La vittima

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La vittima
Cepic - Centro Europeo di Psicologia
Investigazione Criminologia
Corso di criminologia anno 2006/07
Tesina:
La vittimologia.
Vittima e Carnefice:
Natascha Kampusch e Wolfgang Priklopil
di
Gaia Gambardella
Premessa
Vittimologia:
Studio delle dinamiche psicosociali predispositive delle vittime
e dei danni da queste subite.
Vittima:
Individuo o gruppo che, senza aver violato regole convenute, viene
sottoposto ad angherie, maltrattamenti e sofferenze di ogni genere,
spesso per effetto di quel meccanismo proiettivo che istituisce un capro
espiatorio. La condizione di vittima può essere anche un vissuto
ingiustificato sul piano di realtà, o una forma di simulazione per ottenere
affetto o vantaggi di qualche genere.
In questi casi si parla di “condotte vittimistiche”.
( U.Galimberti, Dizionario di psicologia, Utet).
2
Cos’è la vittimologia
La vittimologia è una disciplina complessa, multifattoriale, che non si
limita a studiare la vittima e il suo rapporto con il reo, nella dinamica
del reato, ma fa luce su quelli che sono i fattori predisponenti del
divenire vittima di un reato.
Cerca di capire quali possano essere le misure idonee ad arginare il
crimine, affrontando il problema da una prospettiva che pone al centro la
vittima.
Si assume inoltre il compito di suggerire i possibili percorsi psicologici
e sociologici che possano portare quest’ultima a ritrovare un equilibrio
inevitabilmente spezzato dal fatto criminoso subito.
La sua attuale definizione nell’ambito del diritto
penale
Il nostro codice penale non offre una definizione compiuta della vittima
del reato, ma dedica il quarto capo alla persona offesa dal reato,
limitandosi però a disciplinare l’istituto della querela (art.120 del codice
penale), atto con cui la vittima manifesta la volontà che si proceda
penalmente contro l’autore del reato (quando non debba procedersi
d’ufficio o su richiesta o istanza).
3
Per alcuni reati, infatti, la legge prevede che solo la volontà del cittadino
possa far iniziare l’azione penale (si tratta in genere di reati meno gravi).
Dunque, per vittima s’intende il soggetto passivo del reato, ossia colui
che sopporta le conseguenze immediate dell’attività criminosa1.
Una più recente dottrina penalistica ha elaborato una differente
definizione, ponendo alla base l’interesse o bene giuridico protetto
dall’ordinamento,
la
vittima
viene
identificata
con
il
titolare
dell’interesse leso o messo in pericolo dalla condotta criminosa2 .
La vittima nel processo penale
Vediamo ora in che modo il sistema penale regola la partecipazione
della vittima al processo.
Il nuovo codice di procedura penale distingue tra persona offesa dal
reato (art.90 c.p.p.) e parte civile (art.74 c.p.p.).
La prima è il soggetto titolare dell’interesse penalmente protetto che
viene leso dalla commissione del fatto criminoso; è la c.d. vittima del
processo. Non è parte del procedimento. Il suo ruolo è quello di accusa
privata, sussidiaria e accessoria rispetto a quella pubblica del pubblico
ministero. L’interesse punitivo che fa capo alla vittima si sostanzia, sul
piano processuale, in un’ampia serie di diritti e facoltà, distinti e
indipendenti da quelli che le spetterebbero nella sua eventuale e ulteriore
qualità di danneggiato dal reato.
1
V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, Torino 1961-64
2
G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale – parte generale, Bologna, Zanichelli editore,2001.
4
Quest’ultimo, infatti, è il soggetto che ha subito un danno, patrimoniale
o morale, a causa della condotta criminosa (attiva od omissiva),
dell’autore del reato. Può quindi esercitare la pretesa al risarcimento del
danno o alla restituzione delle cose dovute costituendosi parte civile nel
processo penale.
Normalmente le due figure coincidono nella stessa persona, ma possono
anche essere persone diverse.
Così nel reato di omicidio, ad esempio, persona offesa è il deceduto,
danneggiati sono i congiunti ( i quali, pertanto, potranno costituirsi parte
civile per le pretese risarcitorie).
Occorre precisare che la vittima, in qualità di persona offesa dal reato, è
portatrice di limitati poteri
di impulso e controllo sulla vicenda
processuale ( art.90 c.p.p.). Mentre se, ricorrendone i presupposti, si
costituisce parte civile, acquista poteri analoghi a quelli attribuiti
all’imputato e al pubblico ministero, in quanto titolare di una istanza
risarcitoria.
Percorso storico e analitico
I primi studi sulla vittimologia si hanno a partire dalla seconda guerra
mondiale. In particolare, nel 1948 Von Hentig, criminologo di
estrazione giuridica, nella sua opera “The criminal and his victim”,
elabora tre concetti chiave per questa disciplina:
• Il concetto di criminale-vittima, in base al quale sono gli eventi a
determinare il ruolo di vittima o carnefice, non si nasce tali;
5
• Il concetto di vittima potenziale, per cui alcune categorie di
persone, per diversi fattori sociali, psicopatologici, sono più
predisposti di altri a ricoprire il ruolo di vittima;
• Il concetto di rapporto tra criminale e vittima, in cui Von Hentig
seleziona quattro possibili atteggiamenti della vittima nei confronti
del suo aggressore: apatico, letargico; sottomesso, connivente;
cooperante, contribuente; istigante, provocante, sollecitante.
Quest’ultima
categoria
è
connotata
da
una
maggiore
partecipazione della vittima.
Per Henry Ellenberger, psichiatra, le posizioni di criminale e vittima non
sono sempre antitetiche, al contrario, a volte possono addirittura
coesistere nella medesima persona (es:omicidio-suicidio).
Nel suo studio approfondisce il concetto di vittima latente e introduce
quello dei fattori predisponenti ( età, professione, status sociale,
caratteristiche della personalità), che possono portare a configurare le
c.d. vittime predestinate.
Altro contributo importante viene da Fattah, per il quale lo studio sulla
vittima deve rivolgersi a quella del singolo caso concreto, per poterne
comprendere ogni specifico carattere che l’ha portata a divenire tale.
Egli fu il primo a
prendere in considerazione il rischio di
vittimizzazione e come questo potesse variare in relazione alla
popolazione, evidenziando zone con fattore di rischio più elevato
rispetto ad altre.
Fattah, inoltre, analizza in modo dettagliato i fattori predisponenti
vittimogeni, dividendoli in due categorie principali: innati (sesso, razza,
deficit mentali), e acquisiti (stato sociale, economico..).
In base alla natura del soggetto li distingue poi in tre categorie:
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1. Fattori bio-fisiologici: età, sesso, salute, stato fisico (consumo di
alcool);
2. Fattori sociali: status sociale, situazione economica, professione,
condizioni di vita (emarginazione, condotta antisociale);
3. Fattori psicologici: tratti del carattere, deviazioni sessuali,
psicopatologie.
Approfondì lo studio dei caratteri che potevano rendere il soggetto più
vulnerabile e provocatore, identificando cioè le possibili condizioni
precipitanti. Evidenziò, nell’ambito della relazione tra criminale e
vittima, il grado di coinvolgimento affettivo ed emotivo, considerando la
natura, la durata, la frequenza e l’intensità come elementi importanti per
valutare la dinamica del fatto criminoso, analizzarne la nascita, lo
sviluppo e verificare l’esistenza o meno di una sua pianificazione.
Successivamente, sarà Marvin Wolfgang a dimostrare (in base ad un
suo studio condotto su alcuni casi di omicidio), che la vittima
contribuisce in vari modi alla realizzazione dell’evento criminoso.
A tal proposito egli parla di omicidio precipitato dalla vittima, in cui
quest’ultima per prima assume comportamenti provocatori, suscettibili
di essere considerati dalla norma penale condotte dolose o colpose
rilevanti ai fini della commisurazione della pena per il reo.
Si arriverà con Schafer a parlare di responsabilità della vittima e alla
definizione di vittima colpevole .
Gli studi condotti sulla vittima hanno portato a diverse classificazioni di
questa.
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La più diffusa è quella tra vittime fungibili e infungibili 3. Alla base c’è
il rapporto tra reo e vittima, quindi, le prime sono quelle che non hanno
alcun legame con il loro carnefice. Le seconde hanno un rapporto o
comunque un nesso con quest’ultimo.
Nell’ambito della prima categoria rientrano le vittime accidentali (es: di
un incidente o di una rapina), del tutto casuali quindi; le vittime
indifferenziate, la cui identità non ha alcun rilievo per il reo (es: le
vittime di attentati terroristici).
Fra quelle infungibili possiamo distinguere le vittime selezionate dal
reo, quelle partecipanti, che interagiscono con questo e dunque hanno un
ruolo attivo nell’azione criminosa. Questa tipologia è suscettibile di
un’ulteriore classificazione in: vittime per imprudenza; vittime
alternative (quando assumono spontaneamente il ruolo di vittima o
aggressore in un dato contesto, es: rissa); vittime provocatrici, le quali,
aggredite, aggrediscono a loro volta (es: legittima difesa); vittime
volontarie (es: omicidio del consenziente).
Un'altra classificazione distingue le vittime in attive e passive 4.
Le passive sono quelle che non assumono alcun atteggiamento o
comportamento che possa contribuire al verificarsi dell’azione
criminosa. Vi rientrano quindi,
le vittime accidentali, quelle
preferenziali, per il ruolo svolto o la posizione economica (sequestro a
scopo di estorsione), le vittime simboliche, scelte per colpire un’
ideologia o un determinato gruppo; le vittime trasversali, legate in vario
modo al vero bersaglio.
Le vittime attive contribuiscono a causare il delitto, tra queste la vittima
per la particolare professione svolta (agente di polizia), la vittima che
3
4
G. Gulotta, La vittima, Milano, Giuffrè, 1976
G. Ponti, Compendio di criminologia, Milano, Cortina, 1999
8
aggredisce
(legittima
difesa),
la
vittima
consenziente,
quella
provocatrice.
In conclusione, la vittima non è più vista soltanto come il soggetto che
passivamente subisce l’azione criminosa, ma le si riconosce un ruolo
attivo, in certi casi più in altri meno. Analizzare il rapporto che esiste tra
vittima e carnefice, ricercare i motivi che hanno spinto questo a
scegliere quel dato soggetto piuttosto che un altro, sapere se sia stato
sollecitato, provocato o meno dalla sua vittima, magari senza che questa
potesse rendersene conto, può dare un forte contributo non solo per
comprendere l’autore del reato e il fatto che ha commesso, ma anche
per aiutare nel modo migliore chi lo ha subito (direttamente o
indirettamente), a capire il perché e a superare i traumi che ne derivano.
La vittima: Natascha Kampusch
Periferia di Vienna, 2 marzo 1998. Natascha Kampusch, dieci anni,
viene rapita mentre sta andando a scuola. Le ricerche della polizia in
tutta l’Austria, ed anche in Ungheria, non porteranno a nulla. Natascha
scompare senza lasciare alcuna traccia. Per otto anni di lei non si saprà
più niente.
Fino al 23 agosto 2006, quando una ragazza bussa contro i vetri di una
villetta nella periferia nord-est di Vienna (non molto lontano dal luogo
del rapimento), chiedendo aiuto e dicendo di chiamarsi Natascha
Kampusch.
Pesa solo 42 chili (meno di quando fu rapita), ha macchie bianche su
tutto il corpo e qualche livido. ”E’ pallida, sembra essere stata per molto
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tempo lontana dalla luce del sole, ma ha un buon eloquio e sa leggere e
scrivere. E’stata identificata dalla sua famiglia”, ha riferito in una
conferenza stampa, il capo della polizia criminale austriaca, Herwig
Haidinger. La sua identità è confermata poi da due particolari: una
cicatrice, la stessa della bambina rapita nel ’98, e il ritrovamento del
passaporto nella cartella che aveva al momento del sequestro.
Haidinger annuncia che è in corso la caccia all’uomo, il presunto
sequestratore è Wolfgang Priklopil, tecnico elettronico di 44 anni,
conoscente (si dirà poi), della famiglia Kampusch. L’uomo sarebbe stato
tra le numerose persone interrogate all’inizio dell’inchiesta.
La caccia però finisce poco dopo, Priklopil, nascosto nei pressi di un
centro commerciale, nel cui parcheggio viene ritrovata la sua auto,
sarebbe stato visto allontanarsi dal luogo in cui Natascha è ricomparsa.
Verso le 21 della stessa sera del 23 agosto si toglie la vita gettandosi
sotto un treno alla stazione di Vienna. Nelle sue tasche vengono
ritrovate le chiavi dell’auto.
Natascha ha spiegato alla polizia di essere riuscita a fuggire sfruttando
un momento di distrazione del suo aguzzino: l’aveva incaricata di
passare l’aspirapolvere dentro la sua auto, parcheggiata in giardino, ha
ricevuto una telefonata ed il troppo rumore lo ha spinto ad allontanarsi
per un momento, Natascha ne ha approfittato per scappare correndo
verso il giardino di una casa vicina a chiedere aiuto.
Ci si è chiesti se Priklopil non abbia volutamente lasciato andare la
ragazza. Questo punto resta controverso: alla polizia, ai giornali e in tv
la fuga va per racconti differenti, la confusione è comprensibile.
Da una parte Natascha dice di non aver mai tentato di scappare,
dall’altra racconta che un giorno, al Gunter, un grande viale di Vienna,
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provò a gettarsi dall’auto in corsa. Ha ammesso, inoltre, di essere stata
in gita con Priklopil, a 300 chilometri da Vienna, ma solo perché l’ha
scoperto la polizia mettendola a confronto con un testimone che aveva
riconosciuto l’uomo sui giornali.
Natascha è stata tenuta in un garage di un’abitazione a Stasshof,
sobborgo situato a 25 chilometri a nord-est di Vienna. Il suo carceriere
le avrebbe permesso di ascoltare la radio e leggere i giornali. Di tanto in
tanto avrebbero anche fatto insieme delle passeggiate nei dintorni.
I primi sei mesi di prigionia, però, li ha trascorsi nel buio di un bunker di
cinque metri quadrati, dove l’aria arrivava attraverso un filtro.
“Ho sofferto di claustrofobia, battevo contro le mura della cella con i
pugni e con le bottiglie d’acqua minerale. Avevo paura di impazzire. E’
stato terribile. Mi sentivo come un pollo in una batteria di allevamento”.
Ho sempre pensato di fuggire. Avevo giurato a me stessa che un giorno
sarei diventata più grande, più forte e sarei riuscita a liberarmi”. Così
Natascha descrive i primi giorni dopo il rapimento. “Priklopil mi diceva
che i miei genitori non volevano pagare il riscatto, non erano più
interessati a me”.
Da queste dichiarazioni emerge chiaramente come quest’ultimo abbia
messo in atto tutta una serie di strategie tipiche del sequestratore nei
confronti della sua vittima.
Dapprima la c.d. deprivazione sensoriale, che consiste nel privare una
persona della possibilità di percepire alcun tipo di stimolo sensoriale,
appunto (vista, udito, tatto..). Gli effetti, tanto più gravi quanto più si
protrae nel tempo, possono portare a fenomeni psicosensoriali abnormi:
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da immagini elementari, come lampi di luce, macchie, ronzii, a visioni
più complete di figure,
volti, scene simili a quelle che possono
insorgere durante il sonno, o nella fase del risveglio.
Tenere il soggetto completamente al buio, facendogli perdere così anche
la cognizione del tempo, dello spazio, fa sì che si sviluppi un rapporto
di completa dipendenza. Il sequestratore diventa,
inevitabilmente
l’unico contatto che il soggetto ha con il mondo esterno, l’unica fonte di
sostentamento, il solo punto di riferimento a cui appoggiarsi per non
impazzire, per sopravvivere.
Da qui a sviluppare quella che viene comunemente chiamata sindrome
di Stoccolma il passo è breve.
Questo termine viene usato per la prima volta da Conrad Hassel, agente
dell’FBI, in seguito ad un famoso episodio accaduto in Svezia.
Nell’agosto del 1973, quattro impiegati (tre donne ed un uomo), della
Sveriges Kreditbank di Stoccolma furono tenuti in ostaggio, nella
camera di sicurezza sotterranea della banca, da due banditi per circa sei
giorni. Al contrario di quanto era legittimo aspettarsi, risultò che le
vittime, non solo dichiararono di aver temuto più la polizia dei rapitori,
ma verso questi, esternarono sentimenti positivi. Una di loro, Kristin
Ehnmark, sviluppò un forte legame sentimentale con uno dei rapitori
(che proseguì anche dopo la fine del sequestro). Dopo il rilascio venne
chiesta dai sequestrati clemenza per i loro sequestratori e, durante il
processo, alcuni degli ostaggi testimoniarono in loro favore.
Questa sindrome, in sostanza, promuove l’instaurarsi di rapporti affettivi
tra le vittime di sequestro e i loro rapitori. Sembra essere una risposta
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emotiva automatica, spesso inconscia, al trauma del divenire ostaggio, e
coinvolge sia i sequestrati che i sequestratori.
Generalmente si articola in tre fasi:
• Sentimenti
positivi
degli
ostaggi
nei
confronti
dei
loro
sequestratori;
• Sentimenti negativi degli ostaggi verso la polizia o altre autorità
governative;
• Reciprocità dei sentimenti positivi da parte dei sequestratori5.
Questa sindrome può interessare ostaggi e rapitori di ogni età, di ambo i
sessi, di ogni nazionalità e senza distinzioni socio-culturali.
Alcuni fattori ne faciliterebbero l’insorgere:
la durata e l’intensità dell’esperienza, la dipendenza dell’ostaggio dal
rapitore per la sua sopravvivenza e la distanza psicologica dell’ostaggio
dalle autorità e dal mondo esterno.
Sembra che sentimenti positivi tra rapito e rapitore non si formino subito
ma si rivelino già entro il terzo giorno di prigionia. Questo può essere
spiegato con il fatto che nei primi momenti dopo il sequestro il soggetto
rapito si trovi in uno stato confusionale per essere stato catapultato in
una situazione così estrema così improvvisamente. Una volta superato il
trauma iniziale, la vittima torna consapevole della situazione che sta
vivendo e deve trovare un modo per sopportarla; tutto ciò, unitamente
all’aumentare del tempo trascorso insieme al rapitore e all’isolamento
dal resto del mondo, agevola l’instaurarsi di un’intesa con quest’ultimo.
La mancanza di forti esperienze negative, quali percosse, violenze o
abusi fisici, facilita l’insorgere della sindrome. Abusi meno intensi,
deprivazioni ed umiliazioni tendono invece ad essere razionalizzati e
T. Strenz e F. Ochberg, da Ferracuti F. (a cura di), Trattato di Criminologia, Medicina
Criminologia e Psichiatria Forense, vol. IX, Giuffrè, Milano, 1987
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giustificati. Le vittime si convincono che l’uso della forza da parte del
loro sequestratore sia necessario per mantenere il controllo della
situazione, o sia giustificato da un loro comportamento scorretto.
Spesso il legame tra sequestratore e rapito inizia sulla base di un comune
risentimento nei confronti della polizia, che il più delle volte è percepita
dall’ostaggio come una minaccia e un pericolo: l’insistenza per la resa
del criminale e l’eventualità di un’incursione mettono la vittima in un
continuo stato d’ansia e paura per la propria incolumità.
Inoltre, le forze dell’ordine vengono considerate meno potenti del
rapitore perché non sono stati in grado di impedire il sequestro.
Una volta generatasi, tale sindrome può sussistere nel tempo, anche per
diversi anni. In chi l’ha sviluppata si sono riscontrati, a distanza di
tempo: disturbi del sonno, incubi, fobie, improvvisi trasalimenti,
flashback e depressione.
Le spiegazioni date alla sindrome di Stoccolma sono varie.
Alcuni autori ritengono che questo legame derivi dallo stato di totale,
concreta dipendenza che si sviluppa tra rapito e rapitore; quest’ultimo
controlla cibo, acqua, aria e sopravvivenza, elementi vitali, che , quando
vengono concessi, giustificano la gratitudine e la riconoscenza che
l’ostaggio manifesta nei confronti del suo carceriere.
Altri, invece, la maggioranza, affrontano il problema da un punto di
vista psicoanalitico:
l’Io, nel tentativo di trovare un equilibrio tra le richieste dell’Es ed una
realtà angosciosa, non può fare altro che mettere in atto dei meccanismi
di difesa. I due meccanismi a cui si fa riferimento sono la regressione e
l’identificazione con il proprio carceriere.
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Riguardo al primo, l’istinto di conservazione mette in atto funzioni
istintive, appunto, di carattere infantile, così il sentimento negativo della
vittima si concretizza in un atteggiamento teso a provocare protezione e
cura. L’ostaggio è simile al neonato: deve piangere per avere da
mangiare, non può parlare, è costretto all’immobilità, è in uno stato di
totale dipendenza da un adulto onnipotente che ha il pieno controllo su
di lui, e il mondo esterno è di nuovo vissuto come minaccioso.
L’identificazione con l’aggressore, invece, fa sì che il dato di realtà
relativo alla natura ostile del persecutore venga distorto; la paradossale
condivisione del punto di vista del rapitore permette al rapito di superare
il conflitto psichico dato, da un lato, dalla dipendenza da un aggressore
minaccioso, dall’altro, dall’impossibilità di liberarsene, di sfuggirgli,
con il vantaggio secondario del ritenere giustificate, quindi più
tollerabili, le sofferenze e le angherie da questo provocate.
L’autore del sequestro, a sua volta, subisce una identificazione inversa.
Quanto più un ostaggio riesce a farsi riconoscere nella sua identità, tanto
più diventa difficile per il rapitore fargli del male.
E’ infatti provato che la maggior parte delle persone non riesce a fare
del male ad altri individui, a meno che la vittima non resti anonima.
Inoltre, pare che i rapitori provino un certo affetto nei confronti delle
loro vittime, anche come segno di gratitudine per la collaborazione
ricevuta, forse mossi da un desiderio inconscio di essere amati e
rispettati.
Tuttavia, la sindrome di Stoccolma non si sviluppa necessariamente
sempre ed in ogni soggetto, non è una conseguenza inevitabile della
situazione di prigionia.
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Vi sono casi di ostaggi che hanno evitato ogni tipo di subordinazione ai
loro carcerieri e, addirittura, con il proprio atteggiamento, ne hanno
minato l’intransigenza.
Di certo si tratta di casi meno frequenti e vedono protagonisti soggetti
dalla forte personalità, che sono stati in grado di mantenere la propria
identità e un rapporto di fiducia, e non di distacco, con il mondo esterno,
riuscendo ad accettare la situazione senza però subirla totalmente.
Natascha e il suo rapporto con Priklopil
Chiarito cosa s’intende per sindrome di Stoccolma, possiamo affermare
senza dubbio, come d’altra parte hanno fatto i medici che se ne sono
occupati, che Natascha abbia sviluppato tale sindrome durante la sua
prigionia. D’altra parte, la durata del sequestro e la sua giovanissima età
hanno reso inevitabile l’insorgere di tale fenomeno.
Dalle dichiarazioni fatte ai media, contenute in una lettera che Natascha
ha preferito leggesse il suo psichiatra, Max Friedrich, emerge
chiaramente quanto detto:
“E’ stato parte della mia vita, per questo sono in qualche modo triste per
la sua morte”.
La ragazza descrive così ai giornali il rapporto con il suo aguzzino:
“Mi chiedeva di chiamarlo padrone (Gebieter), ma io non l’ho mai fatto.
Ero forte tanto quanto lui. Eravamo in una situazione paritaria; lui certe
volte mi coccolava, altre mi maltrattava, ma in quella casa sono
cresciuta al riparo da molte cose, come dal fumare, dal bere, da amicizie
sbagliate. Sono diventata una giovane donna con un interesse per la
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cultura, anche se la mia vita quotidiana è stata caratterizzata
dall’angoscia legata alla solitudine”.
E prosegue il suo racconto: “Ogni giorno andavo di sopra e facevo con
lui delle cose ordinarie. La mattina facevamo colazione assieme, mi
occupavo dei lavori di casa.
Ma poi venivo rispedita di sotto, a dormire, quando lui doveva assentarsi
di giorno, oppure quando venivano persone in visita o sua madre per il
fine settimana”.
Hanno vissuto per anni una sorta di “familiarità”, lei lo aiutava nelle
faccende di casa, lui si occupava della sua istruzione.
Secondo Friedrich “era chiaramente una relazione simbiotica. Lui deve
aver fatto di tutto per tenerla bambina, per impedirle di crescere. Solo
così poteva avere il controllo assoluto”. Le cose cambiarono a febbraio,
quando lei compì 18 anni e lui, ha raccontato Natascha, divenne meno
attento. La mandava in giardino a tagliare l’erba, a volte la portava con
sé a fare compere. Friedrich ipotizza che Priklopil non fosse più
interessato a lei, che ormai era cresciuta, era una donna. Forse Natascha
lo ha capito, deve aver cominciato ad avere paura e a pensare seriamente
alla fuga.
In effetti, la ragazza, nell’intervista andata in onda sul canale austriaco
Orf, ha dichiarato: “A volte mi ha suggerito come potevo ingannarlo, è
come se nella sua paranoia, volesse che io, una volta o l’altra, riuscissi a
liberarmi, che qualcosa andasse storto in qualche modo, che la giustizia
alla fine trionfasse.”
Il portavoce della polizia austriaca, Eric Zwettler, ha confermato che la
giovane aveva “contatti sessuali” con il suo rapitore, ma nessuno sembra
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intenzionato a toccare l’argomento, in primis la stessa Natascha, che,
inizialmente ha ammesso di aver avuto rapporti con Priklopil, ma poi ha
dichiarato: “L’intimità non appartiene che a me, e può darsi che ne parli
con una terapeuta, se ne sento il bisogno, o che non ne parli mai”.
Natascha ha deciso di confidarsi con Sabine Freudenberger, la poliziotta
che è andata a penderla dove si era rifugiata e che ha avuto cura di
avvolgerla in una coperta per proteggerla dai fotografi.
Questa, intervistata, ha detto: “Mi ha raccontato tutto, dall’inizio alla
fine, senza vergogna. Credo che non abbia ben chiaro quello che le è
stato fatto, dice di aver sempre agito di sua spontanea volontà. Mi ha
detto di aver avuto rapporti sessuali con Priklopil, ma volontariamente”.
Natascha ha raccontato di non aver pianto quando fu rapita: “Non avevo
la sensazione di aver perduto qualcosa”. E di aver accettato presto il suo
sequestratore come parte della sua vita. Di lui racconta: “Mancava della
sicurezza di sé”, lo descrive come “una personalità labile”. Già poche
ore dopo il sequestro, dice, capì che “aveva un deficit”.
Parla del suo aguzzino animata da comprensione e da pietà; si dispiace
perché con la sua fuga, ha rivelato alla madre di Priklopil e a chi lo
conosceva, questo suo terribile segreto che nessuno avrebbe mai
immaginato. Dichiara di sentirsi vicino alla madre. Non solo, ha voluto
assistere al funerale del suo rapitore, ed accendere una candela per lui.
Allo stesso tempo, ha ripetuto in più occasioni che ha sempre pensato di
fuggire, e che, mesi prima della liberazione, aveva anche detto al suo
aguzzino che prima o poi sarebbe scappata, perché “non poteva più
vivere così”.
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Natascha riusciva anche a scherzare con il suo carceriere; aveva
pronosticato per lui venti anni di prigione e, per consolarlo, gli diceva:
“Al giorno d’oggi anche i sessantenni si mantengono bene!”.
Alla notizia del suicidio del suo rapitore, pare sia scoppiata in lacrime.
Durante i 3079 giorni di prigionia ha potuto tenere un diario,
gelosamente custodito, al quale affidare la testimonianza di tutto ciò che
ha vissuto.
Il Carnefice: Wolfgang Priklopil
Per quel che riguarda Wolfgang Priklopil, si può dire che sia diventato
vittima di se stesso.
Era un uomo molto isolato, aveva lasciato il suo impiego di tecnico
elettronico presso la Siemens - dove lo ricordano “un tipo solitario”per mettersi in società con un amico in un’attività di ristrutturazione e
vendita di appartamenti, che lo aveva portato ad isolarsi ancora di più di
quanto già non lo fosse. Aveva lasciato il suo appartamento (non lontano
da dove abitava Natascha), per trasferirsi nella villetta che la madre gli
aveva ceduto dopo la morte del padre. Villetta destinata in seguito ad
“accogliere” Natascha.
Non ha mai avuto fidanzate o relazioni di alcun genere con altre donne.
I vicini di casa lo vedevano come una persona “piuttosto strana”. Aveva
fantasie malate, realizzabili una volta fatta sua la piccola Natascha.
Perduto il padre, Wolfgang intensificò il rapporto con la madre, che
andava a trovarlo ogni fine settimana (c’è chi pensa fosse a conoscenza
del segreto del figlio e lo coprisse).
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Probabilmente decise di rapire Natascha per il bisogno di avere
qualcuno vicino. La scelta è caduta su una bambina di soli dieci anni,
forse per l’incapacità di sostenere un confronto con un adulto, suo pari.
Forse anche per soddisfare il bisogno di dominio e controllo su di un
altro individuo, da poter plasmare a suo piacimento (ha pensato lui
all’istruzione di Natascha, decideva quali riviste potesse leggere e quali
programmi radiofonici ascoltare), dal quale ricevere rispetto, affetto,
conferme che lo facessero sentire adeguato alle sue aspettative. Da
quanto racconta la ragazza “era molto paranoico e controllava sempre
tutto, nel timore che potessi inviare segnali all’esterno”. Adoperava
ogni sorta di cautela per evitare che qualcuno dei vicini potesse
accorgersi che nella villetta vivevano in due; era molto attento perfino
alla quantità di rifiuti che portava nel bidone in strada e faceva compere
sempre lontano da casa.
Natascha, crescendo, potrebbe non essere più stata ciò che Priklopil
desiderava, o forse, semplicemente, lui aveva capito che non era più
possibile per lei vivere in quel modo e per lui continuare a tenerla con
sé. L’epilogo era chiaro a entrambi.
Il suo mondo era incentrato su Natascha, una volta che lei non ci fosse
più stata, sarebbe crollato, lasciandolo in un vuoto che soltanto il
suicidio avrebbe potuto colmare.
Natascha, in un certo senso, ha dovuto scegliere tra la sua vita e quella
del suo rapitore e, consapevole di ciò che ne sarebbe derivato, ha scelto
la sua.
Forse si è dimostrata, alla fine, più forte di lui.
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Dopo la liberazione..
“Natascha ha vissuto nel suo mondo. Deve imparare come rapportarsi
con il nostro mondo, deve imparare a costruire nuove relazioni, anche
con la sua famiglia”, ha spiegato il suo legale, Monika Pinterits.
La ragazza è da subito affiancata da un’equipe di psichiatri, psicologi,
traumatologi e protetta dalla polizia, isolata in un albergo del
Burgenland, lontano da Vienna. Sostenuta poi da degli esperti di
comunicazione per il rilascio delle interviste.
In questa vasta corte sembra non essere gradita, però, la presenza dei
suoi genitori, Brigitta Sirny e Ludwig Koch, che la ragazza incontra,
subito dopo la liberazione,
nel commissariato della polizia, ma
preferisce poi allontanare.
“Natascha vuole il silenzio, si è chiusa in se stessa, è difficile farle
domande”, ha riferito Gerhard Lang, portavoce della polizia austriaca.
“Tutti vogliono farmi domande sulla mia vita privata, ma questi sono
fatti che non devono essere di dominio pubblico. Ho bisogno di tempo
per poter raccontare la mia storia”.
L’ultima volta che ha visto il padre è stato il giorno prima del sequestro.
Allora l’adorava, aveva sempre con sé nella cartella il passaporto per
andarlo a trovare in Ungheria, dove lui viveva, separato da sua madre.
Ora lo vuole più distante di mamma Brigitta.
Quando parla dei genitori è a dir poco gelida e paradossale: “Io li amo,
non c’è stata nessuna lite. Ma ho molte cose da fare adesso. Non ho
tempo per dedicarmi a loro”.
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Al padre scrive una lettera per chiedergli comprensione se ancora non
se la sente di incontrarlo in cui dice: “avremo tutto il tempo del mondo
per vederci e parlarci”.
Rifiuta di incontrare anche la madre e con la sorellastra (figlia maggiore
della signora Sirny), scambia soltanto qualche parola.
Presto la curiosità attorno a questo caso comincia ad addentrarsi sempre
più in profondità nelle storie dei suoi protagonisti, andando a scavare nel
loro passato e in quello che del loro presente non convince o desta
sospetti allarmanti.
La stampa inizia ad accanirsi su qualsiasi aspetto della vicenda possa
dare l’idea di celare inquietanti rivelazioni.
Così il rotocalco tedesco Stern divulga la notizia secondo la quale
Natascha avrebbe subito violenti maltrattamenti e sarebbe addirittura
stata incatenata e
frustata nuda dal suo carnefice. Questo, inoltre,
essendo abituale frequentatore di ambienti sado-maso della capitale
austriaca, avrebbe costretto la ragazza ad accompagnarlo nei suoi
appuntamenti segreti, ed anche a fargli da complice nelle situazioni più
estreme: rituali da messa nera e sesso di gruppo.
Priklopil avrebbe anche filmato e fotografato il tutto.
A rinforzare tale tesi ci ha pensato il quotidiano viennese, Die Presse,
che ha riproposto un articolo nel quale venne alla luce l’esistenza di un
video pornografico, messo in vendita su internet a 25 euro, con la
locandina riportante il titolo: ”Le immagini segrete della cella: giochi
perversi, brutali e scioccanti”.
Secondo alcune fonti, non riportate dal giornale, Brigitta Sirny all’epoca
era legata sentimentalmente ad un autotrasportatore amico di Wolfgang
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Priklopil. Da qui si è dedotto che la madre di Natascha frequentasse il
rapitore di sua figlia. Ad avvalorare tale sospetto una testimone,
Annaliese Glaser, che dichiara: “li ho visti insieme con i miei occhi
quando ancora lavoravo nel negozio di alimentari dei genitori di
Natascha”.
Quanto più si scava in questa vicenda, tanto più aumentano i misteri.
Come quello delle foto: una di Natascha da bambina, prima del
rapimento, con stivali, frustino, magliettina aderente ma senza
mutandine, ed un’altra in cui appare stesa sul letto nuda, avvolta solo da
una pelliccia, sottratte da un’intraprendente giornalista alla madre di
Natascha. Quest’ultima si è giustificata spiegando che si trattava
semplicemente di foto scattate per gioco dalla sorella maggiore, Claudia.
Naturalmente, su tutti questi elementi ed altri ancora, c’è chi ha pensato
di scriverci un libro. Due giornalisti inglesi, Allan Hall e Michael Leidig
hanno raccolto materiale e testimonianze nel loro “Girl in the cellar”,
iniziativa che ha suscitato il disappunto di Natascha, che subito si è
rivolta ai suoi avvocati.
Secondo i due giornalisti, Wolfgang Priklopil e il padre di Natascha
avevano uno strano ed equivoco rapporto di amicizia. Si incontravano in
un bar, il Christine Schnell-Imbiss di Vienna, in cui, talvolta, il signor
Koch portava anche sua figlia.
Priklopil, inoltre, era amico di Ronnie Husek, compagno della madre.
“Mi ricordo perfettamente che Husek lo portò nel negozio della signora
Sirny per aggiustare un contatore elettrico. I tre parlarono a lungo”, ha
dichiarato Annaliese Glaser.
Perfino i genitori di Natascha, durante la sua prigionia, hanno iniziato ad
accusarsi a vicenda.
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Conclusioni
Di sicuro non ci si può fermare alla superficie di ciò che pian piano
emerge dal buio, è necessario spingersi in profondità, laddove è
ragionevole trovare un fondo di verità.
Quei famosi fattori che predispongono una persona a divenire vittima
forse, per quel che riguarda Natascha, sono da ricercarsi all’interno del
suo nucleo familiare; in particolare, bisognerà capire se attribuirne,
oggettivamente la responsabilità al padre o alla madre, magari ad
entrambi, ed in quale misura.
Von Hentig aveva giustamente constatato come siano gli eventi a
determinare in una persona il ruolo di vittima o carnefice.
Le circostanze della sua vita, l’ambiente in cui viveva, i suoi genitori, il
rapporto con loro e tra loro possono aver inciso in qualche modo. Ma
soprattutto, l’eventualità di un concreto nesso tra il rapitore ed i suoi
genitori, che l’avrebbero quindi volontariamente o involontariamente
esposta al suo tragico destino, avrebbe fatto in modo che divenisse lei, e
nessun’altra, la vittima del suo carnefice.
Dall’altra parte, il vissuto di Priklopil, la sua infanzia, la perdita del
padre, il particolare rapporto con la madre, il suo carattere, le sue
condizioni psichiche, l’ambiente circostante, potrebbero averlo spinto ad
avere strane fantasie e a decidere di metterle in pratica, sequestrando e
facendo sua una bambina.
La possibile conoscenza, diretta o indiretta dei suoi genitori, potrebbe
aver avvicinato Priklopil a Natascha e averlo persuaso a rapire proprio
lei.
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Fermo per strada, vicino al suo furgone, stava aspettando che Natascha
passasse di lì, come faceva ogni giorno per andare a scuola.
Aspettava lei perchè voleva lei. Le disse: “se non ti avessi rapito quel
giorno l’avrei fatto un altro”.
Natascha ora ha 18 anni, è una giovane e bella ragazza che deve trovare
la forza di accettare ciò che le è accaduto per andare avanti con la sua
vita e non restare legata ad un passato così ingombrante, impossibile da
ignorare.
Probabilmente alcune ferite sono troppo profonde per potersi
rimarginare completamente, ma spesso proprio davanti a situazioni al
limite della sopportazione, si è in grado di tirare fuori una forza
inimmaginabile, altrimenti sconosciuta.
Nell’intervista in tv ( scrupolosamente studiata e preparata dalla stessa
Natascha), si è mostrata serena e forte più di quanto ci si aspettasse, ma
è da vedere se questo atteggiamento non sia una facciata che nasconda,
non molto bene, il tentativo sofferto di soffocare qualcosa che si ha
paura di tirare fuori.
Di sicuro gli esperti che la seguono sanno come farlo nel modo migliore,
certo è che forse nessuno si è mai confrontato con un caso simile,
probabilmente unico al mondo.
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