8 marzo 2012 - Centro Italiano Femminile

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8 marzo 2012 - Centro Italiano Femminile
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8 marzo
duemila12
famiglia lavoro economia politica
per una nuova Italia e una nuova Europa nel mondo
A. Boatto, Donne a concilio, 1996 (particolare)
Cronache e Opinioni - gennaio/febbraio 2012
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di Vera Zamagni Università di Bologna
Gotico. Intarsio in legno, particolare tratto dalla porta della Sacrestia di Sant’Anastasia, Verona
Pari lavoro, pari salario
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▼ Era il 1975 quando l’Unione Europea adottò le prime direttive sulla “parità di genere”, su denuncia di un’hostess della
compagnia aerea nazionale belga che non accettava di essere pagata meno dei colleghi maschi. Fino ad allora, si era dato per scontato che le donne dovessero essere remunerate meno degli uomini,
anche a parità di lavoro. La discriminazione derivava dall’assunto
che le donne fossero meno preparate e meno disponibili, ma anche
dalla commisurazione del salario alla sussistenza (le donne consumano meno e dunque è giusto che siano pagate meno!) e dal diverso ruolo svolto in famiglia (l’uomo era capo-famiglia e per questo
doveva ricevere un bonus). Nel trentennio che ci separa dal 1975,
molte cose si sono enormemente accelerate, ma altre sono rimaste
desolatamente indietro. Ciò che soprattutto è cambiato, in positivo,
è l’istruzione delle donne, che oggi in Italia (come in altri paesi
avanzati) si qualificano mediamente di più dei maschi: nel 2009/10
la percentuale di laureati maschi sulla classe d’età di 25 anni era in
Italia del 33,2%, mentre era del 51,5% per le femmine, normal-
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mente con una carriera accademica di
maggiore successo. A questo mutamento non ha fatto seguito un adeguato utilizzo dei talenti e della professionalità
delle donne. Infatti, il tasso di occupazione delle donne è passato in Italia solo dal 33%, nel 1979, al 47%, nel 2009;
un livello tra i 15 e i 30 punti percentuali al di sotto di quello dei paesi avanzati
(la media della UE è al 62,5%, ancora
distante dagli obiettivi desiderati). Va ricordato tuttavia che abbiamo in Italia
una variabilità geografica grande, che
vede le regioni del Centro-Nord 10 punti percentuali sopra la media (l’EmiliaRomagna si attesta al 63%, valore uguale alla media europea), mentre le regioni del Sud si collocano 10 punti percentuali sotto la media italiana (la Calabria
è al 31%).
Quanto alle differenze retributive, stimate al 18% nella UE a parità di
lavoro, in Italia non sono fra le più accentuate (si stimano pari a un 12%).
Tale divario è oggi solo marginalmente
dovuto a differenze di salario/stipendio
base: sono le mansioni, gli straordinari,
i bonus che fanno la vera differenza. Se
poi il confronto si fa non per lavori simili, ma su tutti i lavori, il divario aumenta notevolmente, perché i lavori “tipicamente femminili” (lavori di cura, di pulizia, di insegnamento, di counselling,
di segreteria) sono considerati meno
qualificati e sono meno remunerati. Le
opportunità di guadagno dunque sono
ancora oggi molto più a portata di lavoratori maschi, anche perché le donne devono impiegare mediamente il doppio
degli uomini in incombenze di carattere domestico/famigliare.
Ma il vero dramma sta nella progressione ascensionale delle carriere:
le donne sono affette da “soffitti di cristallo” e da “pareti di amianto”, secondo le più recenti definizioni, che impediscono la mobilità verticale. Le donne
manager sono in Italia solo il 20% del
totale, ma non più del 10% in posizioni davvero apicali; le donne presenti
nei consigli di amministrazione sono il
7% del totale (ma solo il 3,5%, se si
escludono le imprese familiari).
Perché? Non è facile rispondere a questa domanda in poco spazio. Farò un
elenco dei principali motivi, senza tentarne una compiuta elaborazione: 1) le
condizioni di lavoro che confliggono
pesantemente con gli impegni familiari
(le famose riunioni alle ore 18 di sera;
le spedizioni fuori sede a breve notifica); 2) la diversa sensibilità delle donne sul lavoro (più cooperative e meno
competitive e dunque meno portate a
spingere per aumenti salariali e di grado); 3) la mancanza di sicurezza in se
stesse (risultato della storia di isolamento in cui sono vissute in passato,
ma anche di un’errata educazione che
non le abitua alla responsabilità); 4)
una minore propensione ai compromessi (un maggiore senso dell’equità);
5) le reti di fiducia declinate al maschile (il capo maschio si fiderà di più dei
suoi old friends); 6) una diversa abitudine al comando (si pensi quanto gli
eserciti hanno insegnato agli uomini in
questo campo). I soffitti di cristallo e le
pareti di amianto sono ormai stati riconosciuti come ostacoli talmente insormontabili singolarmente (se non in casi eccezionali), che si è, in molti paesi,
passati alle azioni “positive”.
Le famose “quote rosa”, che in
passato erano state viste come segno di
debolezza, una concessione alla incapacità delle donne di emergere da sole, vengono ora introdotte con una logica ben diversa: rompere un circolo vizioso che risultava ormai cristallizzato. Il 29 giugno 2011 anche in Italia è stata approvata la legge che impone ai
consigli di amministrazione delle società quotate in borsa o a partecipazione pubblica, una rappresentanza femminile pari a 1/5 nel
2012 e a 1/3 nel 2015 (in altri paesi sono stati ancora più drastici).
Ma le “azioni positive” non basteranno, se non saranno accompagnate da due fondamentali cambiamenti culturali.
Il primo, e più importante, è quello dell’educazione: le bambine vanno educate alla responsabilità e alla costanza; i maschi vanno educati alla collaborazione e al rispetto. Il secondo cambiamento riguarda l’organizzazione del lavoro, che era stata modellata sulla famiglia “specializzata” in cui l’uomo si dedicava interamente al
lavoro e lasciava la famiglia alla donna. Se ora tutti gli adulti lavorano, occorre rimodulare i ritmi di lavoro, per permettere alla vita
non di lavoro (particolarmente quella della famiglia) di non scomparire, con nocumento grande per la felicità delle persone e per la
stessa continuità della stirpe umana. È ora di smettere di costringere le donne ad una scelta “tragica” – lavoro o famiglia – quando le
condizioni economiche e culturali permettono di costruire una convivenza armoniosa tra le due fondamentali espressioni della vita
umana.▲
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di Alessandra Perrazzelli Avvocato, Responsabile Affari Regolamentari e Antitrust Internazionali
Intesa Sanpaolo; CEO di Intesa Sanpaolo Eurodesk; Presidente di Valore D.
Leadership
femminile
▼ Tra gli assunti oggi più largamente condivisi dai decisori politici europei rientra senz’altro quello per cui
l’uscita dalla crisi economica e la ripresa del processo di crescita passano necessariamente attraverso la piena valorizzazione delle competenze del talento
femminile in tutti i settori e a tutti i livelli del mondo produttivo.
Pari indipendenza economica,
pari retribuzione per lo stesso lavoro (e
lavoro di pari valore) e Parità nel processo decisionale sono 3 punti cardine
non solo della Strategia Europea per la
parità tra donne e uomini 2010-2015,
ma anche di quella per la crescita e della relativa iniziativa-faro Un’agenda per
nuove competenze e per l’occupazione,
che si propone l’obiettivo del 75% di
occupati nella fascia d’età 20-64 anni
entro il 2020. Considerando che i tassi
di occupazione maschile e femminile
ammontano rispettivamente al 75 e al
62,5% e che appena il 3% dei CEO
(Chief executive officer) europei è donna, è chiara la necessità di sostenere con
decisione l’impiego femminile, in particolare nelle posizioni di maggiore responsabilità e in un regime di parità salariale e di uguale opportunità di carriera rispetto alla popolazione maschile.
Il nostro paese, con un’occupazione femminile ferma al 46%, un tasso di part-time involontario più che
doppio rispetto alla media europea
(42,7% contro 22,3%) e il 76,7% del la-
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sfide e
voro familiare a carico delle donne, si colloca tra i più arretrati
d’Europa in ambito di parità di genere, ma l’attenzione sul problema ha raggiunto in questi mesi i suoi massimi storici e ci sono segnali incoraggianti.
A tale proposito, prendendo spunto dalla giornata di studi
Leadership femminile: politiche e strategie per aumentare la
competitività e innovare il sistema Italia, promossa, nell’ambito
del Quinto Forum Cultura d’Impresa, da 24OreFormazione, vorrei soffermarmi sull’esperienza di Valore D – la prima associazione di grandi imprese italiane impegnate nella promozione del
talento femminile ai livelli apicali che ho l’onore di presiedere e
che, fondata nel 2009, riunisce oggi 59 grandi aziende decise a
mettere il talento femminile al centro della propria agenda di crescita economica.
Come ampiamente documentato dagli studi “Women
Matter” di McKinsey, promuovere l’occupazione e le progressioni
di carriera delle donne significa accelerare le performance aziendali, non solo a livello di gestione interna, ma anche intercettando
più efficacemente l’enorme fetta di mercato data dal potere d’acquisto femminile: un mercato in crescita costante e non solo nei
paesi dell’occidente. A tal fine, è necessario che le imprese acquisiscano – e mettano a fattore comune – le conoscenze e gli strumenti più adatti a valorizzare e gestire i propri talenti femminili,
risultati
cosi, ad esempio, pescando tra le buone pratiche presentate dalle nostre
aziende associate, apparirà fondamentale sviluppare nuove forme di flessibilità – oltre al part-time, meccanismi più
personalizzati come la banca delle ore,
la flessibilità in entrata e in uscita, il telelavoro ecc. - ma anche incoraggiare
un più generale cambiamento di cultura d’impresa volto ad associare la progressione di carriera ai risultati ottenuti piuttosto che al tempo effettivamente
passato in ufficio. A facilitazioni come
gli asili nido, i servizi di concierge, o
gli incentivi economici, andranno affiancate formazioni mirate (tanto in
termini di skill building che a livello di
mentorship), adatte al ruolo e alle potenzialità delle dipendenti, ma anche ai
responsabili delle risorse umane.
Apparirà inoltre fondamentale favorire
il networking, lo scambio di esperienze
all’interno e all’esterno dell’azienda e
le attività di comunicazione e consapevolizzazione, in particolare
del top management.
Se vogliamo però raggiungere la parità in ambito lavorativo e
arrivare a un vero e proprio cambiamento culturale, bisognerà che le
azioni promosse dal mondo industriale vengano affiancate e completate da adeguate politiche di sostegno pubblico. A questo proposito
vorrei soffermarmi sullo studio di Andrea Ichino (Università di
Bologna) e Alberto Alesina (Harvard University) “Un dito tra moglie
e marito”, sponsorizzato da Valore D e volto ad indagare gli equilibri
lavorativi su un campione costituito da 1005 coppie rappresentative
della popolazione italiana (campione ISPO) e 241 coppie in cui almeno un partner è in posizione dirigenziale (campione manager).
Secondo la ricerca, le donne lavorano in casa circa 41 ore alla settimana contro le 19,7 dei mariti, le ore scendono a 24,5, nel
caso delle donne manager, contro le 13,8 degli uomini, il che significa che complessivamente, cioè sommando le ore di lavoro domestico a quelle di lavoro retribuito, le donne del campione IPSO lavorano in media 30 minuti in più al giorno rispetto ai mariti, e le
donne manager addirittura 40 minuti in più, per un totale di 67 ore
lavorative in settimana (contro le 63,8 degli uomini).
Il carico di lavoro domestico incide negativamente sul contributo femminile al reddito familiare (inferiore del 40% a quello
maschile o, nel caso delle donne manager, del 16%), né gli uomini
si dimostrano inclini ad accettare compromessi di fronte ad occasioni lavorative irrinunciabili per la propria compagna. Per ogni ora
di lavoro in più del partner la donna aumenta il lavoro in casa di 17
minuti, che diventano appena 4 a rapporti invertiti; inoltre, mentre
gli uomini non sono disposti a lavorare meno guadagnando meno,
le donne esitano se mai a lavorare di più per guadagnare di più.
La vera novità della ricerca, tuttavia, sta nel fatto che le donne
si dichiarano consapevoli di questa situazione, lamentando tanto il gap
retributivo quanto il disequilibrio nella ripartizione dei carichi familiari: esse risultano in media meno soddisfatte del lavoro rispetto al proprio compagno, ma tale insoddisfazione si riduce visibilmente nel
campione manager e si annullerebbe in un contesto di maggior equilibrio familiare. La soluzione suggerita da Alesina-Ichino consisterebbe nell’introduzione di aliquote mirate, ovvero in una minore tassazione del reddito femminile e delle aziende che lo favoriscono, il che porterebbe naturalmente a un aumento del potere contrattuale delle donne in famiglia e dunque, con ogni probabilità, ad un maggior impegno
dei partner uomini nelle attività di cura e gestione domestica. Tale
maggiore impegno potrebbe quindi accelerare il cambiamento della
cultura della famiglia italiana, contribuendo a portare su un piano di
parità e condivisione il patto tra le donne e gli uomini che vogliono investire sul futuro della famiglia e delle proprie personali ambizioni,
senza rinunciare all’una o alle altre. ▲
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di Alessandra Dell’Omo
Talento, volontà,
desiderio, aspirazione
▼ L’etimologia di un termine aiuta a ricostruire le
immagini che vengono richiamate con il suo utilizzo.
Originariamente il talento, in latino talentum, dal greco tàlanton, altro non era che il piatto della bilancia. In seguito,
per estensione semantica, la parola ha assunto anche il significato di peso posto sulla bilancia.
Si è aggiunto qualcosa quando, qualche secolo fa, s’intendevano con lo stesso vocabolo la volontà, il desiderio, l’aspirazione. Da questo trae origine il legame simbolico tra desiderio e ingegno, che oggi tendiamo ad attribuire al talento.
Una buona definizione di talento non si identifica con il genio, ovvero l’espressione smisurata di una eccellenza settoriale, ma tiene conto di una molteplicità di caratteristiche e di
esperienze personali e sociali che lo rendano un concetto
complesso, dinamico, ricco di valori e di significati possibili.
Abitiamo un mondo caratterizzato da continui mutamenti e
incertezze, dove si è sempre più impegnate a ri-pensare e a ridisegnare la propria cultura e le proprie azioni. In questo contesto, la figura della donna è chiamata a percorrere strade insolite, a volte sconnesse, giocando un ruolo primario come
catalizzatrice di nuovi modi di vivere e facilitatrice del cambiamento.
Le dimensioni della “pluralità” e della “trasversalità”
investono completamente la figura femminile: donna, madre,
moglie, sorella, amica, lavoratrice, in ogni ruolo un talento.
Ritrovata la possibilità soggettiva, di scegliere chi essere,
ognuna di noi oggi può stabilire se, dove e come realizzare i
suoi talenti. Spesso si corre il rischio di identificare una donna di talento in una donna realizzata professionalmente, che
ha saputo fare della sua abilità un merito socialmente riconosciuto.
Peccato che questa appaia come una definizione sbrigativa e semplicistica. Parlare di donne e lavoro equivale ad
accendere i riflettori su un tema di cui oramai si parla da molti anni: quella della forza lavoro femminile, che è un movimento imponente, è una rivoluzione economica e insieme
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culturale, ma è soprattutto una delle maggiori opportunità per le nostre economie. Avere più donne nei luoghi di lavoro, nelle posizioni apicali
delle aziende, pubbliche e private, non è più solo
una questione di equità, ma è anche il riconoscere l’esistenza di una leva che molti paesi, a cominciare dall’Italia, hanno trascurato in questi
anni. Se i diritti delle donne sono riconosciuti per
legge, oggi continuano ad esserci disparità e difficoltà. Ha ragione il Presidente della Repubblica
Napolitano, quando sostiene che le donne in
Italia, ancora adesso, vivono uno squilibrio di genere troppo ampio, dove siamo ancora lontani da
un traguardo di parità: nel lavoro, nel reddito e
nella carriera, nelle Istituzioni.
Parlare del binomio donna-lavoro
automaticamente significa considerare il
tema della famiglia, dell’assistenza ai figli e ai genitori: compiti che ricadono
prevalentemente sulle spalle delle donne, imponendo loro scelte non facili e
spesso costose nel lungo termine. Le politiche di conciliazione, il sostegno alle
famiglie, la definizione di un welfare più
sensibile al ruolo delle lavoratrici sono
temi cui la politica e la società dovranno
guardare con sempre maggiore attenzione. Le opportunità di lavoro e professionali per noi donne sono notevolmente
aumentate e non possiamo negarlo, tuttavia rimangono ancora retaggi difficili
da superare, un’eredità culturale pesantemente subìta e alimentata da atteggiamenti poco disponibili.
Gli elementi vanno riscontrati
nella mentalità e negli stereotipi: il lavoro di una donna (soprattutto se moglie) è
considerato aggiuntivo a quello del marito che resta comunque il capofamiglia.
La fase critica della carriera lavorativa
coincide molto spesso con una fase critica anche della vita personale, la creazione della famiglia, i bambini ancora piccoli; in Italia la maternità, si associa ad
una caduta dell’occupazione femminile
e il numero dei figli amplifica l’effetto.
Molte donne lasciano il lavoro alla nascita dei figli, per quelle che rimangono,
la carriera è spesso rallentata o bloccata;
quando i bambini diventano grandi, le
difficoltà di conciliazione diminuiscono
e le donne potrebbero tornare in corsa,
ma spesso è troppo tardi, soprattutto se
l’età è avanzata. In Italia si parla tanto di
famiglia, ma, in realtà, la si aiuta pochissimo, vista anche la carenza di servizi a
sostegno della prima infanzia. Inoltre,
servirebbe una maggiore flessibilità contrattuale per le giovani mamme, nonché
più donne nei luoghi di rappresentanza,
c’è bisogno di una maggiore valorizza-
zione delle energie e delle competenze femminili in tutti i campi e potenziare le nuove tecnologie per superare le barriere spazio-temporali
e amplificare le opportunità (es. il telelavoro), occorre un nuovo “patto” tra uomini e donne nella divisione del lavoro familiare. Per quanto riguarda il legame tra lavoro femminile e performance è scientificamente e statisticamente dimostrato che quando le donne sono in
gruppi di lavoro, apportano progresso, competitività e ottimi risultati.
La chiamano womenomics, che è il neologismo coniato dagli analisti
di scienze dell’economia per definire la corrente economica che individua nel lavoro delle donne uno degli elementi determinanti nelle dinamiche di crescita di un paese. La figura femminile è oggi ritenuta
capace di fare la differenza, fino a diventare motore trainante di sviluppo del sistema socio-economico nel quale è inserita. Le donne, sono ritenute capaci di organizzare pensieri e progetti in modo più sistematico e svolgere con successo più compiti contemporaneamente, determinate e abituate alla gestione degli imprevisti e con quella dose di
sensibilità in più che spesso può fare la differenza. Agli indiscutibili
vantaggi dell’impiego di personale femminile derivanti dalle caratteristiche proprie delle donne, si aggiunge la necessità di far fronte all’emergenza forza lavoro, che si prospetta nel prossimo futuro, risolvibile attraverso l’utilizzo di gruppi di popolazione oggi non sufficientemente impiegati, per i quali è necessario creare condizioni favorevoli di attivo coinvolgimento. Attenzione però: non si tratta di una gara
con gli uomini o peggio ancora contro di loro, non si sta discutendo di
rivendicazioni, ma di una democrazia paritaria, di un’uguaglianza di
genere, del giusto riconoscimento sulla base del talento e del merito.
In questi tempi dove c’è una crisi che investe in modi diversi tutti, è
necessario fare in modo che uomini e donne possano contribuire e
cooperare insieme per un futuro possibile e sereno. ▲
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di Giulia Rivellini e Valeria Bordone Università Cattolica di Milano
Politiche familiari:
esempi a cui guardare
▼ Le trasformazioni nell’inten-
sità (quanto) e nella cadenza (quando)
di fenomeni quali la fecondità, la nuzialità e la stessa mortalità, talvolta sfuggono a chi si limita a cogliere la realtà
demografica con la lente dell’osservazione ravvicinata, anno dopo anno. E
farsi sfuggire tali trasformazioni o, allo
stesso modo, mettersi nelle condizioni
di non coglierle né prevederle, non è
buona cosa. Lo dimostrano le pagine
del Rapporto-Proposta “Il cambiamento demografico” a cura del Comitato
per il progetto culturale della
Conferenza Episcopale Italiana con l’obiettivo di rendere tutti, persone e famiglie, consapevoli delle problematiche
di popolazione.
Si presenta così l’occasione per
farsi tre domande: cosa vuol dire governare un cambiamento demografico?
Cosa si intende per demografia sostenibile secondo la linea presentata nel volume Rapporto – Proposta ? Ed infine,
guardando al contesto europeo, come
mai alcuni paesi si trovano ora in condizioni demografiche meno critiche
delle nostre?
Sulla scia delle riflessioni maltusiane, in epoca moderna l’idea di controllare il cambiamento demografico si
è tradotta in due principali visioni politiche. La prima, di origine francese, si è
costruita sulla convinzione che un’attiva regolazione della popolazione passi
attraverso una politica demografica na-
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zionale. E’ lo Stato che deve attivarsi per sostenere la natalità. Nel
tempo tale orientamento ha subito un indebolimento, con l’introduzione di maggiori libertà di scelta individuale e puntando su una
politica attiva delle pari opportunità di genere, soprattutto sul mercato del lavoro. A questa stessa visione hanno aderito anche i paesi scandinavi, rafforzandola ulteriormente. La seconda è invece tipicamente anglosassone, nata in Inghilterra e diffusasi nel Nord
America. Essa si appoggia non tanto sullo Stato, quanto piuttosto
sulla società civile, con i suoi movimenti sociali e culturali. Oggi,
l’atteggiamento politico è ancora diverso. Quasi tutti i paesi, specie quelli lowest-low fertility (con una fecondità inferiore all’1,5 figli per donna) sono preoccupati delle conseguenze future e si adoperano per creare un clima favorevole ad una scelta libera e consapevole delle coppie.
Ed è questo il messaggio positivo da intravedere nell’espressione “governare il cambiamento demografico” ovvero intervenire
affinché si crei un contesto sociale, economico e culturale adeguato ad uno sviluppo “sostenibile” di una popolazione. La sostenibilità in senso demografico è allora associabile al sostegno della natalità e del processo di transizione allo stato adulto dei giovani, alla ricerca di un’integrazione anche sociale e culturale, degli immigrati, ad una più equa distribuzione delle risorse tra le generazioni,
al favorire una stabilità relazionale entro la coppia e tra le generazioni e a vivere una vita lunga e sana (cfr. CEI, 2011).
Guardando ora alla realtà europea, si ritrovano paesi come
Francia, Svezia e Norvegia con livelli di fecondità ben sopra la soglia della lowest-low fertility (1,99; 1,94; 1,98), con un tasso di
partecipazione femminile al mercato del lavoro considerevolmente sopra il livello medio rilevato tra i paesi OCSE (Organizzazione
per la cooperazione e lo sviluppo economico) (60%, 72% e 74%),
o ancora con un indice di vecchiaia molto diverso da quello italiano (per la Francia si registra l’89,4% contro il 143,1% dell’Italia).
Non c’è dubbio che, con riferimento all’idea di sostenibilità
demografica, la situazione di tali paesi appaia meno critica della
nostra. Proviamo allora a capire perché ritornando sul tema delle
politiche di sostegno al “metter su famiglia”, soggette a variazioni
nel tempo e tra paesi.
Da una visione globale emergono la Svezia, che offre una politica famigliare più ampia e completa di quella della maggior parte degli altri paesi;
ma anche la Francia che, seppur cugina
d’oltralpe, si distingue dal contesto italiano per i suoi generosi sussidi alle famiglie con figli, tra cui quelli alle madri che vogliono prendersene cura stando a casa.
Dagli anni ‘30, il governo sociodemocratico svedese, suggerendo che
decrescenti tassi di natalità fossero il
risultato di fattori economici, iniziò a
sussidiare le famiglie e attuò politiche
sociali che incentivassero maternità e
occupazione. Basandosi sulla logica di
divisione dei costi dei figli tra famiglia
e stato, dal 1996, le autorità municipali sono obbligate ad offrire servizi ai
bambini tra un anno e mezzo e sei anni
e a garantire assistenza prima e dopo
scuola. Il sistema di tassazione svedese
copre inoltre l’85% dei costi del lungo
congedo parentale, mentre il governo
ne finanzia il rimanente 15%.
In Francia, è piuttosto l’approccio cristiano-democratico a delineare
le strategie, riconoscendo la famiglia
come un’istituzione chiave, con un
ruolo centrale della donna. La politica
familiare francese ha introdotto il primo congedo parentale nella legislazione del 1913, affiancato, dagli anni ’30,
da un esteso sistema di assistenza infantile: i bambini, infatti, sono considerati sia un bene privato che pubblico, i
cui costi e responsabilità sono suddivisi tra famiglia e stato. Le risorse destinate oggi dal governo al settore familiare sono circa il 10% delle spese di
welfare. Dal 1975, le allocations familiales rappresantano il principale sussidio monetario, destinato a tutte le famiglie con piu’ di un figlio - in linea con
la politica pronatalista francese - , indipendentemente dal reddito ed
esenti da tassazione. Contrariamente al sistema pensionistico, le
politiche familiari non hanno subito tagli negli ultimi 20 anni.
Sebbene gli investimenti nei servizi all’infanzia non siano aumentati, le spese pubbliche in sussidi monetari sono notevolmente cresciute. Nelle famiglie in cui entrambi i genitori lavorano, 7 bambini su 10 sono in un asilo nido, in un asilo, o ricevono cura sussidiata – baby sitter o altri aiuti - . Non va poi dimenticata la generosa
politica di assistenza alle famiglie con il solo marito impiegato. Con
la mobilitazione femminile degli anni ’70, stato e imprese hanno investito in asili nido, centri di ricreazione giovanile e campi estivi
per i figli dei lavoratori; sono stati creati registri per le babysitter
per aumentare l´offerta di servizi all´infanzia; e il supporto dello
stato alle madri lavoratrici è diventato esplicito.
Tutte politiche familiari che in Italia stentano ancora a prendere piede…▲
PER APPROFONDIRE:
CEI (2011), Il cambiamento demografico, Editori Laterza.
OECD (2011), Doing Better for Families, (www.oecd.org/social/family/doingbetter)
ISTAT (2011), Noi Italia. 100 Statistiche per capire il paese in cui viviamo
(http://noi-italia.istat.it/)
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di Franca Landucci Università Cattolica di Milano
Lavoro: aspetto qualificante
della vita umana
▼ Nel mondo moderno, nato
dalla cosiddetta Rivoluzione industriale
che, tra la fine del XVIII e l’inizio del
XIX, portò ad un sistema economico
caratterizzato dall’uso generalizzato di
macchine mosse da fonti energetiche, il
‘lavoro’, genericamente inteso come attività dalla quale il “prestatore d’opera”
ricava il necessario alla vita propria e
della propria famiglia, è considerato un
aspetto qualificante della vita umana,
che merita rispetto e tutela, tanto che
anche l’art. 1 della nostra Costituzione
afferma che “l’Italia è una Repubblica
democratica fondata sul lavoro”.
All’interno di questa nobile concezione del lavoro, noi distinguiamo tra
lavoro ‘autonomo’, minoritario e tipico
dei ceti imprenditoriali e dei liberi professionisti, e lavoro ‘dipendente’, maggioritario e legato all’idea della ‘dipendenza’ del prestatore d’opera da un datore di lavoro (privato e/o pubblico), il
quale eroga un salario, in cambio, appunto, di una ‘prestazione d’opera’. Se,
dunque, oggi il lavoro dipendente può
essere considerato come la normale
forma di attività, nella società classica
greca e romana la situazione era molto
diversa: il lavoro dipendente era visto
come una forma di subordinazione del
tutto inaccettabile per un libero cittadino, perché imponeva l’obbligo di ‘obbedire’ al proprio datore di lavoro, che
poteva organizzare la vita dei suoi dipendenti, a prescindere dalle loro stes-
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Pompei: pittura murale
se esigenze, costringendoli ad una vita tipica degli schiavi. Ma anche le attività artigianali e commerciali non godevano di buona fama nel mondo greco – romano: l’artigiano sembrava essere “al servizio” dei clienti per i quali fabbricava i suoi prodotti, mentre il
commerciante era schiavo delle esigenze del mercato, che ne condizionava pesantemente l’attività.
L’unico lavoro “adatto” a un uomo libero era il lavoro agricolo, che non veniva considerato neppure un vero e proprio mestiere, ma una forma naturale di attività umana. Quello del piccolo
contadino proprietario, che esprimeva la propria libertà e indipendenza anche attraverso l’autosufficienza economica, era, sia in
Grecia che a Roma, il modello sociale ideale del cittadino antico.
Questa concezione pesantemente negativa del lavoro in genere e del lavoro manuale in particolare ebbe pesanti conseguenze
sulla politica nel mondo antico: la politica attiva, infatti, era riservata a quei proprietari terrieri che avevano la possibilità di organizzare in maniera autonoma la propria vita e potevano così dedicarsi al servizio pubblico.
I nullatenenti, chiamati teti ad Atene o proletari a Roma,
erano di fatto considerati cittadini di serie B e solo attraverso lunghe (e spesso sanguinose) lotte civili ottennero di partecipare alla
vita politica della loro patria, anche se
quasi sempre al seguito di personaggi
di origine aristocratica, che naturalmente fondavano la loro ricchezza nella proprietà fondiaria.
Dato che il lavoro manuale, lungi dal nobilitare gli uomini, li abbrutiva in una fatica (ponos in greco e labor
in latino) che toglieva loro il tempo, la
forza e il desiderio di dedicarsi ad attività superiori, anche la cultura era riservata a coloro che, come i proprietari terrieri, erano liberi dall’obbligo di
un lavoro diuturno: la libertà dal lavoro (scholé in greco, otium in
latino) era dunque alla base di tutte le attività proprie della classe
dirigente, che della propria indipendenza, economica e sociale, era
gelosa e occhiuta custode.
In conclusione, possiamo affermare che nel mondo classico
solo il lavoro del proprietario terriero era socialmente qualificante e
degno del cittadino, che di questa sua ricchezza era anche valoroso
difensore: i proprietari terrieri, infatti, si armavano a proprie spese
e, come soldati di fanteria pesante, combattevano contro coloro che
minacciavano la loro terra, patrimonio prezioso e inalienabile della
comunità. ▲
dalla Caritas in Veritate (63)
Che cosa significa la parola “decenza” applicata al lavoro?
un lavoro che lasci
uno spazio sufficiente
per ritrovare le
proprie radici a
livello personale,
familiare e spirituale
opera di Donata Dal Molin
un lavoro che, in ogni
società, sia
l’espressione della
dignità essenziale
di ogni uomo
e di ogni donna
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dalla Laborem Exercens (10, 19, 25)
“Il lavoro è il fondamento su cui si forma la vita
familiare, la quale è un diritto naturale ed una
vocazione dell’uomo”.
“Il giusto salario è la concreta verifica della
giustizia di tutto il sistema socio-economico e del
suo giusto funzionamento... è la verifica chiave”.
“...la famiglia è, al tempo stesso, una comunità resa
possibile dal lavoro e la prima interna scuola di
lavoro per ogni uomo”.
“...l’uomo, creato a immagine di Dio, mediante il
suo lavoro partecipa all’opera del Creatore”.
Vorremmo
un lavoro che...
Il lavoro che manca, o è precario in maniera eccedente ogni
ragionevole parametro, è motivo di angoscia per una parte
cospicua delle famiglie italiane. Questa angoscia è anche
nostra: sappiamo infatti che nel lavoro c’è la ragione della
tranquillità delle persone, della progettualità delle famiglie,
del futuro dei giovani.
Vorremmo quindi che niente rimanesse intentato per salvare e recuperare posti di lavoro. Vorremmo che si riabilitasse anche il lavoro manuale, contadino e artigiano.
Vorremmo che gli adulti non trasmettessero ai figli atteggiamenti di sufficienza o disistima verso lavori dignitosi e tuttavia negletti o snobbati.
Vorremmo che il denaro non fosse l’unica misura per giudicare un posto di lavoro. Vorremmo che i lavoratori non
fossero lasciati soli e incerti rispetto ai cambiamenti necessari e alle ristrutturazioni in atto.
Vorremmo che gli imprenditori si sentissero stimati e stimolati a garantire condizioni di sicurezza nell’ambiente di
lavoro e a reinvestire nelle imprese i proventi delle loro attività. Vorremmo che tutti i cittadini sentissero l’onore di contribuire alle necessità dello Stato, e avvertissero come peccato l’evasione fiscale.
Vorremmo che il sindacato, libero mentalmente, fosse
sempre più concentrato nella difesa sagace e concreta della
dignità del lavoro e di chi lo compie, o non riesce ad averne.
Vorremmo che le banche avvertissero come preminente la
destinazione sociale della loro impresa e di quelle che ad
esse si affidano.
Vorremmo che scattasse da subito tra le diverse categorie
un’alleanza esplicita per il lavoro che va non solo salvato,
ma anche generato. Vorremmo che i giovani, in particolare,
avvertissero che la comunità pensa a loro e in loro scorge fin
d’ora il ponte praticabile per il futuro.
Card. Angelo Bagnasco
Prolusione all’Assemblea generale dei Vescovi
(Roma, 23 maggio 2011)
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Cronache e Opinioni - gennaio/febbraio 2012