 30 ottobre 2005 FRONTE ORIENTALE 2 Linea di confine Funzionari pakistani ed indiani hanno avviato colloqui per l’apertura della Linea di controllo che divide in due il Kashmir per facilitare il passaggio degli aiuti verso le zone terremotate India, strage al mercato Nuovo attacco terroristico a New Delhi. Tre bombe esplodono fanno decine di morti U MARINA FORTI INVIATA A NEW DELHI na carneficina. Tre forti esplosioni, a pochi minuti una dall’altra, hanno seminato morte e panico nella capitale indiana New Delhi ieri pomeriggio, gettando l’India in un clima di emergenza - in un momento già complicato da vari disastri naturali e dalle faticose relazioni con il vicino Pakistan devastato dal terremoto del Kashmir. Il bilancio delle esplosioni è pesante, e non definitivo: ieri sera la polizia aveva recuperato 48 corpi; un’ottantina di persone erano ricoverate negli ospedali della città, di cui almeno 40 con ferite critiche, in molti casi mutilati. Scene terribili, tra rottamni e brandelli di corpi umani. Un attacco ben organizzato, in zone popolari e affollate. La prima esplosione è stata alle 17, 38 nella zona di Paharganj, a nord del centro, meno di 50 metri dalla stazione centrale nella vecchia Delhi, nota ai turisti aquattrinati per gli alberghi popolari e gli accoglienti tea-shops. Poi, intorno alle 18, nel mercato di Sarojini Nagar, e pochi minuti dopo in un autobus a Govinpuri, quartieri nella parte meridionale di New Delhi. In breve è stato il panico, calca, caos. La polizia ha subito dichiarato l’«allarme rosso», chiesto ai mercati di chiudere e ai cittadini di non scendere in strada, soprattutto evitare zone affollate. Troppo presto per attribuire responsabilità, presto anche le modalità precise dei tre attentati; ieri sera dal ministero dell’interno filtrava solo che l’esplosivo usato sarebbe Rdx, e che la polizia ha fermato 10 persone per interrogarle. E’ chiaro però che si tratta di un’unica operazione coordinata, e che l’obiettivo erano normali cittadini. L’India è alla vigilia di due importanti festività: il 1 novembre è la festa hindu di Divali, mentre il 4 o 5 novembre i musulmani celebrano Eid el Fitr, la fine del mese di Ramadan: entrambe le comunità celebrano con regali e banchetti, così che questi sono giorni di acquisti - tanto più un sabato pomeriggio. E i tre luoghi scelti dagli attentatori sono frequentati da persone di ogni casta o fede, in questo paese multireligioso e multiculturale. Nei primissimi commenti dunque né gli investigatori né i dirigenti del governo indiano azzardano attribuzioni di responsabilità. Il primo ministro Manmohan Singh, che era appena atterrato a Kolkata (Calcutta) quando si è avuta notizia degli attentati, ha deprecato il «cinico attacco contro innocenti cittadini» e ha lanciato un appello a tutte le comunità a mantenere la calma: «L’India non cederà al terrorismo», ha detto. Appelli simili ha lanciato la chief minister (capo del governo locale) di New Delhi, l’energica signora Sheila Dixit: «Chiedo alla cittadinanza di non farsi prendere dal panico». Sonia Gandhi, presidente del partito del Congresso e capo della maggioranza di centrosinistra che governa l’India: «Il terrorismo è una minaccia che dobbiamo combattere tutti insieme, tutto il mondo». L’India dunque è in clima d’emergenza. Ieri sera si è riunito un gabinetto di crisi, con il primo ministro Singh rientrato precipitosamente da Calcutta. Altre città indiane sono in stato d’allerta, e in particolare Mumbai (Bombay), che ha conosciuto simili atti di terrorismo in passato: l’ultimo due anni fa. Pochi hanno azzardato commenti, a parte le condanne venute anche dal governo del Pakistan, e dalla All Party Hurriyet Conferenze, «conferenza per la libertà» che riunisce partiti e for- ze sociali indipendentiste del Kashmir, lo stato montagnoso diviso tra India e Pakistan da una frontiera provvisoria risultato di una guerra – e devastato dal sisma dell’8 ottobre. Diverse ipotesi sono plausibili: la prima, esterna, rimanda ai gruppi armati islamici che combattono una guerra sporca proprio in Kashmir. Qui molti hanno rammentato l’attacco suicida al parlamento di New Delhi nel dicembre del 2001, attribuito a Lashkar e-Taiba e a Hizb-ul Mojaheddin, organizzazioni «jihadi» nate in Pakistan, che operano nel Kashmir indiano e hanno le retrovie nel territorio sotto controllo pakistano. Sono due dei gruppi messi fuorilegge in Pakistan nel 2002, direttori mariuccia ciotta gabriele polo grafici, antonella gesualdo videoimp.tiziana ferri dir. editoriale francesco paternò capored. tommaso di francesco roberto zanini politica, micaela bongi società massimo giannetti economia, antonio sciotto mondo, angela pascucci cultura, benedetto vecchi visioni arianna di genova consiglio d’amministrazione presidente valentino parlato amm.delegato emanuele bevilacqua consiglieri: astrit dakli,angela pascucci, bruno perini. dir. amm. guglielmo di zenzo dir. tecnico claudio albertini MA. FO. Ne parlano tutti come del miglior ospedale da campo della zona, e in ogni caso il primo allestito a Muzaffarabad, capitale del Kashmir sotto amministrazione pakistana. Non è il lusso, certo: ma in questa città di circa 400mila abitanti, disastrata dal terremoto dell’8 ottobre e affollata da profughi scesi dalle valli circostanti, l’accampamento della Jamaat ud Dawa è un punto di riferimento. Due container attrezzati a sale operatorie, una farmacia che pare ben fornita, una tenda-sala medicazioni, ampie tende militari come corsie. Mosche e fango sono ovunque, ma non ci sono molte alternative a Muzaffarabad, nella provincia montagnosa chiamata Azad («libero») Jammu e Kashmir, che non fa parte formale del Pakistan ma ne è una provincia di fatto. Il dottor Naeem Mughal, chirurgo ortopedico, è di qui e lavorava all’ospedale crollato con il terremoto. Ora dirige il lavoro di qualche decina di medici e infermieri volontari venuti da tutto il Pakistan - e non solo, da una sala operatoria vedo uscire due giovani medici indonesiani. «Bisogna ammetterlo, stanno facendo un lavoro impressionante», fa notare Tariq Naqash, giornalista conosciuto in questa regione: è il corrispondente di Dawn, un importante quotidiano pakistano, e membro della Commissione per i diritti umani in Pakistan. Nel caos dei primissimi giorni, quando le strade erano invase da frane e macerie, mancavano elettricità e telecomunicazioni, e l’intera amministrazione locale era sotto shock, in una città come Muzaffarabad molti hanno visto prima la solidarietà spontanea dei pakistani dei soccorsi organizzati. E nella disordinata corsa alla solidarietà, alcuni gruppi islamici si sono fatti avanti per primi, e in modo organizzato ed efficiente, riconosce Naqash: «Sono stati i primi a pensare alle barche per raggiungere località isolate o traghettare le persone rimaste bloccate dal lago artificiale formato da una frana, prima che arrivasse l’esercito». Così ora sulla sponda sinistra del Neelum, opposta al centro di Muzaffarabad punteggiato di macerie, ecco le tendopoli della fondazione Al Khidmat, braccio assistenziale della Jamaat e-Islami, il più antico partito fondamentalista del subcontinente in- dir. responsabile sandro medici il manifesto coop editrice a r.l. redazione, amministrazione, 00186 roma, via tomacelli, 146 fax 06/68719573, tel. 06/687191 e-mail: [email protected] e-mail amministrazione [email protected] sito web: http://www.ilmanifesto.it telefoni interni 06/68719.1 576 -579 segreteria -578 lettere ma ancora attivi sotto altri nomi. Lashak eTaiba, attraverso l’organizzazione parente (e non illegale) Jamaat ud Dawa, oggi è tra le organizzazioni islamiche impegnate nei soccorsi nelle zone terremotate del Kashmir pakistano, in modo efficente e molto visibile (come raccontiamo in questa pagina). Una responsabilità di questi o altri gruppi «jihadi» sarebbe un motivo di grave crisi tra India e Pakistan, che dopo il 2001 avevano sfiorato la guerra – ma nel 2004 hanno avviato un processo di dialogo. Ma per ora nessuno si sbilancia. Proprio ieri una delegazione del governo indiano era nella capitale pakistana Islamabad per discutere degli annunciati (ma non realizzati) varchi da aprire lungo la supermilitarizzata frontiera di fatto in Kashmir, in modo da permettere alle famiglie terremotate di riunirsi: e iIeri sera sia New Delhi, sia Islamabad hanno badato bene a non fare collegamenti tra i colloqui e gli attentati nella capitale indiana. Poi resta l’ipotesi interna, indiana, il «mondo sotterraneo» di personaggi come il Dawood Ibrahim riconosciuto responsabile degli attentati di Bombay nel 2005, da lunghi anni latitante, simbolo di collegamenti misteriosi tra mafia, traffico d’armi e islamismo armato. Ma ieri sera una Delhi sotto shock preferiva non fare ancora ipotesi. Kashmir, soccorsi in nome dell’islam In alto, la scena New Delhi dopo gli attentati di ieri. In basso, soccorsi ai terremotati del Kashmir (foto ap) diano (oggi fa parte della coalizione di partiti religiosi che occupa un terzo dei seggi nel parlamento del Pakistan e dà il suo appoggio esterno al governo del presidente Parvez Musharraf). E poi le tende della Jamaat ud Dawa, parente della Lashkar e Taiba, uno dei più noti gruppi islamici «militanti» (nel senso di armati) che hanno base in territorio sotto controllo pakistano e alimentano la guerriglia anti-indiana in Kashmir: i cosiddetti jihadi. «Questo è solo uno dei nostri campi», dice Haji Javed ul Hassan, un signore dal- Solidarietà estremista I gruppi radicali pakistani guidano le operazioni di aiuto nelle zone devastate dal terremoto. E, supplendo alla latitanza dello stato, guadagnano consensi 690 amministrazione, 310 archivio, 475 politica, 520 mondo, 540 culture, 545 talpalibri, 550 visioni, 588 società, 586 economia milano via pindemonte, 2 - 20129 02/77396.1, 77396.210 amm. 02/77396230.240 red. fax 02/7739.6261 firenze red. via maragliano, 31a tel. 055/363263 Fax 055/354634 napoli red. vico s. Pietro a Majella, 6 tel. 081/4420782 [email protected] l’imponente barba brizzolata e il copricapo pashtoon della frontiera afghana, presidente delle operazioni di soccorso della Jamaat ud Dawa nel distretto di Muzaffarabad. In questo accampamento di tende militari sono ospitate 50 famiglie, circa 700 persone, più qualche centinaio che si presenta per il riparo notturno. Accanto alla tendopoli c’è il campoospedale in cui mi trovo. Altri campi sono a Bagh (altra cittadina del Kashmir pakistano colpita dal sisma) e a abbonamenti postali per l’Italia annuo euro197 semestrale euro 103 i versamenti c/c n.00708016 intestato a «il manifesto» via tomacelli 146, 00186 roma iscritto al n.13812 del reg.stampa, copie arretrate Tel. 06/39745482 [email protected], tribunale di roma stampa litosud via di tor sapienza 172 roma, tel. 06/2280138 Sigraf spa via Vailate 14, Calvenzano Bergamo tel. 0363/860111 aut. a giornale murale reg. del trib. di roma n.13812 Sarprint - Macomer Sts - Catania concessionaria esclusiva pubblicità Poster pubblicità Srl Sede legale, Direz. Generale e Operativa: Balakot, ad appena 50 chilometri da qui ma in territorio pakistano. «Ora in queste tre città stiamo organizzando villaggi più stabili, un centinaio di tende ciascuno, scuola, moschea: noi forniremo cibo e servizi». I volontari vengono da tutto il Pakistan, aggiunge, inclusi circa 400 studenti della rete di madrasah (scuole coraniche) della Jamaat ud Dawa. Quali in particolare? Il signore col barbone cita quella di Muridke, il paesetto alle porte di Lahore, in Punjab, dove è nata Lashkar e-Taiba e tuttora risiedono i suoi leader – e poi quelle di Karachi giù sulla costa, Peshawar (la capitale della Provincia della frontiera di Nordovest dove la coalizione di partiti religiosi ha il governo locale)... E tutto questo – tende, ospedale da campo, convogli di aiuti – si regge solo sulle donazioni private «raccolte in Pakistan e tra i pakistani espatriati», dice orgoglioso il signor ul Hassan. La presenza di questi soccorritori crea qualche imbarazzo al governo pakistano: il presidente Musharraf si è sentito in dovere di dichiarare più volte alle tv occidentali che «gruppi illegali non saranno ammessi a unirsi ai soccorsi». In Pakistan Lashkar e Taiba è fuori legge dal gennaio del 2002, un mese dopo essere stata accusata di aver organizzato un attacco al parlamento indiano a New Delhi, episodio che aveva portato India e Pakistan sull’orlo della guerra. Da allora più volte il presidente pakistano Parvez Musharraf ha reiterato decreti che mettono fuori legge ormai 11 gruppi «jihadi»: i quali però restano attivi, e in modo neppure troppo sotterraneo, con altri nomi. Non è un segreto che in territorio sotto controllo pakistano le organizzazioni jihadi hanno ancora campi di addestramento e retrovie. Inoltre, diversi mojaheddin fatti prigionieri in Afghanistan nell’ultimo anno hanno detto aver ricevuto addestramento in campi sulle montagne di Mansehra, 50 chilometri da qui ma in Pakistan a tutti gli effetti, zona ora terremotata. 00186 roma, Via Tomacelli 146 tel. 06/68896911 fax. 06/68308332 indirizzo e-mail [email protected] Sede Milano 20135, via anfossi, 36 tel. 02/5400001 - fax02/55196055 tariffe delle inserzioni pubblicità commerciale: euro 300 a modulo (mm. 50x24), ed. locale euro 86 a modulo- cinema ed. locale euro 124 a modulo, pubblicità finanziaria, redazionale, legale S U D - E S T Deraglia treno, più di cento morti E’ di oltre cento il numero compelssivo dei morti accertati in seguito alla sciagura ferroviaria avvenuta ieri nello stato sudorientale indiano dell’Andhra Pradesh, dove un treno passeggeri è deragliato nei pressi della località di Velugonda, a una trentina di chilometri dalla capitale statale Hyderabad. Dalle trenta alle quaranta persone sono inoltre disperse, e si teme che siano state trascinate vie dalle acque in piena, fuoriuscite da un vicino bacino idrico a causa delle eccezionali precipitazioni dei giorni scorsi, la cui pressione ha provocato il crollo di un piccolo ponte, all’origine del sinistro. Si tratta di cifre che, sommate, corrispondono sostanzialmente al bilancio ipotizzato già poco dopo la tragedia da fonti governative. Più di un centinaio anche i feriti ricoverati negli ospedali della zona; ulteriori 1.100 persone circa, tra quanti si trovavano sul convoglio, hanno invece poi potuto proseguire il viaggio. L’India è attraversata da una delle più estese reti ferroviarie del mondo: circa 110.000 chilometri di binari, su cui viaggiano ogni giorno 14.000 treni, molti dei quali obsoleti. Nonostante l’introduzione di molti sistemi di controllo elettronico, la maggior parte della segnaletica sulla rete ferroviaria è ancora azionata dalle persone, per cui gran parte degli incidenti avvengono per errori umani. Jamaat ud Dawa, reincarnazione di Lashkar e-Taiba, non è illegale ma è sulla «watch list» del governo, una lista di sorveglianza, ha precisato il presidente Musharraf. Così pure Al-Rasheed Trust, fondazione umanitaria a più riprese accusata di incanalare fondi verso organizzazioni combattenti o al-Qaeda, senza che la cosa fosse mai davvero provata. Sono le sigle citate dal presidente Musharraf l’altro giorno in un’intervista al britannico Financial Times: «Li abbiamo ammoniti, se vediamo che si imbarcano in qualsiasi attività diversa dall’assistenza li bandiremo dalle zone terremotate». Ha però ammesso che hanno riempito un vuoto: «Stanno facendo un buon lavoro, non possiamo cacciarli». «Organizzazioni bandite e screditate stanno riguadagnando legittimità attraverso il lavoro di assistenza», si indigna in un editoriale Najam Sethi, direttore del quotidiano Daily Times. Come distinguere, del resto, tra assistenza e propaganda? «Non sono mica tutti guerriglieri», nota Tariq Naqash: «Sono ingegneri, medici, gente dedicata, anche se certo hanno tutti la barba», il segno di un islam ultraortodosso. «Loro sono della scuola wahabi, ma qui curano senza distinzioni. E’ ovvio che questo lavoro assistenziale avrà un impatto futuro: stanno facendo un’ottima impressione». Prima del terremoto questi gruppi non erano così visibili in Kashmir, spiega il giornalista. Erano più discreti: Jamaat ud Dawa aveva una rete di moschee e scuole diretta proprio da Haji ul Hassan, pakistano trasferito in Kashmir. Altri gruppi combattenti, come Hizb-ul Mojaheddin, erano presenti nei campi di sfollati della «linea di controllo», la frontiera di fatto con lo stato di Jammu e Kashmir sotto sovranità indiana: ondate di sfollati giunti dal 1990, quando la ribellione separatista è sfociata in una guerra strisciante. Ora, con i soccorsi ai terremotati, i jihadi mostrano un’altra faccia. euro 310 a modulo, ed. locale euro 150 finestra di prima pagina euro 3.600 formato mm 78x89 formato pag. intera mm. 323x511 posizione di rigore: più 20%, formato doppia pag: mm. 664x511 Diffusione, contabilità, rivendite, abbonamenti: REDS Rete Europea distribuzione e servizi Viale Bastioni Michelangelo 5/A00192 - Roma Tel. 06/39745482 Fax 06/39762130 certificato n° 4725 del 28-11-2001 Tiratura prevista 84.500 domenica 30 ottobre 2005 il manifesto GUERRA Accanto, l’arrivo a Nassiriya di un battaglione dell’esercito italiano. A destra George Bush e Silvio Berlusconi. Foto Ap 3 Superata quota 2010 Dopo avere toccato, martedì, la soglia delle 2000 perdite, il numero dei militari americani morti in Iraq e nella guerra contro il terrorismo continua ad aumentare: secondo i computi dei media, il totale delle perdite è già superiore a 2010. Show pacifista a palazzo Chigi N « ANDREA COLOMBO ROMA on sono mai stato convinto che la guerra fosse il sistema migliore per rendere democratico un paese e farlo uscire da una dittatura anche sanguinosa». Parole che ogni pacifista condividerebbe. Parole, o almeno concetti, che molti, negli ultimi anni, hanno probabilmente adoperato per spiegare il loro rifiuto della guerra irachena e della politica estera del governo Berlusconi. Parole che adesso, ineffabile, ripete proprio lui, il premier italiano, il principale alleato di Bush nell’Europa continentale, il capo di un governo che in Iraq ha inviato i suoi soldati anche a costo di arrivare a una crisi rovinosa con i principali partner europei. E non si ferma qui il cavaliere. Intervistato da Rula Jebreal per la puntata di Omnibus che andrà in onda lunedì prossimo sul La 7 concede rivelazioni a dir poco sconcertanti. «Ho tentato a più riprese di convincere il presidente americano a non fare la guerra. Ho tentato di trovare altre vie anche attraverso un’attività congiunta con Gheddafi. Non ci siamo riusciti e c’è stata l’operazione militare, un’operazione I R A Q Strage a Baquba Uccisi 3 marines Un’automba è esplosa ieri pomeriggio in un mercato di Huwaider, un villaggio vicino a Baquba, circa sessanta chilometri a nord di Baghdad. Almeno 21 persone sono morte e altrettante sono rimaste ferite nell’attentato avvenuto poco prima della fine del digiuno di ramadan. Secondo la polizia il mezzo utilizzato per compiere la strage era un furgone aperto fatto esplodere nella strada principale della cittadina, dove si affacciano la moschea e il mercato. E tre soldati americani sono stati uccisi e quattro sono rimasti feriti in due distinti attacchi a Baghdad e a nord della capitale irachena. Secondo quanto riferito in un comunicato dall’esercito statunitense, due militari sono morti nell’esplosione di un ordigno al passaggio della loro pattuglia a sud di Baghdad. Poco prima, l’esercito aveva annunciato la morte di un soldato, morto in seguito alle ferite riportate nell’esplosione di una mina a sud-ovest di Baji, 300 chilometri a nord della capitale. Nello stesso attacco erano rimasti feriti altri quattro militari. Sale così a 2010 il numero di caduti statunitensi dall’inizio del conflitto, nel marzo 2003. Le vittime civili irachene sono, a seconda delle stime, tra 30.000 e 100.000. Berlusconi: «Ero contro la guerra in Iraq. Ho tentato invano di convincere Bush e Blair a non attaccare» che io ritenevo si dovesse evitare». Non una volta, negli ultimi anni, Silvio Berlusconi ha permesso a questi sentimenti e a queste opinioni di trapelare. Non nella miriade di dichiarazioni con cui ha bombardato gli italiani. Non nelle sue apparizioni televisive. Soprattutto non in parlamento, dove, al contrario, ha sempre difeso strenuamente le ragioni degli americani, la missione pacifica e civilizzatrice avviata da Bush e nella quale ha lui, Berlusconi, ha impegnato il suo paese. Quanto agli imperscrutabili motivi che lo hanno spinto a non dar seguito a tanto lodevoli giudizi, a non assumere la stessa posizione presa dalla Francia, dalla Germania e dalla Spagna di Zapatero, quelli restano misteriosi. Berlusconi sorvola sul particolare. Non spiega, non illustra. Passa invece a rivendicare una sostanziale identità tra il suo governo e quello laburista di Tony Blair. «Blair non è il leader dell’Ulivo mondiale. Non c’è nulla nella sua politica e nella mia che sia in contrasto». Sarà pure propa- ganda rivolta agli elettori moderati che apprezzano il nipotino laburista di Margaret Thatcher, ma per una volta è purtroppo precisa, per nulla esagerata. A conti fatti, si direbbe che la sola differenza tra il capo della sinistra inglese e quello della destra italiana è che il primo ha voluto a ogni costo, con Bush, l’impresa irachena, mentre il secondo ha fatto il possibile per impedirla, sia pur modestamente, senza dirlo a nessuno, con discrezione da gran signore. La trovata del capo lascia palesemnte sbalordito Gianfranco Fini, che si affanna nel cercare un impossibile recupero. Perché tanto stupore?, sembra dire: «Non è la prima volta che Berlusconi ricorda che cercammo fino all’ultimo di indurre Bush e Blair a non attaccare l’Iraq». E comunque, puntualizza subito dopo: «Gli italiani non hanno partecipato alla guerra, le truppe sono state inviate quando la comunità internazionale si pose il problema di come sconfiggere il terrorismo e aiutare le autorità irachene a ritrovare libertà e democrazia. Bisogna assumersi le proprie responsabilità». Le frettolose precisazioni di Fini si spiegano facilmente. Va da sé che un’opposizione quasi divertita passi all’attacco e inchiodi il premier alle sue vistose contraddizioni: «Che succede? Finalmente Berlusconi si è accorto che è una guerra sbagliata? Allora lo dica...», se la ride Prodi. Da Atene Bertinotti duetta con Lafontaine. «Il paradiso si rallegra per un peccato di cui ci si pente», ironizza il leader tedesco. «Ma non nel perdurare del peccato», infierisce il segretario del Prc. In effetti il tentativo di Fini di attenuare l’impatto delle dichiarazioni del premier difficilmente centrerà l’obiettivo. Ma è altrettanto difficile pensare che quella di Berlusconi sia stata solo goffaggine. E’ assai più probabile che il premier, a pochi metri dalle elezioni, tenti un difficile recupero d’immagine, prensendo di petto, con l’abituale e a modo suo ammirevole faccia di bronzo, una delle sue scelte più criticate dagli elettori. Ed è anche possibile che, per lo stesso motivo, il premier italiano si stia preparando a una qualche mossa a sorpresa nel colloquio di lunedì prossimo con Bush, a Washington. Cia-gate, Bush sceglie il silenzio Nel suo discorso del sabato, il presidente non fa accenni all’incriminazione di Lewis Libby FRANCO PANTARELLI NEW YORK Lavorate come se niente fosse e state alla larga da Lewis Libby. La consegna ai funzionari della Casa bianca è stata data da Andrew Card, il capo dello staff di George Bush, già nel pomeriggio di venerdì, dopo che lo special prosecutor Patrick Fitzgerald aveva incriminato il cosiddetto «alter ego» del vice presidente Dick Cheney. Sicuramente il mite Card non intendeva che quella consegna dovesse valere anche per Bush in persona, ma questo è esattamente ciò che è accaduto. Tutti si aspettavano che ieri mattina, nel suo consueto messaggio radiofonico del sabato, dal presidente sarebbe venuta una «risposta» un po’ più articolata di quella generica di venerdì sera, e invece lui non ha fatto il minimo accenno a ciò che era accaduto. Ha parlato della guerra in Iraq, della «pietra miliare» costituita dal voto sulla nuova costituzione, dei «grandi progressi» fatti e della necessità di «mantenere la rotta». Quanto al fatto che nel frattempo la cifra simbolica di duemila soldati americani morti che lo aveva «colto» l’altro giorno proprio durante un discorso simile, ieri era già arrivata a 2010, il presidente ne ha parlato solo per ripetere la sua teoria che un cultore dell’umor nero tempo fa ha definito tempo fa «della moltiplicazione dei morti». Il Joseph Wilson e la moglie (ap) fatto cioè che bisogna continuare a fare «sacrifici» affinché i morti in Iraq non abbiano perso invano la loro vita. Per il resto nulla. Il terremoto dell’altro ieri non c’è mai stato. Se questa è la strategia che lo «scampato» Karl Rove gli ha suggerito, non sembra vincente. Non c’era naturalmente il solito sondaggio a dire se la «linea del silenzio» avesse funzionato o no, ma ieri non si trovava in giro nessuno che non si dicesse «deluso» dal fatto che Bush avesse fatto finta di nulla. E a proposito di Rove, sul fatto che lui sia rimasto immune da quella che tutti chiamano la «prima fase» del lavoro di Fitzgerald cominciano già le indiscrezioni. Secondo una di esse, che il Washington Post dice di avere avuto da ben tre fonti diverse, il «cervello di Bush» ha evitato l’incriminazione, almeno per ora, grazie alle ulteriori informazioni che avrebbe fornito allo special prosecutor durante febbrili negoziati dell’ultima ora. Il che vuol dire che ora Fitzgerald dispone di altro materiale su cui lavorare. E questo è proprio lo scenario peggiore per Bush, che rischia di ritrovarsi «tallonato» dagli sviluppi dell’inchiesta in corso per chissà quanto tempo ancora. Uno di questi sviluppi, oltre tutto, è stato già fissato, per così dire, dall’incriminazione di Libby, che ovviamente deve sfociare in un processo. Che farà, l’alter ego di Cheney, con la prospettiva di trenta anni di prigione? Cercherà di patteggiare per non finire in cella? E che cosa offrirà in cambio? Quali cose potrebbe mai raccontare? Queste domande sono probabilmente destinate a tormentare, nel prossimo futuro, Cheney e lo stesso Bush. Oltre tutto proprio venerdì pomeriggio, dopo che Fitzgerald aveva concluso la sua lunga conferenza stampa-requisitoria, qualcuno (che poi lo ha raccontato al New York Times) lo ha visto davanti allo studio di James Sharp, cioè l’avvocato personale del presidente. Né Sharp né Fitzgerald, com’è suo costume, hanno voluto dare spiegazioni, ma l’idea è che ci siano in corso dei negoziati riguardanti il coinvolgimento del presidente nell’inchiesta. Bush su questa storia è stato interrogato l’anno scorso. Non si sa cosa gli sia stato chiesto e cosa ab- bia risposto, ma si sa che non era sotto giuramento, e infatti quell’incontro fu tecnicamente definito «intervista». Anche Cheney ne ebbe a suo tempo una, ma quando Fitzgerald decise di vederlo ancora, l’intervista era stata trasformata in «interrogatorio». Oggi la differenza fra le due condizioni è chiara. La prima volta Cheney disse di non avere idea di chi fosse Valerie Plame Wilson, l’agente della Cia di cui è stata svelata l’attività. La seconda volta, sotto giuramento, ammise di averlo saputo e che a dirglielo era stato lo stesso boss della Valerie, l’allora capo della Cia George Tenet. Insomma le premesse per un lungo «tormentone» capace di scuotere giorno dopo giorno la vita della Casa bianca ci sono tutte. L’unica consolazione (forse) per Cheney e Bush sta nel nome del giudice federale del District of Columbia, dove si trova Washington, che dovrà istruire il processo a Lewis Libby. Si chiama Reggie Walton e non è un precisamente un «prevenuto» nei confronti dell’amministrazione. A nominarlo è stato infatti proprio George Bush, basandosi sul fatto che aveva lavorato con suo padre (come assistente di Walter Bennett, l’allora «zar» della lotta alla droga) e prima ancora era stato messo da Ronald Reagan a capo di un’altra sezione dello stesso tribunale. «La mia filosofia è di essere equo con entrambe le parti in causa», ha detto. FALSO DOSSIER Accuse al Sismi Palazzo Chigi nega ma non basta ROMA Toni sempre più accesi sul versante italiano del Niger-gate. Repubblica insiste nelle accuse al governo Berlusconi e al direttore del Sismi, Nicolò Pollari, in relazione al falso dossier sul tentativo di Saddam Hussein di comprare uranio nigerino per dotarsi dell’arma atomica, usato da Bush per giustificare la guerra. Nuovi argomenti vengono dal New York Times, secondo il quale l’Fbi non ha affatto chiuso le indagini sulla «manipolazione». E ora tutto ruota attorno a un incontro del 15 ottobre 2002 tra Pollari e Stephen Hadley, allora vice di Condoleezza Rice che era consigliere per la sicurezza nazionale: il direttore del Sismi, davanti a numerosi funzionari avrebbe confermato a Hadley, a voce, il contenuto del «papocchio» sull’uranio nigerino, confezionato da loschi personaggi più o meno legati al Sismi e da un funzionario dell’ambasciata del Niger a Roma. Da Palazzo Chigi un’altra smentita, la quinta in due anni. L’incontro, «programmato e protocollarmente gestito dalla Cia è avvenuto tra l’allora consigliere per la sicurezza nazionale, Condoleezza Rice, e il direttore del Sismi, Nicolò Pollari, alla presenza di una delegazione italiana e di una delegazione Usa della quale faceva parte anche Hadley». Secondo la nota vennero trattate «problematiche di scenario internazionale e di cooperazione tra intelligence dei due Paesi e non vi è stato alcun riferimento, diretto o indiretto, a problematiche concernenti la questione Iraq-Niger». «I reiterati tentativi di accreditare una versione diversa - si legge ancora nel comunicato - sono, conclamatamente falsi e offrono uno spunto interpretativo delle parole del portavoce del National security council, Frederick Joones, il quale interloquendo con i giornalisti di un quotidiano italiano ha testualmente affermato: ‘Ciò che è stato fatto delle mie dichiarazioni è un modo disonesto e scorretto di fare giornalismo’». Al di là delle responsabilità, tutt’altro che accertate, del generale Pollari, il governo italiano non ha ancora spiegato perché non smentì pubblicamente il falso dossier sull’uranio nigerino, e non solo la sua paternità, fin dal discorso in cui Bush lo utilizzò per giustificare l’aggressione all’Iraq. E l’opposizione sta a guardare anziché costringere Berlusconi a chiarire. Pollari, per quanto gli compete, sarà ascoltato su sua richiesta il 3 novembre dal Comitato parlamentare di controllo sui servizi. Il refusenik britannico ribalta le accuse sul premier Blair LONDRA Processo al medico della Raf che s’è rifiutato di servire in Iraq: sono innocente, illegale è rovesciare un governo con le armi NICOLA SCEVOLA LONDRA La corte marziale dell’esercito di Sua Maestà ha aperto il processo contro il primo ufficiale delle forze armate britanniche che rischia la prigione per essersi rifiutato di combattere in Iraq. Davanti ai giudici militari, questa settimana il medico della Royal Air Force, capitano Malcolm Kendall-Smith, si è dichiarato innocente, ribadendo la sua opposizione a servire in una guerra che ritiene «manifestamente illegale». Lungi dall’essere un obiettore di coscienza che ripudia l’intervento armato su basi morali, Kendall-Smith è un veterano pluridecorato che ha già partecipato ad altre campagne in Afghanistan e in Iraq. Ciò che ha spinto il capitano a disobbedire all’ordine di andare alla conquista della Mesopotamia, infatti, non è l’uso della forza in generale, ma l’illegittimità dell’ordine specifico di invadere un paese per cambiarne il governo. Dopo aver attentamente studiato il parere legale espresso dal mini- stro della giustizia britannica Lord Goldsmith - il quale metteva in dubbio la legalità dell’intervento Kendall-Smith si è convinto di avere le carte in regola per disobbedire. «Il mio cliente si è dichiarato innocente sulla base del fatto che la guerra è manifestamente illegale», spiega al manifesto Justin Hugheston-Roberts, l’avvocato che difende il capitano della Raf. Espresso alla vigilia dell’invasione e inizialmente tenuto segreto agli stessi ministri del governo, l’autorevole parere del guardasigilli britannico è stato reso noto solo durante la campagna elettorale del maggio scorso. Dopo che alcune parti del parere sono trapelate sulla stampa britannica, il primo ministro Tony Blair si è trovato in pratica costretto a pubblicare il documento. In questo, Lord Goldsmith avvertiva esplicitamente l’inquilino di Downing street che la sostituzione forzata del regime di Saddam Hussein non era uno scopo da potersi considerare legale secondo le legislazione internazionale. Per rimanere nel solco della legge, la missione avrebbe dovuto, infatti, limitarsi a togliere al tiranno di Baghdad quelle famose armi di distruzione di massa che non ha in realtà mai posseduto. Oltre ad affermare che la dottrina dell’intervento preventivo «non esiste o non è riconosciuta dall’ordinamento internazionale», nel documento Lord Goldsmith avvertiva senza mezzi termini che «il cambio di regime non può essere l’obiettivo di un’azione miliare». Quel che è accaduto successivamente in Iraq la dice lunga sul tipo di considerazione in cui Blair tiene l’opinione del suo esperto di giustizia. Oggi, quello stesso parere ignorato due anni fa, potrebbe tornare ad imbarazzare il governo e a servire per evitare la galera al primo ufficiale «refusenik» dell’esercito britannico. Gi altri soldati in passato si sono rifiutati di combattere in Iraq, ma erano tutti riservisti non operativi. Kendall-Smith, invece, è il primo fra i militari in servizio attivo a prendere una simile decisione. Al momento del suo rifiuto, nel giugno scorso, il medico trentasettenne lavorava nella base dell’aeronautica di Kinloss. Da allora è stato sospeso, ma continua a vivere all’interno della sua caserma. «Justin è di ottimo umore e trascorre il suo tempo leggendo e preparandosi per affrontare la causa», assicura il suo legale. Il processo si è aperto in un clima di crescente disagio da parte dei militari verso la campagna in Iraq. L’impossibilità di stabilire una data certa per il rientro delle truppe e l’aumento degli attentati da parte della resistenza irachena contro i soldati britannici in un settore – quello meridionale - rimasto relativamente calmo per lungo tempo, aggiungono incertezze alla missione e contribuiscono a fiaccare il morale delle forze armate. Per evitare quindi di creare un altro martire a favore degli oppositori della guerra, i giudici militari potrebbero cercare di chiudere in sordina il processo a Kendell-Smith, evitando una condanna al carcere. L’udienza preliminare che si è tenuta questa settimana all’interno della base militare di Bulford Camp nel Wiltshire è stata celebrata a porte chiuse, ma, a partire da marzo, le sedute diventeranno pubbliche, dando così la possibilità al movimento contro la guerra di sfruttare il caso per riaprire il dibattito sull’illegalità dell’intervento. il manifesto domenica 30 ottobre 2005 ENERGIA 4 Petrolio facile, addio Un convegno mondiale a Rimini, organizzato dal Centro Pio Manzù, decreta la fine dell’era del greggio a basso prezzo. L’unica incertezza: il «picco» della produzione è già in atto o si verificherà tra qualche anno? L’orizzonte limitato del petrolio ove diavolo andremo a finire, tutti noi? Il paradiso è fatto di business as usual, consumi crescenti, aumento della produzione di combustibili fossili ed emissione di gas serra in quantità devastanti. L’inferno, al contrario, ha il volto della carenza di energia, che si porta dietro la decrescita economica, la crisi, le guerre per il controllo delle riserve, la disoccupazione di massa e la fame. Punti di vista opposti, incompatibili, ma, al dunque, in qualche misura catastroficamente sovrapponibili. Che si sono trovati per la prima volta riuniti intorno allo stesso tavolo – in Italia, almeno – al convegno mondiale in corso a Rimini, promosso dal Centro Pio Manzù. Questa è la novità principale. Fin qui, infatti, nel dibattito italia- Geologi contro economisti e ingegneri al convegno sulle priorità energetiche globali da sottoporre alle scelte dei «decisori politici». Ma il futuro è grigio no aveva vissuto una sola posizione: il petrolio non mancherà mai, o almeno non per i prossimi 40 anni. Quella opposta aveva trovato spazio solo in ristretti circoli scientifici e su pochi giornali (il manifesto, più recentemente Liberazione, qualche articolo sparso). Il tabù è stato rotto. Ora si può – si deve – prendere in seria considerazione l’ipotesi, calcolabile, che i combustibili fossili stiano arrivando molto vicini al «picco» della loro produzione. Che non significa «fine», ma solo «massimo della produzione possibile». Ed è la situazione che sembra in atto sui mercati petroliferi, dove –ormai da mesi – «la produzione non riesce più a tener dietro alla domanda». Facendo così salire il prezzo del greggio alle stelle. Hermann Franssen, presidente dell’International Energy Associates, ex economista capo della Iea (Ocse), ha fatto da mediatore tra le previsioni opposte di Colin Campbell – geologo, per 40 anni al lavoro con Texaco, Bp, Amoco, Fina, ora responsabile dell’Association for the Study of the Peak Oil (Aspo) – e altri esperti di assoluto valore, come Marcello Colitti, per cui invece «è solo questione di prezzo e di investimenti». La posta in gioco è orientare le scelte dei «decisori politici»: le immense risorse finanziarie che possono essere investite per soddisfare il crescente bisogno di energia, come vanno investite? Esponenti di entrambe le tendenze – a riprova del fatto che la divisione non corrisponde a quella po- litica fra destra e sinistra) hanno rispolverato l’opzione nucleare. Anche perché le «fonti rinnovabili» sono un po’ da tutti considerate belle, ma ancora «troppo costose» e comunque «con un rendimento troppo basso» perché possano sostituire fossili o nucleare. Su tutta la discussione, però, pesa l’inconoscibilità del dato fondamentale: quanto petrolio è rimasto sottoterra? E in che proporzione è con la quantità che abbiamo già consumato? Paesi produttori e compagnie petrolifere, sul punto, custodiscono i dati come un segreto militare. Anche se ora, dice Campbell, alcune delle prime, cominciano a rilasciare «dati veri». Per niente allegri. Ma non è stato affrontato solo l’aspetto« fisico». anche economia e fi- «Speculazione, non scarsità» Il punto di vista di un dirigente storico di Eni e Agip FR. PI. Marcello Colitti ha i tratti del grande vecchio un po’ alla Einstein: abbigliamento «fuori ordinanza», cappello a larghe tese, un papillon multicolore e un’innata comunicativa che lo rende immediatamente simpatico. Ha lavorato all’Eni dal 1956, è stato presidente dell’Enichem e vicepresidente dell’Agip. E’ uno dei consulenti più ascoltati nel settore del petrolio. I recenti turbamenti del mercato, secondo lui, dipendono dal «ruolo centrale assunto dai mercati finanziari» anche nel settore energetico; organismi che sono solo «alla ricerca dell’utile immediato e che stanno prendendo il ruolo che prima era dello stato». Fino alla follia degli analisti che considerano «virtuose» le società che «con i profitti fatti ricomprano le proprie azioni per sostenerne i corsi, invece di procedere con nuovi investimenti produttivi». In tal modo, dice, «il denaro non va a salari e investimenti, ma al risparmio finanziario»; così «la produzione e la domanda ristagnano». Nei mercati «emergenti», ricorda, sono finiti «310 miliardi di dollari»; ma per «il 75% sono stati investiti in azioni». La speculazione finanziaria, insomma, ha gonfiato i corsi del mercato petrolifero, considerato «prima poco redditizio», creando il paradosso per cui le società che meno investono nella produzione accumulano ritorni e profitti altissimi. E’ «una situazione che nessuno controlla più, nemmeno gli Usa». E fa degli esempi chiarissimi. «La British Petroleum ha nominato un amministratore delegato che viene dai telefoni. Non sa nulla di petrolio, è evidente, ma decisamente sa molto di mercati finanziari». Tuttavia non vede problemi «fisici» sul mercato, né accetta l’idea che si stia in prossimità di un «picco» della produzione petrolifera. «E’ solo questione di prezzo e di investimenti», perché «la produzione è vicina alla capacità massima», specie se si guarda «alla fase della raffinazione». Ma su questo versante numerosi altri mutamenti si sono verificati nel corso degli ultimi 30 anni. I u l t i m e AA.VV. “GE2001” per avere tutte le informazioni sui cd, gli artisti, i concerti, e molto altro consultate musica.ilmanifesto.it CAMPBELL Compilation nata da un progetto di Supportolegale, sostiene finanziariamente la segreteria del Genoa Legal Forum. Il progetto è stato reso possibile grazie alla disponibilità di SUBSONICA, ASSALTI FRONTALI, ONDEBETA, MEGANOIDI, PUNKREAS, MEG, CLUB DOGO, PENTOLE&COMPUTER, BANDABARDO’, TETES DE BOIS, 24 GRANA, PSEUDOFONIA, RISERVA MOAC, FOLKABBESTIA, ELIO E LE STORIE TESE, RATTI DELLA SABINA, SIKITIKIS I cd sono in vendita presso le librerie La Feltrinelli, RicordiMediastores, il libraccio e Melbookstore. Per informazioni su altri punti vendita e per acquistare con carta di credito La produzione è ormai vicina al suo limite massimo FR. PI. In alto, Colin Campbell. Il disegno è opera di Pulika Colin Campbell, geologo irlandese da sempre nel settore petrolifero, ha la pazienza di chi crede senza mediazione «nei fatti» ed è abituato da anni a veder sbeffeggiate le proprie previsioni dagli economisti e «dagli ingegneri petroliferi». Salvo poi prendersi grandi soddisfazioni, come quando un altro professore, nella sala del Teatro Novelli, si alza per ricordare che «nel 1996 lei disse che nel 2005 il prezzo del greggio sarebbe arrivato tra i 70 e i 100 dollari». Come sappiamo, è arrivato a 71 un mese fa. Non è l’unica, e ricorda quando, da giovane «esploratore» per conto della Bp, trovò una promettente area all’interno della Colombia; la compagnia preferì investire per cercare il greggio in zone più vicine al mare a ai porti, senza trovarne. 25 anni dopo, un’altra società scavò dove lui aveva detto, con grande successo. E’ per questo che la mette giù dura: «i re ascolteranno adesso i navigatori (gli scienziati, ndr) o ancora i monaci (ingegneri ed economisti che ‘hanno fede’ nell’inesauribilità a medio termine del petrolio, ndr)?». Così come quando, alla fine del Medioevo, si discuteva ancora se la terra fosse piatta o tonda. Se la prende con gli economisti, incapaci a suo giudizio di accettare o concepire la «finitezza» delle risorse non riproducibili; cita Adelman, che avrebbe scritto «i minerali sono inesauribili». Nel tentativo di spiegare gli alti prezzi del greggio, per esempio, «il geologo dice che sono stati violati dei limiti fisici», mentre «l’economista dice una volta che mancano gli investimenti, un’altra che c’è la guerra, un’altra ancora che è colpa degli uragani». Riassume il tutto in un concetto: «è una diatriba tra dottori e guaritori. Da chi vi fareste curare?». I suoi dati sono impietosi. Le «stime sulle riserve» fornite dai paesi produttori sono «gonfiate» a partire dalla metà degli anni ’80, con improvvisi aumenti non corroborati da nessuna scoperta di nuovi giacimenti di grandi dimensioni. La «fede» nelle capacità taumaturgiche delle «nuove tecniche di estrazione» è immotivata, perché «tecniche più efficienti aumentano la produzione entro una certa quantità di tempo, e quindi esauriscono più velocemente i giacimenti». La «fede» in «altri 40 anni di petrolio» è dovuta a un calcolo elementare che le compagnie propongono al pubblico: dividono le «riserve stimate» (gonfiate) per il consumo annuo attuale. Un doppio errore, perché con la crescita economica aumentano anche i consumi di greggio; e perché nessun giacimento può mai essere sfruttato «fino all’ultima goccia». Buona parte rimane irrangiungibile, sotto terra. Invita a guardare ai tassi di scoperta di nuovi giacimenti: il «picco», qui, c’è stato alla fine degli anni ’60; da allora se ne scopre sempre meno. Dall’inizio degli anni ’80 la quantità dei consumi è superiore a quella delle scoperte. E’ il fondatore e coordinatore dell’Aspo, l’associazione che studia il «picco» della produzione petrolifera, e quindi è obbligato a rispondere alla domanda che un po’ tutti gli fanno: «quando ci sarà il picco?». La risposta non piacerà a nessuno: «quest’anno». Come se ne esce, se ha ragione? «Si tratta di una condizione senza precedenti», perché «davanti al declino di una risorsa per la prima volta non ne abbiamo una migliore a disposizione». Per questo propone una serie di misure chiamate «Il protocollo di Rimini», secondo cui bisognerebbe tagliare le importazioni di greggio al tasso del 2,6% l’anno, convincere i produttori ad accettare verifiche scientifiche sulle proprie riserve, investire in altre fonti energetiche (anche lui cita il nucleare). Altrimenti «rischiamo di prendere anche noi posto nella serie delle specie fossili per eccesso di adattamento all’era del petrolio». Pure ironico, l’irlandese. n o v i t à euro 8,00 euro 8,00 l e paesi del Golfo prima «investivano all’estero» (chi ricorda i «petrodollari»?), mentre ora tendono a investire soprattutto nel proprio territorio. Un esempio, ancora, è l’Arabia Saudita, passata negli ultimi 30 anni da 7 a 22 milioni di abitanti; e che ha quadruplicato l’utilizzo in loco del petrolio (da mezzo a due milioni di barili al giorno, mbg) senza aumentare davvero la produzione totale (intorno ai 10 mbg). Ma il problema, per Colitti, prima ancora che finanziario «è politico»: «chi governa cosa?». Annuisce con forza quando Franssen ricorda che «se il barile resta intorno ai 70 dollari, il deficit Usa di parte corrente salirà presto a un trilione di dollari». Una cifra «insostenibile, perché gli Usa sono un acquirente sul lungo termine, e a lungo andare uno degli equilibri che tengono in piedi questa situazione verrà a cadere». Ancora più insostenibile è quel prezzo per i «paesi emergenti»: come reagiranno quando vedranno che non possono più sperare di raggiungere, causa il prezzo dell’energia, il nostro standard di vita? Ed è un problema politico anche stabilire con certezza «quanto petrolio c’è ancora». Per lui, infatti, esiste soltanto «la difficoltà di fare una mappatura precisa, perché i governi non accettano di far fare verifiche indipendenti sulle proprie riserve»; ma «non c’è un problema di scarsezza». E quando, su nostra domanda, si arriva a soppesare il valore delle «sabbie petrolifere», anche qui trova conferma alla sua tesi: «è una risorsa lenta, ma reale; estrarla è solo questione di prezzo». Ottimista irriducibile, Colitti prende in giro tutte le previsioni: «perché, lei sa quand’è che morirà?». Ma qui non stiamo parlando delle sorti di un individuo, ma di quantificare la dimensione di una risorsa fisica. Di limiti, insomma, relativamente indifferenti alla politica. Usa ha raggiunto il suo picco, nel 1970, abbiamo avuto come reazione la fine degli accordi di Bretton Woods e del gold standard. Cioè la fine dello stato di diritto nella finanza internazionale». E’ caduto allora «il ponte tra oro e dollaro», e «dai vincoli della trasparenza si è passati all’opacità», all’«arbitrio» giocato su «regole e regolucce aggiustabili a seconda delle necessità». In questo quadro sregolato, la «fine del petrolio a basso costo» viene vista come l’esito di una scommessa nel gioco d’azzardo: «è andata male, ora bisogna raddoppiare». E allora via con le «delocalizzazioni». Ma, si chiede Sanders e tutti noi con lui: se il prezzo del petrolio crescerà in modo inarrestabile, a che prezzo dovremo riportarci a casa le merci prodotte altrove? Ed è solo una delle tante variabili dell’equazione energetica che pesa sulle prospettive dell’economia globale. «Il picco si sta verificando ora» euro 8,00 COLITTI nanza hanno avuto il loro palcoscenico, soprattutto in veste di imputati. In primo luogo, per il peso della «speculazione»; ma soprattutto per la noncuranza della teoria economica nei confronti dei «limiti» fisici di un pianeta che tutto è fuori che «infinito». Per un economista il gioco tra domanda e offerta si risolve sempre con la produzione «ottimale» di una merce, specie quando la domanda «tira». Per un fisico, o un geologo – e comunque nella realtà – la domanda può «tirare» quanto gli pare; se una fonte naturale «non riproducibile» finisce, non c’è nulla che possa rigenerarla. Un vero capolavoro di critica dell’economia Usa – il baricentro di quella globale – è venuto inaspettatamente dal banchiere e ricercatore Chris Sanders, originario di Dallas. «C’è un’ampia esperienza sull’esaurimento del petrolio. Quando la produzione interna euro 8,00 D FRANCESCO PICCIONI INVIATO A RIMINI MAURIZIO CARBONE “MADRE TERRA” ACUSTIMANTICO “DISCO NUMERO 4” ARDECORE “ARDECORE” Un racconto fatto di relazioni e luoghi, di saperi e memorie, trasmesso attraverso tamburi, voci, corde e flauti. Un viaggio circolare dentro e attorno nostra madre: la Terra. In questo album, che attraversa diverse culture musicali, Maurizio Carbone incontra e ospita musicisti come Dom Um Romao, Garrison Fewell, Marcello Colasurdo, Marzuk Mejri e altri Il quarto album degli Acustimantico presenta 11 brani selezionati dal loro nutrito repertorio ed eseguiti dal vivo. Nei loro suoni confluiscono insieme musica d-autore, jazz, pop, folk arrangiati ed interpretati con personale classe, un-originalit’ che sa essere ancor pitù ravolgente quando è su palco. Una rivelazione per molti, una conferma per chi li segue da tempo. Ospiti del cd Andrea Satta (Têtes de Bois) e Piero Brega. Ardecore sono il cantante folk blues Giampaolo Felici insieme al leader degli statunitensi Karate Geoff Farina e la band romana Zu. Le diverse esperienze musicali si sublimano nella canzone romana, i famosi stornelli con i loro racconti di amori e coltelli, malavita e romanticismo. Fedeli alle originali, queste versioni non disdegnano un approccio noir, figlio di Nick Cave e Tom Waits. telefonare ai numeri: 06/68719687 - 68719622 e-mail: [email protected] Per ricevere i cd aggiungere al prezzo 2,00 euro di spese postali (fino a tre cd) e versare l’importo sul c.c.p. n. 708016 intestato a il manifesto coop. ed. - via Tomacelli, 146 - 00186 Roma, specificando la causale. Distributore per i negozi di dischi Goodfellas tel. 06/2148651 - 2170013 domenica 30 ottobre 2005 il manifesto MONDO 5 «Usa complici dei jihadisti» I STEFANO CHIARINI l governo siriano, alla vigilia della riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che lunedì discuterà la mozione per l’adozione di sanzioni contro la Siria - accusata da Washington di non voler collaborare con la commissione di inchiesta sull’uccisione dell’ex premier libanese Rafiq Hariri e di permettere l’afflusso verso l’Iraq di combattenti e capitali - ha dato vita ad una sua inchiesta giudiziaria sulla strage del giorno San Valentino, e accusato il governo Usa di non aver voluto «sigillare» il confine con l’Iraq ai combattenti Jihadisti. L’accusa, assai grave, di aver dato la priorità ad un «cambio di regime» a Damasco rispetto ad una «exit strategy» dall’Iraq che potrebbe salvare tante vite americane e irachene, è stata rivolta all’Amministrazione Bush dall’ambasciatore siriano a Washington, Imad Mustapha, in una lettera indirizzata ad un gruppo di membri del Congresso ed in particolare alla deputata Sue Kelly. Nella missiva - fatta filtrare alla stampa da alcuni settori minoritari del Dipartimento di stato contrari ad aprire un altro fronte in Siria mentre ancora si combatte in Iraq - l’ambasciatore sostiene che ormai da un anno Damasco starebbe cercando di collaborare con gli Usa nel campo della «sicurezza» ma senza aver avuto alcuna risposta da Washington. Eppure il governo siriano si sarebbe dato da fare non poco in questo senso. Basti pensare che i cittadini di paesi arabi arrestati o espulsi dalla Siria mentre cercavano di entrare in Iraq illegalmente sarebbero oltre 1500, per non parlare degli arresti dei mujaheddin siriani prima della loro partenza per l’Iraq o al momento del loro ritorno, e persino di quelli dei loro parenti. L’ambasciatore ricorda poi come siano stati gli Usa e non Damasco a rifiutare ogni collaborazione per «chiudere ai terroristi» il confine siroiracheno. Damasco avrebbe spostato nella zona orientale, verso l’Iraq oltre 10.000 soldati, costruito barriere di sabbia e filo spinato, chiuso i passaggi illegali e messo in funzione 540 postazioni ma la lunghezza - dalla Turchia sino alla Giordania per oltre 376 miglia - e il carattere assai artificiale della linea di separazione tra i due paesi - con le stesse popolazioni e tribù di qua e di là - renderebbero impossibile un controllo del confine senza una collaborazione tra le truppe siriane da una parte e quelle americane e irachene dall’altra. Eppure Washington di collaborare con la Siria non vuole neppure sentir parlare tanto che lo stesso capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, avrebbe Un soldato siriano a guardia del confine con l’Iraq (foto ap) La Siria accusa gli Usa di non voler sigillare il confine siro-iracheno per destabilizzare l’intera area e rovesciare il governo di Damasco. «Abbiamo fermato 1500 presunti jihadisti per l’Iraq» vietato espressamente la partecipazione di una delegazione siriana al recente incontro ad Amman - dedicato proprio al controllo dei confini - dei paesi confinanti con l’Iraq. La mancanza di comunicazione tra le due parti sarebbe tale che durante una recente offensiva Usa contro il centro iracheno di al Qaim, a pochi chilometri dalla Siria, i marines americani, non sapendo come comunicare la chiusura del confine ai siriani, hanno inventato una specie di catapulta con la quale sono riusciti a far arrivare il messaggio dall’altra parte e a fermare l’afflusso di merci e passeg- geri verso l’Iraq. La mancanza di comunicazione, sommatasi alla politica dell’Amministrazione, avrebbero inoltre provocato duri scontri a fuoco a cavallo del confine tra marines e truppe siriane, oltre 100, con una ventina di vittime. L’ambasciatore Imad Mustapha nella sua lettera ricorda poi come gli Usa da una parte accusino il suo paese di chiudere gli occhi sui «finanziamenti» alla resistenza irachena ma dall’altra non intendono fornire alla Siria alcuna informazione in merito né alcun strumento informatico per modernizzare il sistema bancario del paese. Si è creata così una situazione paradossale nella quale Washington vuole introdurre nuove sanzioni contro la Siria mentre Damasco, il mese prossimo, ospiterà un vertice internazionale sulla «Lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo» organizzato in collaborazione con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale. La lettera ai membri del Congresso si conclude con un appello: «Quando sentite l’Amministrazione sostenere di avere «prove credibili» che la Siria sta facendo questo o quello ricordate che «prove credibili» di quel tipo vennero usate per giustificare un’altra guerra contro un altro paese arabo. Speriamo non commettiate lo stesso errore anche con la Siria». Un raccolto amaro per i contadini palestinesi Il muro e le chiusure israeliane mettono in crisi la produzione di olive, vanto dell’agricoltura dei Territori MICHELE GIORGIO GERUSALEMME I villaggi della Cisgiordania sono piccoli paradisi per i palestinesi. Verde, ossigeno e silenzio rotto solo dai suoni della natura. Un’atmosfera ben diversa dal caos delle città, dove i servizi pubblici sono carenti, spesso inesistenti, e le case crescono l’una sopra l’altra per mancanza di spazio. Da tre settimane è cominciata la raccolta delle olive e a Qaffin, ad ovest di Ramallah e Nablus, come negli altri villaggi agricoli si vivono i giorni più importanti ed esaltanti dell’anno. Le famiglie si recano negli uliveti e fino a sera vivono tra gli alberi. Gli adulti raggiungono i campi alle prime luci del giorno, bambini e ragazzi al ritorno dalla scuola. È un periodo di forte socializzazione e le pause si trasformano in momenti di festa in cui gli anziani, tra i cori dei più giovani, intonano canti della tradizione contadina tramandati di padre in figlio. «È più giusto dire che era il momento più bello dell’anno, adesso la raccolta delle olive si sta trasformando in un incubo per tante famiglie non solo qui a Qaffin ma in tutta la Cisgiordania», commenta con amarezza Ibrahim Qatanneh, proprietario con i suoi fratelli di alcune decine di ettari di terra a due chilometri dal villaggio. Il muro israeliano che si allunga come un serpente tra le campagne palestinesi e le minacce dei coloni stanno mandando in rovina centinaia di famiglie che per decenni hanno vissuto dei frutti della loro terra. «Fino a qualche tempo fa non potevamo lamentarci, si viveva bene - racconta Qatanneh - eravamo impegnati tutto l’anno nelle coltivazioni, riservando però un trattamento speciale alla raccolta delle Un pacifista israeliano aiuta una palestinese nella raccolta delle olive in Cisgiordania (foto ap) olive e alla produzione dell’olio che da queste parti è eccezionale. Non eravamo ricchi ma non ci mancava nulla e i nostri figli sapevano di avere un lavoro già pronto per loro anche se tanti giovani di Qaffin ora sognano di lavorare con i computer o di aprire un negozio in citta». Qatanneh, 58 anni, ha passato la vita nei campi e conosce i suoi alberi uno ad uno. «Ora invece non riesco più ad andare nella mia terra e a coltivarla, non possono più curare gli alberi. L’esercito israeliano me lo impedisce», aggiunge camminando a passi lenti mentre nelle viuzze di Qaffin riecheggiano le grida di gioia di bambini che rincorrono un pallone. Gli oliveti di Qatanneh si trovano ad ovest del muro e rientrano in quelle migliaia di ettari di terra confiscati dagli israeliani «temporaneamente per motivi di sicurezza». I contadini palestinesi sanno che non le riavranno mai più. «Mi hanno concesso un permesso di 15 giorni per raccogliere le olive ma al mattino spesso trovo i soldati a sbarrarmi la strada perché i coloni (israeliani) non vogliono che ci avviciniamo ai loro insediamenti», riferisce l’agricoltore palestinese. L’esercito si definisce «neutrale» ma ogni volta che sorge una disputa ad averla vinta sono sempre i coloni ebrei che occupano illegalmente la terra palestinese mentre i contadini vengono allontanati. A Qaffin e in altri villaggi a rischio sono giunti nelle settimane passate giovani volontari dell’International solidarity movement e di altre associazioni che, con la loro presenza, cercano di impedire abusi e violenze a danno dei civili palestinesi. Così tra mi- nacce dei coloni, indifferenza dell’esercito occupante e il muro che avanza, l’antica produzione di olive e di olio d’oliva muore lentamente, portando con sé l’intera agricoltura palestinese della quale rappresenta il 25% del prodotto annuo. Gli alberi di olivo in Cisgiordania sono oltre 12 milioni (80% degli alberi da frutto) e coprono il 40% dell’intera area coltivata palestinese. Nelle annate buone (massi) la produzione supera le 35mila tonnellate, in quelle cattive (shelatoneh) si attesta intorno alle 5mila. Il surplus è costante da quando è cominciata l’Intifada, poiché la chiusura dei Territori e l’isolamento dei centri abitati hanno limitato l’accesso del prodotto al mercato israeliano e alle esportazioni (meno 52%). «I costi inoltre si sono alzati - spiega Qatanneh - perché i trasporti sono difficili, c’è meno disponibilità di manodopera a causa dei blocchi dell’esercito israeliano che riducono gli spostamenti degli operai stagionali». Produrre un litro d’olio di oliva costa il 22% in più rispetto al 2000, a danno ulteriore delle esportazioni verso l’Unione europea e i paesi arabi. Secondo dati dei centri palestinesi per i diritti umani, dal 2000 a oggi l’agricoltura ha visto svanire - a causa delle restrizioni ai movimenti della confisca delle terre e dei pozzi d’acqua e la distruzione di decine di migliaia di alberi e coltivazioni varie - circa 1,6 miliardi di dollari. Perdite alle quali si aggiungono gli allevamenti distrutti o chiusi. Il contributo dell’agricoltura al Pil palestinese è perciò sceso dal 13,7% del 1994 al 9% del 2003. «Dietro queste cifre c’e’ l’impoverimento dei contadini che come me - dice Qatanneh - hanno perduto quasi tutto a causa dell’occupazione israeliana e oggi possono solo cercare di sopravvivere». IRAQ/COSTITUZIONE La farsa referendaria e la realtà dell’occupazione Il referendum sulla bozza di costituzione è stato presentato a livello internazionale come un grande esercizio di democrazia. Ogni iracheno avrebbe potuto votare liberamente per il si, per il no o piuttosto astenersi. Nessuna pressione, nessun ordine, nessuna interferenza, nessuna intimidazione di sorta. Come se il nostro paese non fosse sotto una brutale occupazione militare. La realtà è ben diversa. Tanto per cominciare la stragrande maggioranza degli iracheni non sapeva (e non sa ancora) di quale bozza di costituzione era stata chiamato ad approvare. Sono stati spesi 5 milioni di dollari per stampare milioni di copie della bozza ma queste in alcune regioni sono arrivate a poche ore dal voto, in altre non sono mai arrivate o non sono state distribuite. Nel quartiere di Baghdad dove vivo con la mia famiglia nessuno ne ha vista neanche una copia. In alcuni casi sono circolate delle versioni diverse tra loro. Per quanto riguarda i contenuti gli interrogativi e gli argomenti di dibattito non mancavano certo: innazitutto quelli sulla sua legalità in quanto si tratta di una legge fondamentale approvata sotto occupazione militare, e poi la assai sospetta fretta con la quale ci è stata imposta, i contenuti del preambolo con una interpretazione da Baghdad, SABAH ALI* tutta etnico-confessionale della storia del paese, l’introduzione di un federalismo estremo, l’identità dell’Iraq, la legge islamica, le lingue ufficiali del paese, il processo di debaathizzazione, i riferimenti religiosi e il ruolo delle tradizioni, i diritti delle donne (soprattutto), il confessionalismo... etc. Il cittadino medio, impegnato ogni giorno, letteralmente, tra raid, bombe e sparatorie, a sopravvivere, non è stato però per nulla né coinvolto, né informato, e tutti nel paese si sono posti la domanda: Perché mai bisognava cambiare oggi la costituzione in questa situazione drammatica e a guerra in corso? L’unica risposta è stata una professione di fede secondo la quale la nuova costituzione avrebbe potuto pacificare l’Iraq. Stando ai fatti non sembra proprio che si vada in quella direzione. Nelle settimane che hanno preceduto il voto gli americani sono stati molto occupati. Basta ricordare i massacri di Tal Afar, Al Qaim e Haditha ridotte a città fantasma totalmente ignorati dai media così occupati a coprire il finto dibattito sulla costituzione da non poter prestare attenzione alle vere tragedie umane in corso in quelle province. O forse quei massacri di cittadini innocenti fanno parte del processo di democra- tizzazione dell’Iraq? Votare in un paese in guerra è pura follia. Il quindici ottobre è stato imposto su tutto il paese un rigido coprifuoco. La vita si è fermata. La gente poteva recarsi al voto solamente a piedi e nelle zone rurali si trattava di fare anche 30 chilometri. Nella provincia di Anbar 70 seggi non sono stati neppure aperti. In un quartiere di Baghdad, qui vicino, due signore che non erano in grado di arrivare al seggio a piedi hanno chiesto ad un vicino di accompagnarle. La Guardia Nazionale Irachena ha sparato alla macchina e i tre elettori sono morti sul colpo. In un altro quartiere di Baghdad gli elettori sono andati molte volte al seggio più vicino per chiedere di votare ma gli è stato risposto che le urne non erano arrivate e che sarebbe stato meglio tornare alle 14. Così hanno fatto, ma solo per verificare che il seggio era stato chiuso e la porta sprangata. In secondo luogo le operazioni di voto erano prive di qualsiasi trasparenza dal momento che l’intero processo, almeno nei quartieri dove mi sono recato - ma lo stesso è successo nelle zone del sud e in quelle del nord - era sotto il controllo di uno dei partiti al governo. Questi, nel tentativo di strap- pare un’approvazione della Carta, hanno più volte annunciato, e scritto su grandi striscioni e cartelli appesi davanti ai seggi, che l’ayatollah sciita al Sistani avrebbe dichiarato di votare si alla costituzione ma non era vero. Nessuna forma di propaganda a favore del no è stata permessa per le strade dove cartelli e striscioni erano tutti per il si. Un testimone oculare ha inoltre sostenuto che alla fine della giornata di voto nel suo seggio di Baghdad c’erano 100 «No» e 200 «Si» ma il risultato non sarebbe piaciuto ad uno degli ispettori, e quest’ultimo avrebbe dato disposizione agli scrutatori di aggiungere altri 100 «Si». E lo stesso sarebbe successo ovunque. Un altro ha testimoniato come ogni potenziale voto per il no venisse accolto con ingiurie e minacce da parte degli scrutatori. Tragedia e farsa anche per quanto riguarda i risultati del voto: Tre province avrebbero respinto la costituzione con oltre i due terzi dei voti - Salah Addiin e Anbar (94-95%), and Mosul (80%-100%) - e questo avrebbe dovuto significare una bocciatura della Carta. Invece la Commissione ha annunciato che a Mosul i «no» non erano arrivati alla necessaria soglia del 75%. Bush e Rice subito dopo il voto avevano predetto che il «si» avrebbe vinto. E il «si» ha vinto. *giornalista iracheno I N D O N E S I A Decapitate tre alunne cristiane Orrore a Poso, nella tormentata provincia indonesiana di Sulawesi Centrale, interessata dalla violenza settaria che vede protagonisti musulmani e cristiani. Il portavoce della polizia provinciale, Rais Adam, ha dato notizia della decapitazione di tre studentesse cristiane che si pensa siano state assassinate mentre si recavano a scuola. Le teste di due vittime sono state abbandonate vicino a una stazione di polizia. La testa della terza studentessa è stata trovata vicino a una chiesa cristiana. A quanto racconta l’agenzia Reuters, le ragazze, tutte sedicenni, sono state aggredite mentre, in uniforme marrone, si recavano a scuola. Secondo la ricostruzione fornita da un funzionario di polizia di Poso, due individui a bordo di una moto, armati di machete, «hanno sgozzato e tagliato la testa» alle studentesse. Una compagna delle vittime che è riuscita a fuggire ha raccontato che i killer indossavano il casco e erano dotati di radio ricetrasmittente. La ragazza scampata alla morte aveva dei tagli al viso ed è stata medicata in ospedale. K A B U L Uccisi un marine e un soldato Uk Un parà statunitense e un soldato britannico sono stati uccisi ieri in Afghanistan, dove negli scontri armati di questa settimana sono state ammazzate 21 persone. I combattimenti nel sud e nell’est del paese sono stati i più sanguinosi da alcuni mesi, a conferma dell’instabilità del paese che fu dei taleban dove gli Usa pretendono di aver esportato la «democrazia» con le armi. Il soldato britannico è stato ucciso in un attacco a Mazar-i-Sharif, nel nord dell’Afghanistan, il militare statunitense è caduto nella provincia di Khost. Z A N Z I B A R L’isola al voto, nonostante il lutto Si svolgeranno regolarmente oggi le elezioni generali nell’arcipelago semiautonomo di Zanzibar: lo ha confermato la commissione elettorale di Zanzibar (Zec). Per l’intera giornata di venerdì non era stato chiaro se il lutto politico per la morte per malattia di Jumbe Rajab Jumbe, candidato alla vicepresidenza del partito di opposizione Chadema, che ha causato il rinvio a dicembre del voto a livello nazionale, dovesse essere valido anche per Zanzibar. La Commissione elettorale della Tanzania ha deciso di spostare l’appuntamento con le urne al 18 dicembre, per dare tempo al partito d’opposizione di avviare una nuova campagna elettorale. Zanzibar però ha una legge elettorale diversa rispetto al resto del paese. il manifesto domenica 30 ottobre 2005 6 I POLITICA LUCA FAZIO l giochino e adesso a chi tocca? ha portato sfiga ai centri sociali bolognesi, il fatto è che se lo aspettavano. Adesso, scherzano, con il giochino la smetteranno, anche perché ormai il sindaco Cofferati sembra aver esaurito tutti gli obiettivi. Rosario Picciolo, del centro sociale Livello 57, alla fine se la cava con una battuta che deve far riflettere, e non solo perché a Bologna se lo augurano in molti: «Speriamo che vinca Prodi, così se lo porta a Roma e almeno soffrono tutti gli italiani». L’idea che Sergio Cofferati stia studiando come ministro degli Interni non è peregrina, tanto più che a Bologna ormai non lo sopporta più nessuno, tranne quelli che rispondono ai sondaggi e gli danno sempre ragione all’80%. «La gente è con me», dice sempre l’ex sindacalista della Cgil, «il più grande abbaglio della mia vita», come si fustigano oggi alcuni militanti che pochi anni fa si sarebbero fatti trascinare dappertutto. Perché attaccare i centri sociali? Intanto Cofferati, anche se celentaneggia con il rock per fare il simpatico e cita Springsteen, i «giovani» non li ha mai sopportati, tranne quelli spenti allevati come polletti nelle batterie del partito. Lo ha già dimostrato a Bologna, borbottando come un bacchettone contro la street parade dello scorso giugno e le bottiglie di birra lasciate per terra (roba che ormai sbadiglierebbe anche un amministratore della giunta Gentilini). Adesso, con linguaggio garbato (perlomeno non ha parlato di sgomberi) Cofferati ha mandato a dire ai centri sociali «abbiamo fatto una proposta e i tempi possono consentire, se c’è una volontà comune, una sistemazione condivisa, una soluzione». Il problema, con una ventina d’anni di ritardo rispetto alla contrastata e ricca storia dei centri sociali italiani, sarebbe la «necessità di una diversa dislocazione per rispetto verso i cittadini residenti». E chi può non convenire con tanta saggezza? Il fatto è che anche nel capitolo centri sociali Bologna è una città che viaggia sul velluto. Tre centri hanno già sottoscritto una convenzione con il comune, con l’ex sindaco Guazzaloca, uno che almeno Cofferati punta al centro sociale Dopo i lavavetri e i rumeni che vivono nelle baracche, il sindaco di Bologna vuole mettere in riga anche i centri sociali. Il Livello 57, accusato di morosità, respinge le accuse: «Non ci piegheremo a nessun diktat». I Verdi cercano di ricucire, il Prc sta con i ragazzi Sergio Cofferati (foto Ap). In basso Enrico Boselli (foto Paolo Tre) non si è mai sognato di chiamare la polizia per manganellare i ragazzi: sono Tpo, Livello 57 e Link. Altri due centri invece sono occupati: Ex Mercato 24 e Vag 61. Dopo i lavavetri, sarebbero questi gli altri «fastidi» per Bologna. Sotto tiro c’è anche lo storico Livello 57 cui il comune, per bocca dell’assessore all’urbanistica diessino Virginio Merola, ha minacciato di revocare la convenzione. Il centro sociale, oltre alla sua sede «naturale» in città, da due anni utilizza uno spazio nell’area industriale di via Battirame. E gli industriali vicini protestano. L’assessore Merola - finalmente un riflettore acceso anche per lui - allora ha fatto sapere che se il centro sociale non accetterà una nuova sede «sarà avvisata la magistratura». Toni che ormai nemmeno la giunta di Milano, di fatto amministrata da un post fascista come De Corato, si sognerebbe di usare contro il centro sociale Leoncavallo, che è sotto sfratto ma sta cercando una spalla nella giunta della Provincia di Milano, amministrata dal diessino Filippo Penati, una specie di Cofferati in sedicesimo ma meno determinato a imporre la sua legalità prendendosela sempre con i più deboli. I centri sociali adesso che faranno? Il 2 novembre (sempre che li facciano entrare) terranno un’assemblea aperta nel palazzo comunale, per spiegare «quali sono i veri problemi di Bologna» in concomitanza con la presentazione dell’ormai celebre editto sulla «legalità» che Cofferati ha annunciato per mettere in riga i recalcitranti della sua giunta (Prc e Verdi, i diessini ufficialmente non possono dissociarsi). Poi, il prossimo 10 dicembre, le ragazze e i ragazzi sfileranno per le vie del centro con una Cannabis Parade per «Bologna città aperta». Ecco a chi toccherà! Una bella campagna contro «la droga» per Cofferati potrebbe essere davvero troppo allettante: e chi lo fermerebbe più? ROCK La legalità di Bruce e quella del Cinese ncontentabile il Cinese. Non gli basta il supporto di un Lucio Dalla passato da Piazza Grande a Cella angusta. Vuole arruolare anche Bruce Springsteen. «La legalità è rock», assicura il sindaco melomane, sfidando il buon senso 40 anni di incisioni. Quindi esprime il suo sincero entusiasmo per i testi del succitato Bruce. Non è il primo a tentare di appropriarsi di Springsteen. Lo fece anche Ronald Reagan, nell’84, anno di elezioni presidenziali nonché del trionfo discografico di Born in the Usa. Un americano vero quel Bruce, uno che incarnava il miglior spirito degli states. «Non so quali delle mie canzoni abbia ascoltato Reagan», replicò polemico Springsteen, e la risposta potrebbe essere girata al paladino della legalità bolognese. I A. CO. Già che ci si trovava, Bruce consigliò al presidente di consultare il testo di una delle sue canzoni, tanto per chiarirsi le idee: «Si vede che Reagan non ha mai sentito Johnny 99». Quella canzone di Springsteen, come moltissime altre, deve essere effettivamente sfuggita anche a Cofferati. Condannato a 99 anni di prigione per rapina e omicidio da un giudice chiamato «l’infame John Brown», Johnny dice: «Avevo debiti che nessun uomo onesto potrebbe pagare. La banca aveva la mia ipoteca e stavano per portarmi via la casa. Non dico che questo mi renda innocente, ma sono state molte cose a mettermi la pistola in mano». La ha scritta lo stesso autore che popolava le sue prime canzoni di piccoli criminali metropolitani, e certo non suggerendo di sbatterli in galera, quello che adesso parla in continuazione degli immigrati che arrivano negli states (come a Bologna) spinti dalla disperazione, finiscono per portare cocaina avanti e indietro come in Balboa Park, accettano lavori micidiali e magari ci rimettono la pelle come in Sinaloa Cowboys, e c’è persino il caso che turbino la panoramica dei bravi cittadini abbienti con le loro baracche. Può piacere o non piacere Bruce Springsteen, ma tutto si potrà dire tranne che abbia qualcosa a che spartire con questo Cofferati, sindaco e sceriffo. Che nelle sue canzoni, figurerebbe casomai in vesti simili a quelle del giudice di Johnny 99. Il professore esclude che la revisione chiesta da Boselli possa trovar posto nel programma COSIMO ROSSI La proposta di superare il concordato fa tremare l’Unione. Ds e Margherita all’attacco per paura delle gerarchie ecclesiastiche «Quello del Concordato è un tema che non è e non sarà all’ordine del giorno del programma dell’Unione». Parola di Romano Prodi. Per la delusione di Enrico Boselli e dei radicali, che ne perorano un «superamento». E per la soddisfazione di quasi tutto il resto del centrosinistra: dai clericali più incalliti, secondo cui nulla si può obiettare all’invadenza del potere della chiesa, ai laici più rammolliti - Ds in prima fila -, secondo cui nulla si può affermare che possa allontanare i consensi cattolici. Tanto che Boselli in realtà ha scoperto un nervo ben più significativo del tema del concordato e della revisione che ne propone: il tema della cittadinanza di un pensiero politico nell’Unione, e quindi della fondazione laica di uno schieramento politico. Argomento tanto più stringente quanto la nuova legge elettorale sarà su base proporzionale. Ma che non sarebbe stato dissimile neanche sotto l’ombrello maggioritario, né lo sarà se mai ci sarà un partito democratico: qualche che sia il contenitore comune, raccoglierà sempre al suo interno una pluralità irriducibile. E’ in realtà nella negazione di questo aspetto che si è infranta la proposta di Boselli. Non sono perciò le scontate rimostranze centriste, a dare da pensare. Paradossalmente, anzi, i più fervidi avversari dell’alleanza con i Radicali, l’Udeur di Clemente Mastella, giudicano «inaccettabile» la revisione, ma chiedono di guardare a «ciò che unisce» per tenere insieme la coalizione, senza quindi abbandonarsi ad anatemi. Ovvio anche che per il mariniano Beppe Fioroni la revisione del concordato sia «una follia» che non produce consensi. Già più preoccupante che un prodiano come Franco Monaco constati i «seri problemi» procurati dal «connubio» Sdi-Radicali «all’asse culturale e politico dell’Unione». Discostarsi «da derive alla Zapatero» è la parola d’ordine della Margherita. Tanto che il quotidiano Europa accusa Boselli di voler «fare il mangiapreti con la benedizione». L’intransigenza della Margherita rispetto a un governo di ispirazione laica come quello spagnolo da ancor più da pensare se si assomma all’atteggiamento dei Ds, che con la Margherita sono in procinto di realizzare la lista unitaria. Pochi giorni fa è stato promosso un appello di parlamentari dell’Unione in difesa della legge 194 (che regola l’aborto): tre decine e decine, solo tre le firme di esponenti della Margherita. C’erano invece tantissimi nomi Ds. E tuttavia i Ds non solo ritengono «del tutto sbagliato porre in modo unilaterale la questione di un superamento del Concordato in un programma di governo, perché è un tema che non c’è», ad avviso di Vannino Chiti non si può nemmeno «agire in modo unilaterale». Nel senso che servirebbe un accordo bipartisan, dato che «l’idea di una revisione non può essere l’impostazione di una sola parte politica». Messe una di seguito all’altra, le repliche di Ds e Margherita a Boselli fanno spirare nell’Unione una certa aria di centralismo democratico. Anche se è vero - come rileva il leader del Pdci Oliviero Diliberto - che non c’era «bisogno di questo ulteriore tema per creare zizzania dentro l’Unione». Così come è vero che si tratta si una impennata di naturale elettoralista. I cui contenuti sono perfettamente «condivisibili» dal leader del Prc Fausto Bertinotti, che tuttavia non segue Boselli fino a invocarli nell’agenda di governo. «Non mi pare proponibile», rileva anche i verde Paolo Cento chiedendo invece di concentrarsi sul «primato della scuola pubblica e l’autonomia del Parlamento nel legiferare in materie come i Pacs». Ma come nell’Unione c’è chi si fa interprete delle istanze vanticane (prima e più che cristiane), allo stesso modo c’è chi non rinuncia alla propria identità laica. Al congresso che porterà all’alleanza con lo Sdi, il segretario radicale Daniele Capezzone ha perciò affermato che «sul superamento del regime concordatario il nuovo soggetto dovrà muoversi con chiarezza, con la semplicità evangelica del sì sì, no no». Ne avrà almeno il diritto... Fazio indulgente con la politica di Tremonti Il governatore promuove l’Italia: «Si può crescere». L’Unione chiede invece la verità sui conti pubblici PAOLO ANDRUCCIOLI Discorso controllato quello del governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio durante la Giornata mondiale del risparmio organizzata a Roma dall’Acri, l’associazione tra le Casse di risparmio. Fazio non ha fatto nessun riferimento alle polemiche che lo hanno coinvolto e ha preferito puntare su un excursus sulla situazione economica internazionale, scommettendo perfino sulla possibilità di una ripresa dell’Italia. Il governatore ha anche parlato della necessità di chiudere presto la partita del trasferimento del Tfr ai fondi pensione. Un discorso che è stato ripreso da tutti i relatori della Giornata del risparmio, durante la quale hanno parlato, oltre a Fazio, anche il presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti, il presidente dell’Abi, Maurizio Sella e il viceministro dell’economia, Mario Baldassarri, che si è speso in un intervento molto impegnato sulle radici economi- ADRIANA ZARRI n’amica mia (e del manifesto) mi ha aiutata nella ricerca degli errori-orrori lessicali. Al luogo di «posto» o «collocato», ecco un orrendo «posizionato». E via via «microfonato», «audizionato» e simili. Dio mio ho inoltre collezionato altre perle: «debordato», «assegnisti», «borsisti» nonché un misterioso «concorsuali» che spero qualcuno, più informato di me, mi dica che significa. E, tanto per rifarci la bocca e anche variare un po’ la collezione, segnaliamo una volta tanto qualche cosa di bello. Si tratta del nome di un paese, giunto alla notorietà per merito (o per colpa) di un incidente ferroviario. Il nome bellissimo - è «Acquaviva delle fonti»; ed io invidio un po’ quei fortunati che possono datare la corrispondenza da Acquaviva delle fonti e non, come me, dal nome del mio comune, un po’ ridicolo. U Blasfemia Prodi: «Il concordato non si tocca» Enrico Boselli Parabole che del risparmio e sul rapporto tra finanza ed ra discutendo all’interno della maggioranza di governo. C’è già l’accordo - ha spiegato Baldaseconomia reale. Intanto continuano gli scontri e le polemi- sarri - sul concedere aiuti alla scuola privata, che. L’Unione (ieri Letta e altri) chiede la verità un aiuto che con la finanziaria di quest’anno sui conti pubblici, mentre tra mercoledì e gio- dovrebbe valere tra i 100 e i 120 milioni di euro. vedì si riunirà di nuovo il vertice della Casa del- Sugli interventi diretti a favore della famiglia, le libertà. All’ordine del giorno della riunione - che non si prennuncia per nulla facile - c’è la finanziaria per il 2006 e in particolare le scelte drastiche Oltre a Fazio, anche Baldassarri e Maroni sulle risorse. Il punto caldo riguarderà il cosiddetto «pacchetto famiglia», ov- rilanciano la riforma dei fondi pensione, vero quella serie di misure pensate per mentre i senatori si regalano la legge mancia sostenere i nuclei familiari. Il problema però è molto semplice: non ci come appunto il bonus bebè da 1000 euro, si sono i soldi per accontentare tutti. Così ieri da sta cercando l’accordo. L’unica cosa certa è che due fonti diverse è stata confermata la notizia c’è un miliardo di euro a disposizione per tutti della prosecuzione dello scontro sulla questio- gli interventi a favore della famiglia. Anche Guido Crosetto, deputato di Forza ne del bonus per i figli e in generale su tutte le risorse da destinare alla famiglia. Il vicemini- Italia, ammette che «non c’è ancora l’accordo stro dell’economia, Mario Baldassari, ha am- nella maggioranza. Si tratterà di fare delle scelmesso infatti che sul «bonus bebè» si sta anco- te, che non potranno non avere anche un forte Tutti d’accordo sul Tfr impatto politico. Appena è stato ridimensionato il fondo per la famiglia (da cui sono stati «tagliati» 140 milioni da spostare al Fus, il fondo per la cultura e lo spettacolo), c’è stata una vera sollevazione dall’Udc. Ora la polemica sembra si sia un po’ appianata, ma non è escluso che ci possa essere un nuovo round al momento di tagliare altre risorse alla famiglia, tema su cui anche Alleanza nazionale è molto sensibile.Sempre ieri Crosetto ha elencato una serie di provvedimenti che comunque vadano le cose dovrebbero avere una certa priorità. Anche lui, come Baldassarri, mette gli aiuti alle scuole private al primo posto, seguiti subito dopo dagli sconti sui libri di testo e le agevolazioni per l’acquisto della prima casa da parte di giovani coppie. Intanto i partiti dell’Unione continuano a criticare la gestione dei conti pubblici e gli effetti negativi di questa politica. Ieri il responsabile del lavoro dei Ds, Cesare Damiano, ha detto che la finanziaria rischia di far saltare 100 mila posti di lavoro. Si può esser credenti o non credenti, di Cristo si può ritenere che sia figlio di Dio o solo «figlio dell’uomo» (denominazione che lui stesso soleva attribuirsi, senza porla in contrasto con la prima). Ma che si tratti di una vittima innocente, morto perdonando, dall’alto della croce, i suoi nemici ed aguzzini, questo è un fatto consegnato alla storia che non può esser messo in dubbio. E quelle sue ultime parole: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» sono un esempio di bontà che non occorre esser credenti per apprezzare. E il pseudocredente Berlusconi, che indirizza quelle stesse parole ai suoi avversari politici, è un segno indubbio di rozzezza e di insensibilità ai confini della blasfemia. Nemmeno un non credente, con un minimo di rispetto e di gusto, oserebbe appropriarsi di quelle sacre parole per fini spudoratamente politici. Ma l’«unto del Signore» non esita ad usarle, forse perché si ritiene appena il secondo dopo Dio o addirittura il primo, pari a lui. La ministra Di fronte ad oltre centomila persone, scese in piazza per contestare la sua azione politica, una persona di buon senso farebbe cento passi indietro e andrebbe a casa. Invece la Moratti fa cento passi avanti e va a Milano per candidarsi alla guida della città, quale futuro sindaco. Una buona notizia per gli studenti che han dovuto sorbirsela per anni a capo della pubblica istruzione. Una notizia pessima per Milano che, se il suo progetto dovesse andare in porto, dovrebbe sorbirsela, per altri anni (non so quanti) a capo dell’amministrazione pubblica: un primo cittadino con tutte le cattive qualità per figurare degnamente come ultimo. Contabilità Un prete contabile e monello si è preso la briga di annotare quante volte compaiono alcuni termini chiave nel documento finale del Consiglio permanente della Cei del 27 settembre scorso. Ed ha scoperto che la parola «Cristo» compare appena cinque volte: quantità assai modesta. «Gesù» compare ancora meno: una volta soltanto e non direttamente ma in una citazione. «Vangelo» non compare per nulla. In compenso il termine «vescovo» ricorre ben diciassette volte. Una statistica interessante che dimostra come, per il Vaticano, la chiesa sembri contare di più del suo fondatore Gesù Cristo, posto che Cristo abbia fondato la chiesa, così come noi la conosciamo, e non invece una comunità di fede e di fedeli (non necessariamente vescovi) abbastanza diversa. domenica 30 ottobre 2005 il manifesto POLITICA 7 «Io, dilettante che può cambiare» Rita Borsellino spiega la sua candidatura alle primarie siciliane. «Un’esperienza diversa, nata dentro la società, può riuscire dove i professionisti della politica falliscono. Al primo posto l’antimafia per costruire risposte nuove. Don Ciotti? Mi ha incoraggiata» L ANDREA FABOZZI a Margherita ha finalmente trovato un candidato, l’ex Dc e Forza Italia Ferdinando Latteri. Cosa pensa del suo primo sfidante ufficiale per le primarie dell’Unione in Sicilia? «E’ una scelta della Margherita, non voglio commentare». Complimenti signora Borsellino, ha appena iniziato e già sa parlare come una politica navigata... (Risata) «Mi fa piacere, spero torni utile perché sinceramente questa cosa mi mette tanto entusiasmo ma anche tanta paura, anche se so che non sarò sola ad affrontarla nel caso incredibile dovesse realizzarsi». «Questa cosa» è la decisione di Rita Borsellino di candidarsi alle primarie con le quali l’Unione sceglierà lo sfidante di Totò Cuffaro alle regionali siciliane. Decisione irrevocabile perché «devo rispettare le tantissime persone che mi hanno investito di questo compito». Rita Borsellino abita ancora a Palermo in quella via d’Amelio che il 19 luglio ‘92 Cosa nostra ridusse a zona di guerra per uccidere suo fratello Paolo e cinque agenti di scorta. Lavora nella farmacia di famiglia «da quattro generazioni» ma «con molte assenze» perché è sempre in giro per le iniziative di Libera, l’associazione delle associazioni antimafia di cui è presidente onoraria. «Sono nata all’impegno politico dopo quello che mi è successo», ammette lei con garbo e con ancora dolore. Ora però tenta un salto davvero grosso. Cosa ne pensa don Luigi Ciotti, l’inventore di Libera? «Naturalmente ne ho subito parlato con lui, la mia storia è talmente legata alla sua che era inevitabile. Le parole che mi ha detto preferisco tenerle per me, ma mi ha incoraggiata». Dicono: la persona non si discute, ma governare la regione Sicilia è una cosa troppo difficile per una non professionista. Lo vedo bene che è difficile, infatti è stata governata proprio male in questi anni. Allora visto che non ci riescono i politici di professione, chissà che da un’esperienza diversa, nata insieme alla società e che quindi può sentire e capire meglio le domande e le disperazioni della gente comune, non nasca qualcosa di buono. Con fiducia e entusiasmo credo che possiamo fare tante cose buone. Però con lei ci sono soprattutto i partiti, praticamente tutti i piccoli partiti dell’Unione. Come ha fatto a metterli d’accordo? Dai partiti ricevo tanti incoraggiamenti e tanti consigli, cosa che mi fa piacere perché vuol dire che mi hanno adottato. Invece non mi fa piacere che la mia venga presentata come la candidatura dei partiti minori, dei piccoli, dei cespugli e via con i nomignoli, sembra quasi una cosa negativa. L’idea è venuta dalla società civile e i partiti l’hanno ripresa. Che tutti insieme abbiano deciso subito di assumere questa decisione è importantissimo perché, lo dico un po’ scherzando, i minori di solito sono quelli che litigano tra loro, invece stavolta c’è stata una risposta immediata e unitaria. Qual è l’esperienza che una non professionista può mettere nella partita delle regionali? Io ho scelto di stare insieme alla gente e di vivere il mio impegno in mezzo alla gente. In questi anni il progetto di Libera che era nato dalla rabbia, dalla esasperazione e dalla voglia di cambiare è molto cresciuto. Siamo arrivati addirittura a creare dei posti di lavoro che è una cosa bellissima. Certo non ne abbiamo creati centomila o un milione, quanti ne servirebbero, ma è il segno che lavorando nella legalità e mettendocela tutta avvengono anche i miracoli perché quella che sembrava una cosa assolutamente impossibile è stata realizzata. Parla delle cooperative che lavorano con i beni sequestrati alla mafia? Sì, sono un sogno che si è realizzato. E che ha successo grazie a un modo nuovo di rapportarsi con la realtà e i bisogni della gente per cercare delle soluzioni, anche diverse da quelle che finora sono state cercate. E’ un sogno che non a caso stanno cercando di cancellare con il disegno di legge che prevede la possibilità di revisione senza limiti di tempo dei provvedimenti di assegnazione dei beni confiscati. In fin dei conti si tratta di questo, togliere le basi a tutto quello che abbiamo realizzato. Ma il suo programma di governo regionale si ferma all’antimafia? Certamente no. Ma adesso ci tengo a insistere sul fatto che l’antimafia in Sicilia è necessariamente l’inizio di tutto. Perché i mali della Sicilia derivano dalla mafia o sono aggravati dalla mafia o finiscono con il riprodurre mafia. Quindi la mafia è sempre lì. Non volerci fare i conti è l’errore più grave che è stato fatto in questi anni. Detto questo, voglio ricordare che io non ho fatto solo l’antimafia «contro», ma soprattutto «per». Non solo contrasto ma moltissima proposta. Sono abituata a lavorare lo, è che c’è stata una maturazione importante della società civile. Così quest’uomo, la cui vita ora è distrutta perché vorranno ucciderlo a tutti i costi, è riuscito a fare il passo più difficile. Altra coincidenza temporale: ancora un deputato regionale dell’Udc finisce sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa. Non creda che questa cosa mi faccia piacere. Il fatto che ci siano ancora e sempre politici che vengono implicati in queste inchieste è già gravissimo. Il giudizio morale dev’essere anche più forte di quello della magistratura. Questo è uno dei motivi che mi ha spinto a maturare dentro di me la possibilità di fare quello che sto facendo. Non è accettabile che la politica continui a presentarsi come una cosa sporca e un affare privato. in gruppo e a costruire, la nostra storia dimostra che quando ci si mettono le capacità e la volontà i risultati arrivano. Esattamente nelle ore in cui lei annunciava la sua decisione, si scopriva il progetto di Cosa nostra di attentare di nuovo alla vita di un giudice. Cosa le viene in mente? Conosco bene il gip di Caltanissetta Ottavio Sferlazza e voglio mandargli un abbraccio e tutta la mia stima e simpatia. Questa notizia dimostra due cose. La prima è che non è vero che la mafia non ha più intenzione di uccidere. La seconda, visto che l’attentato è stato sventato perché la persona che era stata costretta a diventare un killer dalla mafia ha ascoltato la sua coscienza e si è rifiutato di far- Un’ultima domanda: ma la famiglia Borsellino non era di destra? Palermo, 1992. Un lenzuolo contro la mafia (foto agenzia Contrasto). In alto Rita Borsellino (Si arrabbia) Ma smettiamola con questa storia. Ho sentito il deputato regionale Granata (An) prima dire che la figura di Paolo non può essere considerata di parte e poi sostenere che era un uomo di destra. Come si permette di etichettare una persona che non ha mai accettato etichette nella sua vita? Noi familiari abbiamo sempre contrastato questo tentativo. Che però rispunta sempre quando si tratta di strumentalizzare la storia di mio fratello. Sicilia, per l’Unione è caos primarie La Margherita lancia l’ex forzista Latteri. Con malumore dei suoi. Ds spiazzati, Prodi tace imbarazzato PATRIZIA ABBATE PALERMO Nel 2000 Ferdinando Latteri era il «nemico da battere» per il centrosinistra siciliano. E aveva dato un gran dispiacere a Enzo Bianco, strappando la poltrona di rettore a Catania al suo fedelissimo Enrico Rizzarelli, poche settimane prima che Scapagnini conquistasse il comune e consolidasse l’onda lunga della destra. Cinque anni dopo è lui l’asso che la Margherita butta sul tavolo dell’Unione siciliana, candidandolo alle primarie contro Rita Borsellino. Una giocata a sorpresa, che ha irritato non poco gli alleati diessini e che starebbe provocando un terremoto anche tra gli stessi Dl, molti dei quali ieri hanno saputo la notizia esattamente come tutti: dai tg locali. «Ho deciso di accettare, aderendo all’invito del partito che mi è stato rivolto da Francesco Rutelli e Franco Marini», ha comunicato lo stesso Latteri ieri mattina alle agenzie di stampa. Dunque una decisione esclusivamente romana? Può darsi. Ma di certo una scelta abbastanza indecifrabile, e per certi versi «suicida», perché Latteri non potrebbe essere più diverso dalla Borsellino e più simile a Totò Cuffaro. Col quale condivide il passato democristiano e la professione di medico che lui però esercita davvero, in una posizione che gli ha dato grande potere: il posto di primario in chirurgia d’urgenza al Cannizzaro di Catania e di rettore dell’università – è stato riconfermato nel 2003 – sono la base della sua forza politica. Alimentata negli anni da un bacino di consensi che lo ha portato due volte in parlamento con la Dc, e che Latteri è riuscito a mantenere in Forza Italia e poi dalla parte opposta, nella Margherita, dov’è approdato nel 2004 alla vigilia delle Europee, ottenendo in cambio un posto da capolista che non gli è valso però l’elezione (pur avendo rastrellato oltre 150 mila voti). La Margherita ha continuato a puntare moltissimo su Latteri in questi mesi, offrendogli la presidenza regionale della Fed e – ieri – anche un posto nella direzione nazionale, insieme al biglietto per le primarie che ha però tutta l’aria di una «polpetta avvelenata». «La sua candidatura è un motivo in più per votare la Borsellino», ha detto ieri Antonio Di Pietro, sintetizzando quello che nell’i- sola pensano in tanti. L’ex pm era a Palermo per omaggiare il primo presidente della regione Sicilia Giuseppe Alessi, che compiva cento anni e attorno al quale si sono raccolti in tanti, compreso Romano Prodi. Il leader dell’Unione non si è voluto schierare: «Borsellino o Latteri? Mi auguro solo che chiunque vinca, si decida subito dopo di andare tutti insieme verso il successo alle elezioni regionali», ha tagliato corto. Mentre accanto a lui il diessino Ayala firmava la petizione a sostegno della presidente onoraria di Libera. Non sarà semplice però arrivare a una consultazione «serena» come auspica Prodi. Perché il nome di Latteri e le modalità con cui è stato tirato fuori hanno creato tensioni fortissime nella coalizione. I più spiazzati sono ovviamente i diessini, che nei giorni scorsi avevano preso tempo e cercato di individuare insieme alla Margherita un «Prodi siciliano» che potesse accontentare tutti, e ora si ritrovano a dover esprimere un proprio candidato in fretta, perché in moltissimi nel partito storcono il muso dinanzi a Latteri, mentre sta crescendo il fronte di chi pensa che a questo punto la scelta migliore sia stare a si- nistra con Rita Borsellino. L’irritazione della Quercia è espressa da Lillo Speciale, capogruppo all’Ars: «Avrei preferito che queste scelte si facessero nelle sedi opportune, e cioè in un vertice di tutti i partiti della coalizione, piuttosto che dando annunci attraverso la stampa...», ha dichiarato. «Anche noi abbiamo delle proposte e le comunicheremo ai nostri alleati dell’Unione», è stato invece il commento stringato del segretario regionale Ds Angelo Capodicasa. Che non ha ritenuto di anticipare la riunione di direzione fissata per giovedì, nonostante il marasma. Se ne dispiace il segretario siciliano di Rifondazione Rosario Rappa, «in un partito strutturato si dovrebbe immediatamente convocare la segreteria e assumere delle decisioni...», dice. Ma il punto è che questo nome ancora non c’è, e lo sgambetto della Margherita ha reso ancor più difficile trovarlo. Chi contrapporre al moderato Latteri così simile all’avversario Cuffaro? La risposta più ovvia sarebbe Fava, ma ora, con la Borsellino in campo, l’ipotesi diventa improbabile. A meno di un altro colpo di scena e di una staffetta in extremis tra i due. C’è chi comincia a crederci. ROBECCHI/DALLA PRIMA Insomma, teniamoci stretto Tremonti, perché ogni volta che si allontana dalla scrivania, qualcuno ne approfitta, entra di nascosto e fa un buco nei conti pubblici, poi se ne va, arriva il povero Tremonti e trova il buco. Attenti, dunque: se passate nei dintorni del ministero dell’economia fate il giro largo e cambiate marciapiede, perché potreste essere accusati di aver fatto un buco nei conti dello Stato mentre Tremonti era in pausa pranzo. Come in tutti i romanzi gialli che si rispettino, bisogna seguire bene la trama. Ha un alibi Tremonti? Certo che sì: mentre Siniscalco, subdolo e maligno, gli faceva un altro buco nel bilancio, lui era vicepresidente del Consiglio, una posizione da cui notoriamente non si sa nulla dei conti del Paese, anche se si votano tutti i provvedimenti. Il suo capo, nel frattempo, l’ometto del miracolo italiano, si sbracciava per dire che siamo tutti ricchi, altroché, ci mancherebbe, guarda qui che sciccheria. E nel tempo libero, mentre i suoi creativi dell’economia confezionavano due manovre correttive in dieci giorni (record del mondo) si dilettava a stilare liste di comici sgraditi. Grande statista. Inutile dire che tutti gli economisti, gli analisti e i politici dell’opposizione che avevano paventato una manovra correttiva sono stati sbertucciati per mesi, offesi, derisi, descritti come Cassandre e disfattisti, gente che semina sfiga. Dopodiché di manovre correttive ne hanno fatte due. Per fortuna il ministro Tremonti ha assicurato l’altro ieri che questa manovra correttiva è l’ultima e non ce ne saranno altre, bontà sua. Anzi, forse dormirà sulla scrivania di Quintino Sella, in modo da evitare che qualcuno entri di notte a fare un altro buco nei conti. Comunque allegri, non c’è da preoccuparsi, in un modo o nell’altro sono saltati fuori cinque miliardi. Un po’ di soldi si fregano alle ferrovie, per la gioia degli utenti che ora insieme a zecche, pulci e topi, potranno viaggiare anche con animali più esotici, tipo tarantole o coguari. Qualche soldo per la scuola privata si trova sempre, senza contare l’Ici della Chiesa, che tanto ce la rimettono i comuni. Ecco in sintesi, quattro anni di politica economica, una tragedia a sfondo comico di ambientazione liberista, dove l’unico che fa i soldi con le sue aziende è il presidente del Consiglio. Quando, un giorno di metà aprile, i liberisti del centrosinistra arriveranno alla stanza dove sta la scrivania di Quintino Sella, chiameranno le telecamere per dire a tutti che lì c’è un buco spaventoso, mostreranno il cadavere dei conti pubblici e attenderanno i risultati dell’autopsia, mettendo bene in chiaro che urgono sacrifici. Tremonti si allontanerà alla spicciolata, fischiettando per non farsi notare, magari travestito da italiano neo-povero, per confondersi con la maggioranza dei cittadini della Repubblica accorsi a festeggiare. (alessandro robecchi) il manifesto domenica 30 ottobre 2005 8 SOCIETÀ Roma, in 10 mila contro gli sfratti I ANGELO MASTRANDREA ROMA nevitabilmente la star del corteo dei senza casa è lui, il presidente di un municipio grande quanto una città di medie dimensioni, qual è quello romano di Centocelle, che requisisce gli alloggi sfitti per darli agli sfrattati. Non accadeva dai tempi del sindaco La Pira, Firenze anni ‘60, che un politico affermasse senza mezzi termini il principio che il diritto ad avere un tetto sotto cui abitare viene prima di quello alla proprietà. Non era comunista come Sandro Medici ma democristiano, non era laico ma è stato addirittura beatificato. Eppure la piazza li accomuna in nome della medesima sensibilità verso i bisognosi. Viceversa, nel mirino c’è il governo Berlusconi, e quando gli oltre diecimila senza casa passano davanti al ministero dell’Economia partono cori «vergogna, vergogna» contro il ministro Tremonti. Sulla manifestazione aleggia anche il fantasma del sindaco di Bologna che sgombera le case occupate, gli immigrati e ora vuole chiudere anche i centri sociali. E infatti quando il corteo entra a piazza del Popolo si sente urlare al megafono: «Questo corteo è anche una risposta a Cofferati: prima i diritti fondamentali come quello alla casa e poi la legalità». E’ un lungo elenco di sigle dietro le quali si nascondono migliaia di facce e corpi, il serpentone che si snoda da Porta Pia in direzione di piazza del Popolo in un pomeriggio primaverile e una città svuotata dal ponte di Ognissanti. Erano anni che non si vedeva una manifestazione dei movimenti di lotta per la casa così partecipata, ed è ovvio che si svolga in una città come Roma che è anche la capitale dell’emergenza abitativa con i suoi 43 mila sfratti, il caro affitti e la speculazione immobiliare. Ed è proprio per questo che la manifestazione riesce a coalizzare insieme squatter e «cartolarizzati» che abitano case di proprietà di enti pubblici in dismissione, studenti universitari fuorisede e immigrati, questi ultimi in gran numero. Tutti insieme in nome del precariato, abitativo e di lavoro, e dunque di vita. «Ma santità, lei lo sa che il Vaticano ci sfratta?», chiedono gli abitanti delle case di enti legati alla chiesa che improvvisamente si sono visti intimare lo sfratto o triplicare gli affitti. Gli spezzoni più ampi sono quelli di Action, che apre il corteo con uno striscione «stop alle speculazioni edilizie e ai suoi complici», del Coordinamento cittadino di lotta per la casa che dietro lo striscione «reddito e case per tutti» sfila con gli analoghi movimenti di Firenze e di Palermo e qualche centro sociale, e poi dell’Unione inquilini, che porta in piazza famiglie arrivate da tutta Italia. E ancora, oltre allo spezzone degli studenti della Sapienza occupata con tanto di camioncino e dj, i precari dell’Atesia, il sindacato di base Rdb e gli skinhead Scendono in piazza i movimenti di lotta per la casa. Che appoggiano e applaudono la battaglia di Sandro Medici e chiedono di requisire gli alloggi sfitti. Centrosinistra assente della Rash. «Il nostro coordinamento è nato quattro anni fa quando abbiamo occupato per quattro mesi la cattedrale di Palermo», racconta Elisabetta, una ragazza del centro sociale palermitano Ex carcere. Toni Pellicani, un altro dei 150 arrivati dal capoluogo siculo, racconta di una famiglia che da oltre dieci mesi vive in un’auto parcheggiata davanti al teatro Civico e di come «siamo riusciti a far assegnare a famiglie bisognose un centinaio di alloggi confiscati alla mafia». Si fa notare invece la totale assenza delle forze politiche del centrosinistra, fatta eccezione per Rifondazione comunista e per il consigliere regionale dei Verdi Peppe Mariani. «Mi spiace che non ci siano state altre adesioni. Quella di oggi (ieri, ndr) non è una piattaforma di un’area minoritaria, ma si tratta di una iniziativa che andrebbe raccolta dall’Unione», dice Pietro Folena del Prc, che propone il blocco delle cartolarizzazioni e degli sfratti e di «mettere in moto un piano casa per alloggi pubblici, tenendo presente che nell’ultimo anno in Italia ne sono stati realizzati 1.500 e a Londra 30 mila». Inoltre, «bisogna puntare al canone concordato, tassare la grande rendita immobiliare e abolire l’Ici per la prima casa». Diversi cartelli chiedono la requisizione degli alloggi sfitti, più di 100 mila a sentire il consigliere comunale disobbediente Nunzio D’Erme. Sandro Medici va avanti e indietro nel corteo, ci sono anche le famiglie che ha sistemato negli alloggi per la cui requisizione è indagato per abuso d’ufficio. Ma l’inchiesta della magistratura non lo intimorisce: «Nonostante le polemiche l’ordinanza non è stata bloccata, dunque rimane valida». Certo, il prefetto Un’immagine del corteo per la casa di ieri a Roma (foto Attilio Cristini). In basso, la signora Rita Andreoli (foto Maila Iacovelli) decidere uno sgombero con la forza, ma Achille Serra è stato il primo a sostenere che quello della casa è Roma è un problema sociale e non di ordine pubblico, dunque ben difficilmente interverrà. Walter Veltroni non è d’accordo con la politica delle requisizioni, confida Medici, anche perché il comune di Roma si considera all’avanguardia per quanto riguarda le risposte all’emergenza abitativa. Ma comunque non si è schierato contro, e l’unico passo ufficiale comune provincia e regione lo hanno fatto chiedendo al governo la moratoria per un anno degli sfratti. «Il problema della casa è grave e drammatico. La risposta del governo è inadeguata e si vedono ora i nodi sociali aperti dalla politica delle cartolarizzazioni. La Regione ha previsto un finanziamento straordinario in bilancio per la casa, ma serve un piano per l’edilizia residenziale pubblica». Così il consigliere regionale del Prc Luigi Nieri. Anna e Franco, cacciati dal Vaticano «Abbiamo ristrutturato le case della Chiesa ma adesso ci danno il benservito» LUCA DOMENICHINI ROMA Franco Lattughi è uno dei tanti casi di sfratto voluti dal Vaticano per realizzare un maggior incasso. Rialzando i canoni d’affitto e cedendo le case a nuovi – e più ricchi – locatari. Lattughi abita a Roma e Propaganda Fide, il potente ministero della Chiesa cattolica proprietario della sua casa, gli ha fatto sapere che o libera l’appartamento o sarà costretto a pagare un nuovo canone: 2.100 euro al mese, «spese escluse». E tra queste non sono certo contemplate quelle che Lattughi – un pensionato di 63 anni – e sua moglie hanno sostenuto dieci anni Dal Cupolone alla strada. La Propaganda Fide, il «ministero degli esteri» della Chiesa, alza i canoni d’affitto e manda via i vecchi inquilini fa, quando nel ‘95 sono entrati nell’abitazione. «L’appartamento era disastrato – spiega Franco, ex dipendente Alitalia – e il ministero della Chiesa cattolica non riusciva a rivenderlo. Mi sono offerto, con mia moglie, di mettere insieme i ‘pezzi’ (porte, finestre, sistema di riscaldamento, tutta la pavimentazione) a spese mie. Ci abbiamo lasciato 200 milioni: la nostra intera liquidazione». La casa, un bell’appartamento all’Esquilino, in una zona centrale che è diventata multietnica con l’arrivo dei migranti, è stata attrezzata «alla moda». Con un soppalco (condonato) per la camera, infissi nuovi e ter- mosifoni funzionantia, ora l’appartamento vale di più. La famiglia Lattughi paga 600 euro al mese, sin dai tempi del primo contratto a equo canone. Non abbastanza per Propaganda Fide, però, che ha mandato a chiamare Franco per ridiscutere l’affitto. «Prima – osserva Lattughi – mi hanno inviato una lettera, dicendo che bisognava passare a un canone più alto». Poi il suo avvocato glia vrebbe consigliato di non fidarsi («verba volant, mi ha ricordato»): meglio chiedere un’altra carta con la cifra nuova messa per iscritto. Ma la seconda lettera non è mai arrivata. In compenso è arrivata una telefonata che convocava Lattughi al ministero degli esteri della chiesa cattolica, cioè - di nuovo - al Propaganda Fide. «Mi hanno chiesto di pagare 2100 euro al mese per l’affitto». Il vento evidentemente deve essere cambiato - come gli è stato detto - e a tirare, oggi, è sempre di più il mercato. «Ma i miei investimenti, i soldi spesi per la ristrutturazione?» «Ve li siete goduti in dieci anni di affitto», gli hanno risposto. Con 1500 euro al mese di pensione, però, adesso è difficile cambiare. «Ho offerto loro 850 euro al mese, il 30 per cento in più. Pagare oltre, non posso». Una storia come tante. Perché dietro Campo de’ fiori, la piazza dove c’è la statua dell’eretico Giordano Bruno – sguardo fisso a terra, il capo incappucciato e un libro in mano –, si trova anche l’appartamento di Anna Lavista, una casalinga che vive in via del Gonfalone con il padre pensionato e il figlio studente. La casa è di proprietà del Capitolo di san Pietro in Vaticano. Sorge dopo i palazzi antichi con i muri rossi del Dipartimento nazionale antimafia, le scuole medie Virgilio e la chiesa del Gonfalone le cui pareti confinano con la casa dei Lavista. Anna ha affittato il locale nel ‘93, quando ha venduto un ristorantino a Pescara e con i soldi ricavati ha costruito la sua nuova casa romana «aggiustando i ballatoi delle scale, il tetto, l’impianto elettrico e idrico, e mettendo un bagno vero perché prima c’era solo la turca. In un rione centrale come il Ponte, pagavo all’inizio 420 mila lire di equo canone; ma prima ho speso anche 150 milioni di tasca mia per rifare l’abitazione». Il Capitolo del Vaticano che le ha affittato l’appartamento, le avrebbe rilasciato una carta intestata, con il timbro della Santa sede. «Faccia la casa più bella possibile - c’è scritto nel documento - e vedrà che se la godrà per sempre». «Tre anni e quattro mesi dopo, nel ‘96, ho invece ricevuto l’ordine di sfratto». Ma l’odissea di Anna non è finita. La storia della gestione di questi palazzi antichi, in un rione centrale e «aristocratico» per tradizione, finisce nel 2000 anche sui giornali. L’amministrazione del capitolo passa così all’asta la proprietà della casa di Anna. Anche per i nuovi padroni, lo sfratto dei Lavista è confermato. «Pago 320 euro al mese di affitto, una cifra inferiore al prezzo di mercato. Chiedo da nove anni al Vaticano di passare a un canone più alto e aggiornato – racconta l’inquilina – ma non mi hanno mai risposto. E’ un muro di gomma: l’ultima volta che ho parlato con gli avvocati della Santa sede è stato due mesi fa, e mi hanno detto che l’ordine di sfratto non è cambiato. Sostengo spese da dieci anni, non mi riconoscono i documenti fatti e adesso ho finito tutti i soldi della vendita del ristorante: non so che fare». INTERVENTO Le domande che pone il movimento studentesco La giornata del 25 ottobre 2005 segnerà in profondità questa stagione sociale e politica. Non solo perché ha preso forma e visibilità un nuovo soggetto sociale e politico – ne ha scritto su Il Manifesto, in modo assai convincente, Loris Campetti. Ma anche perché in qualche modo si apre già un conflitto col futuro possibile governo: ha come oggetto non solo le destre (il ddl Moratti), ma le politiche liberali e aziendalistiche (la legge Zecchino) che le sinistre hanno prodotto nelle università e nella formazione. Interroga prima di tutto noi, parlamentari «radicali», naturalmente simpatizzanti di questa causa, che hanno cercato di evitare che a causa dell’irresponsabilità del ministro Pisanu e dei comportamenti delle forze dell’ordine, questa giornata finisse in un dramma. Interroga chi ha fatto la spola tra la piazza e il Parlamento. Interroga l’Unione e il suo leader. Per quello che mi riguarda, attraversando il corteo, passando per i vicoli e i tafferugli, davanti Montecitorio e alla Sapienza, mi sono sentito addosso alcuni interrogativi. Il primo è il senso di quel «Don’t touch my brain» con cui gli studenti bolognesi partecipavano al corteo. E’ la presa di coscienza, l’autoriconoscimento, la rivendicazione di soggettività del «Case popolari, serve un piano» PIETRO FOLENA * cervello, del pensiero, della conoscenza e della sua libera trasmissione nell’epoca in cui si vuole brevettare tutto. C’è qualcosa che abbiamo già visto nei decenni precedenti, ma mai espresso in modo così vitale, legato alla propria esistenza. C’è una critica radicale a un’idea di sviluppo, di lavoro, di civiltà che si è retta attorno alla convinzione che la privatizzazione della vita, dei beni comuni, di ogni attività economica, sociale e culturale fosse il motore del pianeta. Il pensiero altermondialista - che su questo punto ha prodotto elaborazioni importanti - dai forum sociali si sposta ai luoghi di produzione del sapere. I paradigmi novecenteschi – anche a sinistra - sembrano travolti da questa domanda di libertà e di autodeterminazione. La politica istituzionale può incontrare la radicalità di queste domande solo se si pone il problema della conoscenza come bene comune, non privatizzabile, che si può scambiare liberamente e gratuitamente, motore di un’idea alternativa di economia e di società. Il secondo interrogativo l’ho letto nello striscione con cui si è svolta, il 26 ottobre, la conferenza stampa del mo- vimento. «Contro il governo della guerra alla cultura». Di «genocidio culturale» parlavano cartelli e slogan della manifestazione. Si tratta di termini polemicamente ispirati alla nuova retorica bellicista di questi anni – dalla guerra al terrorismo a quella leghista contro i clandestini, dalla guerra alle prostitute a quella in salsa felsinea ai lavavetri -, adattati e trasportati nel mondo della conoscenza, laddove si rischia la nuova selezione di classe, tra ricchi e poveri, la nuova omogeneizzazione ideologica da parte del mercato e dei consumi, la nuova precarizzazione di massa come condizione moderna di subalternità e di schiavitù. C’è un nesso tra condizione studentesca, legge 30 e lavoro in affitto, precarizzazione universitaria e blocco degli ordini professionali verso i giovani. E’ l’altra faccia della soggettività operaia esplosa a Melfi e in altre lotte che muovono dalla vita – dall’oppressione nella fabbrica, all’esproprio di altre parti della propria esistenza, dalle condizioni pietose dei treni per i pendolari e dei trasporti pubblici al costo insopportabile degli affitti -; che muovono dalla nuova domanda di democrazia e di rappresentanza sindacale che viene dai metalmeccanici (anche nel Congresso Cgil); che partono nel pubblico impiego che scopre la propria funzione di soggetto sociale dei beni comuni. Non si apre ora il bisogno di un incontro tra queste soggettività? Non hanno – attorno alla liberazione della vita, alla propria dignità e al diritto alla conoscenza- interessi e obiettivi comuni? «Il nostro tempo è adesso e cominciamo ora». Il terzo interrogativo è qui, nel forte e irriducibile proclama di autonomia di questo movimento. Ha vinto il 25, malgrado le violenze e le cariche: ha circondato il Parlamento. «Gli studenti assediano il Parlamento», hanno scritto i grandi giornali. Che quindi si pone il problema del potere e della politica. E’ tuttavia un movimento privo di avanguardie ideologizzate. L’unica, forse, per le sue pratiche attive, è l’area della disobbedienza. Martedì ha fatto fronte a provocazioni e azioni politiche di settori delle forze dell’ordine manovrati dalla destra. Poteva finire molto peggio. Ma poiché questo è un movimento che dura, e poiché Genova è nella memoria di tutti – e giustizia non è stata fatta -, dovremo tutti essere nei prossimi giorni consapevoli e attenti. * parlamentare indipendente del Prc LA STORIA «Io, pensionata, salvata grazie alla casa requisita» A. MAS. ROMA «Pensi che sono venuta con 400 di diabete alla manifestazione. Ma dovevo esserci». Si appoggia a un bastone per camminare, la signora Rita Andreoli. Ma non vuole mancare al corteo perché sa che anche per lei, nonostante l’invalidità parziale e un marito ammalato di Parkinson, il diritto alla casa non è affatto scontato. 64 anni, è una inquilina un po’ particolare. E’ infatti una delle persone per le quali il presidente del X Municipio romano Sandro Medici ha requisito un alloggio sfitto e abbandonato dai proprietari. Una misura d’emergenza che ha scatenato le polemiche della destra. «Mi ha salvato, grazie a lui non mi trovo per strada. Perché lo trattano così male? Sta aiutando persone come me che ne hanno bisogno». La signora Andreoli è stata sbattuta fuori dalla casa in cui viveva in affitto, «200 euro al mese più 100 di condominio», il 30 settembre scorso. Ora vive in 40 metri quadri con il marito settantaseienne e malato, più una figlia ragazza madre con tre nipoti. «E’ poco, ma almeno abbiamo un tetto sulla testa. Con la sola pensione di mio marito non possiamo permetterci un affitto». Allora bisogna arrangiarsi. «Quando siamo entrati le mura erano del colore della sua maglietta (nera, ndr) e c’era la muffa, l’abbiamo ripulita tutta e resa vivibile. Per 23 giorni siamo stati con le candele perché non c’era l’impianto elettrico. Ora andrebbe cambiato il bagno ma ci accontentiamo». Nell’Italia del 2005, nella sua capitale, esistono ancora realtà come queste. domenica 30 ottobre 2005 il manifesto SOCIETÀ COSTANTINO COSSU OLBIA «Abbiamo in casa una bomba atomica. Secondo cosa succede, non ci saranno più né sardi né corsi». Così Nadine Niveggioni, deputata all’assemblea regionale di Ajaccio, ha riassunto i motivi della partecipazione del Partito nazionalista corso alla manifestazione contro la Base della Maddalena che si è tenuta ieri a Palau, il porto dal quale ci s’imbarca per raggiungere l’isola che ospita i sommergibili da guerra della marina militare Usa. Insieme ai corsi anche i militanti del Partito sardo d’azione, l’altra organizzazione promotrice della protesta. Da Palau sono partite barche e gommoni che hanno raggiunto lo specchio di mare davanti alla base di Santo Stefano. «Simbolicamente _ racconta il leader di Indipendentzia 9 La Maddalena, corteo anti-Usa Repubrica de Sardigna, Gavino Sale _ abbiamo issato le bandiere italiana, statunitense e quella sarda con i quattro mori. Davanti alla base americana abbiamo ammainato la bandiera a stelle e strisce per rappresentare visivamente l’auspicio di una chiusura della struttura militare». «Dalla Maddalena _ dice il segretario del Partito sardo d’azione, Giacomo Sanna _ gli americani devono andare via. E’ gravissimo che alla richiesta di una chiusura che viene dall’opinione pubblica sarda e dalla giunta regionale, l’amministrazione Bush abbia risposto un mese fa annunciando un progetto, già finanziato dal Congresso, che punta a triplicare la struttu- ra militare di Santo Stefano». «Non è la prima volta _ aggiunge il segretario del Partito nazionalista corso Fabienne Alfonsi _ che sardi e corsi hanno fatto fronte comune. E’ successo nel decennio passato quando, insieme, siamo riusciti a bloccare il transito delle petroliere nelle Bocche di Bonifacio. Succede oggi di fronte ad un gravissimo pericolo com’è quello rappresentato dalla presenza di sommergibili atomici alla Maddalena». I rappresentanti del Partito sardo d’azione e del Partito nazionalista corso hanno incontrato il presidente della provincia della Gallura, Pietrina Murrighile. Il consiglio provinciale ha vo- tato all’unanimità un ordine del giorno che chiede la chiusura della base americana. Altrettanto ha fatto il consiglio della provincia di Sassari. E tra una settimana si mobiliterà l’intero movimento pacifista sardo. Domenica 6 novembre, per il quarto anno consecutivo, si svolgerà la marcia organizzata dalla Tavola sarda per la pace: venti chilometri a piedi da Gesturi e Laconi (due piccoli centri in provincia di Cagliari) per chiedere che gli americani vadano via dalla Maddalena, che i poligoni Nato di Quirra e di Capo Teulada siano chiusi e che si faccia chiarezza sull’uso, durante le esercitazioni in Sardegna, di armi all’uranio impoverito. La polizia: «Ghira è morto» L’estremista nero sarebbe sepolto dal 1994 a Melilla, enclave spagnola in Marocco U C. L. ROMA na tomba imbiancata con la calce e sopra una croce con una targa su cui spiccano un nome e una data: Massimo Testa De Andreas, 11-04-1994. Andrea Ghira, uno dei tre neofascisti massacratori del Circeo sarebbe sepolto lì, in quella tomba situata nel piccolo cimitero di Melilla, enclave spagnola in territorio marocchino conosciuta soprattutto per i tentativi compiuti ogni notte da centinaia di immigrati per scavalcare la sua frontiera ed entrare in Europa. Ricercato dalle polizie di tutto il mondo in realtà Ghira sarebbe morto da undici anni, dopo aver passato un lungo periodo della sua vita proprio a Melilla dove all’inizio degli anni 80 si sarebbe arruolato nella legione straniera spagnola sotto il falso nome di Massimo Testa De Andreas e dove avrebbe raggiunto il grado di caporalmaggiore. Espulso nel 1993 per uso di sostanze stupefacenti, Testa/Ghira sarebbe morto l’anno successivo per overdose, come spiega la polizia spagnola che dopo aver confrontato le impronte di Testa con quelle di Ghira ha confermato ieri che sono uguali. Ad annunciare la morte di «faccia d’angelo», l’unico a non aver fatto neanche un giorno di carcere per l’omicidio di Rosaria Lopez e il tentato omicidio di Donatella Colasanti, è stato ieri il capo della squadra mobile romana Alberto Intini e presto dalla procura partirà una richiesta di rogatoria internazionale indirizzata alle autorità spagnole in cui si chiede di poter effettuare il test del Dna sui resti del corpo indicato come quello del neofascista. E’ stato un cugino di Andrea Ghira a indirizzare gli inquirenti verso Melilla. L’uomo avrebbe parlato al termine delle perquisizioni che solo tre giorni fa i carabinieri dei Ros, insieme agli agenti della squadra mobile e del Dac, il dipartimento anticrimine guidato dal prefetto Nicola Cavaliere, hanno eseguito in nove appartamenti di familiari e amici dell’estremista nero. «Andrea è morto da tempo, lo trovate sepolto a Mellilla». E con l’indicazione anche una serie di documenti e fotografie utili alle indagini. Trovata la tomba, e verificata quindi l’autenticità dell’indicazione, da Roma sono partite alla volta dell’enclave spagnola le impronte digitali di Ghira per un primo riconoscimento risultato positivo. Un passo importante, ma che gli investigatori si guardano bene dal considerare definitivo. «Solo quando avremo i risultati del test del Dna, potremo dire con certezza che si tratta di Ghira, e solo allora potremo dire che il fascicolo è chiuso», spiegava in serata un investigatore. Una prudenza dovuta. La Spagna è uno di quei paesi in cui in passato ha operato una rete di protezione per neofascisti in fuga molto attiva. Un’organizzazione di questo tipo, con sede a Barcellona, era stata messa in pedi ad esempio da un estremista di nome Guerin-Serac aiutato dall’italiano Stefano Delle Chiaie. Organizzazione smobilitata ufficialmente con la caduta del franchismo, ma che potrebbe aver continuato la sua attività di sostegno anche in clandestinità. Per loro fornire falsa generalità, ma anche attribuire impronte digitali di un latitante a un corpo senza nome, non sarebbe stata un’impresa difficile. Da mesi gli inquirenti sospettavano che Ghira potesse essere morto. A maggio i carabinieri dei Ros avevano intercettato una telefonata in cui alcuni familiari avrebbero lasciato intendere che Ghira fosse morto. E una telefonata dello stesso tono era stata intercettata in seguito anche dalla polizia. Informazioni che, per gli inquirenti, avrebbero potuto essere benissimo dei tentativi di depistaggio, considerate La tomba di Ghira a Melilla (foto Ap). A sinistra Ghira negli anni ’70 e la ricostruzione delle sue sembianze nel ‘95. Sotto il ritrovamento di Rosaria Lopez e Donatella Colasanti a Roma anche le volte in cui, nel recente passato, Ghira sarebbe stato visto (e addirittura fotografato) a passeggio per le strade di Roma. Ma, soprattutto, se Ghira fosse stato davvero morto, chi avrebbe avvisato undici anni fa la famiglia del decesso e perché questa non lo avrebbe reso noto? Tanto più che di lui si tornò a parlare con insistenza nella primavera scorsa, quando Angelo Izzo uccise due donne durante un permesso di libera uscita dal carcere. Tutte domande che adesso i pm Italo Ormanni e Giuseppe De Falco, i due magistrati titolari delle indagini, rivolgeranno nei prossimi giorni ai genitori e agli altri parenti dell’estremista nero. Chi, invece, non crede proprio che Ghira sia morto sono le sue vittime. Ieri sia Donatella Colasanti che la sorella di Rosaria Lopez, Letizia, si sono dette sicure di trovarsi di fronte a un depistaggio: «Come mai il consolato spagnolo nel ‘94 non avvisò il consolato spagnolo della morte di questo ragazzo, Massimo Testa? Perché non hanno mai cercato i parenti? Dietro c’è sicuramente qualcosa», ha detto Letizia Lopez. «Ghira si trova a Roma, città aperta per tutti, anche per lui». E U R I S P E S ’Ndrangheta, affari da capo giro Ammonta a quasi 36 miliardi di euro il giro d’affari della ‘ndrangheta stimato dall’Eurispes nel 2004. Reggio Calabria anche nel 2005 è in cima alla graduatoria sul rischio di permeabilità mafiosa, mentre alla provincia di Crotone va il primato omicidi per ’ndrangheta. A Vibo Valentia, invece, il più basso livello di fiducia nelle istituzioni. «Dopo l’omicidio del vice presidente del Consiglio regionale della Calabria, Francesco Fortugno - ha detto il presidente Eurispes, Gian Maria Fara - è emersa, in modo inequivocabile la dichiarazione di guerra delle ‘ndrine alle istituzioni. Mai come in questo momento, è fondamentale non abbandonare i calabresi a se stessi». F O R T U G N O Comune di Locri parte civile Il comune di Locri si costituirà parte civile nel processo contro mandanti ed esecutori del delitto di Francesco Fortugno, vice presidente del Consiglio regionale della Calabria. La decisione è stata assunta dalla giunta municipale su proposta del sindaco, Carmine Barbaro, e dell’assessore al contenzioso, Maria Antonietta Lamberti. B R E S C I A Cade parapendio, due morti Stavano effettuando l’esame per il brevetto per portare il parapendio biposto, i due uomini, un istruttore e un allievo, che hanno perso la vita ieri a Brescia. Alcuni testimoni hanno visto la semi ala della vela chiudersi e il parapendio avvitarsi per 4-5 volte da un’altezza di circa 150-200 metri. I soccorsi non sono valsi a nulla. Anni Settanta, il neofascismo come stile di vita IL GRUPPO Soldi, violenza, macchine di lusso e superomismo: gli ideali dei tre massacratori del Circeo ANDREA COLOMBO Non è che tutti i fascisti fossero uguali, nella Roma degli anni ‘70. C’erano quelli che, come Teodoro Bontempo, miravano a mantenere un rapporto forte con i ceti popolari dai quali provenivano e che facevano le fortune elettorali del Msi nella capitale. Andrea Ghira, classe 1953, figlio di un costruttore edile, decisamente no. Come gli altri due massacratori del Circeo, Gianni Guido e Angelo Izzo, era un «pariolino», definizione che connotava allora non solo gli abitanti del noto quartiere-bene romano, ma tutti i ragazzi di estrema destra prove- nienti dall’alta e medio-alta borghesia. Frequentavano le scuole private cattoliche, o i licei classici come il «Mameli», appunto ai Parioli, o il «Giulio Cesare», una roccaforte di estrema destra. La villa al Circeo era quasi d’ordinanza. In quella della famiglia Ghira, due piani giardino, box, vista panoramica sull’isola di Ponza, furono torturate per 36 ore, il 30 settembre 1975, le diciassettenni Rosaria Lopez e Donatella Colasanti. Uccisa la prima, salva solo perché creduta morta la seconda. Più che come militanza politica i tre interpretavano il neofascismo come uno stile di vita: soldi, macchine di lusso, superomismo d’accatto e violenza. Un terrorista di destra che ha conosciuto e frequentato Izzo in carcere ricorda una surreale discussione: «Diceva di essere stato uno stupratore perché era fascista. Io gli ripetevo: ‘Ma che c’entra? Se sei stupratore sei stupratore, il fascismo non c’entra niente’». Gli stupri, per il gruppetto in questione, erano uno svago quasi quotidiano, stando alle testimonianze di Angelo Izzo. Vittime, di solito, amiche e compagne di scuola. Ragazze provenienti dal loro stesso ambiente e che, pertanto, non si potevano ammazzare senza troppi problemi come le due proletarie Rosaria Lopez e Donatella Colasanti. In virtùù della notevole stazza fisica Ghira eccelleva nelle botte di fronte alle scuole, ma la militanza politica attiva si limitava a questo. Si dichiarava nazista, ammirava Evola, teneva in camera i manifesti di Hitler, ma non aveva tempo da perdere con robaccia noiosa come le riunioni di partito o i volantinaggi. Sognava di diventare un grande criminale. Girava sempre con la pistola in tasca. Si faceva chiamare Jacques Berenguer, come il boss marsigliese in quegli anni figura dominante della malavita romana. Si dava da fare con il furto di motociclette e la ricettazione, poi qualche rapina: arrestato nel ‘73 per rapina aggravata e violazione di domicilio, condannato a 5 anni. Secondo Izzo le attività criminose del gruppetto andavano in realtà molto oltre, inclusi alcuni omicidi. Ma del «pentito del Circeo» c’è poco da fidarsi. Pur di accreditarsi come pentito autorevole si è accollato omicidi mai dimostrati. Ha distribuito accuse a destra e a manca, quasi sempre smentito dalle successive indagini (tra l’altro addossò proprio a Ghira l’uccisione di Giorgiana Masi, nel maggio ‘77). Ha parlato di una misteriosa organizzazione, le «Uova di drago», di cui avrebbero fatto parte anche i suoi complici nel delitto del Circeo, che probabilmente non è mai esistita. Criminale, ma con protezioni e coperture da ragazzo di buona famiglia, Andrea Ghira. I complici furono arrestati nella notte del primo ottobre 1975, poche ore dopo il ritrovamento di Donatella Colasanti nel bagagliaio della 127 di Gianni Guido, dove i torturatori la avevano lasciata credendola morta. Ghira invece sfugge alla cattura ma non va lontano: almeno in un primo periodo si nasconde tra Roma e il Circeo. Dieci giorni dopo l’arresto dei complici, gli scrive una lettera eloquente firmata «Berenguer-Ghira»: «Vi assicuro che quella bastarda la faccio fuori. Per voi non c’è pericolo: a fine 1976 uscirete tutti per libertà provvisoria. Non vi preoccupate per la mia latitanza, ho circa 13 milioni di lire, forse andrò via da Roma». Esagera quando cerca di tranquillizzare gli arrestati, non quando si mostra sicuro di farcela. Guido e Izzo saranno processati e condannati prima della fine del ‘76, il 30 giugno, e condannati all’ergastolo. Lui invece scompare. C’è chi lo vede in Kenya, chi in Argentina, chi sostiene che torni frequentemente a Roma. I documenti mostrati ieri da Federica Sciarelli a Chi l’ha visto? dimostrerebbero che si era arruolato nel Tercio, la Legione straniera spagnola sin dal ’76. Ieri la madre si è scagliata contro alcuni giornalisti: «Non valete nulla. Cosa volete adesso? Santificarlo?». Il suo dolore merita ogni rispetto. Ma santificare Andrea Ghira, o anche solo concedergli qualche attenuante, proprio non è possibile. il manifesto domenica 30 ottobre 2005 10 EUROPA UN DIKTAT INTOLLERABILE PER LA UE L’imposizione americana sui dazi agricoli riunifica i 25 sul rifiuto francese QuelverticeWto chegliUsa nonamanopiù A ANNA MARIA MERLO PARIGI lla vigilia del nuovo incontro di domani alla Wto (Organizzazione mondiale del commercio), l’intransigenza degli Stati uniti (seguiti da Australia e Canada) sembra essere riuscita a compiere un miracolo: attenuare le divergenze, che si erano ormai trasformate in scontro diretto, tra la Francia e il commissario al commercio dell’Unione europea, il britannico Peter Mandelson, che negozia a nome dei 25 nel Doha Round (ma poi l’eventuale accordo dovrà essere accettato all’unanimità dai paesi dell’Unione). Peter Mandelson ha fatto venerdì una nuova offerta alla Wto sull’agricolatura, «l’ultima, al limite del socialmente tollerabile», ha ammesso il super-commissario. Parigi, che aveva minacciato il veto al Consiglio della Ue - un gesto definito «una bomba atomica» a Bruxelles - non parla più di ricorrere all’arma estrema, ma aspetta «chiarimenti» dalla Commissione per esprimersi, mentre lo stesso Mandelson ormai ammette a mezza voce di avere «dubbi» sulla reale volontà degli Usa di concludere un accordo alla Wto, che si riunisce a livello ministeriale dei 148 paesi membri dal 13 al 18 dicembre a Hong Kong. Difatti, all’ultima proposta di Mandelson, gli Usa hanno risposto di essere «delusi» e di volere di più. La pietra dello scandalo è l’agricoltura. S P U N T O Felice immunità Gli Usa - appoggiati dai principali paesi commerciali del mondo in via di industrializzazione - considerano l’accordo sull’agricoltura come una premessa indispensabile per passare agli altri settori della trattativa internazionale, l’industria e i servizi. L’idea è di cedere sull’agricoltura, per ottenere di più sui servizi. E l’Unione europea è messa sul banco degli accusati, a causa della Pac, che assorbe il 40% del bilancio comunitario. La Francia, prima potenza agricola europea, seconda nel mondo (dopo gli Usa), non intende cedere. Il presidente Chirac, al vertice straordinario di Hampton Court, ha fissato le «linee rosse» oltre le quali Parigi non intende andare e ha accusato esplicitamente Mandelson di essere «andato oltre il mandato» che gli era stato dato dal Consiglio europeo e di aver ceduto troppo. L’ultima proposta di Mandelson, venerdì, va addirittura al di là di quella fatta in precedenza che aveva provocato la minaccia di veto francese: continua a proporre una riduzione del 70% delle sovvenzioni interne alla produzione agricola, vi aggiunge la soppressione a termine delle sovvenzioni alle esportazioni, e un calo dei diritti doganali che gravano sulle importazioni di prodotti extracomunitari. Il punto più controverso tra Parigi e Mandelson è l’ultimo. La diminuzione degli aiuti diretti agli agricoltori, infatti, è una questione relativa, perché, con la riforma della Pac del 2003, Merci e commerci in rotta per la Cina La scena è cambiata. Al summit del Wto a Hong Kong il Sud si presenta diviso, India e Brasile cedono agli Usa MARIO PIANTA eo-nazionalismo economico contro neo-liberismo commerciale? E’ questa la prima impressione che si può avere del rinnovato scontro tra Stati uniti, Unione europea, grandi paesi del Sud del mondo e piccoli paesi poveri. A poche settimane dalla sesta conferenza ministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio di Hong Kong dal 13 al 18 dicembre, lo scambio di proposte, controproposte e accuse si fa più intenso, e intreccia i quattro grandi temi oggetto di trattative: l’agricoltura, i prodotti industriali, i servizi, le questioni della proprietà intellettuale e degli investimenti. Nelle ultime settimane l’affondo Usa sulla riduzione dei dazi all’importazione di prodotti agricoli ha messo in difficoltà l’Europa, che ha replicato con un’«offerta finale» del commissario al Commercio Mandelson, in cui si propongono i tagli ai dazi Ue che hanno fatto infuriare la Francia, chiedendo in cambio maggior accesso ai mercati industriali e dei servizi nel Sud. L’offensiva degli Stati uniti trova il consenso di grandi paesi del Sud, come India e Brasile, cooptati quest’anno N CARLA CASALINI ossiamo tirare un sospiro di sollievo, noi europei, da Bruxelles la Commissione Ue comunica di essere «finalmente» in possesso dei piani di tutti i 25 Stati «per far fronte all’influenza aviaria». Certo, la sicurezza non è mai troppa, si pensa «a ulteriori interventi», premette Markos Kyprianou, commissario alla Salute e Protezione dei consumatori, perciò va aumentata «la produzione» delle industrie farmaceutiche - dunque sarà un sollievo anche per l’affranto pil dell’Unione. Ma niente panico: «sarebbe assurdo paventare in Europa effetti simili all’epidemia di Spagnola» - che a inizio secolo uccise da 40 a 100 milioni di persone - giacché «siamo in una situazione migliore di altri continenti». Stacchiamoci un attimo dallo sconcerto di vedere le vite umane tradotte in «consumatori» da proteggere, e felicitiamoci invece nella conferma che le «nostre» vite valgono comunque molto di più di quelle di chi si trovi ad abitare «altri continenti». In caso di una eventuale pandemia, dunque, potremmo rinchiuderci come in una fortezza, salvi, lasciando fuori, in balia degli eventi tutti gli «altri». Mike Davis ricordava il meeting dell’Organizzazione mondiale della sanità, dove Thailandia e Sudafrica chiedevano di produrre nel sud del mondo vaccini e farmaci adeguati, e «Francia e Usa hanno unito le forze per proteggere il monopolio della Roche». Non ci sarà alcun «vaccino mondiale» contro l’influenza aviaria, perché la Ue, dove si concentra il massimo della produzione farmaceutica, non consente. In caso di disastro, i continenti «sfortunati», possono dunque lasciar crepare in pace i propri abitanti. Sembra quasi tradotta alla lettera quella sindrome immunitarista dell’Occidente, paranoia e difesa contro l’«altro» , che Roberto Esposito esemplificava dalle epidemie alle guerre dell’Impero con una avvertenza inquietante: l’accanimento immunitario «uccide il corpo» individuale e sociale che lo pratica, l’unica via di salvezza essendo «l’esposizione all’altro». Manifestazioni contro il Wto e contro la guerra a Seattle e a Roma (foto Ap) questi ribassi hanno già avuto luogo e, inoltre, le novità che entreranno in vigore dal 1° gennaio 2006 introducono lo sganciamento fra aiuti e quantità prodotte (quindi sono sovvenzioni che non rientrano nel campo di intervento della Wto, perché non vengono considerate perturbatrici del mercato). Invece, al cuore della polemica ci sono le condizioni di ingresso dei prodotti agricoli sul mercato europeo. In Francia è stata fatta un’analisi dettagliata sul ribasso delle tariffe doganali proposto da Mandelson (nell’ultima proposta parla di una forbice tra il 35 e 60% in meno, cioè una media di ribasso del 46% - dieci punti in più della prima stesura). «Su pomodori, pollame, carne bovina, zucchero, burro, avremo prezzi internazionali più bassi di quelli comunitari: è una rimessa in causa del principio della preferenza comunitaria», dicono i francesi, che sta alla base stessa della Pac (e la Pac resta una delle poche politiche comunitarie esistenti). Mandelson non ha nessun mandato per rimettere in causa l’esistenza stessa della Pac, insitono a Parigi. I sindacati agricoli aggiungono un dato: «Lasceremo al mercato il compito di decidere, ma di fronte ai prezzi praticati nel resto del mondo non ce la facciamo. Vivremo la stessa cosa che è successa nel tessile, moltiplicata per due o tre», cioè, «nessuno ci farà credere che l’Europa continuerà a fare dell’agroalimentare o dell’agro-industria, senza materia prima locale: i paesi produttori di materia prima la tasformeranno loro stessi ». Gli europei hanno, tra l’altro, subito una sconfitta all’Omc giovedì scoso: nell’annosa «guerra della banana», la Ue ha perso contro nove paesi produttori dell’America latina, che contestavano diritti doganali troppo alti per le loro banane (di cui la produzione è in forte crescita, perché avevano puntato su un aumento dei consumi nell’est europeo dopo il crollo del muro di Berlino, che non è avvenuto). L’Omc non solo obbliga la Ue ad abbassare i diritti doganali sulle «banana dollar», ma ha anche rifiutato l’esenzione accordata a 775mila tonnellate di banane dei paesi Acp (Africa, caraibi, pacifico) nell’ambito della Convenzione di Lomé. P Dopo Seattle e Cancun Bush, forte di lucrosi accordi bilaterali, prepara un trucco per il prossimo vertice mondiale del commercio. L’Africa è sola nella regia del vertice Wto dopo avere, come leader del G20 (il gruppo di venti paesi del Sud), resistito a lungo alle pressioni Usa e Ue, portando al fallimento il precedente vertice di due anni fa a Cancun. Cancun è lontana Ma è una proposta truccata: non tocca i grandi sussidi all’export, l’anima di un’agricoltura Usa malata di gigantismo, e non interviene sul caso del cotone, dove i piccoli produttori dell’Africa occidentale sono messi in ginocchio dalla concorrenza americana. E in fondo gli Usa, che hanno privilegiato in questi anni gli accordi bilaterali, potrebbero non puntare a un accordo a tutti i costi, con le inevitabili concessioni, anche per le difficoltà che Bush avrebbe di fronte al Congresso che gli dovrà rinnovare entro il 2006 il supermandato per i negoziati commerciali. Ma le divisioni sono ora visibili anche nel Sud, dopo l’inattesa unità che a Cancun aveva riportato in primo piano lo scontro d’interessi tra ricchi e poveri del pianeta. I governi dei tre maggiori paesi - India, Brasile, Cina - hanno ora interesse a un esito positivo del vertice Wto, anche se solo di facciata. La Cina, paese ospitante, stella na- scente dell’export mondiale, vuole sia un successo diplomatico, sia concreti vantaggi per le proprie merci, e non teme liberalizzazioni in nuovi campi dopo aver mostrato di saper trattare da pari a pari con le multinazionali occidentali. Al Brasile, con Lula in evidenti difficoltà politiche, elezioni nel 2006, e un’economia in ripresa, servono nuovi sbocchi di mercato, cercati sia nel rafforzamento regionale del Mercosur l’accordo con altri paesi latinoamericani - sia con uno sfondamento sui mercati mondiali. E l’India è segnata dalle spinte modernizzatrici che hanno visto crescere rapidamente i settori del software, dell’elettronica, dei servizi attraverso subforniture ai grandi produttori anglosassoni, in un contesto di liberalizzazione degli scambi. In tutti e tre questi paesi si sta accentuando il conflitto interno tra gli interessi dei contadini, delle comunità locali e dei piccoli produttori nazionali, le prime vittime di una liberalizzazione degli scambi, e quelli della parte «globalizzata» della propria economia - l’agricoltura capace di esportare, le nuove industrie, i settori dell’informazione e comunicazione - che sta espandendo i propri mercati negli altri paesi del Sud. Se questo scontro è destinato a segna- re per lungo tempo la politica di questi paesi, ci sono pochi dubbi che a Hong Kong finirà per prevalere la posizione negoziale dei «globalizzatori». Ben diversa è la posizione dei paesi africani, schiacciati in questi anni dal crollo dei prezzi dei prodotti di base che restano al centro del loro export, timorosi di perdere, in una liberalizzazione generalizzata, i pochi spazi del mercato Ue aperti loro dagli accordi preferenziali Acp, e assediati dalle spinte a liberalizzare i mercati interni di beni industriali, servizi finanziari, infrastrutture come acqua ed energia. Per loro, i vantaggi delle liberalizzazioni sono davvero difficili da scoprire. Se la partita negoziale si presenta sempre più intricata, la deriva verso Hong Kong tende ad appiattirsi sugli aspetti più immediati dell’accesso ai mercati - e quindi sulla riduzione dei dazi e delle tariffe doganali - mentre finiscono in secondo piano le considerazioni sugli effetti ambientali e sociali di produzioni e commerci. Meglio nessun accordo «A Hong Kong si profila uno scambio tra l’accesso ai mercati agricoli del Nord del mondo per i prodotti dei paesi in via di sviluppo e l’apertura dei mercati del Sud ai prodotti industriali e ai servizi, in particolare finanziari, distributivi e delle telecomunicazioni», spiega Antonio Tricarico, responsabile della Campagna per la Riforma della Banca mondiale, che segue da vicino i negoziati del Wto. «Con un tale accordo a perdere saranno i paesi più poveri, gli stessi africani che hanno fatto fallire i vertici di Seattle e Cancun. Dobbiamo spiegare che quello tra difese protezionistiche e liberalizzazioni generalizzate è un falso dilemma. Le regole del commercio vanno reinserite in una visione più ampia dello sviluppo e delle politiche per una crescita che tuteli i diritti sociali e dei lavoratori, e sostenibile sul piano ambientale». E’ questa la prospettiva indicata nel documento «Invertiamo la rotta a Hong Kong. Dal libero mercato verso regole certe e diritti per tutti », presentato dal cartello di associazioni che promuove l’osservatorio sul commercio internazionale Tradewatch (www.tradewatch.it). Come a Seattle e a Cancun, nessun accordo è meglio di un cattivo accordo che pensi solo a merci e commerci. domenica 30 ottobre 2005 il manifesto C H I P &S A L S A 11 Scienza micro a Wall Street O FRANCO CARLINI gni anno più ricco, più nazionale e più internazionale. Così il Festival della Scienza di Genova, attualmente in corso (www.festivalscienza.it). Ne ha già detto il manifesto del 27 ottobre, ma almeno due questioni, a festa avviata, si impongono. L’una, altamente positiva, è la straordinaria voglia di raccontare la scienza che anima da singoli docenti e istituti scolastici, laboratori di ricerca, università. All’apparenza l’Italia, in ritardo rispetto a altri paesi europei, sembra vivere un felice momento di passione culturale per i temi scientifici. Molte di queste esperienze, alcune artigianali (nel senso migliore del termine), sono venute a Genova, incontrandosi con una tradizione che attorno nel suo Dipartimento di Fisica vive da sempre. Queste attività le chiamano “divulgazione”, ma tale non è perché non c’è un volgo ignorante da alfabetizzare e perché le idee da far circolare non sono verità fissate una volta per tutte, ma questioni aperte, di cui importa far capire la problematicità. Tra l’altro, rispetto a una moda recente, sembra che il ricorso alle simulazioni al computer sia fortunatamente in declino: troppo facile fare cadere i gravi su di un monitor o sperimentare con i bit. Facile e poco istruttivo. Molto meglio la “fisicità”, appunto, dei banchi di laboratorio, delle provette, dei becker e della faticosa materia. Con enorme piacere ritroviamo dunque in questo festival gli apparecchi di misura, e fatti su misura da quello che negli anni ‘70 era il “genio del legno” di noi laureandi in fisica: il falegname Marigo, nel cui laboratorio scendevamo con le richieste più strane che lui realizzava con le migliori funzionalità, ma anche con un gusto estetico e un piacere della materia tipici di chi aveva imparato facendo botti e ruote di carro, in Veneto. Questa è la faccia micro del festival, disseminata per la città. Non è spettacolare, ma ne è forse l’aspetto più interessante che potrebbe essere ulteriormente e programmaticamente potenziato nelle edizioni a venire. Poi c’è la faccia della saggistica, degli incontri e delle conferenze. Dove noi giornalisti corriamo dietro al alcune star con qualche ingenuità. Leggiamo per esempio sul Corriere della Sera che «il biologo molecolare Craig Venter ha decifrato il linguaggio del nostro corpo: per primo ha disegnato la mappa del genoma umano». Nel programma del festival egli viene definito come «il padre del genoma umano, lo scienziato spregiudicato che ha rivoluzionato la ricerca medico-biologica ridisegnando il codice genetico dell’uomo e per questo duramente attaccato». Quanta approssimazione in queste frasi, e quali errori fattuali. Craig Venter era un tempo un ricercatore pubblico che operava presso i National Institutes of Health. In quel ruolo cominciò a mappare e sequenziare pezzi di Dna umano fin dai primi anni ‘90. La data fatidica è il 20 giugno 1991, quando lo stesso Venter depositò presso il Patent Office americano un dossier di 400 pagine; era la domanda di brevetto per 347 geni umani, di cui chiedeva ogni diritto futuro. In realtà nemmeno di geni si trattava, ma solo di frammenti (in termine tecnico Expressed Sequence Tags) di cui ignorava del tutto funzione e ruolo, ed erano il frutto delle prime macchine di sequenziazione automatica che facevano più presto e in maniera massiccia quello che fino allora era compito dei tecnici di laboratorio: estrarre il Dna dalle cellule e farlo migrare su dei gel per rivelarne analiticamente la struttura.Fu scandalo, e giusto scandalo, almeno tra i ricercatori più seri. Il coscopritore della struttura a doppia elica del Dna, il premio Nobel James Watson dichiarò nell’occasione: «Appena l’ho sentito sono caduto dalla seggiola ... con l’avvento delle macchine automatiche anche una scimmia potrebbe fare quello che il gruppo di Venter fa. Quello che importa è interpretare la sequenza. Se questi bit sparsi di informazione fossero brevettati, rimarrei inorridito». Invece lo sono stati, e in abbondanza: alla fine del 2000 erano stati attribuiti più di 25 mila brevetti relativi al DNA, che comprendevano frammenti purificati e clonati di gene, geni completi, sequenze di regolazione, metodi diagnostici e altre invenzioni. L’altra data è il giugno dell’anno 2000: Venter si era buttato a sequenziale il genoma umano con la sua azienda privata, la Celera Genomics. A un certo punto annunziò al mondo che aveva finito il progetto, comple- Tante le suggestioni all’edizione 2005 del Festival della scienza di Genova. Anche quest’anno una panoramica dalle esperienze più «artigianali» a quelle più globali. Lo strano equilibrio tra la ricerca astratta e la fisicità dei laboratori. Ma la vera novità è il nuovo concetto di divulgazione scientifica POLEMICHE E-Democracy alla bolognese F. C. egalità è un bel valore e Sergio Cofferati ha ragione nel sostenerlo. Detta semplicemente è il modo con cui le società moderne fanno fronte a una possibile giungla in cui interessi contrastanti si combattono in base alla legge del più forte. Sostenne Hobbes, il filosofo, che «l’artefice di società grandi e durature non era la benevolenza che gli uomini nutrivano nei confronti degli altri, ma la paura che nutrivano gli uni degli altri». Si delega dunque allo stato il monopolio del fare le norme e di farle rispettare. In questo modo i cittadini si possono sentire più tranquilli, non dovendo temere i più aggressivi e violenti. Nel pensiero politico moderno questa attribuzione della violenza a un’istituzione si accompagna a un altro aspetto decisivo della legalità: il cittadino deve anche essere protetto dall’eventuale strapotere delle stato, che esso sia retto da un sovrano o da una democrazia. Perciò, mentre si deleCofferati ga, insieme si ha sbagliato. deve poter controllare. E’ per Non doveva questo che i poimpedire liziotti americani hanno un dil’ingresso nella stintivo con un sala del numero di identificazione, consiglio per poter essere comunale chiamati a rispondere personalmente degli abusi (cosa che non avverrà per il poliziotto col volto coperto e il casco che a Roma nei giorni scorsi ha preso a calci una studentessa). E’ per questo che i luoghi del potere devono essere aperti: pubblici devono essere i processi e altrettanto il parlamento e i consigli comunali. Dunque chi impedisca ai cittadini di accedere alla sala consiliare per assistere al dibattito commette una illegalità e dovrebbe essere sanzionato. Il presidente del tribunale o dell’assemblea potrà sempre far sgomberare l’aula se i cittadini disturbano, ma non può e non deve impedire preventivamente l’accesso. Questo invece è quanto è successo a Bologna senza che alcuno dei tutori della legalità avesse nulla da obiettare. E’ stata una caduta pesante per un sindaco che sul rispetto della formalità sta costruendo la sua gestione seria, rigorosa, senza favoritismi, il che ingenera il dubbio che le norme le applichi con discrezionalità politica anziché con il dovuto e totale agnosticismo. La legge non conosce eccezioni, ha ragione Cofferati a sostenerlo, L ma questo dovrebbe valere anche per lui. Nello stesso tempo la democrazia ha bisogno di essere continuamente rinnovata e potenziata. L’anno scorso per esempio la città di Bologna è stata premiata a Vienna dal progetto Eurocities per le sue iniziative nel campo della cosiddetta eDemocracy, la democrazia arricchita dal tecnologie digitali di dialogo e comunicazione. Il premio è andato a Iperbole, la storica rete civica del comune, la quale tuttavia sembra aver perso molto dello smalto iniziale: informa molto e bene, ma poco dialoga, questa la sensazione. Eppure nell’idea di democrazia con la “e” davanti c’è un’idea importante, anche a prescindere dalle tecnologie, quella che la democrazia non sia il voto ogni tot anni, ma invece un processo continuo. I cittadini in questa visione non hanno solo il diritto di premiare o punire gli amministratori con il loro voto. Hanno anche quello di sapere cosa essi fanno giorno per giorno (/diritto all’informazione completa e tempestiva) e infine e soprattutto quello di poter dire la loro anche quando le decisioni sono in fase istruttoria. E’ un problema di democrazia ma anche di efficienza: è più facile infatti che i singoli gruppi e cittadini conoscano i problemi meglio degli amministratori e dunque se vengono chiamati a dire la loro la soluzione che verrà scelta potrà ragionevolmente essere più efficace ed efficiente. Il che non vuol dire che gli amministratori debbano adeguarsi agli eventuali interessi egoistici di singoli gruppi. Anni fa a Bologna ci fu una quasi rivolta dei titolari delle bancarelle di piazza dell’otto agosto (in centro, di fronte alla Montagnola) contro il parcheggio sotterraneo che lì si voleva costruire; lamentavano la perdita di incassi durante i lavori e andarono persino al Costanzo show in massa. Per fortuna il comune tenne duro in nome dell’interesse generale e oggi lì sotto c’è un ottimo posteggio multipiano che serve tutto il centro: in 10 minuti si arriva ovunque. Quel posteggio allora osteggiato è un efficiente strumento per garantire gli accessi lasciando il centro libero dalle auto. Eppure la nuova amministrazione ha deciso che al sabato il divieto non vale più e nemmeno sotto Natale. Qualcuno che non siano i commercianti è stato consultato? Si è fatto un sondaggio digitale o cartaceo con qualcuno che non fosse l’Ascom? Non risulta, e allora quel premio alla partecipazione elettronica non sembra poi così meritato. Illustrazione tratta da World Graphic Design Now tando la mappa. I grafici di Wall Street sono lì a ricordarci che immediatamente dopo l’annuncio le azioni arrivarono a 245 dollari, da 10 che valevano pochi giorni prima. Ma fu breve gloria ed era comunque una semibugia, per di più doppia: nella storia del progetto genoma c’è infatti un eroe nascosto, come lo definì il New York Times (Nicholas Wade, «Reading the book of life: grad student becomes gene effort’s unlikely hero». 13 febbraio 2001.) E’ Jim Kent, dell’università di California a Santa Cruz, che fu in realtà il primo a mettere in fila i 400 mila frammenti di geni. Kent finì il suo lavoro il 22 giugno del 2000, mentre il gruppo rivale di Craig Venter avrebbe completato l’opera solo tre giorni dopo. Kent lavorava per il consorzio pubblico inglese e americano Human Genome Project, in esplicita contrapposizione con l’approccio di Venter e a differenza di questo businessman della ricerca, i loro risultati vennero resi accessibile via internet fin dal 7 luglio 2000. Nel febbraio seguente Clinton e Blair dichiararono ufficialmente finito il progetto, sedando le polemiche, ma in seguito emerse con chiarezza che il gruppo della Celera aveva abbondantemente attinto ai risultati del consorzio pubblico, che scrupolosamente venivano “pubblicati” passo per passo. E’ così che si fa la ricerca scientifica, non privatizzandola per fama personale e guadagni di borsa. Quello della proprietà delle idee è il tema cruciale di questi anni. Di recente Kyle Jensen and Fiona Murray del Massachusetts Institute of Technology hanno esplorato i database dei brevetti e hanno riportato questo risultato sconvolgente: circa il 20 per cento del genoma umano (ovvero 4.382 geni su 23.688 noti) sono stati brevettati e la metà circa di tali brevetti è in mano ad aziende private (Intellectual Property Landscape of the Human Genome. Science, vol 310, 14 October 2005, pag. 239). Di questo pessimo risultato di cui egli è stato “pioniere” a Venter andrebbe chiesta ragione (e scuse). il manifesto domenica 30 ottobre 2005 12 C hi non ha presente quelle ragazze dal seno prosperoso che dopo essersi appartate nei boschi per fare sesso si ritrovano con il fidanzato sbudellato e un mostruoso maniaco armato di motosega seriamente intenzionato a fare scempio del loro appetitoso corpicino? Stiamo parlando, tanto per essere chiari, di quelle incaute ragazze che costituiscono un ingrediente base di certi sanguinolenti film senza troppe pretese. Ebbene, quelle ragazze non devono trarre in inganno. Il romanzo dell’orrore non è un genere letterario così popolare e dozzinale come potrebbe sembrare. Quantomeno non lo è sempre stato. Il romanzo dell’orrore ha nobili e ambiziose origini; origini a tal punto intrecciate alla nascita del romanzo tout court da farne il cuore della narrativa così come ancora oggi la conosciamo. Letteratura gotica e forma romanzesca si sono affacciate sulla scena più o meno simultaneamente nell’Inghilterra di fine Settecento. Anche volendo ignorare il fattore comunque rilevante del livello generale di istruzione, nella ormai lontana epoca dei lumi e della fede assoluta nella ragione i libri non erano affatto roba alla portata di tutti. Per la stragrande maggioranza della popolazione, l’acquisto di un romanzo di Ann Radcliffe o Matthew Gregory Lewis, gli Stephen King di allora, rappresentava un’impresa quasi impossibile sul piano finanziario. Il costo medio di un volume si aggirava intorno ai tre scellini ovvero quel che riuscivano a mettersi in tasca operai e domestici in una settimana di duro lavoro. Spesso, poi, le opere di narrativa constavano di tre tomi se non più, il che li rendeva inavvicinabili perfino ad artigiani e piccoli commercianti i quali avrebbero dovuto fare mesi e mesi di economie se mai avessero voluto diventare proprietari di un romanzo completo. I sentimenti cercano riscatto Ma i prezzi proibitivi non costituivano l’unico limite. La complessa prosa con cui si esprimevano gli autori gotici presupponeva conoscenze molto superiori alla semplice alfabetizzazione. I romanzi di allora contenevano come niente fosse allusioni e riferimenti alla cultura classica e a Shakespeare. Pure il Frankenstein di Mary Shelley, sebbene più accessibile e pubblicato in epoca leggermente più tarda, è un testo la cui piena comprensione è tutt’altro che immediata. Ovviamente esistevano notevoli differenze tra le esotiche storie di castelli infestati da fantasmi e i romanzi di ambientazione più realistica, differenze che dovevano certamente avere il loro peso visto che il tempo ha finito con il trasformare il racconto dell’orrore in un genere minore. Ciò nonostante, queste differenze si relativizzano alquanto se soltanto si guarda al sentimentalismo di cui nessuna opera romanzesca, nemmeno la più alta, può dirsi del tutto scevra. Forse è soltanto un’ipotesi ancora da dimostrare, ma molte cose fanno pensare che il romanzo sia nato e si sia affermato come una sorta di compensazione per ciò che scienza e rivoluzione industriale andavano sottraendo all’animo umano. Quello di fine Settecento era un mondo nuovo dove i sentimenti cominciavano a essere sacrificati sugli altari del progresso e della ragione. Ma proprio per questo, proprio perché mortificati e compressi, sentimenti e emozioni si fecero ancor più evidenti e necessitarono di essere affermati e descritti. Sentimenti ed emozioni chiesero dignità e risarcimento, reclamarono un loro spazio, un luogo organizzato sì con raziocinio e pragmatismo – come si conveniva al mutato segno dei tempi – ma dove, comunque, fosse loro riconosciuto un valore irrinunciabile in quanto strumento di conoscenza, un luogo dove magari fosse anche possibile trovare una qualche armonia con i ben più algidi strumenti del nuovo mondo. Questo anelito non si è affatto estinto e ancora oggi, per un verso o per l’altro, il cosiddetto «mainstream» di ambientazione realistica può essere considerato alla stregua di un romanzo sentimentale, e dunque di genere. Il che implica un’altra considerazione: ovvero che, per un verso o per l’altro, qualsiasi forma romanzesca presuppone la letteratura di genere e in una certa misura inevitabilmente vi tende. Non è dunque così assurdo affermare che tutti i romanzi sono, ciascuno a suo modo, romanzi dell’orrore. Ma l’orrore non è soltanto il capostipite di ogni genere, dal poliziesco al fantascientifico. È molto di più. Perché CULTURA Nel cuore di ogni romanzo un palpito di orrore è in sentimenti di orrore e di angoscia che piomba l’animo umano ogni qualvolta viene messo alla prova da pulsioni ed emozioni che trascendono l’assunto per cui la ragione è la strada maestra di giustizia e verità. Alla resa dei conti l’orrore è dunque il cuore tenebroso che batte nell’intimo di tutta la letteratura di stampo romanzesco; un cuore che può rivelarsi estremamente rivelatore, per dirla con un celebre racconto di Edgar Alla Poe. Non è certamente un caso, se i protagonisti dei romanzi più riusciti di Stephen King sono perlopiù scrittori. Anzi, a ben guardare non sono nemmeno loro i veri protagonisti, bensì il puro atto di scrivere. Perché il protagonista di Shining si scopra in tutta la sua follia omicida deve scrivere un romanzo. Ed è sempre per via dei suoi romanzi se lo scrittore di Misery si ritrova prigioniero di un incubo, ovvero di una lettrice letteralmente pazza di lui. Similmente, è meno che mai un caso il fatto che un romanzo indiscutibilmente «mainstream» di recente pubblicazione sia al contempo una sinistra caricatura del suo autore e un implicito tributo all’opera di Stephen King. In Lunar Park (Einaudi, traduzione di Giuseppe Culicchia, pp. 332, 18) Breat Easton Ellis sollecita l’ingranaggio più oliato e consolidato della forma romanzesca – l’ambientazione realistica – fino al punto di farlo implodere. Qui non si tratta più di uno scrittore che racconta di un verosimile scrittore qualunque; qui lo scrittore di successo Breat Easton Ellis ha eletto quale protagonista del suo nuovo romanzo nientemeno che «lo scrittore di successo Breat Easton Ellis» in persona. Le coincidenze tra lo scrittore e il suo doppio rasentano la specularità assoluta. L’Ellis personaggio è l’autore degli stessi romanzi dell’Ellis reale, come altrettanto reali sono le sue frequentazioni – l’amico rivale Jay McInerney, l’agente Binky Urban, l’editor Gary Fisketjon. Anche alcuni importanti lati privati sono fedelmente rappresentati, a cominciare dai conflitti con il padre cui il romanzo è dedica- UN FANTASTICO DEBUTTO Trentanove anni, figlio di un regista cinematografico di avanguardia, Mark Z. Danielewski ha studiato letteratura inglese a Yale e letteratura latina a Berkeley. Ha poi frequentato una scuola di cinematografia a Los Angeles. Negli anni seguenti ha viaggiato per l’Europa portandosi dietro la Bibbia di Re Giacomo e le tragedie di Shakespeare. Casa di foglie, pubblicato negli Stati Uniti nel 2000, gli è costato dieci anni di lavoro ed è stato salutato da Breat Easton Ellis come un «debutto fenomenale», un incrocio tra Pynchon, Ballard, King e Foster Wallace. «Non mi considero uno scrittore dell’orrore» – ha dichiarato Danielewski. – «Credo, tuttavia, che qualunque autore si confronti con grandi questioni possa essere definito uno scrittore dell’orrore. Melville, Hawthorne, Dickinson. Lo stesso Nietzsche... e non sono nomi che faccio per mettermi sul loro stesso piano. Dico soltanto che quando gli scrittori affrontano temi profondi, finiscono sempre per svelare qualcosa di terrificante». Ancora a proposito di orrore, la sorella di Danielewski è leader di un gruppo rock dal nome fin troppo esplicito: «Poe». Nell’ultimo album della band sono diversi i brani ispirati a Casa di foglie. TOMMASO PINCIO Non c’è narrativa senza fantasmi, siano essi creature soprannaturali o esseri dotati di consistenza reale. Ultimi titoli nel segno dell’orrore, Lunar Park di Bret Easton Ellis, e Casa di foglie di Mark Danielewski. A proposito, buona Halloween to. Il lettore si troverebbe dunque di fronte a una confessione dell’autore non fosse per il fatto che in Lunar Park Ellis si descrive sposato a una stella del cinema e padre di famiglia, due dettagli nient’affatto marginali che però non corrispondono al vero: elementi fittizi che costituiscono le premesse per un deragliamento nell’irrealtà. Dopo una festa di Halloween, in casa Ellis iniziano infatti a verificarsi strani e terrificanti fenomeni che volgono il romanzo in un tripudio di citazioni cinematografiche, in una storia dell’orrore che scimmiotta i cliché più tipici del genere. Quella che in un primo momento sembrava essere una confessione si rivela così la verità ridotta a teatrino. Qual è lo scopo di un meccanismo così perverso? Se questo fosse un romanzo dell’orrore come tanti altri, si potrebbe pensare che l’autore abbia semplicemente esaltato un espediente fondamentale del genere: parti- re da un forte dato di realtà per rendere verosimile l’irruzione nel quotidiano di eventi poco o nulla credibili. Ma siccome questo è un romanzo dell’orrore firmato Breat Easton Ellis è ancor più lecito concludere che la compenetrazione di verità e invenzione serve, in effetti, a mettere in piedi una sofisticata sciarada. Quale delle due, quindi? Ebbene, né l’una né l’altra. O meglio, entrambe le due ipotesi sono valide purché una non escluda l’altra. Se Ellis riempie il suo romanzo di creature rubate all’immaginario orrorifico più popolare è per dare consistenza narrativa ai fantasmi che lo tormentano nella vita reale; in particolare ai fantasmi del padre e a quello del romanzo che lo ha reso famoso. Padre e romanzo sono però strettamente connessi perché Patrick Bateman, il folle omicida di American Psycho, è stato modellato sul carattere Robert Martin Ellis, il padre dello scrittore. Alla resa dei conti, il fantasma è dunque uno soltanto: il passato con cui Ellis non ha fatto i conti se non per le vie traverse della finzione e che ora bussa alla porta per vendicarsi, trasformando angosce e tormenti dello scrittore nella caricatura di un film dell’orrore. In Lunar Park Ellis ribalta le fondamenta su cui era edificata la letteratura gotica degli inizi, stravolgendo in maniera quasi impercettibile la regola in base alla quale l’irruzione soprannaturale nel reale serve a ridare voce a sentimenti ed emozioni oppressi da un raziocino imperante. Ellis sa bene che nel nostro tempo l’industria dell’intrattenimento ci ha chiuso in una gabbia di sentimenti ed emozioni sempre più preconfezionati; sa che sono proprio quelle creature della finzione nate per regalarci rigeneranti evasioni e catarsi a renderci sempre più prigionieri di un patetico simulacro di noi stessi; sa che oggi non sono più le nostre case a essere minacciate da un’infestazione di fantasmi ma che siamo noi a infestare le loro, un po’ come avviene in quel film straordinario che è The Others di Alejandro Amenàbar. Un po’ come avviene anche in Lunar Park, dove il fantasma del vero Breat Ea- ston Ellis irrompe nell’edificio romanzesco seminando inquietudine, facendo scricchiolare sinistramente i capisaldi della storia di finzione ad ambientazione realistica. Con questo libro, a oggi il suo più audace e rischioso, Ellis non si è limitato a dipingere un ritratto impietoso di ciò che di irrisolto c’è nel suo passato; è tornato pure alle gotiche origini del romanzo, dimostrando che ogni romanzo è, per un verso o per l’altro, un racconto dell’orrore. Un percorso simile è quello seguito da Mark Danielewski nella sua prova d’esordio, frutto di dieci anni di lavoro. Non è difficile capire perché la critica statunitense abbia definito Casa di foglie (Mondadori, traduzione di Anzelmo, Brugnatelli e Strazzeri, pp. 814, 22) «il più importante romanzo sperimentale del nuovo millennio». Nella sua più che considerevole mole trovano infatti posto l’utilizzo alternato di una mezza dozzina di caratteri tipografici diversi, quattrocentocinquanta note, svariate liste, citazioni di ogni sorta da Omero a Stanley Kubrick, una bibliografia, tre appendici, alcune illustrazioni, un indice e molto altro ancora. Un simile mastodontico impianto sarebbe più che sufficiente per richiamare alla mente David Foster Wallace e dintorni, ma costituisce soltanto una faccia del labirinto. L’altra è data da una fitta trama di scatole di cinesi nella quale perdersi è quasi inevitabile. Quel che racconta «Casa di foglie» Riassumendo, abbiamo un giovanotto di nome Johnny Truant che lavora in un negozio di tatuaggi a Los Angeles. Costui trova un voluminoso manoscritto nell’appartamento di un certo Zampanò, un vecchio cieco morto da poco. Incuriosito, decide di portarselo a casa e nel leggerlo scopre che si tratta di una densa dissertazione critica su un film documentario nel quale il fotoreporter Will Navidson racconta la raccapricciante storia di ciò che è accaduto a lui e alla sua famiglia dopo il trasferimento in una casa in Virginia. Il testo di Zampanò si rivela oltremodo confusionario, del resto si tratta pur sempre di un cieco che scrive di un film, una incongruenza assoluta. Ciò nonostante Johnny ne rimane prima irretito, poi letteralmente ossessionato. Le sue notti cominciano a popolarsi di incubi tremendi, mentre di giorno non riesce più a uscire di casa. L’intera sua esistenza inizia a sfuggirgli di mano portandolo sull’orlo di un baratro; tutto per via di questo manoscritto che racconta del documentario, che a sua volta racconta della casa in Virginia: apparentemente è un edificio come tanti altri ma a un esame più attento mostra stranezze di non poco conto. Tanto per dirne una, l’interno della casa è molto più grande di quanto l’esterno lascerebbe supporre. Sempre all’interno, poi, ci sono porte di cui non si ha traccia all’esterno, ma soprattutto c’è una sala di inusitate dimensioni con al centro una scala a spirale che sembra scendere in uno scantinato senza fondo e che il fotoreporter decide di esplorare con una troupe. L’impresa assume presto i contorni della classica ricerca del Minotauro ma con una particolarità: mostro e labirinto sono la stessa cosa. Date le premesse è quantomeno fatale che gli esploratori finiscano per perdersi nei meandri di un’architettura di orrori in continua espansione. Sempre riassumendo, tutto ciò è però soltanto l’inizio. L’esplorazione della casa è a sua volta un contenitore di storie che riguardano la problematica relazione del fotoreporter con sua moglie Karen e, più in generale, con i profondi e mutevoli abissi della psiche femminile, con quel pozzo ancestrale che è «la ragazza delle ragazze», la mamma. L’intrico e la complessità dei vari piani narrativi sono tali che il lettore rischia di trovarsi nella stessa situazione dei personaggi del romanzo, irrimediabilmente smarrito. Il romanzo Casa di foglie somiglia infatti terribilmente alla casa di foglie di cui racconta: anch’esso è un corpo vivo che seduce e minaccia al contempo, un buco nero che prima ti accoglie e poi ti fagocita. Dei fantasmi non si può fare a meno È attorno a due ingredienti fin troppo triti – il ritrovamento di un manoscritto e la casa stregata – che Mark Danielewski ha costruito il suo edificio letterario dove la distinzione tra scrittura e lettura, tra l’atto di inventare storie e quello di crederci, viene ridotta al minimo se non addirittura ribaltata. Il confine tra il mondo interno al romanzo e quello esterno è labile, costituito da una sorta di specchio magnetico che riflette soltanto il lato mostruoso delle cose e delle persone, reali o fittizie che siano. Analogamente al Lunar Park di Ellis, la Casa di foglie di Danielewski riporta la forma romanzesca alle sue origini più oscure e paurose, al suo cuore rivelatore, ai fantasmi che infestato la fantasie degli scrittori e dei loro lettori. Fantasmi che a volte possono essere i nostri padri e altre volte le nostre madri, ma che fantasmi comunque sono e rimangono. Perché sono proprio loro, i fantasmi, l’ingrediente di cui ogni romanzo non può fare assolutamente a meno. Perché alla resa dei conti, per un verso o per l’altro, qualunque cosa racconti e comunque la racconti, ogni romanzo è e sempre rimarrà un romanzo dell’orrore. domenica 30 ottobre 2005 il manifesto CULTURA La vita che scorre in un clic «Perdre la tête», le fotografie di François-Marie Banier in mostra a Villa Medici fino al 9 gennaio. Ritratti di artisti e scrittori famosi, di donne e uomini senza un nome, segni misteriosi di esistenze che si sfiorano L ARIANNA DI GENOVA ui non cerca niente. Quando va in giro lo fa senza una precisa mèta. Semplicemente, cammina, si guarda intorno e alla fine scatta. Succede però che spesso torni sui medesimi luoghi, ripercorrendo le stesse vie, quasi ci fosse una calamita a guidare i suoi passi. E in questi flashback del ritorno incrocia la varia umanità che popola la città. Pompieri, prostitute, ragazzi sbruffoni, preti, corpi freak, amanti, esseri solitari dalla mente «perduta». In scena va allora il mondo degli inclassificabili, gli invisibili, individui che si trovano ai margini delle grandi metropoli e che vivono una loro forma di libertà paradossale, sia essa nel disagio psichico o nella vita raminga di chi è senza tetto né affetti. François Marie Banier, scrittore (a ventidue anni ha pubblicato il suo primo romanzo La Résidences secondaires e poi nel 1985 Balthazar, fils de famille) oltre che fotografo internazionale, alterna nelle sue immagini due tipologie differenti di «eroi»: le icone della strada - clochard, anziani, rapper, animali, ragazzini in maschera - e quelle del mondo del cinema, meta-corpi già passati al setaccio dal grande schermo. Nella sua bella mostra appena inauguratasi a Villa Medici dal titolo Perdre la tête, a cura di Martin d’Orgeval (visitabile fino al 9 gennaio 2006) sfilano i due universi paralleli, con un fil rouge che tutto intreccia, l’espressività del volto, l’intensità del gesto, del sorriso, della smorfia. Può capitare così che a una assorta Jacqueline Picasso e a una dark Silvana Mangano immersa nella penombra di se stessa, si accosti - nell’allestimento di un percorso espositivo - l’anonima esistenza di una vecchietta che fruga nei cassonetti, mantenendo intatta l’eleganza del suo portamento antico. Oppure che il silenzio eloquente di un Michelangelo Antonioni, seduto al tavolo con sua moglie, si intersechi per François-Marie Banier, Jardin des Tuileries, Parigi giugno 2005; a sinistra, rue de l’Abbaye, Parigi 1 aprile 2005, sotto, Avenue Klèber, Parigi maggio 2005 Notizie dal vortice Dada Al Centre Pompidou una mostra con oltre millecinquecento pezzi ANNA MARIA MERLO All’inizio c’era il caos. Un caos reale, la guerra del 14-18 contro la quale nacque un movimento intellettuale e artistico simultaneamente a Zurigo e a New York, ma che subito oltrepassò le frontiere, per dilagare a Parigi, Barcellona, Berlino, Hannover e Colonia. Il movimento Dada fu avviato durante il massacro della Somme nel ’16, prima delle ammutinazioni del ‘17 e in contemporanea alla rivoluzione d’ottobre, su una base di anti-patriottismo che lo avrebbe fatto diventare il bersaglio di tutti i nazionalisti, per poi lasciare all’inizio degli anni ‘20 spazio ad altri movimenti più strutturati, a cominciare dal surrealismo. Lasciò una eredità che si fa sentire ancora oggi passando per i situazionisti e arrivando fino ai punk, anche se per il momento sembrano prevalere i suoi aspetti più superficiali: «dadaista», infatti, è diventato un termine diffuso per definire generi diversi di eccentricità. Ma forse non è un caso se la crisi attuale spinge a tornare a quelle che furono le origini di una banda che aveva fatto del gesto gratuito il simbolo della rivolta contro la macelleria della guerra in corso. «Diffidate di Dada», diceva Tristan Tzara, fondatore della rivista dove nel ‘18 venne pubblicato il Manifesto del movimento che «dubita di tutto». «Non riconosciamo nessuna teoria» – scriveva. «Ne abbiamo abbastanza delle accademie cubiste e futuriste: laboratori di idee formali. Si fa arte per guadagnere dei soldi e per accarezzare il gentile borghese?». Marcel Duchamps, rispondendo a una sollecitazione di Tzara che lo invitava a partecipare a una mostra, affermava: «non ho nulla da esporre – la parola esporre assomiglia alla parola sposare». Alla grande mostra dedicata a «Dada» che il Centre Pompidou ha allestito fino al 9 gennaio (la prima dal ‘68) c’è invece molto da vedere: 1576 pezzi tra manoscritti, disegni, collage, riviste, fotogrammi, oggetti, pitture, lettere, opuscoli, manifesti, film, caricaturte, ritagli di stampa, esposti inseguendo il tentativo di contestualizzare e evocare le grandi tappe del movimento, dalla mostra di Max Ernst a Parigi nel ‘21 al Saint Pareil, a quella di Picabia a Barcellona nel ‘22 passando per la Dada Messe di Berlino del ‘20, a cui partecipò anche Otto Dix. Più di mille sono le opere dei circa cinquanta artisti rappresentati – tra loro Tzara, Louis Ara- gon, Man Ray, Max Ernst, Marcel Duchamps, Jean Arp, Francis Picabia, Paul Eluard, Sophie Taueber-Arp – e l’organizzazione espositiva è talmente razionale da rispettare paradossalmente il caos originale: un grande rettangolo diviso in cinquanta piccoli quadrati, delle stanzette esigue da cui si può uscire e entrare per costruirsi un percorso personale, senza obblighi e senza troppe spiegazioni, tanto che si ha l’impressione di dovere già conoscere il movimento per potersi orientare. L’attenzione per il Dada invade in questo periodo tutta Parigi, le cui vetrine espongono, tra l’altro, la riedizione di Dada à Paris di Michel Sanouillet (ed. Cnrs), Dada, histore d’une subversion di Henri Béhar e Michel Carassou (Fayard), Dada en verve (ed. Ho- ray), Dada libertin et libertaire, di Giovanni Lista (ed. L’insolite). Dice la leggenda che fu Tristan Tzara a trovare, mettendo a caso un tagliacarte nel dizionario, la parola dada: un caso fortunato, che ben corrispondeva agli intenti di un movimento internazionale e internazionalista. Dada, infatti, non vuole dire nulla e al tempo stesso ha molti significati: in francese «cavallino di legno», in tedesco «va, arrivederci, alla prossima», in rumeno «sì, veramente, ha ragione, è così, ce ne occuparemo» come rivendicava, del resto, il manifesto di Hugo Ball che lui stesso lesse al cabaret Voltaire di Zurigo il 14 luglio del ‘16. Tra le mire del movimento Dada c’era, tra l’altro, quella di disorganizzare le lingue per costruire una Dadalingua estranea anche a se stessa, una lingua nuova e al tempo stesso capace di rispondere alla violenza afasica della guerra in corso, condita dai discorsi nazionalistici e identitari. Un simile meccanismo di destrutturazione veniva proposto nel linguaggio visivo, a partire da oggetti di recupero, o banali, in coincidenza con lo smantellamento della impalcatura che aveva portato alla guerra: «Si pretende che l’arte sia orientata verso un ideale – scrive Raoul Hausmann nel ‘20 – ma in verità ha sempre servito i fini delle classi dirigenti e contribuito, non senza condiscendenza, a ricorprire con i veli della bellezza le loro concezioni della proprietà e i loro metodi di sfruttamento». Anche la rottura del gruppo avvenne, non a caso, in una occasione simbolica: nel ‘21 venne montato il falso processo a Barrès, l’accademico patriota nazionalista e anti-dreyfusardo presente in aula sotto forma di manichino. André Breton si autonominò presidente del tribunale, ma la messa in scena non piacque a Picabia né venne condivisa da Tzara, che scrisse: «non ho nessuna fiducia nella giustizia, anche se questa giustizia è fatta da Dada». avventura con il rugoso pensiero dell’artista Louise Bourgeois, o la allegra pipì in strada del fanciullo africano. «Quando fotografo, mi servo della luce interiore dell’altro - spiega Banier - per questo di rado lavoro in studio, con luci artificiali. Preferisco inoltre che l’altro non sappia delle mia presenza se non all’ultimo secondo: avviene uno scambio, spesso attraverso lo sguardo. Bambino, gobbo, credente, vecchio sanno che quello che portano in giro è l’espressione di migliaia di lotte, di sentimenti, di reazioni alla vita, al tempo che fu il loro, e che una linea contiene tutto questo». Il punto di fuga della composizione delle fotografie di Banier è sempre nel volto: con una prospettiva rinascimentale «corretta» dal primo piano del cinema degli albori, che colloca al centro dell’inquadratura il «fuoco», il soggetto protagonista, gli esseri umani vengono indagati nella loro emotività. Lo stile è nel sentimento, in quell’anima in faccia che tutti sbandierano in un quotidiano che altrimenti, senza l’occhio del reporter, annacquerebbe e annegherebbe la preziosa unicità di ognuno. Il «perdere la testa» del titolo, allora, finisce per significare il rischio dell’arte, lo spavento dell’impatto con un mondo totale, quel miscuglio di esistenze che si collocano sulla strada, pianeti aperti, ignoti, fuori dai binari precostituiti, dalle regole sociali. Il ritratto è per Banier un atto quasi estremo, «osceno» nel suo svelare la carnalità delle persone. La calda atmosfera del quadretto famigliare di Emir Kusturica (Normandia, dicembre1992), con più generazioni radunate intorno all’obiettivo finisce per creare un cortocircuito con la serie di scatti Quai François Mitterand, Paris (2004) e la solitudine allucinata della signora che uno dopo l’altro si toglie gli indumenti per sdraiarsi al sole, tenendosi accanto la sua intera esistenza in un paio di buste di plastica. Intanto, in un intenso bianco e nero, Claude Lévi-Strauss fa capolino, pupille dilatate dall’intelligenza, volto proteso verso l’altro. Tutti i personaggi famosi scelti per il libro edito da Gallimard (che è anche il catalogo della mostra di Villa Medici) hanno in comune, dice Banier, «una certa aria di riflessione nello sguardo che si spinge oltre il cliché dell’artista». Gli altri, gli emarginati e i vecchi sconosciuti «posseggono una certa musicalità. Che sia essa sincera o beffarda, mi rimane famigliare». Sono divagazioni, hanno nel corpo un segno anti-convenzionale simile al fluire dei sogni. 13 D I V I N O Ratzinger senza Cina FILIPPO GENTILONI a Cina fra le principali attenzioni del Vaticano nonché fra le prime preoccupazioni del nuovo papa. Lo ha confermato il sinodo dei vescovi: Benedetto XVI ha rinnovato, nella conclusione, il rammarico per l’assenza dei quattro rappresentanti cinesi. «Con viva pena abbiamo sentito la mancanza dei loro rappresentanti. Voglio assicurare tutti i presuli cinesi che siamo vicini con la preghiera a loro e ai loro sacerdoti e fedeli». Il contenzioso fra Roma e Pechino, dunque non è chiuso, anche se negli ultimi anni ha subito notevoli oscillazioni. I cattolici cinesi non sono pochi: circa 10 milioni, divisi in parti più o meno eguali fra quelli obbedienti a Roma e la chiesa «patriottica». Uno scisma strisciante e silenzioso: Roma, già con Giovanni Paolo II, è stata attenta a mantenere lo scisma un po’ sotto tono. I contatti fra le due chiese non sono mai mancati: fra i quattro vescovi invitati al recente sinodo, ben tre fanno parte della chiesa patriottica. Il principale nodo del contendere è la pretesa di Pechino che non vuole assolutamente ingerenze straniere nella vita interna, anche religiosa, dei cinesi. Perciò la nomina dei vescovi prescinde totalmente da Roma, anche se poi il Vaticano spesso ha ratificato le nomine fatte da Pechino. Nel contenzioso, poi, non si deve dimenticare il riconoscimento ufficiale di Taiwan da parte del Vaticano, riconoscimento che, ovviamente, offende Pechino. Negli ultimi mesi, sembra che il Vaticano stia rinnovando gli sforzi per arrivare a un accomodamento. Svariati i motivi: da una parte l’importanza della Cina nel quadro geopolitico mondiale, sia per il numero dei suoi abitanti, sia per il crescente influsso politico ed economico, in un mondo sempre più globalizzato. Una situazione dalla quale il cattolicesimo non vuole certamente essere estraniato. Si aggiunga la novità di Benedetto XVI: sarebbe importante che i primi passi del pontificato fossero accompagnati da qualche successo ecumenico, successo che non sembra probabile fra i cristiani (anche se con gli orientali esiste qualche possibilità, più che con i protestanti). Un accordo con Pechino sarebbe notevole per l’immagine del papa nel mondo. L’accordo, comunque, non sembra facile, come è stato confermato dalla proibizione imposta dal governo ai vescovi cinesi invitati al sinodo. La loro assenza è stata pesante e significativa. Una risposta dura alle «avances» romane, proprio mentre tutto il mondo guarda alla Cina con grande interesse, in un insieme di ammirazione e di preoccupazione. L il manifesto domenica 30 ottobre 2005 14 VISIONI A TEATRO «By Gorky» di Alvis Hermanis ha aperto il festival «Vie» di Modena, raccontando un mondo occidentale che si è allungato a est. Il cibo come un tavolo anatomico delle Ariette, il re consunto dal potere di Delbono e l’appuntamento con Sosta Palmizi BY GORKY Una casa di vetro che allude alla realtà A GIANNI MANZELLA lvis Hermanis si era rivelato un paio d’anni fa sui palcoscenici europei con un bellissimo Revidents, per noi il Revisore, che ambientava la grottesca commedia di Gogol fra i fornelli di una sorta di trattoria familiare, di mensa di paese o di periferia, per raccontare così gli anni ‘70 della stagnazione brezhneviana, là nella lontana provincia del declinante impero sovietico. Con un gusto quasi filologico per il dettaglio d’epoca, la moda come la musica del periodo, l’immagine fisica stessa dei personaggi, un esercito di donnone dalle forme esagerate, di omoni affannati dalle grandi pance posticce, laddove l’obesità valeva tanto da manifestazione patologica quanto da manifestazione sociale dell’appartenenza all’apparato dello stato. È invece Gorky la chiave scelta dall’artefice del Nuovo teatro di Riga per penetrare nel presente di un mondo occidentale che si è allargato a est fino ad arrivare agli Urali, in questo magnifico By Gorky che ha aperto il festival Vie. E se là era l’olfatto il primo dei sensi coinvolti per lo spettatore, con l’odore di soffritto che saliva dalla scena fin nelle ultime file del teatro, qui tutto riconduce allo sguardo, all’atto distante del vedere, come può sembrar ovvio per parlare di una società che si definisce dell’immagine e però non a caso anche quello fra i cinque sensi che meno comporta un coinvolgimento fisico, un contatto con l’altro, che può lasciare ciascuno dentro la propria solitudine. Ecco infatti sulla scena una struttura che sembra alludere esplicitamente al reality show televisivo. Una casa di vetro, che rende trasparente la vita dei suoi abitanti, un gruppo numeroso di giovani donne e uomini che vive una ambigua quotidianità sotto l’occhio indiscreto di una videocamera (a maneggiarla è l’autrice della scenografia, Monika Pormale). Dietro le pareti vetrate si intravede una suddivisione informale degli spazi, la cucina da un lato e di fronte la zona giorno con divani e poltrone e il televisore utilizzato solo per il karaoke di Knockin’ on heaven’s door o Don’t cry for me Argentina, più in fondo la palestra e il letto visibile solo quando ripreso in video. Ma all’azione che si svolge all’interno della casa è sottratto il sonoro, di quella vita ci giunge solo un attutito rumore di fondo che si fonde col basso continuo di un tema musicale, accrescendo la sensazione di un nascosto spiare. A turno escono da lì, da una porta che si apre di fronte, in esterno, dov’è sistemata una panchina e qualche sedia. Dialogano fra loro con le parole dell’autore dei Bassifondi o con le proprie, raccontano le loro ossessioni, trasformandosi essi stessi in personaggi giacché poi tutti si presentano con il proprio nome, a cominciare dal regista presente anche in veste di interprete. In un continuo gioco di sponda fra verità e finzione che, ci accorgiamo, è il tema di By Gorky. Chi sono infatti quelli che ci si mostrano qui esposti in una dubbia intimità? Attori certo, come dicono le immagini riproposte delle prove dello spettacolo, l’esposizione del processo creativo che apre nell’immobilità degli interpreti, indifferenti alla rivolta degli oggetti mossi da sottili fili rossi. Ma attori che giocano un ruolo, Un momento di «ByGorky» di Alvis Hermanis Un campo di battaglia tra manichini e amazzoni Non tutto è ugualmente apprezzabile nel programma di questi dieci giorni a Vie (si chiude stasera con Alva Noto e Ryuichi Sakamoto al Comunale). La curiosità per l’accostamento delle parole erotiche di Dennis Cooper e Catherine Robbe-Grillet nella coreografia di Gisèle Vienne Une belle enfant blonde scivola nella noia di un bla bla non riscattato dalla presenza in scena dell’anziana scrittrice tra manichini di jeunes filles, né dalla statuaria bellezza dell’interprete, troppo perfetta per provocare fremiti. Ma si percepisce un disegno nella manifestazione modenese. La scelta in favore di una contemporaneità del linguaggio che diventa anche generazionale, al di là dell’omaggio ai due maestri Kentridge e Kiarostami, presenti però solo con una installazione visiva. Così come quella di affiancare presenze internazionali non scontate all’area italiana di quel che potremmo chiamare teatro di creazione scenica, ormai generazioni diverse, da artisti affermati quali Delbono e Barberio Corsetti ai giovanissimi gruppi Orthographe e Habillé d’eau in uscita appunto dalla Biennale veneziana (ma l’oscuro Ragazzocane delle ragazze romane rivela una struttura drammaturgica da ripensare). Ecco allora il Teatrino clandestino di Pietro Babina e Fiorenza Menni con L’alba di un torturatore fresco di debutto parigino e Teatro Valdoca concludere la bella impresa di Paesaggio con fratello rotto, mentre Motus prosegue nelle tappe di studio del suo fassbinderiano Piccoli episodi di fascismo quotidiano. Inevitabile poi che l’interesse si rivolga ai lavori che vengono da più lontano. Come Pour Penthésilée di Daria Lippi, italiana che lavora in Normandia e recita in francese le parole di Kleist, volgendo in prima persona la vicenda della regina delle amazzoni per una prova d’attrice che rivela nel corpo il vero campo di battaglia. C’è guerra anche dietro We are all Marlene Dietrich FOR della coreografa e danzatrice finlandese Erna Omarsdottir, in cui la collaborazione di Emil Hrvatin porta un’eco di Jan Fabre ma che rivela anche un talento compositivo reale. Sottotitolo, performance per soldati in missione di pace. E i dieci interpreti ballano e cantano per allietare le truppe internazionali riprese sul fondale. Ci si diverte, o almeno così sembra. Perché il divertimento scivola in azioni sempre più crude e l’Imagine di Lennon si rovescia in un mondo senza più arte cinema musica sport. Provate a immaginare. (g.man.) una parte spesso letta da copione. E c’è poi ancora quell’altro gioco scenico che asseconda evidentemente un altro copione scritto ma che corrisponde al qui e ora dello spettacolo. Personaggi in cerca d’attore. C’è l’Attore, con la maiuscola, che ha perduto la memoria. La bella del gruppo che cambia ossessivamente la gonna. Quella che è vittima degli scherzi pesanti di tutti. Il nano che è stato campione di sollevamento. E a confondere ancor di più le carte, c’è pure la contrapposizione delle due immagini filmate che vanno in parallelo sui due lati dello schermo che sovrasta la struttura vetrata. Quelle delle prove, congelate nella memoria magnetica, che di tanto in tanto fanno ascoltare squarci di confessioni degli attori. E quelle in presa diretta che indugiano su particolari dei corpi, amplificano i dettagli delle azioni. Dove non succede nulla, come Cechov insegna. Non c’è sviluppo o vicenda. Piuttosto un senso di attesa, uno struggimento per la vita che scorre fra le dita. Chiacchierano. Ballano. Preparano da mangiare. Si abbandonano a giochi infantili. Praticano vigorosi massaggi in un crescendo mahleriano. Allora ti accorgi che la verità del teatro fa piazza pulita di qualsiasi illusoria reality, che la finzione che costruiscono è densa di una verità irraggiungibile da un’illusione di realtà. Perché questo gruppo di donne e uomini che ha oltrepassato la linea d’ombra della maturità, e sta lì su quella soglia incerto sulla direzione da prendere, lo conosciamo bene. Ci siamo passati per queste feste allegre e tristi che non vogliono finire, a notte, quando il tasso alcolico ha liberato la mente e un po’ i corpi. La voglia di appartarsi, di nascondersi, di farsi cercare. Il desiderio di abbracciare qualcuna/o. Di ballare come un tempo. I pensieri che vogliono uscire, e sembrano d’improvviso profondi. E quando loro intonano Killing me softly, ormai diventato il tema conduttore dello spettacolo, davvero è troppo. La commozione rischia di travolgerci. Uomo – che nome maestoso, dice la scritta illuminata in rosso a lettere capitali (in lettone, ma c’è la traduzione). Che intenzione ambiziosa, quella di Hermanis, di parlarci dell’uomo. Ma se non di questo, cosa? PATATBOEM/ENRICO V IL CORTILE Un esorcismo contro la guerra Vent’anni con i sei di Sosta Palmizi GIANFRANCO CAPITTA CARPI Un altro festival ricco e metropolitano, nel senso letterale che questo Vie che si conclude oggi si è per una settimana allungato da Modena a Vignola verso est, e verso nord in direzione di Carpi. Così che muovendosi sembrava di percorrere la megalopoli emiliana raccontata da Tondelli. Due le esperienze forti nella capitale della maglieria italiana. Una che dal teatro si allarga verso la vita quotidiana, perché nel Centro anziani carpigiano i belgi del gruppo Laika hanno trasformato un concerto nella preparazione del pranzo. Rimane sempre aperta la questione posta dalle Ariette (senza arrivare a Brecht per pudore) se mangiare a teatro, anzi trasformare il cibo nella materia prima dello spettacolo, giovi o nuoccia a quello che la scena vorrebbe esprimere. In questo Patatboem c’era però da divertirsi, perché i sei ragazzi e la ragazza cominciano suonando le bottiglie e le caraffe prima di portarle ai tavoli, ma da quel momento strumenti musicali, elettrodomestici e stoviglie gareggiano per più di un’ora quasi come un lungo aperitivo. Alla fine, tagliate le verdure, stufata la carne, amalgamato il purè si mangia davvero, sulle tavole sbilenche che evocano Una scena da «Patatboem» delle Ariette un’aula di anatomia. Qualcuno, poco esterofilo, va a mangiarsi i tortelli altrove. La gran parte del pubblico apprezza, la comunicazione si è fatta molto ravvicinata, il dessert gelato risulta buonissimo. Un viaggio nella profondità dello spirito del teatro è invece quello che ci mostra Pippo Delbono con un suo antico spettacolo, che pochissimi però hanno visto, perché risale a prima di Barboni. E’ rara l’occasione quindi, ma è raro anche il fatto di vedere Delbono alle prese con una drammaturgia che nasce addirittura da Shakespeare. Si tratta infatti dell’Enrico V, alle prese con le sue contraddittorie guerre contro la Francia. E come nell’originale, lo spettacolo si apre col funerale di Falstaff che del re è stato compare e rivale. Qui il protagonista assoluto è lui, Enrico/ Delbono, consumato dal potere ma violento come un leone, tanto crudele quanto fratello di altri infelici re shakesperiani. Pochi gli attori della sua compagnia abituale (Pepe Robledo e Gustavo Giacosa), e una truppa di giovani allievi a impersonare gli opposti eserciti. Bardati nell’opacità scabra di lane pesanti, in eterno movimento guerresco e interiore, rosi dal comando e dal modo di ingraziarselo, Delbono e gli altri compiono una sorta di esorcismo contro tutte le guerre, il loro prezzo di sangue e l’insensatezza delle loro motivazioni. L’orrore non è sulla scena con loro, ma nelle radici culturali e avide che ne sono all’origine. Un affresco storico, «alla maniera di Pippo», che colpisce come un cazzotto, e sembra già contenere le future visioni liriche di altri spettacoli. Un tassello importante per capire un percorso teatrale basato sul rigore e sulla generosità. Citato nel film che Delbono sta ultimando, questo Enrico V è stato invitato prossimamente al festival shakespeariano di Stratford on Avon. FRANCESCA PEDRONI MODENA Michele Abbondanza, Francesca Bertolli, Roberto Castello, Roberto Cocconi, Raffaella Giordano, Giorgio Rossi. Sei nomi che insieme hanno dato una scossa fondante alla danza italiana. Un balzo indietro nella memoria di vent’anni ed eccoci là a rivedere quei sei magnifici ventenni, freschi dall’avventura con Carolyn Carlson alla Fenice di Venezia e già pronti a fare insieme qualcosa di diverso, qualcosa abitato da un guizzo italiano, impastato alla voglia di raccontare se stessi con un linguaggio del corpo impregnato di terra, storie e tattilità quotidiane. Sei paladini di un teatrodanza che lasciava le rive simboliche del lirismo carlsoniano per esplorare un’altra umanità del segno, più primigenia e artigiana. Si scelsero un nome: Sosta Palmizi e il loro titolo d’esordio, Il Cortile, fu un piccolo miracolo di creatività, intelligenza e capacità collettiva. Era il 1985. Oggi i sei guidano esperienze indipendenti e la Sosta Palmizi, trasformata in Associazione, continua ad essere attiva, gestita dai soli Rossi e Giordano. Ma un compleanno è un’occasione da non perdere non sfuggita a «Vie – Scena Contemporanea Festival» che ha ospitato La Finestra sul Cortile – 1985-2005 Il Cortile vent’anni dopo -, una giornata di incontri (tavola rotonda guidata da Eugenia Casini Ropa e Andrea Nanni), proiezioni e spettacoli con i sei della Sosta. Un momento per fare un bilancio, ma anche per rivedere in video Il Cortile del 1985: un pezzo della nostra storia teatrale che continua a funzionare per intelligenza di montaggio, ideazione collettiva, per la comunicazione di un’autenticità dello stare in scena. Certo stringe un po’ il cuore valutare come la complicità creativa di quegli anni Ottanta, i premi importanti ottenuti da Il Cortile, Ubu e altri, non siano bastati a far sì che sulla Sosta (come su altri artisti portanti della danza italiana) ci sia stato un investimento pubblico davvero significativo. Dopo vent’anni si è sempre in lotta. E «Il Cortile» di Sosta Palmizi la lotta è un luogo di intenzioni, speranze, progetti: come «la nascita di un luogo di incontro dove insegnare, trasmettere, sviluppare la differenza nel dialogo e magari creare di nuovo qualcosa tutti insieme. Sento che sarebbe possibile» (Raffaella Giordano). Corposa la maratona degli spettacoli firmati dai sei proposta al teatro delle Passioni e allo Storchi dalle 19 alle 2 di notte: un viaggio tra gli sposi stralunati delle Stanze di Roberto Castello e Alessandra Moretti, l’intimità solistica di Giordano (Tu non mi perderai mai), l’ironia grottesca di Giorgio Rossi (Alma), il montaggio memoriale in video di Bertolli, le danze di coppia ballate per strada di Cocconi (Le Mura), il gesto tragico e spezzato di Polis di Abbondanza/Bertoni: una sorta di omaggio a Kantor, Polis, che pur citando tra le righe Pina Bausch (Blaubart e Sagra) e Josef Nadj (casa/cubo smontabile e bombetta), disegna con forza un’umanità straziata. E il dolore, la lontananza, il rimando a un luogo della memoria perduto appartengono anche a un altro titolo ospite del festival: Last Landscape – autoritratto davanti a un paesaggio: duo proprio di Josef Nadj, ancora in scena stasera al teatro delle Passioni. Lo interpreta l’autore insieme al musicista Vladimir Tarasov e ci rapisce per la poesia pittorica e musicale di un racconto personale che esce dal sé per consegnarci un ulteriore sguardo sull’uomo, stordito tra la bellezza e la fatica di stare al mondo. domenica 30 ottobre 2005 il manifesto VISIONI S 15 NICOLA SCEVOLA LONDRA e «diversità culturale» è la parola chiave che contraddistingue il London Film Festival, E il vento fa il suo giro non poteva scegliere miglior sede per fare il suo debutto. Questo nuovo film italiano, una delle pochissime pellicole inedite ad essere lanciata durante il festival che si svolge in questi giorni sulle rive Tamigi, è infatti un film che parla di diversità – del rapporto tra culture differenti come occasione per misurare la capacità di accettazione dell’uomo. Fra una vasta gamma di film e produzioni sperimentali da tutto il mondo, questa particolare pellicola italiana trova facilmente una sua collocazione in un festival famoso per dare spazio a produzioni indipendenti e originali. «La diversità è una delle caratteristiche fondamentali di questa manifestazione», conferma Sandra Hebron, la direttrice artistica del festival che ha personalmente scelto questo film diretto da Giorgio Diritti, regista bolognese al suo esordio nel lungometraggio. «Quest’anno abbiamo cercato di selezionare film di un genere che chiamerei post 9/11. Ovvero pellicole che vogliono stimolare la gente a pensare al modo in cui vive e a farsi domande sul mondo che ci circonda». E se una riflessione sul valore delle tradizioni antiche e sulle contraddizioni che queste possono generare nello scontro con la realtà moderna può stuzzicare la mente, allora E il vento fa il suo giro rientra perfettamente nella categoria prediletta dalla direttrice del festival. Senza andare a cercare il diverso in luoghi remoti, Diritti rivolge lo sguardo della sua cinepresa ad una micro realtà italiana – quella di una comunità montana delle valli occitane piemontesi. Qui si parla ancora la lingua d’oc – saggiamente conservata nel film con l’uso di sottotitoli – e si vive un’esistenza sospesa tra passato e pre- Al London Film Festival «E il vento fa il suo giro», opera prima di Giorgio Diritti sulle minoranze linguistiche occitane Le divergenze culturali d’Oc Festival di Londra Anteprima mondiale di un film italiano in concorso, «E il vento fa il suo giro», opera prima di Giorgio Diritti, girata in digitale nelle valli piemontesi di lingua occitana sente, che accomuna queste valli delle Alpi Cozie a quelle del midi francese. L’antica cultura di questa comunità, il cui idioma era citato già da Dante come la lingua poetica per eccellenza, sta sparendo. I ritmi moderni, lo spopolamento delle montagne e l’abbandono dei lavori tradizionali, rende il villaggio occitano del film una specie in via d’estinzione. Proprio queste sono le premesse che dovrebbero rendere benvenuto un forestiero – interpretato dallo scenografo francese Thierry Toscan, al suo debutto come attore – che decide di trasferirsi nel villaggio con la sua famiglia per riprendere un’attività dimenticata, allevando capre e producendo formaggio. Ma dopo un inizio promettente, le diversità della famiglia «che viene da fuori» si scontrano con la mentalità dei valligiani in una spirale senza ritorno. «Il rapporto con l’altro, il diverso, è il punto centrale della narrativa del film», spiega Giorgio Diritti. «Ed è l’occasione in cui poter misurare la capacità dell’uomo di andare al di là di questa diversità – giungendo alla convivenza oppure al conflitto». Un viaggio nei sentimenti e nelle pulsioni della natura umana, quindi, che dà ampi spunti di riflessione, ma anche possibilità di raccontare una cultura poco conosciuta – quella dei montanari occitani – attraverso le prospettive, a volte sagge a volte claustrofobiche, degli abitanti di queste valli. Lo stesso titolo del film è tratto da una frase che riprende un proverbio popolare tipico di questi posti, citato da uno dei personaggi: «Il vento fa il suo giro e tutto prima o poi ritorna». Il vecchio pastore che snocciola questa filosofia spiccia lo dice in segno di buon auspicio, per celebrare l’arrivo del forestiero, intenzionato con i suoi formaggi a far rinascere una delle antiche tradizioni della valle. Ma il limite umano si manifesta anche di fronte alle più nobili intenzioni e, gradualmente, il nuovo arrivato si scontra con i montanari in un crescendo di fraintendimenti ed attriti. La trama è semplice, priva di colpi di scena, ma la bellezza dei luoghi e l’originalità della cultura trattata fanno di questo film un debutto interessante, frutto di uno sforzo produttivo che ha visto la partecipazione attiva sia degli attori principali – tra cui Alessandra Agosti, Dario Aghilante e Giovanni Foresti, tutti debuttanti – che dei membri della troupe. Attraverso le proprie prestazioni, infatti, ognuno di loro è entrato in coproduzione, garantendosi una quota del progetto finale. E se la tecnologia digitale con cui è stato realizzato, purtroppo, non sempre rende giustizia alla bellezza dei panorami delle valli cuneensi dove è stato girato, ha il vantaggio, però, di abbassare notevolmente i costi di realizzazione. Grazie a questa – e alla formula di compartecipazione – E il vento fa il suo giro è riuscito a vedere la luce con un budget modesto. Ma nonostante ciò, ha fatto un brillante esordio al festival londinese, dove si è aggiudicato ben due diverse nominations: una nella sezione opere prime e una per il premio della critica. Voglio un parto post-datato, in un mondo così Al festival del cinema di Tokyo «Tre anni incinta» di Miako Tadano, sul rifiuto di nascere nel Giappone d’oggi PIO D’EMILIA TOKYO È diventato maggiorenne il Festival internazionale del cinema, ma non decolla. Ogni anno ce n’è una. Migliorata l’organizzazione – dopo anni di code inutili e sale vuote i giornalisti hanno capito che per vedere i film basta rivolgersi alle produzioni - quest’anno c’è il problema «sicurezza». Sta per arrivare Bush e Tokyo approfitta d’ogni manifestazione per mettersi alla prova. Con la conseguenza che mentre negli aereoporti i vecchi metal detector fanno passare monete e tagliaunghie, nel lussuoso complesso di Roppongi Hills, dove l’anno scorso un bimbo fu schiacciato da una porta scorrevole, non passa nemmeno un plettro di chitarra. Manca poco che bisogna denudarsi, per accedere alle sale. Dei 15 film in gara – anche Tredici a tavola di Oldoini e Tre giorni di anarchia di Zagarrio – ha colpito l’inquietante Gerumanium no Yoru (Il sussurro degli dei) di Tatsushi Omori, dallo stupendo romanzo di Mangetsu Hanamura, vincitore due anni fa del prestigioso premio Akutagawa. Un inno alla profanazione che solo l’esasperato laicismo del Giappone può lanciare, seppur di tanto in tanto, visto il letar- go in cui si richiudono per lunghi periodi le sue menti più creative. Non è il caso di Miako Tadano, regista esordiente poco più che ventenne di Tre anni incinta, già suo romanzo, un po’ scontato ma raccontato in modo inusuale, su un essere che non vuole nascere ma restarsene al sicuro nella pancia della madre. Lo fa per 3 anni, poi, quando «sente» che il marito/padre comincia a comportarsi con senso di responsabilità, decide di nascere. E lo fa come un puledrino, già pronto a sgambettare. Nulla di eccezionale, se non che con la scusa del parto postdatato la regista offre uno spaccato niente male del malessere giovanile. La sorella minore di Fuyuko, protagonista della gravidanza impossibile, si innamora del ginecologo, uomo dolce e apparentemente posato, che ha però il vizio del travestimento. Al momento del parto, che avviene in uno chalet di montagna, il dottore viene sorpreso allo specchio, mentre sta truccandosi da donna per soddisfare le carenze affettive della sorella: «con un uomo posso solo scopare, e anche male – io ho bisogno di parlarti, e solo se ti travesti riesco a farlo». Solo a Tokyo vi sono almeno 10.000 «cosupuray» (dall’inglese «costume play») che la sera offrono ai clienti la possibilità di scegliere tra un ampio guardaroba. Un modo come un altro per affermare la propria personalità – o una delle tante – senza suicidarsi, come fanno, al ritmo di uno ogni 15’, oltre 35 mila persone l’anno. Nel frattempo, una delle pellicole più attese (dai cinephiles) non trova ancora un cinema disposto a ospitarla, Il sole del russo Sokurov, ultimo atto della trilogia sui dittatori del ‘900. La pellicola, in gara a Berlino, la prima nella quale un attore giapponese (Issei Ogata) ha accettato di impersonare Hirohito, non offre dal punto di vista della ricostruzione storica, spunti particolarmente rivoluzionari. Più che stabilire che l’attuale isolamento giapponese – provocato dall’incapacità dei governanti di chiudere i conti con la storia – è la conseguenza della mancata incriminazione dell’imperatore da parte degli Usa, il film regala alcune scene di sottile ironia. Come quella in cui Hirohito, uscito dal colloquio con il generale MacArthur durante il quale percepisce di averla «sfangata», si concede, non visto, un paio di saltelli di gioia. «Quanto basta per provocare la distruzione di un locale che avesse il coraggio di proiettare il film – ci spiega Katsue Tomiyama, presidente di Image Forum, la cordata di distributori indi- Tre anni incinta, dell’esordiente scrittore Miako Tadano pendenti che hanno acquistato i diritti – noi non abbiamo nessun problema a assumerci il rischio, ma la nostra sala ha 100 posti...forse questo film, e i giapponesi, meritano di più». Chissà se e quando i giapponesi saranno considerati abbastanza maturi da sopportare la vista dell’imperatore che, umanamente, si mette a saltellare quando apprende che anziché essere impiccato, diventerà il simbolo della rinascita di un popolo che aveva inviato al massacro. Al Manzoni il concerto di Sentieri Selvaggi con in programma anche «Acts of Beauty» Scopiazzare non fa granché bene, se non si sanno trasformare i modelli in qualcosa che sia un po’ più vivace, o quantomeno sentito. Il gruppo Sentieri Selvaggi di Torino ha preso a modello qualche anno fa quello di Bang on a Can di Manhattan. Questi presentano le loro musiche, ciascuno la propria, ne raccontano l’occasione, ma ci scivola magari qualcosa di un po’ più pregnante. Se non c’è l’autore del pezzo in esecuzione, Filippo del Corno s’incarica per Sentieri Selvaggi di fare altrettanto, ma riporta didascalicamente notiziole che ha appreso. Non ha né freschezza, né verità, ma ogni volta solo un aneddoto. È comunque un buon allievo di Carlo Boccadoro, che dirige Sentieri Selvaggi, il quale sulla falsariga, ma molto «falsa», di Desert Plants di Walter Zimmermann (un libro cult che dava voce ai nuovi, nel 1976) ha scritto Musica Coelestis, dai suoi dialoghi con chi, nel 1999, non era più tanto nuovo. Zimmermann dà ai musicisti che prende in considerazione lo spazio che questi gli danno, qualche vola intervistandoli con la freddezza di uno che vuole capire le loro idee sull’arte, sul loro modo di stare nella musica. Boccadoro fa la tare i motivi di pregio, tramite loro spalla a coloro che seleziona, porge può giungere a opere d’arte che altriloro il passo e chiacchiera in modo menti non potrebbero ricevere. Quesalottiero. Per l’altro pensiamo a un sto fa di loro figure interessanti per la Biagi, volendo indicare un modello politica di rinnovamento e ampliamento delle conoscenze musicali di ben noto, per lui a un B. Vespa. Oltre tutto, un po’ suonando le sue tutti. Ci sono buoni interpreti e cattivi, e musiche, un po’ conversando con lui, il Boccadoro dev’essersi preso una ce e sono che essendo stati buoni, poi gran cotta per Michael Nyman. Le diventan cattivi e che in tali si tracui conseguenze si sono avvertite sformano non tanto per la perdita di consistenti nel concerto che Sentieri capacità esecutive, quanto perché si Selvaggi ha dato al Manzoni di Bolo- rifugiano in quel territorio nemico gna, con in programma anche Acts of Beauty che l’inProblemi di voce glese scrisse nel 1944 per commissione per commis- per gli interpreti sulla parte dedicata sione del gruppo dall’ammiratore. Ammesso che si con- al compositore inglese, meglio divida l’idea che il testo sia il concerto per piano «Bad Blood» più importante di chi l’interpreta, anche in musica, è necessario della vita della musica che è il reperperò rendersi pure conto del fatto torio. Cristina Zavalloni, che ha quache, poiché questa è da ascoltare, lità notevoli per voce e scena, per ora non bastando leggerla, seppur si sap- fa parte dei buoni interpreti: usa il fapia farlo; ci si dà conto allora facil- scino e l’appeal che appassiona il mente dell’importanza e del ruolo pubblico per promuovere musiche che in questo campo hanno gli inter- che, belle o brutte, non appartengono alla cultura musicale ormai usata copreti. Per la vita della musica sono im- me d’ameublement. Qui però ha troportanti sia perché le loro qualità so- vato un nemico come Nyman dev’esno quelle che fanno emergere quelle serlo della voce: il pianoforte e il videlle musiche, sia perché il pubblico brafono amplificati, soprattutto il che sa, o è convinto di saperne valu- primo, portato secondo la scuola del La serata Serata Pasolini Casa della poesia nella sua se- de di Baronissi (Salerno) organizza un omaggio a Pier Paolo Pasolini nella notte tra l’1 e il 2 novembre, che vedrà reading di poeti (Jack Hirschman, Agneta Falk, Giancarlo Cavallo, Giacomo Trinci) accompagnati da musicisti (Renato Costarella, Gaspare Di Lieto, Fabio Notari). A partire dalle 19.30 saranno proiettati i film di Pasolini La ricotta, Che cosa sono le nuvole?, Appunti per un’Orestea Africana, un documentario Rai sull’incontro tra Pasolini ed Ezra Pound, il film di Laura Betti La ragione di un sogno sulla figura profetica di Pasolini. L’omaggio a Pasolini proseguirà nelle settimane successive (7, 17, 21, 28 novembre) con la proiezione della «Trilogia dellavita» (Il Decamerone, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una Notte) e di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Gender Bender Da domani al 6 novembre a Bolo- gna la terza edizione di Gender Bender, festival internazionale (progetti de Il Cassero, Gay Lesbian Center, direzione di Daniele Del Pozzo) che presenta i nuovi immaginari, legati alle rappresentazioni del corpo e delle identità di genere. Evento speciale, al Lumière, la saga filmica Cremaster di Matthew Barney, segue una retrospettivca cinematografica dedicata a Jean Cocteau (più convegno) e alla Gam, sezione arti visive, mostra del danese Jesper Just che in video indaga l’identità maschile. Nella stessa sezione, due rari documenti: Lady (1984) e Patti Smith still moving (1978), corti di Robert Mapplethorpe (c’è anche il film della Bbc, regia di Sandy Daley dedicato a lui). Per teatro-danza, Map Me della belga Charlotte Vanden Eynde e due spettacoli: Cinema Cielo di Danio Manfredini e Psicosi delle 4:48 della Compagnia Cane. Per il cinema, John Waters con A Dirty Shame, Cachorro di Miguel Albadalejo, Mater Natura di Massimo Andrei. Anteprima, Kinky Boots di Julian Jarrold. Ancora corti con Fucking Different: registe lesbiche raccontano l’amore. Festival di Trieste Boccadoro e Nyman, una vera passione GIAMPIERO CANE BOLOGNA C A L I B R O 9 compositore a dominare il suono, l’hanno massacrata, fin obbligandola a urlare. Forse il Manzoni non sopporta l’amplificazione, forse il pezzo era mal concertato; di fatto non si capiva una parola e la sua voce era per lo più sommersa in un indecifrabile pasticcio. Quello di Nyman era però il pezzo forte – tutta la seconda parte di un concerto che nella prima aveva proposto musiche scioccherelle come L’uomo armato di Del Corno (da una melodia medievale ripescata spesso da musicisti giocherelloni, non da ultimo da Giancarlo Trovesi), Sweet Air di David Lang, uno dei Bang di cui sopra, e Glamorama spies di Lorenzo Ferrero, esercizio fallito sulla suspense. Un po’ meglio, come concerto per pianoforte, Bad Blood di Boccadoro, che almeno dà modo al solista, qui spigliatissimo e pienamente a proprio agio, Andrea Rebaudengo, il metà, della massacrata Zavalloni. La serata era di Musica Insieme, dei suoi abbonati non dovevano essercene molti. Anche se viene voglia di dire che questa volta gli assenti avevano ragione, invece no, non lo diciamo perché poi, in altre occasioni, saranno certamente lì a commuoversi retoricamente per qualche musica d’arredo. I premi della XX edizione del Festival latinoamericano di Trieste (22-30 ottobre) che ha presentato 150 titoli sono: miglior film Tatuado di Eduardo Raspo (Argentina), premio speciale della giuria Araguaya di Ronaldo Duque (Brasile). Il pubblico ha premiato l’esilarante La suerte està echada di Sebastian Borenzstein, storia comica di mala sorte in un’Argentina già tartassata dall’economia internazionale. Premio Unione latina aMiercoles de ceniza di Fernando Benitez (Messico). il manifesto domenica 30 ottobre 2005 16 SPORT L’arte di combattere contro se stessi L « ANTONIETTA FERRARI a settimana scorsa ho battuto un dito sulla spalla di un tizio e siamo stati messi in lista per un combattimento. Lui doveva aver avuto una settimana tutta storta, mi ha inchiodato le braccia dietro la testa e mi ha sbattuto la faccia contro il pavimento finchè i denti non mi hanno squarciato l’interno della guancia e un occhio mi si è gonfiato tanto che mi si è chiuso e si è messo a sanguinare e dopo che ho detto basta ho guardato giù e sul pavimento c’era un’impronta della metà della mia faccia nel sangue.... Non c’è essere vivi come sei vivo al fight club» (da Chuck Palahniuk Fight Club, Mondadori editore aprile 2003). Il 29 maggio di quest’anno il Codacons ha chiesto che venisse vietato ai minori di 14 anni uno spettacolo di wrestling che si doveva tenere il 4 giugno a Roma e che avrebbe attirato migliaia di ragazzini da tutta Italia.L’associazione, segnalando diversi casi di incidenti gravissimi occorsi ai lottatori, esprimeva il timore che si moltiplicassero quelli causati dall’emulazione, come è accaduto in Valsugana dove un bimbo di 5 anni che è stato assalito da un compagno, o a Verona dove uno di 12 anni è caduto a terra tramortito dal un colpo di un amichetto.Malgrado ciò il boom del wrestling, moltiplicato dalla tv, continua a far proseliti come altre discipline «di moda» come il kickboxing. Proprio tenendo conto di questi fenomeni può essere interessante lo stage di aikido che si tiene a Milano (28-30 ottobre) presso l’associazione «A ke lei naa» (via Imbonati 17) e che propone una visione molto diversa. Ne parliamo con Giovanni Frova che sarà l’animatore dello stage (e che per la Luni Editrice ha tradotto l’opera omnia di Itsuo Tsuda). Di che cosa si tratta e in che cosa l’aikido differisce dalle altre arti marziali? Ho praticato per più di 20 anni l’aikido che ha presentato in Europa il maestro Itsuo Tsuda. Oggi si pensa che l’aikido sia un’arte marziale come le altre, ma a me aveva interessato proprio perché c’era una differenza, e questa differenza stava nel fatto che non si cercava di proporre un’arte che sviluppasse la forza, la capacità di combattere con gli altri, bensì una pratica che potesse diventare uno strumento di ricerca dentro di sé, che ci avvicininasse man mano alla nostra verità interiore e che ci permettesse di incontrare altre persone diverse da noi. Com’è possibile scoprire la propria realtà interiore attraverso un’attività fisica che, per quel- Uno stage di tre giorni sull’aikido portato a suo tempo in Europa dal maestro giapponese Itsuo Tsuda. Un’arte marziale tesa soprattutto a sviluppare la ricerca interiore piuttosto che a potenziare la capacità di combattere specie di «accordo» fra i partner a conferirle un’apparente validità. A me l’efficacia non interessa, ma non per questo la mia pratica mi sembra meno veritiera. Forse è una verità d’altro tipo quella che cerco, e non la cerco da solo ma «insieme» alla persona con cui pratico; è una verità più profonda che mi invita a scavare dentro di me con tutta la sincerità di cui sono capace. Non tento di mascherare, con le mie conoscenze tecniche o la mia esperienza, la persona che sono, l’umanità che sono, qui, ora, in questo istante. Quindi le tecniche, le prese, gli attacchi sono solo lo strumento attraverso il quale può succedere qualcosa, il mezzo attraverso cui accedere al patrimonio umano che esiste in tutti noi. L’aspetto più importante dell’aikido per me è proprio l’incontro di umanità diverse, l’incontro di due persone che altrimenti forse non riuscirebbero a dialogare. Ma moltissime persone si avvicinano alla arti marziali cercando un’efficacia, un mezzo per reagire per esempio ad un’aggressione. Che rapporto c’è fra questa esigenza e quello che fate voi? Credo che in situazioni di emergenza, quando corriamo un pericolo, quando si viene aggrediti da qualcuno, quello che fa sì che riusciamo a liberarci, a trarci d’impaccio, a salvarci la vita, penso che difficilmente sia qualcosa che si possa ricondurre a una tecnica appresa. È piuttosto un istinto, un istinto di sopravvivenza, un desiderio di vita, una vitalità... e anche una decisione interiore. In una situazione pericolosa, una persona decisa, sveglia e fisicamente presente saprà come muoversi molto meglio di una cintura nera incapace però di agire spontaneamente. Si tratta quindi di risvegliare l’istinto assopito. Perché Tsuda chiamava l’aikido «via della spoliazione»? Un momento dell’esecuzione di un «kata» dell’aikido lo che appare, richiama lo scenario delle arti marziali: ci sono prese, attacchi, immobilizzazioni? Diciamo che quando uno cerca dentro di sé può fare un percorso strettamente intellettuale o cercare un risveglio della sensibilità, un contatto con il proprio corpo, con quello che sentiamo. L’aikido è un modo di risvegliare questa sensibilità. È quindi qualcosa di estremamente concreto, non un percorso astratto. Lei parla di «contatto» ma oggi si sente parlare soprattutto di «full contact», il «contatto» che viene proposto in realtà è un «impatto», uno scontro. Effettivamente in un’arte di combattimento si privilegia l’aspetto dell’«efficacia» e di «potenziamento» per potersi imporre sugli altri. È una logica comune non solo al mondo delle arti marziali ma a tutta questa società in cui per farsi spazio, per poter sopravvivere, per poter dire «io esisto», c’è bisogno di imporsi sugli altri, di dimostrare di essere più forti, più capaci, più colti: in ogni ambito c’è sempre un «più» che emerge. La logica prevalente è quella dello scontro, del confronto, ma perché ci sia un reale incontro fra le persone bisogna fare un passo indietro, in qualche maniera mettere a tacere l’«Io» che siamo per poter ascoltare l’altro: in questo senso anche il movimento cambia, più che colpire, accoglie. C’è un’attenzione portata alla persona che abbiamo di fronte, al suo ritmo, alla sua respirazione.L’aikido è un’arte della respirazione e attraverso la respirazione ci si puo’ incontrare, unire e poi anche separare. Attraverso la scoperta del diverso da noi, possiamo scoprire anche una pienezza che altrimenti non sentiamo più, sentirci partecipi di una realtà molto più grande di noi. Nell’aikido ci sono delle forme, dei «kata». Come è possibile trovare la «fusione» di cui lei sta parlando attraverso dei «kata»? In ogni arte giapponese il «kata» è la base, sia la forma che la struttura. Anche nell’aikido ci sono delle forme, delle regole. È però interessante sapere che le forme si possono superare, che non sono fini a se stesse. Nel mondo dei marzialisti è piuttosto comune il discorso che sostiene che un’arte marziale, per essere considerata «vera» o sincera, dev’essere anche efficace e verificabile in un contesto di combattimento. Se c’è troppa intesa o armonia tra i praticanti facilmente essa viene bollata come «finta» e inefficace, come se fosse solo una Un’idea molto diffusa è quella che per vivere meglio, per sentirci meglio nella propria pelle, abbiamo bisogno di accrescerci, di diventare più ricchi, avere un maggior bagaglio di conoscenze ecc. Tsuda al contrario proponeva un cammino di spoliazione nel senso che prendendo coscienza del fatto che siamo già fin troppo carichi di tutto, di nozioni, di conoscenze, di idee ecc. ci accorgiamo che questo carico, inutile al 99%, ci impedisce di sentirci liberi. La sensazione di libertà infatti aumenta man mano che abbandoniamo dei pesi, che lasciamo la presa su tutta una serie di cose che sostanzialmente restringono il campo della nostra vita. Delle difese? Anche le difese, ma attenzione non tutte! Sin da piccoli siamo obbligati a difenderci da aggressioni di ogni tipo e ci siamo creati delle vere e proprie corazze. Era necessario per poter sopravvivere. Alcune di queste difese, però, a un certo punto diventano inutili e se lasciamo agire la saggezza inconscia del nostro corpo pian piano esso si libera di ciò che non serve più. Vorrà anche dire che il nostro mondo interiore è diventato più forte, che il nostro corpo ha ritrovato una vitalità, un asse centrale e una fiducia che aveva smarrito. Info: 338 6379242 oppure 02 29001396. S E R I E A Fermata la Juve Il Milan vince 3-1 Anticipi della 10/a giornata di serie A: Sampdoria-Inter 2-2 (Diana 6’ e 35’, per l’Inter Cambiasso e Cordoba al 31’ e 40’); Milan-Juventus 3-1 (14’ Seedorf, 26’ Kaka’, 45’ Pirlo, 76’ Trezeguet per la Juve). Oggi si giocano: Chievo-Empoli; Fiorentina-Cagliari; Lecce-Messina; Livorno-Parma; Reggina-Lazio; Roma-Ascoli; TrevisoSiena; Udinese-Palermo (20.30). Classifica: Juventus 27; Milan 25; Fiorentina e Inter 19; Palermo, Chievo, Lazio e Livorno 15; Sampdoria 14; Udinese e Empoli 13; Roma 12; Ascoli e Siena 11; Reggina e Parma 6; Messina e Treviso 5; Cagliari e Lecce 4. S E R I E B Risultati e classifiche 13a giornata di Serie B: AlbinoleffeCatanzaro 0-0; Avellino-Mantova 0-0; Bologna-Arezzo 1-1; Crotone-Pescara 0-0; Rimini-Bari 2-1; Ternana-Catania 0-0; Torino-Cesena 1-0; Triestina-Verona 0-3; Vicenza-Atalanta 3-3. Domani alle 20.45 si giocheranno Brescia-Modena e Cremonese-Piacenza. Classifica: Mantova 31; Torino 25; Modena 23; Atalanta 22; Verona, Arezzo e Cesena 21; Brescia e Catania 20; Crotone e Triestina 19; Rimini e Bologna 17; Piacenza 16; Pescara 15; Bari 14; Albinoleffe 13; Vicenza 12; Avellino 10; Catanzaro 8; Ternana 7; Cremonese 6. T E N N I S Schiavone in finale L’italiana Francesca Schiavone si è qualificata per la finale del torneo Wta di Hasselt (Belgio) superando l’olandese Michaella Kraijcek in tre set (4-6, 6-3, 7-5) e oggi affronterà la belga Kim Clijsters (6-0, 6-1 con la russa Dinara Safina). Nel torneo Wta di Linz oggi finale Schnyder (Svi)- Petrova (Rus). Nel torneo Atp di San Pietroburgo finale Johansson (Sve)-Kiefer (Ger). Nel torneo Atp di Basilea finale Baghdatis (Cipro)-Gonzalez (Cile). Nel torneo Atp di Lione finale Monfils (Fra)-Roddick (Usa). OLIMPIADI Il governo vuole il «doping libero» per i Giochi invernali di Torino l governo, su iniziativa del sottosegretario allo sport Pescante, ha espresso l’intenzione di sospendere con un decreto, che duri almeno quanto le Olimpiadi invernali, la penalizzazione dell’atleta assuntore di sostanze dopanti. Nonostante la contrarietà del Parlamento è presumibile che il Governo tornerà alla carica quando Rogge, gran capo del Cio (Comitato Olimpico Internazionale) verrà in visita a Berlusconi per rinnovare la richiesta. Su questa legge che abbiamo voluto noi ed è stata votata all’unanimità, è bene sgombrare il campo da assunti tanto infondati quanto equivoci. L’atleta che si sottopone a pratiche dopanti non è assimilabile a un alcolista o a un tossicodipendente: non è dalle sostanze che esso dipende ma dalle necessità di prestazioni spettacolari a uso dei network televisivi, degli sponsor e degli inserzionisti: è questo sistema che rende necessario il doping I come additivo. Occorre evitare di presentare campioni dal ricco conto in banca come vittime, deboli e ignare, di questo sistema quando proprio il campione di sci Miller, dal ricco conto, ha rivendicato la pratica dopante. Il risultato spettacolare e la logica prestazionale verrebbero così prima del diritto alla salute e della lealtà nelle competizioni sportive. Rischiamo così di avere, più che delle Olimpiadi, uno sport serializzato senza alcuna regola, una sorta di «Rollerball», come esempio per milioni di giovani e amatori. La legge non è un’icona né un tabù intoccabile, tantomeno ha a che fare con le logiche proibizioniste della Bossi-Fini ma, senza una modifica complessiva che consenta le indagini sul sistema del doping e sulle sue figurefunzioni, limitarsi oggi a depenalizzare l’atleta significherebbe svuotare la legge di ogni efficacia nel contrastare il fenomeno «doping». Non solo non si avrebbero a disposizione importanti FIORELLO CORTIANA* strumenti di indagine, ma cambierebbe pure l’autorità di riferimento, non più il giudice penale, rendendo i processi interminabili e le sanzioni assolutamente più blande. Se questa è l’intenzione del Governo, sarebbe un vero e proprio attentato alla salute di centinaia di atleti, nonché il favoreggiamento a un circuito che, dai produttori, ai distributori e ai somministratori di sostanze dopanti, ha come protagonista la malavita organizzata internazionale, cosa evidenziata dai rapporti della magistratura e dei Nas. Per fare un esempio i sequestri di specialità ad azione anabolizzante, dalle 23.637 confezioni del 2000 sono passati alle 988.955 del 2004, e dai dati della Direzione NazionaleAntimafia, risulta che gli assuntori di sostanze dopanti nel territorio nazionale ammonterebbero a 611.000 unità solo nel 2005. C’è poi un aspetto specifico che riguarda la pratica sportiva e motoria in sé, sia fatta individualmente che collettivamente. L’uso di sostanza dopanti, delle scorciatoie per raggiungere il risultato con ogni mezzo, costituisce innanzitutto un inganno verso sé stessi. L’illusione di una scorciatoia, per raggiungere un risultato, è un inganno nei confronti della nostra volontà che risulterà svuotata di ogni effettiva capacità e anche nella relazione corpomente e nella relazione sociale con l’altro da sé sia compagno che avversario. Ma il doping è anche un inganno verso il nostro corpo, che pagherà i prezzi delle prestazioni in modo dilazionato, nello spazio e nel tempo, e li farà pagare anche a chi, come i figli, non ha mai scelto la pratica dopante. Per cui risulta ipocrita e non solo falsa l’idea che «l’importante è sapersi gestire la sostanza». Infine, ma spesso è la parte indispensabile delle nostre relazioni sportive, il doping è un inganno verso i nostri competitori, verso le regole comunemente condivise, che consentono la pratica sportiva. Ho avuto due incidenti gravi nella mia pratica sportiva-motoria, ho investito tanto tempo e tante energie per recuperare, ciò è stato possibile grazie allo sviluppo della relazione consapevole tra la mia mente e il mio corpo, tra me, i medici, i fisiatri, i tecnici, anche questo è stato un risultato utile per me come persona. Ricordo queste esperienze non tanto in riferimento al mio universo personale, quanto per ricordarmi come da fuori ho potuto apprezzare e considerare l’importanza e la bellezza del gesto e della relazione nella pratica sportiva. La consapevolezza del singolo movimento, del passo, del colpo di pedale, dentro un percorso. La consapevolezza di tutto questo in un gioco di squadra, l’importanza e la necessità degli avversari per praticare il gioco. Pensiamoci: senza un attaccante avversario quali tiri parerebbe un portiere? Senza un oizuki, cosa potrebbe parare e chi e dove contrattaccare un karateka? Fare attività sportiva e motoria in modo pulito non significa solo imparare a stare onestamente nella società, costituisce in sé una parte della nostra vita, del nostro essere società, del nostro crescere, dell’accompagnare il nostro corpo lungo le sue stagioni, attraverso le stagioni che si succedono. Il mondo doping vuole un corpomacchina un propulsore nel quale immettere il propellente più opportuno fuori da ogni consapevolezza. Il doping fa male fisicamente, eticamente, quindi esistenzialmente, è bene saperlo per rifiutarlo e per rifiutare quelle logiche pseudo-sportive chelo richiedono come additivo necessario per risultati prevedibili e replicabili nel tempo, che rispondono forse ad altre crescite, sicuramente non a quella personale. *Senatore dei Verdi-l’Unione domenica 30 ottobre 2005 il manifesto TELEVISIONI INSOSTENIBILE LEGENDA CULT LETALE RIVOLTANTE 6.10 6.45 10.00 10.30 10.55 12.00 12.20 13.30 14.00 16.00 18.00 20.00 20.35 20.40 23.00 23.05 0.05 0.40 1.00 2.05 3.00 3.05 4.40 5.25 5.50 COSI’ COSI’ BELLO MAGICO T V CLASSICO D O M E N I C A GUNG HO ARRIVANO I GIAPPONESI DI RON HOWARD (USA 1986) LA7 17.55 (110’) BLACK HAWK DOWN DI RIDLEY SCOTT (USA 2002) RETE 4 21 (144’) DOGMA DI KEVIN SLITH (USA 1999) RETE 4 23.45 (120 Una fabbrica d’auto in crisi, tutta la città con l’incubo della disoccupazione quand’ecco che la rilevano i giapponesi che però rendono massacranti i ritmi di lavoro. Michael Keaton è un operaio che salva la situazione. Il film assume un significato particolare per la quantità di investimenti giapponesi nel cinema Usa giusto in quegli anni. Con Gedde Watanabe e Mimi Rogers. Alcuni supereroi nelle prime ore domenicali: Schwarzenegger in Last action hero (Canale 5, ore 9.50), un bambino a tu per tu con il suo eroe preferito e Batman e Robin (Italia 1, ore 14.35) con George Clooneuy e Uma Thurman. In prima visione tv il film di impianto militarista risolto da Ridley Scott con una grande energia creativa, che ha valso a Pietro Scalia l’Oscar al montaggio (la prima l’aveva vinta per JFK. E bisogna dire che in questo film il ritmo è fondamentale. Il titolo del film si riferisce agli elicotteri impegnati nell’operazione del 3 ottobre 1993 quando un gruppo di specialisti del Delta Force ricevono l’ordine di catturare i luogotenenti del generale Aidid a Mogadiscio, ma invece di essere un’azione lampo si protrae per alcune ore, con la perdita di due Black Hawk, gli elicotteri in dotazione. Interprete principale Josh Hartnett. Prima tv. L’opera del giovane fenomeno americano di Clerks è una commedia cristologica alla Monthy Phyton, con Linda Fiorentino, ex sexy-star, nei panni dell’ultima parente di Gesù. Andamento fumettistico, discussioni teologiche, Matt Damon e Ben Affleck (la bella coppia di “Will Hunting” diretto da Gus Van Sant) angeli cacciati dal paradiso e decisi a rientrarvi, anche a costo di demolire l’infallibilità dell’onnipotente, diavoli con le corna, spogliarelliste muse ispiratrici... Kevin Smith abbandona il minimalismo visivo di Clerks, ma non la sua verbosità, e con un budget consistente si scatena in un filmone pop ad effetti speciali. Purtroppo, l’humor britannico è difficile da imitare. RAI1 6.05 SOPORIFERO RAI2 6.00 6.05 6.20 6.35 6.40 6.45 Anima Good News un programma di Gabriele La Porta. Regia di Erina Roman Mina Strega per amore - Telefilm Sabato, domenica &... Conduce Corrado Tedeschi, Sonia Grey Linea Verde Orizzonti Un programma di Nicola Sisto A sua immagine Conduce Andrea Sarubbi. Regia di Marco Brigliadori Santa Messa Recita dell’Angelus Linea Verde in diretta dalla natura TG1 Domenica In... Tv Conduce Mara Venier Domenica In - L’arena Conduce Luisa Corna, Massimo Giletti Domenica In - Ieri, oggi, domani - Conduce Pippo Baudo TG1 Rai TG Sport Il bambino sull’acqua TG1 Speciale TG1 Oltremoda TG1 Notte Cinematografo Così è la mia vita... Sottovoce Che tempo fa Presenze Film di Rusty Lemorande con J. Sand, Patsy Kensit Overland 3 Videocomic Che tempo fa 7.00 8.00 9.00 9.30 10.00 10.05 11.30 13.00 13.25 13.40 13.45 14.55 17.05 17.55 18.05 18.50 19.05 19.30 20.00 20.30 21.00 22.30 1.00 1.20 1.50 2.25 3.10 3.25 4.15 5.45 5.55 RAI3 Quarto potere TG2 Si, viaggiare (R) Il mare di notte Avvocato per voi L’editoriale della domenica Mattina in famiglia Conduce Tiberio Timperi TG2 Mattina TG2 Mattina TG2 Mattina TG2 Mattina L.I.S. TG2 Mattina L’anima dell’impero Gli orizzonti inquieti del petrolio tra apocalisse e sostenibilità Mezzogiorno - In Famiglia TG2 Giorno TG2 Motori Meteo 2 Quelli che aspettano... Quelli che il calcio... Numero Uno: Speciale TG2 TG2 Dossier TG2 Eat Parade Zorro - Telefilm “Un ospite scomodo” Domenica Sprint Tom & Jerry TG2 - 20.30 Sequenza esplosiva con S. Young La Domenica Sportiva TG2 Sorgente di vita L’isola dei famosi Ricominciare 3 TG2 Costume e Società (R) 50 anni di successi Net.t.un.o. - Network per l’università ovunque La Rai di ieri Il paese di Alice 6.00 7.00 7.50 9.10 9.45 11.15 11.45 12.00 12.10 12.50 13.20 14.00 14.15 14.30 15.00 16.05 18.00 18.55 19.00 19.30 20.00 20.10 21.15 23.05 23.15 23.25 0.25 0.35 1.05 RETE4 Fuori orario Aspettando ‘è domenica papà’ è domenica papà ScreenSaver Un programma di Rossella Abate, Mussi Bollini, Federico Taddia, con la collaborazione di Elena Mora. Conduce Federico Taddia. Regia di Emanuela Pesando e Stefania Vergnano Timbuctu - Un mondo di animali TGR Europa TGR RegionEuropa Tg3 - Rai Sport Notizie Telecamere Salute Ideato e condotto da Anna La Rosa. Regia di Fabrizio Borelli Okkupati Passepartout TG Regione - TG Regione Meteo TG3 In 1/2 h Alle falde del Kilimangiaro Un posto al sole Per un pugno di libri TG3 Meteo TG3 TG Regione - TG Regione Meteo Blob Che tempo che fa Report TG3 TG Regione Parla con me TG3 Telecamere Appuntamento al cinema 6.00 6.55 7.10 7.20 8.20 9.30 10.00 11.00 11.30 11.40 12.20 13.30 14.00 15.30 18.30 18.55 19.35 21.00 23.45 2.10 2.30 4.25 5.45 LEGENDA LETALE RIVOLTANTE 6.45 7.00 7.30 8.00 9.00 9.30 10.40 10.45 10.55 11.00 11.25 11.30 12.00 13.30 14.00 14.10 15.05 15.50 16.15 16.50 17.00 18.50 20.00 20.30 21.00 23.10 23.15 0.50 1.15 SOPORIFERO CULT NETWORK 8.40 Un viaggio nel cinema americano - 10.00 E il Vascello va... - 11.00 La mappa del mondo - 13.10 L’ospite - 13.30 Echoes from the street - 14.30 La cienaga - 16.15 40.000 anni di sogni - 17.30 Boldini - 18.30 A.B.O.rdo delle arti - 19.00 Viaggio a Kandahar - 20.40 Un viaggio nel cinema americano - 22.00 Nuovi schermi d’Africa - 23.00 Pieces d’identites di Mweze Ngangura - 0.45 L’ospite 1.00 Schegge di utopia. SKY CINEMA AUTORE 7.50 L’amore di Marja - 9.45 Hollywoodclick 10.20 Cine Lounge - 10.30 Actors - 12.10 Cine Lounge - 12.20 Frida di Julie Taymor - 14.30 Cine Lounge - 14.40 Zatoichi di Takeshi Kitano 16.40 Cine Lounge - 16.50 In my country di John Boorman - 18.40 Cine Lounge - 18.50 Agata e la tempesta di Silvio Soldini - 21.00 Sky Cine News - 21.30 Te lo leggo negli occhi - 23.05 La sposa turca - 1.15 Cara, insopportabile Tess. COSI’ COSI’ BELLO MAGICO Astuta strategia di Raiuno per bissare gli ascolti di Rock politik con un film intero di Benigni. dà vita al burattino di Collodi nello spirito del testo originale. Inquietante e gioioso, è un palcoscenico fantastico per l’attore-regista premio Oscar, stralunato automa. Roberto Benigni si è sottratto a un ipercinetico burattino tutto gag e ha scelto la via dell’e-stasi. Contro il naturalismo sensuale, emotivo e mondano, il Pinocchio di Benigni sceglie il ritratto stilizzato, freddo, la «rigidità» del burattino, la sua essenza. Questo Pinocchio è «fedele» al testo di Collodi non perché lo illustra nei suoi «episodi», scritti a puntate da Carlo Lorenzini, ma perché ci restituisce la sua aura, il ricordo fatato. Settegiorni Parlamento TG1 - CCISS Viaggiare informati UnoMattina TG1 TG1 L.I.S. - Che tempo fa TG1 - Che tempo fa TG1 TG1 Flash TG Parlamento Dieci minuti di...programmi dell’accesso Appuntamento al cinema Occhio alla spesa Che tempo fa TG1 La prova del cuoco Conduce Antonella Clerici, Beppe Bigazzi TG1 TG1 Economia L’ispettore Derrick Telefilm Il Commissario Rex Telefilm Festa italiana - Conduce Caterina Balivo La vita in diretta Conduce Michele Cucuzza TG Parlamento TG1 L’eredità TG1 Affari tuoi - Conduce Pupo Pinocchio - Film di Roberto Benigni con Kim Rossi Stuart, Nicoletta Braschi, Roberto Benigni TG1 Porta a Porta Conduce Bruno Vespa TG1 Notte Tg1 Turbo: (A seguire: Che tempo fa) RAI2 6.00 6.20 6.55 7.00 9.20 9.30 10.00 11.00 13.00 13.30 13.50 14.00 15.45 17.10 17.15 18.10 18.30 18.50 19.00 20.00 20.05 20.30 21.00 22.40 22.50 23.40 1.05 1.15 1.45 1.50 1.55 2.00 2.40 2.55 3.10 3.15 TG2 Medicina 33 (R) L’isola dei famosi Quasi le sette Random ApriRai Protestantesimo TG2 Notizie Piazza Grande Conduce G. Magalli TG2 Giorno TG2 Costume e Società TG2 Salute L’Italia sul Due Conduce Milo Infante, Monica Leofreddi Al posto tuo - Conduce Lorena Bianchetti TG2 Flash L.I.S. Random Rai TG Sport TG2 - Meteo 2 10 minuti L’isola dei famosi Classici Warner Tom & Jerry TG2 - 20.30 Desperate Housewives I segreti di Wisteria Lane Telefilm TG2 L’isola dei famosi Stracult TG Parlamento Sorgente di vita Ma le stelle stanno a guardare? - Conduce Alessandra Canale Meteo 2 Appuntamento al cinema Ricominciare 3 TG2 Salute TG2 Costume e Società L’arte dentro Leggende d’Italia SKY CINEMA 1 10.05 La locandina - 10.20 Cine Lounge - 10.30 Alex & Emmar - 12.05 Loading Extra - 12.20 Stà zitto... non rompere - 13.50 Cine Lounge - 14.00 The missing - 16.20 Sky Cine News - 16.55 Appuntamento da sogno - 18.35 Loading Extra - 19.00 Secret Window - 20.40 La locandina - 21.00 Il libro di Dio - 22.45 Cose da maschi - 0.30 Il club delle promesse. SKY CINEMA 3 10.05 Extralarge - 10.25 Cine Lounge - 10.35 Looney Tunes Back in Action - 12.20 Prima o poi mi sposo - 14.05 Sky Cine News - 14.45 School of rock - 16.40 Speciale Monica Bellucci - 17.30 Cani dell’altro mondo - 19.00 Cine Lounge - 19.10 Big Trouble - Una valigia piena di guai - 21.00 50 Volte il primo bacio - 22.50 Gothika - 0.35 Una bionda esplosiva - Hot chick. 8.00 8.40 9.20 9.55 13.00 13.35 18.00 20.00 20.40 22.55 23.55 0.25 0.35 1.07 2.50 3.20 3.50 4.21 5.30 RITORNO AL FUTURO DI ROBERT ZEMECKIS (USA 1984) ITALIA 1 (118’) 12.00 14.00 15.00 18.00 18.55 19.00 23.15 Gli appassionati di Doc e Marty McFly avranno visto tutta la serie varie volte senza stancarsi mai a bordo della macchina del tempo. Nel primo episodio per sfuggire ai terroristi si mette in funzione la macchina e Marty arriva nel 1955 dove incontra i genitori ancora ragazzi: il problema è farli innamorare, cosa non semplice visto che la madre si interessa di più al vivace ragazzino piombato dal nulla che al futuro marito. Nel secondo Marty arriva nel futuro per correggere alcuni avvenimenti pericolosi per la sua famiglia. Divertenteanche se visto più volte, interpretato da Michael J, Fox, Christopher Lloyd, Thomas Wilson. RAI3 6.00 8.05 8.15 9.15 9.30 10.15 12.00 12.25 12.35 13.10 14.00 14.50 15.00 15.10 15.15 15.45 16.15 16.25 16.35 17.00 17.50 18.00 19.00 19.30 20.00 20.10 20.30 21.00 23.05 23.10 23.20 23.40 0.35 0.45 6.00 6.10 6.30 6.40 6.50 7.05 7.10 7.50 8.45 9.50 10.50 11.30 11.40 13.30 14.00 15.00 16.00 16.45 18.55 19.29 19.35 20.10 21.00 23.00 1.00 1.25 2.15 2.20 3.00 4.20 11.30 Sky Calcio (R): Serie A: Reggina-Lazio 13.15 Sky Calcio: Highlights Serie A e B - 14.00 Sport Time - 14.30 Serie A 05/06 (R): MilanJuventus - 16.15 Serie A 05/06 (R): UdinesePalermo - 18.00 C’era una volta: Lazio-Inter 12/03/00 - 19.00 Sport Time - 19.30 Numeri 20.00 Mondo gol - 20.55 Premier League 05/06: Manchester City-Aston Villa - 23.00 Fuori zona 0.00 Sport Time - 0.30 Bar Stadio. 8.40 Un viaggio nel cinema americano - 10.00 Nuovi schermi d’Africa - 11.00 Pieces d’identites 13.00 Schegge di utopia - 13.45 Jackson Browne Un californiano a L’Avana - 14.45 La Forza delle Immagini - 17.50 Speciale Giornate dei Diritti Umani - 19.00 Fuga dalla scuola media - 20.40 Un viaggio nel cinema americano - 22.00 Vanessa Beecroft - 22.30 Antistoria del fumetto italiano 23.00 Krampack - 0.45 Music portraits SKY CINEMA AUTORE 8.30 Nuovo cinema paradiso - 10.40 Cine Lounge - 10.50 I segreti del lago - 12.40 Cine Lounge 12.50 C’era una volta in Inghilterra - 14.40 Cine Lounge - 14.50 Te lo leggo negli occhi - 16.20 Cine Lounge - 16.30 La sposa turca - 18.45 Cine Lounge - 18.55 Cyclo - 21.00 Hollywoodclick 21.30 Uomini semplici - 23.25 Agata e la tempesta - 1.35 Under the Skin - A fior di pelle LA7 ITALIA1 TG5 Prima Pagina Traffico Meteo 5 TG5 Mattina Le frontiere dello spirito Conduce Ravasi Monsignor Super partes Tin Cup - Film di Ron Shelton, con Kevin C ostner, Renè Russo e Don Johnson TG5 Buona Domenica Con Maurizio Costanzo, Roberta Capua, Claudio Lippi, Luca Laurenti e Paola Barale Serie A - Il grande calcio Con Paolo Bonolis e Monica Vanali TG5 Vacanze di natale 2000 Film di Carlo Vanzina con Christian De Sica, Massimo Boldi Terra! Nonsolomoda - è ... Contemporaneamente Corto 5 TG5 Notte Questo mondo è meraviglioso Film di Woodbridge Strong Van Dyke con Claudette Colbert, J. Stewart Shopping By Night Mork & Mindy Telefilm TG5 (R) Highlander - Telefilm TG5 (R) 20.00 Flash News News dall’Italia e dal mondo 20.30 Hit list Italia + 22.25 Flash News News dall’Italia e dal mondo 22.30 Very Victoria 23.30 Mtv Live 0.00 Kenshin 0.30 Yo! 1.30 Superock 2.30 Into the music 3.30 Insomnia 6.20 7.00 7.30 7.40 7.55 8.25 8.35 9.05 9.35 9.40 9.45 11.55 12.25 13.00 13.50 14.30 14.35 17.00 18.00 18.25 18.30 19.00 19.55 20.40 22.35 0.50 1.15 1.20 1.45 2.10 3.45 6.00 7.00 9.05 Willy, il principe di Bel Air Telefilm Super partes I due Masnadieri Un tritone per amico Casper Tatino e Tatone Tartarughe Ninja Spiderman La pantera rosa Carmencita Sit-com Campioni, il sogno La partita: Rodengo Saiano-Vodafone Cervia Grand Prix Studio Aperto Guida al campionato Le ultime dai campi MediaShopping Batman e Robin - Film di Joel Schumacher con Arnold Schwarzenegger, George Clooney Domenica Stadio I Simpson MediaShopping Studio Aperto The Closer - Telefilm “Appuntamento al buio” La Talpa Smallville - Telefilm “Ultima lettera” “Lucy” ControCampo Studio Sport MediaShopping Fuori campo Shopping By Night Halloween III - Il signore della notte - Film di Tommy Lee Wallace con Stacey Nelkin, Tom Atkins MegaSalviShow 9.35 11.30 12.30 12.45 13.00 14.00 16.00 17.55 20.00 21.00 22.50 23.20 0.15 0.30 1.05 2.55 TG La7 Omnibus Weekend La famiglia Addams Telefilm La contessa Castiglione Film di Flavio Calzavara con Andrea Checchi, Doris Duranti Anni Luce (R) TG La7 La settimana di Elkann The Practice - Professione avvocati - Telefilm Alla conquista del West Telefilm Won Ton Ton, il cane che salvò Hollywood Film di Michael Winner con Fernando Lamas, R. Alda Gung Ho - Film di Ron Howard con Gedde Watanabe, Michael Keaton TG La7 Crossing Jordan - Telefilm “Il dono della vita” “Qualcuno su cui contare!” Con Jill Hennessy, Miguel Ferrer, Ken Howard, Steve Valentine. Sex and the city - Telefilm L Word - Telefilm TG La7 M.O.D.A. Una donna: una storia vera Film di Roger Donaldson con Morgan Freeman, Keith Szarabajka CNN - News Collegamneto in diretta con la rete televisiva americana RADIOUNO NOTIZIARI: 6, 7, 8, 10, 12, 13, 15, 16, 19, 22, 23, 2, 3, 4, 5 10.10 Diversi da chi? 10.15 Personaggi e interpreti - 10.37 Radiogames 10.52 I Nuovi Italiani 11.10 Oggi Duemila - 11.55 Oggiduemila - 12.40 GR Regione - 13.24 Radio1 Sport - 13.30 Contemporanea - 13.45 Habitat magazine - 14.00 Domenica sport 14.50 Tutto il calcio minuto per minuto - 18.30 Pallavolando - 19.21 Tutto Basket 20.03 Ascolta, si fa sera 20.23 GR1 Calcio - 23.33 Radioscrigno - 0.00 Rai il Giornale della Mezzanotte. RADIODUE NOTIZIARI: 6.30, 7.30, 8.30, 10.30, 12.30, 13.30, 15.30, 17.30, 19.30, 20.30, 21.30 8.00 Ottovolante - Comici sulla corda - 8.30 GR2 8.45 Clandestino - 10.00 Numero verde - 10.30 GR2 11.00 Vasco de Gama 12.30 GR2 - 12.48 GR Sport - 13.00 Tutti i colori del giallo - 13.30 GR2 - 13.38 Ottovolante - Comici sulla corda - 14.30 Catersport 15.49 GR2 - 17.00 Strada Facendo - 17.30 GR2 19.30 GR2 - 19.52 GR sport - 20.00 Strada Facendo 21.17 GR2 - 22.35 Fans Club - 0.00 Lupo solitario. RADIOTRE NOTIZIARI: 6.45, 8.45, 10.45, 13.45, 16.45, 18.45, 22.45 9.02 Il Terzo Anello Musica 9.30 Uomini e profeti 10.15 Il Terzo Anello Musica - 10.50 Il Terzo Anello 11.50 I concerti del Quirinale di Radio3 - 13.10 Di tanti palpiti - 14.00 Il Terzo Anello Musica - 15.00 Il Terzo Anello - 15.45 Domenica in Concerto - 18.00 La Grande Radio - 18.45 GR3 - 19.02 Cinema alla radio - 20.16 Radio3 Suite - 20.30 Il Cartellone - 23.30 Siti terrestri, marini e celesti - 0.00 Esercizi di memoria - 2.00 Notte classica. NIGHTMARE 3 DI CHUCK RUSSELL (USA 1987) 7 GOLD 23.10 (92’) HALLOWEEN VENTI ANNI DOPO DI STEVE MINER (USA 1998) RAIUNO 2.35 (85’) Il mostro di Elm Street torna con la collaborazione alla sceneggiatura di Wes Craven, una garanzia: una epidemia di suicidi tra i giovani si è abbattuta sulla città e si cerca di curare i superstiti con potenti sedativi. Ma è proprio quello che i ragazzi temono, infatti nel sonno sono in preda di spaventosi incubi. Con Patricia Arquette, Robert Englund e la musica di Angelo Badalamenti. Altri horror classici sono: Dracula principe delle tenebre ((Sky classic, ore 21) e La mummia (Sky Classic, ore 22.35) entrambi di Terence Fisher con Christopher Lee. Oltre a Frankenstein (Studio Universal, ore 1,15) di James Whale. Vent’anni fa, la babysitter Jamie Lee Curtis combatteva la sua prima battaglia contro Michael Myers, il suo pseudo-fratellino di sangue (ma questo lo sapremo solo in Halloween II), l’ombra che non vuole morire, che si rialza dopo ogni colpo mortale, che non muore mai perché il male non può essere sconfitto. Vent’anni dopo, Jamie Lee Curtis è la preside di una scuola d’élite, ha una segretaria di nome Janet Leigh (sua madre nella relatà) che guida una macchina vagamente hitchcockiana, e ha soprattutto un figlio teen-ager che guarda Scream alla tv e diventa quindi il bersaglio mobile di Michael. Ma intanto il mondo è terribilmente cambiato. 6.00 7.55 7.58 8.00 8.50 9.05 11.25 12.30 13.00 13.40 14.10 14.15 14.45 16.15 17.00 18.45 20.00 20.31 21.00 23.15 0.45 1.15 1.45 2.00 2.35 3.25 3.55 4.35 5.30 SKY CINEMA 1 7.10 Valentin - 8.35 Piovuto dal cielo - 10.20 Loading Extra - 10.35 Honey - 12.10 Il libro di Dio 13.50 Cine Lounge - 14.00 Shall we dance? 15.55 Loading Extra - 16.10 Cine Lounge - 16.20 Oceano di Fuoco - Hidalgo - 18.40 Cine Lounge 18.50 Duplex - Un appartamento per tre - 20.25 Extralarge - 21.00 Troy - 23.45 Piovuto dal cielo 1.30 The butterfly effect SKY CINEMA 2 REPLICA SKY CINEMA 1 DIFFERITA 1 ORA SKY CINEMA 3 8.50 Una hostess tra le nuvole - 10.30 Tu mi ami 12.20 Identità violate - 14.15 Cine Lounge 14.25 Un ciclone in casa - 16.50 From Justin to Kelly - 18.40 Cine Lounge - 18.50 Paid in full 20.30 Extralarge - 20.50 Cine Lounge - 21.00 Brivido biondo - 22.35 Agents secrets - 0.30 Laws of attraction - Matrimonio in appello 6.00 7.00 10.00 12.00 13.00 13.30 14.00 15.00 15.30 16.00 16.05 17.00 News Wake up Pure morning Into the music MTV Europe Music Awards Room Raiders TRL - Total Request Live School in action Yu Yu Hak sho Flash News Mtv Pla ground Flash News LA7 ITALIA1 CANALE5 Il buongiorno di Media Shopping Batticuore - Soap opera con Gabriel Corrado MediaShopping TG4 - Rassegna Stampa Secondo voi Conduce P. Del Debbio Peste e corna e gocce di storia - Conduce Roberto Gervaso Esmeralda Charlie’s Angels Telefilm Vivere meglio Saint Tropez Febbre d’amore TG4 Forum - Conduce Rita Dalla Chiesa TG4 Genius Sai Xchè? Sentieri Mio figlio ha settant’anni Telefilm TG4 Meteo 4 Sipario del TG4 Walker Texas Ranger Telefilm Accerchiato - Film di Robert Harmon con Jean Claude Van Damme, Rosanna Arquette Appuntamento con la storia TG4 - Rassegna Stampa Pianeta mare MediaShopping Tv moda Il cervello di Frankenstein Film di Charles Barton con Bud Abbott, Lou Costello Vivere meglio TG5 Prima Pagina Traffico - Meteo 5 Borsa e monete TG5 Mattina Il Diario Tutte le mattine Giudice Amy Telefilm Vivere TG5 Beautiful Tutto questo è soap Centovetrine Uomini e Donne Amici Verissimo - Tutti i colori della cronaca Conduce Benedetta Corbi, Giuseppe Brindisi Passaparola TG5 Striscia La Notizia La voce della divergenza Con Ezio Greggio, Franco Neri Distretto di polizia 5 Telefilm Matrix Conduce Enrico Mentana TG5 Notte Striscia La Notizia La voce della divergenza (Replica) Con Ezio Greggio, Franco Neri Il Diario (Replica) MediaShopping Amici (R) TG5 Mork & Mindy Telefilm Highlander Telefilm TG5 (R) MTV CULT NETWORK Fuori Orario presenta il film di Rivette e a seguire il primo corto di Straub. Quattro ragazze della scuola di teatro sono perseguitate da un individuo che forse è un poliziotto, forse un millantatore. La vita e il teatro si scambiano le parti. Nel cast Bulle Ogier, Ines de Medeiros,, Laurence Cote. Il corto di Jean Marie Straub è Machorka.Muff (1962), tratto da un racconto satirico antimilitarista di Einrich Boell, «Diario della capitale». Ricordiamo l’appuntamento fisso di domani sera con le lezioni di Deleuze al Vincennes, undicesima parte. RADIOUNODUETRE Wake up MTV Europe Music Awards Never before scene European top 20 Scrubs, medici ai primi ferri (Replica) Telefilm MTV Europe Music Awards MTV Europe Music Awards Flash News Made RETE4 Rai News 24 Morning News ApriRai Rai Educational Cominciamo bene Animali e Animali Conduce Licia Colò Cominciamo bene - Prima Conduce Pino Strabioli Cominciamo bene TG3 - RaiSport Notizie TG3 Meteo TG3 Shukran Cominciamo bene Le Storie - Conduce Corrado Augias Snowy River - La saga dei Mc Gregor - Telefilm TG Regione - TG3 TGR Leonardo TGR Neapolis La TV dei ragazzi Out there - Telefilm Cartoni animati TG3 GT Ragazzi Melevisione favole e cartoni La Melevisione Cose dell’altro Geo Geo & Geo TG3 Meteo TG3 TG Regione - TG Regione Meteo Rai TG Sport Blob Un posto al sole Chi l’ha visto? Conduce F. Sciarelli TG3 TG Regione TG3 Primo Piano Rai Educational TG3 - TG3 Meteo Appuntamento al cinema SKY SPORT 1 11.15 Basket (R): Serie A: Angelico Biella-Roseto Basket - 13.00 Wrestling WWE: Raw - 14.00 Rugby (R): Heineken Cup: Benetton Treviso-Saracens - 15.45 Sky Volley (R) - 17.45 Basket (R): Serie A: Climamio Bologna-Benetton Treviso 19.30 Wrestling WWE: Velocity - 20.25 Sky Volley - 22.30 Rugby: Heineken Cup: Stade Francais-Leicester - 0.15 Icarus. 11.30 LA BANDE DES QUATRE (UNA RECITA A QUATTRO) DI JACQUES RIVETTE (FRANCIA 1988) RAITRE 1.50 (155’) L U N E D Ì SKYTV SKY SPORT 2 6.00 9.00 SKY CINEMA 2 REPLICA SKY CINEMA 1 DIFFERITA 1 ORA T V CLASSICO PINOCCHIO DI ROBERTO BENIGNI (ITALIA 2002) RAIUNO 21 (115’) RAI1 6.00 6.30 6.00 7.55 MTV SKY SPORT 1 10.30 Generazione 1X2 - 12.00 Campionato Italiano Primavera: Ascoli-Roma - 14.00 Sky Calcio Show - 14.55 Serie A 2005/2006: Treviso-Siena 17.00 Sky Calcio Show - 18.30 Serie A 2005/2006: Sintesi di una partita - 19.30 Sport Time - 20.25 Serie A 2005/2006: Udinese-Palermo - 23.15 Sport Time - 0.00 Sky Calcio: Highlights Serie A e B - 0.45 Serie A 2005/2006 (R): Udinese-Palermo - 2.45 Sky Calcio. SKY SPORT 2 10.00 Rugby (R): Heineken Cup: Benetton TrevisoSaracens - 11.55 Basket: Serie A: Climamio Bologna-Benetton Treviso - 13.45 Sky Volley (R) 15.30 Icarus - 16.00 Hockey Campionato Italiano Serie A (R) - 18.00 Sky Volley - 20.30 Basket (R): Serie A: Climamio Bologna-Benetton Treviso 22.15 Rugby (R): Heineken Cup: London WaspsStade Toulousain - 0.00 Boxe (R): Friday Nights Fights: Julio vs Vilches, Anchondo vs Barrios. INSOSTENIBILE CANALE5 West Wing - Tutti gli uomini del presidente - Telefilm Il buongiorno di Media Shopping TG4 - Rassegna Stampa Ellery Queen - Telefilm Magnum P.I. - Telefilm Vita da strega S. Messa Pianeta mare TG4 (All’interno) Pianeta mare Melaverde TG4 Ciao amici! - Film di Monty Banks con Oliver Hardy, Stan Laurel La battaglia dei giganti Film di Ken Annakin con Henry Fonda, Robert Shaw Il ritorno di Colombo Telefilm “Colonna sonora con omicidio” TG4 (All’interno) Il ritorno di Colombo Telefilm “Colonna sonora con omicidio” Black Hawk Down - Film di Ridley Scott con Ewan McGregor, Sam Shepard Dogma - Film di K. Smith con Ben Affleck, Matt Damon TG4 - Rassegna Stampa Bus in viaggio - Film di Spike Lee con Deandre Bonds, Richard Belzer Il mistero della piramide Film di Charles Lamont con Bud Abbott, Lou Costello TG4 - Rassegna Stampa SKYTV CULT 17 6.10 6.42 6.50 7.10 7.25 7.50 8.20 8.30 8.50 9.25 11.15 11.20 12.15 12.25 13.00 13.40 14.05 15.00 15.55 16.15 16.30 16.55 17.10 17.35 17.55 18.20 18.25 18.30 19.00 19.30 20.10 21.00 23.15 1.35 Willy, il principe di Bel Air Telefilm Belle pecorelle Baby Looney Tunes Il laboratorio di Dexter Sabrina Pollyanna Picchiarello Beethoven I Robinson - Telefilm Fantasmi alla riscossa Film di P. Read Johnson con Christopher Lloyd, Tom Amandes MediaShopping Più forte ragazzi - Telefilm Secondo voi Studio Aperto Studio Sport Shaman King I Simpson Dawson’s creek - Telefilm Campioni, il sogno Siamo fatti così Esplorando il corpo umano Let’s & Go - Sulle ali di un turbo Sonic X Mirmo Spongebob Rossana Picchiarello MediaShopping Studio Aperto La vita secondo Jim Telefilm La Talpa Everwood - Telefilm Mai dire lunedì Ritorno al futuro - Film di Robert Zemeckis con Christopher Lloyd, Michael J. Fox Studio Sport 6.00 7.00 9.15 9.20 9.30 10.30 11.05 11.30 12.30 13.05 14.05 16.00 18.00 19.00 20.00 20.35 21.00 23.30 0.05 0.25 1.35 2.05 3.00 TG La7 Omnibus La7 Punto TG Due minuti, un libro L’ispettore Tibbs Telefilm Documentario Dogs with Jobs Commissario Scali Telefilm TG La7 Matlock Telefilm Gastone - Film di Mario Bonnard con Alberto Sordi, Anna Maria Ferrero Atlantide - Storie di Uomini e Di Mondi Jag - Avvocati in divisa Telefilm Star Trek - Enterprise Telefilm TG La7 Notizie dall’Italia e dal mondo Otto e Mezzo Conduce Giuliano Ferrara, Ritanna Armenni Non è più tempo d’eroi Film di Robert Aldrich con Henry Fonda, Michael Caine Effetto reale TG La7 Notizie dall’Italia e dal mondo 25a ora - Il cinema espanso L’intervista (R) N.Y.P.D. 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Battiti - 1.30 Il Terzo Anello. Ad alta voce il manifesto domenica 30 ottobre 2005 INCHIESTA 18 Gli intrecci con la politica neutralizzano l’azione di contrasto. 2° puntata D MANFRED elle 60.000 intercettazioni utilizzate dalla procura di Catanzaro per gli arresti e gli avvisi del novembre 2004, qualcuna è trapelata in questi giorni. Attilio Bolzoni, per esempio (Repubblica del 25 ottobre) ha estrapolato diversi passaggi interessanti, tutti concentrati tra il maggio e il settembre 2002. Quelle riguardanti Paolo Romeo (registrate nel suo studio-quartier generale) invocano la rimozione del prefetto Sottile e del suo vice, Rizzo, e manifestano l’avversione sia al questore Maddalena (allora in carica) sia a quello in arrivo; quelle riguardanti il sottosegretario della giustizia Giuseppe Valentino (pure provenienti dallo studio di Romeo) ribadiscono la pericolosità del questore entrante Tonino De Luca, identificato come un «altro uomo di De Gennaro»; e quelle riguardanti lo stesso viceprefetto Rizzo (in un dialogo con l’onnipresente Romeo) coprono di insulti Marco Minniti per aver mandato il maggiore De Donno (segretario particolare dell’attuale capo del Sisde Mario Mori) addirittura «in Cile» e il colonnello Fazio «a dirigere una scuola di pupazzi vestiti da carabinieri». Per la cronaca: il prefetto Sottile è stato successivamente trasferito da Reggio a Trieste; mentre De Luca (ex capo della Criminalpol di Palermo e dirigente della sezione omicidi negli anni di Boris Giuliano) non è mai stato designato a Reggio. Un colloquio esemplare Ma le intercettazioni decisive - tornando alla dorsale della nostra ricostruzione - sono altre, e cioè quelle riguardanti proprio le intenzioni aggressive nei confronti dei magistrati. Esemplare è un lungo colloquio tra il giornalista Gangemi e Romeo (siamo nel febbraio 2001), con le cimici piazzate stavolta nell’abitazione e nell’ufficio del direttore, controllato anche sul cellulare. Gangemi attacca infatti con perentorietà il pm Salvatore Boemi («Perché ora incomincio io con Boemi... lo ammazzo!») e poi, tra le risate di Romeo, estende il proposito a Vincenzo Macrì («tu parti con Macrì, e ne facciamo due assieme»). Qui si rende necessario un secondo flashback. Quello di Salvatore Boemi, infatti, è uno dei nomi che costantemente ritornano in tutti i tentativi più rigorosi di diradare gli addensamenti di nubi (leggi: le coperture) sulla costellazione della ‘ndrangheta. In un’intervista dell’aprile 2001 lo vediamo risalire, per esempio, alla vicenda dei cinque giovani «anarchici reggini» morti alle 23.25 del 26 settembre ‘70 in uno scontro con un autotreno sulla strada tra Ferentino e Frosinone. Dopo aver indagato per conto proprio sulla matrice terroristica nera del «deragliamento» del treno per Gioia Tauro (22 luglio ’70), i ragazzi erano entrati in possesso di documenti importanti, e li stavano portando a Roma. Solo più tardi si sarebbe scoperto che i due camionisti erano dipendenti della ditta di proprietà del golpista Junio Valerio Borghese, principale sospettato tra i possibili mandanti dell’attentato al treno (vedi «Poteri segreti e criminalità» di Mario Guarino, già citato nella prima puntata di quest’inchiesta). Connettendo i due fatti, Boemi parla di «strage organizzata per coprirne un’altra», e arriva a una conclusione amara e disillusa: «L’unica speranza è che, trent’anni dopo, chi sa decida di parlare. Ma, onestamente, non ci credo». Ed è un disincanto fondato, dal momento che Boemi (vedi i verbali del 23-24 febbraio e del 3 marzo ‘95) è tra gli estensori dell’elenco degli affiliati a «Cosa Nuova» - impressionante radiografia della rete di cosche vecchie ed emergenti - e alla massoneria calabrese, comprendente nomi di politici influenti di varia provenienza: i socialisti Gabriele Piermartini e Totò Torchia, l’ex comunista Ettore Loizzo, il segretario particolare dell’allora presidente del consiglio Forlani, Mario Semprini, e il notaio Pietro Marrapodi, ex Dc e Grande Oratore delle logge reggine. Proprio Marrapodi è il protagonista tragico di una delle indagini più perturbanti condotte da Boemi. PIANETA LAVORO Nuova ‘ndrangheta, orizzonti globali Tutte le tappe, gli omicidi, complicità e pressioni sulla magistratura che portano all’omicidio Fortugno. Partendo dai legami con la destra eversiva: ricordate l’attentato al treno per Giorgia Tauro nel ‘70, Junio Valerio Borghese, i cinque ragazzi anarchici morti non per caso in quello stesso anno? Dalla Calabria la ’ndrangheta si espande in tutto il mondo Scosso da una crisi di coscienza e uscito dalla Loggia Logoteta, Marrapodi comincia infatti a vuotare il sacco e a fare i nomi di quelli che «decidono segretamente i destini della gente», in Calabria e non solo. Boemi lo mette così a confronto con il pentito Giacomo Ubaldo Lauro e con il procacciatore d’armi D’Agostino, cavandone un quadro dettagliato dei rapporti tra’ndrangheta, P2, Sisde e istituzioni colluse. Preoccupato di aver detto troppo, Marrapodi si rivolge (vedi intercettazione telefonica del 15 febbraio ‘94) a Vincenzo Nardi, uno dei tre ispettori inviati dall’allora ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Biondi a verificare l’attività di Mani pulite. Due anni dopo, stremato e serrato in casa, decide di incontrare Mario Guarino per consegnarli copia dei documenti depositati a suo tempo a Nardi (è il giornalista stesso a raccontarlo nel suo libro sulla ‘ndrangheta); ma l’incontro non avverrà, perché Marrapodi verrà trovato morto nella sua abitazione il 28 maggio ‘96, con il caso archiviato come «suicidio per impiccagione» e i documenti e i floppy - probabilmente non tutti, come insinua opportunamente Guarino - sequestrati dalla procura reggina. Qui sopra, un posto di controllo dei carabinieri parà del Tuscania a Reggio Calabria. Foto Cristiano Laruffa. Nella foto grande in alto, uno degli innumerevoli omici firmati dalla ‘ndranghetaa Reggio Calabria.Foto Franco Origlia VITTORIO LONGHI Ancora sindacalisti e militanti di sinistra uccisi, ancora nelle Filippine. Solo questa settimana sono stati assassinati il segretario degli zuccherieri di Tarlac, Ricardo Ramos, il capo del partito Bayan muna della città di Angeles, Francisco Rivera, e l’attivista del gruppo politico Anakpawis, Jesus Lombo, nella città di Ragay. È difficile stabilire un collegamento diretto tra gli omicidi, ma si tratta sempre di militanti sindacali o di oppositori al governo di Gloria Macapagal Arroyo. Sono tutti attivisti in lotta contro gli abusi dell’esercito e lo sfruttamento di braccianti e contadini da parte dei latifondisti, protetti dagli stessi militari. Ramos, ad esempio, il giorno prima di essere freddato con due colpi di pistola alla testa, era riuscito a fare imporre dalle autorità di Tarlac alla Central azucarera il pagamento degli arretrati del 2004 per 370 operai e aveva fatto reintegrare 33 licenziati perché iscritti al sindacato. Questa settimana avrebbe cominciato a discutere con la direzione del rinnovo del contratto per Non è sorprendente, allora, che Boemi sia l’oggetto dei propositi liquidatori di Gangemi e Romeo; in fondo, gli stessi propositi erano stati accarezzati con maggiore concretezza da altri prima (da un boss del calibro di Pasquale Condello, come rivelato dal pentito Lombardo) e lo sarebbero stati dopo, con un attentato a Boemi programmato per l’ottobre 2001 sull’autostrada A3 tra Palmi e Gioia Tauro, il commando configurato in otto killer armati di kalashnikov. Non a caso, Boemi aveva da tempo trasferito la famiglia in una località «segreta» ubicata lungo quel tratto. Per fortuna, il problema trova una soluzione velata di softness grazie all’intervento dello Stato: da una parte il ministero degli Interni decide la riduzione delle scorte al gruppo della Dda (provvedimento simile a quello adottato, e poi ritratto, per la Boccassini, Colombo e il pool di Milano); dall’altro il ministero di Grazia e Giustizia (nella figura di Roberto Castelli) respinge la richiesta di proroga dell’incarico da parte di Boemi dopo gli otto anni canonici (in una prospettiva, ovvia, di completamento del lavoro) e anzi lo rimuove per «incompatibilità ambientale» con il procuratore distrettuale Antonio Catanese. La giustificazione - per nulla convincente - si appoggia sul fatto che l’inchiesta ministeriale volta a cogliere tali incompatibilità è stata avviata in precedenza dall’allora ministro di Grazia e Giustizia Piero Fassino. Resta comunque che una Dda dal bilancio estremamente concreto fino al 2001 (1000 procedimenti penali per reati contro la pubblica amministrazione; 25 rinvii a giudizio per malasanità; 57 indagati nell’ambito dell’assegnazione degli appalti; 30 ergastoli e 500 anni complessivi di reclusione inflitti nella fase 3 dell’«Operazione Olimpia») viene sottoposta a un inspiegabile break. E’ qualcosa più di un’impressione che sia in atto uno scontro decisivo tra politica e magistratura per molti aspetti simile a quello in atto da Tangentopoli in poi a Milano, dal quale dipenderanno le sorti non solo delle indagini sull’omicidio Fortugno, ma della possibilità di continuare a colpire efficacemente la ‘ndrangheta a livello locale e (trans)nazionale. Lo si evince tornando ancora alle intercettazioni precedenti il provvedimento del novembre 2004, in particolare a quelle che coinvolgono il vicepresidente della Commissione antimafia Angela Napoli An), soggetta - come il suo compagno di partito Valentino - alle sollecitazioni di Gangemi riguardo a ispezioni e provvedimenti da prendere sulle procure calabresi, Reggio in testa. Ora: come mai l’esito dell’ispezione ordinata dal ministro Castelli alla procura di Catanzaro si è tradotto in un’esortazione al Csm di trasferimento dei procuratori Lombardi e Spagnuolo - che abbiamo visto attivi nel provvedimento del 9 novembre - con motivazione (di nuovo) di «incompatibilità ambientale» e di intromissione «in procedimenti antimafia che non avrebbero dovuto o potuto trattare»? C’è qualche allusione all’interessamento indebito verso i rapporti tra Gangemi e Romeo da una parte e Valentino e la Napoli all’altra? E come mai nell’agosto scorso un altro senatore di An, Giuseppe Bucciero, ha chiesto a Castelli la testa dell’altro procuratore di Catanzaro già citato, Luigi De Magistris? Questo solo per il «regolamento di conti» da parte di An. Ma il campo di tensione è più vasto. Perché - riprendiamo di nuovo Bolzoni da Repubblica nella procura di Reggio sono saltati undici pm in sette anni (tra i quali uomini decisivi come Giuseppe Verzera, Roberto Pennisi, Alberto Cisterna) e il procuratore Giovanni Antonino Marletta denuncia un turnover incessante dei magistrati più giovani, smaniosi di andarsene dalla Calabria? E soprattutto, perché il procuratore capo Antonio Catanese continua a negare l’evidenza di contrasti e disagi interni alla procura e a trincerarsi in un marmoreo isolamento? Con buona pace di Pisanu Se questa tensione non verrà risolta, il futuro della ‘ndrangheta - con buona pace dell’intraprendenza del ministro Pisanu e del nuovo capo dell’antimafia Pietro Grasso - rischia di non venire contrastato con la necessaria durezza. E questo proprio in un momento - come accennato in apertura - di crescente espansione trans-nazionale degli affari e dei relativi introiti. La nuova ‘ndrangheta, infatti - è bene ribadirlo - non si limita a riciclare il denaro sporco in centri commerciali come i «Due mari» nell’area di Lamezia Terme («espropriato» con l’assassinio del primo proprietario), o in villaggi turistici come quelli del litorale ionico, monitorati da «guardiani» organici alle cosche, responsabili di assegnare i lavori a ditte amiche e di riscuotere il «pizzo» sugli affitti delle case. La nuova ‘ndrangheta - passata dalla dimensione «pastorale» a quella «imprenditoriale» anche mandando i figli dei boss nelle migliori università italiane ed estere - ha rinsaldato legami con Cosa nostra e la Camorra (in molti casi ribaltando il rapporto da gregario a dominante) e si è ramificata in tutti i continenti, colonizzando aree del Canada, dell’Australia e dell’Africa. Per contrastarla, si dovranno effettuare molte operazioni come la «Igres», in pieno corso proprio nel momento della rimozione di Boemi. Prendendo il nome da quello di uno dei boss implicati nell’indagine, ma letto a rovescio (Sergi), tale operazione ha impiegato per tre anni, a partire dal 2000, forze massicce: 24 agenti della polizia giudiziaria solo per le intercettazioni telefoniche (con 500 utenze controllate) e molti altri sparpagliati in sette paesi, tra cui Colombia e Namibia. Alla fine, ha portato all’identificazione di un traffico di 4000 chili di droga colombiana destinata ai mercati italiano, europei e americani, e all’arresto di 50 persone solo sul territorio italiano. Al contrario, se operazioni come questa dovessero diradarsi o infiacchirsi, si può dire con fondatezza che, in tempi di tentazioni neoprotezionistiche, il solo settore davvero globalizzato della nostra economia possa rischiare di diventare quello della varie criminalità organizzate, ‘ndrangheta in testa. (2/ fine. La prima puntata è stata pubblicata il 28 ottobre). ERRATA CORRIGE Nella prima puntata di questo articolo i nomi dei pubblici ministeri Giuseppe Verzera e Roberto Pennisi apparivano alterati. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori. Filippine, la strage dei sindacalisti i prossimi due anni. L’anno scorso Ramos aveva anche organizzato i ripetuti e prolungati scioperi dei braccianti all’Hacienda Luisita, sempre nella regione di Luzon, dove da tempo tentava di ottenere condizioni migliori e salari dignitosi. A novembre 14 lavoratori sono stati uccisi e 200 feriti durante la manifestazione contro la decisione dell’Hacienda, in mano alle famiglie dei proprietari terrieri Cojuangco e dell’ex presidente filippina Corazon Aquino, di licenziare centinaia di persone senza preavviso né liquidazione. I reparti antisommossa della polizia hanno chiamato l’esercito per disperdere il corteo, visto che l’azione era stata dichiarata illegale dalla ministra del lavoro Patricia Tomas. «Anche oggi, torniamo ad accusare i Cojuangco e gli Aquino per questo ennesimo atto criminale, sono loro sono quelli che guadagneranno di più dalla morte di Ramos», hanno dichiarato i rappresentanti degli alimentaristi e dei braccianti insieme ai dirigenti della sinistra. Secondo Satur Ocampo, presidente nazionale del Bayan muna, «c’è un’ovvia relazione tra questi omicidi e gli altri 18 avvenuti dall’inizio di settembre a Luzon». Inoltre, «l’esercito continua a usare il pretesto della repressione sui ribelli comunisti del Nuovo fronte popolare, per giustificare ogni genere di violenza contro la sinistra democratica», aggiunge. Non è un caso, infatti, che nella regione tutte le operazioni in cui è intervenuto l’esercito, negli ultimi mesi, siano state guidate dal generale Jovito Palparan, noto in tutto il paese come il «macellaio dei comunisti». Da più parti se ne chiede l’allontanamento ora e si chiede al governo di investigare seriamente su questa vera e propria strage (compreso l’omicidio del sindacalista della Nestlé, Diosdado Fortuna, un mese fa), in cui la responsabilità del generale è palese. La presidente Arroyo, tra scandali finanziari e accuse di brogli elettorali e di repressione, ha sempre più bisogno di riacquistare credibilità, perciò in questi giorni si è affrettata a promettere «indagini rapide, imparziali e approfondite». I corpi speciali dell’esercito che presidiavano l’Hacienda Luisita venerdì sono stati richiamati e la polizia avrebbe già individuato, rapidissima, due soldati visti intorno alla casa di Ramos poco prima dell’omicidio. Intanto, davanti alle caserme non si fermano i picchetti delle associazioni in difesa dei diritti umani che esigono la corte marziale per il generale e le dimissioni immediate della presidente: «Dobbiamo fermare la macchina assassina ArroyoPalparan», dicono. Dietro il governo e l’esercito, però, continuano a esserci i grandi proprietari terrieri. Sono loro a gestire davvero il potere nella regione di Luzon e a ricorrere ai gruppi militari e paramilitari per contenere le proteste, soprattutto ora che si sta ridiscutendo di riforma agraria. Avviata dalla ex presidente Aquino, nel 1987, la riforma prometteva una ridistribuzione equa delle terre, ma finora ha portato solo a una migliore spartizione tra le vecchie famiglie.