La vittima
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La vittima
Cepic - Centro Europeo di Psicologia Investigazione Criminologia Corso di criminologia anno 2006/07 Tesina: La vittimologia. Vittima e Carnefice: Natascha Kampusch e Wolfgang Priklopil di Gaia Gambardella Premessa Vittimologia: Studio delle dinamiche psicosociali predispositive delle vittime e dei danni da queste subite. Vittima: Individuo o gruppo che, senza aver violato regole convenute, viene sottoposto ad angherie, maltrattamenti e sofferenze di ogni genere, spesso per effetto di quel meccanismo proiettivo che istituisce un capro espiatorio. La condizione di vittima può essere anche un vissuto ingiustificato sul piano di realtà, o una forma di simulazione per ottenere affetto o vantaggi di qualche genere. In questi casi si parla di “condotte vittimistiche”. ( U.Galimberti, Dizionario di psicologia, Utet). 2 Cos’è la vittimologia La vittimologia è una disciplina complessa, multifattoriale, che non si limita a studiare la vittima e il suo rapporto con il reo, nella dinamica del reato, ma fa luce su quelli che sono i fattori predisponenti del divenire vittima di un reato. Cerca di capire quali possano essere le misure idonee ad arginare il crimine, affrontando il problema da una prospettiva che pone al centro la vittima. Si assume inoltre il compito di suggerire i possibili percorsi psicologici e sociologici che possano portare quest’ultima a ritrovare un equilibrio inevitabilmente spezzato dal fatto criminoso subito. La sua attuale definizione nell’ambito del diritto penale Il nostro codice penale non offre una definizione compiuta della vittima del reato, ma dedica il quarto capo alla persona offesa dal reato, limitandosi però a disciplinare l’istituto della querela (art.120 del codice penale), atto con cui la vittima manifesta la volontà che si proceda penalmente contro l’autore del reato (quando non debba procedersi d’ufficio o su richiesta o istanza). 3 Per alcuni reati, infatti, la legge prevede che solo la volontà del cittadino possa far iniziare l’azione penale (si tratta in genere di reati meno gravi). Dunque, per vittima s’intende il soggetto passivo del reato, ossia colui che sopporta le conseguenze immediate dell’attività criminosa1. Una più recente dottrina penalistica ha elaborato una differente definizione, ponendo alla base l’interesse o bene giuridico protetto dall’ordinamento, la vittima viene identificata con il titolare dell’interesse leso o messo in pericolo dalla condotta criminosa2 . La vittima nel processo penale Vediamo ora in che modo il sistema penale regola la partecipazione della vittima al processo. Il nuovo codice di procedura penale distingue tra persona offesa dal reato (art.90 c.p.p.) e parte civile (art.74 c.p.p.). La prima è il soggetto titolare dell’interesse penalmente protetto che viene leso dalla commissione del fatto criminoso; è la c.d. vittima del processo. Non è parte del procedimento. Il suo ruolo è quello di accusa privata, sussidiaria e accessoria rispetto a quella pubblica del pubblico ministero. L’interesse punitivo che fa capo alla vittima si sostanzia, sul piano processuale, in un’ampia serie di diritti e facoltà, distinti e indipendenti da quelli che le spetterebbero nella sua eventuale e ulteriore qualità di danneggiato dal reato. 1 V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, Torino 1961-64 2 G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale – parte generale, Bologna, Zanichelli editore,2001. 4 Quest’ultimo, infatti, è il soggetto che ha subito un danno, patrimoniale o morale, a causa della condotta criminosa (attiva od omissiva), dell’autore del reato. Può quindi esercitare la pretesa al risarcimento del danno o alla restituzione delle cose dovute costituendosi parte civile nel processo penale. Normalmente le due figure coincidono nella stessa persona, ma possono anche essere persone diverse. Così nel reato di omicidio, ad esempio, persona offesa è il deceduto, danneggiati sono i congiunti ( i quali, pertanto, potranno costituirsi parte civile per le pretese risarcitorie). Occorre precisare che la vittima, in qualità di persona offesa dal reato, è portatrice di limitati poteri di impulso e controllo sulla vicenda processuale ( art.90 c.p.p.). Mentre se, ricorrendone i presupposti, si costituisce parte civile, acquista poteri analoghi a quelli attribuiti all’imputato e al pubblico ministero, in quanto titolare di una istanza risarcitoria. Percorso storico e analitico I primi studi sulla vittimologia si hanno a partire dalla seconda guerra mondiale. In particolare, nel 1948 Von Hentig, criminologo di estrazione giuridica, nella sua opera “The criminal and his victim”, elabora tre concetti chiave per questa disciplina: • Il concetto di criminale-vittima, in base al quale sono gli eventi a determinare il ruolo di vittima o carnefice, non si nasce tali; 5 • Il concetto di vittima potenziale, per cui alcune categorie di persone, per diversi fattori sociali, psicopatologici, sono più predisposti di altri a ricoprire il ruolo di vittima; • Il concetto di rapporto tra criminale e vittima, in cui Von Hentig seleziona quattro possibili atteggiamenti della vittima nei confronti del suo aggressore: apatico, letargico; sottomesso, connivente; cooperante, contribuente; istigante, provocante, sollecitante. Quest’ultima categoria è connotata da una maggiore partecipazione della vittima. Per Henry Ellenberger, psichiatra, le posizioni di criminale e vittima non sono sempre antitetiche, al contrario, a volte possono addirittura coesistere nella medesima persona (es:omicidio-suicidio). Nel suo studio approfondisce il concetto di vittima latente e introduce quello dei fattori predisponenti ( età, professione, status sociale, caratteristiche della personalità), che possono portare a configurare le c.d. vittime predestinate. Altro contributo importante viene da Fattah, per il quale lo studio sulla vittima deve rivolgersi a quella del singolo caso concreto, per poterne comprendere ogni specifico carattere che l’ha portata a divenire tale. Egli fu il primo a prendere in considerazione il rischio di vittimizzazione e come questo potesse variare in relazione alla popolazione, evidenziando zone con fattore di rischio più elevato rispetto ad altre. Fattah, inoltre, analizza in modo dettagliato i fattori predisponenti vittimogeni, dividendoli in due categorie principali: innati (sesso, razza, deficit mentali), e acquisiti (stato sociale, economico..). In base alla natura del soggetto li distingue poi in tre categorie: 6 1. Fattori bio-fisiologici: età, sesso, salute, stato fisico (consumo di alcool); 2. Fattori sociali: status sociale, situazione economica, professione, condizioni di vita (emarginazione, condotta antisociale); 3. Fattori psicologici: tratti del carattere, deviazioni sessuali, psicopatologie. Approfondì lo studio dei caratteri che potevano rendere il soggetto più vulnerabile e provocatore, identificando cioè le possibili condizioni precipitanti. Evidenziò, nell’ambito della relazione tra criminale e vittima, il grado di coinvolgimento affettivo ed emotivo, considerando la natura, la durata, la frequenza e l’intensità come elementi importanti per valutare la dinamica del fatto criminoso, analizzarne la nascita, lo sviluppo e verificare l’esistenza o meno di una sua pianificazione. Successivamente, sarà Marvin Wolfgang a dimostrare (in base ad un suo studio condotto su alcuni casi di omicidio), che la vittima contribuisce in vari modi alla realizzazione dell’evento criminoso. A tal proposito egli parla di omicidio precipitato dalla vittima, in cui quest’ultima per prima assume comportamenti provocatori, suscettibili di essere considerati dalla norma penale condotte dolose o colpose rilevanti ai fini della commisurazione della pena per il reo. Si arriverà con Schafer a parlare di responsabilità della vittima e alla definizione di vittima colpevole . Gli studi condotti sulla vittima hanno portato a diverse classificazioni di questa. 7 La più diffusa è quella tra vittime fungibili e infungibili 3. Alla base c’è il rapporto tra reo e vittima, quindi, le prime sono quelle che non hanno alcun legame con il loro carnefice. Le seconde hanno un rapporto o comunque un nesso con quest’ultimo. Nell’ambito della prima categoria rientrano le vittime accidentali (es: di un incidente o di una rapina), del tutto casuali quindi; le vittime indifferenziate, la cui identità non ha alcun rilievo per il reo (es: le vittime di attentati terroristici). Fra quelle infungibili possiamo distinguere le vittime selezionate dal reo, quelle partecipanti, che interagiscono con questo e dunque hanno un ruolo attivo nell’azione criminosa. Questa tipologia è suscettibile di un’ulteriore classificazione in: vittime per imprudenza; vittime alternative (quando assumono spontaneamente il ruolo di vittima o aggressore in un dato contesto, es: rissa); vittime provocatrici, le quali, aggredite, aggrediscono a loro volta (es: legittima difesa); vittime volontarie (es: omicidio del consenziente). Un'altra classificazione distingue le vittime in attive e passive 4. Le passive sono quelle che non assumono alcun atteggiamento o comportamento che possa contribuire al verificarsi dell’azione criminosa. Vi rientrano quindi, le vittime accidentali, quelle preferenziali, per il ruolo svolto o la posizione economica (sequestro a scopo di estorsione), le vittime simboliche, scelte per colpire un’ ideologia o un determinato gruppo; le vittime trasversali, legate in vario modo al vero bersaglio. Le vittime attive contribuiscono a causare il delitto, tra queste la vittima per la particolare professione svolta (agente di polizia), la vittima che 3 4 G. Gulotta, La vittima, Milano, Giuffrè, 1976 G. Ponti, Compendio di criminologia, Milano, Cortina, 1999 8 aggredisce (legittima difesa), la vittima consenziente, quella provocatrice. In conclusione, la vittima non è più vista soltanto come il soggetto che passivamente subisce l’azione criminosa, ma le si riconosce un ruolo attivo, in certi casi più in altri meno. Analizzare il rapporto che esiste tra vittima e carnefice, ricercare i motivi che hanno spinto questo a scegliere quel dato soggetto piuttosto che un altro, sapere se sia stato sollecitato, provocato o meno dalla sua vittima, magari senza che questa potesse rendersene conto, può dare un forte contributo non solo per comprendere l’autore del reato e il fatto che ha commesso, ma anche per aiutare nel modo migliore chi lo ha subito (direttamente o indirettamente), a capire il perché e a superare i traumi che ne derivano. La vittima: Natascha Kampusch Periferia di Vienna, 2 marzo 1998. Natascha Kampusch, dieci anni, viene rapita mentre sta andando a scuola. Le ricerche della polizia in tutta l’Austria, ed anche in Ungheria, non porteranno a nulla. Natascha scompare senza lasciare alcuna traccia. Per otto anni di lei non si saprà più niente. Fino al 23 agosto 2006, quando una ragazza bussa contro i vetri di una villetta nella periferia nord-est di Vienna (non molto lontano dal luogo del rapimento), chiedendo aiuto e dicendo di chiamarsi Natascha Kampusch. Pesa solo 42 chili (meno di quando fu rapita), ha macchie bianche su tutto il corpo e qualche livido. ”E’ pallida, sembra essere stata per molto 9 tempo lontana dalla luce del sole, ma ha un buon eloquio e sa leggere e scrivere. E’stata identificata dalla sua famiglia”, ha riferito in una conferenza stampa, il capo della polizia criminale austriaca, Herwig Haidinger. La sua identità è confermata poi da due particolari: una cicatrice, la stessa della bambina rapita nel ’98, e il ritrovamento del passaporto nella cartella che aveva al momento del sequestro. Haidinger annuncia che è in corso la caccia all’uomo, il presunto sequestratore è Wolfgang Priklopil, tecnico elettronico di 44 anni, conoscente (si dirà poi), della famiglia Kampusch. L’uomo sarebbe stato tra le numerose persone interrogate all’inizio dell’inchiesta. La caccia però finisce poco dopo, Priklopil, nascosto nei pressi di un centro commerciale, nel cui parcheggio viene ritrovata la sua auto, sarebbe stato visto allontanarsi dal luogo in cui Natascha è ricomparsa. Verso le 21 della stessa sera del 23 agosto si toglie la vita gettandosi sotto un treno alla stazione di Vienna. Nelle sue tasche vengono ritrovate le chiavi dell’auto. Natascha ha spiegato alla polizia di essere riuscita a fuggire sfruttando un momento di distrazione del suo aguzzino: l’aveva incaricata di passare l’aspirapolvere dentro la sua auto, parcheggiata in giardino, ha ricevuto una telefonata ed il troppo rumore lo ha spinto ad allontanarsi per un momento, Natascha ne ha approfittato per scappare correndo verso il giardino di una casa vicina a chiedere aiuto. Ci si è chiesti se Priklopil non abbia volutamente lasciato andare la ragazza. Questo punto resta controverso: alla polizia, ai giornali e in tv la fuga va per racconti differenti, la confusione è comprensibile. Da una parte Natascha dice di non aver mai tentato di scappare, dall’altra racconta che un giorno, al Gunter, un grande viale di Vienna, 10 provò a gettarsi dall’auto in corsa. Ha ammesso, inoltre, di essere stata in gita con Priklopil, a 300 chilometri da Vienna, ma solo perché l’ha scoperto la polizia mettendola a confronto con un testimone che aveva riconosciuto l’uomo sui giornali. Natascha è stata tenuta in un garage di un’abitazione a Stasshof, sobborgo situato a 25 chilometri a nord-est di Vienna. Il suo carceriere le avrebbe permesso di ascoltare la radio e leggere i giornali. Di tanto in tanto avrebbero anche fatto insieme delle passeggiate nei dintorni. I primi sei mesi di prigionia, però, li ha trascorsi nel buio di un bunker di cinque metri quadrati, dove l’aria arrivava attraverso un filtro. “Ho sofferto di claustrofobia, battevo contro le mura della cella con i pugni e con le bottiglie d’acqua minerale. Avevo paura di impazzire. E’ stato terribile. Mi sentivo come un pollo in una batteria di allevamento”. Ho sempre pensato di fuggire. Avevo giurato a me stessa che un giorno sarei diventata più grande, più forte e sarei riuscita a liberarmi”. Così Natascha descrive i primi giorni dopo il rapimento. “Priklopil mi diceva che i miei genitori non volevano pagare il riscatto, non erano più interessati a me”. Da queste dichiarazioni emerge chiaramente come quest’ultimo abbia messo in atto tutta una serie di strategie tipiche del sequestratore nei confronti della sua vittima. Dapprima la c.d. deprivazione sensoriale, che consiste nel privare una persona della possibilità di percepire alcun tipo di stimolo sensoriale, appunto (vista, udito, tatto..). Gli effetti, tanto più gravi quanto più si protrae nel tempo, possono portare a fenomeni psicosensoriali abnormi: 11 da immagini elementari, come lampi di luce, macchie, ronzii, a visioni più complete di figure, volti, scene simili a quelle che possono insorgere durante il sonno, o nella fase del risveglio. Tenere il soggetto completamente al buio, facendogli perdere così anche la cognizione del tempo, dello spazio, fa sì che si sviluppi un rapporto di completa dipendenza. Il sequestratore diventa, inevitabilmente l’unico contatto che il soggetto ha con il mondo esterno, l’unica fonte di sostentamento, il solo punto di riferimento a cui appoggiarsi per non impazzire, per sopravvivere. Da qui a sviluppare quella che viene comunemente chiamata sindrome di Stoccolma il passo è breve. Questo termine viene usato per la prima volta da Conrad Hassel, agente dell’FBI, in seguito ad un famoso episodio accaduto in Svezia. Nell’agosto del 1973, quattro impiegati (tre donne ed un uomo), della Sveriges Kreditbank di Stoccolma furono tenuti in ostaggio, nella camera di sicurezza sotterranea della banca, da due banditi per circa sei giorni. Al contrario di quanto era legittimo aspettarsi, risultò che le vittime, non solo dichiararono di aver temuto più la polizia dei rapitori, ma verso questi, esternarono sentimenti positivi. Una di loro, Kristin Ehnmark, sviluppò un forte legame sentimentale con uno dei rapitori (che proseguì anche dopo la fine del sequestro). Dopo il rilascio venne chiesta dai sequestrati clemenza per i loro sequestratori e, durante il processo, alcuni degli ostaggi testimoniarono in loro favore. Questa sindrome, in sostanza, promuove l’instaurarsi di rapporti affettivi tra le vittime di sequestro e i loro rapitori. Sembra essere una risposta 12 emotiva automatica, spesso inconscia, al trauma del divenire ostaggio, e coinvolge sia i sequestrati che i sequestratori. Generalmente si articola in tre fasi: • Sentimenti positivi degli ostaggi nei confronti dei loro sequestratori; • Sentimenti negativi degli ostaggi verso la polizia o altre autorità governative; • Reciprocità dei sentimenti positivi da parte dei sequestratori5. Questa sindrome può interessare ostaggi e rapitori di ogni età, di ambo i sessi, di ogni nazionalità e senza distinzioni socio-culturali. Alcuni fattori ne faciliterebbero l’insorgere: la durata e l’intensità dell’esperienza, la dipendenza dell’ostaggio dal rapitore per la sua sopravvivenza e la distanza psicologica dell’ostaggio dalle autorità e dal mondo esterno. Sembra che sentimenti positivi tra rapito e rapitore non si formino subito ma si rivelino già entro il terzo giorno di prigionia. Questo può essere spiegato con il fatto che nei primi momenti dopo il sequestro il soggetto rapito si trovi in uno stato confusionale per essere stato catapultato in una situazione così estrema così improvvisamente. Una volta superato il trauma iniziale, la vittima torna consapevole della situazione che sta vivendo e deve trovare un modo per sopportarla; tutto ciò, unitamente all’aumentare del tempo trascorso insieme al rapitore e all’isolamento dal resto del mondo, agevola l’instaurarsi di un’intesa con quest’ultimo. La mancanza di forti esperienze negative, quali percosse, violenze o abusi fisici, facilita l’insorgere della sindrome. Abusi meno intensi, deprivazioni ed umiliazioni tendono invece ad essere razionalizzati e T. Strenz e F. Ochberg, da Ferracuti F. (a cura di), Trattato di Criminologia, Medicina Criminologia e Psichiatria Forense, vol. IX, Giuffrè, Milano, 1987 5 13 giustificati. Le vittime si convincono che l’uso della forza da parte del loro sequestratore sia necessario per mantenere il controllo della situazione, o sia giustificato da un loro comportamento scorretto. Spesso il legame tra sequestratore e rapito inizia sulla base di un comune risentimento nei confronti della polizia, che il più delle volte è percepita dall’ostaggio come una minaccia e un pericolo: l’insistenza per la resa del criminale e l’eventualità di un’incursione mettono la vittima in un continuo stato d’ansia e paura per la propria incolumità. Inoltre, le forze dell’ordine vengono considerate meno potenti del rapitore perché non sono stati in grado di impedire il sequestro. Una volta generatasi, tale sindrome può sussistere nel tempo, anche per diversi anni. In chi l’ha sviluppata si sono riscontrati, a distanza di tempo: disturbi del sonno, incubi, fobie, improvvisi trasalimenti, flashback e depressione. Le spiegazioni date alla sindrome di Stoccolma sono varie. Alcuni autori ritengono che questo legame derivi dallo stato di totale, concreta dipendenza che si sviluppa tra rapito e rapitore; quest’ultimo controlla cibo, acqua, aria e sopravvivenza, elementi vitali, che , quando vengono concessi, giustificano la gratitudine e la riconoscenza che l’ostaggio manifesta nei confronti del suo carceriere. Altri, invece, la maggioranza, affrontano il problema da un punto di vista psicoanalitico: l’Io, nel tentativo di trovare un equilibrio tra le richieste dell’Es ed una realtà angosciosa, non può fare altro che mettere in atto dei meccanismi di difesa. I due meccanismi a cui si fa riferimento sono la regressione e l’identificazione con il proprio carceriere. 14 Riguardo al primo, l’istinto di conservazione mette in atto funzioni istintive, appunto, di carattere infantile, così il sentimento negativo della vittima si concretizza in un atteggiamento teso a provocare protezione e cura. L’ostaggio è simile al neonato: deve piangere per avere da mangiare, non può parlare, è costretto all’immobilità, è in uno stato di totale dipendenza da un adulto onnipotente che ha il pieno controllo su di lui, e il mondo esterno è di nuovo vissuto come minaccioso. L’identificazione con l’aggressore, invece, fa sì che il dato di realtà relativo alla natura ostile del persecutore venga distorto; la paradossale condivisione del punto di vista del rapitore permette al rapito di superare il conflitto psichico dato, da un lato, dalla dipendenza da un aggressore minaccioso, dall’altro, dall’impossibilità di liberarsene, di sfuggirgli, con il vantaggio secondario del ritenere giustificate, quindi più tollerabili, le sofferenze e le angherie da questo provocate. L’autore del sequestro, a sua volta, subisce una identificazione inversa. Quanto più un ostaggio riesce a farsi riconoscere nella sua identità, tanto più diventa difficile per il rapitore fargli del male. E’ infatti provato che la maggior parte delle persone non riesce a fare del male ad altri individui, a meno che la vittima non resti anonima. Inoltre, pare che i rapitori provino un certo affetto nei confronti delle loro vittime, anche come segno di gratitudine per la collaborazione ricevuta, forse mossi da un desiderio inconscio di essere amati e rispettati. Tuttavia, la sindrome di Stoccolma non si sviluppa necessariamente sempre ed in ogni soggetto, non è una conseguenza inevitabile della situazione di prigionia. 15 Vi sono casi di ostaggi che hanno evitato ogni tipo di subordinazione ai loro carcerieri e, addirittura, con il proprio atteggiamento, ne hanno minato l’intransigenza. Di certo si tratta di casi meno frequenti e vedono protagonisti soggetti dalla forte personalità, che sono stati in grado di mantenere la propria identità e un rapporto di fiducia, e non di distacco, con il mondo esterno, riuscendo ad accettare la situazione senza però subirla totalmente. Natascha e il suo rapporto con Priklopil Chiarito cosa s’intende per sindrome di Stoccolma, possiamo affermare senza dubbio, come d’altra parte hanno fatto i medici che se ne sono occupati, che Natascha abbia sviluppato tale sindrome durante la sua prigionia. D’altra parte, la durata del sequestro e la sua giovanissima età hanno reso inevitabile l’insorgere di tale fenomeno. Dalle dichiarazioni fatte ai media, contenute in una lettera che Natascha ha preferito leggesse il suo psichiatra, Max Friedrich, emerge chiaramente quanto detto: “E’ stato parte della mia vita, per questo sono in qualche modo triste per la sua morte”. La ragazza descrive così ai giornali il rapporto con il suo aguzzino: “Mi chiedeva di chiamarlo padrone (Gebieter), ma io non l’ho mai fatto. Ero forte tanto quanto lui. Eravamo in una situazione paritaria; lui certe volte mi coccolava, altre mi maltrattava, ma in quella casa sono cresciuta al riparo da molte cose, come dal fumare, dal bere, da amicizie sbagliate. Sono diventata una giovane donna con un interesse per la 16 cultura, anche se la mia vita quotidiana è stata caratterizzata dall’angoscia legata alla solitudine”. E prosegue il suo racconto: “Ogni giorno andavo di sopra e facevo con lui delle cose ordinarie. La mattina facevamo colazione assieme, mi occupavo dei lavori di casa. Ma poi venivo rispedita di sotto, a dormire, quando lui doveva assentarsi di giorno, oppure quando venivano persone in visita o sua madre per il fine settimana”. Hanno vissuto per anni una sorta di “familiarità”, lei lo aiutava nelle faccende di casa, lui si occupava della sua istruzione. Secondo Friedrich “era chiaramente una relazione simbiotica. Lui deve aver fatto di tutto per tenerla bambina, per impedirle di crescere. Solo così poteva avere il controllo assoluto”. Le cose cambiarono a febbraio, quando lei compì 18 anni e lui, ha raccontato Natascha, divenne meno attento. La mandava in giardino a tagliare l’erba, a volte la portava con sé a fare compere. Friedrich ipotizza che Priklopil non fosse più interessato a lei, che ormai era cresciuta, era una donna. Forse Natascha lo ha capito, deve aver cominciato ad avere paura e a pensare seriamente alla fuga. In effetti, la ragazza, nell’intervista andata in onda sul canale austriaco Orf, ha dichiarato: “A volte mi ha suggerito come potevo ingannarlo, è come se nella sua paranoia, volesse che io, una volta o l’altra, riuscissi a liberarmi, che qualcosa andasse storto in qualche modo, che la giustizia alla fine trionfasse.” Il portavoce della polizia austriaca, Eric Zwettler, ha confermato che la giovane aveva “contatti sessuali” con il suo rapitore, ma nessuno sembra 17 intenzionato a toccare l’argomento, in primis la stessa Natascha, che, inizialmente ha ammesso di aver avuto rapporti con Priklopil, ma poi ha dichiarato: “L’intimità non appartiene che a me, e può darsi che ne parli con una terapeuta, se ne sento il bisogno, o che non ne parli mai”. Natascha ha deciso di confidarsi con Sabine Freudenberger, la poliziotta che è andata a penderla dove si era rifugiata e che ha avuto cura di avvolgerla in una coperta per proteggerla dai fotografi. Questa, intervistata, ha detto: “Mi ha raccontato tutto, dall’inizio alla fine, senza vergogna. Credo che non abbia ben chiaro quello che le è stato fatto, dice di aver sempre agito di sua spontanea volontà. Mi ha detto di aver avuto rapporti sessuali con Priklopil, ma volontariamente”. Natascha ha raccontato di non aver pianto quando fu rapita: “Non avevo la sensazione di aver perduto qualcosa”. E di aver accettato presto il suo sequestratore come parte della sua vita. Di lui racconta: “Mancava della sicurezza di sé”, lo descrive come “una personalità labile”. Già poche ore dopo il sequestro, dice, capì che “aveva un deficit”. Parla del suo aguzzino animata da comprensione e da pietà; si dispiace perché con la sua fuga, ha rivelato alla madre di Priklopil e a chi lo conosceva, questo suo terribile segreto che nessuno avrebbe mai immaginato. Dichiara di sentirsi vicino alla madre. Non solo, ha voluto assistere al funerale del suo rapitore, ed accendere una candela per lui. Allo stesso tempo, ha ripetuto in più occasioni che ha sempre pensato di fuggire, e che, mesi prima della liberazione, aveva anche detto al suo aguzzino che prima o poi sarebbe scappata, perché “non poteva più vivere così”. 18 Natascha riusciva anche a scherzare con il suo carceriere; aveva pronosticato per lui venti anni di prigione e, per consolarlo, gli diceva: “Al giorno d’oggi anche i sessantenni si mantengono bene!”. Alla notizia del suicidio del suo rapitore, pare sia scoppiata in lacrime. Durante i 3079 giorni di prigionia ha potuto tenere un diario, gelosamente custodito, al quale affidare la testimonianza di tutto ciò che ha vissuto. Il Carnefice: Wolfgang Priklopil Per quel che riguarda Wolfgang Priklopil, si può dire che sia diventato vittima di se stesso. Era un uomo molto isolato, aveva lasciato il suo impiego di tecnico elettronico presso la Siemens - dove lo ricordano “un tipo solitario”per mettersi in società con un amico in un’attività di ristrutturazione e vendita di appartamenti, che lo aveva portato ad isolarsi ancora di più di quanto già non lo fosse. Aveva lasciato il suo appartamento (non lontano da dove abitava Natascha), per trasferirsi nella villetta che la madre gli aveva ceduto dopo la morte del padre. Villetta destinata in seguito ad “accogliere” Natascha. Non ha mai avuto fidanzate o relazioni di alcun genere con altre donne. I vicini di casa lo vedevano come una persona “piuttosto strana”. Aveva fantasie malate, realizzabili una volta fatta sua la piccola Natascha. Perduto il padre, Wolfgang intensificò il rapporto con la madre, che andava a trovarlo ogni fine settimana (c’è chi pensa fosse a conoscenza del segreto del figlio e lo coprisse). 19 Probabilmente decise di rapire Natascha per il bisogno di avere qualcuno vicino. La scelta è caduta su una bambina di soli dieci anni, forse per l’incapacità di sostenere un confronto con un adulto, suo pari. Forse anche per soddisfare il bisogno di dominio e controllo su di un altro individuo, da poter plasmare a suo piacimento (ha pensato lui all’istruzione di Natascha, decideva quali riviste potesse leggere e quali programmi radiofonici ascoltare), dal quale ricevere rispetto, affetto, conferme che lo facessero sentire adeguato alle sue aspettative. Da quanto racconta la ragazza “era molto paranoico e controllava sempre tutto, nel timore che potessi inviare segnali all’esterno”. Adoperava ogni sorta di cautela per evitare che qualcuno dei vicini potesse accorgersi che nella villetta vivevano in due; era molto attento perfino alla quantità di rifiuti che portava nel bidone in strada e faceva compere sempre lontano da casa. Natascha, crescendo, potrebbe non essere più stata ciò che Priklopil desiderava, o forse, semplicemente, lui aveva capito che non era più possibile per lei vivere in quel modo e per lui continuare a tenerla con sé. L’epilogo era chiaro a entrambi. Il suo mondo era incentrato su Natascha, una volta che lei non ci fosse più stata, sarebbe crollato, lasciandolo in un vuoto che soltanto il suicidio avrebbe potuto colmare. Natascha, in un certo senso, ha dovuto scegliere tra la sua vita e quella del suo rapitore e, consapevole di ciò che ne sarebbe derivato, ha scelto la sua. Forse si è dimostrata, alla fine, più forte di lui. 20 Dopo la liberazione.. “Natascha ha vissuto nel suo mondo. Deve imparare come rapportarsi con il nostro mondo, deve imparare a costruire nuove relazioni, anche con la sua famiglia”, ha spiegato il suo legale, Monika Pinterits. La ragazza è da subito affiancata da un’equipe di psichiatri, psicologi, traumatologi e protetta dalla polizia, isolata in un albergo del Burgenland, lontano da Vienna. Sostenuta poi da degli esperti di comunicazione per il rilascio delle interviste. In questa vasta corte sembra non essere gradita, però, la presenza dei suoi genitori, Brigitta Sirny e Ludwig Koch, che la ragazza incontra, subito dopo la liberazione, nel commissariato della polizia, ma preferisce poi allontanare. “Natascha vuole il silenzio, si è chiusa in se stessa, è difficile farle domande”, ha riferito Gerhard Lang, portavoce della polizia austriaca. “Tutti vogliono farmi domande sulla mia vita privata, ma questi sono fatti che non devono essere di dominio pubblico. Ho bisogno di tempo per poter raccontare la mia storia”. L’ultima volta che ha visto il padre è stato il giorno prima del sequestro. Allora l’adorava, aveva sempre con sé nella cartella il passaporto per andarlo a trovare in Ungheria, dove lui viveva, separato da sua madre. Ora lo vuole più distante di mamma Brigitta. Quando parla dei genitori è a dir poco gelida e paradossale: “Io li amo, non c’è stata nessuna lite. Ma ho molte cose da fare adesso. Non ho tempo per dedicarmi a loro”. 21 Al padre scrive una lettera per chiedergli comprensione se ancora non se la sente di incontrarlo in cui dice: “avremo tutto il tempo del mondo per vederci e parlarci”. Rifiuta di incontrare anche la madre e con la sorellastra (figlia maggiore della signora Sirny), scambia soltanto qualche parola. Presto la curiosità attorno a questo caso comincia ad addentrarsi sempre più in profondità nelle storie dei suoi protagonisti, andando a scavare nel loro passato e in quello che del loro presente non convince o desta sospetti allarmanti. La stampa inizia ad accanirsi su qualsiasi aspetto della vicenda possa dare l’idea di celare inquietanti rivelazioni. Così il rotocalco tedesco Stern divulga la notizia secondo la quale Natascha avrebbe subito violenti maltrattamenti e sarebbe addirittura stata incatenata e frustata nuda dal suo carnefice. Questo, inoltre, essendo abituale frequentatore di ambienti sado-maso della capitale austriaca, avrebbe costretto la ragazza ad accompagnarlo nei suoi appuntamenti segreti, ed anche a fargli da complice nelle situazioni più estreme: rituali da messa nera e sesso di gruppo. Priklopil avrebbe anche filmato e fotografato il tutto. A rinforzare tale tesi ci ha pensato il quotidiano viennese, Die Presse, che ha riproposto un articolo nel quale venne alla luce l’esistenza di un video pornografico, messo in vendita su internet a 25 euro, con la locandina riportante il titolo: ”Le immagini segrete della cella: giochi perversi, brutali e scioccanti”. Secondo alcune fonti, non riportate dal giornale, Brigitta Sirny all’epoca era legata sentimentalmente ad un autotrasportatore amico di Wolfgang 22 Priklopil. Da qui si è dedotto che la madre di Natascha frequentasse il rapitore di sua figlia. Ad avvalorare tale sospetto una testimone, Annaliese Glaser, che dichiara: “li ho visti insieme con i miei occhi quando ancora lavoravo nel negozio di alimentari dei genitori di Natascha”. Quanto più si scava in questa vicenda, tanto più aumentano i misteri. Come quello delle foto: una di Natascha da bambina, prima del rapimento, con stivali, frustino, magliettina aderente ma senza mutandine, ed un’altra in cui appare stesa sul letto nuda, avvolta solo da una pelliccia, sottratte da un’intraprendente giornalista alla madre di Natascha. Quest’ultima si è giustificata spiegando che si trattava semplicemente di foto scattate per gioco dalla sorella maggiore, Claudia. Naturalmente, su tutti questi elementi ed altri ancora, c’è chi ha pensato di scriverci un libro. Due giornalisti inglesi, Allan Hall e Michael Leidig hanno raccolto materiale e testimonianze nel loro “Girl in the cellar”, iniziativa che ha suscitato il disappunto di Natascha, che subito si è rivolta ai suoi avvocati. Secondo i due giornalisti, Wolfgang Priklopil e il padre di Natascha avevano uno strano ed equivoco rapporto di amicizia. Si incontravano in un bar, il Christine Schnell-Imbiss di Vienna, in cui, talvolta, il signor Koch portava anche sua figlia. Priklopil, inoltre, era amico di Ronnie Husek, compagno della madre. “Mi ricordo perfettamente che Husek lo portò nel negozio della signora Sirny per aggiustare un contatore elettrico. I tre parlarono a lungo”, ha dichiarato Annaliese Glaser. Perfino i genitori di Natascha, durante la sua prigionia, hanno iniziato ad accusarsi a vicenda. 23 Conclusioni Di sicuro non ci si può fermare alla superficie di ciò che pian piano emerge dal buio, è necessario spingersi in profondità, laddove è ragionevole trovare un fondo di verità. Quei famosi fattori che predispongono una persona a divenire vittima forse, per quel che riguarda Natascha, sono da ricercarsi all’interno del suo nucleo familiare; in particolare, bisognerà capire se attribuirne, oggettivamente la responsabilità al padre o alla madre, magari ad entrambi, ed in quale misura. Von Hentig aveva giustamente constatato come siano gli eventi a determinare in una persona il ruolo di vittima o carnefice. Le circostanze della sua vita, l’ambiente in cui viveva, i suoi genitori, il rapporto con loro e tra loro possono aver inciso in qualche modo. Ma soprattutto, l’eventualità di un concreto nesso tra il rapitore ed i suoi genitori, che l’avrebbero quindi volontariamente o involontariamente esposta al suo tragico destino, avrebbe fatto in modo che divenisse lei, e nessun’altra, la vittima del suo carnefice. Dall’altra parte, il vissuto di Priklopil, la sua infanzia, la perdita del padre, il particolare rapporto con la madre, il suo carattere, le sue condizioni psichiche, l’ambiente circostante, potrebbero averlo spinto ad avere strane fantasie e a decidere di metterle in pratica, sequestrando e facendo sua una bambina. La possibile conoscenza, diretta o indiretta dei suoi genitori, potrebbe aver avvicinato Priklopil a Natascha e averlo persuaso a rapire proprio lei. 24 Fermo per strada, vicino al suo furgone, stava aspettando che Natascha passasse di lì, come faceva ogni giorno per andare a scuola. Aspettava lei perchè voleva lei. Le disse: “se non ti avessi rapito quel giorno l’avrei fatto un altro”. Natascha ora ha 18 anni, è una giovane e bella ragazza che deve trovare la forza di accettare ciò che le è accaduto per andare avanti con la sua vita e non restare legata ad un passato così ingombrante, impossibile da ignorare. Probabilmente alcune ferite sono troppo profonde per potersi rimarginare completamente, ma spesso proprio davanti a situazioni al limite della sopportazione, si è in grado di tirare fuori una forza inimmaginabile, altrimenti sconosciuta. Nell’intervista in tv ( scrupolosamente studiata e preparata dalla stessa Natascha), si è mostrata serena e forte più di quanto ci si aspettasse, ma è da vedere se questo atteggiamento non sia una facciata che nasconda, non molto bene, il tentativo sofferto di soffocare qualcosa che si ha paura di tirare fuori. Di sicuro gli esperti che la seguono sanno come farlo nel modo migliore, certo è che forse nessuno si è mai confrontato con un caso simile, probabilmente unico al mondo. 25 Bibliografia e Sitologia: F. Ferracuti, Trattato di Criminologia, Medicina criminologia e Psichiatria forense, Giuffrè, Milano, 1987. G. Marotta (a cura di), Temi di criminologia, Led, 2004. G. Gulotta, La vittima, Giuffrè, Milano, 1976. G. Gulotta, M. Vagaggini (a cura di), Dalla parte della vittima, Giuffrè, Milano, 1980. G. Ponti, Compendio di criminologia, Cortina, Milano, 1999. G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale - parte generale – Zanichelli editore, Bologna, 2001. N. Lalli, Lo spazio della mente – saggi di psicosomatica, Liguori editore, Napoli, 1997. Freud, L’Io e i meccanismi di difesa, Martinelli, Firenze, 1967. U. Galimberti, Dizionario di psicologia, Utet. www.criminologia.it www.diritto.it www.corrieredellasera.it www.larepubblica.it www.lastampa.it www.skylife-tg24.it www.tiscalinotizie.it www.tgcom.it 26 27