8 marzo 2012 - Centro Italiano Femminile
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8 marzo 2012 - Centro Italiano Femminile
ZOOM 8 marzo duemila12 famiglia lavoro economia politica per una nuova Italia e una nuova Europa nel mondo A. Boatto, Donne a concilio, 1996 (particolare) Cronache e Opinioni - gennaio/febbraio 2012 23 di Vera Zamagni Università di Bologna Gotico. Intarsio in legno, particolare tratto dalla porta della Sacrestia di Sant’Anastasia, Verona Pari lavoro, pari salario 24 ▼ Era il 1975 quando l’Unione Europea adottò le prime direttive sulla “parità di genere”, su denuncia di un’hostess della compagnia aerea nazionale belga che non accettava di essere pagata meno dei colleghi maschi. Fino ad allora, si era dato per scontato che le donne dovessero essere remunerate meno degli uomini, anche a parità di lavoro. La discriminazione derivava dall’assunto che le donne fossero meno preparate e meno disponibili, ma anche dalla commisurazione del salario alla sussistenza (le donne consumano meno e dunque è giusto che siano pagate meno!) e dal diverso ruolo svolto in famiglia (l’uomo era capo-famiglia e per questo doveva ricevere un bonus). Nel trentennio che ci separa dal 1975, molte cose si sono enormemente accelerate, ma altre sono rimaste desolatamente indietro. Ciò che soprattutto è cambiato, in positivo, è l’istruzione delle donne, che oggi in Italia (come in altri paesi avanzati) si qualificano mediamente di più dei maschi: nel 2009/10 la percentuale di laureati maschi sulla classe d’età di 25 anni era in Italia del 33,2%, mentre era del 51,5% per le femmine, normal- Cronache e Opinioni - gennaio/febbraio 2012 mente con una carriera accademica di maggiore successo. A questo mutamento non ha fatto seguito un adeguato utilizzo dei talenti e della professionalità delle donne. Infatti, il tasso di occupazione delle donne è passato in Italia solo dal 33%, nel 1979, al 47%, nel 2009; un livello tra i 15 e i 30 punti percentuali al di sotto di quello dei paesi avanzati (la media della UE è al 62,5%, ancora distante dagli obiettivi desiderati). Va ricordato tuttavia che abbiamo in Italia una variabilità geografica grande, che vede le regioni del Centro-Nord 10 punti percentuali sopra la media (l’EmiliaRomagna si attesta al 63%, valore uguale alla media europea), mentre le regioni del Sud si collocano 10 punti percentuali sotto la media italiana (la Calabria è al 31%). Quanto alle differenze retributive, stimate al 18% nella UE a parità di lavoro, in Italia non sono fra le più accentuate (si stimano pari a un 12%). Tale divario è oggi solo marginalmente dovuto a differenze di salario/stipendio base: sono le mansioni, gli straordinari, i bonus che fanno la vera differenza. Se poi il confronto si fa non per lavori simili, ma su tutti i lavori, il divario aumenta notevolmente, perché i lavori “tipicamente femminili” (lavori di cura, di pulizia, di insegnamento, di counselling, di segreteria) sono considerati meno qualificati e sono meno remunerati. Le opportunità di guadagno dunque sono ancora oggi molto più a portata di lavoratori maschi, anche perché le donne devono impiegare mediamente il doppio degli uomini in incombenze di carattere domestico/famigliare. Ma il vero dramma sta nella progressione ascensionale delle carriere: le donne sono affette da “soffitti di cristallo” e da “pareti di amianto”, secondo le più recenti definizioni, che impediscono la mobilità verticale. Le donne manager sono in Italia solo il 20% del totale, ma non più del 10% in posizioni davvero apicali; le donne presenti nei consigli di amministrazione sono il 7% del totale (ma solo il 3,5%, se si escludono le imprese familiari). Perché? Non è facile rispondere a questa domanda in poco spazio. Farò un elenco dei principali motivi, senza tentarne una compiuta elaborazione: 1) le condizioni di lavoro che confliggono pesantemente con gli impegni familiari (le famose riunioni alle ore 18 di sera; le spedizioni fuori sede a breve notifica); 2) la diversa sensibilità delle donne sul lavoro (più cooperative e meno competitive e dunque meno portate a spingere per aumenti salariali e di grado); 3) la mancanza di sicurezza in se stesse (risultato della storia di isolamento in cui sono vissute in passato, ma anche di un’errata educazione che non le abitua alla responsabilità); 4) una minore propensione ai compromessi (un maggiore senso dell’equità); 5) le reti di fiducia declinate al maschile (il capo maschio si fiderà di più dei suoi old friends); 6) una diversa abitudine al comando (si pensi quanto gli eserciti hanno insegnato agli uomini in questo campo). I soffitti di cristallo e le pareti di amianto sono ormai stati riconosciuti come ostacoli talmente insormontabili singolarmente (se non in casi eccezionali), che si è, in molti paesi, passati alle azioni “positive”. Le famose “quote rosa”, che in passato erano state viste come segno di debolezza, una concessione alla incapacità delle donne di emergere da sole, vengono ora introdotte con una logica ben diversa: rompere un circolo vizioso che risultava ormai cristallizzato. Il 29 giugno 2011 anche in Italia è stata approvata la legge che impone ai consigli di amministrazione delle società quotate in borsa o a partecipazione pubblica, una rappresentanza femminile pari a 1/5 nel 2012 e a 1/3 nel 2015 (in altri paesi sono stati ancora più drastici). Ma le “azioni positive” non basteranno, se non saranno accompagnate da due fondamentali cambiamenti culturali. Il primo, e più importante, è quello dell’educazione: le bambine vanno educate alla responsabilità e alla costanza; i maschi vanno educati alla collaborazione e al rispetto. Il secondo cambiamento riguarda l’organizzazione del lavoro, che era stata modellata sulla famiglia “specializzata” in cui l’uomo si dedicava interamente al lavoro e lasciava la famiglia alla donna. Se ora tutti gli adulti lavorano, occorre rimodulare i ritmi di lavoro, per permettere alla vita non di lavoro (particolarmente quella della famiglia) di non scomparire, con nocumento grande per la felicità delle persone e per la stessa continuità della stirpe umana. È ora di smettere di costringere le donne ad una scelta “tragica” – lavoro o famiglia – quando le condizioni economiche e culturali permettono di costruire una convivenza armoniosa tra le due fondamentali espressioni della vita umana.▲ Cronache e Opinioni - gennaio/febbraio 2012 25 di Alessandra Perrazzelli Avvocato, Responsabile Affari Regolamentari e Antitrust Internazionali Intesa Sanpaolo; CEO di Intesa Sanpaolo Eurodesk; Presidente di Valore D. Leadership femminile ▼ Tra gli assunti oggi più largamente condivisi dai decisori politici europei rientra senz’altro quello per cui l’uscita dalla crisi economica e la ripresa del processo di crescita passano necessariamente attraverso la piena valorizzazione delle competenze del talento femminile in tutti i settori e a tutti i livelli del mondo produttivo. Pari indipendenza economica, pari retribuzione per lo stesso lavoro (e lavoro di pari valore) e Parità nel processo decisionale sono 3 punti cardine non solo della Strategia Europea per la parità tra donne e uomini 2010-2015, ma anche di quella per la crescita e della relativa iniziativa-faro Un’agenda per nuove competenze e per l’occupazione, che si propone l’obiettivo del 75% di occupati nella fascia d’età 20-64 anni entro il 2020. Considerando che i tassi di occupazione maschile e femminile ammontano rispettivamente al 75 e al 62,5% e che appena il 3% dei CEO (Chief executive officer) europei è donna, è chiara la necessità di sostenere con decisione l’impiego femminile, in particolare nelle posizioni di maggiore responsabilità e in un regime di parità salariale e di uguale opportunità di carriera rispetto alla popolazione maschile. Il nostro paese, con un’occupazione femminile ferma al 46%, un tasso di part-time involontario più che doppio rispetto alla media europea (42,7% contro 22,3%) e il 76,7% del la- 26 Cronache e Opinioni - gennaio/febbraio 2012 sfide e voro familiare a carico delle donne, si colloca tra i più arretrati d’Europa in ambito di parità di genere, ma l’attenzione sul problema ha raggiunto in questi mesi i suoi massimi storici e ci sono segnali incoraggianti. A tale proposito, prendendo spunto dalla giornata di studi Leadership femminile: politiche e strategie per aumentare la competitività e innovare il sistema Italia, promossa, nell’ambito del Quinto Forum Cultura d’Impresa, da 24OreFormazione, vorrei soffermarmi sull’esperienza di Valore D – la prima associazione di grandi imprese italiane impegnate nella promozione del talento femminile ai livelli apicali che ho l’onore di presiedere e che, fondata nel 2009, riunisce oggi 59 grandi aziende decise a mettere il talento femminile al centro della propria agenda di crescita economica. Come ampiamente documentato dagli studi “Women Matter” di McKinsey, promuovere l’occupazione e le progressioni di carriera delle donne significa accelerare le performance aziendali, non solo a livello di gestione interna, ma anche intercettando più efficacemente l’enorme fetta di mercato data dal potere d’acquisto femminile: un mercato in crescita costante e non solo nei paesi dell’occidente. A tal fine, è necessario che le imprese acquisiscano – e mettano a fattore comune – le conoscenze e gli strumenti più adatti a valorizzare e gestire i propri talenti femminili, risultati cosi, ad esempio, pescando tra le buone pratiche presentate dalle nostre aziende associate, apparirà fondamentale sviluppare nuove forme di flessibilità – oltre al part-time, meccanismi più personalizzati come la banca delle ore, la flessibilità in entrata e in uscita, il telelavoro ecc. - ma anche incoraggiare un più generale cambiamento di cultura d’impresa volto ad associare la progressione di carriera ai risultati ottenuti piuttosto che al tempo effettivamente passato in ufficio. A facilitazioni come gli asili nido, i servizi di concierge, o gli incentivi economici, andranno affiancate formazioni mirate (tanto in termini di skill building che a livello di mentorship), adatte al ruolo e alle potenzialità delle dipendenti, ma anche ai responsabili delle risorse umane. Apparirà inoltre fondamentale favorire il networking, lo scambio di esperienze all’interno e all’esterno dell’azienda e le attività di comunicazione e consapevolizzazione, in particolare del top management. Se vogliamo però raggiungere la parità in ambito lavorativo e arrivare a un vero e proprio cambiamento culturale, bisognerà che le azioni promosse dal mondo industriale vengano affiancate e completate da adeguate politiche di sostegno pubblico. A questo proposito vorrei soffermarmi sullo studio di Andrea Ichino (Università di Bologna) e Alberto Alesina (Harvard University) “Un dito tra moglie e marito”, sponsorizzato da Valore D e volto ad indagare gli equilibri lavorativi su un campione costituito da 1005 coppie rappresentative della popolazione italiana (campione ISPO) e 241 coppie in cui almeno un partner è in posizione dirigenziale (campione manager). Secondo la ricerca, le donne lavorano in casa circa 41 ore alla settimana contro le 19,7 dei mariti, le ore scendono a 24,5, nel caso delle donne manager, contro le 13,8 degli uomini, il che significa che complessivamente, cioè sommando le ore di lavoro domestico a quelle di lavoro retribuito, le donne del campione IPSO lavorano in media 30 minuti in più al giorno rispetto ai mariti, e le donne manager addirittura 40 minuti in più, per un totale di 67 ore lavorative in settimana (contro le 63,8 degli uomini). Il carico di lavoro domestico incide negativamente sul contributo femminile al reddito familiare (inferiore del 40% a quello maschile o, nel caso delle donne manager, del 16%), né gli uomini si dimostrano inclini ad accettare compromessi di fronte ad occasioni lavorative irrinunciabili per la propria compagna. Per ogni ora di lavoro in più del partner la donna aumenta il lavoro in casa di 17 minuti, che diventano appena 4 a rapporti invertiti; inoltre, mentre gli uomini non sono disposti a lavorare meno guadagnando meno, le donne esitano se mai a lavorare di più per guadagnare di più. La vera novità della ricerca, tuttavia, sta nel fatto che le donne si dichiarano consapevoli di questa situazione, lamentando tanto il gap retributivo quanto il disequilibrio nella ripartizione dei carichi familiari: esse risultano in media meno soddisfatte del lavoro rispetto al proprio compagno, ma tale insoddisfazione si riduce visibilmente nel campione manager e si annullerebbe in un contesto di maggior equilibrio familiare. La soluzione suggerita da Alesina-Ichino consisterebbe nell’introduzione di aliquote mirate, ovvero in una minore tassazione del reddito femminile e delle aziende che lo favoriscono, il che porterebbe naturalmente a un aumento del potere contrattuale delle donne in famiglia e dunque, con ogni probabilità, ad un maggior impegno dei partner uomini nelle attività di cura e gestione domestica. Tale maggiore impegno potrebbe quindi accelerare il cambiamento della cultura della famiglia italiana, contribuendo a portare su un piano di parità e condivisione il patto tra le donne e gli uomini che vogliono investire sul futuro della famiglia e delle proprie personali ambizioni, senza rinunciare all’una o alle altre. ▲ Cronache e Opinioni - gennaio/febbraio 2012 27 di Alessandra Dell’Omo Talento, volontà, desiderio, aspirazione ▼ L’etimologia di un termine aiuta a ricostruire le immagini che vengono richiamate con il suo utilizzo. Originariamente il talento, in latino talentum, dal greco tàlanton, altro non era che il piatto della bilancia. In seguito, per estensione semantica, la parola ha assunto anche il significato di peso posto sulla bilancia. Si è aggiunto qualcosa quando, qualche secolo fa, s’intendevano con lo stesso vocabolo la volontà, il desiderio, l’aspirazione. Da questo trae origine il legame simbolico tra desiderio e ingegno, che oggi tendiamo ad attribuire al talento. Una buona definizione di talento non si identifica con il genio, ovvero l’espressione smisurata di una eccellenza settoriale, ma tiene conto di una molteplicità di caratteristiche e di esperienze personali e sociali che lo rendano un concetto complesso, dinamico, ricco di valori e di significati possibili. Abitiamo un mondo caratterizzato da continui mutamenti e incertezze, dove si è sempre più impegnate a ri-pensare e a ridisegnare la propria cultura e le proprie azioni. In questo contesto, la figura della donna è chiamata a percorrere strade insolite, a volte sconnesse, giocando un ruolo primario come catalizzatrice di nuovi modi di vivere e facilitatrice del cambiamento. Le dimensioni della “pluralità” e della “trasversalità” investono completamente la figura femminile: donna, madre, moglie, sorella, amica, lavoratrice, in ogni ruolo un talento. Ritrovata la possibilità soggettiva, di scegliere chi essere, ognuna di noi oggi può stabilire se, dove e come realizzare i suoi talenti. Spesso si corre il rischio di identificare una donna di talento in una donna realizzata professionalmente, che ha saputo fare della sua abilità un merito socialmente riconosciuto. Peccato che questa appaia come una definizione sbrigativa e semplicistica. Parlare di donne e lavoro equivale ad accendere i riflettori su un tema di cui oramai si parla da molti anni: quella della forza lavoro femminile, che è un movimento imponente, è una rivoluzione economica e insieme 28 Cronache e Opinioni - gennaio/febbraio 2012 culturale, ma è soprattutto una delle maggiori opportunità per le nostre economie. Avere più donne nei luoghi di lavoro, nelle posizioni apicali delle aziende, pubbliche e private, non è più solo una questione di equità, ma è anche il riconoscere l’esistenza di una leva che molti paesi, a cominciare dall’Italia, hanno trascurato in questi anni. Se i diritti delle donne sono riconosciuti per legge, oggi continuano ad esserci disparità e difficoltà. Ha ragione il Presidente della Repubblica Napolitano, quando sostiene che le donne in Italia, ancora adesso, vivono uno squilibrio di genere troppo ampio, dove siamo ancora lontani da un traguardo di parità: nel lavoro, nel reddito e nella carriera, nelle Istituzioni. Parlare del binomio donna-lavoro automaticamente significa considerare il tema della famiglia, dell’assistenza ai figli e ai genitori: compiti che ricadono prevalentemente sulle spalle delle donne, imponendo loro scelte non facili e spesso costose nel lungo termine. Le politiche di conciliazione, il sostegno alle famiglie, la definizione di un welfare più sensibile al ruolo delle lavoratrici sono temi cui la politica e la società dovranno guardare con sempre maggiore attenzione. Le opportunità di lavoro e professionali per noi donne sono notevolmente aumentate e non possiamo negarlo, tuttavia rimangono ancora retaggi difficili da superare, un’eredità culturale pesantemente subìta e alimentata da atteggiamenti poco disponibili. Gli elementi vanno riscontrati nella mentalità e negli stereotipi: il lavoro di una donna (soprattutto se moglie) è considerato aggiuntivo a quello del marito che resta comunque il capofamiglia. La fase critica della carriera lavorativa coincide molto spesso con una fase critica anche della vita personale, la creazione della famiglia, i bambini ancora piccoli; in Italia la maternità, si associa ad una caduta dell’occupazione femminile e il numero dei figli amplifica l’effetto. Molte donne lasciano il lavoro alla nascita dei figli, per quelle che rimangono, la carriera è spesso rallentata o bloccata; quando i bambini diventano grandi, le difficoltà di conciliazione diminuiscono e le donne potrebbero tornare in corsa, ma spesso è troppo tardi, soprattutto se l’età è avanzata. In Italia si parla tanto di famiglia, ma, in realtà, la si aiuta pochissimo, vista anche la carenza di servizi a sostegno della prima infanzia. Inoltre, servirebbe una maggiore flessibilità contrattuale per le giovani mamme, nonché più donne nei luoghi di rappresentanza, c’è bisogno di una maggiore valorizza- zione delle energie e delle competenze femminili in tutti i campi e potenziare le nuove tecnologie per superare le barriere spazio-temporali e amplificare le opportunità (es. il telelavoro), occorre un nuovo “patto” tra uomini e donne nella divisione del lavoro familiare. Per quanto riguarda il legame tra lavoro femminile e performance è scientificamente e statisticamente dimostrato che quando le donne sono in gruppi di lavoro, apportano progresso, competitività e ottimi risultati. La chiamano womenomics, che è il neologismo coniato dagli analisti di scienze dell’economia per definire la corrente economica che individua nel lavoro delle donne uno degli elementi determinanti nelle dinamiche di crescita di un paese. La figura femminile è oggi ritenuta capace di fare la differenza, fino a diventare motore trainante di sviluppo del sistema socio-economico nel quale è inserita. Le donne, sono ritenute capaci di organizzare pensieri e progetti in modo più sistematico e svolgere con successo più compiti contemporaneamente, determinate e abituate alla gestione degli imprevisti e con quella dose di sensibilità in più che spesso può fare la differenza. Agli indiscutibili vantaggi dell’impiego di personale femminile derivanti dalle caratteristiche proprie delle donne, si aggiunge la necessità di far fronte all’emergenza forza lavoro, che si prospetta nel prossimo futuro, risolvibile attraverso l’utilizzo di gruppi di popolazione oggi non sufficientemente impiegati, per i quali è necessario creare condizioni favorevoli di attivo coinvolgimento. Attenzione però: non si tratta di una gara con gli uomini o peggio ancora contro di loro, non si sta discutendo di rivendicazioni, ma di una democrazia paritaria, di un’uguaglianza di genere, del giusto riconoscimento sulla base del talento e del merito. In questi tempi dove c’è una crisi che investe in modi diversi tutti, è necessario fare in modo che uomini e donne possano contribuire e cooperare insieme per un futuro possibile e sereno. ▲ Cronache e Opinioni - gennaio/febbraio 2012 29 di Giulia Rivellini e Valeria Bordone Università Cattolica di Milano Politiche familiari: esempi a cui guardare ▼ Le trasformazioni nell’inten- sità (quanto) e nella cadenza (quando) di fenomeni quali la fecondità, la nuzialità e la stessa mortalità, talvolta sfuggono a chi si limita a cogliere la realtà demografica con la lente dell’osservazione ravvicinata, anno dopo anno. E farsi sfuggire tali trasformazioni o, allo stesso modo, mettersi nelle condizioni di non coglierle né prevederle, non è buona cosa. Lo dimostrano le pagine del Rapporto-Proposta “Il cambiamento demografico” a cura del Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana con l’obiettivo di rendere tutti, persone e famiglie, consapevoli delle problematiche di popolazione. Si presenta così l’occasione per farsi tre domande: cosa vuol dire governare un cambiamento demografico? Cosa si intende per demografia sostenibile secondo la linea presentata nel volume Rapporto – Proposta ? Ed infine, guardando al contesto europeo, come mai alcuni paesi si trovano ora in condizioni demografiche meno critiche delle nostre? Sulla scia delle riflessioni maltusiane, in epoca moderna l’idea di controllare il cambiamento demografico si è tradotta in due principali visioni politiche. La prima, di origine francese, si è costruita sulla convinzione che un’attiva regolazione della popolazione passi attraverso una politica demografica na- 30 Cronache e Opinioni - gennaio/febbraio 2012 zionale. E’ lo Stato che deve attivarsi per sostenere la natalità. Nel tempo tale orientamento ha subito un indebolimento, con l’introduzione di maggiori libertà di scelta individuale e puntando su una politica attiva delle pari opportunità di genere, soprattutto sul mercato del lavoro. A questa stessa visione hanno aderito anche i paesi scandinavi, rafforzandola ulteriormente. La seconda è invece tipicamente anglosassone, nata in Inghilterra e diffusasi nel Nord America. Essa si appoggia non tanto sullo Stato, quanto piuttosto sulla società civile, con i suoi movimenti sociali e culturali. Oggi, l’atteggiamento politico è ancora diverso. Quasi tutti i paesi, specie quelli lowest-low fertility (con una fecondità inferiore all’1,5 figli per donna) sono preoccupati delle conseguenze future e si adoperano per creare un clima favorevole ad una scelta libera e consapevole delle coppie. Ed è questo il messaggio positivo da intravedere nell’espressione “governare il cambiamento demografico” ovvero intervenire affinché si crei un contesto sociale, economico e culturale adeguato ad uno sviluppo “sostenibile” di una popolazione. La sostenibilità in senso demografico è allora associabile al sostegno della natalità e del processo di transizione allo stato adulto dei giovani, alla ricerca di un’integrazione anche sociale e culturale, degli immigrati, ad una più equa distribuzione delle risorse tra le generazioni, al favorire una stabilità relazionale entro la coppia e tra le generazioni e a vivere una vita lunga e sana (cfr. CEI, 2011). Guardando ora alla realtà europea, si ritrovano paesi come Francia, Svezia e Norvegia con livelli di fecondità ben sopra la soglia della lowest-low fertility (1,99; 1,94; 1,98), con un tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro considerevolmente sopra il livello medio rilevato tra i paesi OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) (60%, 72% e 74%), o ancora con un indice di vecchiaia molto diverso da quello italiano (per la Francia si registra l’89,4% contro il 143,1% dell’Italia). Non c’è dubbio che, con riferimento all’idea di sostenibilità demografica, la situazione di tali paesi appaia meno critica della nostra. Proviamo allora a capire perché ritornando sul tema delle politiche di sostegno al “metter su famiglia”, soggette a variazioni nel tempo e tra paesi. Da una visione globale emergono la Svezia, che offre una politica famigliare più ampia e completa di quella della maggior parte degli altri paesi; ma anche la Francia che, seppur cugina d’oltralpe, si distingue dal contesto italiano per i suoi generosi sussidi alle famiglie con figli, tra cui quelli alle madri che vogliono prendersene cura stando a casa. Dagli anni ‘30, il governo sociodemocratico svedese, suggerendo che decrescenti tassi di natalità fossero il risultato di fattori economici, iniziò a sussidiare le famiglie e attuò politiche sociali che incentivassero maternità e occupazione. Basandosi sulla logica di divisione dei costi dei figli tra famiglia e stato, dal 1996, le autorità municipali sono obbligate ad offrire servizi ai bambini tra un anno e mezzo e sei anni e a garantire assistenza prima e dopo scuola. Il sistema di tassazione svedese copre inoltre l’85% dei costi del lungo congedo parentale, mentre il governo ne finanzia il rimanente 15%. In Francia, è piuttosto l’approccio cristiano-democratico a delineare le strategie, riconoscendo la famiglia come un’istituzione chiave, con un ruolo centrale della donna. La politica familiare francese ha introdotto il primo congedo parentale nella legislazione del 1913, affiancato, dagli anni ’30, da un esteso sistema di assistenza infantile: i bambini, infatti, sono considerati sia un bene privato che pubblico, i cui costi e responsabilità sono suddivisi tra famiglia e stato. Le risorse destinate oggi dal governo al settore familiare sono circa il 10% delle spese di welfare. Dal 1975, le allocations familiales rappresantano il principale sussidio monetario, destinato a tutte le famiglie con piu’ di un figlio - in linea con la politica pronatalista francese - , indipendentemente dal reddito ed esenti da tassazione. Contrariamente al sistema pensionistico, le politiche familiari non hanno subito tagli negli ultimi 20 anni. Sebbene gli investimenti nei servizi all’infanzia non siano aumentati, le spese pubbliche in sussidi monetari sono notevolmente cresciute. Nelle famiglie in cui entrambi i genitori lavorano, 7 bambini su 10 sono in un asilo nido, in un asilo, o ricevono cura sussidiata – baby sitter o altri aiuti - . Non va poi dimenticata la generosa politica di assistenza alle famiglie con il solo marito impiegato. Con la mobilitazione femminile degli anni ’70, stato e imprese hanno investito in asili nido, centri di ricreazione giovanile e campi estivi per i figli dei lavoratori; sono stati creati registri per le babysitter per aumentare l´offerta di servizi all´infanzia; e il supporto dello stato alle madri lavoratrici è diventato esplicito. Tutte politiche familiari che in Italia stentano ancora a prendere piede…▲ PER APPROFONDIRE: CEI (2011), Il cambiamento demografico, Editori Laterza. OECD (2011), Doing Better for Families, (www.oecd.org/social/family/doingbetter) ISTAT (2011), Noi Italia. 100 Statistiche per capire il paese in cui viviamo (http://noi-italia.istat.it/) Cronache e Opinioni - gennaio/febbraio 2012 31 di Franca Landucci Università Cattolica di Milano Lavoro: aspetto qualificante della vita umana ▼ Nel mondo moderno, nato dalla cosiddetta Rivoluzione industriale che, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX, portò ad un sistema economico caratterizzato dall’uso generalizzato di macchine mosse da fonti energetiche, il ‘lavoro’, genericamente inteso come attività dalla quale il “prestatore d’opera” ricava il necessario alla vita propria e della propria famiglia, è considerato un aspetto qualificante della vita umana, che merita rispetto e tutela, tanto che anche l’art. 1 della nostra Costituzione afferma che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. All’interno di questa nobile concezione del lavoro, noi distinguiamo tra lavoro ‘autonomo’, minoritario e tipico dei ceti imprenditoriali e dei liberi professionisti, e lavoro ‘dipendente’, maggioritario e legato all’idea della ‘dipendenza’ del prestatore d’opera da un datore di lavoro (privato e/o pubblico), il quale eroga un salario, in cambio, appunto, di una ‘prestazione d’opera’. Se, dunque, oggi il lavoro dipendente può essere considerato come la normale forma di attività, nella società classica greca e romana la situazione era molto diversa: il lavoro dipendente era visto come una forma di subordinazione del tutto inaccettabile per un libero cittadino, perché imponeva l’obbligo di ‘obbedire’ al proprio datore di lavoro, che poteva organizzare la vita dei suoi dipendenti, a prescindere dalle loro stes- 32 Cronache e Opinioni - gennaio/febbraio 2012 Pompei: pittura murale se esigenze, costringendoli ad una vita tipica degli schiavi. Ma anche le attività artigianali e commerciali non godevano di buona fama nel mondo greco – romano: l’artigiano sembrava essere “al servizio” dei clienti per i quali fabbricava i suoi prodotti, mentre il commerciante era schiavo delle esigenze del mercato, che ne condizionava pesantemente l’attività. L’unico lavoro “adatto” a un uomo libero era il lavoro agricolo, che non veniva considerato neppure un vero e proprio mestiere, ma una forma naturale di attività umana. Quello del piccolo contadino proprietario, che esprimeva la propria libertà e indipendenza anche attraverso l’autosufficienza economica, era, sia in Grecia che a Roma, il modello sociale ideale del cittadino antico. Questa concezione pesantemente negativa del lavoro in genere e del lavoro manuale in particolare ebbe pesanti conseguenze sulla politica nel mondo antico: la politica attiva, infatti, era riservata a quei proprietari terrieri che avevano la possibilità di organizzare in maniera autonoma la propria vita e potevano così dedicarsi al servizio pubblico. I nullatenenti, chiamati teti ad Atene o proletari a Roma, erano di fatto considerati cittadini di serie B e solo attraverso lunghe (e spesso sanguinose) lotte civili ottennero di partecipare alla vita politica della loro patria, anche se quasi sempre al seguito di personaggi di origine aristocratica, che naturalmente fondavano la loro ricchezza nella proprietà fondiaria. Dato che il lavoro manuale, lungi dal nobilitare gli uomini, li abbrutiva in una fatica (ponos in greco e labor in latino) che toglieva loro il tempo, la forza e il desiderio di dedicarsi ad attività superiori, anche la cultura era riservata a coloro che, come i proprietari terrieri, erano liberi dall’obbligo di un lavoro diuturno: la libertà dal lavoro (scholé in greco, otium in latino) era dunque alla base di tutte le attività proprie della classe dirigente, che della propria indipendenza, economica e sociale, era gelosa e occhiuta custode. In conclusione, possiamo affermare che nel mondo classico solo il lavoro del proprietario terriero era socialmente qualificante e degno del cittadino, che di questa sua ricchezza era anche valoroso difensore: i proprietari terrieri, infatti, si armavano a proprie spese e, come soldati di fanteria pesante, combattevano contro coloro che minacciavano la loro terra, patrimonio prezioso e inalienabile della comunità. ▲ dalla Caritas in Veritate (63) Che cosa significa la parola “decenza” applicata al lavoro? un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale opera di Donata Dal Molin un lavoro che, in ogni società, sia l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna Cronache e Opinioni - gennaio/febbraio 2012 33 dalla Laborem Exercens (10, 19, 25) “Il lavoro è il fondamento su cui si forma la vita familiare, la quale è un diritto naturale ed una vocazione dell’uomo”. “Il giusto salario è la concreta verifica della giustizia di tutto il sistema socio-economico e del suo giusto funzionamento... è la verifica chiave”. “...la famiglia è, al tempo stesso, una comunità resa possibile dal lavoro e la prima interna scuola di lavoro per ogni uomo”. “...l’uomo, creato a immagine di Dio, mediante il suo lavoro partecipa all’opera del Creatore”. Vorremmo un lavoro che... Il lavoro che manca, o è precario in maniera eccedente ogni ragionevole parametro, è motivo di angoscia per una parte cospicua delle famiglie italiane. Questa angoscia è anche nostra: sappiamo infatti che nel lavoro c’è la ragione della tranquillità delle persone, della progettualità delle famiglie, del futuro dei giovani. Vorremmo quindi che niente rimanesse intentato per salvare e recuperare posti di lavoro. Vorremmo che si riabilitasse anche il lavoro manuale, contadino e artigiano. Vorremmo che gli adulti non trasmettessero ai figli atteggiamenti di sufficienza o disistima verso lavori dignitosi e tuttavia negletti o snobbati. Vorremmo che il denaro non fosse l’unica misura per giudicare un posto di lavoro. Vorremmo che i lavoratori non fossero lasciati soli e incerti rispetto ai cambiamenti necessari e alle ristrutturazioni in atto. Vorremmo che gli imprenditori si sentissero stimati e stimolati a garantire condizioni di sicurezza nell’ambiente di lavoro e a reinvestire nelle imprese i proventi delle loro attività. Vorremmo che tutti i cittadini sentissero l’onore di contribuire alle necessità dello Stato, e avvertissero come peccato l’evasione fiscale. Vorremmo che il sindacato, libero mentalmente, fosse sempre più concentrato nella difesa sagace e concreta della dignità del lavoro e di chi lo compie, o non riesce ad averne. Vorremmo che le banche avvertissero come preminente la destinazione sociale della loro impresa e di quelle che ad esse si affidano. Vorremmo che scattasse da subito tra le diverse categorie un’alleanza esplicita per il lavoro che va non solo salvato, ma anche generato. Vorremmo che i giovani, in particolare, avvertissero che la comunità pensa a loro e in loro scorge fin d’ora il ponte praticabile per il futuro. Card. Angelo Bagnasco Prolusione all’Assemblea generale dei Vescovi (Roma, 23 maggio 2011) 34 Cronache e Opinioni - gennaio/febbraio 2012