Premio Grotta di Tiberio per la Musica

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Premio Grotta di Tiberio per la Musica
Comune di Sperlonga e Provincia di Latina
Soprintendenza archeologica per il Lazio
Con il patrocinio del Senato della Repubblica, della Camera dei Deputati,
della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero per i Beni
e le Attività culturali, della Presidenza del Consiglio Regionale del Lazio
Comitato d’onore:
Antonio Maccanico
Leopoldo Elia
Giuseppe Vegas
Decennale della Settimana culturale di Sperlonga
e del Premio Grotta di Tiberio
Cinquantennale della scoperta della Grotta
1998-2007
a cura di
Giacomo di Raimo
con la collaborazione di
Daniela Ciotola
Valentina Fratini
In copertina: Ruggero Savinio
«Conversazione a Sperlonga»
(dipinta per il Premio Grotta di Tiberio 1998);
nella seconda aletta di copertina: foto di N. di Raimo 2007;
nel frontespizio: «L’accecamento di Polifemo», disegno di Bruno Caruso, 1996
(logo del Premio Grotta di Tiberio);
nell’apertura delle sezioni: particolare della foto
«Orme» di N. di Raimo, 2008.
Progetto grafico di Giacomo di Raimo
in collaborazione con Maria Antonietta Cordanti
© maggio 2008
Proprietà letteraria riservata al Comune di Sperlonga
È vietata qualsiasi riproduzione di testi e di fotografie
Indice
Presentazioni
Armando Cusani
Antonio Maccanico
Leopoldo Elia
Giuseppe Vegas
Giacomo di Raimo
Colloquio tra due cittadini (onorari) di Sperlonga
di Francesco Sabatini
Celebrazione del decennale delle manifestazioni culturali di Sperlonga
p.
IX
XI
XIII
XIII
XV
XVI
XXIII
- 6 luglio 2007, Antica Chiesa: saluto del Sindaco Rocco Scalingi
Celebrazione del cinquantennale della scoperta della Grotta di Tiberio XXVII
- 8 settembre 2007, Antica Chiesa: conversazione di Bernard Andreae
(L’imperatore Tiberio e la Grotta di Sperlonga)
Parte I
Arte
mostre ed antologia critica
Premessa di Daniela Ciotola
2
1. Premio Grotta di Tiberio per le arti figurative
4
2. Mostre d’arte ordinate per siti espositivi:
- Torre Truglia
- Museo archeologico nazionale
- Sala consiliare del Comune; Antica Chiesa
28
36
82
Parte II
Poesia e musica
Premessa di Giacomo di Raimo
91
93
V
1. Premio Grotta di Tiberio per la poesia
94
2. Sulle tracce di Ulisse:
Civiltà corsara nel Mediterraneo (Odissea XIV),
Marcello Gigante
Ulisse e le figure femminili dell’Odissea, Bernard Andreae
Ulisse nella poesia moderna, Piero Boitani
102
3. Premio Grotta di Tiberio per la musica
124
4. Esecuzioni musicali:
- complessi per musica da camera
- complessi orchestrali
- bande musicali
- cicli e rassegne musicali
130
138
142
143
103
109
114
Parte III
Le altre manifestazioni
culturali di Sperlonga
VI
145
Premessa di Valentina Fratini
147
1. Incontri sperlongani
(convegni, colloqui e conversazioni ordinati per aree tematiche)
148
A archeologia, storia e letteratura
- dal convegno dell’8-9 settembre 2000:
I Greci e gli «altri» nel Mediterraneo, Federica Cordano
I paesaggi odissiaci, Licia Borrelli Vlad
- dal convegno del 6 settembre 2002:
La Grotta di Tiberio e il problema del Laocoonte,
Bernard Andreae
Riflessioni sul Laocoonte, Salvatore Settis
148
B ambiente e cultura
- Le lingue nazionali e la comunicazione globale (2001),
Francesco Sabatini
- dal convegno dell’8 settembre 1999:
L’architettura come bene ambientale, Emilio Garroni
Evoluzione urbana, nuclei originari e contesti ambientali,
Francesco Cellini
- Evoluzione ed architettura (2007), Roberto de Rubertis
181
C istituzioni giuridiche e ordinamenti costituzionali
- dal convegno del 2 settembre 2000:
204
151
157
166
173
183
186
194
199
Premessa di Giovanni Conso
Il ruolo ambiguo della Cassazione tra legittimità e merito,
Mario Morelli
Giudice ordinario e giudice amministrativo: giurisprudenze parallele?, Paolo Stella Richter
- Stato, mercato e esternalizzazione dei servizi pubblici (2001),
Carlo Pace
206
209
213
215
D politica, economia e società
- dal convegno del 10 settembre 2004:
L’identità culturale europea, Antonio Gambino
Integrazione europea e democrazia, Domenico Fisichella
- dal colloquio del 4 settembre 2007:
Immigrazione e assimilazione nell’Impero romano,
Alessandro Barbero
Intervento di sintesi di Armando Cusani
221
2. Mostre foto-documentarie
250
3. Spettacoli cinematografici e teatrali
- Cinema documentario
- Che cos’è il cinema documentario (2000), Luigi Di Gianni
- Cinema storico
- Recite teatrali
254
255
256
257
258
4. Premio Grotta di Tiberio
260
5. Riconoscimento di merito al cittadino sperlongano
268
222
231
237
245
Regolamento e organigramma delle manifestazioni culturali
di Sperlonga
271
Elenco degli artisti presentati nella antologia di note critiche
276
Elenco degli autori dei testi presenti nel volume
277
VII
Presentazioni
È stato sempre mio desiderio poter fare di Sperlonga, insediata in uno stupendo
scenario naturale che si completa con la Grotta di Tiberio e i resti dell’arte ellenistica, un centro in cui paesaggio ed archeologia, turismo e cultura si unissero armonicamente. L’ inserimento di manifestazioni culturali, soprattutto nel periodo
estivo, ne arricchisce l’ immagine ed offre possibilità di incontri e di conoscenze ai
non residenti e ai cittadini sperlongani. Eletto Sindaco accolsi la proposta di un
articolato programma culturale, integrato con la mia idea di un Premio più qualificato e selettivo rispetto all’antico Premio Polifemo. Nacquero così la Settimana
culturale e il Premio Grotta di Tiberio e si determinò una sinergia perfetta alla
quale portai una cura costante e l’appoggio dell’Amministrazione comunale, ben
consapevole dell’esigenza di tenere le manifestazioni fuori da interessi o indirizzi
politici al fine della loro continuazione nel tempo. Giacomo di Raimo recò la sua
capacità di scegliere persone e programmi, un estro e una tenacia che ne hanno
fatto il valido artefice del decennio culturale.
Furono create strutture autonome all’ insegna di un rigoroso volontariato, ricercati sponsor e contributi finanziari oltre quello, di necessità limitato, offerto dal
Comune. Le mostre di massimi artisti italiani, gli incontri su temi di grande interesse ed attualità, i concerti di musica classica, il cinema documentario e storico
hanno costituito con il Premio il binario percorso dal 1998 al 2007. Il concludersi
del decennio segna il momento utile per una riflessione e un rilancio.
Il volume qui presentato accompagna, con altre iniziative, la ricorrenza decennale ed insieme quella dei cinquanta anni dalla scoperta della Grotta di Tiberio. I due anniversari si congiungono poiché l’ istituzione soprattutto del Premio,
nell’autunno del 1997, da parte del nuovo Consiglio comunale volle essere il modo
più durevole per festeggiare nel tempo l’ importante ritrovamento archeologico.
Armando Cusani
Presidente della Provincia di Latina
IX
Sperlonga,
Donne al Porto
(foto G. di Raimo, 1969).
X
Conoscevo da tempo e stimavo Giacomo di Raimo allorchè mi invitò nel 1998
non solo a far parte del Comitato d’onore delle manifestazioni culturali di Sperlonga, appena istituite, ma anche ad essere relatore in un convegno su un tema
ancor oggi di grande attualità: “La difficile transizione politico-costituzionale”.
Mi ritrovai quella volta in compagnia di amici (Antonio Gambino, Carlo Pace,
Pietro Scoppola e Giuseppe Vegas) anch’essi relatori e partecipai poi ad un altro
importante convegno, nel 2001. In tali occasioni ho conosciuto il promotore di
queste manifestazioni, il Sindaco Cusani di cui apprezzai la prontezza intellettuale e l’ impegno posto nel seguire i programmi culturali in totale adesione e
sostegno allo straordinario organizzatore Giacomo di Raimo. Può affermarsi che
senza un pieno sostegno e senza una vera passione organizzativa ed una grande versatilità culturale non si sarebbe giunti all’ impensabile traguardo dei dieci
anni, conservando inalterata ed anzi incrementando la varietà, la ricchezza e
sopratutto la qualità delle numerose iniziative.
Presento dunque assai volentieri la sintesi dei programmi realizzati a Sperlonga nel decennio 1998-2007. Condivido l’opportunità della pubblicazione a fini
non solo documentari. La riproposizione anche esemplificativa di testi che hanno
un sicuro e permanente interesse ci restituisce, tra l’altro, il piacere, il sapore delle
manifestazioni sperlongane.
Antonio Maccanico
Senatore della Repubblica
XI
Sperlonga,
Marina verso la Grotta di Tiberio
(foto G. di Raimo, 1969).
XII
Sperlonga felix! Non bastano la beltà paesaggistica, la spiaggia e il mare tanto
attraenti, il museo nazionale e la grotta di Tiberio: c’ è anche la cerise sur le
gâteau, che nobilita l’estate sperlongana trascendendo l’occasione vacanziera con
iniziative culturali, ormai consolidate per un decennio, come attesta il volume che
ora presentiamo.
Questa pubblicazione documenta l’alto livello degli interventi negli incontri annuali e la eccellente qualità delle mostre e delle manifestazioni musicali. Merito
indubbio della tenacia e della meditata progettazione di Giacomo di Raimo, che
al disinteresse personale assoluto unisce una forte e moderna sensibilità culturale.
Certamente egli ha trovato sindaci della città che hanno saputo apprezzare il valore
delle iniziative: ed è da questa convergenza tra ispirazione ed attuazione che la manifestazione si è radicata e tende vitalmente a riprodursi negli anni a venire.
Leopoldo Elia
Presidente emerito della Corte Costituzionale
Ho frequentato Sperlonga negli anni novanta e assistito al nascere e allo svilupparsi delle manifestazioni culturali partecipando ad alcune di esse. Ora il volume
ci pone davanti agli occhi il panorama ricchissimo dei primi dieci anni di iniziative e comprova l’attività ammirevole dell’Amministrazione di Sperlonga che ha
saputo avvalersi delle persone giuste per i suoi fini culturali. Ed è assai positivo che
in una località così favorevole a momenti di relax e di riposo estivo si siano create
utili occasioni di riflessioni, di dibattito, di approfondimenti di vera cultura, una
“piccola Atene” per usare le stesse parole di Armando Cusani.
Giuseppe Vegas
Senatore della Repubblica
XIII
Tramonto sulla spiaggia dell’Ángolo
(foto M. Bernardi, 2006).
XIV
Questo volume risponde all’esigenza di avere, a conclusione del decennio culturale, una traccia organizzata, un compendio delle iniziative realizzate che costituisca una memoria e insieme un utile testo di raffronti e suggerimenti per il futuro. Gli eventi umani sono storia, poiché si compiono, si modificano e si consumano
nel tempo, e la storia va poi raccontata. Franco Purini ha detto, nel colloquio sul
paesaggio di Sperlonga, che il senso di una comunità è dato non tanto da ciò che
avviene quanto dalla narrazione che ne viene fatta, da ciò che, condiviso o non
condiviso, entra a far parte di un patrimonio per tutti disponibile.
Accettando di curare personalmente la pubblicazione non immaginavo le infinite
difficoltà che avrei incontrato. Un compendio deve essere uno specchio fedele dei molti
programmi attuati e quindi una loro elencazione completa; ma anche, nella misura
possibile, la riproposizione di testi degli incontri sperlongani (convegni, colloqui e conversazioni) e di note alle mostre e ai concerti, con il corredo di foto relative ai dipinti
esposti e ai diversi momenti delle manifestazioni. Una riproduzione totale era irrealizzabile se non altro per la mole del materiale, dinanzi, ad esempio, solo per le mostre
d’arte e per gli incontri, a circa sessanta note critiche e centoventi testi di relazioni,
interventi e conversazioni.
Entrato nell’ottica di una robusta selezione, ho dato risalto alle manifestazioni
di arte, di poesia e di musica, così conferendo al volume un carattere peculiare che
lo annoda al mondo poetico e mitico di Sperlonga. Nell’ultima parte è contenuta,
insieme ai riepiloghi di tutte le altre iniziative, un’ampia e significativa scelta di testi
degli incontri che si aggiungono a quelli anticipati nelle parti precedenti.
Nel colloquio che segue tra due cittadini (onorari) di Sperlonga, a cura del professor
Francesco Sabatini, si rivisitano i momenti di avvio delle manifestazioni culturali, se
ne riconsiderano le linee dei programmi.
Ringrazio Daniela Ciotola e Valentina Fratini, che hanno collaborato alla
redazione del volume, e Alessandra Tuccinardi che ha condotto la ricerca di documenti, opuscoli e foto nell’archivio del Comune e altrove rendendo disponibile
gran parte del materiale necessario.
Giacomo di Raimo
XV
Colloquio tra due cittadini (onorari) di Sperlonga
di Francesco Sabatini *
Se qualcuno chiedesse di te, Giacomo di Raimo, a Sperlonga avrebbe una risposta immediata e gli verrebbe forse anche indicato dove trovarti. Se chiedesse di me,
probabilmente cadrebbero dalle nuvole, anche se il mio nome, come il tuo, compare
sulle pergamene che elencano i cittadini onorari nell’anticamera del Sindaco. Si
capisce: alcune iniziative prese insieme fecero sì che i buoni sperlongani mi inserissero tra i benemeriti della cittadina. Ma tu hai scelto Sperlonga come tua seconda
città, non solo perché ci vieni abitualmente in vacanza, ma perché da dieci anni ti
prodighi a farvi vivere manifestazioni culturali che animano assai la stagione estiva.
Dieci anni sono molti: come ha potuto resistere la tua iniziativa? Deve aver trovato
il terreno fertile, forse soprattutto un Sindaco che la condivideva.
Quando si delineò in tutte le sue parti, il progetto era già una iniziativa
comune, mia e del Sindaco Armando Cusani. Appena eletto nel 1997 egli
mi chiese di redigergli una proposta completa dei programmi culturali di cui
avevamo spesso parlato in precedenza. Lo feci prontamente e nel settembre
la Giunta comunale approvò le due manifestazioni, la Settimana culturale di
Sperlonga e il Premio Grotta di Tiberio. Redatto il Regolamento che traduceva in regole i punti della mia proposta, mi preoccupai di riempire gli organici
delle strutture previste.
Ma per rispondere meglio alla tua domanda devo fare un passo indietro.
L’idea di manifestazioni culturali a Sperlonga ad ampio raggio (non solo convegni, ma anche arte, musica, cinema e così via) mi era venuta intorno al 1994
circa partecipando all’attività dell’Associazione culturale Torre Truglia. Avevo
tentato di far modificare lo statuto dell’associazione per ampliarne i programmi limitati per lo più a conferenze nel campo medico. Non riuscendovi cercai
altre soluzioni. Dal canto suo Armando Cusani coltivava già in quegli anni
in cui era assessore comunale il proposito di far vivere a Sperlonga un Premio
culturale che facesse seguito al Premio Polifemo gestito in epoca precedente dal signor Tavani. Innovandone peraltro la fisionomia: non un premio a
pioggia, elargito casualmente e senza limitazione di settori come il precedente,
bensì una manifestazione significativamente correlata ai due aspetti essenziali
di Sperlonga, l’archeologia e il paesaggio.
* Professore emerito di Storia della Lingua italiana nella Università degli Studi “Roma Tre”,
Presidente dell’Accademia nazionale della Crusca.
XVI
Come si è sviluppata la struttura delle manifestazioni culturali e in che misura
coincideva con quella propria dell’Amministrazione comunale?
Nella prima configurazione del Regolamento il sistema era ispirato ad
una notevole autonomia formale delle strutture rispetto alla Amministrazione comunale, temperata dal potere comunale di nomina e di revoca dei
componenti della Commissione organizzatrice che costituiva la struttura
centrale. La Commissione provvedeva alla programmazione delle manifestazioni, eleggeva il Comitato scientifico per il Premio Grotta di Tiberio
nonché il Segretario amministrativo, organo distinto ma dipendente dalla
Commissione al quale era affidata la tenuta degli atti e del fondo costituito
dai contributi pubblici e privati. E, soprattutto, deliberava direttamente la
spesa nei limiti del fondo. La prospettiva era quella di pervenire ad una sorta
di associazione tra gli enti sostenitori anche per rendere più sicuri e stabili i
contributi diversi da quelli del Comune. Il sistema cambiò già dopo il primo
anno cioè nel 1999.
Perché cambiaste sistema?
Per motivi diversi: difficoltà concrete (la mancanza di un ufficio e di personale di segreteria) e il ritardo nella costituzione dell’ente associativo che
potesse percepire direttamente i contributi che affluivano al Comune. Inoltre
la crescente convinzione, mia e del Sindaco, che la gestione contabile, come
già si stava facendo, dovesse rimanere in mani comunali per un maggior filtro della spesa. Tenuto anche conto dell’eccessivo affollarsi di incombenze in
capo alla Commissione organizzatrice, questa fu scissa in due organismi: il
Collegio culturale, deputato alla programmazione delle manifestazioni, e il
Comitato operativo con il compito della realizzazione pratica dei programmi.
Nel contempo si attribuì la tenuta degli atti e la gestione dei contributi ad
un ufficio comunale previsto nel Regolamento e posto alle dipendenze del
Segretario comunale. Il principio applicato fu che qualsiasi soggetto cui fosse
affidata la programmazione o la cura di una iniziativa culturale dovesse inviare a tale ufficio preventivi di spesa che venivano previamente approvati dagli
organi preposti o dal Sindaco. Il Comitato scientifico mutò solo il proprio
nome in quello di Commissione scientifica.
Ricordo che nell’estate del 2001, una delle volte in cui tornai a Sperlonga, tu
avevi mutato qualifica: eri Presidente non più della Commissione organizzatrice
bensì del Collegio culturale. Attualmente la tua qualifica è ancora cambiata ed è
quella di Supervisore culturale.
La qualifica di Supervisore della Settimana culturale e del Premio Grotta
di Tiberio è stata introdotta a far capo dalla penultima stagione per sollevarmi in parte dall’impegno organizzativo troppo gravoso che mi ero assunto.
Furono enucleati dalla figura del Presidente del Collegio culturale alcuni
XVII
Sperlonga
dalla Grotta di Tiberio,
(foto T. Hauge, 2007).
XVIII
poteri di vertice, quali quelli di supervisione e di coordinamento generale, di
impulso alla Commissione scientifica e di garanzia del regolare svolgimento
delle attività collegiali. Nell’esercizio dei suoi poteri il Supervisore può chiedere al Collegio culturale un riesame del programma delle manifestazioni
della Settimana culturale e partecipa come componente di diritto ai lavori
della Commissione scientifica.
C’ è stata una minore indipendenza sostanziale in questi dieci anni rispetto a
quanto formalmente configurato all’ inizio?
Non è così. Le autorità politiche comunali non hanno mai interferito sui
programmi e l’apposito ufficio comunale non è mai andato oltre la valutazione contabile della compatibilità della spesa con il fondo posto a disposizione. Nella mia esperienza ho avuto in Armando Cusani un partner di
eccezione, cui si riconoscono intelligenza, capacità di attenzione e sensibilità
politica. Egli voleva che le manifestazioni si svolgessero senza soste e nel
modo migliore, come servizio reso al suo paese: ma, pur partecipandovi con
assiduità, si è sempre astenuto da ingerenze o anche solo da suggerimenti
che potessero creare difficoltà agli organizzatori. Alle manifestazioni, come
hai potuto vedere, hanno preso parte numerose persone di sponda politica
opposta a quella del Sindaco; e ciò è stato reso possibile proprio dalla autonomia delle strutture.
Cusani ha certamente le qualità che tu dici. Ma la varietà dei settori culturali
interessati dalle manifestazioni risente della tua versatilità e del tuo spirito di
coerenza. Le dorsali della Settimana culturale, appaiono chiaramente da questo
volume: le mostre d’arte, i concerti di musica, il cinema e gli incontri. Di questi –
si tratti dei veri convegni, che sono stati dodici, o dei più brevi colloqui susseguenti
– abbiamo la non completa documentazione che forniscono gli eleganti “Quaderni” che hai allestito. Altrettanta testimonianza delle tue competenze hanno dato
le mostre d’arte, che hanno proposto artisti e critici di grido, e i concerti, campo
in cui si manifesta una tua ben nota passione, guidata da gusto di raffinato intenditore. Vorrei fare una carrellata dei temi che sono stati offerti al pubblico
degli incontri. Temi che affioravano da tutte le fonti che alimentano la nostra
coscienza del presente, e che a volte si collegavano al contesto specifico di Sperlonga: l’archeologia, il mondo omerico, il paesaggio. E dunque si è ascoltato
e parlato di vita politica e civile del nostro paese immerso in una transizione
costituzionale o europea purtroppo non avvenute, di globalizzazione, del modificarsi del nostro sistema amministrativo, degli effetti delle nuove tecnologie di
comunicazione, di immigrazione, di identità dell’Occidente europeo. E tutto
per bocca di relatori eccellenti, che non sta a me nominare. Mi accorgo che non
abbiamo parlato del Premio Grotta di Tiberio.
Non vi furono incertezze nel definire i due settori primari di conferimento del Premio, l’archeologia e il paesaggio-ambiente, che si alternano annual-
XIX
mente. Qualche dubbio riguardò i premi complementari. Furono identificate nel Regolamento due aree omogenee, quella della letteratura e delle arti
figurative e quella della saggistica e delle opere della comunicazione e della
divulgazione. Nella prima area sono state da poco inserite l’architettura e
la musica. L’assegnazione dei premi avviene attraverso il lavoro preparatorio
di Sottocommissioni con la partecipazione di insigni esperti. Oltre a questa
manifestazione il Regolamento prevede una attribuzione di riconoscimenti
di esclusivo rilievo cittadino, rientrante nella Settimana culturale: quella di
cittadinanze emerite cioè di attestazioni a cittadini sperlongani che si siano
distinti nel mondo della cultura o di attività imprenditoriali, professionali
e sociali. La relativa Giuria viene composta in parte con cittadini di Sperlonga.
Partecipando alle riunioni delle Sottocommissioni, ti ho visto sempre presente
come indispensabile motore. Ma torniamo ai nomi più significativi che hanno
tenuto alto il prestigio delle Settimane di Sperlonga, mi fa piacere farmeli tornare
alla memoria.
I grandi relatori, i grandi artisti formano una nutrita schiera ed il volume ne fornisce prova. Ma credo che tu ti riferisca piuttosto a coloro che
hanno fatto parte delle strutture o contribuito alla organizzazione delle
manifestazioni. Sono per lo più studiosi noti e perciò ometto le qualifiche
accademiche. Direi anzitutto Paolo Stella Richter che presiede dal 1998
la Commissione scientifica, Licia Borrelli, Alfonso Maccanico e Agostino
Ziino che seguono il lavoro delle Sottocommissioni. Poi la Soprintendente
archeologica per il Lazio Anna Maria Reggiani che, nel 1999, ci concesse
la disponibilità del Museo nazionale anche per le mostre d’arte; e insieme
la Direttrice del Museo Nicoletta Cassieri, intelligente e attenta interlocutrice. Dai componenti nel tempo del Collegio culturale, di cui è ora
presidente Sandro Amorosino, e da quelli delle strutture operative (attualmente il Comitato operativo è coordinato da Alessandra Faiola) sono venuti apporti rilevanti e così pure da collaboratori e consulenti esterni, tra i
quali Luigi Di Gianni, Roman Vlad e Claudio Zambianchi. La mancanza
di spazio mi impedisce di nominare tutti e di dire di ognuno il personale
contributo. Chiudendo vorrei ricordare tre illustri scomparsi che hanno
dato molto e con grande entusiasmo alle nostre manifestazioni e ci hanno
lasciato un ricordo non cancellabile: Carlo Pace, Nino Abbate e Marcello
Gigante.
XX
Sperlonga,
vicolo del centro storico,
(foto G. Giardino, 2007).
XXI
Sperlonga 1960.
(Coll. G. Giardino).
XXII
Celebrazione del decennale
delle manifestazioni culturali di Sperlonga
6 luglio 2007, Antica Chiesa: saluto del Sindaco Rocco Scalingi.
Saluto i presenti e con particolare piacere Monsignor Pablo Colino che
partecipa a questo nostro incontro. Vorrei che si ripetesse l’occasione di un
concerto per riaverlo tra noi a Sperlonga. Egli è venuto per unirsi al Quartetto Bernini nella esecuzione della musica di Haydn “Le Sette ultime parole di Gesù sulla Croce”. Davanti a voi, alle mie spalle, è la bella immagine
della Crocifissione del pittore Piero Guccione.
Con il 2007, la Settimana culturale e il Premio Grotta di Tiberio compiono dieci anni di vita e la rassegna musicale di luglio celebra questa ricorrenza. A guardare al 1998, primo anno delle manifestazioni culturali di
Sperlonga, si rimane stupiti per la lunghezza del cammino compiuto e più
ancora per il numero e la molteplicità delle iniziative realizzate. Ho rivisto
stamane l’elenco: 37 concerti di musica; 21 mostre d’arte; 24 tra convegni,
colloqui e conversazioni; 3 mostre foto-documentarie; 18 spettacoli di cinema e teatro; 33 Premi Grotta di Tiberio attribuiti.
Non è poco ed è noto il nome di chi ha ideato e guidato tutto questo.
Ma insieme a Giacomo di Raimo dobbiamo ringraziare allo stesso modo il
Presidente Armando Cusani che ha voluto nel 1997 l’istituzione di queste
manifestazioni partecipandovi poi con la sua sensibilità e la sua intelligenza.
Essi hanno fatto di Sperlonga un luogo di vivaci dibattiti e iniziative culturali e ad entrambi va la nostra riconoscenza.
Nelle manifestazioni culturali hanno avuto un ruolo importante eminenti
personalità. Vedo presenti il professor Alfonso Maccanico, il professor Sandro
Amorosino, il dottor Giuseppe Ammassari e l’ingegner Franco Velonà. Li
ringrazio con quanti hanno collaborato per la buona riuscita delle nostre iniziative, in prima linea il professor Paolo Stella Richter, presidente della Commissione scientifica per il Premio Grotta di Tiberio. Voglio anche ringraziare la signora Alessandra Tuccinardi che ha mantenuto dall’inizio l’incarico
dell’apposito ufficio comunale ed è stata un prezioso punto di riferimento per
tutti, tenendo le fila dei rapporti esterni e la complessa gestione contabile.
Infine è per me assai triste richiamare alla nostra memoria Enzo Fusco,
morto nel mese scorso, che, prima di assumere la carica di vicesindaco ed
anche in tale veste, partecipò attivamente alla realizzazione delle Settimane
culturali.
XXIII
Grotta di Tiberio (foto S. Massotti, 2007).
Auspico che il fervido decennio trascorso
possa proseguire senza rallentamenti e con
uguale lena. Non desidero sottrarre tempo
alla consegna dei riconoscimenti di merito
ed al concerto del Quartetto Bernini. Rammento solo che sono state disposte altre due
iniziative per festeggiare il decennale: un volume sull’architettura moderna di Sperlonga,
a complemento della mostra che apre a giorni in questa chiesa, e un volume compendio
delle manifestazioni che comprenderà anche
quelle di quest’anno.
XXIV
Resti della Villa di Tiberio (foto T. Hauge, 2007).
XXV
Iscrizione all’ingresso
del Museo archeologico,
(foto G. Giardino, 2007).
XXVI
Celebrazione del cinquantennale
della scoperta della Grotta di Tiberio
8 settembre 2007, Antica Chiesa: conversazione di Bernard Andreae *
L’imperatore Tiberio e la Grotta di Sperlonga
Il 12 settembre 1998 ho ricevuto qui a Sperlonga il Premio Grotta di
Tiberio per l’archeologia nel primo anno della sua istituzione. Sono ancora gratissimo e ringrazio il Comune di Sperlonga e il Sindaco di allora
Armando Cusani per aver voluto una così bella manifestazione che rende
evidente il vincolo di Sperlonga con il suo territorio mitico. Sono grato
anche a Giacomo di Raimo che definì il progetto della manifestazione e
ne è rimasto il fervido organizzatore. Oggi ricorre non solo il decennale
della istituzione del Premio Grotta di Tiberio ma anche il cinquantennale
del ritrovamento delle sculture della grotta. Fu un evento straordinario ed
emozionante, particolarmente per me che, nel momento della scoperta, per
fortunata coincidenza, trascorrevo una vacanza al Monte Circeo. Vidi l’improvviso passaggio di un elicottero e conosciutane la ragione, mi precipitai
sul posto poco distante, conobbi Jacopi ed esaminai i primi reperti. Così
– casualmente, ma forse non per caso – iniziò la mia passione archeologica
per la Grotta di Tiberio. Si posero subito infinite questioni esegetiche e
cronologiche insieme a quelle di restauro e di ricostruzione dei frammenti
lapidei. Non desidero soffermarmi su questo argomento assai noto e la mia
conversazione riguarderà le ragioni personali che diedero vita da parte di Tiberio ad una veramente unica decorazione di una grotta naturale. Traccerò
un quadro più ampio rispetto agli accenni già fatti in occasione di convegni
delle Settimane culturali.
L’imperatore Tiberio (42 a.C. - 37 d.C.) aveva la necessità di legittimarsi
attraverso la sua origine familiare. Come figlio di Claudius Nero Drusus e di
Livia Drusilla, tutti e due discendenti della gens Claudia, era membro della
più alta e antica aristocrazia romana.
La gens Claudia aveva dato alla repubblica non meno di ventotto consoli,
più di qualsiasi altra. Gli aristocratici per convinzione e regola erano contro
la monarchia. Il fondatore della famiglia, Attus Clausus, nel 510 a.C., – durante la guerra con i Sabini – con tutto il suo clan aveva lasciato il territorio
intorno al lago Regillus, ai piedi dei monti Albani, presso Tusculum, per aiu* Già professore ordinario di Archeologia nelle Università degli studi di Bochum e Marburgo e Direttore dell’Istituto Archeologico Germanico.
XXVII
Sperlonga, Museo nazionale: il gruppo di Scilla, (foto G. Giardino, 2007).
Gruppo di Scilla: volto del timoniere (foto B. Andreae).
XXVIII
tare i Romani nella cacciata dell’ultimo re, Tarquinio Superbo, e nella fondazione della repubblica. Da allora i Romani avevano una legge severissima.
Chi avesse mirato alla monarchia sarebbe caduto sotto la sanzione della pena
di morte.
Ma Tiberio, nel 4 d.C., come figlio adottivo di Cesare Augusto, era divenuto membro della gens Julia, e dopo la morte del padre adottivo, fu scelto dal
Senato come successore e Princeps. Tiberio chiese trenta giorni di tempo per
riflettere. Infine accettò.
Per capire meglio in quale modo Tiberio convinse se stesso ed anche
alcuni senatori probabilmente titubanti, conviene chiedersi per quale motivo egli fece costruire in luoghi precisi le tre ville, dove egli trascorse la
massima parte del tempo del suo regno. Questi luoghi hanno un significato evidente: la prima villa era situata in agro tuscolano, presso l’odierna
Frascati, la seconda, il Praetorium cui speluncae nomen est, presso l’odierna Sperlonga. Infine, dopo la caduta dei massi nella grotta di Sperlonga,
Tiberio si recò per sempre nella Villa Jovis, la Villa di Giove, sull’isola di
Capri.
La prima villa, quella tuscolana (Tuscolanum), collega Tiberio al capostipite
storico Attus Clausus. Dalla balaustra di questa villa Tiberio poteva vedere il
lago Regillus, intorno al quale, in epoca preistorica, si erano insediati i Sabini
della gens Claudia, che, come abbiamo detto, durante la guerra dei Romani
contro i Sabini si erano trasferiti a Roma.
La seconda villa si trovava a Sperlonga, in agro fundano, cioè nel territorio di Fondi. Di questa città a sud di Terracina, allora nel Latium adiectum,
un territorio che di solito si annoverava ancora alla Campania, era oriunda
la madre Livia, che, come il suo primo marito e padre di Tiberio, faceva
parte della gens Claudia. Il luogo preciso della villa era ai piedi del monte
Cianitto al lato sud-est del Sinus Amyclanus, cioè del golfo di Amiclae, dirimpetto al Monte Circeo. Questo promontorio all’altro lato del golfo, che
visto da Sperlonga ha l’aspetto di un’isola, era la mitica isola Aiaia, dove
Circe aveva regalato a Ulisse un figlio, a cui, in confronto al figlio di Penelope, Telemachos, cioè “chi combatte lontano”, era stato dato il nome di
Telegonos, cioè “nato lontano”. Telegonos era il mitico fondatore di Tusculum,
il che significa, che gli abitanti di Tusculum, e tra loro anche Attus Clausus,
lo venerarono come capostipite. Per tale motivo Tiberio si riteneva un discendente di Telegonos e tramite lui di Ulisse, che nella quinta generazione
era un discendente di Zeus, il padre degli Dei. Per ciò stesso l’imperatore
Tiberio nel Grande Cammeo di Francia viene rappresentato con l’Aegis sulle
ginocchia, come Giove sulla terra.
Soltanto sulla base di questa supposizione si può intendere il programma
iconologico della villa di Sperlonga. Si tratta di una scena parlante, quale si
presenta alle persone sdraiate sullo stibadium, cioè il triclinio della piccola isola eretta nella vasca rettangolare davanti alla grotta. Da qui la scena appariva
popolata da sculture di marmo, che agivano come esseri mitici, viventi su un
naturale palcoscenico.
XXIX
Sperlonga,
Museo archeologico,
frammento del gruppo
del ratto del Palladio,
(foto B. Andreae).
XXX
In tre gruppi sono rappresentati le imprese di Ulisse davanti a Troia. A sinistra egli porta
in salvo il cadavere e le armi di
Achille; a destra insieme con
Diomede rapisce il simulacro
della dea Atena, il Palladio, che
proteggeva e rendeva inespugnabile la città; in fondo a sinistra insieme a Diomede convince Filottete a lasciare l’Isola di
Lemno e ad andare a Troia, per
uccidere, con le frecce infallibili di Ercole, Paride, il difensore
della città. Secondo Ovidio, nel
tredicesimo libro delle Metamorfosi (versi 282-285, 337-353,
399-404), sono questi i tre fatti
che conducono alla distruzione
di Troia, i cosiddetti fatalia troiana.
Gli altri due gruppi, cioè
l’accecamento di Polifemo e il
passaggio della nave di Ulisse
tra Scilla e Cariddi, sono episodi essenziali del ritorno di Ulisse. Circe aveva suggerito a Ulisse di provare a superare lo stretto tra Scilla e
Cariddi, perché riteneva più pericolosa l’altra via provata da Giasone tra le
petrai planctai, le rocce incombenti: come racconta di nuovo Ovidio, “sola
trascorse via di là la nave Argo celebrata da tutti ritornando dalla terra Eeta.
E certo i flutti l’avrebbero sbattuta rapidamente contro le grandi rocce. Ma
Era la spinse oltre, poiché le era caro Giasone”. Ulisse non poteva imitarlo,
perciò dovette superare Scilla, anche “se il mostro con ogni testa ghermisce
un uomo”, come si vede nel gruppo scultoreo centrale.
A sinistra della scultura relativa al passaggio tra Scilla e Cariddi dentro la
grotta è rappresentata la prua di una nave sagomata nella roccia. In una iscrizione a mosaico, conservata al Museo, si legge NAVIS ARGO, e nella terza
riga segue l’abbrevazione PH. Non esiste una interpretazione di questa sigla
migliore di quella proposta da Giulio Jacopi: che essa sia l’abbreviazione delle
parole navis haemonia, come il solo Ovidio (Ars amatoria I,6) poeticamente
definisce la Navis Argo. La barca emonia è la nave degli Argonauti, dal nome
della regione della Tessaglia da cui si tagliavano i pini per le navi. Il mosaico fa
parte di una decorazione orlata di conchiglie, che data meglio il programma
iconologico di Sperlonga all’età di Tiberio, sia stilisticamente che storicamente, perché presuppone la poesia di Ovidio dell’8 d.C. Il poeta è l’unico autore
che evidenzi non solo i cinque fatti eroici di Ulisse rappresentati nei gruppi
scultorei di Sperlonga, bensì anche (Metamorfosi 10, 155-161) il ratto di Ganimede, rappresentato nel sesto gruppo sopra la grotta.
Questa conclusione ha trovato ultimamente una conferma inaspettata,
ma molto importante. Otto Zwierlein nel suo libro Die Ovid- und VergilRevision in tiberischer Zeit (Berlin-New York 1999) ha
individuato Julius Montanus, l’amico e comedax, cioè
partecipe a cene e discussioni a tavola con l’Imperatore,
come l’editore delle opere di Ovidio che aveva perfino il
permesso del poeta, in esilio sul Mar Nero, di completare
i versi lasciati incompiuti. Con questo comedax, compagno di tavola, Tiberio usava intrattenersi sui miti omerici.
È assai probabile che tramite questo amico di Tiberio e
Ovidio l’inventore del programma iconologico abbia attinto alle poesie di Ovidio tutte le informazioni necessarie, per creare l’elogio per immagini delle gesta dell’antenato di Tiberio. Esse portarono alla distruzione di Troia,
alla fuga di Enea e alla fondazione del popolo romano.
A Sperlonga le vie del destino si incontrano con il personaggio di Tiberio, che da parte dei genitori naturali era
un Claudio, e quindi discendente – tramite Telegono –
di Ulisse, e da parte del padre adottivo, Cesare Augusto, discendente di Jullus, figlio di Enea e nipote della
Venere Genitrice. Anche a questo allude il programma
scultoreo di Sperlonga, tramite l’erma del giovane eroe col
copricapo frigio e il rilievo della Venere Genitrice. Cesare
chiamato Divus, e Cesare Augusto, Divi filius, erano discendenti della dea
genitrice del popolo romano e lo stesso valeva per il figlio adottivo Tiberio.
Interessante è la somiglianza stilistica, a Sperlonga, tra l’erma di Jullus
e la testa in marmo bianco del Ganimede, il cui corpo consiste in marmo
colorato. Queste due teste sono state scolpite dalla stessa mano. Non possono
esser divise. Se si vuole datare e capire il programma scultoreo di Sperlonga,
si devono leggere le Metamorfosi di Ovidio ove il poeta espone la legittimazione mitica della successione di Tiberio a Cesare Augusto. Il principato è la
perfetta connessione di due forme di governo, di solito incompatibili: quello
democratico di una repubblica, quello monarchico di un impero. La legittimazione della democrazia era garantita dalle leggi romane, la legittimazione
dinastica si trovava invece solamente nella discendenza mitica, quanto dire
nella volontà del fatum, del destino che è al di sopra degli Dei e delle leggi. Il
destino voleva un imperatore che fosse non solo discendente dei Troiani ma
anche dei Greci che erano abitanti dell’impero non meno che i discendenti
dei Troiani.
La mitica legittimazione di Tiberio, quale discendente di Jullus e come
Giove in terra, si esplicita in modo particolare nel Grande Cammeo di
Francia. La raffigurazione è probabilmente del 26 d.C. Il Divi filius, Cesare
Iscrizione NAVIS ARGO
(foto B. Andreae).
XXXI
Il Grande Cammeo di Francia,
Parigi, Bibliothèque Nationale.
XXXII
Augusto, morto nel 14 d.C., Germanico nel 19 e Druso Minore, figlio di
Tiberio, nel 23, rappresentati anche (ma da vivi) nella Gemma Augustea di
Vienna, sono inseriti nel riquadro superiore del Grande Cammeo, mentre
nel riquadro principale, al centro, è Tiberio a troneggiare come Giove in
terra. Seduta accanto a lui la madre Livia, verosimilmente committente del
Cammeo, sembra presentargli i probabili successori, i figli di Germanico:
Nero, Druso (terzo), con le rispettive mogli, e Caligola con la madre Agrippina Maior. La legittimazione viene chiaramente dallo stesso Jullus, figlio
di Enea e fondatore della famiglia Giulia, nel gesto con il quale rende il
globo della terra a Tiberio. Jullus si riconosce dal costume e specialmente
dal copricapo frigio. È il copricapo che lo contrassegna anche nell’erma di
Sperlonga.
In conclusione, la datazione e il significato della decorazione della grotta
di Sperlonga non possono più essere posti in dubbio. La decorazione era finita
parecchio tempo prima della caduta dei massi dell’ottobre 26, quando Tiberio
poté convincersi della lealtà del comandante dei Pretoriani, Seiano. La villa
di Sperlonga era il Praetorium cui speluncae nomen est. Sono stati scavati la
caserma dei pretoriani con il santuario dei signa, cioè degli stendardi, e gli
stalli per ben trenta cavalli. Ma la caduta dei massi fece apparire la villa un
luogo funesto.
Nello stesso mese di ottobre Tiberio si trasferì per sempre nella sua terza
villa sull’isola di Capri, alla quale aveva dato il nome di Villa Jovis, Villa di
Giove. Finalmente era arrivato dove voleva arrivare sin dall’inizio del suo regno. Era il Giove sulla terra e non aveva più bisogno di miti genealogici. La
grotta azzurra fu decorata con divintà marine che apparivano appropriate
in questo luogo sul livello del mare. Nella villa in alto, quasi in cielo, non si
sono trovate sculture. Probabilmente non era decorata con delle statue. Comunque anche a Capri si è trovata un’iscrizione con la firma di Athenodoros
Hagesandrou, uno degli artisti di Sperlonga e del gruppo del Laocoonte. È
quasi la prova, una pietra fondante di tutto l’edificio delle ipotesi qui esposte.
È molto raro nel campo della scienza archeologica avere un esteso testo
poetico come fonte diretta di una iconologia così complessa come quella di
Sperlonga. C’è voluto mezzo secolo di studi accaniti per arrivare ad una conclusione convincente.
XXXIII
Giuseppe Di Lelio,
«Tracce», 1996.
Sperlonga, Piazzale
dietro il Municipio.
Parte I -
Arte
Premessa
di Daniela Ciotola *
Le mostre d’arte a Sperlonga hanno avuto come presentatori in catalogo
critici di valore e l’iniziativa di un volume celebrativo ne rende possibile una
parziale raccolta di note unite alle immagini di alcuni dei dipinti esposti.
Nella difficile selezione mi sono prefissa di dare sufficiente spazio alle esposizioni di maggior rilievo per importanza storica degli artisti e per completezza
antologica. Ho suddiviso la parte affidatami in due sezioni. La prima include
le mostre conseguenti alla attribuzione del Premio Grotta di Tiberio. Tale criterio mi ha consentito facilmente di porre accanto in queste pagine due protagonisti dell’arte astratta italiana del dopoguerra, Antonio Corpora e Achille
Perilli, le cui esposizioni, tenute in tempi diversi (2002 e 2007), si integrano
reciprocamente. La seconda sezione ordina tutte le altre mostre raggruppandole in ragione dei vari siti espositivi.
In dieci anni sono state realizzate ventuno mostre, considerando unitaria
quella di Alberto Gianquinto, Piero Guccione e Lorenzo Tornabuoni (Museo
archeologico, 2006), pittori accomunati da una uguale formazione artistica
e da una parallela ricerca di temi e di colore. Allo stesso modo unitaria la
mostra tenutasi a Torre Truglia, nell’anno di inizio 1998, dei pittori Alberto
Gianquinto e Ruggero Savinio che, nonostante radicali diversità stilistiche e
di ispirazione, rientrano entrambi nell’area della cosiddetta “Nuova Figurazione” delineatasi nella seconda metà del Novecento. Al contrario mi è sembrata una riunione di più esposizioni personali quella dei “Quattro in mostra”, distribuita nel 2005 tra Sala Consiliare del Comune ed Antica Chiesa.
I quattro giovani artisti, tre pittori e uno scultore, presentati da critici diversi,
avevano in comune solo l’intento di rendere omaggio ad Arnoldo Ciarrocchi,
il grande pittore ed incisore da poco scomparso, di cui contemporaneamente
si teneva nel Museo archeologico una esposizione di acqueforti, acquerelli e
dipinti ad olio.
Nel catalogo dedicato nel 2007 alle opere esposte di Achille Perilli, Simonetta Baroni ha elencato gli indirizzi espositivi seguiti da Giacomo di Raimo,
curatore delle mostre, quali si rilevano dalle note introduttive ai sedici cataloghi pubblicati. È un aspetto importante di cui si deve tener conto, anche
se io ho ritenuto di non farvi riferimento nell’ordine in cui ho considerato le
* Laureata in Storia dell’Arte contemporanea presso l’Università degli Studi “La Sapienza”
di Roma, redattrice di rubriche d’arte di Rai 3.
2
mostre. Per il lettore che conosce Sperlonga è infatti più facile orientarsi avendo come guida i luoghi di esposizione.
Una linea espositiva concerne pittori di spicco nazionale o anche internazionale e comprende le prime due mostre (1998 e 1999) allestite a Torre
Truglia e tutte quelle realizzate nel Museo archeologico. Una variante di questa linea sono le mostre tenute nella Sala Consiliare del Comune e riferite ad
aspetti o temi particolare degli artisti, quali gli alberi di Federica Galli (1999),
la ricerca litografica di Piero Guccione (2000) e il “mondo degli animali” di
Bruno Caruso (2001). Una seconda e terza linea espositiva consistono nelle
mostre degli “artisti del territorio” (di Sperlonga o città vicine) a Torre Truglia
(2000, 2001, 2002) e nelle personali di giovani artisti
Il Museo archeologico, la Torre Truglia, una chiesa risalente al 1200 e
la Sala del Palazzo comunale hanno aggiunto un particolare fascino all’eccezionale ciclo espositivo. Le mostre d’arte, che si inauguravano nei primi
giorni di luglio e rimanevano aperte sino a metà settembre, sono state l’anello di continuità tra le poche manifestazioni del mese iniziale e le molte della
Settimana culturale di settembre. Credo che le iniziative d’arte non debbano mai mancare a Sperlonga.
L’arte ha un linguaggio immediato ed universale, è fatta di
messaggi, di apparizioni inattese.
Come sempre la luce, il colore, il
paesaggio antico e immutato di
Sperlonga, il canto di Omero evocato dai marmi della Grotta.
Arnoldo Ciarrocchi,
«Musa domestica»,
acquaforte, 1987
(logo del Premio Grotta
di Tiberio per l’arte,
la poesia e la musica).
3
Premio Grotta di Tiberio per le arti figurative
premi attribuiti
per l’ incisione:
1999, Federica Galli
motivazione:
Gli alberi della sua Lombardia, diversi
gli uni dagli altri come lo sono gli uomini, un paesaggio naturale ricco talora di
richiami irreali, simbolici e fantastici,
insistito, ripetuto, riprodotto minuziosamente ma senza monotonia, costituiscono il messaggio che viene dalle acqueforti di Federica Galli. La capacità tecnica
è straordinaria e la pone già per questo a
livello dei più grandi incisori italiani.
Nata in un paese della campagna cremonese, Federica Galli è vissuta quasi
sempre a Milano ed ha esposto in Italia e all’estero. Con il Premio speciale
TIM per l’ incisione si intende conferirle un riconoscimento che si aggiunge ai
numerosi che ha già ricevuto dalla più
importante critica nazionale.
F. Galli, «Il Castagno del Canto
di Maggio», acquaforte, 1995.
(estensore Giacomo di Raimo)
esposizione:
Sala Consiliare del Comune dal 6 agosto all’11 settembre 1999:
18 acqueforti
1999, Giulia Napoleone
motivazione:
Giulia Napoleone è andata concentrandosi sulle arti grafiche e incisorie già nel
finire degli anni sessanta, avendo avuto inizialmente come maestri Barriviera
e Maccari. Ben presto la sua ricerca si orienta verso forme astratte, espresse ora
mediante la modulazione pulviscolare del punzone e
ora, più morbidamente, attraverso la maniera nera.
Accompagnano l’attività incisoria preziosi disegni ad
inchiostro, acquerelli e pastelli. Nelle ultime opere
emergono reminiscenze di immagini naturali, vibrazioni interiori, echi di percorsi umani.
Giulia Napoleone si è dedicata ad attività didattiche
ed ha esposto in numerose mostre in Italia e all’estero. Con il Premio per l’incisione si intende premiare
un’artista originale e sensibile, che si inserisce – pur
nella diversità espressiva –, per rigore di metodo e
profondità e ricchezza di soluzioni, nella nuova linea
dell’incisione italiana che muove da Morandi.
(estensore Giacomo di Raimo)
esposizione:
Museo Nazionale, dal 6 agosto all’11 settembre 1999:
acquerelli, disegni ed incisioni accompagnati da incisioni di Lorenzo Manno, Enrico Della Torre, Edolo
Janich e Vittorio Manno.
G. Napoleone, «Sogno di Sula»,
punzone, 1987-91.
5
per la litografia:
2000, Piero Guccione
motivazione:
Piero Guccione è anzitutto sommo pittore ma è
anche – per riconoscimento unanime – di gran
lunga il maggior litografo italiano, l’unico tra
i grandi artisti figurativi che sia riuscito negli
ultimi trenta anni, con maestria tecnica e sentimento poetico, a vivere nel foglio litografico
un’esperienza autenticamente creativa. Nelle
preziose litografie, ricercate dai collezionisti,
egli trasfonde la mirabile gamma dei suoi colori,
il silenzio dello spazio, la sospesa percezione del
cuore della natura.
(estensore Giacomo di Raimo)
P. Guccione,
«Diario maltese»
(da Caravaggio),
litografia, 1981.
P. Guccione, «Mare e campo di
grano», litografia, 1996.
6
esposizione:
Sala Consiliare del Comune, dal 28 luglio al 18 settembre 2000:
20 litografie, 2 pastelli, 1 dipinto ad olio (1969-1999)
note di Giacomo di Raimo, di Guido Giuffré e di Claudio Zambianchi.
Piero Guccione litografo
Guido Giuffrè *
“Se Rembrandt avesse conosciuto
la litografia . . .”, pare abbia sospirato
Degas; e tutti possiamo immaginare
quali risultati ne sarebbero venuti. Ma
i se non fanno la storia, e alla storia
non manca nulla. Eppure, continuando nella divagazione, se Rembrandt
oltre alla litografia non avesse conosciuto la calcografìa, sarebbe stato più
facile prevedere le sue (mai realizzate)
magie con la matita grassa sulla pietra
piuttosto che quelle con la punta sul
metallo: lui maestro e mago, appunto, della luce e dell’ombra. Ed invece
è stato, Rembrandt, forse il più grande
incisore di tutti i tempi.
Se Goya fosse privato dei suoi celebri cicli calcografici, o se non avesse
litografato i tori di Bordeaux, molto,
moltissimo di lui ci mancherebbe;
così se Fattori non avesse inciso le sue
lastre o Morandi le sue. Eppure Morandi, Fattori e Goya sono e sarebbero
rimasti grandi per i loro dipinti. Ora,
conoscendo i risultati della pittura di
Piero Guccione e il suo accanimento
sulla tavolozza, le stesure infinite, i
tempi lunghissimi, chi avrebbe scommesso sulla sua litografia? Quella pittura è la più alta che si faccia oggi in
Italia, e la sua ricchezza, l’ampiezza
dei mezzi di cui dispone – quasi nella
gamma sconfinata dei colori l’artista
catturasse l’alito e l’anima del mondo – sembrerebbe sconsigliare l’uso di
mezzi forzatamente più ristretti. Ma
Guccione, colorista quintessenziale,
usa anche la litografia, come la calcografia e, ovviamente il disegno; e li usa
non avvicinandosi alla pittura ma rinnovando il suo repertorio poetico nel
diverso linguaggio.
Tra le peculiarità della litografia
sono la relativamente più limitata
gamma dei colori (o la loro meno agevole combinazione) e, soprattutto, il
lavoro indiretto, con l’ineliminabile
intervento dello stampatore. Ciò sembra contraddire tutti i processi operativi di Guccione e specialmente il suo
serrato tu per tu con l’opera, quasi essi,
lui e l’immagine, crescessero e vivessero insieme uniti nello stesso respiro.
E nei fatti la contraddizione c’è; ma
Guccione piega i fatti.
Il colore litografico non è il colore
ad olio; oltre alla sua diversa composizione, consistenza, manipolazione,
va detto anche che l’artista, mentre
lavora, non lo vede; secondo la sua
esperienza egli lo prefigura. L’immagine nasce in bianco e nero. Ma bisogna
aver visto Guccione piegato sul torchio
in attesa che il foglio ne venga staccato,
o appunto sul foglio, pensoso, muto; e
poi di nuovo sulla pietra (o sulla lastra
che ne fa le veci) a raschiare, ridisegnare, sagomare; bisogna averlo visto per
comprendere come egli non rinunci
in nulla, nonostante la maggiore com-
* Storico dell’Arte.
7
A. Corpora
«Finestra aperta sul mondo»,
olio su tela, 1970.
Nella pagina a fronte:
facsimile della
pergamena originale.
8
plessità strumentale, alla sua esigentissima natura poetica. E interviene qui
la figura dello stampatore. Guccione
corregge direttamente il disegno ma
non il colore, eppure è il colore la sua
arma. Come quando dipinge, l’artista
sembra guardare l’immagine che viene nascendo ma guarda in realtà quel
luogo inafferrabile dove i suoi aneliti
segreti prendono forma. Ed è lì che lo
stampatore deve sapersi calare. Egli diventa l’alter ego dell’artista, fonde ma
non sovrappone la propria sensibilità
a quella di lui, capisce dove lui vuole
arrivare. Aggiungi qui una punta di
giallo, dice Guccione, più chiaro, o
più scuro, più freddo, più caldo. E lo
stampatore si fa mano di lui, pennello, quasi pensiero. Non si guarda una
litografia come se fosse un quadro. I
fogli del maestro siciliano, superbi,
nascono dal medesimo ceppo poetico
donde nasce la pittura, danno emozioni equivalenti – eppure diverse.
Quando negli anni settanta, ripetendo il soggetto di un suo quadro memorabile, Guccione disegnava l’auto
seminascosta nell’ombra sullo sfondo
delle colline che si susseguono tra
Cava d’Aliga e Scicli, nessuno avrebbe chiesto o chiederebbe al foglio le
trasparenze o le vibrazioni di quel
dipinto, il calore della pittura, come
alla pittura non si chiederebbe l’assorbente compattezza della carta o la
metafisica impenetrabilità del colore
litografico; ma egualmente intensa
e di nuovo irripetibile è la magia del
silenzio, lo sgomento dello spazio, la
sospensione dell’animo. Le litografie
di Daumier erano già famose, centocinquant’anni fa, e non si sapeva
– allora – che la vera grandezza del
francese risiedeva nella pittura. Oggi
si considera Guccione, giustamente, il
maggior pittore italiano vivente; ma
altrettanto giustamente egli va anche
considerato, e da almeno trent’anni,
il nostro più grande litografo.
per l’acquerello
2002, Antonio Corpora
esposizione:
Museo archeologico nazionale, dal 27
luglio al 9 settembre 2002:
20 opere dal 1952 al 1999
note di Giacomo di Raimo e di Claudio
Zambianchi e un colloquio con l’artista
di Daniela Ciotola; presentazione orale
di Claudio Zambianchi.
Il colore del moderno
Claudio Zambianchi *
“Ancora la giovane pittura non ha
fatto che scegliere e ordinare i mezzi di espressione, e sta elaborando
un metodo che riesca a equilibrare
la trasposizione del colore e del volume in rapporto alle necessità rappresentative. La terza dimensione
rimane ancora scartata dal quadro,
ma è stata assimilata da una nuova
intuizione: le due trasposizioni colore
e forma hanno segnato la nascita del
sentimento della quarta dimensione:
le due dimensioni del pittore moderno non sono quelle di un pittore bizantino. Esse si proiettano partendo
da un piano concreto quale è la tela
o il muro, in un piano immaginario,
piano che noi chiameremo tempo.
All’inganno ottico della terza dimensione gli artisti moderni sostituiscono
la presenza astratta ma concreta della
misura del tempo”. Così scriveva Antonio Corpora nel 1947 con l’intento
di dar conto del lavoro suo e di alcuni suoi compagni attivi negli anni
immediatamente successivi alla fine
della Seconda Guerra Mondiale.
La strada che la pittura europea
prende dopo il terribile sconvolgimento è quella – storicamente consapevole – di riallacciare il contatto
con le radici del moderno, con quel
momento, cioè, a cavallo tra l’ultimo
decennio dell’Ottocento e il primo
quindicennio del Novecento quando
nella capitale, allora, dell’arte moderna, Parigi, e poi via via in tutta Europa si erano succedute le novità e le
aperture che avevano definito i fondamenti del nuovo modo di dipingere: postimpressionismo, fauvismo,
cubismo, astrazione. Tutto era partito dalla consapevolezza del carattere
convenzionale, antinaturalistico dello spazio pittorico, che andava quindi interpretato nelle due dimensioni
reali; privo cioè di quella profondità
virtuale, illusionistica, che aveva caratterizzato la pittura del passato.
Solo a costo della rinuncia all’illusione la pittura poteva andare in profondità, non quella, considerata falsa,
della scatola prospettica, ma quella,
reale e presente, dell’analisi delle proprie potenzialità espressive, autonome dalla replica delle apparenze del
mondo esterno. In molti casi, tuttavia, quest’ultimo non scompare del
tutto, ma viene implicato nell’opera
in termini di frammento, in cui contano le analogie, le “corrispondenze”
(parola che Franco Russoli pronuncia, baudelaireianamente, in riferimento a Corpora), la memoria degli
aspetti della realtà così come si sono
manifestati una o più volte nella coscienza dell’artista e che trovano sulla
tela una modalità per riproporsi e rinascere. Ecco il tempo cui si riferisce
Corpora nel testo citato in apertura:
* Professore associato di Storia dell’arte contemporanea nell’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma.
10
A. Corpora, «Estate»,
olio su tela, 1967.
la facoltà di implicare una temporalità interna nella rappresentazione è,
forse, la più grande fra tutte le invenzioni dell’arte moderna.
Sin da quegli anni cruciali che seguono la guerra, Corpora si riallaccia
alla “tradizione del nuovo” degli albori del Novecento; e lo fa consapevolmente, insisto, perché la rinascita
della cultura europea non può evitare
il confronto con la sua storia. È una
posizione propria degli italiani e dei
francesi, soprattutto, e Corpora è intriso, sin dagli anni di apprendistato all’Ecole des Beaux-Arts di Tunisi
(dov’è nato nel 1909), di cultura francese, grazie ai suo maestro Armand
Vergeaud, un allievo di Gustave Moreau, quando l’atelier di quest’ultimo
era frequentato anche da Dufy, Marquet, Matisse, Rouault. Una cultura,
quella francese, che in seguito l’artista attinge direttamente alla fonte: di
qui le numerose tangenze di Corpora
11
A. Corpora,
«Cantiere»,
olio su tela, 1952.
12
con i Jeunes peintres de tradition française. È tutto francese, in Corpora, il
culto della luce, che rinvia all’indietro all’impressionismo: la luce è l’aspetto della realtà da lui selezionato, a esclusione degli altri, perché sopravviva,
trasfigurato rispetto allo spettacolo del mondo, nell’opera. In pittura la luce
equivale al colore e quest’ultimo agisce
in Corpora come principio strutturante: ha ragione Pierre Restany quando
afferma che le variazioni nel percorso
dell’artista si misurano essenzialmente dalla “distribuzione della luce”, dal
“dosaggio attento degli elementi cromatici” assai più che dai “cambiamenti superficiali della scrittura pittorica”,
che si susseguono nell’arco di un itinerario molto coerente e personale, e
tuttavia attento a quanto si muoveva
nel contesto dell’arte europea.
Corpora ha dipinto in modo
postcubista, come mostrano opere
come Cantiere (1952) o Composizione (1953), entrambe incluse in questa
esposizione, due opere che sentono anche, non troppo alla lontana, gli echi
del lavoro di Giacomo Balia. L’artista
ha poi lambito l’Informale e in seguito
si è spinto verso un’astrazione basata
sempre più su un complesso rapporto tra piani diversi, suggeriti dalle tonalità e dagli spessori differenti del colore, come testimoniano opere in mostra
quali Spazio verde, del 1966-67, o Finestra aperta sul mondo, o Antica fiaba,
entrambe del 1970. Infine, nella feconda vecchiaia, Corpora approda a una
reinterpretazione del Monet tardo, il magnifico pittore delle ninfee, quando
l’immagine di questi fiori d’acqua sembra disperdersi in una superficie infinitamente complessa, che vive del basso continuo di tonalità vibratili e di
improvvise accensioni luminose.
Tutta questa ricca ricerca si svolge sulla superficie del dipinto, delibata
nelle innumerevoli possibilità di variazione, luogo di sintesi tra la memoria
della sensazione del reale e la concezione di uno spazio dotato di un’autonoma organizzazione: esiste cioè un punto, una soglia, in cui l’elaborazione
della memoria della realtà osservata sconfina, senza soluzione di continuità,
verso la creazione di una entità, il quadro, dotata di proprie leggi cui l’artista obbedisce. In Corpora il filo che collega i due aspetti dell’ispirazione
e della pratica pittorica è sempre in tensione. Sembra perciò molto opportuno il riferimento di Nello Ponente alla Fenomenologia della percezione di
Maurice Merleau-Ponty per quanto attiene alla temporalità della visione in
Corpora, lì dove il filosofo afferma che nella percezione del momento si uniscono “tutto il passato”, “il presente”,
e il “futuro” dell’individuo, creando,
in quest’«unica onda temporale, un
istante del mondo”. Mediante il rapporto tra memoria e colore, quindi,
Corpora “individua – scrive ancora
Ponente – i momenti privilegiati della
memoria, con una particolare definizione di precise situazioni spaziali, di
rapporti di luogo che diventano rapporti di tempo non più in successioni
cronologiche rinserrate in un tradizionale parallelepipedo prospettico,
ma secondo sintesi immediate di varie intensità psicologiche”.
Il tempo della pittura arriva, nelle
modalità appena delineate, a somigliare molto al tempo musicale, e la ricerca
sulla musicalità del colore ha forse la
più chiara espressione negli acquerelli, il ruolo dei quali, nella produzione
dell’artista, ha assunto con l’andare
degli anni un rilievo sempre maggiore. In questa mostra ne è presente una
scelta, attinente a vari momenti del percorso di Corpora. Alcuni di essi sono
caratterizzati da un ritmo mosso, che molto si affida al rapporto tra parti
colorate e parti lasciate in bianco: le ultime definiscono nello stesso tempo i
punti di massima luminosità e le pause. In questa sicura scansione spaziale si
scorgono un principio organizzativo delle sensazioni e un controllo rigoroso
delle emozioni, che consentono alle prime e alle seconde di trasformarsi totalmente in pittura, senza residui di ordine sentimentale o rappresentativo: negli
acquerelli questi caratteri si fanno, concordo ancora con Ponente, anche più
evidenti di quanto avviene nei dipinti a olio. Da quanto si è detto appare
giustificato, in riferimento a Corpora, il richiamo di Russoli a un pensiero,
originariamente espresso – con l’intento di rovesciare il primato attribuito
dall’arte accademica al disegno – da un artista molto amato da Corpora,
Pierre Bonnard: “Il colore – dice Bonnard – chiede più ragionamento del
disegno”.
A. Corpora,
«Composizione»,
olio su tela, 1953.
13
Colloquio con Antonio Corpora*
Daniela Ciotola
A. Corpora,
«Il sole fugge»,
acquarello, 1989.
Lei è nato e si è formato
a Tunisi per poi trasferirsi
a Parigi dove ha vissuto a
lungo e conosciuto la pittura di Cézanne, di Picasso e
soprattutto di Matisse e dei
Fauves, ricevendone una
impronta non meno profonda di quella avuta dalla
cultura e dalla natura del
profondo sud mediterraneo.
Un grande insegnamento:
la luce riverberante dell’acqua del mare e il colore
come luce.
La sua pittura è dominata da una progressiva affermazione del colore che si
libera di ogni contingenza
e occasionalità legata alla
figurazione ancora naturalistica, alla ricerca di un
linguaggio come espressione
e organizzazione plastica
dell’emozione. Ciò la conduce dalla prima esperienza di stampo neocubista verso la pittura astratta, con
un respiro del tutto europeo e anche con un certo intimo distacco dalle posizioni
dell’ambiente artistico italiano dell’ immediato dopoguerra seguite al famoso intervento di Togliatti in favore di un’arte realista, che produsse la divisione di “Fronte
Nuovo” e in generale dell’ambiente artistico italiano dell’epoca. Cosa ricorda di
quegli anni?
L’esperienza con Guttuso e il gruppo “Fronte Nuovo”, è stata rivoluzionaria per
noi e per l’arte italiana. Avevo vissuto per molti anni a Parigi ed ero al corrente di un
*
14
L’incontro è avvenuto nell’abitazione dell’artista il 17 giugno 2002.
linguaggio moderno, ma lo sentivo come un linguaggio ancora legato al passato.
Il passato può servire se interpretato in modo intelligente, ma noi avevamo l’esigenza di esprimere cose nuove e serviva quindi un linguaggio nuovo. Un nuovo
linguaggio significa una nuova visione che può consistere nell’atteggiamento stesso verso il mondo e la realtà che ci circonda, in una tavola diversa di riferimenti e
di valori che permetta all’artista di raccontare tutta la sua vita.
Lionello Venturi ha coniato per noi la definizione di “astratto concreto”,
intendendo indicare la nostra pittura come una sorta di “Neocubismo” che
cercava di conciliare le conquiste del cubismo orfico e quelle del fauvismo. A
differenza degli astratti geometrici, noi attingevamo dalla natura quello che ci
serviva per esprimerci: il colore. Il colore puro e non tonale era il nostro mezzo
espressivo. Il colore dei Fauves.
Il mondo della sua pittura è essenzialmente sereno, non conosce contrasti profondi o lacerazioni esistenziali, esprime una visione lirica, incantata della realtà
o meglio di grandi spazi in bilico tra sogno e realtà, attraversati da colori diversi,
le cui variazioni marcano fortemente il mutamento dei suoi stati d’animo. Lei ha
usato assai l’olio e più recentemente l’acrilico e poi si è dedicato felicemente anche
all’acquarello. In uno scritto del 1986 afferma di aver rivalutato l’acquarello “ il
cui elemento dominante è l’acqua e nell’acqua è trasparenza e luce”.
In questi giorni ha ricevuto il Premio Grotta di Tiberio per l’acquarello e la
Commissione scientifìca che l’ ha attribuito ha ritenuto questa tecnica assai significativa della sua opera.
Quale diverso impulso espressivo l’ ha spinto verso l’uno o verso l’altro mezzo
tecnico?
Per creare un linguaggio nuovo si è sempre in polemica con il linguaggio
preesistente e quindi, inevitabilmente, anche nelle mie opere si percepisce una
tensione di fondo che percorre la mia pittura.
Molti artisti hanno abbandonato la tecnica dell’olio per motivi pratici, poiché l’olio prende molto tempo per asciugare, l’acrilico permette di lavorare con
maggiore rapidità. La fattura dell’acquarello, poi, è ancora più rapida e sciolta,
la resa istantanea appaga l’immediato bisogno dell’artista di vedere il risultato finale
del suo lavoro.
In Italia pochi hanno saputo fare l’acquarello in modo eccellente. Lei mi sta citando Arnoldo Ciarrocchi che è un bravo
acquarellista, ma non ve ne sono molti.
A. Corpora, s.t.,
acquarello, 1991.
In verità il cubismo di Picasso e il lirismo
cromatico di Matisse costituiscono poli antitetici. Quello che le resta è piuttosto l’uso, già
di Matisse, del colore non come mezzo ma
fine in quanto esso stesso crea l’ immagine.
Lei ha affermato, in una intervista del 1986,
15
A. Corpora,
«La dolce Luna»,
acquarello, 1992.
che: “Matisse è il
colore, il colore è
il sentimento del
tempo;
Cézanne introduce il
sentimento dello spazio. Queste
due cose, il sentimento del tempo
ed il sentimento
dello spazio, hanno fatto la nuova
pittura, la pittura
moderna.” Recentemente ella è stato
interessato particolarmente dalle ultime opere di Monet,
le famose “Ninfee”
con le quali tale artista supera i classici canoni dell’ impressionismo e pone le premesse dell’arte astratta. Nella mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna vi
era un suo bellissimo dipinto “Omaggio a Monet”. Lo stesso Monet era stato affascinato da Turner che vide a Londra nel 1870. Il riferimento a Turner è presente
nelle opere da lei prodotte negli ultimi anni e, in particolare, in alcuni acquarelli
che ricordano non poco gli effetti luministici di Turner ma anche i suoi orizzonti,
vorrei dire i suoi paesaggi. Può dirmi qualcosa al riguardo e, soprattutto, se ciò
segna un certo ritorno ad un naturalismo sia pure totalmente dissolto nella luce?
Da un punto di vista tecnico devo dire che Turner è un precursore dell’acquarello. Monet lo utilizza solo nei bozzetti. Io non rinnego le mie ascendenze
e Turner è stato uno degli artisti che ho maggiormente amato. Però non mi
sembra che si possa parlare di un mio ritorno al naturalismo – il quale è stato,
d’altronde un inizio assai limitato –; salvo ad intendere natura e paesaggio
come puro colore, luce e spazio.
per la pittura:
2007, Achille Perilli
motivazione:
Nato a Roma nel 1927 e affacciatosi giovanissimo alla pittura subito dopo la
fine della seconda guerra mondiale, Achille Perilli si è sempre battuto nel corso
della sua lunga carriera di artista e animatore culturale per una piena libertà
16
espressiva, contro imposizioni e regole, vecchie e nuove,
che rischiavano di metterla
in pericolo. Territorio privilegiato della sua ricerca formale è la tensione dialettica
tra segno e spazio: dalla fase
neocubista di “Forma 1” –
il gruppo che egli contribuì
a fondare nel 1947 – alle
successive esplorazioni delle
tracce grafiche “elementari”
nel periodo de “L’Esperienza
Moderna”, sino all’approdo
ai “ fumetti” e alle geometrie immaginarie dei lavori
più recenti.
Nelle opere pittoriche su
tela e su carta, Perilli ha originalmente filtrato e riportato nell’arte italiana l’eredità
molteplice dell’avanguardia
europea del primo quarantennio del Novecento.
Al fine di rendere omaggio
al ruolo storico e alla qualità del lavoro di uno dei
maggiori artisti italiani
degli ultimi sessant’anni, la
Commissione scientifica ha
attribuito ad Achille Perilli
il premio Grotta di Tiberio
per la pittura.
A. Perilli, s.t., matita e
tempera su carta, 1958.
(estensore Claudio Zambianchi)
esposizione:
Museo archeologico nazionale, dal 7 luglio al 10 settembre 2007: opere su carta e un
dipinto su tela (1949-1985)
note di Giacomo di Raimo e di Claudio Zambianchi e un colloquio con l’artista di
Simonetta Baroni; presentazioni orali di Sandro Amorosino, di Claudio Zambianchi
e di Rosetta Loy.
17
Il premio Grotta di Tiberio
per la pittura ad Achille Perilli
Giacomo di Raimo
L’arrivo degli americani e la successiva fine del conflitto mondiale furono vissuti con
un sentimento comune di distacco dal passato e di proiezione verso un futuro tutto
da costruire. Particolarmente dai giovani della mia generazione (cui appartiene Perilli)
che non avevano patito per ragioni di età la chiamata alle armi ma avevano conosciuto
le atrocità della guerra a Roma, “città aperta” violata, o altrove. Conclusasi l’immane
tragedia, occorreva ricominciare da zero, cancellare le precedenti tavole dei valori, riscoprire altri principi sui quali fondare la propria vita. Ci animava il desiderio di conoscere
quanto era stato vietato o precluso, di incontrarci, discutere, esercitare i nuovi diritti e
le infinite possibilità di un paese finalmente libero. Terminato il liceo classico, mi ero
iscritto a Giurisprudenza ma non avevo abbandonato le mie iniziali inclinazioni per la
letteratura, la musica e l’arte. Conobbi Perilli attraverso amici che si raccoglievano con
me intorno alla rivista letteraria “La Strada” (Nicola de Angelis, Gaio Fratini e Cesare
Vivaldi). Lo rividi in seguito solo in occasione di mostre. Considerai subito Perilli come
un artista che assai bene contrassegnava in quel momento – per il vivacissimo spirito,
l’insaziabile curiosità culturale e l’apertura alle nuove esperienze – lo schiudersi della
pittura italiana verso orizzonti più larghi.
A cavallo tra il 1945 e il 1946 Perilli fondò con Piero Dorazio, Mino Guerrini e
Renzo Vespignani il Gruppo Arte Sociale, pubblicando la rivista “La Fabbrica” di cui
conservo ancora una copia del solo numero uscito. Con il maturare di un più preciso
orientamento verso l’arte astratta e la ricerca di una nuova spazialità, diede vita insieme
ad altri pittori (tra i quali Giulio Turcato e ancora Dorazio e Guerrini) al gruppo Forma 1 e all’omonima rivista: il binario era quello di un “formalismo astratto” non privo
di echi e di suggestioni dalla pittura futurista. L’attività del gruppo e le nuove tendenze
si imposero all’attenzione generale. Forse per questo e per il crescente radicalizzarsi della
situazione politica italiana, comparve nel 1948 su “Rinascita” la condanna di Palmiro
Togliatti dell’arte astratta con il richiamo ai principi del realismo socialista. Si riproduceva in Italia un tipo di censura politica che in Russia aveva condizionato sin dal 1936
il libero sviluppo delle attività artistiche. L’intervento determinò un confuso dibattito,
la spaccatura del fronte degli artisti e lo sfaldamento della stessa area di larga comunanza
politica che li accoglieva, pur all’insegna di indirizzi espressivi diversi. Scioltosi il gruppo Forma 1 verso il 1950, Perilli intensificò le sue iniziative, i suoi rapporti con grandi
artisti della scena internazionale, le sperimentazioni del linguaggio sovente plurisettoriali, la creazione di gruppi e di riviste. È un percorso ricco e complesso che giunge ai
giorni nostri e di cui non si può dare un accurato conto. Più facile è un accenno alla sua
evoluzione artistica. Una decisa svolta si manifesta dopo il 1950 allorché nei dipinti la
forma tende a disintegrarsi in minuti brandelli e tracce evocative in uno spazio sovrastato dalla percezione di un vuoto cosmico che l’avvolge. Emerge un segno capace di rivelare “tutta la realtà dell’esistente nella traccia più elementare, nella impronta più semplice” (così Perilli, 1957). Con una compenetrazione fra scrittura e pittura, l’artista si
18
esprime attraverso
una grafia rapida,
emotivamente tesa,
che ricorda quella
di Hartung.
All’inizio degli
anni sessanta, Perilli è attratto dallo
studio dei fenomeni di comunicazione di massa. Avvia
la serie cosiddetta
dei fumetti, una
sorta di ripresa neodada senza il sapore provocatorio
che aveva avuto il
dadaismo storico:
figure biomorfiche
di carattere irrazionale si inscrivono
in quadrati e cerchi come racchiuse in un’apparente
cornice razionale.
Questa dialettica
tra razionale e irrazionale assume una più evidente consistenza nell’ultima fase
artistica della geometria folle iniziata alla fine degli anni sessanta e proseguita
sino ad oggi. Costruzioni geometriche si sviluppano, si allungano per autogerminazione nello spazio in equilibri improbabili, quasi procedimenti logici che
si rovesciano in forme irrazionali. È una meditazione sull’assoluto irrazionale,
sul caos, sul disordine degli elementi che compongono l’universo e che la
mente umana, con le sue discutibili categorie, si è sforzata di ricondurre in un
sistema logicamente ordinato.
Achille Perilli ha un grande rilievo nella storia dell’arte contemporanea non
solo per una pittura tra le più alte e significative della seconda metà del Novecento ma anche per la coerente ricerca teorica rivolta allo sviluppo di un
linguaggio artistico nuovo, diverso da quello ereditato dalle precedenti avanguardie e da quello della tradizione figurativa. Nel noto Gruppo di Corso Vittorio per la sperimentazione artistica intersettoriale, guidato da Achille Perilli
e da Gastone Novelli, fu presente e assai attivo l’architetto Franco Purini al
quale la Commissione scientifica per il Premio Grotta di Tiberio ha assegnato
nel 2003 il premio per la saggistica architettonica. Quest’anno la stessa Commissione, con voto unanime, ha attribuito al maestro Perilli il premio Grotta
di Tiberio per la pittura, l’unico dato sinora in questo particolare settore.
A. Perilli,
«Il Sigillo», tecnica
mista su tela, 1960.
19
Dimensioni del molteplice
Claudio Zambianchi
A. Perilli, s.t.,
acquarello, 1949.
20
Quando ero studente universitario,
il nostro professore di storia dell’arte
contemporanea, Nello Ponente, troppo presto scomparso, chiamava talvolta alcuni artisti a parlare con noi,
nell’aula grande dell’Istituto, quella
dominata dal medaglione con il profilo di Lionello Venturi. Lì, sotto l’effigie di quel grande maestro, un paio
di volte venne invitato anche Achille
Perilli; Ponente, uomo di solito schivo e poco incline al sorriso, cambiava
completamente: diventava scherzoso
e sorridente, si mostrava divertito,
come se l’arrivo di Perilli portasse con
sé un’atmosfera meno formale, più
amichevole e confidenziale. Ponente
e Perilli erano amici da una trentina
d’anni e più: si erano incontrati poco
oltre la metà degli anni quaranta sui
banchi dell’università proprio alle
lezioni di Lionello Venturi, tornato
dall’esilio forzato impostogli dalla
scelta (fu uno dei pochissimi) di non
firmare fedeltà al fascismo. Per autorità morale e per valori culturali – le
due cose non andavano separate –
Venturi in quegli anni era il punto di
riferimento di una schiera di giovani,
critici e artisti, per i quali la scelta antifascista andava di pari passo con la
propensione a riallacciarsi alle origini
dell’arte moderna, all’Impressionismo, a Cézanne, a Picasso a Matisse,
secondo una linea che in Italia aveva
stentato a svilupparsi negli anni della dittatura, più che per veti espliciti,
per provincialismo e malinteso nazionalismo e per la generale atmosfera di
assenza di libertà nella ricerca indotta
dal regime.
In Italia l’arte moderna europea
andava quindi riscoperta e il contributo della generazione di creatori
che si affacciava allora sulla scena a
Roma fu fondamentale: Perilli, assieme a Carla Accardi, Ugo Attardi, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Mino
Guerrini, Antonio Sanfilippo, Giulio
Turcato, dette vita nel ’47 al gruppo
Forma 1; gli aderenti si dichiaravano
«formalisti e marxisti», intendendo
con questo che per loro la libertà politica recentemente recuperata coincideva con un’azione di analisi e rilettura delle premesse alla base della
nuova spazialità dell’arte moderna,
quella maturata nel primo decennio
del Novecento e sviluppatasi nei decenni successivi: nel gruppo di Forma
1, come nei contemporanei Jeunes
Peintres de tradition française, la scelta
si tradusse nell’adozione di uno stile
“postcubista”; la mostra presente si
apre proprio con opere appartenenti
a questa fase della carriera di Perilli.
Va premesso, forse, che questa
esposizione è costituita quasi solo da
opere su carta; nell’opera complessiva
dell’artista esse non rappresentano un
controcanto minore rispetto al lavoro
su tela: ha osservato Bernard Holeczek che le opere su carta di Perilli non
sono mai, o quasi mai, preparatorie
ad altre eseguite su supporti diversi e
più duraturi, ma costituiscono lavori
a sé stanti, caratterizzati semmai da
un quid in più di invenzione immediata rispetto al resto del lavoro, e si
vedrà più oltre quanto quest’ultimo
carattere di espressività spontanea si
faccia via via più importante nell’opera dell’artista. Ha ragione quindi Holeczek nel dire che le opere su carta,
sotto questo profilo, non conducono
nel laboratorio di Perilli, perché non
si tratta di progetti per opere a venire;
le carte dell’artista sono tuttavia laboratorio in un altro senso: sono infatti
quelle dove si provano, si sperimentano, su un supporto meno resistente,
ma altrettanto (se non più) sensibile
della tela, qualità di segno, spazio,
immagine, che trovano riscontro
parallelamente nell’opera dipinta.
L’opera su carta è quindi utilissima a
comprendere il processo di verifica di
quei passaggi che segnano, in un artista sempre consapevole di quanto sta
facendo, le progressive acquisizioni,
le modalità per isolare un problema,
analizzarlo e chiarirlo. Come dice Perilli, «guardando attraverso il buco
della serratura della pittura di Klee
mi si rivelò un profondo segreto: non
esistono supporti ricchi o poveri, tela
o carta, ma solo materia, dalla quale
far emergere l’immagine: quella che
sta nuotando nel più profondo in-
conscio». In questo pensiero l’artista
ci dà un’idea delle due facce, strettamente interrelate, del foglio di carta:
della sua valenza materiale e di quella
metaforica. Se la superficie è il luogo
di un affioramento, essa può avere diverse qualità fisiche: può essere limpida o torbida, tranquilla o increspata; e la densità più fitta o più rada del
supporto, al di là di gerarchie dettate
dalla storia o dalla tradizione, determina le occasioni affinché il segno si
manifesti.
Si accennava poc’anzi come per
Perilli e per gli altri giovani della sua
generazione attivi a Roma il passaggio per Forma 1 sia stato fondamentale al fine di trovare una spazialità
moderna e un respiro internazionale
basato su un attento lavoro di rilettura dell’avanguardia europea. Nota
Elisabetta Cristallini che in questo
delicato processo di analisi, condotto
nella seconda metà degli anni Quaranta, Perilli è capace di fondere in
una sintesi matura il retaggio di Picasso e quello di Matisse, visibili rispettivamente nella strutturazione
spaziale e nell’accensione cromatica.
A. Perilli, s.t.
pastello, 1950.
21
Un’opzione siffatta gli consente precocemente di riferirsi con la massima
libertà sia al lascito dell’astrazione geometrica d’ispirazione costruttivista
sia al mondo dell’astrazione più lirica,
A. Perilli, s.t.,
tempera 1960.
22
basata su forme dal carattere organico, biomorfico. Si prenda ad esempio
l’acquarello senza titolo del 1949 con
il quale si apre, cronologicamente, la
mostra: su un fondo fittamente tassellato mediante pennellate variopinte, che sembrano potersi liberamente
espandere oltre il foglio, si sovrappongono elementi geometrizzanti
volti ad articolare lo spazio; un segno
nero definisce forme trasparenti che
talora si limitano a racchiudere porzioni del motivo di fondo, talaltra ne
increspano il ritmo coinvolgendolo
nel loro movimento. La nozione dinamica del segno si manifesta con
maggiore evidenza nel pastello senza
titolo del 1950, e rinvia al problema
formale che sarà al cuore dell’arte
di Perilli di qui ai decenni successi-
vi: quello della dialettica tra segno e
spazio. Nel caso presente, come nella gran parte dei lavori successivi, il
segno – nota Fabrizio D’Amico – si
pone in relazione con uno spazio che,
in virtù del suo potere strutturante, trasforma in un «campo
[…], ove le tensioni
nascano, convivano,
confliggano e infine
si risolvano». Perilli
prende il via da uno
spazio dato dove l’apparire del segno induce, dinamicamente,
continue trasformazioni e l’artista, con il
procedere del lavoro,
ridefinisce incessantemente i termini dei
rapporti interni alla
composizione.
Il tema del rapporto tra segno e campo è sviluppato con ancor maggiore
consapevolezza nel momento fondamentale (non solo per Perilli, ma
per l’intera cultura artistica italiana)
de «L’Esperienza Moderna», la rivista
che l’artista crea e dirige con Gastone
Novelli fra il 1957 e il 1959. In quegli
anni la presenza a Roma di Perilli, di
Novelli – di ritorno dal Brasile dove
aveva trascorso quattro anni fra il ’50
e il ‘54 e che aveva trovato al rientro
proprio in Perilli un prezioso consigliere e interlocutore –, e dell’americano Cy Twombly, produce circostanze favorevoli alla ricerca sul segno
secondo una molteplicità di declinazioni, tutte allusive al segno «scritto».
Alfabeti, veri o inventati, scarabocchi, graffiti tracciati su una materia
fattasi col tempo, in Perilli, più spessa
e variegata, anche nelle opere su carta: questa la complessa fenomenologia segnica che appare nella pittura
d’avanguardia romana della seconda
metà degli anni Cinquanta; si tratta
di un carattere comune all’interno
di linee di ricerca di artisti che mantengono tuttavia posizioni personali
e distinte. Sembra essere divenuta
prioritaria l’esplorazione della dimensione antropologica del segno:
accanto al suo potere di articolazione
formale dello spazio, se ne mettono
in risalto adesso le valenze comunicative, per cui esso si apparenta, di volta
in volta, con i piani elevati della scrittura e con quelli bassi dello sgorbio
tracciato più o meno distrattamente
sul muro. Il segno si presta inoltre a
registrare, sulla scia dell’automatismo
surrealista, gli impulsi provenienti
dall’inconscio. Queste rinnovate nozioni e funzioni del segno consentono a Perilli di definire con maggior
precisione il rapporto con Klee, con
il dadaismo, il surrealismo e certi esiti
americani di quest’ultimo movimento (penso soprattutto a Gorky).
All’alba degli anni Sessanta è la
struttura stessa dello spazio a essere
ripensata: essa comincia a presentare
una scansione a scomparti, all’inizio
delineati più liberamente (è il caso
della tecnica mista senza titolo del
1960 qui esposta), poi secondo una
più precisa intenzione geometrica, ad
esempio nello Studio per Rosa Luxemburg del 1964. Perilli è giunto così ai
celebri «fumetti»: in essi, alle questioni formali affrontate nelle fasi prece-
A. Perilli, «Studio
per Rosa Luxemburg»,
tempera, 1964.
23
A. Perilli, s.t.,
inchiostro e tempera
su carta, 1966.
24
denti, inerenti al rapporto fra segno
e superficie, se ne aggiunge un’altra
ancora, la relazione tra spazi autosufficienti e struttura generale del
lavoro, secondo uno svolgimento paratattico; opzione, quest’ultima, che
non investe soltanto la singola opera,
ma il lavoro complessivo di Perilli a
queste date. L’artista compie in que-
versi e i percorsi si moltiplicano, creando discontinuità (o meglio nuove
continuità) fra le singole figure e un
nuovo senso di molteplicità spaziale.
In quest’ultima chiave è possibile
leggere i lavori dell’artista dagli anni
Settanta in poi, quelli rappresentati in mostra da Primaverile excursus,
del 1984, o da La memoria barocca,
gli anni una riflessione che combina
da un lato la ricerca relativa a una
«iconografia di simboli socialmente
accettati» – come dice l’autore su «Il
Verri» nel 1963 – e dall’altro l’esigenza di contrapporre all’uso e all’abuso rapido dell’immagine nel circuito
della comunicazione di massa una
possibilità di maggior «durata». È ancora Perilli, nel testo appena citato,
a fare, al riguardo, un riferimento al
pensiero di Henri Bergson. A differenza delle strisce a fumetti che s’incontrano comunemente nei giornali,
dove la storia ha un’unica direzione
di lettura, nei «fumetti» di Perilli i
dell’anno successivo. Nel loro complesso, lavori siffatti giocano con il
rigore della geometria, smentendolo,
e dando vita a spazialità incongrue,
eteree, «meravigliose», vocabolo,
quest’ultimo, da intendersi secondo
un doppio riferimento al surrealismo e al barocco: prospettive create mediante l’inganno dell’occhio,
che non dicono, semiologicamente,
il vero una volta accettate le regole
del sistema, ma illuminano, anche
in questo caso, le infinite capacità
di metamorfosi di cui sono dotati
l’occhio e, per suo tramite, l’immaginazione.
Colloquio con Achille Perilli *
Simonetta Baroni **
Desidererei che in questo breve colloquio si parli non tanto dello sviluppo della sua
esperienza pittorica quanto del pensiero che l’ha accompagnata attraverso i suoi scritti.
Il suo percorso teorico, già nell’elaborazione dei principii del Manifesto del Gruppo
Forma Uno – redatto nel 1947 insieme ad Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Sanfilippo e Turcato a sostegno del linguaggio astratto – si muove, riprendendo
le sue parole, attraverso un “passaggio lento dall’idea di rappresentazione a quella di
presentazione”. Ella diceva anche che “non era bastato togliere l’oggetto e la distanza per
raggiungere l’optimum che si chiamerà astrazione” tanto che la sua ricerca si apre all’incertezza geometrica. “Una forma geometrica non più determinata da leggi del calcolo e
dell’ottica” ma che risponde ad un processo irrazionale cui si unisce anche la consapevolezza che “una struttura non è mai determinata mentalmente ma si elabora e si accresce
nel farsi”. Tutti questi aspetti nella costruzione artistica come si relazionano?
In uno scambio in cui l’approdo è la follia regolamentata attraverso le leggi dell’irrazionale; lasciando all’artista la possibilità di volta in volta di scoprire l’indeterminatezza del fare pittorico, ho iniziato a lavorare nel 1968 su questa idea di dissolvimento della geometria, presentando opere alla famigerata Biennale di quell’anno.
Un territorio da esplorare sempre più complesso attraversato da “ambiguità” di messaggi, di percorsi. Quale per lei è il valore e il significato di questo termine che ho trovato ripetuto frequentemente nei suoi scritti?
È un termine da riferire a ogni forma pittorica e non solo a quella geometrica ,
tanto che molto ambigua è l’arte di Leonardo. Dall’ambiguità si allargano i confini
della conoscenza, si moltiplicano le letture e i significati.
Diventa inevitabile estendere l’indagine allo spazio, che secondo lei non può più
essere soggetto alla legge prospettica considerata una categoria artificiale “che in sé già
racchiude una serie di falsificazioni dei dati visivi”. Come si manifesta questa nuova
idea di spazio e di prospettiva?
Riguardo ai concetti pittorici io lavoro su un’ idea di spazio nel vuoto cioè passo al di là della dimensione reale, mediante la totale frantumazione della forma,
per entrare in una nuova dimensione che è determinata dal vuoto che circonda lo
spazio.
* L’incontro è avvenuto nell’abitazione dell’artista l’11 aprile 2007.
** Laureata in Storia dell’arte contemporanea, collabora nel Dipartimento Didattico del Macro
di Roma.
25
A. Perilli,
«Primaverile excursus»,
acquarello, 1984.
E lo spazio teatrale? La sua esperienza in questo campo è stata particolarmente
significativa: iniziata nel 1961 con Collage, uno spettacolo visivo astratto realizzato con il musicista Aldo Clementi, e poi nel 1965 con Mutazioni su testo di
Nanni Balestrini e musiche di Vittorio Fallegara, e continuata dal 1972 al 1981
nel Gruppo Altro.
Il teatro è un aspetto fondamentale della mia ricerca. È un incontro ad
un certo momento con una nuova problematica, in quanto, se lavoro su due
dimensioni faccio la pittura, ma introducendo il terzo elemento della profondità arrivo al teatro. E questo diventa un bel problema nel senso che lo
spazio teatrale, che non ha niente a che fare con lo spazio pittorico, è molto
più complesso. Implica una variabilità di temi per esempio l’idea di suono,
sia come musica che come parola, l’idea di movimento che può svilupparsi in
diverse direzioni.
È un argomento avvincente che meriterebbe un maggiore approfondimento.
Vorrei ritornare a parlare dell’aspetto teorico della sua arte. Lei nel 1969 ha scritto che la pittura è “una tecnica, è un modo operativo che si attua in una serie di
avvenimenti espressivi”, aggiungendo che “la struttura pittorica permane, poiché è
il nostro modo di comprendere il mondo, la realtà, è la nostra azione sul territorio
della fantasia”. Ma quale realtà?
Paul Klee per esempio, ad un certo momento, è stato molto avanti nella
conoscenza del reale quando diceva di voler scendere in profondità sempre
più in profondità, anche se solo con la ricognizione dell’inconscio, come diceva Breton, si è scoperta quella parte della luna che noi non conosciamo. Da
Freud in poi nel campo creativo si è aperto un territorio enorme.
26
A. Perilli,
«La memoria barocca»
acquarello, 1985.
Come si potrebbe interpretare nell’attuale panorama artistico il tema
dell’integrazione delle varie arti (pittura, musica, poesia, teatro, architettura, design) da lei affrontato negli anni cinquanta e sessanta su alcune riviste come Arti Visive, L’esperienza moderna e Grammatica e ulteriormente
analizzato in Machinerie, ma chère machinerie del 1975 dove conduce
la sua indagine “sugli spazi ancora ignoti tra codice e codice, coinvolgendo
strutture linguistiche aliene”?
Oggi è un momento di grande contaminazioni linguistiche in cui si intrecciano elementi espressivi diversi ancora troppo imprecisi; ma siamo solo
all’inizio di un cambiamento. Anche l’uso di strumenti tecnologici – c’è stato
un periodo in cui tutti usavano il video, che oggi appare quasi vecchio – deve
essere finalizzato e applicato al modo di esprimere un’immagine, sapendo che
la ricerca tecnologica è sempre più avanzata rispetto all’ esperienza artistica.
Inoltre nell’arte attuale c’è molta provocazione fittizia. La vera provocazione
resta quella di Duchamp.
Recentemente ha affermato parlando dei suoi ultimi lavori che “Le macchine
del mio lavoro stanno partendo per Marte, per precedere tutte quelle macchine
complicate che invaderanno il pianeta negli anni futuri. Sto procedendo all’esplorazione dell’invisibile”.
È un’idea utopistica. La ricerca precede sempre la macchina, è sempre più
avanti rispetto ad ogni conoscenza. Io nel mio lavoro potrei usare qualsiasi
strumento, senza preclusioni; l’importante è che esso sia finalizzato alla ricerca.
27
Mostre d’arte a Torre Truglia
Sperlonga, Torre Truglia (foto G. Giardino, gennaio 2008).
Torre Truglia
1. dal 25 luglio al 12 settembre 1998
mostra di dipinti
note di Giacomo di Raimo e di Giuseppe Appella
Alberto Gianquinto
16 dipinti ad olio su tela;
[...]
È che Gianquinto, assumendosi il compito di ricostruire il suo universo
alle radici, mette in scacco ogni previsione di itinerario e, riconquistata la
semplicità favolistica insita nel suo lavoro, si diverte, si commuove, si stupisce
(Ubi amor ibi oculus est) davanti a un giglio, a un cestino, a una falce, alla luna,
al libro, al passero, alla lucciola, allo spartito musicale, al ramo di susino, al
A. Gianquinto, «La notte
di S. Lorenzo»,
olio su tela, 1983.
29
Ruggero Savinio,
«Marina», 1994.
piccolo cielo o alla mezza pera, non perché sono il motivo del dipinto, la visione diretta e immediata del tema prescelto in quel momento, ma l’incontro
inatteso, l’idea di partenza che l’ha sedotto e ne costituisce la sua universalità. Un’idea vestita di neri freddi ma vellutati o di bianchi e grigi frementi,
alla Watteau, per paesaggi dagli elementi rovesciati incastonati in una finestra
come un blocco passivo: cieli opachi insondabili e ombre traslucide irradiate
in uno spazio fluttuante, segnato da cicatrici azzurre, da stigmate rosa, da
esitanti e stupite apparizioni di nudi femminili o di bagnanti subito complementari al cielo, al giardino, alla casa, al pane, a quegli oggetti che Gianquinto
ha affrontato con veloce invenzione, ricominciando sempre daccapo, riscoprendo il soggetto e i mezzi per realizzarlo con rapide stesure di magro colore,
muovendo da una sintesi plastica per recuperare la realtà.
[...]
Ruggero Savinio
3 dipinti ad olio su tela o tavola; 12
tecniche miste su carta intelata.
[...]
Savinio, che è anche attento esegeta del proprio lavoro, intende di
continuo andare al di là dei dati immediati dei sensi, di ciò che Cézanne chiamava “sensazione spicciola”.
La caccia all’immagine solidificata
da eternare nel quadro, “che ecceda
la sterile compiutezza simbolica e
porti almeno un soffio del mondo
di fuori”, è originata precisamente
da una freschezza nativa della sensazione, in cui la forma e il colore
concorrano all’edificazione non di
motivi generici ma di quel mondo, e
la forma sia libera nella sua struttura
interna, delineata nella sua consistenza anche dall’aria che l’avvolge,
dai “salnitri, i muschi, le muffe”,
dalle cose fuggevoli e impalpabili
dell’universo, da quella natura, più
in profondità che in superficie, alla
quale non sappiamo ridar vita.
Molli scrieziature e riflessi sfavillanti, dove l’ombra esiste in funzione dei colori che si sono assunti
il compito della modellazione tor-
30
mentata, riportano ancora a Cézanne
per quell’insistita tentazione di una
luce pittorica piuttosto che della luce
naturale, tale da condizionarne forma
e disegno, l’una espressa attraverso
la sua pienezza, l’altro riconfermato dalla giustapposizione di toni dai
vivi bagliori, da piccole masse dense e
granulose ridotte a piani colorati dagli impasti, da architetture di istanti
che sollecitano le composizioni allegoriche anche lì dove il paesaggio familiare si è rinchiuso in una scena di
genere, in una realtà fine a se stessa.
[...]
Giuseppe Appella *
2. dal 6 agosto all’11 settembre 1999
Martin Bradley
dipinti del periodo romano: 6 acrilici e un olio su tela, 26 acquarelli,
1966-1983
note di Giuseppe Appella e di Libero de Libero (1965)
M. Bradley,
«Tra cielo e terra»,
acquarello, 1982.
3. dal 28 luglio al 18 settembre 2000
Giuseppe Di Lelio
18 sculture, 1998-2000
note di Giacomo di Raimo
e di Giuseppe Appella.
GIUSEPPE DI LELIO E LA RICERCA DELLA PERFEZIONE
Giuseppe Appella
Giuseppe Di Lelio incornicia la busta da lui confezionata per l’invio delle
fotografie delle sue opere con una massima, “Quando si è in ritardo, è bene
rallentare il passo”, alla quale accompagna un brano di Cioran tratto da La
tentazione di esistere: “Per produrre un’opera ‘perfetta’ bisogna saper attendere,
* Storico dell’Arte.
31
G. Di Lelio, «Conversazione», 1998.
G. Di Lelio, «Trittico/3», 2000.
32
vivere all’interno di quest’opera finché
essa non soppianti l’universo. Lungi
dall’essere il prodotto di una tensione,
l’opera perfetta è il frutto della passività, il risultato di energie lungamente
accumulate”.
Questa dichiarazione di poetica, così
decisa in uno scultore uscito da poco
dall’Accademia di Belle Arti di Bologna, riafferma, a quarantatrè anni dalla morte, l’influenza determinante di
Brancusi nella ricerca plastica del secolo appena trascorso e la linfa che nutre
gli inizi del nuovo se di tale fermezza è
la scelta di sottomettersi alle leggi fondamentali della scultura più rigorosa,
affidando alla chiarezza della forma la
serena semplicità dell’espressione.
Di Lelio si è scelto, nel cammino
delle proprie scoperte, altri poli: Moore e Giacometti, come a dire: lungi
da me il naturalismo classico, gli impressionismi accidentati gabellati per
informale, il sensualismo affidato ai
dettagli superflui, l’intellettualismo
mascherato da un linguaggio schematico. Questa progressiva spoliazione
di accessori arriva ai risultati odierni
che trovano nella forma primordiale
il nucleo originario, l’individualità del
contenuto, la volontà di semplificazione, ripercorsa in molteplici varianti
concentrate sui profili e sulle superfici
del travertino di Rapolano nel quale si
prolunga il sogno e la meditazione, la
severa grandezza di un idolo primitivo,
ancestrale, la costante intensità spirituale di un’opera tesa alla perfezione.
Il vigore e la forza che Di Lelio impiega nella rude squadratura degli elementari volumi dei suoi feticci non ha
nulla a che vedere con l’idea del totem,
tanto evidente è l’ironia che circola nelle sue forme bloccate ma dall’epidermide martellata, nate da una costante lot-
ta con la materia sottoposta a cadenzate
sollecitazioni, non ultima il simbolismo
erotico, da cerimoniale privato. Un cerimoniale costruito su una visione olimpica
della vita, portata a sottrarsi all’angoscia
di una civiltà distruttiva con la rinnovata mitologia di forme ideali sistemate
nell’ordine armonico della natura.
Il procedimento di lavoro si sviluppa
per gradi: istituzione fantastica dell’idea
che poi viene fissata nel disegno e quindi
sbozzata nella materia liberata dalle parti
eccedenti fino a conservare la vibrazione finale che non prevede idealizzazione alcuna della figura, pesante e a volte
brutale nella sua esecuzione ma sempre
dignitosa nella sua immobilità animata
da una torsione interiore.
La trasposizione e la sintesi della realtà
che Di Lelio compie nelle forme dense e grevi come in quelle leggere e lineari, serrate da suggestioni inedite ed
elementari, spesso risolte da una semplice variazione di incidenze luminose,
costituiscono ormai una sorta di repertorio vivo ed efficace da cui ricavare
ampliamenti di orizzonti e di prospettive alieni dalla sorgente aneddotica del
ricordo ma sempre partecipi della stessa natura del materiale, sia esso legno,
serpentino di Tengenenge, travertino giallo o marmo bianco. È sempre lo
stesso materiale a fissare una specie di concerto o di incontro dialogico tra le
sculture, in cui le varie parti, collegate da legami sottilissimi eppure possenti
si sostengono o si contrastano nello spazio, ritmate dalle forze naturali che
ricordano architetture preistoriche o millenarie, concrezioni geologiche, in
sostanza le sorgenti linguistiche della scultura nata da una emozione reale.
P. Basile,
«Venus», acquaforteacquatinta, 1979.
4. dal 28 luglio al 9 settembre 2000
Pasquale Basile
2 dipinti su carta, 16 acqueforti e 6 sculture, 1998-2001
note di Giacomo di Raimo e di Luciano Luisi.
[...]
Il titolo della mostra “Donna e mito”, trae motivo dai contenuti dell’opera dell’artista, ossessionato, inseguito da figure femminili ancestrali (volta a
volta la Donna, la Dea, la Madre, la Sensuale seduttrice etc.), prorompenti
con un piglio di centralità e primazìa da un’epoca matriarcale, avvolte in un
33
caldo erotismo sottolineato dal
disegno e appena filtrato dai
colori scuri e terrosi delle opere
su tela e su carta e delle incisioni e dalla materia consunta ed
erosa delle sculture. Figure che
sospingono verso un orizzonte
arcaico, una memoria quasi ellenica anche quando cavalcano
un moderno scooter. A fronte di esse l’uomo resta in una
condizione subordinata, in
una irriducibile solitudine.
Giacomo di Raimo
5. dal 27 luglio all’8 settembre
2002
Francesco Pezzuco
18 tecniche miste,
1992-2002
note di Giacomo di Raimo
e di Daniela Ciotola.
F. Pezzuco,
«Comunicanti», 1997.
COERENZA E SIGNIFICATI
DI UNA RICERCA ARTISTICA
Daniela Ciotola
1. Chi visiti con attenzione la mostra antologica di Francesco Pezzuco, organizzata dal Comune di Sperlonga, avverte la continuità della sua ricerca
artistica, benché le opere riguardino l’arco di un decennio e i loro contenuti
appaiano talora diversi o diversamente influenzati. La coerenza interiore di
Pezzuco si realizza nel costante procedimento espressivo – al di là della prevalente tecnica dell’affresco – mentre non contano le variazioni meramente
compositive o stilistiche.
L’artista non rappresenta naturalisticamente la realtà esterna sulla base delle
proprie emozioni ma spoglia di ogni specificità fisica, legata alla provenienza
naturale, oggetti e dati empirici recuperati nel percorso esistenziale, riducendoli a simboli e trasferendoli pittoricamente in partiture geometriche che generano sensazioni spaziali. Liberate di quanto è occasionale o contingente, le
immagini acquistano un nuovo senso, moltiplicano echi e correlazioni, diven-
34
gono intensamente evocative della vita cosmica, si inseguono in interessanti
sviluppi di volumetrie e di colore. Se, dunque, l’avvio creativo di Pezzuco è di
assumere figurazioni in prestito dal mondo naturale, l’esito formale è quello di
astratte composizioni, di spazi quasi musicali, di orizzonti luminosi in cui immagini e oggetti scorrono velocemente e tendono a dissolversi, con un fremito
lirico che segue all’atto geometrico
del pensiero.
2. La descritta modalità espressiva rende difficile accostare l’opera
di Pezzuco all’uno o all’altro dei
movimenti e delle esperienze che
hanno segnato l’arte contemporanea. Certamente sono dietro le sue
spalle il naturalismo e l’impressionismo e ogni altra stagione dell’era
che precede quella che viviamo.
Il sicuro istinto strutturale, il
senso della superficie pittorica che
regge la casualità cromatica degli
sfondi materici determinata dalla tecnica dell’affresco, la capacità
di semplificare le immagini e di
ricomporre gli spazi denunciano
l’attualità del suo talento. Riconducibile nell’ambito dell’astrattismo, Pezzuco vi si caratterizza per
l’insistita presenza di immagini e
motivi desunti dal mondo naturale
e in ciò ricorda Ben Nicholson. Sotto il profilo contenutistico numerosi
sono i punti di contatto con altre esperienze artistiche.
L’anelito a cogliere il flusso temporale continuo, lo “slancio vitale” cosmico, le tracce della “memoria materica” (Bergson) lo avvicina talora a odierne
tendenze ideiste o di astrazione mistica e comunque neosimboliste, i cui
limiti peraltro sono gli stessi della seconda generazione simbolista cioè dei
Nabis; ci riferiamo alla artificialità, pur sapiente, delle soluzioni pittoriche,
al decorativismo, al decadentismo poetico. La diversità dell’artista sperlongano rispetto a queste tendenze sta nel fatto di non rinunciare mai alla
percezione razionale della realtà che si esprime anche nella geometria degli
impianti e dei contenuti. Per il medesimo motivo e poiché non rinuncia
altresì alla forma – sia essa figurativa o non figurativa – Pezzuco non può
qualificarsi pittore informale pur avendo acquisito qualità importanti dalla
pittura informale.
F. Pezzuco, «L’Isola
che non c’è (1)», 1998.
3. [...]
35
Mostre d’arte nel Museo archeologico nazionale
Museo archeologico
nazionale
Testa di Odisseo, frammento
del Gruppo di Polifemo.
6. dal 28 luglio al 18 settembre 2000
Carlo Guarienti: 6 tecniche miste su tela e su tavola
nota di Giacomo di Raimo e un colloquio di Giuseppe Appella.
COLLOQUIO CON GUARIENTI *
Giuseppe Appella
Nell’antica Amyclae poi Speluncae, oggi Sperlonga, sei ospite, con un gruppo
di dipinti datati 1991-2000, del Museo archeologico nazionale che custodisce
sculture e altro materiale scoperto nelle vicinanze della Grotta di Tiberio. Sono
opere del periodo ellenistico, di arte rodia, alcune di dimensioni colossali. Tra
queste, distribuite nelle tre sale, la statua di Odisseo facente parte del gruppo del
Ratto del Palladio da Troia, il Gruppo di Polifemo, ricostruito pazientemente
con centinaia di piccoli frammenti, il Gruppo di Scilla e Attis rapito dall’aquila
di Giove, una bellissima scultura di età flavia.
Conoscendo il tuo rapporto con l’antico, con gli infiniti segni cristallizzati dal
tempo nella materia, la curiosità, il fascino e l’ inquietudine esercitati su di te da
questi reperti, che sono tasselli di una remota storia italica e sanno di urna, di
pareti tombali, di allegorie del viaggio supremo, hanno origine nella memoria del
proprio stato e della propria ascendenza?
Forse la mia non è una risposta; mi darebbe un po’ di serenità potertela
dare ma posso solo cercare di ricordare nella mia infanzia le impressioni che
ho avuto in una città come Verona dove, uscendo di casa, vedevo i teschi di
bue impressi nei muri dei palazzi del Sanmicheli e, poco più avanti, gli stessi
nel romano Arco dei Gavi. Ad un bambino, rimasto orfano della madre all’età
di quattro anni, si raccontavano storie; non si poteva metterlo davanti alla
televisione che non c’era! Vorrei poter ricostruire quelle giornate; forse darebbero un significato alle mie ansie.
Nessuna città come Verona, dall’Arena alle Arche Scaligere, dalle chiese romaniche a quelle gotiche, al Rinascimento, al Barocco, fino al grande soffitto
di Tiepolo nella casa dove abitavo, ha una continuità storica così naturale; e
* L’incontro è avvenuto nello studio dell’artista nel maggio 2000.
gli stili si contaminano tra loro. Bassorilievi romani erano disseminati nelle
chiese e nelle case.
Le storie, le leggende, dalla facciata di S. Zeno al trionfo di Ercole che Tiepolo aveva dipinto, erano motivo di infinite domande che ricordo ancora. Le
risposte che mi davano non erano chiare.
Quelle storie, quelle immagini così diverse da quelle dei fumetti della televisione mi costringevano a fantasticare per ore senza mai riuscire a dar loro
un senso. Col passare del tempo mi sono accorto di essere un bambino molto
amato. I miei parenti vestivano ancora a lutto e il nero si mescola, nel mio
ricordo, al bianco delle pietre con il fascino dell’assoluto. E, poi, ho sentito che
in me cercavano mia madre e per forza li avrei delusi. Ero solo il bersaglio della loro nostalgia. Ora mi costa caro tornare a Verona. Mi sembra di vedere sul
greto dell’Adige Teodorico che insegue il cervo ed io mi unisco alla sua caccia
per fare quella strada che percorre l’Italia. Questa volta si ferma a Sperlonga.
Tanto più sono vivi ed eloquenti i documenti dell’antichità – pitture, vasi,
sarcofagi – ai quali fai riferimento, tanto più favoloso il carico di miti, più densi
di umori si fanno i tuoi lavori che tornano a insistere sulla figura umana, sul ri-
C. Guarienti, «Figura»,
tecnica mista su tela, 2000.
37
tratto, e su quanto può rivelare di sé con i gesti, con il portamento, con lo sguardo
vagamente intravisti come in una sindone dove il segno che definisce l’ immagine
è l’unica traccia di un interno labirinto.
Labirinto: se trovassi il filo di Arianna per uscirne saremmo a cavallo del
toro e potremmo domarlo; oppure fuggire da lui. Ma questo filo è uguale ad
altri fili e devi contentarti di essere uno che qualche filo l’ha trovato. Le illusioni aiutano a campare.
Uno di questi fili è stato per me la pittura, mi ci attaccai tra i dodici e i
quattordici anni e, dopo una vita, ogni tanto penso ancora che sia il filo buono.
Goffredo Parise, e mi fa piacere ripeterlo qui, mi diceva: “Pensa in dialetto
se non vuoi essere provinciale”. Quando raccontavo questo a Fellini, se lo
faceva ripetere e commentava: “Pensa un po’ a esser nati a Piazza Bologna a
Roma o davanti al Duomo di Milano!”. La provincia è la nostra grande forza,
tutto è più piccolo e più vicino. De Chirico in una intervista alla televisione
diceva che la Grecia era stata importante per lui perché le montagne erano
piccole. Lo capivo benissimo, ma, una volta che gli dissi che questo l’avevo
capito ancora meglio leggendo i Dialoghi con Leucò, mi guardò con dispetto e
smise di parlare. Ma sto divagando.
Dici bene con il termine “sindone”: la pittura non è letteratura: in pittura
non racconti ma cerchi di evocare un’immagine, in pittura puoi, anzi devi
mentire. La storia dell’arte non è che la storia dell’umanità che vuole riprodurre la natura, all’inizio con intenzioni certamente scaramantiche ed esoteriche. Col passare dei secoli la riproduzione della realtà è condizionata dalle
religioni, dai pregiudizi, dalle committenze; per di più, da oggettiva sempre
più diventa soggettiva, si interiorizza. Oggi, poi, non ci sono né stili né committenze: il pittore è finalmente libero e disperato.
La tecnica, in Guarienti, è solo la pelle della figura o la disposizione vitale per
quel disperato scrutare e interrogare nel meglio nascosto sotto la faccia della terra, nei dolci rigonfiamenti di affreschi dimenticati, nella profondità delle muffe,
nelle macchie trasudate di muri giallognoli, nelle squame degli intonaci caduti,
sempre e inevitabilmente a portata di sguardo?
Non ho studiato pittura, purtroppo, non ho avuto maestri. Sono un autodidatta con una grande nostalgia per una bottega del Rinascimento. Mi piacerebbe avere un contratto per un grande affresco, un bravo muratore che mi
prepari “le giornate”. Le preoccupazioni tecniche riempirebbero il mio tempo
e sarei più contento: queste certamente sono più “serie”. Col passare degli
anni la tecnica è diventata da una parte assillante e, al tempo stesso, distensiva
come tutti i riti.
Una volta le facciate delle case erano dipinte; tutta l’Italia era dipinta ed,
ancora, ne troviamo le tracce: queste tracce sono il nostro dialetto. Quand’ero
giovane ho strappato tanti muri bellissimi nelle campagne del Veneto. Alcuni
sono ancora nel mio studio, li tengo come reliquie, non oso quasi più usarli,
ma quelli che ho usato, quasi sempre sciupandoli, mi hanno insegnato più
38
Carlo Guarienti, «Autoritratto»,
tecnica mista su tela, 2000.
39
cose di quante me ne abbiano insegnato i musei. Il tempo è il grande maestro.
Noi usiamo una brutta parola: cancellare; i francesi dicono effacer: il tempo
parla francese.
Pochi giorni fa sono stato a Zurigo per vedere la mostra dei Cézanne non
terminati; anche Leonardo e Michelangelo spesso “non finivano”. Questo
modo di dire ha senso solo se lo si contrappone al cancellato di Degas o di
Giacometti. Ebbene, queste cose fanno parte della tecnica e bene fanno i francesi che, in questi casi, parlano del vécu di un quadro o di una scultura. Se a
queste considerazioni aggiungi che ho una laurea in medicina, che a Firenze
dove mi ero rifugiato dopo aver passato la linea del fronte (anche gli studenti
di medicina erano stati chiamati alle armi) ho fatto il preparatore di anatomia
artistica presso l’Accademia di Belle Arti, capisci che l’altro filo sta sull’altro
versante. A quell’epoca scoprii la psicanalisi (che allora aveva il fascino di
scienza proibita; Papafava già mi aveva dato, a Padova, da leggere un libro) ma
il mio incontro a Firenze con Bonaventura (che per primo aveva cominciato a
divulgare l’opera di Freud in Italia) mi fece quasi vedere l’uscita dal labirinto.
Bonaventura mi chiedeva: se tuo padre avesse un colore, quale colore avrebbe?
Ed io pensavo che era davvero un destino che anche lui mi parlasse di colori.
Sto ancora una volta divagando.
Le intenzioni simbolistiche e le convenzioni figurative che circolano nel tuo
lavoro sono strettamente legate alle pratiche rituali della tecnica?
Se si intende con rituale qualcosa di ripetitivo, spero di no. Come dice Norman Mailer, la ripetitività uccide l’anima. Il mio percorso però è costellato di
quadri sbagliati. Nelle opere ci vuole sempre tensione, che è il contrario della
ripetitività. Ma “pratiche rituali” sottintende anche qualcosa di iniziatico e
qui sono d’accordo.
La tua pittura, costantemente e testardamente fiduciosa nella sopravvivenza
spirituale, è attenta a saldare l’al di là con l’al di qua e quasi fosse un viatico, gli
aspetti della quotidianità con le scene e le allegorie, vivacissime, che troviamo nei
grandi cicli di affreschi pompeiani. Credi a un fine prestabilito il cui limite l’età
dell’arte, al pari di quella dell’uomo, non può sorpassare?
In pittura vale di più un esempio dove la trasposizione della realtà è assoluta.
Il Diluvio di Paolo Uccello che, all’aperto, nel chiostro verde di S. Maria Novella
è anche esposto allo stravento, è di una modernità totale (se la parola modernità
ha ancora un significato). Quando posso, anche tra un treno e l’altro, vado a
vederlo ed ogni volta lo trovo un po’ più rovinato e ancora più bello.
Negli ultimi autoritratti esposti a Ginevra da Krugier la stilizzazione raffinatissima delle figure fa pensare a una pittura che tende in tutti i modi a staccarsi
da ogni eventuale limite decorativo per farsi vigorosamente realista: naturale,
direttamente scaturita dalla libera osservazione di se stessi e del vero, pronta a
ripetere le forme e i gesti della vita eppure leggibile, a noi improvvisi scopritori,
solo alla luce delle torce.
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“Solo alla luce delle torce” mi ricorda una frase di Rothko: il vero fuoco è
quello che sta sotto la cenere. Questa frase che Krugier mi ha ripetuto spesso,
me la ripeto prima di prendere delle decisioni. Anche in pittura si devono fare
delle scelte.
De Staël disse di Hercules Seghers che “aveva mani callose a forza di sensibilità”. Essere coerenti in pittura vuol dire saper mentire. A questo punto,
alla vigilia della mia mostra a Sperlonga, mi trovo come un equilibrista che
ha deciso di togliere la rete poco prima dello spettacolo. Solo quest’ultima
circostanza mi permette di convivere con la mia presunzione.
Quanto di Guarienti c’ è in questa frase, un tantino panteista, di D. H. Lawrence: “L’universo intero viveva e compito dell’uomo era di portare se stesso a vivere fra tutto, in tutto. Egli aveva da trarre a sé la vita fuori dall’ immane vitalità
errante dell’universo”?
Se estrapoliamo questa frase da quel naturismo mistico che
fece di David Herbert Lawrence il continuatore di Rousseau
piuttosto che l’anticipatore del caso e la necessità, il concetto lo
possiamo condividere.
Guido Strazza,
«Colonna spezzata»,
tempera e grafite
su tela, 1979.
7. dal 28 luglio al 9 settembre 2001
Guido Strazza : 8 dipinti e 18 incisioni
su Roma dal 1979 al 1982
nota di Giacomo di Raimo ed un colloquio
di Giuseppe Appella.
COLLOQUIO CON GUIDO STRAZZA (*)
Giuseppe Appella
“Roma” è il titolo di una cartella del 1982 nella quale raccogli
tre serie dedicate, rispettivamente alle “Colonne”, a “Segni e trame” e ai “Cosmati”. È un omaggio indiretto a Piranesi, a quella
sorta di moralità che è il rifiuto degli effetti facili, di suggestioni momentanee che attraversano oggi la grafica, ma soprattutto
l’ampio registro della lunga e complessa tua attività, dall’esperienza peruviana alla sosta veneziana, al momento milanese, al definitivo approdo romano. In questo approdo, quasi a voler continuare il sogno di Piranesi, accampi il tuo lavoro: non per animare
le rovine ma per estrarre i segni incancellabili, nonostante tutto,
di quella Roma antica e moderna con la quale dovrà fare i conti
anche la nuova Europa.
* L’incontro è avvenuto nello studio dell’artista nel giugno 2001.
41
Omaggio a Piranesi lo rende chiunque riconosca nel segno l’elemento primario del suo lavoro, e così è per me; un omaggio naturale, con in più, in
questa serie di lavori, la comunanza del luogo di peregrinazioni, fisiche e ideali, che è Roma. Per lui la magnificenza dei monumenti, per me la forza del
suo eterno rinascere suggerito dai suoi minimi segni, quelli che sottendono,
prima ancora che alla sua storia, all’idea dell’essere e del rinascere su se stessi,
uomini e pietre insieme.
G. Strazza, «Segni e trame»,
acquaforte, 1986.
Erudizione e impulso visionario, termini che non possono disgiungersi, guidano
l’opera di Piranesi su Roma. Lo stimolo, tuttavia, viene dalle ricerche archeologiche che in te sono di continuo sommerse se non dimenticate da una organica
indagine nell’ambito della tradizione dell’ incisione. E un modo per realizzare
una conquista autonoma della fantasia?
Lascerei da parte la tradizione dell’incisione che sento, in questo nostro discorrere, ambito circoscritto e deviante. Nemmeno di Piranesi parlerei, su questi
argomenti, solo come incisore. Parlerei, piuttosto, di illuminazione, di quell’attimo di chiarezza che raccoglie e fa repentinamente palese il lento, continuo, solo
in parte consapevole riconoscimento di ciò che, sotterraneo, costituisce non tanto la nostra storia quanto, semplicemente, il nostro essere qui, occhi che vedono,
mani che toccano, piedi che camminano sulle pietre di Roma. Che non sono
mitologia, ma riferimento, prova di quotidiano vivere e rivivere, come di piante
e di rocce con, in più, i segni di infinite moltitudini di uomini che da millenni
e da ogni parte del
mondo, amici e nemici, sono venuti, le
hanno viste, toccate,
adorate, temute, dileggiate, rotte, usate
e mai distrutte.
Il tuo lavoro si
svolge per temi ed è
raccolto in cartelle,
quindi l’album dedicato a “Roma” non è
casuale. Questa necessità nasce dalla stessa
matrice dell’immagine, delle cose rappresentate, da una indagine dell’esperienza?
La parola tema è
solo un nome: quello che, nell’attimo
del riconoscimento,
42
puoi dare ai segni che prima non vedevi e
improvvisamente vedi. Da quel momento,
ai segni tra i quali vivevo e camminavo,
e che facevo, ho dato un nome: “Roma”.
Sembra una definizione conclusiva, ma è
solo l’inizio di una identificazione che non
ha fine se non per quella stessa stanchezza
metafisica che ci coglie quando diamo per
finita un’opera che in realtà già si sta travasando in un’altra.
Tu punti gli occhi sulle cartelle a tema,
sull’incisione come fosse tecnica esclusiva
di questo cercare. Ma l’incisione è solo un
modo, acuto e duro, di guardare tra i segni
del mondo che per farsi tuoi e “naturali”
chiedono complice compromissione con le
cose. Per questo le mie cartelle sono sempre
nate insieme al parallelo e contemporaneo
cercare con la pittura. A volte prima, a volte
dopo, sempre l’una spiegando l’altra.
La tua “Roma” come quella di Piranesi,
è la città della tua immaginazione o quella
eternamente viva dentro di noi?
La “mia” Roma è quella che continua a
nascere e a crescere su se stessa, sulle sue
stesse pietre.
L’opera di Piranesi si sostanzia di memorie, tali da apportare magnificenza alle
rovine di Roma. Tu, al contrario, sfuggi al pittoresco, al favoloso, senza sottrarti
alle memorie, per una sintesi estrema. Spezzi, per necessità espressive, anche le
colonne rimaste intatte?
Sai, le colonne intatte sono monumenti, documenti di un’idea. La loro armonia, stile, bellezza, ecc, hanno piccolo significato rispetto a quello di una
colonna spezzata che, letteralmente, urla resurrezione eterna con una energia
compressa che non riguarda più la storia, ma l’essere vivo, mutevole, attivo e
tremendo del mondo.
G. Strazza, «Cosmate»,
acquaforte, 1987.
Quanto del mito della Grecia vive nel mito di Roma, soprattutto ora che ti si
parano davanti i resti della Grotta di Tiberio?
Ti devo raccontare che tantissimi anni fa, al liceo, sopportavo con pena la
scuola. Solo un professore di greco, che mi affascinava, mi ha riempito per la
vita l’anima e la fantasia di ciò che gli antichi poeti greci cantavano dei loro miti
e dei loro eroi. Te lo racconto perché se ora ti devo dire che quei miti, un po’
come la colonna intera della quale abbiamo parlato, sono per me monumenti di
43
A. Turchiaro, «L’uccello
aggiustatore», olio
su tela, 1968.
un’idea, tu non pensi
a una mia indifferenza al trovarmi qui,
di fronte ai marmi
che li evocano. Mi
commuovono profondamente, ma per
l’essere ancora qui, a
brandelli, perennemente risorti, carichi
di energia. Vedo la
loro bellezza nell’essere rottura, fessura,
piega, capaci di suscitare l’emozione profonda di una certezza,
tanto utopica quanto
reale dell’esserci, che
solo i segni minimi
del mondo, quelli primi ed eterni, possono
dare. In questo senso,
mi perdonino archeologi, storici dell’arte e specialmente la soprintendente di
questo bellissimo museo, marmi greci e romani mi sono uguali, e della Grotta
di Tiberio mi importa molto meno la sua storia rispetto al suo essere ancora
lì, con la sua grande ombra che protegge, come sempre, dalla grande luce del
mare. Del resto questi erano i segni dei miti che questi marmi ricordano.
L’ incisione, come la poesia, cresce sull’ incisione. L’ incontro con Piranesi è un
incontro di anime o di tecniche che si congiungono nello specchio della lastra?
Quanto delle conquiste realizzate con l’ incisione passano nella pittura e viceversa?
Quale dei due linguaggi è il più idoneo a tradurre le emozioni dell’antico?
Pittura e incisione, o qualsiasi altra tecnica, non sono che momenti e modi
complementari di un unico cercare sempre la stessa cosa: il significato dei segni del mondo? In questo senso, nella loro essenza cromatica e segnica, l’una
sottintende l’altra. L’incisione, tuttavia, nell’estrema sintesi del suo linguaggio,
è strumento potente di analisi del farsi stesso dei segni che, colti e resi nella
loro essenza prima, si rivelano senza menzogne. In questo forse sta il mio vero
contatto con Piranesi: che tutti e due abbiamo cercato e scoperto nel segno la
nostra verità e lui mi è stato maestro.
Nel 1980, presentando il ciclo di pitture “Roma” alla Galleria Morone 6 di Milano, introducevi il catalogo con una poesia che era tutto un interrogativo: “Dove
comincia il passato e comincia il futuro? / Come, da un simbolo sfinito appare un
segno? / Ma è, un segno, ricordo o apparizione? / e il ricordo progetto / e il progetto
44
memoria? / storia? / o stanchezza di storia
/ e ribellione e amore /promessa di nuova
storia? // C’è progetto senza storia? / Non è,
la storia, progetto / e un segno, progetto di
storia, / di morte e resurrezione?”
La risposta a questi interrogativi oggi
la danno i dipinti e le incisioni a raffronto, nel Museo archeologico nazionale
di Sperlonga, con i monumentali gruppi
scultorei ispirati alle imprese di Ulisse.
Questo contatto diretto con la storia conferma gesti e segni nati come immagine
della memoria, come rivisitazione di una
civiltà che continua a impegnare le intenzioni del futuro?
Già allora mi domandavo qualcosa
sul significato dei segni e della parola
storia che qui, ora, mi suona superflua
dove parlano e cantano altre voci, quelle
di Ulisse e di Polifemo, delle loro ferite
che emanano forza e solidità dell’idea
del vivere, forse anche dell’idea di bellezza, se si accetta l’idea che non sia un ideale, ma un concretissimo attimo di
illuminazione.
A. Turchiaro, «Il grillo
e la lucertola fra le agavi»,
olio su tela, 1970.
8. dal 12 luglio al 7 settembre 2003
Aldo Turchiaro: 15 dipinti ad olio su tela, 3 acquerelli
dal 1963 al 2000
note di Giacomo di Raimo e di Claudio Zambianchi e un colloquio di
Daniela Ciotola;
presentazioni orali all’inaugurazione di Armando Cusani e di Claudio
Zambianchi
lettura di poesie di Márcia Théophilo.
COLLOQUIO CON ALDO TURCHIARO *
Daniela Ciotola
Negli anni seguiti alla seconda guerra mondiale il panorama dell’arte figurativa italiana è multiforme e composito. L’ influenza delle grandi correnti
europee spinge da un lato verso esperienze neocubiste, informali e tardo espressioniste e dall’altro verso forme di realismo e di denuncia sociale. Ella rigetta
subito tali tendenze e in modo nuovo si rivolge verso la rappresentazione del
* L’incontro è avvenuto nello studio dell’artista il 9 maggio 2003.
45
A. Turchiaro, «L’imbeccata»,
olio su tela, 1974.
46
mondo degli animali in un particolare aspetto di mutazione meccanica, quasi
riflesso dello specchio della tecnologia umana. Il suo linguaggio è quello di forme solide e compiute, di colori fondamentali e profondi tra i quali prevale il
blu. Tutto respira una semplicità naturale. Cosa l’ ha spinta verso questo tipo
di raffigurazione?
Gli astrattisti e i realisti sono stati due incubi di cui mi sono liberato attraverso il mondo degli animali con le ali, a quattro zampe, con le pinne e con gli
artigli. Mi hanno permesso di uscire dalle accademie dell’astrattismo e della
figurazione, ben lontane dal valore che hanno avuto le avanguardie storiche.
Sono per me due correnti irretite dalla politica e dall’ideologismo filo sovietico o filo americano, parlo degli anni ‘40-‘50, o dai meccanismi di mercato,
altalenanti nel gusto, ma sempre uguali nelle dinamiche. Mi sono allontanato
da esse spinto dal desiderio di rimanere fedele alle mie origini e quindi anche
a quella che è la mia vera cultura, non importata o imposta. Sono figlio della
Sila e dei boschi, vicino di casa di ogni forma animale e vegetale che ho incontrato nella mia terra.
La sua terra silana è anche la patria di Telesio, il grande filosofo rinascimentale
che nella sua opera maggiore (De rerum natura juxta propria principia) contesta
il razionalismo aristotelico e sostiene che la differenza tra il mondo inorganico,
vegetale e animale e l’uomo è solo di grado e non di qualità. Vi è una continuità
ideale tra questo pensiero cosmico panteistico e la sua ricerca pittorica?
La semplicità di questo pensiero è il punto di forza della mia vita e della mia
opera. La mia pittura si alimenta del sentirmi compiutamente uomo, in tutto
ciò che mi costituisce tale, e del contatto più pieno con il mondo naturale in
cui sono immerso e dal quale traggo ispirazione. Devo infatti ringraziare i
delfini, gli uccelli e i cani che mi trascinano fuori da me e mi permettono di
vivere una dimensione universale del mondo, quella cioè dove uomo e natura
si compongono in armonia. Dimensione che trovo con difficoltà nel mondo
reale, nel mondo degli uomini privi di questo senso panteistico della vita.
Renato Guttuso, in uno scritto dedicatole, ha accostato la sua opera a quella di Fernand Léger, il
grande pittore cubista francese. Il riferimento coglie
una vicinanza stilistica determinata dal ricorso ad
una tecnologia che meccanizza uomini, animali,
piante, nuvole. Tuttavia l’interesse di Léger sembra
esaurirsi nella stessa composizione pittorica, celebrativa del lavoro umano e della civiltà industriale, laddove il suo interesse scava oltre l’immagine
del dipinto e indaga profondamente il rapporto tra
uomo e natura quasi per restituire il primo alla
autenticità degli istinti e alla capacità di vivere in
comunione con il mondo che lo circonda.
Accanto a Léger aggiungerei Giacometti: in
breve è come dire per me eros e thanatos. Mi sento vicino a Giacometti, al
quale ho assai guardato specie negli esordi della mia pittura, per il sentimento
tragico che contrassegna la sua figurazione.
Condivido quanto mi ha appena detto. Per me dipingere gli animali è ristabilire e rinnovare ogni giorno un patto di amore con la vita, con il desiderio,
la necessità, la libertà di essere partecipe del mondo naturale.
La tecnologia è una forma di conoscenza che soddisfa la necessità dell’uomo
di dare ordine a sé e al mondo, e avere l’illusione di poterlo così controllare.
Ma se durante questo processo conoscitivo l’uomo dimentica di rispettare le
regole che governano il mondo minerale, vegetale e animale e quindi se stesso,
allora rischia una reazione negativa e distruttiva di se stesso e dell’ambiente.
Nel momento in cui dimentica che uomini e animali hanno gli stessi diritti di
abitare il pianeta, l’uomo perde la sua più vera dignità umana e animale.
A. Turchiaro, «Volpe»,
olio su tela, 1990.
La sua opera presenta non tanto i caratteri di un «favolismo tecnologico» (come
scrive, tra gli altri Crispolti mentre Márcia Theóphilo la definisce «Esopo del
2000»), essendo assente ogni finalità didascalica, quanto quelli di una ricostru-
47
F. Clerici, «Promontorio»,
olio su tavola, 1965.
zione mitica della natura come una realtà che ha un suo proprio tempo che è fuori
del tempo; ricostruzione di cui si fa strumento la stessa mutazione tecnologica e
metallica dell’oggetto rappresentato. Mi consenta di riportare, come pronunciate
ora, le parole di un suo scritto:
«Il metallo ha delle vibrazioni luminose molto accentuate, m’interessa il suo
brillìo sotto la luce solare o elettrica. Vorrei avvicinarmi allo splendore della
natura che si veste sempre di azzurri, di verdi, di viola, di rossi anche in mezzo
alla tragedia, e anche quando un uomo si adopera per sovvertirla alla fine lo
accoglie nei suoi incavi con indifferente gentilezza; in tutto questo c’è una
sorta di indefinibile grandezza al di là del bene e del male che solo il metallo
con la sua durezza e brillantezza mi restituisce».
Questo mondo mitico ricostruito sembra voler donare all’uomo una superiore
pacificazione tra la geometrica ragione umana e gli istinti vitali della natura
animale cui egli appartiene, una più larga coscienza delle vicende umane e naturali che da sempre lo accompagnano (vita e morte, amore e distruzione, perdita e
ritrovamento). In questo mondo non mancano i conflitti, le tragedie ma esse sono
48
note e accettate, preannunciate e ritualizzate come nei grandi dipinti Il buco
viola o È il tempo del delfino. Negli ultimi suoi dipinti la narrazione si fa più
spietata, emerge un nuovo senso di angoscia, di denuncia della disperante commistione di bene e male che è nel rapporto tra l’uomo e la natura e tra gli uomini
stessi. Per concludere, vorrei chiedere se ella riconosce un maestro, un modello di
riferimento, anche al di fuori della storia della pittura, nella rappresentazione
della condizione dell’uomo.
Charlie Chaplin è per me modello e maestro di amore e di crudeltà. La sua
opera rivela la natura umana nella sua interezza fino a scoprirne la profonda
radice che lo accomuna al mondo animale. In «Febbre dell’oro», quando i due
amici sono affamati, si vedono come polli. L’istinto di sopravvivenza vince
sull’amicizia. Non si può quindi rinnegare totalmente la propria parte istintuale che è sempre più forte della ragione. Riuscire a raccontare con ironia la
crudeltà, il dualismo della condizione umana è difficilissimo e Chaplin è in
questo un genio.
9. dal 10 luglio al 11 settembre 2004
Fabrizio Clerici : 8 dipinti ad olio e 14 tecniche varie (tempera, pastello,
acquarello, penna e matita) dal 1959 al 1989
note di Giacomo di Raimo, Ines Millesimi e Paolo Mauri; presentazioni orali
all’inaugurazione di Nicoletta Cassieri, Ines Millesimi e Claudio Zambianchi.
“Tutta l’arte e la poesia
altro non è che la rivelazione della verità nel sogno”
(da “I maestri cantori di Norimberga”)
Fabrizio Clerici, scomparso nel 1993, è tra i maggiori protagonisti del Novecento e si congiunge in una magnifica triade con Giorgio De Chirico e Alberto
Savinio con i quali costituisce un filone primario dell’arte europea. Come ogni
artista di genio Clerici sfugge a precise catalogazioni. Ci si chiede se sia da porre
accanto al Grande Metafisico (De Chirico) o sia un pittore surrealista (come
forse Savinio) o invece surrealista-metafisico come pure si propone unendo etichette relative a mondi espressivi diversi se non opposti. Io non qualificherei
Clerici come un surrealista perché le sue immagini sono filtrate dal pensiero e
non si interrompe mai il filo conduttore della sua razionalità; poiché, in altre
parole, manca in lui, diversamente che nei grandi surrealisti (Ernst, Dalì, etc.),
l’irruzione improvvisa e disgregante dell’inconscio.
Più facile è rilevare ciò che accomuna i tre artisti italiani: una rappresentazione visionaria proiettata verso il mondo classico, il senso del disfacimento di millenarie civiltà, il respiro di un tempo già consumato e stratificato, il collocarsi
fuori di ogni tempo quindi delle diverse finzioni sceniche nelle quali il frequente
rimando ad un diverso contesto, ad un “altrove” indica il vuoto dell’esistenza.
49
F. Clerici, «La xxv ora»,
olio su tavola, 1968.
50
Come De Chirico, Clerici – umanista e architetto – è affascinato dall’arte
romana e da quella rinascimentale mentre condivide con Savinio il gusto per
l”ambiguità” simbolico-surrealista. I viaggi in Medio Oriente alimentarono
le sue visioni archeologiche di estesi deserti, di antichi templi, di relitti e reperti, di simbolici falchi e capricorni. Straordinario faber, fine disegnatore,
splendido pittore dalla pennellata piana senza spessore materico, Clerici attrae
e incanta con la sua iconografia che traduce visioni oniriche e si presenta
nitida e definita come quella degli amati Klinger e Böcklin. Lo sconcerto e
l’inquietudine che Clerici comunica vengono dal suo malinconico sentimento
della fine di ogni realtà storica e della morte individuale, intesa – rigettando
ogni estraniazione o deiezione – come possibilità estrema dell’esistenza, verità
unica nel compenetrarsi di passato e presente (Heidegger). Ciò senza profonda
angoscia, che mi sembra mancare in Clerici anche allorché dipinge, come nel
ciclo delle “Metamorfosi”, la trasmutazione del mondo umano in quello naturale, il refluire di ogni essere vivente in un continuum panteistico.
Ho conosciuto Clerici nel 1970 e l’ho rivisto più volte sul finire degli anni
ottanta. Si accedeva alla sua abitazione da via dell’Anima, entrando in una
silenziosa penombra (raramente le persiane erano schiuse a mostrare la spettacolosa vista di Piazza Navona), in un ambiente pieno di reperti esotici e rari
e di libri preziosi, ove, su un lungo divano, campeggiava uno dei suoi quadri
più belli, Sonno romano. Il dipinto, che catturava gli occhi del visitatore, ritrae
F. Clerici, «Eletto a Menphi»,
olio su tavola, 1972.
come figure dormienti – poste su piani sfalsati – statue classiche riconoscibili,
avvolte da una intensa atmosfera di mistero e di morte. Durante l’ultima visita
che gli feci mi mostrò come disegnava avvalendosi di uno speciale apparecchio ottico con il quale aveva rimediato ad una grave menomazione della
vista patita nel 1983. Disegnava con una rapidità e precisione incredibili proseguendo una amabile conversazione. Gli dissi di ritenerlo, ad onta del Sonno
romano che avevamo vicino – magnifico compendio di una Roma barocca –
un signore del Settecento, un grande illuminista. Annuì sorridendo.
Giacomo di Raimo
CLERICI OVVERO L’ARCHEOLOGIA COME ARCHETIPO
Ines Millesimi*
Il mestiere dell’archeologo è una sfida contro il tempo, che tutto avvolge,
modella, distrugge.
È una fatica inenarrabile trovare un frammento scavando con ostinata pazienza e speranza, procedendo per strati ed ipotesi, e scoprire che quel frammento, una volta confrontato con gli altri, permetterà di ricostruire una storia,
quella che non è scritta sui libri e che le biblioteche di pietra, come le antiche
* Storico dell’Arte, coautore del catalogo della mostra antologica di Clerici alla Galleria
Nazionale d’Arte Moderna, Roma (1990).
51
F. Clerici, «La notte
di S. Giovanni»,
olio su tavola, 1973.
52
iscrizioni lapidee, non raccontano. Ma il procedere lento, dalla superficie alla
profondità, è esperienza carica di mistero, che promette un sapere nuovo e
sorprendente. Che Freud conosceva bene, tanto da associarla alla psicanalisi,
moderno scavo nella nostra psiche.
Cosa sognano gli archeologi? Cosa sognavano gli Antichi? E di Dedalo, “architetto e primo aviatore” come lo ha definito Tabucchi nei racconti Sogni di
sogni, quale poteva essere il percorso notturno della sua anima? Su questo terreno accidentato, dove l’illusione regna sovrana, Tabucchi immagina il mitico
Dedalo costruire per il Minotauro un paio di ali di cera affinché volasse nella
notte, libero dai labirinti del palazzo che lui stesso aveva costruito. Il sogno
quindi scardina ogni prospettiva logica, rovescia traguardi dell’essere che da
svegli non sono possibili, accende gli enigmi della vita di ogni tempo e in ogni
luogo proponendoli sotto una luce obliqua, con soluzioni o intuizioni inat-
tese, per la realtà inammissibili. Richiamo questa “favola” per introdurre un
artista molto noto nell’arte contemporanea italiana e del Nord Europa: Fabrizio Clerici, raffinato pittore e cultore dell’Antico, del Barocco Ellenistico, dei
miti egizi. Sognatore sveglio e continuatore della metafisica dopo i Metafisici,
dotato di un inestinguibile potere della rivelazione artistica, ha elaborato uno
stile inconfondibile e personalissimo, sostenuto da una tecnica impeccabile
che mai ha ceduto al trend del momento. La sua formazione e sensibilità –
ebbe una partenza come architetto a Milano per poi attraversare per un tempo
più lungo il teatro con soste felici nell’illustrazione dei libri d’arte – è ricchissima di suggestioni e interessi che toccano argomenti eterogenei (la mistica, i
musei, le biblioteche, i viaggi, il mito), rielaborati sul filo della memoria. Un
peso rilevante hanno avuto nella sua vita e nel suo immaginario la classicità,
Fabrizio Clerici,
«Dalla mia finestra»,
olio su tavola, 1975.
il reperto, la città dissepolta, l’archeologia del Medio Oriente, aspetti, questi,
finora mai analizzati profondamente dalla critica. La mostra di una selezione
di lavori di Fabrizio Clerici oggi al Museo archeologico nazionale di Sperlonga riempie questa ineludibile lacuna e si propone di sondare con opere anche
poco note un coté molto fascinoso dell’attività dell’artista.
La memoria di manufatti, tracce e miti provenienti da latitudini certe o inesistenti, il più delle volte con una collocazione temporale imprecisa se non per
il fatto di essere loro stessi l’Antico, irrompe costantemente nella sua pittura
come un oracolo vivente. Protagonista di molti suoi lavori, tra questi Ricupero
del Cavallo di Troia (1950), La stanza (1954), il ciclo sul Minotauro (1946-47;
1966-67) e sui labirinti (1966; 1985), il tema del ritrovamento attraversa il
celebre Sonno romano (1955), la serie di tempere ed olii dei templi dell’Uovo
(seconda metà degli anni 50) fino alle variazioni sul tema “egizio” (fine anni
53
60, per tutti i 70 e oltre): è l’archeologia, suadente insinuazione al concetto
di eternità che ci insegna quanto il presente e il futuro debbano leggersi tra le
maglie del passato, anche se con il filtro di una lente sfocata. Un ideale, quello
dell’Antico, che non può più calarsi nella realtà, essendo oggi considerabile
piuttosto come un’utopia, un sogno. Ma proprio per questo l’Antico, come
archetipo, è ancora in grado di parlare offrendoci forse anche un modello su
cui tracciare nell’avvenire un rinnovamento più autentico della nostra civiltà.
Clerici, oltre che appassionato viaggiatore nelle terre dove si conservano
templi e città millenarie, oltre che nell’anomala veste di fotografo che accompagnò nei suoi scavi a Leptis Magna il suo amico archeologo Ernesto Vergara
Caffarelli, fu anche un eccentrico collezionista, e non solo di antiquaria. Ricordo che nella sua biblioteca dove erano allineati titoli di edizioni rarissime
figurava il volume di Giovanni Piero Valeriano Bolzani nell’edizione seicentesca; l’erudito studioso aveva raccolto nella metà del ‘500 molte incisioni
di geroglifici tentandone un’interpretazione che in alcuni casi sconfinava nel
sogno più bizzarro. E ancora, ricordo i volumi di Athanasius Kircher, il padre
gesuita pioniere nel ‘600 dell’egittologia, figura familiare al giovane Fabrizio
che frequentò le scuole elementari presso l’Istituto Massimo dei Padri Gesuiti
a Roma, e al quale dedicò uno scritto nell’ultimo decennio. C’è un passaggio
ne Gli obelischi di Athanasius Kircher che spiega la sua ammirazione per l’autore dell’Oedipus Aegyptiacus (1652-54). Si tratta – precisa Clerici – del “suo
maggiore impegno per dimostrare quanto la misteriosa saggezza degli egizi, la
Cabala e le filosofie greche e cristiane s’appoggiassero su una comune base, quasi a
volerci dimostrare la continuità dell’una nell’altra religione”. Nel solco di questa
ottica sincretista si può meglio comprendere il motivo che lo portò a ricercare
nelle antiche culture del Mediterraneo un filo conduttore nel quale ritrovare
il nucleo originario di tante civiltà, ciascuna rappresentante diversamente la
traduzione di quel nucleo. L’inserimento di elementi figurativi che alludono
a quelle culture antiche, o semplicemente all’atmosfera sospesa e senza tempo
che ne sigilla misteri millenari, è nell’artista un processo naturale e coerente,
che si esprime nella forma di un’apparizione. Immerse in un vuoto glaciale
e silenzioso, sia esso uno spazio lunare o desertico, sia quello di una stanza
claustrofobica o di un labirinto, queste presenze arcane ci impongono di interrogarci sul destino delle cose e dell’essere, trasmettendoci nel contempo
una serenità che poi si trasforma in inquietudine. Teste mutile di divinità,
piedi colossali o cavalli, il falco Horus, il serpente Anubis e gli arieti dei miti
egizi, impronte, frammenti di fossili e fenomeni geologici che in alcuni dipinti
e disegni si trasformano in un’archeologia domestica spettacolare (spille da
balia, pennini, lamette, mollette di bucato gigantesche); insomma Antico e
Moderno: tutti relitti del 5000 d.C. avvolti da una quiete tragica?
La velocità che ritma forzatamente il quotidiano, la nostra solitudine riempita da immagini fosforescenti, animazioni e slogans pubblicitari come una
homepage di internet, sono il polo opposto al distacco di Clerici. Opere in
mostra come Promontorio, Dalla mia finestra, La spilla spezzata, Impronta, In
attesa di essere volto ci inchiodano ad una pausa di riflessione su cosa reste-
54
F. Clerici, «La barca di Amir»,
penna e acquarello
su cartoncino, 1971.
rà della natura, della classicità e di questa era supertecnologica, globalizzata,
multietnica, eppure perpetuamente violenta per cause religiose, interessi e dominio sulle risorse planetarie, poteri da esercitare.
I disegni, le gouaches, gli olii di Clerici assumono quasi un tono di richiamo
all’interrogativo laico di tanti poeti e filosofi su cosa sia l’eternità, un richiamo che non si esaurisce nella nostalgica contemplazione estetica ma diviene
raccomandazione a proteggere e vivificare nel presente la memoria del nostro
passato per ritrovare la bussola che ci orienti verso un nuovo, moderno umanesimo.
La XXV ora (1968 ca) è il primo dipinto con cui Clerici inizia l’esplorazione
dei miti egizi sollecitata dalla lettura del volume di Baltrusaitis Il mistero di
Iside, che riaccese i ricordi del primo lungo viaggio nel 1953 in Medio Oriente
e, in un tempo più lontano, l’egittomania che lo prese da bambino, ammiratore di Carter e delle sue scoperte della tomba di Tut-Ank-Amon. Il titolo
allude ad un’ora che non esiste, un momento che non appartiene o forse non
deve appartenere al tempo: ecco il significato allusivo delle sedie a terra, rotte
e senza fondo, dei sarcofagi e delle loro orme.
E l’eco dell’Antico Egitto risuona pure in Eletto a Menphi (1972), un dipinto monocromo grigio dove il motivo dell’ellisse rossa pietrificata che compare
nel celebre Corpus hermeticum è ridotto, sospeso magicamente in una stanza
e associato al profilo dell’ariete egizio. L’anello di pietra è un riferimento colto
agli scritti ermetici di Marsilio Ficino (soprattutto alle teorie di teurgìa egizia
e alle sette sfere planetarie) mentre Menfi era il luogo di culto del demiurgo
Ptah, simbolo egizio del pensiero creativo e divinità protettrice degli artisti.
Ancora in una stanza è ambientata un’altra apparizione incongrua, La notte
di San Giovanni (1973 ca), dove cavalli impazziti cercano di liberarsi dalla
costrizione di strette celle rettangolari incassate nel pavimento. Il ricordo della
fine crudele dei cavalli imprigionati nei boxes dell’ippodromo delle Cascine
55
quando nel ‘66 ci fu lo straripamento dell’Arno a Firenze è associato ad una
leggenda popolare secondo la quale nella notte di San Giovanni le criniere dei
cavalli appaiono intrecciate.
La crudeltà, la violenza, la sopraffazione fisica è un tema che ricorre anche
nel ciclo dei Corpi di Orvieto, rappresentato in mostra dal dipinto Vis-à-vis
(1981). Lo spunto venne dato da una visita di Clerici alla Cappella di San Brizio affrescata dal Signorelli nel Duomo. Terrori antichi richiamano in Clerici
terrori futuri e oggi attuali: quasi con spirito profetico l’artista sembra volerci
allarmare sul corso della storia. Il registro di colori è limitato ai rosa, ai grigi,
agli ocra, tenuto sui passaggi calibrati di luce ed ombra, con un controllo del
F. Clerici, «La fuga»,
penna e acquarello
su cartoncino, 1989.
disegno e della materia pittorica che non sembrerebbe quella dell’olio, non
essendo percepibile alcuna pennellata.
Una violenza meno evidente, quella del potere dello sguardo che può in
un “colpo d’occhio” annientare la vittima, è quella che si consuma in un’altra
stanza, quella di Coup deuil (1971). Dagli occhi del falco Horus pietrificato
ma con bagliori metallici parte un raggio laser che folgora letteralmente nel
bulbo oculare la testa di Nefertiti sezionando orizzontalmente il suo profilo.
Come non vedere in questa azione fulminante una variante pur lontana dell’
antico Accecamento di Polifemo, opera barocca del Tardo Ellenismo che decorava la grotta-triclinio di Sperlonga? L’acquerello La barca di Amir (1971) può
considerarsi la prima idea del dipinto Coup deuil con cui Clerici partecipò nel
‘72 alla X Quadriennale di Roma: la scena infatti è la stessa, la barca sacra di
legno è un autentico ritrovamento archeologico, ma l’occhio di Horus non è
ancora un dardo micidiale. Il prima e il dopo sono nel tempo gli intervalli più
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metafisici, quelli che stabiliscono una separazione, una cesura nel fluire organico della vita: essi ci costringono a guardare oltre la realtà delle apparenze.
Il sogno di Clerici di reperti archeologici continua anche nei disegni dove
è più scoperta la citazione: da La stanza segreta (1970), di cui esistono delle
versioni ad olio, dove sono raccolti dei monumentali calchi in gesso che riproducono il piede sinistro del Colosso di Costantino, portato in Campidoglio
nel 1486 e tanto caro a Füssli, alla tempera del Laocoonte (1976), tributo anche
alle predilezioni di Michelangelo, sino al disegno a matita L’Efebo di Mozia
(1986), che ritrae da un’angolazione studiatissima il corpo dell’Auriga, statua
misteriosa di stile severo scoperta nel 1979 e conservata nel Museo Whitaker
nell’isoletta di Mozia in Sicilia. E un’opera sorprendente per la resa nel marmo della trasparenza della tunica e della mano sinistra che comprime la veste
affondando lievemente nella pelle. Il disegno nacque da una visita di Clerici
al museo dell’antico centro fenicio-punico, e fu inserito con altre quattro varianti nel volume d’arte Tombe di Costantino Kavafis (1986).
C’è un episodio nella vita di Clerici
che può meravigliarci più di ogni altro,
a proposito di destini e di ciclicità di sogni, e godere ancor di più della sua presenza nel 2004 nel Museo archeologico
nazionale di Sperlonga. In seguito al trasferimento dei genitori a Roma nel 1920,
Fabrizio a sette anni fece brevi soggiorni
a Fogliano, nella zona del Monte Circeo, in una tenuta Caetani dove il padre, occupato nei lavori di bonifica delle
paludi, accoglieva ospiti illustri come
Giacomo Puccini. Mi raccontò sovente
di quella stagione dell’infanzia permeata dai sogni, quando passava le ore nella
leggendaria grotta della maga Circe assistendo a fenomeni ottici inconsueti, come la fata morgana, e giocando con i
compagni imitando le gesta di Ulisse.
Il Quartetto Harmos
alla inaugurazione
della mostra
di F. Clerici, (2004).
LO SGUARDO DI CLERICI
Paolo Mauri*
Fabrizio Clerici è un pittore che ha sconfitto il Tempo. Appartiene al secolo
scorso nel quale è vissuto? Direi piuttosto che ha giocato con il passato e con
il futuro più che con il suo presente, fuggendo dalle scuole, dalle mode, per
reinterpretare il ruolo dell’artista in un modo tutto suo. Un veggente? Diciamo, piuttosto, un narratore. Uno scrittore del fantastico prestato alla tela.
* Direttore delle pagine culturali del quotidiano La Repubblica.
57
A. Ciarrocchi, «Autoritratto
con la bambina»,
olio su tela, 1946.
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Con la letteratura ebbe rapporti assai stretti, tant’è che si
adattò a fare (elezione niente
affatto casuale) il personaggio.
Quando lo andai a trovare, nella sua casa di via dell’Anima a
Roma, era appena entrato nei
panni di un nobile milanese
del Settecento. La storia gliela
aveva cucita addosso Vincenzo
Consolo, il libro si chiama “Retablo” e Clerici vi appare come
un gran signore con il mantello
color perla e le scarpine con la
fibbia che da Milano (la Milano dei Lumi, dei Verri e di
Beccaria) scende nella Palermo
del Serpotta. Si deve a Clerici
una “Confessione palermitana” con dame tolte appunto
dal Serpotta che si confessano
ai frati morti ed ecco di nuovo
narrazione fantastica e pittura
che si incontrano in un tempo
“altro”.
Affascinato dalla classicità ,
Clerici era stato a Mozia catturato dalla bellezza del Fanciullo. Gli aveva dedicato diversi
disegni, quasi un atto d’amore
postumo, ma anche un tentativo di realizzare una sorta di
ricongiungimento con una vita
rinchiusa nel marmo, beffardamente eterna e insieme imprendibile.
Era stato Savinio a scegliersi Clerici come compagno di
viaggio per quel suo libro assai bello: “Ascolto il tuo cuore, città”. Ancora una
volta Milano.
“Tu come Clerici e io come Chirico”, aveva poi scritto Savinio, alias De Chirico, nel ‘42, “siamo oltre tutto anche parenti e assieme risaliamo al comune
klericòs e kleros, cioè a dire quello che tocca in sorte... Io però mi vado sempre
più convincendo che Clerici è uno pseudonimo, il nuovo pseudonimo dietro il
quale si nasconde Fabrizio Del Dongo. Non è possibile portare la somiglianza
fino a una così allucinante perfezione”. Il gioco è fatto: un personaggio si duplica nell’artista che si fa a sua volta personaggio. La letteratura precede la vita
e la inventa? E la pittura? E se tutto fosse realizzato in un cerchio di cui non si
può dare il punto di inizio? L’opera di Clerici è una risposta.
Il Settecento, Stendhal, Savinio, Consolo... Non basta? Clerici ha realizzato
persino delle tavole aggiuntive a quelle della celebre Enciclopedia di Diderot,
viaggiando ancora una volta nel tempo, ma senza mai fermarsi più di tanto.
Gli piacevano le anamorfosi. Bisogna saper trovare il punto giusto, quello che
correntemente si dice “il punto di vista”. Che non è casuale, ma è l’unico da
cui si vedono tutte le cose in una certa dimensione. Fabrizio Clerici ha cercato
per tutta la sua vita di pittore eccentrico e letteratissimo un “punto di vista”
che gli convenisse. Un modo come un altro per sbirciare nel Mistero.
10. dal 16 luglio al 11 settembre 2005
Arnoldo Ciarrocchi : 9 dipinti ad olio, una tempera, 4 acquerelli e 15
acqueforti dal 1939 al 2002.
note di Giacomo di Raimo, di Claudio Zambianchi, di Guido Strazza,
di Daniela Ciotola e di Giulio Catelli; nonché Sforbiciature da e su Ciarrocchi di Daniela Ciotola; presentazioni orali all’inaugurazione di Leopoldo Elia e di Bruno Zambianchi.
LO SPAZIO DELLE EMOZIONI
Claudio Zambianchi
«Non è che io voglia per matta presunzione tirarmi fuori dal mio paese ma
devo dire che già dal 1938, basta confrontare le stampe e i dipinti di quegli
anni, io ero un pittore di scuola romana». Così riferisce Arnoldo Ciarrocchi,
nato a Civitanova Marche nel 1916. Le sue prime prove originali, dopo gli
esercizi scolastici degli anni Trenta, si radicano infatti in quello stesso ambiente romano dove, proprio negli anni del suo arrivo nella Capitale, muovevano
i loro primi passi Toti Scialoja, Piero Sadun e Giovanni Stradone. In compagnia di questi ultimi Ciarrocchi espose nel 1947 in una famosa mostra, intitolata dal critico che la introduceva – Cesare Brandi – Quattro fuori strada, e
vedremo tra breve «fuori strada» perché. Ci interessa adesso, tuttavia, chiarire
preliminarmente le ragioni di quella pittura romana tra la fine dei Trenta e gli
inizi dei Quaranta. E torna utile, a tal fine, rileggere come Scialoja, in quegli
anni, definisse criticamente il lavoro suo e dei suoi amici: una tendenza a una
figurazione gravida di materia che non si spiega con il tentativo di rifarsi alla
realtà fenomenica, ma piuttosto con il legame dell’immagine con la memoria.
Materia e memoria coincidono: l’immagine non è intesa come la restituzione
della realtà visiva dell’oggetto, ma piuttosto il calco dell’impronta che di esso
si è impressa sulla coscienza e la memoria ha lentamente filtrata sino a trasfigurarla. Una relazione siffatta tra immagine e memoria presuppone due ante-
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A. Ciarrocchi,
«Il gasometro a S. Paolo»,
olio su tela, 1948.
cedenti storici distinti: da una parte la pittura tonale di Giorgio Morandi,
dall’altra la pittura metafisica. Se infatti la meditata saturazione della tela
mediante un’accorta sovrapposizione di strati di colore è propria del tonalismo
di Morandi, il risultato è «metafisico»: l’immagine produce cioè un effetto di
«irrealtà e di magia» – come scrive Scialoja a proposito di Stradone –, che
pesca a fondo nella zona misteriosa del ricordo e riaffiora trasfigurata sulla
tela o sul foglio. Così Scialoja delinea le origini della Scuola Romana, particolarmente di Mafai, e di coloro che, più giovani, su quella direttrice si pongono. Ciarrocchi nasce come pittore in questo clima, e lo dimostrano tre delle
tele esposte in questa mostra: l’Autoritratto con la bambina (1946), Il gasometro
a San Paolo (1948), e lo straordinario nudo femminile La grande gallina (1946)
(un titolo che sarebbe piaciuto a Umberto Saba). In dipinti siffatti la materia,
spessa e risentita, costituisce un fattore espressivo determinante e il segno del
pennello che definisce il contorno di figure e oggetti sembra irradiarsi secondo un ritmo espansivo e pervadere di sé l’intera composizione: è una logica
pittorica che da Scipione risale sino al Daumier pittore. Ciarrocchi, tuttavia,
non nasce pittore: si era infatti formato a Urbino come incisore e, benché nel
corso della sua vita egli abbia mantenuto eccellenti rapporti con i due maggiori incisori italiani del Novecento – Giorgio Morandi e Luigi Bartolini –, sin
dalle prove della fine degli anni Trenta e dell’inizio dei Quaranta, dimostra
l’indipendenza e originalità che ne fanno uno dei massimi acquafortisti italiani del secolo appena trascorso. Anzi, come avviene in molti altri peintres-graveurs, è nel laboratorio dell’incisione che si decantano e si chiariscono aspetti
del lavoro poi sviluppati nelle altre tecniche. Se, ad esempio, si paragona la
qualità ritmica ed energica del tratto della pennellata dei dipinti appena ricordati con quanto avviene nelle incisioni contemporanee o immediatamente
precedenti, si riscontra un’analoga animazione e, forse, una maggior esattezza
nella definizione dei problemi formali: in un’acquaforte come Paesaggio dalla
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terrazza dello studio di Achille Sdruscia,
del 1949, i «gomitoli», le «matasse» –
come spesso vengono definiti – di linee
sottili si dipartono dai molteplici nuclei
di energia, quasi che definissero la struttura ossea non già del motivo, ma
dell’emozione da esso provocata. Essa riaffiora nel ricordo con intensità trascinante, trasfigurante, quasi visionaria:
una qualità propria dell’artista, non del
soggetto rappresentato, appartenente
quest’ultimo al mondo dell’esperienza
immediata, della vita quotidiana. E proprio l’intuizione di una struttura nel mutevole mondo delle sensazioni e delle
emozioni servirà da guida a Ciarrocchi
per tutto il resto della sua lunga carriera
di artista. La pittura e le acqueforti di questo momento vivono di improvvise
accensioni, in una stretta relazione le une con le altre. Sono gli anni dei quattro «fuori strada», perché distanti dal postcubismo che dominava la giovane
pittura romana nell’immediato dopoguerra. La propensione di Ciarrocchi per
il ritmo veloce, a tratti indemoniato, del segno potrebbe far pensare che sarebbe bastato poco – un colpo di vento in più rispetto a quello che anima, ad
esempio il già citato Paesaggio dalla terrazza dello studio di Achille Sdruscia –,
perché i segni di Ciarrocchi si sparpagliassero ulteriormente e la forma perdesse di definizione. Accade, in realtà, esattamente il contrario, ed Enzo Carli,
nell’introdurre la sala della Biennale del 1956 dedicata alle incisioni di Ciarrocchi, delinea così le ragioni del mutamento: «Si trattava [...] di decantare,
senza estenuarla, la pungente espressività, ma un po’ carica e aggettivata, alla
quale lo aveva incoraggiato anche una sua antica, e non ancora sopita, predilezione per il Daumier, e di sbrogliare a poco a poco le arruffate matasse di
una grafia estremamente fine, sensibile e preziosa, perché più limpida e pacata la luce si effondesse dalle superfici di ogni oggetto e ne rivelasse il profondo
e sereno accordo con l’atmosfera e con le cose circostanti». Rileggendo alla
luce di questa affermazione il primo decennio della carriera di Ciarrocchi, si
può quindi pensare che essa fosse contraddistinta da un tempo veloce, mai
dimentico, tuttavia, di un senso della struttura. Quest’ultimo torna a galla,
con una cadenza più lenta che detta ritmi più spaziati, all’alba dei Cinquanta:
prima sotto forma di una luce assai più chiara e diffusa che in precedenza:
nelle incisioni larghe porzioni della lastra non recano alcun segno e lasciano
spazio al bianco del foglio; egualmente negli acquerelli le accentuazioni di
colore si alternano a vaste porzioni lasciate intonse: gli oggetti vivono sul foglio soltanto mediante le loro ombre colorate; nei non numerosissimi dipinti
l’andamento della pennellata, memore dei passages cézanniani, si fa più pausato e le notazioni cromatiche si raggruppano in aree più sintetiche e coese,
A. Ciarrocchi, «Paesaggio
di Fontespina»,
olio su tela, 1962.
61
come avviene in uno dei dipinti in mostra, il Paesaggio dalla finestra di casa del
1951, che sembra segnare l’inizio di un siffatto mutamento. E in questo periodo, nel corso degli anni Cinquanta, con l’invenzione delle stampe «a rete», che
la presenza di Morandi, specialmente (ma non soltanto) nelle incisioni, si fa
sentire maggiormente. Eppure la trama delle acqueforti di Ciarrocchi non ha
mai la sublime regolarità di quella morandiana; il ritmo è più incalzante e
animato, l’alternanza tra luce e ombra più subitanea, lo spessore del segno più
variato: «Ciarrocchi [...] partendosi dalla civiltà morandiana» – scriveva nel
1955 Cesare Brandi –, «invece di strettire il reticolo, lo allarga, lo dirada, lo
setaccia, lo storce come una vecchia zanzariera». Da simili smagliature nascono fogli luminosissimi, come La casetta rosa in via Valle delle Camene, del
1950, o il Paesaggio con la cupola dei Santi Giovanni e Paolo, del 1954. Col
passare degli anni caratteri siffatti si accentuano; Ciarrocchi riduce via via gli
A. Ciarrocchi, «Montecosaro»,
tempera su tavola, 1992.
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incidenti interni agli oggetti e struttura l’immagine per masse più vaste e sintetiche: è il loro alternarsi, adesso, a definire il ritmo generale della composizione, mentre la materia cromatica, fattore espressivo ancora importante nei
dipinti, serve con il suo spessore a rendere più intensa la luminosità del colore;
l’orizzonte s’innalza e si fa più forte l’accento su una spazialità complessa, non
illusionistica: paesaggi come quelli di Fontespina, entrambi del 1962, quello
dell’Asola, del 1972, o il Grande paesaggio di Fontespina – un acquerello del
1968 circa – recano vivo il ricordo del motivo che dà loro origine, ma sono
ormai completamente reinventati. È questa la strada della pittura a olio e
dell’acquerello di Ciarrocchi lungo tutto il corso dei decenni successivi, sino
almeno alle tele dolenti dei suoi ultimi anni (ad esempio le Due figure scelte
per questa mostra), ove il tema antico del pittore e della modella viene arricchito di valenze autobiografiche: le figure sembrano colte nell’attimo in cui
emergono alla coscienza, ancora
in parte indistinte, con una qualità quasi allucinatoria che le avvicina a quelle dell’ultimo de
Staël. Malgrado la sostanza poetica delle tele e degli acquerelli
degli anni Sessanta, Settanta e
Ottanta sia la medesima, esiste
tra loro una differenza significativa, insita nella natura dei mezzi impiegati: se nei quadri a olio
la luce è in linea di massima ottenuta «per via di porre», mediante cioè gli spessori del colore, nell’acquerello Ciarrocchi vi
arriva «per via di torre», diluendo molto il colore, ovvero risparmiando ampie porzioni del
foglio per sfruttare appieno la
luce riflessa dalla carta. Nelle
incisioni intervengono invece, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, alcuni fatti nuovi: il segno, che in precedenza si presentava piuttosto regolare (benché, lo si è detto, mai regolarissimo) vive adesso di sensibili alternanze di larghezza e di profondità (i «segni grossi»): i cieli, prima lasciati bianchi, ovvero
definiti da rade linee diagonali, si popolano, ma solo in alcune aree di tratti
spessi e marcati, indicazioni sintetiche di fenomeni atmosferici. Inoltre, più
che nei dipinti a olio, dove pure è presente, si accentua un effetto già comparso soprattutto nelle opere dei primi anni Cinquanta, come ad esempio nell’acquerello del Ponte Sisto, del 1951: quello, cioè, della cosiddetta «prospettiva
vissuta», così presente nell’arte di Paul Cézanne: di fronte a un’incisione come,
ad esempio, il Paesaggio del Conero del 1982, con quel primo piano che sembra
precipitare verso il basso in un movimento interrotto soltanto – si direbbe –
A. Ciarrocchi, «Paesaggio
dalla terrazza dello studio
di Achille Sdruscia»,
acquaforte, 1949.
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A. Ciarrocchi, «La casetta rosa
in via Valle delle Camene»,
acquaforte, 1950.
dal bordo della lastra, si avverte rispetto al passato una diversa modalità nel
guardare il motivo: se in precedenza il punto di vista si affacciava sul paesaggio da una certa distanza e ne inquadrava una porzione, ora la sensazione è
quella di trovarsi all’interno di esso. La presenza di tratti decisi e risentiti e la
prospettiva vissuta segnalano una nuova intensità, un nuovo carattere espressivo nelle acqueforti di Ciarrocchi, che sembra riallacciarsi al ductus energico
della pennellata del periodo delle sue prime esperienze pittoriche romane: in
una tecnica, tuttavia, qual è quella incisoria, dove l’emozione, per essere trasmessa, richiede una più lenta decantazione e un controllo più rigoroso: le
qualità dell’«artigiano che conduce il suo lavoro lucido e pulito», rivendicate
dall’artista, sin dal 1948, come base fondante del suo lavoro.
IL GRANDE ARTIGIANO
Daniela Ciotola
«È solo col “mestiere” e secondo il mestiere che l’artista sviluppa il proprio
desiderio e il proprio pensiero». Queste parole di Paul Valéry mi tornano in
mente leggendo la bellissima nota con la quale Arnoldo Ciarrocchi accompagna le incisioni e gli acquarelli nel numero 3-4/1971 della rivista «Civiltà delle
macchine». «L’ispirazione, o quella che ancora per convenienza continuiamo
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a chiamare così» scrive l’artista «ti fa
perdere la testa. E a tenerle dietro c’è
il pericolo che si compiano delle colossali sciocchezze. Che si facciano degli
scarabocchi su una lastra e che essi si
dicano vibranti ed emozionanti, equivale a far passare per arte o per poesia il
tracciato dell’ago del sismografo in un
osservatorio per il controllo dei terremoti». E ancora: «Il controllo dell’acido è un dono di Dio.... L’ispirazione, è
evidente, non c’entra. La poesia nasce
da questo innegabile rapporto di tempi
di morsura». E, in altra occasione: «La
vera arte e la poesia sono frutto di una
paziente, assidua applicazione». C’è
nelle affermazioni di Ciarrocchi il senso di una ineludibile vocazione, quella
di fare altissima poesia attraverso la più
difficile e la più esigente delle tecniche
creative. Ma c’è insieme una severa
concezione artigianale della creazione
artistica che si collega particolarmente
alla sua attività di incisore.
Ciarrocchi ebbe un rigoroso apprendistato di tecnica incisoria a Urbino,
nella prestigiosa e selettiva Scuola del Libro e lo perfezionò a Roma nella Calcografia Nazionale ove lavorò come torcoliere fino a quando fu chiamato
all’insegnamento di incisione nelle Accademie di Belle Arti di Palermo, poi di
Napoli e infine di Roma. Nella Calcografia Nazionale, nel fecondo lavoro sulle
lastre dei massimi incisori del passato, nei contatti con Morandi e Bartolini e
con altri incisori dell’epoca, egli esplora le infinite possibilità espressive della
tecnica dell’acquaforte, che predilige e di cui diviene assoluto padrone, elabora
l’uso dei segni veloci, vivi e veementi, in incroci ora densi ora larghi invocanti
lo spazio riverberato dal fondo bianco dei fogli. Conduce, attraverso l’elegante
e raffinato dipanarsi dei tratti sulle lastre di zinco (che più del rame consente al
segno di variare il suo spessore), una meditata ricerca di struttura tonale che lo
apparenta a Morandi negli impianti espressivi e nella penetrante poesia, con la
diversità di una luce più estroversa e di una maggiore aderenza alla fisicità delle
immagini filtrate nella memoria percettiva dalla realtà naturale.
È in campo incisorio che Ciarrocchi ottiene i maggiori riconoscimenti: nel
1950 i premi per l’incisione alla Biennale di Venezia e alla prima Biennale Internazionale di San Paolo del Brasile, nel 1953 il primo premio per l’incisione
alla Quadriennale romana e nel 1955 il primo premio alla Prima Biennale
dell’Incisione a Venezia. Ma egli è stato insieme un grandissimo pittore e le
due attività dell’incisione e della pittura sembrano procedere separatamente e
A. Ciarrocchi, «La ragazza
di via delle Cave»,
acquaforte, 1960.
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autonomamente – dal tempo vissuto nel clima della Scuola Romana a quello
che si consuma nella sua terra marchigiana – con le segrete osmosi per cui si
ripetono nell’un e nell’altro campo, per mezzo di tecniche differenti, uguali
esperienze formali. All’acquarello si dedica a partire dalla metà degli anni
cinquanta, in modo sempre più assiduo, sospinto dall’urgenza di seguire, con
questa tecnica veloce, come egli scrive, «il formarsi e il risolversi di un temporale, in una successione di scatti o lo scivolare dell’ombra di una nube su
una collina bionda di messi». Vi raggiunge vette eccelse. Se il suo repertorio
fantastico può forse apparire ristretto (i paesaggi marchigiani e le figure femminili), sempre nuovo è l’incanto che viene ogni volta dal pacato accordo dei
toni e dal senso di unità profonda tra l’artista e la sua rappresentazione.
Leopoldo Elia
PRESENTAZIONE
DI UN ARTISTA MARCHIGIANO
Leopoldo Elia
Sono grato a Giacomo di Raimo per
avermi sollecitato a ricordare qualche
tratto del complesso rapporto tra Arnoldo Ciarrocchi e le Marche, al di là
della sua nascita a Civitanova.
Mi parlò per primo di lui mio zio
Alessandro Gallucci, pittore a Pesaro,
molto apprezzato per la qualità delle
sue opere e per l’apertura ai giovani
artisti davvero meritevoli. E tale egli
stimò fin dall’inizio della sua attività
Arnoldo Ciarrocchi, come incisore e
come pittore. Probabilmente la loro conoscenza risale al periodo 1931-36 in
cui Ciarrocchi frequentò a Urbino la Scuola del Libro, diretta da Carnevali e
poi da Castellani, un incisore molto vicino all’esempio di Giorgio Morandi.
Mio zio, autore di alcune acqueforti molto originali, amava anche lui lavorare di torchio e apprezzava le prime prove di Ciarrocchi che andavano già ben
oltre il pregio artigianale. E’ stata ricordata da Giacomo di Raimo e da Claudio
Zambianchi l’influenza di Cézanne: infatti si affermava allora che l’opera pittorica doveva essere costruita con una struttura anche poco percepibile a prima
vista, ma tale comunque da “reggere” o sorreggere l’equilibrio del quadro; un
po’ come accade ai grandi alberi che formano come uno scenario in cui compaiono i nudi delle grandi bagnanti del maestro provenzale.
Urbino era allora un centro culturale molto vivo per la presenza nell’Università di scrittori come Carlo Bo e Leone Traverso (per citarne due tra i più
noti) e più tardi sarebbe cresciuta la personalità di Paolo Volponi, amico
di Ciarrocchi fin dalle prime raccolte di poesia: e si studiavano le pagine
famose di Longhi dedicate a Piero della Francesca, che dominava dall’alto
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del Palazzo Ducale con la sua demiurgica presenza. Di questo fervore e
dell’impegno di Ciarrocchi mi disse anche Valerio Volpini, scrittore e critico d’arte, destinato a presiedere più tardi l’istituto in cui così seriamente
aveva lavorato Ciarrocchi.
Molto è stato detto delle sue esperienze nella pittura tonale romana del
primo periodo Mafai
ed anche dell’espressionismo sino a Stradone che peraltro in
Scipione mi è sempre
parso ispirato dalla
poesia di Dino Campana con i suoi tramonti affocati. Ma
debbo ora dire qualche parola sul rapporto del nostro artista
con il paesaggio della
Costa Marchigiana e
della campagna che
si avvicina all’Adriatico. Anche oggi chi
percorre l’autostrada
da Pesaro ad Ancona
e poi fino ai primi
tunnels nella nuova
provincia di Fermo
può ammirare quel
dolce paesaggio à
mamelons, formato da colline che digradano verso la marina.
Nel triangolo magico tra i colli recanatesi e lauretani, in mezzo e al vertice
l’aspro e scosceso monte Conero e poi la lucente superficie equorea, si muoveva senza compiacimenti edonistici la capacità interpretativa di Ciarrocchi che
trascendeva sempre il dato naturalistico specie nelle più libere composizioni
dopo gli anni Cinquanta, sia nella pittura che nelle incisioni. Naturalmente
il paesaggio collinare più visitato fu poi quello civitanovano, un poco ripreso
verso l’interno, tra Asola e Fontespina, ma sempre con grandi orizzonti che
“sentono” la prossimità dell’Adriatico.
Profili per blocchi, gradazioni del colore verde specie in un quadro del 1962
(Paesaggio di Fontespina) fanno pensare ad alcune opere di de Staël prima
del periodo finale. L’originalità di Ciarrocchi gli impediva di avvalersi della
semplice “variosità” nella sua produzione molto scelta e pensata, mai afflitta
dalla strumentale ripetizione di motivi e stilemi.
Insomma, per dirla con Mario Luzi “un segno sobrio, arioso e fantasioso” che richiama anche un raro momento della poesia leopardiana,
Arnoldo Ciarrocchi,
«Il paesaggio grandissimo»,
acquaforte, 1979.
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quello del Risorgimento composto a Pisa intorno alla Pasqua del 1828.
Ricordate?
“Meco ritorna a vivere
la spiaggia, il bosco, il monte,
parla al mio core il fonte,
meco favella il mar”
ARNOLDO CIARROCCHI ARTISTA FUORI STRADA
Giuseppe Appella
(dal quotidiano la Repubblica del 22 agosto 2006)
A. Ciarrocchi, «Secondo
paesaggio del Senatore»,
acquaforte, 1988.
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Nel Museo archeologico nazionale di Sperlonga,
a raffronto con i monumentali gruppi scultorei ispirati alle imprese di Ulisse, ventinove tra acquarelli,
acqueforti e dipinti, datati 1939-2002, ripercorrono l’intero arco creativo di Arnoldo Ciarrocchi,
scomparso nel più assoluto silenzio, alcuni mesi fa,
all’Asola di Civitanova Marche dove, in un paesaggio uguale nella sua continua diversità, aveva potuto
esercitare il gusto del lavoro en plein air senza rinunciare alla contemplazione cara a Ferrazzi, suo primo
maestro all’Accademia. Ciarrocchi, in seguito nutrito dall’arcana e calda immagine della Scuola Romana, da quel vissuto rapporto con la cultura europea, è
rimasto sempre come lo vide Cesare Brandi nel 1947,
in occasione della mostra con Scialoja, Sadun e Stradone alla Galleria del Secolo: un artista fuori strada
lontano dalle mode imperanti in quegli anni, dalla
tendenza neocubista che portava a rinnegare ogni
autenticità per un «gretto galateo di formalismi».
Le resistenze e le tenaci convinzioni di Ciarrocchi, alimentate da dolcezza di modi e da allegra ironia, sono evidenti ne Il
gasometro a San Paolo del 1948 e, dodici anni dopo, ne La ragazza di via delle
Cave, dove viene rifiutato il sottofondo di decomposizione fornito dal paesaggio di Scipione per una armonica andatura compositiva che trova le proprie
radici nel tratto sottile, sensuale e spesso invisibile che anima la pittura e l’acquaforte. Quanto la prima si fa densa polpa, tanto la seconda si ammatassa
in trasalimenti intimi o si distende in organiche pulsioni emotive, preso dalla
molteplicità del motivo che improvvise felicità portano alla forma. E’ il vero
interiorizzato e commosso, affidato alle più sottili dissoluzioni luminose e
riassorbito nella capacità di trasfigurare in poesia i dati della realtà quotidiana, in quell’attimo vitale che da Morandi e Bartolini, da Maccari a Viviani,
da Ciarrocchi a Strazza completa la storia dell’incisione del secolo appena
trascorso.
11. dal 15 luglio al 10 settembre 2006
Alberto Gianquinto, Piero Guccione e Lorenzo Tornabuoni :
27 dipinti ad olio, 2 pastelli, 2 acquaforti-acquatinte (31 opere dal 1959
al 2005)
note di Giacomo di Raimo, di Claudio Zambianchi e di Guido Giuffré
presentazione orale all’inaugurazione di Claudio Zambianchi.
L’OCCHIO INTERNO DELLA PITTURA
Claudio Zambianchi
Se si dovesse delineare per
sommi capi la storia del cambiamento nella figurazione italiana al passaggio tra gli anni
Cinquanta e i Sessanta, dalla
generazione cioè, di Renato
Guttuso e compagni, a quella
di Piero Guccione, Lorenzo
Tornabuoni e Alberto Gianquinto, si potrebbe parlare di
uno slittamento da una condizione di fiducia (nell’ideologia come nella pittura, anzi
nella pittura come esito diretto
dell’ideologia) a una di ansia
e d’incertezza. A sottolineare
una situazione siffatta, è l’abbondanza di definizioni in
negativo, di qualificazioni, di
distinguo in cui ci s’imbatte
nella lettura dei testi critici riguardanti questi artisti, quasi a rilevare una difficoltà nell’esatta determinazione del fenomeno: tanto per fare un esempio,
Roberto Tassi, uno dei più acuti interpreti dell’arte di Lorenzo Tornabuoni,
parla per il pittore di «non realismo esistenziale». Con una simile espressione Tassi vuole distinguere Tornabuoni dal «realismo esistenziale» milanese
(quello di Guerreschi, Romagnoni, Banchieri, Vaglieri, Ceretti e Ferroni), al
fine di evidenziare nella pittura del primo un grado di tragicità maggiore, un
consistere dell’artista più dalla parte dell’esistenzialità che da quella del realismo, malgrado l’impiego di forme dedotte (ma in modo indiretto) dalla realtà
fenomenica. Il reale, per Gianquinto, Guccione e Tornabuoni, non è semplice trascrizione, descrizione, narrazione: è piuttosto l’oggetto di una profonda
trasformazione, sebbene lo scarto operato dalla pittura rispetto allo spettacolo
del mondo, di primo acchito, possa sembrare talora quasi insensibile. Nei
A. Gianquinto,
«Paesaggio a Lipari»,
dipinto ad olio, 1959.
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A. Gianquinto,
«Donna distesa»,
dipinto ad olio, 1981.
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tre artisti di questa mostra la questione
della realtà si pone quindi in termini
non ovvi, ma problematici. Il nodo di
partenza – per loro come per una larga
fetta dell’arte italiana del periodo – è
quella di trovare una strada che vada
al di là dell’Informale, «oltre il solipsismo, la rabbiosa vendicazione della
carcerarietà dell’io – il tratto più cospicuo della modernità», come dice Enzo
Siciliano in riferimento a Tornabuoni.
Nell’ambito delle scelte possibili in
quel momento, Guccione, Tornabuoni
e Gianquinto optano per la figurazione
riallacciandosi in tal modo alle esperienze del quindicennio precedente:
ma l’oggettività, nella nuova situazione, non corrisponde più a scegliere fra
i due termini di un’alternativa secca:
realismo e astrazione. Il panorama è diventato assai più variegato e complesso:
l’informale ha mutato radicalmente il
quadro di riferimento e le risposte, le
reazioni alla sua crisi propongono uno
spettro di alternative e riferimenti nazionali e internazionali più ampi, da Bacon alle varie riprese neodadaiste, sino
alle prime esperienze di smaterializzazione dell’oggetto artistico. Le definizioni in voga per indicare l’ala figurativa dell’arte italiana di questo momento
– «nuova figurazione», «nuova oggettività» – sembrano, con la qualificazione
dell’aggettivo «nuova», sottolineare il mutamento del contesto e nel contempo
l’esigenza di un ripensamento dell’interazione fra arte e realtà osservata.
Come nel recente passato, anche in questa fase la preferenza figurativa mantiene una tinta lato sensu politica, tanto che Gianquinto e Guccione sono nel
1961 tra i fondatori di uno dei gruppi di artisti legati alla sinistra, che cercano
vie alternative e indipendenti dal mercato per esporre il loro lavoro: «il Pro
e il Contro»; nello stesso anno Guccione è anche parte del gruppo (di breve
durata) «Libertà e realtà». E, assieme al più appartato Tornabuoni, Guccione e
Gianquinto partecipano alle numerose mostre che, in questa fase della vicenda artistica italiana, tentano di ridefinire la pittura della realtà: una ricerca,
quest’ultima, bene semplificata dalle prime opere di Guccione.
Se la famosa massima del realismo ottocentesco era quella coniata da Gustave Courbet – e cioè che bisogna dipingere quel che si vede –, Guccione all’alba
degli anni Sessanta sembra prenderla alla lettera, quando, ad esempio, dipinge
il muro esterno del balcone del suo studio con le ringhiere e pochi vasi di fiori
o il panorama di Villa Pamphili dalla sua finestra: realtà silenziose, intime
e quotidiane, a portata immediata di mano; ma – come del resto avviene in
Courbet – la solidità di quel muro, dove la pittura a olio si mescola alla sabbia,
fa pensare a una lentezza di esecuzione grazie alla quale l’immagine appare
non nata da una reazione diretta allo spettacolo visivo, ma rimeditata nel ricordo; il quadro si presenta allora come sedimento della memoria. Le cose, in
questi dipinti, appaiono come intensificate dall’emozione, e la luminosità di
cui s’intridono è tutta interna. Il lento accendersi di una luce siffatta sospende
il tempo dell’immagine, che assume perciò una durata indefinita; vi è come
il senso di una visione quasi allucinata, ancorché nascosto in un’apparenza
di normalità: come sottolinea Dario Micacchi in un testo su Tornabuoni, gli
artisti romani di questa generazione si riferiscono spesso al mondo delle «cose
ordinarie»; ciononostante una tale realtà – dice Enzo Siciliano – non perde la
sua qualità di mistero. Se bisogna dipingere quel che si vede, va considerato
non soltanto il cosa, ma anche il come, la qualità dello sguardo.
L’aspetto della memoria è presente anche in Tornabuoni, in un modo, forse, visivamente più esplicito che in Guccione, specie quando si manifesta nel
presentarsi della superficie del quadro come un palinsesto ove affiorano, per
frammenti e intermittenze, brani di figure. Ma colpisce soprattutto, nella pittura di Tornabuoni, la qualità ferma, raffreddata del segno, indizio anch’essa
di una presa di distanza dalla realtà. Una simile propensione stilistica si in-
A. Gianquinto,
«La lampada magnolia»
(1962) e «Rondini»
(1972), esposti
nel Museo archeologico.
71
A. Gianquinto,
«Giacobbe e l’angelo»,
dipinto ad olio, 1994.
quadra in un momento molto specifico dell’arte, non soltanto italiana – che
si manifesta allorché sia Tornabuoni sia Guccione si affacciano sulla scena –,
quando il calore del tracciato tipico dell’arte informale, la fedeltà di esso al
gesto dell’artista (cifra quindi assieme fisica e morale dell’autenticità dell’esperienza in atto), lascia il posto ad altre forme di espressione. Benché parte di
un clima diffuso, una tale concezione si chiarisce in Tornabuoni grazie a una
esperienza specifica, condivisa con Piero Guccione. Quest’ultimo infatti, nella
seconda metà degli anni Cinquanta, venne coinvolto dal paletnologo Fabrizio
Mori in alcune spedizioni nel Sahara libico, alla ricerca dei dipinti eseguiti
sulla roccia dalle antiche genti che popolavano quelle zone. La superficie irregolare e scabrosa della roccia rendeva difficile e poco fedele la riproduzione fotografica delle pitture rupestri. Così Guccione inventa un modo di riprodurre
fedelmente i graffiti. Anzitutto il contorno delle figure viene rilevato su fogli
di plastica trasparente a contatto diretto con la roccia; poi vengono preparate
alcune tele con un fondo ricco di sabbia, a simulare l’epidermide della roccia,
e quindi il disegno di partenza viene trasferito dal foglio di plastica alla tela;
solo a questo punto il contorno viene riempito di colore. Benché si tratti di un
lavoro funzionale a scopi scientifici e non strettamente artistici, le tele mostrano finezza di stesura e sensibilità pittorica. Tornabuoni – coinvolto anch’egli
in due spedizioni di Mori dal 1960 al 1963 – riferisce che quell’esperienza gli
ha insegnato proprio il raffreddamento del segno prodotto dal processo di
copiatura e trasferimento.
72
Una tale idea del segno può dare conto di quella qualità, come di apparizione, che caratterizza la realtà nei dipinti
di Tornabuoni, anche quando gli oggetti
non vi si presentano in forma frammentaria; si comprende cioè la distanza che
si crea fra l’esperienza del mondo e la
traduzione in pittura. Uno scarto che si
evidenzia anche nella pittura di Guccione, benché questi lo persegua altrimenti,
e principalmente, come si è detto, tramite il senso della durata indefinita, quasi
metafisica, dell’immagine. L’irriducibilità dell’arte alla natura, e non soltanto sul
piano del rapporto tra segno e referente,
ma anche su quello dell’immediatezza,
della qualità organica dell’atto pittorico,
fa sì che in entrambi gli artisti si ponga
a più riprese la questione della relazione
con la storia, come se la lunga vicenda
dell’arte, che nei secoli è stata un filtro,
un fattore d’intermediazione fondamentale tra l’uomo e la realtà, possa fornire
i mezzi per saldare, tramite modalità colte e indirette, una siffatta frattura. I d’après dei due artisti – i modelli sono Schiele e il realismo socialista
per Tornabuoni; Caravaggio, Caspar David Friedrich e tanti altri ancora per
Guccione – sembrano indicare che solo con una simile storia alle spalle è
possibile la sopravvivenza di un’immagine figurativa, e il recupero, mediato,
di una sempre crescente felicità d’espressione. Il filtro della storia mitiga, con
l’andare degli anni, la qualità problematica, talora aspra della prima pittura
di Guccione; l’artista, tramite la lettura interpretativa dei grandi maestri del
passato, riacquista una delicatezza e una libertà di tocco che pochi artisti italiani della seconda metà del Novecento hanno raggiunto. In Tornabuoni un
tale elemento «colto», legato alla tradizione, è presente sin quasi dall’inizio: lo
sottolinea Pier Paolo Pasolini in un testo del 1972, quando evidenzia che l’apparente naturalezza della tecnica di Tornabuoni è in realtà dovuta alla «lunga
codificazione» del mezzo disegnativo. In fondo la tradizione fornisce modelli,
non normativi, ma storici, simili ai lemmi di un linguaggio razionalmente e
moralmente controllato e controllabile: basi necessarie perché l’arte sia condivisibile dal riguardante. In altri termini, la pittura di Guccione e Tornabuoni,
come del resto quella di Gianquinto, benché figurativa, non va intesa come
una copia diretta della realtà, ma come il punto di snodo di una comunicazione possibile fra l’artista e la società.
Dei tre artisti presenti in questa mostra, Alberto Gianquinto è forse quello
in cui l’appartenenza politica alla sinistra marxista è più accentuata e duratu-
P. Guccione,
«Giardino su muro giallo»,
dipinto ad olio, 1965.
73
P. Guccione, «Villa Pamphili
dal mio studio»,
dipinto ad olio, 1967.
74
ra. E tuttavia anche quando (e la cosa avviene, specie fra gli anni Sessanta e i
Settanta, in modo abbastanza frequente) affronta temi di risonanza sociale o
direttamente politica, il risultato non è mai retorico, ma invariabilmente lirico. Gianquinto si è precocemente convinto della fine della “pittura di opposizione”: il mondo
esterno, il conflitto sociale, la passione politica
e civile sono passati al vaglio di una pittura bella e colta, di un colore limpido e luminoso, attento ai valori tonali, agli spessori della materia.
La tensione ideale fa sì tuttavia che Gianquinto
abbia sempre presente la propria condizione storica; essa si manifesta secondo una duplice modalità: da una parte vi è la dimensione dell’impegno ideale; dall’altra la consapevolezza che,
come cambia la storia del mondo, così mutano
le forme e, di conseguenza, i riferimenti del pittore: da una simile cognizione nasce nell’artista la scelta di situarsi in continuità con la linea
maggiore della pittura moderna europea, in
particolare con quei maestri della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento che hanno
accettato la realtà non come un dato visivo da
rappresentare secondo canoni prestabiliti, ma
come un’interrogazione continua, un rapporto
sempre nuovo, da affrontare giorno per giorno,
aggiustando volta per volta il tiro: in particolare per Gianquinto sono stati importanti, sotto
questo riguardo, anzitutto Paul Cézanne (come
sottolinea, tra gli altri, Piero Guccione), e poi
Henri Matisse e Pablo Picasso. La coscienza
della storicità dell’arte fa sì che nella pittura di
Gianquinto i grandi eventi del mondo possano
mescolarsi con quelli minuti della vita di ogni giorno: fatti e oggetti, grandi
e piccoli – dalla morte di Che Guevara a uno spartito musicale; dalla guerra
arabo-israeliana a una natura morta nello studio –, vengono trasfigurati in
una dimensione interiore dove la pittura dà conto non degli eventi esterni,
ma del loro incontro con la realtà individuale dell’artista: sotto questo riguardo si può condividere l’avviso di Dario Micacchi per cui, in Gianquinto, “il
soggetto è al minimo, la pittura è al massimo”. Questa affermazione non va
intesa in una chiave formalistica, perché come in un lungo, intenso diario,
la pittura di Gianquinto registra, di ogni cosa grande o piccola, l’emozione
che ha provocato: per via di tale necessità di interiorizzazione Gianquinto,
come osservava Roberto Tassi, non è un naturalista; anche per lui, come per
Guccione e per Tornabuoni, la pittura nasce dalla memoria, da una lunga
meditazione; il sedimento che quest’ultima lascia sulla tela è frutto di una
trasformazione complessa e, come avviene in uno dei maestri di Gianquinto,
Giorgio Morandi, trova infine il suo punto d’equilibrio in un modo di comporre ampio e disteso.
VOLTI DELLA NATURA
Guido Giuffré
Quando l’esperto curatore con intuizione felice progettò la mostra dei tre artisti ora esposti (il siciliano Guccione, il romano Tornabuoni e il veneto Gianquinto) i punti in comune apparvero evidenti: l’amicizia e la stima che legavano i pittori, l’avere essi operato e taluno anche militato sul medesimo fronte (in
un periodo che di fronti ne annoverava non pochi), persino una certa assonanza di tavolozza. Chiare invero apparivano anche le diversità: troppo marcata e
riconoscibile la personalità di ciascuno per tentare analogie o sconfinamenti.
Ma il presentarli insieme offriva un’opportunità da non trascurare: le differenze, nel sottolineare
le rispettive peculiarità
formali e poetiche, rimarcavano la condivisione di quel richiamo
alla realtà – del mondo
e dell’animo – che quei
pittori hanno considerato e considerano imprescindibile.
Due degli artisti
sono scomparsi, Guccione dipinge ora alcune delle sue tele più
raffinate. Se nelle diverse forme li accomuna un interesse vivo e
partecipe alla natura,
lo spirito è profondamente diverso. Il siciliano ha spesso citato
nel suo lavoro il romantico Caspar David
Friedrich, che per certe singolari simmetrie
della storia scomparve
nell’anno in cui vide la
luce Monet. Potrebbe
parere strano che il so-
P. Guccione, «Città riflessa»,
dipinto ad olio, 1968.
75
P. Guccione,
«Studio d’interno»,
dipinto ad olio, 1977.
76
lare Guccione abbia eletto a sodale il cultore delle nebbie
nordiche, e non invece ad esempio proprio Monet, cui il
tedesco sembrava consegnare il testimone della modernità: solare appunto, Monet, immerso nella flagranza della
natura come nessuno prima di lui. Ma più che le brume,
nei paesaggi friedrichiani Guccione coglieva la solennità
dei silenzi, la maestà e l’infinità degli spazi, non estranee
alle silenti lontananze dei suoi campi assolati o delle sue
marine.
A Friedrich non si sarebbe volto, pure ammirandolo,
Alberto Gianquinto. Erede a suo modo della tradizione
veneta, Gianquinto amava anch’egli il sole e più ancora
la luce; ma, negli spazi, al lento dilagare delle ombre o
allo stendersi grave dei silenzi preferiva il vibrare di una
fronda, un frullio d’ali. Se fra le tante visioni pittoriche
di ieri e di oggi una segretamente egli prediligeva, era
quella struggente e fuggitiva di de Pisis. Negli anni settanta e ottanta Guccione aveva dipinto – tra le sue opere
più belle – vari campi di grano, che inondati di luce
o velati d’ombra inclinavano sempre alle sospensioni di
un oltre che ammaliandoci ci sfugge. Anche Gianquinto ha dipinto spesso il grano – ma non la vastità del
campo, piuttosto la spiga, il mazzetto, quasi toccandoli
a sentirne la fragranza e la tenerezza. E così il rametto, la
penna d’oca, un petalo. Alberto non amava sospendersi
ma immergersi, sentire il pulsare, i sussurri, nella rapinosa fugacità del magico gesto pittorico.
Al richiamo della natura, o meglio del paesaggio, sembra invece sottrarsi Lorenzo Tornabuoni. Ma natura è
anche quella umana, e tra gli artisti della sua generazione pochi come lui ne hanno colto certe mute introspezioni. Risalendo di poco nel tempo, in diversa soluzione
formale Fausto Pirandello aveva frugato puntigliosamente gli angoli riposti
della psicologia; Tornabuoni sconosce l’acrimonia pungente del maestro più
anziano e al paragone la sua visione può dirsi metafisica. Il suo sguardo si fa
tattile, costruisce l’immagine brano a brano tra cesure, frammenti, e le cose e
i personaggi diventano ipotesi della mente e dei sensi nelle panie di uno spazio
costruito anch’esso a tasselli, privo d’aria e di distanze, in un’atonia esistenziale
senza orizzonti ma grave di densi, inafferrabili e vischiosi umori d’umanità.
Tutti e tre gli artisti affrontano soggetti diversi, nessuno ha un tema dominante. In qualche misura, negli ultimi decenni per Guccione il mare è
divenuto una sorta di diapason, ma in quei termini generali che possono valere
nell’intero suo percorso. Qualcosa di analogo si direbbe per i canottieri di
Tornabuoni. Per il siciliano, l’ampiezza e l’imprendibilità che alitavano sugli
orizzonti di Cava d’Aliga già trent’anni or sono, si riscontrano anche nel miste-
P. Guccione,
«Luce meridiana»,
pastello, 1974.
ro delle ombre serpeggianti tra le colline iblee o addensate sugli ibiscus recisi.
I vogatori del romano seguono inconsapevoli l’immobile corrente dell’ignoto,
che il loro gesto rincorre ostinato ma che oscuramente naufraga nell’inanità.
Così il Canottiere rosso sospende il remo nel vuoto di uno spazio immobile, e
il suo gesto ricorda la ieratica stasi di tanta scuola romana anni trenta: Ziveri,
Capogrossi, il Pirandello del Bagno – toltane l’aura vagamente misterica e
sacrale. Non c’è vittoria né traguardo alla fine della metaforica corsa, e questo
vale per tutte le figure di Lorenzo, siano in atteggiamento di moto o di stasi,
di slancio eroico o di abbandono dei sensi: senza un riscontrabile perché. È un
primo approccio al forte e amaro sapore di fondo della sua visione pittorica.
Per Gianquinto il discorso è diverso. Manca nel veneto un soggetto o un
tema che lo caratterizzi più di altri; figure, paesaggi, interni, nature morte, in
accenti progressivamente diversi lo hanno sempre accompagnato dall’iniziale
più accentuata drammaticità fino alla marcata estasi lirica della maturità e
degli anni tardi. Ma va sottolineata la sincronia dell’aspetto lirico e di quello
drammatico, anzi non di rado la contestualità, nella polivalenza di un’immagine che si offre a più letture.
Quest’ultima notazione suggerisce cose che porterebbero lontano. Nel secolo poliedrico e contraddittorio da poco trascorso sono stati raggiunti vertici
sia nel solco di una tradizione che ha saputo affinarsi senza smentirsi, sia nel
radicale rovesciamento di quella tradizione. Matisse la rispettava rivoluzionandola, Picasso l’affossava e la carezzava; Burri, Pollock, Dubuffet ne facevano poltiglia nutriente e distruttiva. Persino Monet, negli esiti tardi (quando
il fauvismo aveva spazzato le sue magistrali finezze e ben altro era passato
77
L. Tornabuoni,
«Gli sguardi smarriti»,
dipinto ad olio, 1969.
sotto i ponti del suo alto naturalismo), sembrava fare scempio della sua stessa
storia. Quanto alla polivalenza di una medesima immagine, che cosa di più
liricamente cocente e insieme più desolato e spoglio dei cosiddetti paesaggi di
guerra di Morandi? E si conoscono squisitezze pittoriche più sottili e seducenti
di certe pur tragiche, sconvolgenti immagini baconiane? Sono vertici di ieri
che nell’oggi non cogliamo più. I capolavori mutavano e si arricchivano col
mutare dell’età, della cultura, dell’esperienza del riguardante; troppi prodotti
dell’arte odierna, celebrato patrimonio di musei d’arte contemporanea, non
sopportano neppure soltanto un secondo sguardo.
Da dove i turbamenti che sospendono l’animo sulle immagini di Piero
Guccione? Qualcuno ha considerato ottocentesco il suo lavoro; lo stesso Morandi era stato tacciato di borghese e provinciale. Come Morandi, Guccione
ha il coraggio della fedeltà a se stesso, la consapevolezza che si è ciò che si è,
e fingere sarebbe (com’è per tanti, lo sappiano o no) rovinoso. Piero lo sapeva
sin dall’inizio, quando ai primi anni sessanta operava in un gruppo d’impegno militante – lui che, trascurando la direzione del vento, ha militato solo
sul fronte dell’arte e della cultura. Taluno lo accusava di dipingere antenne e
giardini piuttosto che bandiere o pugni chiusi, o di dimenticare l’uomo: lui
che l’uomo, anche senza affacciarlo alle finestre, lo conosceva come pochi.
Certo, egli non viene dal realismo e meno ancora dal neorealismo, che pure
per ragioni non solo anagrafiche avrebbe potuto sfiorare; stima Courbet ma
non ne ha fatto suo mentore. Non viene dall’impressionismo, non dal punto
di vista naturalistico né da quello linguistico, pure avendo il culto della natura
– come luogo che raccoglie i pensieri, le mestizie, le dolcezze. Quando all’inizio degli anni settanta dipinse il piccolo capolavoro del Tramonto a Punta
Corvo, l’accordo tonale giocato su ocre e azzurri poteva parere di derivazione
impressionista, ma se ne distaccava l’impianto formale e più ancora lo spirito.
Guccione guarda al paesaggio attratto dagli echi più che dal vocìo, affascinato
78
da quanto – chiarori d’alba o riverberi di tramonto, maestà dell’albero o umiltà di una foglia – dura nell’animo a quel confine che trasforma l’emozione in
dolceamaro senso della vita. Neppure viene, Guccione, da quella multiforme
area genericamente simbolista che con l’impressionismo ha diviso tante paternità del nostro tempo – salvo forse a risentire (nel segreto di sé) l’eco di
outsider come Bonnard, o come lo stesso sorprendentemente alato Monet di
certe non tarde ninfee.
La fedeltà appassionata di Guccione affiora anche nel procedimento pittorico: le stesure lente, le velature, gli imponderabili trapassamenti di tono.
Avviene talora che nel delinearsi delle forme parti dell’immagine – un palo,
un fiore, un volto – per troppo cocente afflato si disfacciano nello spazio, naufraghino nella luce come in uno sfinimento dell’anima. Ora, cesure e mancamenti risultano frequenti (anzi caratterizzanti) anche nella pittura di Tornabuoni, dove tuttavia hanno tutt’altro senso. Dal magma, pittorico quanto
esistenziale, i personaggi del romano sembrano dipanarsi a fatica, la forma
spezzata parrebbe talvolta balbettare, – ma ogni sillaba è tessera sapiente di
un nitido mosaico. Se in Guccione lo spazio è sempre sconfinato, Tornabuoni,
per appropriarsi del suo spazio e definirlo, lo squadra, lo quadretta come se
dovesse riportarlo su altro supporto. In quella griglia più o meno visibile (scheletro cui l’immagine resta sempre ancorata) i personaggi si ergono, si torcono,
si distendono – muti per una indecifrabile, misteriosa afasia. Per Guccione è
improprio parlare di lirismo; non lo sarebbe per Gianquinto. Tornabuoni è
all’opposto. Il primo Moravia, più ancora Sartre, Camus, Beckett possono
ipotizzarsi sue letture; non a caso egli ha indirizzato i suoi omaggi pittorici a
Schiele. Dell’austriaco, Lorenzo non ebbe le morbosità, il grafismo esasperato
e crudele, persino la ferocia, – non troppo lontani, nella loro diversità, dai veleni di Beardsley. Sotto la pelle dei suoi personaggi, anche i più fieri e prestanti, corre un’inquietudine che si riflette nella pittura franta, irrespirabile – non
L. Tornabuoni,
«Canottiere rosso»,
dipinto ad olio, 1985.
79
L. Tornabuoni, «Canottieri»,
dipinto ad olio, 1985.
fossero le dense malie, i torpidi, affascinanti quanto amari incantamenti. Se la
pittura di Guccione vive di sottigliezze, luminescenze, velati riverberi, quella
di Tornabuoni oscilla tra paste corpose stese a volte come intonaco, e pennellate aspre che raschiano sgarbate i pigmenti quasi sprezzando l’immagine. Se
infine al siciliano un’eco larvale giunge da certi rivissuti struggimenti romantici, in Tornabuoni rileva – senza modificarne l’humus – il prensile interesse
per i collages, i materismi, i geometrismi di tanto novecento.
Al di là delle equivalenze cui si accennava all’inizio, Gianquinto non potrebbe essere più lontano da quanto s’è detto di Tornabuoni. La struttura delle
sue immagini vive nel cerchio della fantasia, pungente quanto sembra svagata,
e aerea, estatica di là dall’apparenza capricciosa e ondivaga. Questo vale sin
dal marcato sociologismo degli anni sessanta e settanta, quando l’ideologia
avrebbe potuto frenare – e non frenava – lo slancio creativo. Anche a quel
tempo il rischio del contenutismo si riscattava nelle composizioni sbilanciate
o nei risvolti più tragici che grotteschi. Sin da allora i neri (splendido diapason
per lui come per pochi) ritmavano la pregnanza del latente lirismo – che più
tardi avrebbe dominato. Ma rileva, s’è detto, la contemporaneità e non di rado
la contestualità del momento lirico e di quello drammatico. A volte emerge
un’intensa dolcezza velata di malinconia, in un certo modo casta, trepida
come gli echi musicali sempre sottesi nella sua arte; a volte invece – come
in alcune più tarde figure in marcia o nature morte tempestose di abbagli e
di affondi – affiora l’impeto del pathos. La piccola tela di Giacobbe e l’angelo
dipinta una dozzina d’anni or sono fa parte di un breve ciclo sul medesimo
tema: a conferma della varietà dei soggetti. L’artista affrontava col medesimo
ardore – e con la medesima eterea levità – una margherita nel bicchiere o una
scena biblica, il corteo concitato di bandiere o un volo di farfalle. Nell’un caso
e nell’altro alla diversità del soggetto rispondeva l’unità della poetica, appassionata, avvincente. Se altrove la suggestiva pagina della Genesi viene letta in
chiave dinamica ma chiara, su aperti fondi azzurri, nello straordinario quadretto in mostra a Sperlonga Giacobbe si scaglia veemente contro il misterioso
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visitatore che un abbaglio trae dall’oscurità, e, in quel lampeggiare, protagonista dell’impari lotta resta la profondità della notte e dei suoi fantasmi.
Una considerazione tuttavia è rimasta sin qui tra le righe. I tre artisti
che questa mostra pure non ampia riunisce e confronta, appaiono a taluno
pittori di ieri: nobili, ma in un mondo che – come si suol dire – ha voltato pagina. Il rischio di voltar pagina è reale, stando a quanto si vede e si
sente nelle grandi rassegne internazionali e nelle stesse gallerie pubbliche
d’arte contemporanea. Ma è rischio appunto, perché sarebbe pagina girata
all’indietro e con perdita enorme. Le contaminazioni dall’ottica pubblicitaria (uno dei mostri moderni) o dai procedimenti e dai ritmi tecnologici
corrodono il proprio dell’arte, cioè la sua capacità di venire da lontano e
proiettarsi lontano, raccogliere eredità di umana esperienza, approfondirla
e coltivarla per le generazioni a venire. Andare insomma oltre le cronache,
le mode, le scoperte della tecnica e della scienza, per affondare in ciò che
dell’uomo era, è, e sperabilmente sarà. Memling, Rembrandt, Picasso dipingevano con linguaggi e con soggetti diversi, perché diverse erano le rispettive condizioni sociali e culturali; ma l’uomo e il suo bagaglio interiore
appartenevano alla medesima sfera e coinvolgevano analogo sentire – o, se
ancora si può nominarli, i medesimi sentimenti. Con tutto il rispetto, oggi
troppe intelligenze e fatiche che si crede operino nell’arte, con l’arte hanno
poco o niente da spartire. Si illudono, forse, e certamente illudono. Nelle
loro diversità gli artisti di questa mostra sono tutt’altro che dei sopravvissuti;
sono piuttosto tanti – e tra i più alti – punti di resistenza allo scivolamento
della cultura verso facilità e retoriche pericolosamente dilaganti.
L. Tornabuoni,
«Ritratto di Carlo»,
dipinto ad olio, 1980.
81
Mostre d’arte nella Sala Consiliare e nella Antica Chiesa
In questa pagina:
R. Caruso,
a destra:
«Apparizione metafisica»,
olio su tavola, 2000.
in basso:
«Gelato di campagna»,
olio su tavola, 2000.
Sala Consiliare del Comune
12. dal 28 luglio al 9 settembre 2001
Bruno Caruso : 10 acquarelli, 8 acqueforti
note di Giacomo di Raimo, di Enzo Bilardello e di Daniela Ciotola.
13 e 14. dal 16 luglio al 11 settembre 2005
nota introduttiva di Giacomo di Raimo:
– Valeria Cademartori, presentata da Emilio Garroni: 6 tecniche miste
su tela, 2000-2003;
– Roberto Caruso, presentato da Enzo Bilardello: 9 dipinti ad olio e un
disegno a china su carta, 1989-2005.
V. Cademartori, «Aria»,
tecnica mista su tela, 2000.
83
L’uomo, la bestia e la virtù
Enzo Bilardello *
B. Caruso, «La nascita
del corallo»,
acquarello, 1996.
Il mio primo incontro fu con un mastino napoletano. Il nome disinvolto,
Guaglione, ingentiliva una carica che t’inchiodava al suolo per poi depositarti
addosso con tutto l’agio del vincitore un sarcofago di bava indelebile. Quella
mole immane, anche più brutta della mitica bruttezza del ministro Lupis –
“l’abominevole uomo delle navi” – rivista in un disegno sembrava innocua,
affettuosa, persino patetica.
Da allora, la mia consuetudine con i disegni di animali di Bruno Caruso si
è accresciuta a dismisura, tanto da poter dire che quasi non c’è repertorio che
gli possa stare a pari per estensione e verità.
Gli artisti hanno cominciato con gli animali – si pensi alle grotte di Lascaux o di Altamira – e nel corso dei millenni si sono specializzati al punto
di poterli identificare dal modo di dipingere certi animali: i cavalli di Wouwermans o di Stubbs, i leoni di Delacroix, i gatti di Gentilini. Certe volte
avveniva che il pittore non conoscesse l’animale che doveva dipingere, e allora doveva desumerlo, fidandosi, da altri artisti, come accadde a Dürer che,
non avendo mai visto un leone dal vero, lo ricostruì dalle sculture presenti
a Venezia, facendone un incrocio tra una chimera ed il nobile ritratto di un
uomo anziano.
Giunti ai nostri giorni, il problema di raffigurare animali ignoti non si
pone più e, anzi, un disegnatore come Bruno Caruso si scontra col problema opposto di restituire un quid
di favolistico e di mistero ad animali repertoriati con fin troppa
minuzia.
Bruno Caruso possiede qualità
affabulatorie straordinarie. Come
San Francesco potrebbe parlare
agli uccelli (non certo per far loro
la predica), e mesmerizzarli mentre s’impadronisce dei segreti della loro carenatura, del piumaggio;
mentre ne indaga la struttura vigile della testa, gli occhi che bucano la distanza, e la psicologia,
se ne hanno una.
Le qualità affabulatorie inchio-
* Professore associato di Storia comparata dell’arte dei Paesi europei nell’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma.
84
B. Caruso, «Il risveglio
di Gregor Samsa»,
acquarello, 1959.
dano alla sedia anche gli amici e gli ospiti, strutturandosi in racconti magici
nei quali la mescolanza d’invenzione e di elementi circostanziali destabilizza
l’ascoltatore, ne acuisce l’incredulità. Incredulità smantellata dalla persuasività del narratore; l’evento raccontato da Bruno Caruso acquisisce all’istante
il crisma del fatto accaduto.
Non posso rivedere la baldanza orgiastica del mandrillo senza associarlo
al racconto del ciarlatano russo che vendeva virilità rigenerate per mezzo di
trapianti di testicoli di scimmia. Il racconto di Colapesce è documentato
dagli studiosi di folklore, ma la donna sparita nelle acque di Villa Igea e
che vediamo in più disegni abbrancata e frugata dalla piovra è invenzione
visionaria dell’artista, sensuale e terribile, magari sulla scorta di un articolo
sensazionalistico di giornale che specula su un innocente tuffo in acqua non
seguito da una riemersione. La leggenda metropolitana che vuole gli alligatori popolare il sottosuolo di Manhattan, Caruso l’ha illustrata da par suo fin
dagli anni ‘60, mentre il bull dog che, malinconico, contempla il mondo da
dietro i vetri di una Rolls Royce con tanto di autista in livrea, è più eloquente
di un trattato di sociologia.
Nessuno ha illustrato meglio di lui l’incubo di Gregor Samsa, la repellenza
di un’umanità che trapassa nella bestia inavvertitamente, come se il crinale
di separazione fosse invisibile e fosse continuamente attraversato in entrambe
le direzioni.
85
B. Caruso, «Istrice»,
acquaforte, 2000.
86
Bruno Caruso ha spaziato dalla precisione documentaria della caccia col
falcone alla mitologia di Medusa dal realistico viluppo di vipere, inestricabile
come gli odi fra individui o popoli. Le scaglie dei serpenti sono state pazientemente messe in risalto in decine di disegni. splendidi per sinuosità di linee,
precisione del giuoco geometrico, vivacità di tratto e di colori.
Al pari dei disegni di anatomia di Leonardo, gli animali disegnati da Bruno
Caruso s’impongono alla memoria per la precisione scientifica dell’osservazione dal vero. C’è dunque in lui un’adesione al reale che da descrittiva si fa arte
per quel suo potere di creare un contesto, si tratti di una satira, di un idillio o
di un apologo politico.
Nei disegni di Caruso non s’incontrano solo animali che s’impongono
all’immaginazione come personaggi, ma anche il riccio di mare, la conchiglia, il bruco, la farfalla, il grillo, lo scorpione, il maggiolino. La sua
attenzione indagatrice fruga le pieghe segrete della natura, anche se la
preferenza va a quegli animali torpidi, dai movimenti lenti e cauti prima
dello scatto che muta l’idillio in dramma: il serpente, la murena, il grongo, la piovra.
Alcuni sono raffigurati con un valore araldico, per la complessità
dell’epidermide e la brillantezza dei colori, altri per le possibilità narrative
insite nel loro modo di essere, perché le loro vicende si legano strettamente a quelle umane.
Il primo libro di Caruso che ho visto è probabilmente il Manoscritto
sulle meraviglie della natura (1969) e già a quella data ero rimasto affascinato dalla fulmineità dell’individuazione: il muso dell’istrice veniva
a depositarsi quasi nelle nostre mani, concludendo la velocissima traiettoria degli aculei, pioggia di frecce scagliate a colpire un invisibile San
Sebastiano. I libri sugli animali si sono succeduti e moltiplicati nel corso
di numerosi lustri: Bestiario (1967), L’aquila e il falco (1971), Repertorio
animalesco (1972), Belve (1982), senza contare l’infinita teoria di disegni
annidati in altre raccolte.
L’uomo e la bestia costituiscono per Bruno Caruso un binomio inscindibile. Quante volte abbiamo visto ceffi con un che di animalesco e quante
volte la raffigurazione dell’animale illumina un contesto di azioni altrimenti
indecifrabili? La virtù è quella sua di disegnatore impeccabile, preciso e svelto
come un artigiano del passato.
Bruno Caruso ha una precisione documentaria che sfida quella meccanica
dei fotografi, e tuttavia è più coinvolgente per il senso innato della forma e
l’abilità maturata con l’esperienza.
Guardando i suoi disegni mi viene in mente quel motto di spirito di
Oscar Wilde nel suo ultimo
soggiorno romano: “Mi son
dato alla fotografia. Le mucche di Villa Borghese amano
da pazzi farsi fotografare da
me e, a differenza dei palazzi,
non si muovono”.
Gli animali, diversamente
da come si comportano con
noi, si mettono volentieri in
posa dinanzi alla matita o al
pennello di Bruno Caruso,
perché egli ne possa cogliere
ogni tratto, ogni piega recondita, e restituirci il soffio della
vita, il senso di una creazione
che, se è esplosiva in natura,
ci appare accresciuta dall’aggiunta della poesia che è il
dono del disegnatore.
Bruno Caruso,
«La murena sulla banchina».
87
Chiesa di Santa Maria
Assunta in Cielo
(adattata a Sito culturale):
altare di San Domenico.
Antica Chiesa
15 e 16. dal 16 luglio al 11 settembre 2005
nota introduttiva di Giacomo di Raimo:
– Giulio Catelli, presentato da Guido Giuffré: 9 dipinti ad olio e
5 tecniche miste su carta, 2001-2005;
– Giuseppe Di Lelio, presentato da Daniela Ciotola: 9 sculture e
5 disegni su carta, 2003-05.
88
G. Di Lelio, «Studio», matita e caffè su carta, 2005.
G. Catelli, «Figura
nel paesaggio»,
acquarello, 2001.
89
Ritratto di Omero,
II secolo a.C.,
Monaco, Glyptothek.
Parte II -
Poesia e Musica
Rilievo attico, Orfeo ed Euridice
(scuola fidiaca, sec. V a.C.),
Museo archeologico nazionale di Napoli.
92
Premessa
di Giacomo di Raimo
La straordinaria “Odissea di marmo” (così denominata da H.P. L’Orange)
rende di casa a Sperlonga la poesia e, ad essa intimamente connesso, il mito oggetto
delle narrazioni degli antichi poeti negli albori della civiltà greca. Prima dell’avvento del pensiero razionale e della filosofia, il mito accompagna per millenni la
vita dell’uomo. Mýthos nell’etimologia greca più risalente sta per “annunzio”,
“sentenza”, non creazione fantastica bensì rivelazione “ del senso complessivo ed
essenziale del mondo” (Severino). Per tale significato di comunicazione dell’arcano, di ciò che è oltre il tangibile, i poeti del mito nella iconografia classica figurano ciechi alla pari dei vati e dei profeti. Si riteneva che la cecità acuisse la vista
interiore, la memoria delle cose, la capacità di scrutare l’ invisibile. Omero, come
si tramanda, era cieco.
All’unione tra poesia e mito si aggiunge quella, altrettanto stretta, di poesia
e musica, impersonata nelle figure leggendarie dei musici-poeti: Orfeo, Museo,
Olimpo, inventore del flauto, etc. Tutta la grande poesia greca che ha ad oggetto
il mito nasce all’ insegna della musica. Aedi e rapsodi creano e recitano i versi dei
poemi epici accompagnandosi con la cetra.
Nel Museo omerico di Sperlonga, che Marcello Gigante indica “unico al mondo”, rivive la vicenda mitica di Ulisse, assoluto protagonista dell’Odissea (“L’uomo cantami o Musa”), assunto nel tempo ad archetipo dell’uomo occidentale per
l’ insaziabile sete di conoscenza e la capacità di superare con la forza del pensiero le
avversità divine e naturali. Ma il suo lungo viaggio di ritorno non avrebbe avuto
senso e meta se non vi fosse stata la paziente, a volte esitante ma infine sempre
ferma, attesa di Penelope. La sposa fedele ha in comune con Ulisse l’accorto linguaggio e la misurata astuzia e costituisce parimenti figura centrale che sorregge
il disegno del poema omerico.
Questi richiami fanno comprendere l’accostamento fatto di poesia e musica ed
insieme l’ intero tracciato compositivo del volume che riflette il singolare connubio
a Sperlonga di passato e di presente. Le liriche dei poeti insigniti del Premio Grotta di Tiberio precedono qui tre testi dedicati al mondo di Ulisse.
La sezione relativa alle esecuzioni musicali è comprensiva di alcune note ai
programmi scelte tra quelle che venivano distribuite prima dei concerti; è integrata dalla registrazione su CD della Sonata di Haydn, “Le Sette ultime parole
di Gesù sulla Croce” eseguita dal Quartetto Bernini, voce recitante Monsignor
Pablo Colino.
93
Premio Grotta di Tiberio per la Poesia
premi attribuiti
– 1998, Umberto Bellintani
motivazione:
Da un paese della bassa padana, un volume antologico restituisce al dialogo
letterario una figura poetica, di alto rilievo, rimasta volutamente appartata per
35 anni. Il lavoro poetico quasi cinquantennale di Bellintani percorre in molteplici varianti alcuni temi obbligati. La “straamata Lombardia” è la più grande
pianura nella quale il poeta si “espande”, ma anche luogo delle insistite ossessive
memorie degli amici perduti. Le esperienze della guerra emergono come aspetti
dell’ infinito male che la natura impone a tutti i viventi, in lotta incessante. L’uomo, collocato nella natura come sua parte non sfugge alla legge generale e in più
possiede una consapevolezza che ai dolori ineluttabili aggiunge altra afflizione. È
nell’ indignazione morale, nel parteggiare (anche contro Dio) per il debole e per il
vinto che si ravvisa una via di riscatto, mentre l’ immagine della morte si affaccia
sullo sfondo in veste di madre benevola portatrice del sonno consolatore. Nella sequenza cronologica dei testi che compongono il volume è possibile verificare
l’approfondirsi della sensibilità e l’affinarsi della scrittura di un poeta fortemente
originale, moderno ma svincolato dalle mode e dalle scuole del secolo.
(estensore Bruno Zambianchi)
Qual grazia di te
Te amo, silente pianura cara.
Soltanto che vorrei da una collina
mirarti allorché sollevi al giorno
l’allegro cicaleccio delle passere.
Qual grazia di te m’è tutta intorno
per dirmi del dolce e dell’amore.
Ma la bella elevata nel sereno
collina non c’è, pianura cara.
Non posso così vederti come
Iddio la gran mandria delle stelle
brucanti lo spazio. com’Egli
sentirmi estasiato pastore.
94
Pur godo mirarti da quest’argine
serena addormirti stasera,
e lungi il muggito d’un tuo bove
mi parla di te, madre dolcissima.
Antonia
E allora Antonia capì il proprio sesso.
Lo sentì. Prepotente là in fondo stava.
E un anno dopo ella era più donna,
e il sesso si faceva sentire ancor di più.
prepotente, famelico, umido di voglie.
Prepotente, famelico, umido di voglia
dei giovani muratori colle natiche sode sotto i calzoni stretti
e dei peli delle ascelle del ragazzo che giocava ai birilli
all’osteria del borgo.
E tratto tratto il cuore s’inteneriva delle rose
e i sogni azzurri ronzavano nel suo capo,
ma ricadeva in un languore di membra
e il suo sesso sognava solitudine e sabbia
calda del fiume. Solitudine e silenzio
e l’uomo dai peli neri come il pelo del toro del contadino
con quel suo sesso, quel suo sesso sconosciuto
che ora voleva e ora ne tremava.
Ma mio Dio,
come sarebbe bello senza quella cosa
terribile del ventre che si gonfia: mio Dio,
come sarebbe stato bello. Tuttavia
ne era anche estasiata: il ventre che si gonfia,
e le mammelle e i vagiti del bambino
ingordo di quelle, e l’uomo e il suo sesso
e il letto e la casa tutta piena di letizia.
Dalle «lettere dei condannati a morte»
Le sento al passo. Lo so, verrò sospinto
come una bestia sul camion della morte,
e fileremo in silenzio ad una bassa
terra di supplizio. Contro un muro
di terrore mi porranno, e dei moschetti
m’entreranno per gli occhi nel cervello,
nelle molli budella, dentro il cuore
per cacciarvi un frantumo di mattino
che vi stava impigliato. E piegherò
sui ginocchi ancora prima che mi giunga
dei moschetti spianati quella scarica.
95
Non è affatto maligna
Non è affatto maligna la morte
è una povera donna infelice
che ti passa la mano sul capo
e gli occhi ti serra e il cuore
te lo ferma e ti dice amorosa
di dormire, di nulla temere.
Non ha falce né teschio la morte
è una povera madre che soffre
e che attende ogni figlio che muore
e ogni volta che un figlio le muore
è la mamma dolente che piange
questa povera morte affettuosa.
– 1998, Lorenzo De Angelis,
motivazione:
Nel volume antologico di Lorenzo De Angelis le composizioni si raccolgono
intorno a due centri. Vi sono in primo luogo belle e delicate poesie d’amore, nelle
quali variamente si sviluppa un contrappunto raffinato tra immagini del presente
e metafore del passato rivissuto.
Con il procedere del discorso, lo sguardo dello scrittore si allarga a toccare tematiche filosofiche e religiose di fondamentale rilevanza. Testimoniano in tal senso
le poesie più ampie della raccolta (fino al poemetto finale), che si traducono in
una ricerca originale e coraggiosa di verità tutt’altro che comode e consolanti, e in
una loro espressione poetica di commossa autenticità. Per il lirico sostanziarsi di
una tensione intellettuale e di un denso e compatto ragionare queste composizioni
possono apparire a volte inattuali rispetto ai modi oggi dominanti, come rileva
Geno Pampaloni nel riconoscerne, peraltro, la schietta qualità poetica. Ma se ciò
colloca, talora, la poesia di Lorenzo De Angelis fuori del “suo tempo”, la riannoda, tuttavia, agli esempi classici della tradizione italiana.
(estensore Bruno Zambianchi)
Talvolta si compiace
il mobile compatto della rosa
ad uno ad uno
sfogliare e contemplare i propri petali
congiunti nell’incavo di un pensiero
che la fecero rosa.
96
Ed io di te contemplo
formata la tua bocca di sorrisi
che perfetti si spiegano nell’ombra
delle ciglia socchiuse, e già profuma
il dolente pallore che si accende
come fiamma curvata ad altra fiamma
a farne una,
per amore che divora altro amore.
A petali ho sfogliato la tua bocca,
e pur intatta resta, alta, segreta,
nel pensiero la rosa.
La Piuma
Bevono,
a sorsi brevi e intensi
come rapide occhiate di furtivi amanti,
coppe ariose
di luce fresca, limpida, frizzante
e fumano
qualche nuvola bionda
in un odore denso di turchino
e il Signore, nell’ora
malinconica e dolce dei meriggi estivi,
appisolato finge
di non sapere che a quell’ora gli angeli
fumano e bevono e indolenti
si trastullano
in certi giochi proibiti col Serpente.
Piero Guccione,
«Dopo il tramonto»,
acquaforte-acquatinta,
2000 (esposta
a Sperlonga nel 2006).
E se una piuma cade e lo solletica
c’è anche il caso che placido sorrida
e soffiando la spinga a volteggiare in cerchi,
in onde incerte ai bivii dei grovigli
degli universi brulicanti a sciami
come lucciole sparse a dissiparsi
in turbolenti intrichi.
Di qua, di là, dove soffiando accade
che fluttuando giungerà la piuma,
scelto il bivio,
a sconvolgere in quale degli innumeri
universi gli eventi
col suo candido avvento? Sonnacchioso,
nell’ora pigra dei meriggi estivi, il Signore
non ha voglia di scegliere e decidere
e lascia andare al soffio casuale,
senza bene né male.
97
Ho scelto, disse;
finalmente
non ho più dubbi.
Libera,
disse la goccia cadendo dalla nuvola,
correrò fino in fondo, imprevedibile,
la mia stupenda avventura.
Sarò fiume.
E il fiume la raccolse nel suo letto
già da sempre segnato
tra rocce, gole e sponde,
e in un attimo breve di miliardi d’anni
passati e da passare
la goccia seppe subito
dalla sorgente al mare ad altra nuvola
quanto breve ed eterna e sempre uguale e vana
fosse la sua avventura.
La clessidra
Io sono una clessidra
che osserva lentamente,
inesorabilmente,
la sua sabbia colare a grano a grano
e intanto trema che giunta alla fine
una crudele mano
la afferri e la rigiri
ricominciando il lento, inesorabile
colare a grano a grano incomprensibile
della sabbia di prima, della stessa
sabbia che scorre sempre,
irreparabilmente.
Sperlonga,
«Il Canale del Lago Lungo»,
(foto N. di Raimo 2007).
– 2002, Umberto Piersanti
motivazione:
Dalla terra marchigiana e da una drammatica storia personale scaturisce per
Umberto Piersanti la visione, il sentimento, di una natura senza pietà. Una metrica ricca, a volte sontuosa, sempre colloquiale accompagna dappresso il pastore
nella fatica, nel sogno, nelle fantasticherie allucinate; si concede persino la breve
musica di echi dialettali, nell’ultima sera novembrina dell’“ucielletto” spiato dalla
serpe acquattata; segue con quieto orrore la fine dello scorpione abbruciato sull’aia.
Cuore della raccolta è la lunga serie di testi che esibiscono senza remore una
vicenda dolente e inconsueta. Il figlio Jacopo – nel “ lungo giorno”, nel silenzio
invincibile – attraverso la pietà e la voce del padre assurge a personaggio poetico
98
di grande spessore. Sottesa ai contenuti affettivi affiora una dialettica mossa,
articolata, perfino assillante del tempo. Il “tempo che precede” è il tempo della
cultura agreste del pastore Madìo; ma è lecito estendere l’ immagine a un tempo
personale, il felice passato nella casa materna, poi nell’ infanzia del figlio “ fasciato nella luce”. Si fa “tempo chiuso” laddove il poeta affronta il contenzioso
con una vita che consola soltanto per attimi, e tuttavia riesce a trovare un
accento di perdono: “ il riso con gli asparagi / stasera, / vita fragile e assurda, /
vita anche lieta”.
(estensore Bruno Zambianchi)
La fata
nessuno deve entrare dentro
il bosco che la vitalba chiude
e cinge intorno,
ma lui lascia le pecore
e s’inoltra, spezza i fili
coi denti, li butta in aria,
pesta rami e grovigli,
niente lo ferma
dopo gli animali nei rami, sottoterra,
cessano di frinire, vede il prato,
l’erbe azzurrate e intatte, silenziose,
s’aprono i bei lecci, fanno corona
al grande ceppo della rosa bianca
esce la fata fuori della corteccia
Silvia l’incantatrice lì dimora,
i suoi capelli splendono,
la pelle,
le lunghe gambe nate da quei rami
un grande rischio corre
chi la vede,
la seguirono in molti,
senza tornare
– pastore, io t’ho scelto,
sei fortunato, alla tua vita
dono un giorno colmo.
Dopo... dopo che importa?
solo chi non ha colto rosa
non s’è punto –
e la fata prese lui per mano
si stese dentro l’erba,
lo tirò dentro
99
si risvegliò nel fosso,
le sue pecore attorno
col muso giù a brucare,
solo che era inquieto,
senza sapere
Il cespo viola
non un cespo riluce
nella macchia
come il viola di Giuda
quand’è aprile,
il verdone da ore
trilla e danza,
la femmina nell’olmo
che si liscia
che lo guarda
queta e indifferente
ma il verdone tenace
nel viola ci sprofonda
e lì disegna cerchi
canta più forte
l’albero è quello
dell’amore,
la luce così intensa
la foglia a cuore,
e la femmina presto
lascerà il ramo
e voleranno accanto
pieni d’ardore
«Dune sulla spiaggia
di ponente»
(foto N. di Raimo, 2008).
ma è un cespo traditore
questo viola,
albero di Giuda
di nome e fatto,
il nibbio che sta sempre
sul Monte Acuto
con occhi accesi
fissa il caldo fiore
che le femmine abbaglia
mette in calore
sono le piume intrise
di caldo sangue
che scivola tra i rami
e sulle foglie,
non vede la compagna,
i bei colori
ma l’ombra
dell’uccello ghermitore
100
Foto di mare
lo ferma lo scatto
contro il mare, su questa spiaggia
ignota, i giochi sono
rosso-accesi di plastica,
gommosi, il tempo
questo presente alieno
che solo la memoria
soccorre e incrina,
io ero come te castano
e assorto,
ma non vedo il secchiello,
gettato oltre la foto,
nella rena sperso,
s’è fatto grigio-eterno
come l’onda e il viso
come quelle palline a spicchi grandi
con Magni e Coppi,
il tunnel smisurato
che la spume circonda
e assedia invano
ora non cammini
sull’erbe
dentro l’aria,
tra le folte giunchiglie
non ti stendi
donna, ho nostalgia
dei tuoi giorni,
di quel vento al Petrano
che ti scompiglia
e le tue gambe lunghe
l’azzurra veste
che la mano discopre
timorosa,
le parole pacate
sul ritorno
oh vita che per attimi
procedi,
per attimi soltanto
ci consoli
anche per te
il tempo
farà così distanti
i giochi accesi,
sbiancheranno i colori
nella carta,
dopo,
in una persa spiaggia,
fotografano la vita
tua, remota
Dietro il vetro
e tornano i lillà
dalla finestra, di questo tempo
chiuso, dietro il vetro,
e s’accendono luci
s’accavallano nubi
filano vorticose sul crinale
sfiorano i lunghi Sassi
vanno altrove
«Sera sul Lago Lungo»
(foto N. di Raimo, 2007).
corrono le stagioni
mi rapinano il giorno
che invano invochi
colmo,
101
Sulle tracce di Ulisse
102
«Itaca tieni sempre nella mente
la tua sorte ti segna quell’approdo»
Costantino P. Kavafis
Stamnos attico a figure rosse del Pittore delle Sirene,
470 a.C., Londra, British Museum.
Civiltà corsara nel Mediterraneo (Odissea XIV)
Marcello Gigante
Non sono un archeologo, ma un filologo, un lettore di testi; pertanto ho
scelto un tema del XIV Canto dell’Odissea in cui non si parla di Polifemo né
di Eolo, né di Circe, né delle sirene, né di Scilla, ma di una nuova Odissea: le
avventure che Ulisse, falso mendico, narra al porcaro Eumeo appena rientra
a Itaca.
Siamo, dunque, a una rivoluzione, nell’àmbito della poesia epica: un racconto paradossale, immaginario, che non ha goduto della stessa fortuna né
della stessa popolarità dei cosiddetti Apologhi di Alcinoo, ma che tuttavia non
può essere trascurato, pur non essendo stato un modello di racconto fantastico come i citati Apologhi.
Si tratta di un racconto di bugie, ma anche il falso è un elemento fondamentale della poesia. Esso è falso perché non corrisponde al vero racconto
del vero Ulisse alla corte di Alcinoo, ma è vero se appartiene esclusivamente
al protagonista, che si professa un avventuriero, un mercante, un pirata, un
corsaro, un signore di Creta, che non ha nemmeno un nome; dice, però, il
nome del padre, e quindi non è un altro Ulisse, bensì un uomo nuovo, “una
volta forte” (egli dice), non glorioso, un marinaio navigatore, simbolo di una
civiltà che definisco “corsara”.
Pertanto, il titolo del mio intervento, “Civiltà corsara nel Mediterraneo”
deriva dal fatto che il teatro di tali scorrerie è il Mediterraneo, cioè il mare
interno. Si tratta del racconto di un uomo straordinario che costituisce, a sua
volta, un’Odissea, una piccola epopea; la storia di un lungo viaggio la cui caratteristica è la menzogna del narratore, ma anche la verità del poeta.
Questa storia non ha nulla di eroico, non può essere inquadrata in quella
del ritorno degli eroi; è, invece, il racconto di un falso mendico che si professa
cretese. La dea Athena crea questo personaggio narratore: con un tocco di verga – che è già il segno di un prodigio – Ulisse diviene un vecchio mendicante.
La dea gli avvizzisce la pelle, gli dirada i capelli, lo copre di luridi cenci, pone
ai suoi fianchi una pelle spelata di cerva, gli dà un bastone, una bisaccia bucata e una corda da appendere a tracolla. Ulisse perde l’agilità delle membra e
la sua bellezza. Reso, così, non riconoscibile, egli, avendo accettato il consiglio
di Athena di porsi alla ricerca di Eumeo, il porcaro fedele, assume il volto e la
figura del pitocco.
A ben pensarci, nasce qui il modello amato dai filosofi cinici: il vagabondo,
il mendicante, il divoratore di avanzi, l’accattone costretto dal bisogno an-
103
«Ulisse mendicante
e Penelope», rilievo melio,
460 a.C., Monaco,
Antikensammlungen.
104
che a essere impudico e sfrontato. Però
Omero sostiene che il pitocco che nulla
possiede, come gli stranieri, appartiene
a Zeus: un’aura sacra si diffonde non
sulla povertà, ma addirittura sull’indigenza, e il vagabondare del mendicante non è eroico: per vivere deve ingannare e prendere in giro. Così, il poeta
dell’Odissea – chiamiamolo Omero –
ci ha fornito uno statuto del pitocco,
ed è a un falso pitocco che ha affidato
il compito di rivelare il nuovo mondo
che segue alla guerra di Troia: il mondo precoloniale. Precede tale mondo la
visione della vita che troviamo in Esiodo, il severo poeta di Ascra.
Il racconto a Eumeo è accortamente
preparato: Eumeo pensa sempre al suo
padrone, non immagina minimamente di averlo di fronte, anzi, è tutto fisso
nel rimpianto di lui che erra privo di
cibo per terre e città di stranieri.
Egli dice che al suo padrone gli dèi negarono il ritorno da Troia dov’era
andato per l’onore di Agamennone. Eumeo è costretto a vivere sotto i nuovi
padroni, i Proci, che non si curano degli dèi e non hanno pietà. Gli dei non
possono amare le imprese oltraggiose dei pretendenti, ed Eumeo accomuna i
Proci nella dura condanna dei predoni, degli avventurieri, ostili e ribaldi, che
sbarcano nelle terre altrui e predano il bottino che Zeus concede loro.
Non vi è proprio una chiara condanna della pirateria, dal momento che
Zeus concede qualche preda, tuttavia il poeta pone il problema del difficile
rapporto di convivenza fra invasori, sia pure sporadici, e invasi, e denunzia
l’inimicizia e la ribalderia dei predoni, che non possono restare impuniti.
E certamente importante che siano gli stessi autori delle scorrerie ad avvertire il disagio e temere la vendetta non solo degli dèi, ma anche dei rapinati.
Non vi è ancora la robusta e coerente visione di Esiodo, ma è aperta la via alla
condanna della pirateria, che in un certo modo rappresenta la civiltà corsara, la
quale, nel racconto del falso mendico, si dispiega dinanzi al lettore. Una sorta
di mondo caotico, assolutamente diverso da quello della guerra di Troia.
Il racconto comincia con l’illustrazione da parte del vecchio (che non è un
aedo) del suo genus, della sua stirpe, in cui Creta appare subito come il centro
del suo universo; egli infatti è un cretese, ma un cretese bastardo, un figlio
non legittimo, onorato dal padre, ricco e generatore di molti altri figli, con
una casa principesca, in cui anche il figlio di una schiava può crescere. La sua
famiglia è ricca; sono raccolti i termini dell’opulenza e del benessere per raffigurare la ricchezza, il plutos, da cui ricevono prestigio i figli.
«Ulisse e il cane Argo», rilievo
marmoreo, 180 circa d.C.,
Napoli, Museo di S. Martino.
In Creta il popolo onora Castore come un dio. Già ora la ricchezza appare
quale misura esclusiva del valore dell’uomo. La morte di Castore segna il destino di questo figlio illegittimo; la divisione dell’asse ereditario, con il sorteggio dei beni, ha un esito sfavorevole e a lui tocca solo una casa. La sorte aiuta
i figli legittimi, ma il Cretese non si perde d’animo e sposa una ricca donna,
figlia di uomini ricchi, possidenti di fattorie, di terreni coltivati, molto desiderata da altri, come la donna sognata dal povero pastore Eumeo.
Così la donna ricca è il premio della virtù del Cretese, perché egli non era
ozioso, non era vile, non era un disertore della guerra, della quale non schivava
i pericoli. Tale guerra non era quella famosa troiana, bensì quella di conquista
della ricchezza; ecco il nuovo quadro della civiltà. Per essa il Cretese si autorappresenta sotto l’egida di Ares e di Athena. Fiero sterminatore e guerriero
come Achille, la sua è piuttosto una guerriglia fondata sull’agguato, il cui
teatro è il mare, nel centro del quale si trova Creta.
Il modello di vita non è il lavoro né l’amministrazione domestica; il Cretese
diverge dal modello paterno e lascia la terra per il mare.
A questo punto nasce il modello della vita che definiamo “corsara”, perennemente sul mare, fondata sul movimento continuo dei remi. Insieme alla
navigazione la guerriglia, condotta con lance e frecce, con una serie di brividi
di morte.
Il Cretese realizza così un modello di vita nuova, una scelta di vita sanzionata da un dio e da Cretesi di valore. Anche la vita marinara e corsara,
infatti, è un’opera, un ergon; chiaramente la scelta avviene fra i modi di vita
105
operosa, non tra ozio e lavoro. All’economia domestica il Cretese preferisce
quella marittima; realizzare l’ergon che piace significa non solo ricchezza, ma
anche gioia. Con la rappresentazione di tale modello di vita, siamo alle origini
del dilemma: quale sia la vita migliore. Il problema della scelta di vita nella
formulazione di Saffo e di Orazio: «E bello il modo di vita che piace e che dia
gioia e ricchezza». Non è un quadro eroico della tradizione epica; il primato
ambìto consiste nel far arretrare il nemico con una imboscata, trafiggerlo per
difendere un bottino e acquistarne un altro.
Si persegue un modello di vita assolutamente utilitaristico; si realizza, chiaramente, un uomo nuovo che non è né Achille né Ulisse.
Tale realizzazione esige la pace esterna: la guerra di Troia, infatti, interruppe lo sviluppo di questo modello, ed egli per nove volte fu a capo di un
equipaggio scelto, armatore di navi veloci, fortunato guerrigliero.
L’arte della guerra corsara aveva incrementato il patrimonio domestico, ed
egli, fra i Cretesi, realizza il prestigio sociale e diviene esattamente ciò che
divenne Ulisse allorché Athena, per renderlo gradito ai Feaci, lo rese bello,
grazioso e robusto. Il Cretese diviene così terribile, come lo stesso Ulisse, rispettato come Agamennone, e gode addirittura degli stessi epiteti riservati alle
divinità.
Quando scoppia la guerra troiana, che provoca molti morti, però, le scorrerie, feconde di ricchezza, cessano, e la voce del popolo impone a lui e a Idomeneo di guidare le navi a Ilio. Nessun espediente riesce ad evitargli la guerra,
e va notato che il Cretese definisce quella troiana non “guerra odiosa”, bensì
“viaggio”, “strada odiosa”; un viaggio, cioè, non amabile come i nove compiuti
per le fruttuose scorrerie contro gli stranieri, che contrappone ai nove anni di
guerra.
Dopo la fine della guerra di Ilio lo scenario si amplia e l’orizzonte si precisa
nella geografia; l’ambizione diviene più caotica, i polemoi si tingono di sangue
e alla fine emerge il ritorno del vero Ulisse, l’unico elemento inerente alla funzione di questo racconto. Prima della guerra troiana il teatro delle scorrerie è
indeterminato; ora, invece, la ricchezza si trova in Egitto, in Fenicia, in Libia
e in Testrozia. Compaiono i re, ma soprattutto si fa più completo il profilo del
marinaio, del capociurma, che pratica scorrerie complicate e pericolose, ma
comunque fruttuose, e nel quadro, talvolta fosco, si delineano altri tratti della
epoca pre-esiodea: il lavoro anche coatto, il trasporto di carichi commerciali,
la vendita di schiavi. A questo mondo, dominato soprattutto dall’inganno e
dall’astuzia, non è estranea la divinità. Si manifesta il fascino di una terra ricca, il Delta del Nilo, che desta aggressioni già a partire dal XII secolo. Anche
Menelao aveva raccolto ricchezze in Egitto.
Il viaggio da Creta, l’isola dalle ampie contrade, dura cinque giorni e comporta molte avventure. La vicenda egiziana dura ben sette anni, durante i
quali gli Egiziani difendono la propria terra, si giunge alla conciliazione, il re
salva gli invasori dall’ira del popolo e si stabiliscono rapporti di ospitalità e di
amicizia.
Dopo l’avventura egiziana si torna nel caos e compaiono i Fenici, il cui uni-
106
verso, che oggi conosciamo sempre meglio,
costituisce un aspetto
particolare della storia
strettamente tessuta
con Creta, l’Egitto e la
Libia; i Fenici si presentano quali attivissimi
mercanti, astuti, spregiudicati, trasportatori
di carichi, venditori di
schiavi, marinai espertissimi e, soprattutto,
avidi di guadagno.
L’episodio fenicio
è molto articolato: il
nostro Cretese, ancora in Egitto con il suo
mucchio di ricchezze, è raggiunto da un fenicio il cui connotato non è diverso da quello del
vero Ulisse maestro di inganni. È lecito domandarsi se D’Annunzio abbia
conosciuto queste pagine, dal momento che, nel secondo atto della “Fedra”
introduce il pirata fenicio che con le erbe riusciva a domare le insonnie della
indimenticabile eroina. Il ritratto del corsaro è molto preciso: “Ereditò dal
padre la passione del mare e, asciutto e robusto, poté discoprire a Fedra il suo
diverso tesoro”.
Le fonti di D’Annunzio sono sterminate, remote e difficilmente individuabili; comunque, allo squarcio di storia fenicia il Cretese aggiunge la terra dei
Testroti, che riporta il lettore a Ulisse sulla via del ritorno. In Testrozia, infatti, il Cretese giunse, avvoltolato dal grande flutto, che non lo aveva sommerso;
tale terra si trova vicino a Itaca e ospita un ingresso all’Ade, famosa non meno
della nostra Cuma, la cui omericità è stata successivamente rintracciata dagli
scavi di archeologi greci.
A questo punto comincia il terzo segmento del racconto a Eumeo, il quale
costituisce il passaggio che riconduce alla trama fondamentale dell’Odissea: il
falso mendico approda, sia pure in modo rocambolesco, a Itaca, ricalcando, in
qualche misura, l’approdo di Ulisse. Si intravede qui, innanzitutto, il legame
dei piccoli regni mediterranei, la società dei re nel segno della ricchezza, e,
mentre Ulisse consulta l’oracolo di Dodona, Fidone, che ha ospitato Ulisse
come già aveva fatto Alcinoo, lascia partire il naufrago rivestito su una nave
diretta a un’isoletta vicina a Itaca.
Al nocchiero viene ordinato di condurre il Cretese con sollecitudine presso
il re Acasto. Il Cretese approda quindi a Itaca, ove gli dèi lo salvano e lo accompagnano alla capanna di Eumeo.
L’ultimo tocco di questa civiltà che tende insidie e ordisce trappole per con-
Il Sindaco A. Cusani
ed i professori M. Gigante
e B. Andreae (2003).
107
seguire la ricchezza è costituito da una geografia ricca, almeno agli occhi dei
corsari, da una civiltà fatta di re cortesi, magnanimi, mentre i loro sudditi non
rifuggono dal togliere la libertà a uno straniero per guadagno.
E un mondo dal quale gli dei non sono assenti; anzi, molto facilmente
danno lo scacco alla malvagità, senza, tuttavia, eliminare gli affanni e il male
dalla storia dell’uomo. Alla fine del racconto è, però, il destino di vita a prevalere sul destino di morte, e le avventure, nel bene e nel male, non eliminano la
vita non solo dell’eroe cretese e di quello itacese, ma anche dei marinai, pirati e
mercanti, che affidano alla navigazione il loro destino, che non è di alto livello
economico e sociale.
Il racconto a Eumeo rivela un mondo diverso da quello degli Apologhi,
dalle avventure narrate da Ulisse alla corte di Alcinoo: è un racconto di avventure che con la realtà storica della società dell’Ottavo secolo stabiliscono
un nesso difficilmente negabile. Se le peregrinazioni dell’eroe da Ogigia a
Itaca costituiscono il fascino dell’epica in un universo variamente collocato e
decifrato (che non è, tuttavia, il labirinto di cui parla qualcuno), la geografia
del racconto a Eumeo (l’Egitto, la Fenicia e, soprattutto, Creta), al di là di
qualche particolare indeterminato, è il Mediterraneo, intorno all’ampia Creta, che diventa sempre meno misterioso. Non è l’Eolide del padre di Esiodo,
che venne in Occidente per sfuggire alla povertà, ma piuttosto un preludio al
movimento colonizzatore dei greci che, dalle coste microasiatiche, sciamavano
in Occidente.
Qui e altrove Omero è divenuto per noi testimone di tutti i viaggi che
congiungevano fra loro le sponde del Mediterraneo, vicine e lontane, formando una rete di cui i nomi di luoghi, di genti, dispersi per il poema, ci fanno
indovinare l’ordito.
La polarità del racconto a Eumeo è un dato evidente: qualche motivo comune, strutturale e poetico (ad esempio la tempesta, l’ospitalità) vale a ribadire che l’autore rimane sempre il poeta dell’ Odissea.
La lettura del racconto a Eumeo ci indica nel Cretese un altro Ulisse: il
corsaro che naviga alla ventura per realizzare un modello di vita che possiamo anche definire “crematistico”, cioè utilitaristico, in un mondo che non è
fiabesco, non è leggendario, ma non ripugna neppure alla tradizione epica.
Un personaggio che mi guardo bene dal definire “eroe”, diverso anche da
Telemaco. Che la funzione del racconto a Eumeo, la cui struttura narrativa è
stata abbastanza indagata, sia la rivelazione di una civiltà diversa dal mondo
degli Apologhi e sia coerente con gli altri racconti immaginari, mi pare il dato
chiaro che emerge dall’analisi del contenuto. Credo che il significato di questo
racconto non possa essere ridotto alla volontà del poeta di creare un piacevole
intermezzo narrativo nella capanna di Eumeo.
A mio parere, lo scenario umile della capanna di Eumeo riflette una situazione poetica antitetica allo splendore della corte di Alcinoo, dove il vero
Ulisse inventò la poesia veramente fantastica del suo paradigmatico ritorno.
E più che il piacere vi è il paradosso che le menzogne del vagabondo pitocco
rappresentino la verità concreta e nuova di un mondo non più mitico.
108
Ulisse e le figure femminili dell’Odissea
Bernard Andreae
È vero che Ulisse non è morto, che il poema è immortale; e di questo esiste una testimonianza molto bella e commovente. Mentre preparavo questa
conferenza sono passato da un’edicola nella quale era in vendita l’Odissea in
italiano, con il testo greco a fianco. Credo che l’Italia sia l’unico paese del
mondo dove ciò accade.
Leggo alcune parole di Franco Montanari: «Se volgiamo lo sguardo all’indietro nei secoli, al massiccio intervento della filologia alessandrina... Si pensi
poi alle scoperte di Schliemann. Nel caso di Omero i procedimenti sono del
tutto particolari e pongono difficoltà, perché pongono problemi nel primo
testo che conosciamo. Da Omero stesso dobbiamo ricostruire la cultura di
Omero».
Ritengo che l’archeologia consenta di comprendere l’Odissea. Ancor più di
Schliemann, che trovò Troia ma poco spiegò di Omero e della sua poesia, che
fu scritta cinquecento anni dopo la distruzione di Troia (avvenuta, si ritiene,
a causa di un terremoto – Posidone era venerato nella figura del cavallo – e
non per mano dei greci), Omero, l’Iliade e l’Odissea sono illustrati dall’arte
dell’epoca. Ad Ischia, ad esempio, si trova la famosa coppa di Nestore, che
può essere datata precisamente: 730-720 a.C.; ciò dimostra quanto sia problematica l’ipotesi di Martin L. West, secondo la quale l’Iliade fu scritta verso il
670 a.C. Su di essa infatti un’incisione riporta un verso omerico (l’esametro
omerico è completamente diverso da un esametro semplice, e costituisce una
forma artistica molto sviluppata, prima sconosciuta) dell’Iliade che all’epoca
della realizzazione della coppa era dunque conosciuta.
Quanto è avvenuto negli anni bui che vanno dal 1.200 al 720 a.C. è narrato solo dall’arte geometrica, in cui vasi dapprima semplici sono divenuti
via via più complessi, fino a grandi composizioni. Anche l’Iliade – anteriore
all’Odissea – è una composizione, e non solo un poema che inizia e finisce,
dove tutti gli eventi sono concatenati. In sostanza, un poema e un vaso venivano realizzati secondo uno stile analogo, che rispecchiava il modo di sentire
dell’epoca.
La storia non si ferma mai: il progresso è continuo, come ha scritto perfino
il cardinale Ratzinger, l’8 gennaio scorso, sulla Frankfurter Allgemeine, in un
articolo per il quale quattrocento anni fa sarebbe stato arso vivo; per gli storici ciò costituisce un grande vantaggio, perché possiamo affermare che ogni
generazione ha un proprio modo di vedere: quello dell’Omero dell’Odissea è
molto diverso da quello dell’Iliade. Circa la data dell’Odissea, in un vaso del
680 a.C. compare un ciclope con un solo occhio, mentre è noto che i ciclopi
avevano due occhi. Ciò dimostra che l’Odissea, che ha influenzato l’artigiano
che ha realizzato il vaso, è stata scritta in epoca precedente al 680 a.C. In una
pisside che risale approssimativamente al 700 a.C. si trova illustrata l’Odissea,
nella quale – ricordo – Ulisse compare al presente solo quattro volte, poiché in
Fondo di pisside protocorinzia, 700 a.C., Atene,
Museo Archeologico.
109
«L’accecamento di Polifemo»,
vaso protoattico, 680 a.C.,
Argos, Museo Archeologico.
110
tutti gli altri casi si tratta di flash back.
Interessante è il passaggio dallo stile
geometrico ad uno stile diverso contrassegnato da intrecci, spirali bianche
e nere, doppie eliche etc. Questo nuovo stile è rispecchiato nella costruzione dell’ Odissea.
Dunque, l’archeologia ha consentito di risalire alle date in cui le opere
sono state scritte e i vasi sono stati
eseguiti.
Inoltre, ritengo che affinché Omero non muoia, occorrano una sensibilità e uno sforzo da parte nostra. Ad
esempio, per comprendere l’Odissea
Goethe, nel corso del suo primo viaggio in Italia, si recò in Sicilia, da dove
scrisse ad Herder: «Quanto a Omero,
mi è caduto un velo dagli occhi: le
descrizioni, i paragoni, ecc. ci appaiono poetici, ma sono incredibilmente
naturali, disegnati con una tale purezza e sincerità da spaventare. Perfino
gli avvenimenti immaginari sono descritti con una tale naturalezza da farmi
avvertire la vicinanza dei soggetti (in Sicilia). Lasciami esprimere brevemente le mie idee in questo modo: loro rappresentano l’esistenza, noi, di
solito, l’effetto. Loro descrivono il pauroso, noi descriviamo paurosamente.
Loro il comodo, noi comodamente. Da ciò proviene tutta l’esagerazione, il
manierismo, la falsa grazia, tutte le parole grosse, perché quando si lavora
l’effetto, e sull’effetto, si crede di non riuscire a renderlo abbastanza sensibile. Se ciò che dico non è nuovo, tuttavia l’ho avvertito in questa circostanza.
Ora vedo tutte queste coste e questi promontori, questi golfi e queste baie.
Isole e lingue di terra, queste rocce e strisce di sabbia, queste colline verdi,
teneri pascoli, campi fertili, giardini decorati, alberi ben curati, montagne
di nuvole e pianure sempre serene, scogli e banchi, e il mare che tutto circonda. Tante variazioni e molteplicità. Le vedo vive nello spirito solo adesso,
e l’Odissea è per me una parola viva». Questa lettera fu scritta a Napoli il 17
maggio 1787.
Venendo, da ultimo, alla figura di Penelope e alle altre figure femminili
del vagabondaggio di Ulisse, desidero presentare in questa sede un libro di
Inge Merkel, non tradotto in italiano: «Eine ganz gewöhnliche Ehre», che ha
riscosso in Germania un grandissimo successo. Il libro tratta di Penelope
vista da una donna; un punto di vista che può essere definito «in controluce», ricondotto non all’ottica di Ulisse, bensì a quella di Penelope. Per comprenderlo meglio è necessario riferirsi alla Penelope di Omero; nell’Odissea
le donne che circondano Ulisse non vivono di vita propria: a ben guardare,
esse rivestono un ruolo determinato dallo sviluppo della narrazione, e la loro
figura viene delineata in funzione della costruzione del carattere dell’eroe.
Il superamento delle prove cui ognuna di esse lo sottopone rafforza le connotazioni fondamentali della sua personalità. Calipso mette a dura prova la
tenace volontà del re di Itaca, promettendogli l’immortalità; le Sirene rappresentano la seduzione dei piaceri dei sensi, contro la quale Ulisse oppone
la sua curiosa intelligenza; Circe è l’ammaliatrice, a volte tenera e altre volte
spietata, che impersona la tentazione dell’oblio rispetto alle responsabilità
dell’uomo-guida.
A differenza di tali figure femminili, soltanto Penelope è un personaggio
compiuto, caratterizzato da virtù positive complementari a quelle dell’eroe:
la fermezza, l’astuzia, la fedeltà, l’incredulo disincanto che le impone la necessità di certezze di fronte al riconoscimento del marito, rendono Penelope
una figura esemplare, ricca di carattere. L’autrice la definisce come una donna dal matrimonio “assolutamente normale”, e nel descriverla, scrive: «Tra
la folla colorata dei Proci ve n’era uno che amava Penelope davvero; ella lo
sentiva. Lui non pensava solo al suo patrimonio, ma a lei come donna. Si
era innamorato pazzamente di lei e Penelope non era insensibile. E vero che
si era abituata, in quei lunghi anni, a dormire in un letto vuoto, e anche il
«Ulisse, Euriclea e Penelope»,
rilievo tessalico, 400 circa a.C.,
Atene, Museo Archeologico.
suo corpo si era adeguato, o almeno rassegnato. Ella non stracciava più le
lenzuola nella notte afosa, al chiarore della luna, ma soffriva per tutto ciò
che non aveva potuto avere; soffriva per la mancanza di Ulisse e si rattristava anche per le gioie che un uomo poteva regalare a una donna e delle
quali aveva sempre goduto. Le erano mancate soprattutto nei primi anni. Se
ora vedeva Anfinomo e parlava con lui, si chiedeva, con un sentimento tra
curiosità, dispetto e desiderio: perché no? Pensava ad Anfinomo non come
111
a un possibile marito e successore di Ulisse, ma solo come ad un uomo nel
letto, e le pareva il migliore perché era innamorato, dolce di carattere e
formoso nella corporatura. Senza esprimerlo chiaramente, gli faceva capire
che nel caso egli si fosse recato a visitarla nella sua camera da letto, non lo
avrebbe fatto cacciare dalla servitù.
Quando i Proci, come usava fare, a una certa ora lasciavano il palazzo di
Ulisse per andare a dormire a casa propria, andò via anche Anfinomo, ma
egli tornò, attento a non essere notato perché venerava Penelope. Per superare la sua timidezza e soggezione, Penelope, dopo molto tempo, aveva fatto
onore al vino dolce e pieno; ma le scioglieva solo la lingua, non le membra,
che improvvisamente divenivano pesanti come il piombo, fredde e asciutte.
Anfinomo era molto felice quando intese; pieno di aspettative, si era recato di soppiatto nella casa e ora sedeva tremante di eccitazione accanto a
Penelope, sull’orlo del letto, e cercava di avvicinarsi a lei. Poneva il braccio
intorno alle spalle della donna, le accarezzava le chiome e il collo, la baciava con timidezza, non solo sulla bocca, ma anche sugli angoli delle labbra
e sulla gola. Dolcemente la forzava a distendersi e si disponeva accanto a
lei. La lampada stava per spegnersi; dava solo pochissima luce vacillante e
irrequieta. Penelope chiudeva gli occhi. ‘Io voglio’, pregava dentro di sé, ‘io
voglio, o Dea di Cipro, manda il tuo figliolo; mi ha tormentato abbastanza,
ora deve sciogliermi le membra’. Anfinomo diventava sempre più insistente,
ma teneramente e piano; non era maldestro. Penelope lo sentiva e stava per
arrendersi. Ma d’improvviso si rese conto che non era Anfinomo a toccarle
il cuore; non quel bell’uomo dalle mani amabili ed esperte, ma il ricordo
di Ulisse, che si poneva fra i suoi sensi e l’altro uomo. Ella sentiva, odorava
e vedeva, dietro le palpebre chiuse, Ulisse, ed era a lui che la sua carne cominciava a cantare e non al bravo Anfinomo. Penelope era agitata; si sedette
dritta sul letto. Non era facile, perché si era spinta avanti. Accarezzava il costernato Anfinomo, che non poteva capire, lo accarezzava come una madre
sui capelli e gli diceva: ‘Non arrabbiarti con me, Anfinomo caro, se volessi
farlo con qualcuno saresti tu, perché ti voglio bene e ti stimo. Ma proprio
perché ti stimo non posso farlo: sei troppo buono per essere usato come un
surrogato di Ulisse, e quando tu ti avvicini vedo all’improvviso il suo volto
nel tuo. Ben volentieri avrei tradito Ulisse con te, e probabilmente se lo
sarebbe meritato. Mi capisci, amico mio?’. Anfinomo aveva l’aspetto di chi
non capiva proprio niente, ma si adeguava perché sentiva chiaramente che
ciò che gli accadeva non era un’offesa, bensì qualcosa di simile ad un onore.
Una situazione diversa gli sarebbe magari convenuta di più; avrebbe potuto
arrabbiarsi e farle una scenata. Sarebbe stato più facile sparire. Ma si adeguò
e allontanandosi usò le stesse precauzioni di quando era venuto. Era il suo
carattere. Non era colpa sua se Euriclea non aveva un sonno profondo e, per
di più, aveva fiuto per tutte le cose concernenti i rapporti tra uomini e donne. La mattina successiva guardava dritto in faccia Penelope con un vago
sorriso, non senza benevolenza. Penelope faceva finta di niente e passava con
un’espressione impenetrabile».
112
In un altro passaggio molto bello,
diversamente dal poema di Omero,
in cui Penelope non vuole credere,
ella comprende che il mendicante è Ulisse: «Ulisse, trasformato in
un vecchio mendicante, sta seduto
sulla soglia del palazzo mentre Telemaco racconta alla madre ciò che
ha saputo da Nestore e Menelao.
La madre è molto orgogliosa del figlio, ma è distratta; sente solo alcune parole: Menelao e Elena avevano
vissuto anch’essi la loro Odissea, ma
questa era durata solo tre anni. Ella
allora chiede al figlio: ‘Tre anni dopo
la caduta di Troia; ciò significa che da
sette anni sono già a casa’. Telemaco
continua il suo racconto, ma Penelope è completamente presa da un pensiero che la tormenta: sette anni sola,
senza compagno. Ogigia, un’isola abitata da una ninfa: Calipso. Solo lui e lei
per sette anni! Poi si riprende e dice al figlio: ‘continua pure, figliolo’. Sente
la sua impazienza, ma segue il racconto distrattamente e dice fra sé: ‘Sette
anni buttati con quella cinciallegra isolana! Cosa devo fare? Piangere o ridere,
arrabbiarmi o impiccarmi? Se adesso entrasse questo fellone lo caccerei! Macché: gli salterei al collo e piangerei di rabbia e di felicità. Ma ora devo ascoltare
il ragazzo, altrimenti si dispiacerà’.
Il mendicante, nel frattempo, siede sulla soglia del palazzo, esposto al disprezzo dei Proci. Penelope sente il chiasso quando Alcinoo butta l’elemosina
ad Ulisse ed ha un presentimento: chiede ad Eumeo di farlo salire da lei,
ma questi torna solo e riferisce che il mendicante fa sapere che sarebbe più
razionale recarsi dalla padrona solo dopo che i Proci fossero tornati a casa.
Ella si indigna per il fatto che il vagabondo non ha prontamente risposto
al desiderio della padrona. Si rende conto, però, che il suo pensiero non è
del tutto sbagliato. Decide quindi di scendere; si guarda intorno, osserva il
mendicante con la coda dell’occhio e capisce che è Ulisse, ma non si tradisce, parla ai Proci e riferisce le ultime parole di Ulisse quando partì: ‘Se non
tornassi dovresti risposarti’. ‘Oramai ogni speranza è vana, e quindi mi sono
decisa per un nuovo matrimonio, ma non è uso che i pretendenti portino
regali invece di divorare i beni della futura sposa?’ Restarono tutti in silenzio.
Penelope si gira e sale nella sua camera dicendo a se stessa: ‘Adesso mi ha vista
e sa che sono ancora attraente mentre lui è invecchiato in questi anni con la
prostituta dell’isola, adesso vedrà portare i regali».
È molto interessante osservare Ulisse in un matrimonio «assolutamente
normale» nella prospettiva di un occhio femminile.
Testa (ritenuta) di Penelope,
Kopenhagen,
Ny Carlsberg Glyptotek.
113
Ulisse nella poesia moderna
Piero Boitani *
Pintoricchio
(Bernardino di Betto, detto il),
«Penelope e i Proci», 1509,
Londra, National Gallery.
L’Ulisse del mondo moderno è per metà quello
dantesco, per metà quello omerico. L’invenzione
trecentesca di Dante ha, paradossalmente, effetti
più immediati e duraturi di quella, ben più antica,
di Omero. Probabilmente, questo è dovuto all’effetto dirompente che l’episodio di Inferno XXVI ha
sul pubblico moderno dell’Occidente, che ravvisa
nel personaggio centrifugo uno specchio tragico
ed esaltante della propria civiltà. I poeti, i commentatori e gli stessi navigatori del Cinquecento
riconoscono in Ulisse la prefigurazione dell’esploratore europeo: così Tasso, celebrando Colombo nella Gerusalemme liberata,
ma anche Bernardino Daniello, commentando il canto XXVI dell’Inferno,
e – valga per tutti – Amerigo Vespucci nell’annunciare di essere entrato per la
prima volta nel “gran golfo” dell’Oceano.
Il paradigma omerico – quello di un Ulisse centripeto, che torna a casa
dopo lunga erranza – è invece fra Cinquecento e Settecento circoscritto soprattutto alla musica (Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi ne è l’esempio
maggiore) e alla pittura, dove gli affreschi e i quadri del Pintoricchio, del Primaticcio, di Claude Lorrain e di tanti altri sono concentrati su singoli episodi
del nostos vero e proprio.
La reincarnazione moderna del mito riprende dalla lirica – un vero e proprio monologo drammatico – in cui Alfred Tennyson, il poeta laureato della
Regina Vittoria, immagina Ulisse, già ritornato ad Itaca, decidere di mettersi
di nuovo in mare per vedere le Isole Felici o naufragare. L’Ulisse di Tennyson,
che per esplicita intenzione dell’autore collega la profezia di Tiresia nel Libro XI dell’Odissea sull’“ultimo viaggio” dell’eroe al suo “compimento” nella
Commedia dantesca, è quello che trasmette al mondo moderno di lingua inglese l’impulso ulissico all’esplorazione, sia nei personaggi storici che nella letteratura. Quando Scott muore nella spedizione al Polo Sud, sulla croce che lo
commemora viene intagliato l’ultimo verso della composizione di Tennyson.
Durante la stessa spedizione Shackleton, protagonista poi di un’impresa altrettanto eroica, confessa di sentire le parole dell’Ulisse tennysoniano rimbombare nella sua mente. E quando Amundsen rientra dal viaggio che gli consente
di percorrere per primo il Passaggio a Nordovest, il decano degli esploratori,
Nansen, lo accoglie citando ancora una volta il monologo di Tennyson. Nella poesia, si ricorderà di tutto ciò T.S. Eliot, che nella prima redazione della Terra desolata inserirà una sezione IV, Morte per acqua, piena di citazioni
* Professore ordinario di Letterature comparate nell’Università degli Studi “La Sapienza”
di Roma.
114
tennysoniane e terminante con l’“altrui” di Inferno XXVI: “and if Another
knows”, mentre nella versione definitiva alluderà a un particolare della spedizione antartica di Shackleton. Ben più tardi, nella Odyseia dello scrittore
neogreco Kazantzakis è Odisseo stesso a raggiungere l’Antartide. Ripartito da
Itaca viaggia lungamente alla ricerca di se stesso e dell’Essere giungendo alla
fine a un villaggio di para-Eschimesi. Sale su un iceberg: di fronte a lui, Morte, immagine speculare di lui stesso. Odisseo prende congedo dagli antenati,
dalle donne, dalla patria, dagli animali, dai sensi, dagli elementi, dalla mente.
Al termine del poema, si assiste a una vera e propria apoteosi di Odisseo: due
monaci e due Greci antichi gli chiedono la sua “parola più profonda”. L’eroe
sorride. Evoca l’ultima tentazione, il fare e il disfare il mondo, che appare con
le fattezze di un bambino negro. I due parlano giocosamente. Poi il bambino
si addormenta ai piedi di Odisseo, che muore in pace sull’iceberg.
L’attenzione sulla figura di Ulisse era stata tuttavia riportata dal poeta irlandese W.B. Yeats, che già nel 1898 proclamava: «Impareremo di nuovo come
descrivere a lungo un vecchio che erra tra isole incantate, e infine il suo ritorno
a casa, la vendetta che lenta si svolge, la forma fuggitiva di una dea, il volo delle
frecce; e pure a far prendere luce a tutte queste cose differenti ‘per mutuo riflesso, come una traccia di fuoco su pietre preziose’, e a farle divenire ‘un mondo
intero’, la segnatura o il simbolo di uno stato d’animo dell’immaginazione
divina tanto imponderabile quanto ‘l’orrore della foresta o il tuono silenzioso
nelle foglie’».
Yeats non lo sapeva, ma di lì a poco un suo più giovane compatriota, James
Joyce, doveva intraprendere una via del tutto nuova per parlare di Ulisse. La
prima idea di scrivere un racconto intitolato appunto Ulisse, da inserire in
Gente di Dublino, venne a Joyce a Roma, da dove ne scrisse al fratello, nel
1906. Ci vollero più di quindici anni prima che l’opera, nel frattempo divenuta un immenso “romanzo”,
vedesse la luce. L’Ulisse
di Joyce, l’ebreo irlandese
Leopold Bloom, è essenzialmente omerico (come
dichiarano gli schemi che
Joyce fece circolare sulla
struttura del romanzo) e
centripeto, poiché la sua è
la storia della giornata che
egli passa, il 16 giugno
1904, errando per le strade
di Dublino, ma rientrando
a casa per ricongiungersi
all’infedele sua Penelope,
Molly, nel bel mezzo della
notte. Tuttavia, si riscontra
in esso anche l’influenza
«Ulisse nell’Ade»,
affresco, 40-50 a.C.,
Roma, Musei Vaticani.
115
dell’Ulisse centrifugo di ascendenza dantesca, visto che nel penultimo episodio del libro si accenna al desiderio di un Bloom “senescente” di partire per
un ultimo viaggio attraverso l’Irlanda, poi verso i luoghi archetipici dell’Occidente e della morte, infine l’universo.
Joyce, però, non è il primo cantore di Ulisse nella letteratura di lingua inglese. Prima di lui, di Eliot e di Pound – cioè degli scrittori del Modernismo
– Joseph Conrad, l’autore di Cuore di tenebra, La linea d’ombra e Nostromo, si
è addirittura identificato personalmente nella figura di Ulisse: insieme quello
omerico e quello dantesco. Ne Lo specchio del mare Conrad narra in forma autobiografica la storia della sua prima esperienza di semplice marinaio a bordo
del Tremolino, una nave francese. Egli stesso confessa a un certo punto: “La
verità deve esser stata che, completamente privo delle arti dell’astuto Greco,
l’ingannatore degli dei, l’amante di donne strane, l’evocatore di ombre assetate di sangue, io desideravo però l’inizio della mia personale oscura Odissea
che, come si confaceva a un moderno, avrebbe dovuto dispiegare le sue meraviglie e i suoi terrori aldilà delle Colonne d’Ercole”.
Sovrapposti l’uno sull’altro, l’Odisseo di Omero e l’Ulisse di Dante formano una sola ombra che s’allunga a poco a poco fino a coprire la ‘figura’
di Dominic Cervoni, padrone e capitano del Tremolino, ombra fioca, Tiresia
omerico e Virgilio dantesco di Joseph Conrad. Dal “mezzo del cammin” (la
citazione è dell’autore) lo scrittore si volge indietro a cercare le proprie radici.
L’oscurità si stende sul passato, popolata da una folla di figure grige e amiche
che “con tristezza fissano noi che ci affrettiamo verso le rive Cimmerie”. La
selva oscura è ora sospesa fra due ombre, due speculari nebbie di morte. Tra
il “grigiore” dell’una e il “nostro cielo ormai crepuscolare” sorge una figura
che scintilla in un fulgore fioco, tremolante come il nome stesso della sua
nave – Tremolino – suggerisce. Un nuovo Odisseo, l’astuto e deciso Dominic
Cervoni, che assai bene avrebbe potuto rivaleggiare con il figlio di Laerte e
Anticlea, che nessuna Circe e nessun Polifemo avrebbero potuto fermare,
emerge dalla nekyia conradiana. Più tardi, come apprendiamo da Conrad
stesso, egli diverrà Nostromo in uno dei più celebri romanzi dello scrittore,
e comparirà col suo nome ne La Freccia d’Oro. Il Tremolino viene affondato
dal suo stesso equipaggio, e Dominic Cervoni scompare alla vista, figura
stranamente desolata, portando un remo sulla spalla su per un burrone nudo e
disseminato di pietre sotto un cielo tetro e plumbeo. L’ultima reincarnazione
dell’eroe greco ci riporta all’Odisseo-nel-futuro della profezia di Tiresia nel
Libro XI dell’Odissea.
La nekyia, l’evocazione dei morti, attira i grandi modernisti. Tiresia compare nella Terra desolata di Eliot, anzi quanto è lì descritto si dice a un certo punto filtrato tutto attraverso gli occhi dell’indovino tebano. Ma anche
il “miglior fabbro” cui Eliot dedica quel poemetto, Ezra Pound, apre la sua
opera maggiore, i Cantos, con il memorabile inizio di Odissea XI, per il quale
impiega la traduzione latina cinquecentesca di Andreas Divus e lo stile della
propria versione del Navigante antico-inglese:
116
«Ulisse accompagnato
da Hermes incontra Elpenore
alle soglie dell’Ade»,
Pelike attica a figure rosse
del Pittore di Lykaon, Boston
Museum of fine Arts.
And then went down to the ship,
Set keel to breakers, forth on the godly sea, and
We set up mast and sail on that swart ship...
E poi andammo alla nave,
chiglia sui flutti, per il mare divino, e
albero e vela rizzammo sulla nave scura,
portammo pecore a bordo, e i nostri corpi anche
pesanti di pianto, e venti di poppa
ci spinsero innanzi gonfiando le vele:
di Circe quest’ arte, la dea dai lisci capelli.
Sedemmo nel mezzo, barra bloccata dal vento,
così a vele spiegate andammo sul mare sino alla fine del giorno.
Sole al suo sonno, ombre su tutto 1’oceano,
giungemmo poi ai confini dell’ acqua più fonda,
alle terre Cimmerie, e città popolate
coperte di nebbia fittamente intessuta, mai penetrata
da scintillio dei raggi del sole
né tesa di stelle, né volgendosi indietro dal cielo
la notte più scura si stende sugli infelici mortali.
Scorrendo indietro 1’oceano, al luogo venimmo
predetto da Circe
La scena dell’Ade omerica non ossessiona soltanto gli scrittori di lingua
inglese – Conrad, Joyce (nell’Ulisse c’è un intero episodio intitolato Hades)
e Pound. Domina anche l’intero episodio della Matinée dei Guermantes nel
Tempo ritrovato di Proust. Qui Marcel incontra di nuovo uno dei suoi vec-
117
«Ulisse e Tiresia nell’Ade»,
rilievo marmoreo,
I sec. d.C., Parigi, Louvre.
118
chi compagni. Egli riconosce la voce, ma questa ora sembra provenire «da
un fonografo perfezionato». È la voce del suo amico, ma esce dalla bocca
di un uomo corpulento, dai capelli grigi, che Marcel non conosce «Sapevo»
scrive Proust, «che era lui» : aveva conservato molti tratti della persona del
passato. «Eppure», aggiunge, «non potevo capire che fosse lui». Marcel tenta di ricordare: si, il suo amico aveva gli occhi azzurri, sempre sorridenti e
perpetuamente mobili, in cerca di qualcosa di disinteressato, forse la Verità,
«perseguita in perpetua incertezza, con una sorta di monelleria». Ma ora, ora
che è un politico influente, ha un’espressione di astuzia e di dissimulazione.
Questo deve essere decisamente qualcun altro. Poi, improvvisamente, Marcel
sente la risata del suo amico, «la sua risata irrefrenabile d’una volta, quella che
s’accordava con la perpetua gaia mobilità dello sguardo». Bene, commenta,
frequentatori di concerti esperti ritengono che orchestrata da X, la musica di
Z diventa completamente diversa. «Ma un ridere folle e soffocato da fanciullo
sotto un occhio aguzzo come una matita azzurra ben appuntita sebbene un
poco obliqua è qualcosa di più d’una diversa orchestrazione».
Quando l’amico smette di ridere, Marcel vorrebbe ancora riconoscerlo, ma
è costretto ad abbandonare il tentativo, come nell’Odissea Ulisse che si getta
sulla madre morta, «come uno spiritista che cerca invano d’ottenere da un’apparizione una risposta che la identifichi, come il visitatore d’una mostra di
elettricità che non riesce a credere che la voce restituita senza alterazioni da un
fonografo sia davvero spontaneamente emessa da una persona». Sembra che il
Novecento letterario inizi con la discesa nel mondo dei morti, e che anzi tale
catabasi sia il suo segno distintivo: come era nell’Odissea la visita – centrale
nel poema – all’Ade, e come era nella Commedia dantesca il viaggio di Ulisse
verso la morte per acqua e l’inferno.
Non dissimile appare nella poesia italiana il contributo di Giovanni Pascoli al tema di Ulisse. Nei Poemi Conviviali, egli pubblica una composizione
in ventiquattro parti (tante quanti i canti dell’Odissea) che narra il fatidico
Ultimo viaggio. Anche qui al termine del lungo errare di Odisseo c’è, come
nell’Inferno, la morte. Da Itaca, vecchio ma stanco del
focolare domestico come l’Ulisse di Tennyson, l’eroe
inquieto parte con l’aedo Femio, il pitocco Iro e i suoi
antichi compagni per un viaggio che ripercorre le tappe
del suo itinerario favoloso. Nell’isola Eea non c’è però
alcuna Circe, perché la tempesta del desiderio si placa
nella vecchiaia; e qui, presso il palazzo della maga, muore Femio lasciando la sua cetra appesa ai rami di un
albero. Dall’isola delle capre i Ciclopi sono spariti, sostituiti da una stirpe di pastori bonari e ospitali che conoscono Polifemo soltanto tramite le leggende raccontate
dai padri: Odisseo non può ritrovare la gloria pronunciando finalmente il suo vero nome dinanzi al gigante, e
Iro rimane a fare il garzone presso le case tranquille dei
nuovi coloni.
L’eroe vuole però ancora gustare il solo “bello”
che rimanga all’uomo – “saper le cose” – e fa
vela verso le Sirene in cerca della verità. La nave
passa davanti ad Ade (invano i morti sazi di vita
invitano i vecchi al riposo eterno), alle isole del
Loto, del Sole e di Eolo, fra le Rupi Erranti, in
mezzo a Scilla e Cariddi. Poi, nella bonaccia,
ecco infine il prato fiorito delle Sirene circondate da un mucchio di ossa. Non legato all’albero
della nave, libero finalmente dai divieti di Circe,
Odisseo vorrebbe fermarsi, le chiama, chiede loro
di dirgli chi egli sia stato e sia ora. Immote, esse
guardano fisse in avanti senza cantare, senza pronunciar verbo. Egli le implora ancora una volta:
Ma voi due, parlate!
Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima ch’io muoia, a ciò ch’io sia vissuto!
Per tutta risposta, le fronti delle Legatrici si ergono alte sul mare, mentre la nave si spezza fra i due
scogli. Il cadavere nudo di Odisseo viene portato
dalla corrente sull’isola deserta «che frondeggia
nell’ombelico dell’eterno mare», Ogigia. Calipso,
la Nasconditrice, ulula alle onde sterili senza essere
udita da alcuno il proprio lamento su colui che
non aveva accettato da lei l’immortalità:
Non esser mai! non esser mai più nulla,
ma meglio morte che non esser più!
Per la prima volta dopo Platone vediamo Odisseo morto. Nella Repubblica
tuttavia egli era sul punto di reincarnarsi: qui, è soltanto un corpo. Vita, amore, avventura, gloria, conoscenza - tutto è finito. Inesorabilmente, la piccola
vigilia della vecchiaia conduce, come in Tennyson, alla morte. Al di là di essa
il silenzio viene rotto dal solo grido rimasto, quello che disperatamente rifiuta
l’essere e brama il non essere.
Contro questo nulla, niente può la poesia: come l’arpa del Salmista, la cetra
dell’aedo è mestamente appesa ai rami, il suono remoto e vano confuso col tintinnare delle sue corde al vento. Anticipando di tredici anni quelle di Kafka, le
Sirene rimangono ostinatamente mute: morte per sempre le voci ammalianti del
bello, del sapere, della morte stessa. Alla frattura della coscienza fra Ottocento
e Novecento, Ulisse si trova tra “sugheri alghe asterie”, “le inutili macerie” –
come fra poco le chiamerà Montale – depositate dall’abisso sulle sponde deserte
e silenti nell’ombelico del mare, al centro del mondo. Il mito non è, come per
Pessoa, il nulla che è il tutto. L’Odisseo di Pascoli proclama al contrario, “ciò
«Il gigante Tizio, Orione,
Sisifo e le Danaidi nell’Ade»,
affresco, 40-50 a.C., Roma,
Musei Vaticani.
119
che non è tutto, è nulla”, e anela ad una verità che dia senso alla vita. Proprio in
questo desiderio di totalità assoluta si annida il germe dell’annientamento senza
remissione. L’uomo del nostro ieri vuole possedere l’universo intero: al termine
dell’ultimo viaggio, stringe nelle mani un pugno di sabbia.
L’Odisseo di Pascoli è una risposta a quello di D’Annunzio. In Maia – la
prima delle Laudi, pubblicata nel 1903 – 1’eroe greco dichiara infatti di volere
il tutto:
Sol una è la palma ch’io voglio
da te, o vergine Nike:
l’Universo! Non altra.
Sol quella ricever potrebbe
da te Odisseo
che a sé prega la morte nell’atto.
«Ulisse e il vecchio padre
Laerte», rilievo marmoreo,
I sec. d.C.,
Roma, Museo Barracco.
120
Per D’Annunzio Odisseo costituisce il modello supremo dell’uomo che egli
stesso vuol essere. Nella invocazione alle Pleiadi e ai Fati che apre le Laudi
il poeta annuncia di
voler fare un rogo del
timone e della polena
che provengono dalla
nave spezzata nell’ultima tempesta. A coloro che chiederanno
quale dio si celi nel
fuoco egli risponderà:
«Non un iddio ma il
figlio di Laerte» che,
visto nella fiamma
dantesca, vale di più
del “Galileo” Cristo.
Il verbo di questi è
infatti “fioco”, mentre il primo “eccita i
forti”.
Ulisse – l’Ulisse di
Dante – naviga verso
terre sconosciute, spirito insonne i gorghi
del cui cuore sono
morsi da quella “virtute” che è sua sola
ancora. Dal «latin
sangue» sorse l’unica
parola “degna del Re
pelasgo”: Dante ha compiuto Omero dando al suo eroe “più grand’ala”. Al
di là delle Scritture cristiane, Ulisse si presenta sin dall’inizio come il profeta
moderno, la Musa ispiratrice, la Sirena stessa della poesia:
Re del Mediterraneo, parlante
nel maggior corno della fiamma antica,
parlami in questo rogo fiammeggiante!
[…]
o tu che col tuo cor la tua carena
contra i perigli spignere fosti uso
dietro l’anima tua fatta Sirena,
infin che il Mar fu sopra te richiuso!
L’ultimo viaggio dell’eroe dantesco sarà allora paradigma poetico ed esistenziale. Riletti alla luce di Nietzsche, il canto XXVI dell’Inferno e l’Odissea
disegnano il cammino dell’uomo nuovo verso l’“Ellade santa” “come esule
torna / alla cuna dei padri / su la nave leggera”.
È infatti alla ricerca della Vita oltre la vita che l’io del poema mira, avendo già desiderato, amato, ambito, tentato, sognato tutto. L’“esperienza”
dell’Ulisse dantesco e di quello tennysoniano è giunta all’estremo. Ma questa è anche la nuova arkhè, la riva dalla quale ha inizio l’ultimo viaggio.
Simbolo del nuovo Ulisse non è più il remo, ma lo stesso antico Odisseo
splendente nel fuoco dantesco: è lui infatti il primo, l’Eroe che il poeta
incontra subito nel suo veleggiare verso la Grecia, verso il “simulacro / che
fa visibili all’uomo / le leggi della Forza / perfetta”. Sotto le bianche rupi di
Leucade Ulisse si erge nella nave incavata reggendo nel pugno la scotta. Con
la nave e con l’arco egli prosegue ancora “il suo necessario travaglio / contra
l’implacabile Mare”. Invano il poeta e i suoi compagni apostrofano il “Re
di tempeste” chiedendogli di prenderli con sé. Quando il narratore implora
di esser messo alla prova con l’arco, Odisseo si volge «men disdegnoso» e gli
ferisce la fronte con la folgore dei suoi occhi; poi, riprende il navigare senza
fine. Allora il poeta è solo per sempre e non crede più ad alcuna virtù se non
a quella inesorabile d’un cuore possente, la sua. I suoi pensieri sono divenuti
“scintille dell’Atto”.
Ecco però che l’ironia viene a tagliare l’erba sotto ai piedi del titanismo. Appena quattro anni dopo Guido Gozzano è già impegnato a comporre L’ ipotesi
che, completata 1’anno seguente, doveva costituire nelle intenzioni del poeta
il preludio all’“idillio” La signorina Felicita. Con L’ ipotesi un’ombra lieve torna
ad avvolgere, Ulisse: quella della «Signora vestita di nulla», la morte. E’ infatti
con essa che inizia e termina il poemetto:
Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via ...
La vicenda di Ulisse diviene allora tutt’altra cosa. Recitata fra un riso confuso, “ad uso della consorte ignorante”, la “favola” antica – “con pace d’O-
121
mero e di Dante”, irride al “coro febeo /
con tutto l’arredo pagano”, al “Re-di-Tempeste Odisseo” di D’Annunzio. Il Re di
Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d’infedeltà maritale.
Piero Boitani,
nell’Antica Chiesa (2006).
Vissuto per anni a bordo d’un yacht,
egli toccò tra liete brigate le spiagge più
frequentate dalle famose cocottes. Vecchio,
tornò a casa e fu perdonato dalla moglie
fedele; anziché trascorrere in pace, «come
si vive tra noi», gli ultimi giorni sereni,
egli decise di affrontare ancora una volta
il mare e partì alla ricerca della fortuna in
America (come gli avventurieri del passato, come gli emigranti italiani dell’epoca).
Con un sol colpo vengono affondati nello scherno il sogno americano, la tipologia Ulisse-Colombo e la brama di sapere che hanno dominato la cultura
occidentale per secoli.
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né la pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro 1’ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America ...
- Non si può vivere
senza danari, molti danari ...
Considerate, miei cari
compagni, la vostra semenza!
L’andatura fiabesca del viaggio sbriciola e allo stesso tempo mantiene l’antica Sehnsucht del racconto. Il brivido che suscitava la navigazione nell’oscurità verso l’altro mondo torna dal versante opposto – non dal mistero e dalla
tensione che lo spazio ignoto costruiva contro il tempo misurato sulle stelle
e la luna, ma dalla vaghezza che prende in giro ogni coordinata. La «foce
stretta» di Ercole, l’occidente, il mondo senza gente di retro al sol sono
scomparsi. Rimangono tuttavia il folle volo, le stelle del polo australe, l’alto
mare, l’alta montagna: incorniciati in rima dalla ripetizione incantatoria del
«viaggia» favolistico, essi conducono verso l’ombra tragica con l’inesorabile
forza comica che nasce dalla nostra conoscenza del testo dantesco.
122
All’ironia di Gozzano manca solo quella para-pirandelliana di Savinio per
fare del Capitano Ulisse una vera e propria maschera. Ma sull’Ulisse italiano
ed europeo del XX secolo incombevano ben altre tragedie. Primo Levi, e
come lui Benjamin Fondane, portano Ulisse nei campi di concentramento,
ad Auschwitz. Il “Canto di Ulisse” che Levi inserì in Se questo è un uomo è
uno dei documenti letterari più tragici del Novecento, nel quale una figura
poetica si trasforma in interrogativo non solo esistenziale, ma metafisico. Se
il destino di Ulisse naufragato nell’Oceano è specchio di quello dei prigionieri dei campi (i “sommersi”), allora l’“altrui” che l’ha voluto è forse il Dio
che ha consentito o persino voluto lo sterminio?
Nel Novecento politico, Ulisse assume fattezze contraddittorie e, grazie
al suo moltiplicarsi in tutte le culture del pianeta, infinite valenze. Restano,
tuttavia, i tratti essenziali. Rimane 2001: Odissea nello spazio, nella quale Stanley Kubrick lancia il suo astronauta David (l’ebreo, come Leopold
Bloom) Bowman (l’uomo dell’arco, Ulisse) in un ultimo folle volo facendolo poi tornare a casa e vedere l’uomo nuovo, forse il Superuomo futuro.
Quando il vecchio, “vero” astronauta americano John Glenn risale ancora
una volta nello spazio, il poeta laureato degli Stati Uniti, Pinsky, appare in
televisione a leggere il canto XXVI dell’Inferno. E mentre le Torri Gemelle
di New York vengono distrutte a poche centinaia di metri da una statua di
Ulisse che pareva minacciarle e il mullah Omar dichiara che l’America è
come un Polifemo accecato, un poeta dei Caraibi ritorna all’incanto primigenio, all’inizio di tutta la storia, a quell’Odissea che da quasi tremila anni
affascina la nostra immaginazione. Derek Walcott ne parla così, in Mappa
del Nuovo Mondo:
Alla fine di questa frase, comincerà la pioggia.
All’orlo della pioggia, una vela.
Lenta la vela perderà di vista le isole;
in una foschia se ne andrà la fede nei porti
di un’intera razza.
La guerra dei dieci anni è finita.
La chioma di Elena, una nuvola grigia.
Troia, un bianco accumulo di cenere
vicino al gocciolar del mare.
Il gocciolio si tende come le corde di un’arpa.
Un uomo con occhi annuvolati raccoglie la pioggia
e pizzica il primo verso dell’Odissea.
123
Premio Grotta di Tiberio per la Musica
«L’accecamento di Polifemo»,
idria ceretana del pittore
dell’Aquila, 520 a.C.;
Roma, Museo di Villa
Giulia.
premi per l’interpretazione musicale
– 2005, Bruno Canino, pianista
motivazione:
Nato a Napoli Bruno Canino ha studiato e poi a lungo insegnato nel Conservatorio di Milano. Compositore, clavicembalista ma soprattutto prestigioso pianista da camera ha suonato nelle principali sale da concerto di tutto il mondo
come solista o al fianco di artisti famosi quali Accardo, Berberian, Gazzelloni,
Harrell, Perlmann, Ughi. È componente da antica data di un celebre duo pianistico con Antonio Ballista e del Trio di Milano. Si è rivelato sensibilissimo
interprete della musica contemporanea cui dedica un particolare impegno; ha
eseguito spesso in prima assoluta opere di grandi compositori viventi, tiene presso
il Conservatorio di Berna corsi di perfezionamento in musica per pianoforte e da
camera del Novecento ed è direttore della Sezione Musica della Biennale di Venezia. Altrettanto preziose sono le sue interpretazioni della musica del Settecento
(Bach, Mozart e Haydn) e dell’Ottocento. Numerose le registrazioni discografiche tra le quali recenti quelle delle Variazioni Goldberg di Bach e l’ integrale
pianistica di Casella.
La Commissione scientifica ha confermato all’unanimità l’ indicazione venutale dal Comitato di esperti (Roman Vlad, Riccardo Cerocchi e Agostino Ziino)
nella certezza che il nome del maestro Canino inauguri nel modo più degno il
premio per l’ interpretazione musicale recentemente iscritto nel novero dei premi
Grotta di Tiberio.
(estensore Giacomo di Raimo)
Il maestro Bruno Canino
nell’Antica Chiesa.
Concerto eseguito
(Antica Chiesa, 9 settembre 2005):
W.A. Mozart,
F. Schubert,
C. Debussy,
Variazioni sopra un tema di Gluck, K 455
Drei Klavierstuck, D 946
Images, I fascicolo (Reflets dans l’eau; Hommage
à Rameau ; Mouvement)
125
– 2006, Giuseppe La Licata,
pianista
motivazione:
Il maestro Giuseppe La Licata,
nel Museo archeologico
(2004).
Bruno Caruso,
«Arthur Rubinstein»,
acquarello, 1959.
Dopo l’attribuzione del Premio
a Bruno Canino, nel 2005, proseguendosi nel settore della musica
per pianoforte l’apposita Sottocommissione (con l’apporto esterno di
Roman Vlad e Riccardo Cerocchi)
e la Commissione scientifica si sono
unanimamente fermate sul nome di
Giuseppe La Licata.
Di origine palermitana, formatosi soprattutto alla scuola di Magda Tagliaferro, si è affermato vincendo agli inizi degli anni sessanta il premio
al Concorso Nazionale di Treviso e il secondo prenio e il premio speciale per la
musica francese al Concorso Internazionale di Parigi.
Ha insegnato nei Conservatori di Palermo, Napoli, e Roma. Con un vasto
repertorio che va da Mozart ai contemporanei, ma con una predilezione particolare per la musica del Novecento di cui è riconosciuto eccellente interprete, ha
svolto un’ intensa attività concertistica in Europa e in altri continenti, suonando
da solo o con prestigiose orchestre anche straniere (tra le quali l’Orchestre de la
Suisse Romande, la Filarmonica di Dresda, le orchestre sinfoniche di Pittsburg,
Washington e Kiev).
Il chiaro e sensibile approccio interpretativo, l’agguerrita
maestria tecnica e la compattezza stilistica ed espressiva ne
fanno uno dei migliori pianisti di oggi motivando ampiamente l’assegnazione del Premio Grotta di Tiberio per l’ interpretazione musicale.
(estensore Agostino Ziino)
Concerto eseguito
(Antica Chiesa, 8 settembre 2006):
W.A. Mozart,
B. Bartok,
M. Ravel,
126
Sonata in do maggiore K 330
Quattordici bagattelle op. 6
Le tombeau de Couperin
– 2007, Massimo Quarta,
violinista
motivazione:
Vincitore nel 1991 del prestigioso
Concorso Internazionale di Violino
“Niccolò Paganini” di Genova (in
precedenza attribuito, tra gli italiani, solo a Salvatore Accardo nel
1958), Massimo Quarta aveva già
ottenuto il 1° premio al Concorso “Città di Vittorio Veneto” nel
1986.
Ha suonato nelle massime istituzioni concertistiche e musicali del
mondo, accompagnato dai più prestigiosi direttori d’orchestra in campo internazionale. Recentemente si è dedicato anche alla direzione d’orchestra. Nella doppia
veste di solista e direttore ha riportato grandi successi in Italia e all’Estero, debuttando fra l’altro nel febbraio 2007 al Musikverein di Vienna.
È docente di violino nella Musikhochschule di Lugano ed è attualmente direttore musicale dell’Orchestra “Tito Schipa” di Lecce. Un aspetto molto importante
e innovativo della sua attività di violinista, direttore e interprete riguarda il suo
impegno, anche filologico, nei confronti della musica di Paganini, di cui ha inciso
i sei Concerti per violino e orchestra in versione integrale basata
sugli autografi, ‘rilettura’ che è stata qualificata dal Giornale
della Musica come una “vera e propria pietra miliare per tutti gli appassionati di violino”. Esemplare in tal senso è la registrazione dei 24 Capricci per violino solo. Per queste incisioni
paganiniane, definite dall’American Record Guide come “ la
personificazione dell’eleganza”, gli è stato assegnato il prestigioso
premio CHOC di Le Monde de la Musique.
Antica Chiesa:
altare di San Leone.
(estensore Agostino Ziino)
Concerto eseguito
(Antica Chiesa, 8 settembre 2007):
J.S. Bach,
E. Ysaye,
N. Paganini,
Partita n. 2 in re minore BWV 1004
(allemanda; corrente; sarabanda; giga;
ciaccona)
Sonata n. 3 “ Ballade ”
“ Nel cor più non mi sento ” tema e con variazioni su
“ La Bella Molinara ” di Paisiello
127
Massimo Quarta
riceve il premio
per l’interpretazione
musicale
premio per la critica musicale
– 2002, Landa Ketoff
motivazione:
Pur avendo studiato pianoforte sin dall’ infanzia, Landa Ketoff, in possesso
di due lauree in materie scientifiche, si è dedicata tardivamente ad una attività
professionale in campo musicale, iscrivendosi, nel 1970, all’appena creato DAMS,
Facoltà di lettere dell’Università di Bologna, ove si è laureata con una tesi il cui
argomento ne caratterizza già l’ impegno rivolto ad un’ampia e corretta diffusione
della conoscenza della musica, in un mondo in cui gli spazi lasciati alla stessa
appaiono sempre più ristretti.
Landa Ketoff è stata docente di psicologia dell’arte nella Università di Roma
e di musica applicata allo spettacolo nell’Istituto Rossellini per la cinematografia
e la TV; collabora per la critica musicale con “ la Repubblica”, sin dal 1976 e,
variamente, con altri quotidiani e con riviste e pubblicazioni culturali periodiche.
L’attribuzione del Premio Grotta di Tiberio per la critica musicale, nel settore
della divulgazione culturale, vuole riconoscere la sua appassionata attività di oltre
trenta anni.
(estensore Giacomo di Raimo)
128
premio per la saggistica musicale
– 2004, Franco Piperno
motivazione:
Professore ordinario di Storia della musica nella Università di Firenze, allievo di
Nino Perrotta di cui ha ereditato il rigoroso metodo storiografico, Franco Piperno
è autore di rilievo nella saggistica musicale del nostro Paese. Recentemente ha
dedicato alla musica italiana del Cinquecento il volume: «L’ immagine del Duca.
Musica e spettacolo alla corte di Guidubaldo II, duca di Urbino».
La Commissione scientifica ha apprezzato assai l’orientamento della ricerca
verso un mondo musicale ancora non abbastanza conosciuto, importante per la
ricostruzione della cultura umanistica del Rinascimento; e insieme l’ impegno
filologico e l’originalità di un ampio e approfondito studio condotto in modo
ineccepibile su fonti nuove sinora inesplorate.
(estensore Alfonso Maccanico)
Roman Vlad consegna
il premio per la saggistica
musicale a Franco Piperno.
129
Esecuzioni musicali
Complessi per musica da camera
I SOLISTI DI ROMA
Massimo Coen e Mario Buffa, violini
Margot Burton, viola; Maurizio Gambini, violoncello
Massimo Coen, violinista e compositore, formatosi presso il Conservatorio di
Santa Cecilia a Roma, il Mozarteum di Salisburgo e il Conservatoire Royal di
Bruxelles, ha fondato il Quartetto nel 1961 conducendolo in un’ampia attività
concertistica nei paesi europei e del continente americano, in registrazioni per le
maggiori televisioni europee e in incisioni per la RCA italiana, la Mainstream
Records di New York ed altre case discografiche. Il repertorio spazia dal classico al
moderno includendo ricerche sulle radici musicali delle più diverse etnie e sull’ incontro tra musica ed arti visive e poesia.
concerti per le cerimonie di consegna
di cittadinanze emerite e/o onorarie
nella Piazzetta di Sperlonga
mercoledì 9 settembre 1998
musiche di C.M. von Weber e di G. Puccini;
J. Brahms, Quintetto op. 115 per clarinetto ed archi
clarinettista Roberto Petracchi
giovedì 9 settembre 1999
“INTORNO A GOLDONI”
musiche di G. Tartini; B. Galuppi: F. J. Haydn:
T. Albinoni; A. Salieri; W.A. Mozart
mercoledì 6 settembre 2000
“OLTRE I CONFINI DELLA MUSICA CLASSICA”
musiche di N. Rota; G.Gershwin; S. Joplin
e tre pezzi Klezmer (musica ebraico orientale)
sassofonista Gabriele Coen
giovedì 6 settembre 2001
musiche di A. Facchini; L. Boccherini; H. Villa Lobos;
I.Albeniz; M. Castelnuovo Tedesco
chitarra Arturo Tallini
130
giovedì 5 settembre 2002
W.A. Mozart, Quintetto K. 407 per corno ed archi;
F.J. Haydn, Tre brani da “Le sette ultime parole di Gesù sulla Croce”
A. Glazunov; “Idyll” per corno e quartetto d’archi
corno Luciano Giuliani
concerti per le cerimonie di consegna
dei premi Grotta di Tiberio
Museo archeologico nazionale di Sperlonga
sabato 12 settembre 1998
W.A. Mozart, Quartetto per archi n. 22, K 589; Quintetto per
clarinetto ed archi K. 581
clarinettista Roberto Petrocchi
area archeologica della Grotta di Tiberio
sabato 11 settembre 1999
“MUSICA E DANZA”
F.J. Haydn, Kaiser-quartett op. 76, n. 3
G. Puccini, “Elegia” per quartetto d’archi
M. Coen, Quartetto per archi n. 2, “I quattro temperamenti”
con la partecipazione di Angelo Esposito e di Susanna Recchia
(coreografia e danza); e di Anna Marinelli e Francesca Moro (danza)
QUARTETTO HARMOS
Giacomo Invernizzi, John Maida violini
Sylvia Mayinger viola; Bernardino Penazzi violoncello
È costituito da componenti dell’Orchestra della Accademia Nazionale di Santa
Cecilia con un prevalente interesse verso il repertorio del Novecento storico
concerti per le inaugurazioni di mostre d’arte
Museo archeologico nazionale di Sperlonga
sabato 12 luglio 2003
W.A. Mozart, Quartetto per archi n. 6, K 159
F. Schubert, Quartett-Satz
A. Webern, Lansamer Satz
D. Šostakovič, Quartetto d’archi n. 6, op. 101
131
sabato 10 luglio 2006
A. Webern, Sechs Bagatellen, op. 9
D. Šostakovič, Quartetto d’archi n. 8, op. 110
L. van Beethoven, Quartetto n. 10, op. 74, “Le Arpe”
QUARTETTO BERNINI
Marco Serino e Yoko Ichihara, violini
Gianluca Saggini, viola; Valeriano Taddeo, violoncello
Fondato a Roma, è stato nominato nel 1998 Quartetto in Residenza alla Accademia Filarmonica Romana. Svolge un’ampia attività concertistica in Italia e
all’estero e tiene corsi didattici presso l’Accademia Filarmonica e il Conservatorio
“Santa Cecilia” di Roma. Ha ricevuto importanti riconoscimenti tra i quali il
“Premio Michelangelo 99” per particolari meriti artistici. Tra le incisioni discografiche di rilievo quella de “L’arte della fuga” di J.S. Bach. Marco Serino e
Valeriano Taddeo suonano antichi strumenti dati loro in affidamento: un violino
Nicolò Amati (Cremona 1661) ed un violoncello David Techler (Roma 1700).
concerti per le cerimonie di consegna
di cittadinanze emerite e/o onorarie
nella Piazzetta di Sperlonga
giovedì 4 settembre 2003
W.A. Mozart, Quartetto per archi n. 14, K 387
L. van Beethoven, Quartetto per archi n. 15, op. 132
Concerto del Quartetto
Bernini nell’Antica Chiesa,
(Sperlonga, 2007).
132
venerdì 6 luglio 2007
Antica Chiesa
Cerimonia celebrativa del decennale
delle manifestazioni culturali
Quartetto Bernini
con la partecipazione
di Mons. Pablo Colino*
voce recitante
Franz Joseph Haydn (1732-1809)
Le sette ultime parole
del nostro Redentore sulla Croce
1. Introduzione (Maestoso e adagio)
2. Sonata I (Largo): «Padre perdona loro
perché non sanno quel che fanno»
3. Sonata II (Grave e cantabile):
«Oggi sarai con me in paradiso»
4. Sonata III (Grave): «Donna ecco
il figlio tuo»
5. Sonata IV (Largo): «Dio mio, Dio mio
perché mi hai abbandonato?»
6. Sonata V (Adagio). «Ho sete!»
7. Sonata VI (Lento): «Tutto è compiuto!»
8. Sonata VII (Largo): «Padre nelle tue
mani consegno il mio spirito»
9. Il terremoto (Presto e con tutta la forza)
venerdì 6 luglio, ore 18.30
QUARTETTO BERNINI
Antica Chiesa di Sperlonga
Marco Serino e Yoko Ichihara vl.
Gianluca Saggini vla.; Valerio Taddeo vlc.
J. HAYDN
Le sette ultime parole del nostro
Redentore sulla Croce
Roma, 26 maggio 2007
con Monsignor Pablo Colino
Direttore del Coro
dell’Accademia Filarmonica Romana
Locandina del concerto
Caro di Raimo,
il pio esercizio della “Ultime Sette parole del Redentore in Croce” ha avuto e ha
tutt’oggi in Spagna un’ importanza eccezionale. Non c’ è da meravigliarsi, quindi,
che il genio di Haydn abbia dedicato a una Cattedrale spagnola, quella di Cadice
nel sud della Andalusia, questa singolare composizione costituita da Sette sonatemeditazioni con una di preludio e un’altra di postludio.
Per una perfetta fruizione musicale è necessario che venga letta prima dell’esecuzione di ogni sonata almeno la corrispondente parola del Redentore; meglio
ancora se si aggiungesse una piccola considerazione spirituale, altrimenti si ri* Maestro di Cappella emerito della Basilica di San Pietro in Vaticano; Direttore del Coro
della Accademia Filarmonica Romana.
133
schierebbe di ascoltare semplicemente un gradevole sottofondo musicale. Il piissimo Haydn aveva concepito queste sonate come improvvisazioni o commenti alle
misteriose ultime sette parole del Salvatore.
Il fatto che di quest’opera esistano diverse versioni sia per quartetto d’archi,
sia per piccola o per grande orchestra, sia per soli coro e orchestra, e addirittura
per tastiera (organo o pianoforte) indica che se eseguita fuori da una autentica
performance, cioè fuori dal pio esercizio o paraliturgia, non può raggiungere un
risultato soddisfacente.
Un saluto affettuoso,
Pablo Colino
Piero Guccione,
«La Crocifissione
di Capodimonte»,
acquaforte-acquatinta,
particolare.
134
concerti per le inaugurazioni di mostre d’arte
Museo archeologico nazionale di Sperlonga
sabato 16 luglio 2005
W.A. Mozart, Quartetto per archi n. 15, K 421
G. Puccini, “Crisantemi” elegia per quartetto d’archi
O. Respighi, Quartetto per archi in re maggiore
sabato 15 luglio 2006
W.A. Mozart, Fughe da Bach, K 405; Quartetto per archi n. 3, K 156
J. Brahms, Quartetto per archi n. 2, op. 51
ARS TRIO di ROMA
Laura Pietrocini, pianoforte; Marco Fiorentini, violino
Michele Chiapperino, violoncello
Ha ottenuto nel 2000, appena costituitosi, il 1° Premio al “Concorso internazionale Città di Pinerolo” e il 2° Premio al prestigioso Concorso internazionale
“Premio Trio di Trieste”, ricevendo successivamente il Premio “Vittoria” della
Accademia Angelica Costantiniana di arti, lettere e scienze. Ha suonato nelle
maggiori città italiane (e a Roma per RAI TRE nel Palazzo del Quirinale) e si
è esibito nel corso di importanti festivals o incontri europei (Praga, Kiev, Graz,
Lubecca, Lipsia) ed in Sud America, con dirette televisive nazionali. Ha inciso
recentemente l’ integrale delle opere per trio di Sŏstakovič per la rivista Amadeus.
concerti per le inaugurazioni di mostre d’arte
Museo archeologico nazionale di Sperlonga
sabato 7 luglio 2007
L. van Beethoven, Trio in re maggiore, op. 70 n. 1, “degli Spettri”
(allegro vivace e con brio; largo assai espressivo; presto)
D. Šostakovič, Trio in mi minore, op. 67, n. 2
(andante; allegro con brio; largo; allegretto)
Ludwig van Beethoven compose i due Trii op. 70 per violino, violoncello e
pianoforte nel 1808 e li dedicò alla contessa Anna Maria Erdödy nella cui residenza si era trasferito proprio in quell’anno. L’opera fu eseguita per la prima
volta nel dicembre 1808, e con grande successo, nel corso di una serata musicale proprio in casa della contessa Erdödy con lo stesso Beethoven al pianofor-
135
te e presumibilmente con la partecipazione del violinista Ignaz Schuppanzig e
del violoncellista Joseph Linke. Il Trio n. 1, in re maggiore, è in tre movimenti
(come la Sonata op. 57 detta l’Appassionata del 1807): “allegro vivace e con
brio”, “largo assai ed espressivo”, “presto”.
Carl Czerny nel 1842 scrisse che il secondo movimento gli ricordava la prima apparizione dello spettro del padre di Amleto nell’omonimo dramma di
Shakespeare: per questo motivo l’intero Trio sarà denominato in seguito “Lo
spettro” o “Trio degli spiriti”. Questa denominazione successiva, comunque,
non ha nulla a che vedere con il fatto che molti anni dopo il musicologo Gustav Nottebohm, studiando per la prima volta gli schizzi del grande compositore, scoprì che lo stesso Beethoven proprio nel 1808, nell’abbozzare lo schema di un’opera sul Macbeth che aveva progettato di scrivere su un libretto di
Heinrich Joseph von Collin (autore anche della tragedia Coriolan per la quale
Beethoven compose nel 1807 la famosa ouverture), aveva annotato alcune idee
musicali, ma in re minore, molto simili al tema del secondo movimento da utilizzare per il Coro delle Streghe. Tale circostanza, comunque, conferma anche
solo indirettamente, per usare le parole di Giovanni Carli Ballola, quel tono
«demoniaco e suscitatore dei fantasmi dell’inconscio» e quella «Empfindung
notturna, arcana e tellurica» che caratterizzano il “Largo assai ed espressivo”
e che anticipano indubbiamente gli ultimi quartetti beethoveniani. Ma, come
si realizza, sul piano musicale, questa «ansia evocatrice di immagini e di suggestioni visive»? «Mediante l’ossessiva iterazione di due figure strutturali: il
lento “gruppetto” del tema iniziale e il tremolo, calate in un clima armonico
e timbrico che si mantiene costantemente sui toni cupi, e che si traduce, nella
realtà musicale, in una tra le più straordinarie esplorazioni mai compiute da
Beethoven nelle zone ancora sconosciute dell’universo sonoro» (Carli Ballola).
Pur nell’assoluta genialità del primo e del terzo movimento che incastonano il “largo” centrale, non c’è dubbio che quest’ultimo rappresenti il momento più alto e significativo di tutta la composizione. Anche Lewis Lockwood,
uno dei più prestigiosi musicologi dei nostri tempi, ritiene che il secondo
tempo superi di gran lunga tutti i movimenti lenti presenti nelle opere del
cosiddetto “secondo periodo” della creatività beethoveniana in dramatic suspense and atmospheric effects. Tra le cosiddette anomalies presenti in questo
“largo” Lockwood ricorda, tra le altre cose, i passaggi inconsueti dalla tonalità di re minore a quella di do maggiore, il raggiungimento delle regioni
estreme per quanto concerne sia le tessiture che le dinamiche, la presenza di
lunghe figurazioni scalari ‘a cascata’ nella parte del pianoforte che comprendono due o più ottave, l’uso frequente del ‘tremolo’ sia nei due archi che nel
pianoforte, le fermate improvvise e inaspettate ed infine i silenzi in prossimità della conclusione.
Il secondo Trio per violino, violoncello e pianoforte in mi minore, op. 67
fu composto da Dmitrij Šostakovič tra il 13 febbraio e il 15 agosto 1944 e
fu dedicato alla memoria del suo grande amico Ivan Sollertinskij, apprezzato
uomo di cultura nonché anche critico musicale. Anche per questa composizione, come per il Quintetto per archi e pianoforte in sol minore op, 57,
136
del 1940, gli fu assegnato il “Premio Stalin”. Il Trio è suddiviso in quattro
movimenti: “andante”, “allegro con brio”, “largo”, “allegretto”. Si tratta di
una composizione molto intensa, tesa e drammatica, nella quale si avvicendano situazioni di forte lirismo a momenti più scherzosi, quasi grotteschi.
Nel movimento iniziale, “andante”, il discorso musicale è molto articolato
al suo interno sfociando anche in un episodio più vivace, “moderato”, che
a sua volta si tramuta in “poco più mosso”, per tornare in fine al “moderato”. Il movimento si apre con una «suggestiva trasfigurazione timbrica» del
violoncello che, «trasportato in tessitura acutissima e con armoniche che lo
fanno risuonare in modo spettrale», «sembra provenire da lontananze arcane, sideree» (Gianfranco Vinay). Il secondo movimento, “allegro con brio”,
è caratterizzato da un forte impulso ritmico e dalla presenza di ben tre temi
diversi, tutti molto vivaci e gioiosi. All’interno c’è anche una sorta di “trio”
in sol maggiore introdotto da un nuovo tema dal festoso carattere di danza
campestre. Come scrive Gianfranco Vinay, «epicentro espressivo del Trio è il
“largo” in forma di passacaglia, con i suoi nastri melodici che si intrecciano
negli archi sul basso ostinato del pianoforte». L’ultimo movimento, “allegretto”, si distingue anche per l’influsso della musica popolare russa (c’è perfino
un episodio in 5/8) e del modalismo orientale, influsso che non si limita però
al solo aspetto tematico e melodico ma che agisce anche sul timbro, modificando la normale ‘voce’ degli strumenti musicali (Vinay). Il Trio, con un
chiaro richiamo alla ‘forma ciclica’, si chiude con la ripresa di alcuni temi che
hanno caratterizzato il primo e il terzo movimento.
Agostino Ziino
professore ordinario di Storia della musica
nell’Università degli studi «Tor Vergata» di Roma
QUINTETTO ACCORD’ANCE
Cesare Chiacchiaretta, Giancarlo Di Giovanni
Alisia Fragassi, Marco Gemelli, Rocco Ronca
Complesso monostrumentale di fisarmoniche da concerto esegue
un vasto repertorio costituito da musiche originali per fisarmonica
e da trascrizioni proprie ed orchestrazioni di brani composti per altri strumenti
concerti per le cerimonie di consegna
di cittadinanze emerite e/o onorarie
nella Piazzetta di Sperlonga
giovedì 1 settembre 2005
musiche di J.S. Bach, di O. Respighi, di A. Dvorak,
di W.A. Mozart e di A. Piazzolla
137
L’Orchestra di Roma
e del Lazio nell’area
archeologica.
Complessi orchestrali
NOVA AMADEUS
orchestra d’archi e pianoforte
direttore e pianista, Michelangelo Carbonara
concerti per le cerimonie di consegna
dei premi Grotta di Tiberio
Antica Chiesa
sabato 9 settembre 2006
W.A. MOZART
Concerto per pianoforte e orchestra n. 9 “Jeuneomme” , K 271;
Sinfonia n. 29, K 201
ORCHESTRA DI ROMA E DEL LAZIO
Costituita nel 1990 per iniziativa del maestro Ottavio Ziino (ora FONDAZIONE
Ottavio Ziino), è il secondo complesso sinfonico stabile – dopo l’Orchestra della
Accademia di Santa Cecilia – che si esibisce in una stagione di concerti settimanali
a Roma, nell’Auditorium di Renzo Piano, e contemporaneamente in altre località
del Lazio. È stata diretta da illustri maestri (Anton Rech, Karl Melles, Giuseppe
138
Sinopoli, Piero Bellugi ed altri) con la partecipazione di solisti di fama tra i quali
Michele Campanella,Ruggero Ricci, Alexander Lonquich, Giuseppe La Licata,
Bruno Giuranna e Paul Badura Skoda. Attualmente ne è direttore stabile il
maestro Lü Jia.
concerti per le cerimonie di consegna
dei premi Grotta di Tiberio
Area archeologica della Grotta di Tiberio
sabato 9 settembre 2000
W.A. Mozart, Sinfonia n. 40 in sol minore, K 550
(molto allegro; andante; minuetto, allegretto, brio; allegro assai)
F.J. Haydn, Sinfonia n. 104 in re maggiore, “Salomon” o “di Londra”
(allegro; andante; minuetto; allegro; spiritoso)
La sinfonia n. 40 in sol minore K 550 è la seconda di una triade famosa che chiude
la produzione sinfonica di Mozart, coronandone il contributo al perfezionamento
della forma classica della sinfonia. A differenza dell’atmosfera serena che pervade la
prima delle tre sinfonie e dell’illuministica razionalità che scandisce l’ultima, la sinfonia n. 40 è attraversata da una infinita mestizia, quasi il presentimento della prossima
fine. Indicativa è già la stessa tonalità in sol minore che Mozart impiega raramente
ma predilige per esprimere stati d’animo di sgomento e di rassegnazione (vedi le arie
famose di Costanza, di Pamina e di Zaide e il bellissimo Quintetto per archi K 516).
Dopo i suggestivi e anche drammatici temi del primo tempo, l”Andante”, intimo
struggente, introduce sensazioni di profonda inquietudine, di fatica a vivere, non
modificate dal successivo “Minuetto” – privo della leggerezza rococò di altri minuetti
mozartiani – e dal veemente “Allegro assai” finale. Sul piano formale vi corrisponde
una frammentazione tematica che sembra preludere a sviluppi del romanticismo musicale ottocentesco.
La sinfonia n. 104 in re maggiore, posteriore di tre anni a quella di Mozart, manifesta il magistero tecnico e formale e l’agile, inesauribile, stupefacente capacità di
invenzione musicale che fanno di Haydn la sintesi massima del Settecento e l’avvio del
nuovo secolo. Della creatività di Beethoven, che esploderà non più di dieci anni dopo,
Haydn anticipa le ampie partiture, la perfetta fusione in gruppi omogenei o nel “tutti”
orchestrale dei singoli strumenti ed anche l’uso in chiave espressiva del contrasto dialettico degli svolgimenti tematici. La sinfonia n. 104 reca il soprannome di “Salomon”
o anche “di Londra”. Il che non appare del tutto corretto poiché entrambe le indicazioni sono riferibili, a uguale titolo, a tutte le dodici sinfonie (dalla n. 93 alla n. 104
appunto) che Haydn compose a Londra per l’editore Salomon. Più raramente la n. 104
è menzionata come “sinfonia della zampogna”, a causa del finale “Allegro spiritoso”
iniziato da un motivo di violini con un suono tenuto a lungo a mò di zampogna. È
considerata la più bella delle sinfonie del maestro viennese per l’eleganza melodica dei
temi, la ricchezza e l’equilibrio delle loro elaborazioni.
Giacomo di Raimo
139
sabato 8 settembre 2001
A. Jolivet, Concerto per flauto e orchestra
Ravel, Le tombeau de Couperin, suite per orchestra
I. Rodrigo, «Concierto de Aranjuez» per chitarra ed orchestra
direttore Marco Angius;
flauto, Mario Caroli; chitarra Arturo Tallini
sabato 7 settembre 2002
F.J. Haydn, Sinfonia n. 103 “con rullo di tamburi”
L. van Beethoven, Sinfonia n. 2, op. 36
direttore Daniele Belardinelli
sabato 6 settembre 2003
W.A. Mozart
Andante per flauto e orchestra K 315; Concerto per flauto e orchestra K 315;
Sinfonia n. 29, K 201
pianista e direttore Romolo Balzani
11 settembre 2006
W.A. Mozart, Sinfonia n. 38, K 504, “Praga”
L. van Beethoven, Sinfonia n. 7 op. 92
direttore Lü Jia
altri concerti
28 luglio 2001
L. van Beethoven, Sinfonia n. 1, op. 21
F. Mendelssohn-Bartholdy, Sinfonia n. 3, op. 56 “Scozzese”
direttore Carlo Ponticelli Cuggiò
sabato 14 luglio 2007
F. Mendelssohn Bartholdy
Ouverture “Le Ebridi” (La Grotta di Fingal); Concerto per violino
ed orchestra in mi minore, op. 64 (allegro molto appassionate, andante;
allegretto non troppo – allegretto vivace); Sinfonia n. 4
in la maggiore op. 90 “Italiana” (allegro vivace; andante con moto;
con moto molto moderato; saltarello presto)
direttore Vincenzo Mariotti; violinista Marco Rogliano
140
Il “romantico” Mendelssohn
Nato ad Amburgo nel 1809, Felix Mendelssohn-Bartholdy morì nel 1847 a
soli 38 anni. Eppure le sue opere sono numerose e importanti nella storia della
musica e tuttora sono alla base di studi sulla vita musicale dell’epoca, tanto
più che il giovane Felix, figlio di un ricchissimo banchiere, viaggiò molto e
molto ascoltò musica del suo tempo e studiò quella precedente. Come è noto
all’epoca per quanto riguardava l’arte e la musica in particolare si viveva molto
sul presente, e si deve appunto a Mendelssohn la riscoperta di Bach e di Haendel vissuti un secolo prima, verso i quali ebbe sempre grande ammirazione.
Ma la sua solida cultura non gli impedì di essere originale nei suoi lavori pur
tenendo conto del grande passato della musica europea e restando, in fondo,
un “classico”.
Il programma, a lui dedicato, si apre con l’Ouverture ‘Le Ebridi (La Grotta
di Fingal’) in si min. op.26, ideata nel 1829, l’autore appena ventenne, durante un viaggio nel nord della Scozia. Ma la partitura fu composta a Roma
nell’inverno tra il 1830 e il ‘31 e si intitolò dapprima Die einsame Insel (L’isola solitaria), poi l’ultima versione composta a Parigi prese il titolo Grotta di
Fingal che ha tuttora. Titolo che si riferisce a una grotta basaltica nell’isola
di Staffa invasa dall’acqua ad ogni marea. Il lavoro, tuttavia, non è una descrizione, ma piuttosto uno splendido ‘quadro’ in musica che è stato definito
impressionista ante litteram.
Segue il notissimo e splendido Concerto n. 2 in mi minore per violino e
orchestra op. 64 composto nel 1844, in cui tanti celebri violinisti hanno brillato, sebbene nelle intenzioni dell’autore questo concerto esiga un’esecuzione
di severa sobrietà. Il lavoro, iniziato nel 1838 fu terminato solo nel 1844. Ma
Mendelssohn, già ammalato, non poté assistere alla prima al Gewandhaus
di Lipsia con il violinista Ferdinand David cui è dedicato. Tuttavia riuscì ad
ascoltarne una bella esecuzione del giovane Josef Joachim nell’ottobre del ‘47,
un mese prima di morire. Costituito da tre tempi, il concerto inizia con un
“allegro molto appassionato” di intensa dolcezza melodica, prosegue con la tenera romanza dell’“andante” completandosi con l’“allegro molto vivace” ricco
di fluente fantasia e di humour.
In chiusura la magnifica Sinfonia n. 4 in la magg. “Italiana” op.90. Mendelssohn amava molto l’Italia e il suo affascinante paesaggio, tanto che considerava l’Italia un paese “che dispensa la felicità” attraverso la sua stessa natura.
E con questa sinfonia presentata a Londra nel 1833 intendeva dimostrarlo.
Divisa in quattro movimenti, si apre con un festoso “allegro vivace” e continua con un andante che è quasi una ballata. Segue un terzo tempo che ci
appare come la descrizione di una foresta incantata per chiudersi con un “presto”: un “saltarello” che molto ricorda la tarantella napoletana. Un concerto
indispensabile per conoscere meglio questo grande musicista.
Landa Ketoff
critico musicale del quotidiano la Repubblica
141
La Banda musicale
dei Carabinieri suona
in piedi l’inno nazionale,
nell’area archeologica.
Bande musicali
martedì 7 settembre 1999
area archeologica
Fanfara del Reparto a Cavallo della Polizia di Stato
direttore Marcello Faustini
sabato 10 settembre 2005
area archeologica
Banda musicale dell’Arma dei Carabinieri
direttore Massimo Martinelli
piazza Europa
sabato 21 luglio 2007
Banda musicale della Guardia di Finanza
direttore Leonardo Laserra Ingrosso
142
Cicli e Rassegne musicali
Ciclo musicale per l’inaugurazione
del nuovo Sito culturale – 2004
Museo archeologico nazionale
1° concerto: martedì 7 settembre
SETTECENTO
Quartetto Bernini
Musiche di J.S. Bach, W.A. Mozart e F.J. Haydn
2° concerto: mercoledì 8 settembre
OTTOCENTO
Alessandro De Luca, pianista
Musiche di R. Schumann e F. Chopin
3° concerto: giovedì 9 settembre
NOVECENTO
Giuseppe La Licata, pianista
Musiche di Sŏstakovič, M. Ravel e S. Prokofiev
Rassegna musicale di luglio
celebrativa del decennale delle manifestazioni culturali
dal 6 al 21 luglio 2007 – siti diversi
6 luglio: Quartetto Bernini; 7 luglio: Ars Trio di Roma;
12 luglio: musiche per violoncello e pianoforte, Luigi Piovano-Luisa Prayer*
14 luglio: Orchestra di Roma e del Lazio; 19 luglio: Floraleda Sacchi,
musiche per arpa; 21 luglio: Banda Musicale della Guardia di Finanza.
* in collaborazione con il Campus internazionale di Latina.
143
Grotta di Tiberio
(foto N. di Raimo, 2006).
Premessa
Valentina
* Già docente
di
lettere
antiche
nei
licei
classici
Fratini*
di Roma.
La premessa introduce l’intera terza parte del volume, che ricapitola le manifestazioni diverse da quelle relative all’arte, alla poesia e alla musica. In realtà
il mio compito redazionale si è limitato ad ordinare gli incontri sperlongani in
quattro gruppi o aree tematiche e a scegliere i testi da riprodurre per ciascuna
area, in collaborazione con il curatore del volume.
La mia esperienza passata delle iniziative di Sperlonga concerne l’ascolto di
concerti e soprattutto di convegni e la correzione di bozze ed impaginati dei
“Quaderni” che ne raccoglievano gli atti. I “Quaderni” sono stati pubblicati
dal 1998 sino al 2004, per tutta l’epoca dei convegni. Per i colloqui, subentrati dal 2005 ai convegni, e per le conversazioni è valso il principio opposto
di non curarne la stampa e persino, a volte, di omettere le registrazioni. Se ne
è tenuto conto in questa pubblicazione: cinque dei testi riprodotti sono presi
da incontri organizzati negli ultimi due anni.
Per la scelta dei testi si è rispettata la doppia esigenza di avere svolgimenti
tematici di per sé compiuti e dotati di valore attuale e, soprattutto, una connessione di argomenti che rendesse meno frammentaria la ristretta antologia.
Siffatto criterio ha indotto spesso a trarre più relazioni da uno stesso convegno. Nell’ambito di ciascun gruppo i testi sono stati posti in ordine cronologico, con una sola eccezione per l’area ambiente e cultura giustificata dal fine
di rendere più evidente una particolare continuità tematica.
Sulle ulteriori manifestazioni le mie annotazioni sono brevi. Ricordo soltanto che le mostre foto-documentarie sono state una integrazione di colloqui: così la mostra Riguardare la costa a cura di Carmen Carbone e Roberto de
Rubertis, rispetto all’omonimo colloquio; la mostra Giuseppe Mazzini cittadino d’Europa a cura di Mario Di Napoli rispetto al colloquio Mazzini e Garibaldi tra vita e mito; la mostra sulla architettura di Sperlonga a cura di Carmen
Carbone rispetto al colloquio sul paesaggio di Sperlonga. Il collegamento tra
tipi diversi di manifestazioni è frequente e configura un aspetto interessante
dell’attività organizzativa esplicata nel decennio. Le consegne di premi Grotta
di Tiberio o di riconoscimenti di merito al cittadino sperlongano e le inaugurazioni delle mostre d’arte hanno avuto sempre il seguito di concerti. In particolare mi sono apparse assai suggestive le cerimonie nell’area archeologica con
le esecuzioni dell’Orchestra di Roma e del Lazio.
Parte III -
Le altre manifestazioni
culturali di Sperlonga
Torre di Capovento
(foto G. Giardino, 1980).
146
Premessa
di Valentina Fratini*
La premessa introduce la terza parte del volume, che ricapitola le manifestazioni diverse da quelle relative all’arte, alla poesia e alla musica. In realtà il
mio compito redazionale si è limitato ad ordinare gli incontri sperlongani in
quattro gruppi o aree tematiche e a scegliere i testi da riprodurre per ciascuna
area, in collaborazione con il curatore del volume.
La mia esperienza passata delle iniziative di Sperlonga concerne l’ascolto di
concerti e soprattutto di convegni e la correzione di bozze ed impaginati dei
“Quaderni” che ne raccoglievano gli atti. I “Quaderni” sono stati pubblicati
dal 1998 sino al 2004, per tutta l’epoca dei convegni. Per i colloqui, subentrati dal 2005 ai convegni, e per le conversazioni è valso il principio opposto
di non curarne la stampa e persino, a volte, di omettere le registrazioni. Se ne
è tenuto conto in questa pubblicazione: sei dei testi riprodotti non sono stati
editi in precedenza.
Per la scelta dei testi si è rispettata la doppia esigenza di avere svolgimenti
tematici di per sé compiuti e dotati di valore attuale e, soprattutto, una connessione di argomenti che rendesse meno frammentaria la ristretta antologia.
Siffatto criterio ha indotto spesso a trarre più relazioni da uno stesso convegno. Nell’ambito di ciascun gruppo i testi sono stati posti in ordine cronologico, con una sola eccezione per l’area ambiente e cultura giustificata dal fine
di rendere più evidente una particolare continuità tematica.
Sulle ulteriori manifestazioni le mie annotazioni sono brevi. Ricordo soltanto che le mostre foto-documentarie sono state una integrazione di colloqui: così la mostra Riguardare la costa a cura di Carmen Carbone e Roberto de
Rubertis, rispetto all’omonimo colloquio; la mostra Giuseppe Mazzini cittadino d’Europa a cura di Mario Di Napoli rispetto al colloquio Mazzini e Garibaldi tra vita e mito; la mostra sulla architettura di Sperlonga a cura di Carmen
Carbone rispetto al colloquio sul paesaggio di Sperlonga. Il collegamento tra
tipi diversi di manifestazioni è frequente e configura un aspetto interessante
dell’attività organizzativa esplicata nel decennio. Le consegne di premi Grotta
di Tiberio o di riconoscimenti di merito al cittadino sperlongano e le inaugurazioni delle mostre d’arte hanno avuto sempre il seguito di concerti. In particolare mi sono apparse assai suggestive le cerimonie nell’area archeologica con
le esecuzioni dell’Orchestra di Roma e del Lazio.
* Già docente di lettere antiche nei licei classici di Roma.
147
Incontri sperlongani
Giovanni Omiccioli,
«Promontorio
di Sperlonga»,
acquaforte, 1972
(logo della Settimana
culturale di Sperlonga).
Convegni, colloqui e conversazioni ordinati
per aree tematiche
A.
Archeologia, storia e letteratura
elenco degli incontri:
1. I miti dell’Odissea e il mondo romano all’epoca di Tiberio
martedì 8 settembre 1998
Saluto di Armando Cusani, Sindaco di Sperlonga
Relazione introduttiva di Nicoletta Cassieri, Direttrice del Museo archeologico
nazionale di Sperlonga
«Civiltà corsara del Mediterraneo (Odissea XVI)», Marcello Gigante, professore
emerito dell’Università degli studi «Federico II» di Napoli
«L’arte ellenistica e un imperatore romano», Bernard Andreae, già professore
ordinario nelle Università degli studi di Bochum e Marburgo e Direttore
dell’Istituto Archeologico Germanico
«Tiberio successore di Augusto», Augusto Fraschetti, professore ordinario di Storia romana nell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma
Conclusioni di Licia Borrelli Vlad, docente nell’Università degli studi di Firenze
2. Il mare nell’Odissea. Colloquio omerico di Sperlonga
venerdì 8 settembre 2000
Saluto di Nicoletta Cassieri, Direttrice del Museo archeologico nazionale di
Sperlonga e di Armando Cusani, Sindaco di Sperlonga
«Ulisse, l’eroe che “molto errò”. Lettura del proemio dell’Odissea», Marcello Gigante, professore emerito dell’Università degli studi «Federico II» di Napoli
148
«I Greci e gli «altri» nel Mediterraneo», Federica Cordano, professoressa ordinaria di Storia greca nell’Università degli studi di Milano
«Geografia mitica dell’Odissea», Alessandra Bonajuto, dottoressa di ricerca
«I paesaggi odissiaci», Licia Borrelli Vlad, docente nell’Università degli studi
di Firenze
sabato 9 settembre 2000
«Le rotte di Ulisse», Pietro Janni, professore ordinario di Letteratura greca
nell’Università degli studi di Macerata
«L’arte della navigazione nell’Odissea», dottor Andrea Simi
«Ulisse e le figure femminili dell’Odissea», professor Bernard Andreae dell’Istituto Archeologico Germanico
Dibattito, Emidio Quadrino, già docente nel Liceo classico di Fondi
Conclusioni di sintesi di Marcello Gigante
3. Scultori da Rodi tra Roma e Sperlonga
venerdì 6 settembre 2002
Saluto di Armando Cusani, Sindaco di Sperlonga e di Anna Maria Reggiani,
Soprintendente archeologica per il Lazio
Relazione introduttiva di Licia Borrelli Vlad, docente nella Università degli
studi di Firenze
«La Grotta di Tiberio e il problema del Laocoonte», professore Bernard Andreae
dell’Istituto Archeologico Germanico
«Riflessioni sul Laocoonte», Salvatore Settis, Direttore della Scuola Normale
di Pisa
«Gli scultori rodiesi dopo Sperlonga», Carlo Gasparri, professore ordinario di
Archeologia e di Storia greca e romana nell’Università degli studi “Federico
II” di Napoli
Conclusioni di Antonio Gambino, giornalista
4. L’Area di Pergamo: un grande restauro nel nuovo museo di Berlino
sabato 11 settembre 2004
Wolf-Dieter Heilmeyer, già Direttore del Museo archeologico di Berlino
5. Le ville costiere romane nel Lazio meridionale
venerdì 9 settembre 2005
Nicoletta Cassieri, Direttrice del Museo archeologico nazionale di Sperlonga
149
6. Roma - città museo
sabato 9 settembre 2006
Adriano La Regina, già Soprintendente archeologico di Roma
7. Ulisse nella poesia moderna
venerdì 8 settembre 2006
Pietro Boitani, professore ordinario di Letterature comparate nell’Università
degli studi “La Sapienza” di Roma
8. L’imperatore Tiberio e la Grotta di Sperlonga
sabato 8 settembre 2007
Bernard Andreae, già membro dell’Istituto Archeologico germanico
9. Mazzini e Garibaldi tra vita e mito
martedì 5 settembre 2006
Relazione introduttiva di Mario Di Napoli, docente di Storia contemporanea
nell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma
Relazioni
Anita Garibaldi Jallet, docente nell’Università degli studi di Bordeaux
Giuseppe Monsagrati, professore ordinario di Storia contemporanea nella
Università degli studi “La Sapienza” di Roma
Dibattito Lido Chiusano, professore associato di Storia della Filosofia nell’Università degli studi di Cassino
Mozia: la cosiddetta
«Casa dei mosaici»,
particolare del pavimento
a ciottoli di fiume
(arte fenicia).
150
dal convegno dell’8-9 settembre 2000:
I Greci e gli «altri» nel Mediterraneo
Federica Cordano
In un colloquio omerico così prestigioso (devo ringraziare di cuore l’amico
Marcello Gigante e l’organizzatore del convegno per la fiducia accordatami)
il mio compito è parlare degli «altri» rispetto ai Greci; «gli altri» nei poemi
omerici sono naturalmente i Fenici. [I Tirreni nell’Odissea non ci sono, però
nell’inno omerico a Dionisio, 7, sono dei perfetti pirati; la testimonianza più
antica è Esiodo, Teog, 1016].
Da Omero a Tucidide, quando si dice Fenici – ce lo ha
insegnato Pugliese Caratelli – si intendono i Cananei «abitanti la zona costiera della Siria che includeva le città di Tiro
e Sidone», anche se l’estensione è più complessa; però fra la
tradizione omerica e quella storiografica di età classica c’è una
grande disparità nella considerazione di questi non Greci in
rapporto alla Grecia: nella prima (la tradizione omerica) c’è
ancora riflesso un mondo mediterraneo sostanzialmente omogeneo; nella seconda (la storiografia classica) emergono nuovi
punti di vista, derivati da fonti diverse da quelle omeriche, ma
espressi nella consapevolezza del cambiamento dei rapporti fra
Greci e Fenici. A questa distinzione di fondo ho rivolto una
breve indagine.
Moneta fenicia,
340 a.C., Beirut,
Museo archeologico.
Odissea
La parità di condizione con i Greci traspare nell’Odissea: si considerino
i mercanti fenici, quelli «onesti» che riportano Ulisse ad Itaca (Od. XIII
271-286) e il racconto fatto ad Eumeo nel quale Ulisse si finge un mercante,
o quello cattivo che lo fa schiavo in Egitto per portarlo in Fenicia (Od. XIV
285-300), oppure il racconto nel quale Eumeo dice come è stato portato via
dall’isola di Siria (che non è stata individuata con certezza: Od. XV 403-428);
per non parlare del re dei Sidoni che ha donato a Menelao il famoso cratere
(Od. IV 611-619; XV 111-119 ed Il.; XXIII 743-745): da queste e simili
situazioni si può senz’altro dedurre una condizione di convivenza fra Greci e
Fenici, nelle mete raggiunte, e di equivalenza nei mezzi e negli scopi di navigazione. Oltre tutto Greci e Fenici appartenevano a gruppi sociali del tutto
simili, organizzati in stanziamenti dello stesso tipo, anche se la cultura fenicia
era tecnicamente più avanzata e soprattutto alfabetizzata. Non a caso Guy
Bunnens esaminava i poemi omerici tra le «tradizioni orientali» anziché fra
quelle «classiche» riguardanti i Fenici.
La situazione dipinta nell’Odissea doveva essere quella reale nei secoli dal
IX al VII; del resto, come tutti sanno, abbiamo il migliore esempio di questa
convivenza e collaborazione concreta nei risultati degli scavi di Ischia, di Cipro, di Ialiso di Rodi, di Cartagine o di Al-Mina.
151
Pure in altri importanti siti del Mediterraneo, primo fra tutti quello delle
Colonne d’Ercole, la convergenza di Greci e Fenici è ormai dato acquisito;
è già stato sottolineato (Alfonso Mele, Michel Gras) che le Colonne hanno
anche portato il nome di Briareo che è nome esclusivamente greco, mentre
quello di Eracle (Melqart per i Fenici) ha il vantaggio di riferirsi ad un culto
comune; ed è un punto d’incontro fra Fenici e Greci, sopratutto in ambito
coloniale, e in particolare in quello siciliano: basti pensare al transito siciliano
delle vacche di Gerione creato da Stesicoro.
Benché le colonie «eraclee» appartengano di solito ad una fase più recente
della colonizzazione, almeno di quella greca, non credo si possa affermare
con certezza né che il nome greco delle Colonne sia più antico, né, tanto
meno, che sia da collegare con gli Euboici, piuttosto che con altri gruppi di
Greci (anche se ci sono testimonianze del suo culto a Calcide). Infatti questo
centimano (Ecatònchiros) è ben noto in tutte le parti della Grecia, cantato
com’è nell’Iliade e nella Teogonia di Esiodo e forse anche da Eumelo corinzio
(Titanomachia ciclica) quale figlio del Ponto e di Ge (normalmente è figlio
di Urano e di Ge); del resto egli sembra aver avuto con Corinto un legame
particolare dato che mise pace fra Posidone ed Elio sull’Istmo (Paus. 2,1,6).
Poesia arcaica
Alla stessa situazione ci riportano i riferimenti per così dire «coloniali» dei
poeti greci arcaici: però il collegamento di alcuni di essi con la storia delle
fondazioni è così stretto da non lasciar spazio ai Fenici, che pure sono sempre
lì intorno! Fra queste storie hanno la prevalenza quelle riguardanti la Sicilia
e Taso, la lontana isola prospiciente la costa tracia, cioè proprio quei settori
geografici nei quali gli storici posteriori vorranno i Fenici (non per via di significati reconditi, ma perché sono le mete più note alla letteratura).
I poeti arcaici sono protagonisti nelle comunità di origine o di accoglienza
e rivolgono il loro interesse alla novità assoluta del loro tempo, che è la colonizzazione: questo intreccio ha generato la tradizione a cui ci appelliamo,
pur nelle mille difficoltà derivanti dalla frammentarietà delle opere e delle
testimonianze.
Si sa di Archiloco, non solo figlio di Eecista, ma pure esperto di storia
coloniale siciliana, se è vero che a lui risale l’aneddoto su Aithiops (comunque
protagonista di situazioni simili).
In un magistrale articolo del 1976 François Lasserre proponeva Eumelo
come fonte di Archiloco: lo scambio di informazioni tramite la poesia doveva
essere molto più ampio di quello che ne sappiano noi, ma certo la tradizione
corinzia e siracusana era molto salda nella ricostruzione della storia coloniale
(Siracusa era pure meta ambita di rapsodi come Cineto) ed Eumelo, che rincontreremo, ha anche insegnato il suo canto processionale (prosòdios) al primo
coro dei Messeni inviato a Delo (Paus. 4,4,1 e 3,3,2), certo entro la metà del
VII secolo (anche se si vuole datarlo al VII come preferisce Pia de Fidio, egli
è comunque un Bacchiade!)
Nella poesia «politica» le ktiseis hanno trovato ampio spazio, basti ricordare
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Mimnermo, Senofane di Colofone, Eugammon di Cirene fino a Paniassi, che
nella prima metà del V sec. a.C. canta in versi elegiaci la fondazione delle città
ioniche e chiude questa secolare tradizione di storia in versi, una storia, però,
solo greca.
Dalla stessa Ionia sono sicuramente passate molte delle storie sui Fenici;
Ecateo conosceva certamente l’espansione fenicia nel Mediterraneo occidentale, sapeva che il vero nome dei Fenici è «Cananei» (F21 e F272), ma attribuisce a Danao l’introduzione delle «lettere» in Grecia (F20: scolio a Dionisio
il Trace dal quale non si può dire se nominava anche Cadmo, che comunque
non sarebbe il primo «inventore») e neppure attribuisce a Cadmo la fondazione di Tebe: questo lo deduciamo da un passo di Strabone riguardante il Peloponneso (VII, 7, 1 = Fgr Hist 1 F119); Strabone contesta Ecateo, perché non
vi trova appunto la storia di Cadmo e dei Fenici, che occupano la Cadmea.
Storiografia classica
I Fenici tornano alla ribalta in alcune delle «storie greche» del V secolo.
Non solo; in esse si affaccia la certezza che la presenza dei Fenici in posti chiave
per la colonizzazione mediterranea abbia preceduto quella greca: se ciò è vero
per i siti delle colonie fenicie, non c’è ragione di pensarlo per località greche o
abitate da Greci, salva, come ha già detto Bondì, la consapevolezza da parte di
Erodoto e Tucidide del mutato rapporto tra Fenici e Greci. Ricorderò dei passi molto noti, con la premessa che tale convinzione era divenuta nell’Atene del
V secolo un topos letterario, nel quale i Fenici erano «più bravi» dei Greci nella
navigazione e quindi nel raggiungere mète remote. Naturalmente alludo solo
alle presunte fondazioni fenicie in territorio greco o grecizzato, ché la data alta
per quelle in territorio africano è più che plausibile, anche se incontrollabile.
Le situazioni coloniali a cui mi riferisco sono quelle di Taso e della Sicilia
– situazioni, come ho detto, collegate già nell’antichità alle biografie dei poeti
arcaici – però il topos di cui dicevo è applicato anche ad ambito metropolitano,
in primo luogo a Tebe, ma lì naturalmente rappresenta l’acculturazione alfabetica, e poi all’isola di Tera, dove la presenza fenicia è sì collegata con il passaggio
di Cadmo, ma pure in considerazione del ruolo coloniale nell’isola.
Erodoto ha valide ragioni per ricostruire un antico rapporto fra i Fenici e
Taso; infatti per concludere le sue ricerche su Eracle, egli parte per Tiro, in
Fenicia, dove sa di poter avere qualche informazione precisa (ecco una tradizione diversa da quella omerica!) ed è proprio così, i sacerdoti gli dicono che
il santuario risale alla fondazione della città, cioè a duemila e trecento anni
prima. Oltre a questo santuario, che era quello già noto ad Erodoto, c’è a
Tiro un altro luogo di culto dedicato ad Eracle, con l’epiteto di Tasio. Tale
passaggio di Erodoto contiene anche l’importante distinzione fra l’Eracle dio
e l’Eracle eroe, che però non possiamo certo prendere in considerazione in
questa sede.
Noi, giustamente ma anche banalmente, interpretiamo la presenza di un
luogo di culto di Eracle Tasio in terra fenicia come il punto di riferimento per
i Tasi che dall’Egeo settentrionale commerciavano in oriente; invece Erodoto
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dalle notizie raccolte a Tiro è indotto a partire per Taso. E lì trova in effetti
«un santuario di Eracle eretto da Fenici: i Fenici che fondarono Taso navigando alla ricerca di Europa» (Il 44, trad. Fraschetti). Questa volta si tratta della
dotta ricostruzione erodotea di più elementi: da un lato la corrispondenza
nelle forme di culto fra i due santuari dedicati ad Eracle «Tasio»; dall’altro il
viaggio dei Fenici «alla ricerca di Europa» che egli conosce molto bene, e che
costituisce la chiave di lettura dei più importanti passaggi culturali, come del
resto suggerisce la stessa definizione «ricerca di Europa».
Il collegamento dell’isola con i Fenici non passa solo attraverso il culto di
uno stesso Eracle, naturalmente si tratta dell’eroe. Le altre notizie acquisite a
Taso sono utilizzate da Erodoto in un’altra parte delle sue storie (VI 44-47),
in occasione della prima spedizione persiana contro la Grecia.
Nell’isola egli doveva aver raccolto la tradizione su un eponimo Taso, appunto un fenicio, e l’indicazione di una fondazione fenicia ben si collegava alla fama
delle ricchezze dei Tasi ed anche ai commerci con l’oriente che essi intrattenevano; voglio dire che sia ai Tasi che ai Fenici di Tiro poteva piacere una simile
storia, [però se fosse una storia tiria la colonia non sarebbe attribuita ai Fenici
in genere]; non è certo la prima volta che ci troviamo di fronte ad una duplice
tradizione coloniale, utilizzata alternativamente, assecondando l’attualità politica delle città coinvolte. Erodoto ha visitato di persona le miniere d’oro e tiene a
sottolineare la bellezza di quelle dell’isola, «scoperte» dai Fenici colonizzatori, a
fronte della maggiore importanza e produzione di quelle della terraferma.
Al pubblico ateniese era ben nota tale ricchezza, dal momento che la spedizione di Cimone nell’isola, narrata da Tucidide (I 100) era relativamente
recente (464/3 a.C.). Prima di questa data, cioè quando erano ancora indipendenti, i Tasi hanno dedicato nel santuario di Olimpia una grande statua
raffigurante appunto Eracle Tasio. La statua era opera di Onata di Egina, il
famoso scultore molto attivo nella prima metà del quinto secolo sia ad Olimpia che a Delfi (Tarantini).
Pausania (V 25,12), che è l’unico teste per questa statua, sa che l’Eracle
Tasio è venerato anche a Tiro, ed aggiunge che con l’assimilazione alla cultura
greca i Tirii onorarono anche l’Eracle figlio di Anfitrione, cioè l’eroe.
Per tornare ad Erodoto, è evidente che non poteva ignorare la notissima
storia della fondazione di Taso da parte dei cittadini di Paro condotti dal
padre di Archiloco etc., quindi la sua preferenza per questa ipotetica fondazione fenicia, addirittura con l’eponimo Taso, è legata alla sua esperienza, al
collegamento con le informazioni raccolte a Tiro e quelle raccolte a Taso e
all’interesse ateniese per l’isola ormai sottomessa.
Dicevo prima che i logoi erodotei su una «primogenitura» fenicia non riguardano solo il territorio coloniale; infatti la più famosa duplice storia di
fondazione è quella di Tebe; anche qui, come tutti sanno, c’è una fondazione
fenicia, quella di Cadmo, narrata da Erodoto (V 58 ss.) e messa in scena da
Eschilo (I Sette) nell’Atene di Cimone (467 a.C.), ed una autoctona, quella
di Anfione e Zeto,evocata da Euripide alla fine del V sec. a.C. (Antiope), in
parallelo con quella cadmea (Fenicie ed Eracle), che è pur sempre quella del-
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fica [nei necessari aggiustamenti cronografici, Cadmo è collocato ben quattro
generazioni prima di Anfione, e l’interruzione dinastica dei Labdacidi dura
solo una generazione, quella di Laio].
La storia di Anfione è già nota ad Omero ed Esiodo, ed in una testimonianza sul solito Eumelo (F12 Kinkel) leggiamo di Hermes che insegna ad
Anfione a suonare la lira (Rocchi p. 49).
La tradizione scritta posteriore (quella antica) ha cercato di fondere le due
storie tebane con vari accorgimenti, ma i Tebani ed i Beoti, fino al IV sec.
a.C. (Epaminonda) – come ci ha mostrato Francis Vian – privilegiano l’una
o l’altra a seconda del prevalere degli uni o degli altri nella gestione della Beozia. Gli Ateniesi avrebbero dovuto preferire l’attribuzione di Tebe ai Gemelli
Anfione e Zeto, dal momento che essi erano nati in una grotta vicino ad
Eleutere, cioè in quella parte di territorio beotico annesso all’Attica al tempo
di Ippia (Paus. I 38, 8-9); però i mutevoli rapporti con i Tebani influivano di
volta in volta nella scelta.
Nel caso di Erodoto, però, il privilegiare la fondazione cadmea rientra nel
discorso generale della primogenitura fenicia, piuttosto che in una scelta politica.
L’altra fondazione cui facevo riferimento, quella di Tera, è da Erodoto direttamente collegata a Cadmo: perché Cadmo è passato sull’isola di Tera e vi
ha lasciato un gruppo di Fenici con un suo consanguineo e perché il genos di
Tera, gli Egeidi, è legato ai Cadmei tramite Polinice (IV 147). Si tratta sempre
di quella storia antichissima, nella quale Erodoto immagina per i Fenici un
ruolo colonizzatore e civilizzatore. Del resto il ruolo dell’eponimia attribuito
ai Fenici è conservato in una lunga tradizione: l’eponimia di Taso si ritrova
nella letteratura del I sec. a.C. in molti autori (Conone, pseudo-Scimno, o
Demagora di Samo, che potrebbe risalire ad Ellanico); ma lo stesso vale per
altre isole dell’Egeo, quali Membliaro, Serifo, Melo ed Itano (Vian p. 54 nota
6, rinvii, e pp. 66-67), che hanno tutte eponimi «fenici».
Come dicevo, anche Tucidide è convinto che il compito di colonizzatori
sia stato svolto dai Fenici prima che dai Greci. Egli – che nel primo libro,
a proposito delle isole egee, ha creato la famosa quanto enigmatica endiadi
«Cari e Fenici» – si trova ad affrontare l’argomento a proposito della Sicilia e,
come è noto, risolve la questione della presenza fenicia nell’isola distinguendone due periodi: il secondo, quello delle fondazioni di Panormos (bel nome
greco!), Mozia e Solunto, era evidente dalla storia a lui contemporanea; il
primo, quello della frequentazione fenicia delle coste siciliane per commercio, nasce appunto dalla mentalità formatasi in Atene nel V secolo, per cui le
navigazioni fenicie erano viste in opposizione a quelle dei Greci, anziché in
parallelo come nei poemi omerici.
La Sicilia è compresa nell’itinerario che le «Fenicie» di Euripide (411 e 408
a.C.) vv. 202-213 e 222-223 hanno compiuto da Cartagine verso il mar Ionio
per raggiungere infine Tebe. La vicinanza tra Cartagine e la Sicilia era a tutti
nota, ed Euripide stesso l’aveva menzionata qualche anno prima delle Fenicie
nelle Troiane (415 a.C.) ai vv. 220-221.
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Diodoro Siculo riprenderà per la Sicilia lo schema erodoteo e tucidideo (V
35,5 e XIV 47,4), che si riconosce pure in Pausania (5,25,6); l’uno e l’altro
sono debitori verso Erodoto e Tucidide; e proprio in questo senso voglio ricordare l’importante richiamo che Roland Martin fece (nel 1978) parlando di
Taso, al lungo passaggio di Diodoro (IV 23 ss.) sul ruolo di Eracle nelle fondazioni della Sicilia occidentale. Sebbene evidente, era infatti stata trascurata
la dipendenza da Erodoto, per il quale le fondazioni fenicie sono innanzi tutto
istituzione di culti; oltre all’esempio di Taso, si possono citare quelli dell’Afrodite Urania a Citera (I 105) o di Dioniso in Egitto (II 49).
Ancora da Erodoto dipendono i capitoli diodorei riferiti a Rodi (V,57 e
58): in uno si trova Cadmo, che per primo ha introdotto le «lettere» in Grecia,
nell’altro la tappa rodia del viaggio alla ricerca di Europa e l’offerta del lebete
di bronzo con l’iscrizione in alfabeto fenicio ad Atena Lindia.
Il coinvolgimento di Rodi in questi antichi transiti marini dei Fenici è
anche ben presente nella tradizione locale, a cominciare da un tale Ergias,
che nel IV secolo ha raccolto una storia di contese fra Greci e Fenici a Ialiso,
secondo la quale i Greci avrebbero cacciato i Fenici comandati da un Falanto,
che li avevano preceduti (513 F 1, da Ateneo), per proseguire con Polizelo
(521 F 6, sempre da Ateneo) che conosce un aneddoto inseribile nella stessa
vicenda, e però sa anche che Cadmo ha donato al tempio di Atena Lindia il
lebete di bronzo con «lettere fenicie». Naturalmente questa è citazione della
Cronaca Lindia (91 a.C.), ma ricorda molto da vicino quanto diceva Erodoto
dei doni cadmei da lui visti a Tebe (V 59-61).
Nel filone erodoteo voglio chiudere la mia indagine, che si allargherebbe
troppo andando a visitare la letteratura strettamente geografica, dalla quale
però voglio trarre una sola citazione: i dotti versi (350-369) nei quali Avieno,
nel IV sec. d.C. cita, a proposito delle Colonne di Eracle, Euctemone di Atene, un autore di nove secoli prima: «l’ateniese Euctemone dice pure che non sono
rupi o vette che si innalzano ai due lati; racconta che a metà fra la terra libica
e la sponda d’Europa si trovano due isole e dice che queste si chiamano Colonne
d’Ercole; riferisce che esse sono distanti fra loro trenta stadi, che sono dappertutto
irte di selve e che sono sempre inospitali ai naviganti. Egli dice che vi si trovano
templi e altari dedicati a quell’Ercole, che i forestieri arrivano in barca, fanno
sacrifici al dio e si allontanano in fretta, perché è ritenuto sacrilego fermarsi sulle
isole. Dice anche che intorno ad esse, e per un largo tratto, il mare ristagna a poca
profondità; e che le navi cariche non riescono ad avvicinarsi per il fondo basso e la
grassa melma della spiaggia. Ma se per caso qualcuno fosse preso dal desiderio di
avvicinarsi al santuario, porti la nave alla vicina isola di Luna e così, con lo scafo
leggero, supererà il mare».
Con queste parole concludo perché mi pare siano la migliore proiezione
del punto di vista ateniese riguardo agli «altri» navigatori del Mediterraneo,
perché da esse si evince che nell’Atene del V secolo si sapeva soltanto che non
ci si poteva avvicinare alle Colonne, che infatti erano nelle mani dei Fenici
da circa un secolo, e che circolavano idee molto confuse sulla conformazione
fisica di quei luoghi.
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I paesaggi odissiaci
Licia Borrelli Vlad
Il 29 luglio 1895 il Fantasia di Edoardo Scarfoglio parte da Gallipoli per
una crociera in Grecia. Un viaggio iniziatico, soprattutto per uno dei cinque
giovani passeggeri, Gabriele D’Annunzio, che affiderà al primo libro delle
Laudi, Maja, una delle vette della poesia del primo Novecento, emozioni e
agnizioni di quella memorabile vicenda. Il primo incontro «nelle acque di
Leucade» è con un Ulisse canuto, ma indomito «re del Mediterraneo», al timone della sua nave. È l’eroe dantesco, condannato dalla propria inesausta
curiosità dell’ignoto a vagare nei mari.
I cinque giovani passeggeri del Fantasia, un po’ dandies, non si erano sottratti alla moda che sul crinale fra il XIX ed il XX secolo spinse letterati soprattutto francesi a solcare i mari della Grecia per cimentarsi con gli antichi miti,
rinverditi dalle grandi scoperte archeologiche che a Micene, Argo, Tirinto,
Delfi, Olimpia, Atene, Delo si andavano moltiplicando in quegli anni. Lo
stesso D’Annunzio, con La città morta (1896), si ispira ai rinvenimenti di
Schliemann. I Sanctuaires d’Orient di Schuré (1898), le Excursions archéologiques en Grèce (1890) e En Mediterranée (1901) di Diehl, Anthinéa di Maurras
(1901) sono citati fra le principali fonti di Maja. Al passaggio delle Bocche
di Bonifacio Ulisse viene incontro a Maurras (Anthinéa): «Ulisse è venuto fin
qui; Ulisse il prudente, il fertile spirito della Grecia».
Con lo stesso empito poetico, ma con una ben diversa preparazione scientifica e una visione antropologica alla Frazer del Ramo d’Oro, Victor Bérard,
illustre traduttore di Omero, fra il 1906 ed il 1912 intraprese una serie di
viaggi in Sicilia, Algeria, Marocco, Grecia, alla ricerca dei luoghi dell’Odissea.
Ne sortirono dei libri singolari, Les Navigations d’Ulysse (Parigi, 1927-1929),
che hanno la freschezza di un diario di bordo, ma sono anche il frutto di una
formidabile preparazione filologica.
Anche Schliemann aveva ritrovato Troia sulle indicazioni dell’Iliade, ma
questo era «un» luogo, mentre i luoghi dell’Odissea sono tanti e la spinta a individuarli fu sollecitata fin dai tempi antichi dalle precise indicazioni del testo.
Esso contiene, infatti, anche riferimenti temporali che rimandano a peripli
presumibilmente noti fra la gente di mare, come ad esempio a quello cartaginese di Annone per le coste africane, o come agli altri portolani che è lecito
supporre siano esistiti e abbiano guidato i primi Greci sulle rotte dell’Occidente. Infatti Strabone aveva appunto definito Omero il primo geografo.
Tralascerò un riassunto dell’identificazione degli antichi luoghi dell’Odissea, già fornito con grande erudizione e precisione filologica dalla signora
Buonajuto.
Basterà dire che i siti del viaggio di Ulisse in genere per i Greci sono situati
in località più vicine alla Sicilia e alla Grecia, mentre i Romani si spingono
fino ai lidi della Campania e del Lazio.
In realtà, avventure e personaggi riecheggiano e raccolgono leggende molto più antiche, da quelle legate alle imprese degli Argonauti, alla saga di Gil-
157
«I compagni di Ulisse
incontrano la figlia del Re
dei Lestrigoni», affresco,
40-50 a.C.,
Roma, Musei Vaticani.
gamesh (Ishtar è identificata con Circe) ed attingono ad un patrimonio mitico
ancestrale, comune all’immaginario di tutta l’umanità.
La mirabile esposizione su «Ulisse il mito e la memoria», curata da Bernard
Andreae ed organizzata al Palazzo dell’Esposizione di Roma nel 1996, e recentemente ripetuta a Monaco, ha offerto un panorama completo delle traduzioni figurative dell’Odissea, culminanti nella ben nota epopea di Sperlonga.
Nella maggior parte di queste immagini l’elemento paesistico è inesistente o
puramente funzionale all’illustrazione del mito: il mare e gli scogli sui quali
sono appollaiate le Sirene, la roccia ove siede Polifemo, la fauna marina che
circonda Scilla o le alghe che le cingono i fianchi. Se questo modo di rappresentare è tipico dell’arte arcaica, esso si protrae anche nelle opere posteriori,
con l’eccezione di qualche parca concessione ambientale, come se la pregnanza
dei personaggi prevaricasse in qualche modo su ogni altro segno indicativo.
Né molto diversi sono i segni paesaggistici nell’Odissea, funzionali al racconto e sempre simbolici. Il paesaggio come tale è, difatti, estraneo alla cultura greca del tutto antropocentrica.
Il 7 aprile 1848, a Roma, durante alcuni lavori per le fondamenta di una
casa popolare tra via Sforza e via dei Quattro Cantoni, presso via Graziosa,
l’attuale via Cavour, alle pendici dell’Esquilino, fu rinvenuto un ciclo di affreschi con scene dell’Odissea dell’altezza di circa 5,30 metri e del presunto
sviluppo di circa 20 metri. Esse rappresentano il primo esempio di vera e
propria pittura di paesaggio.
Per la prima volta in quattro pannelli è rappresentata 1’avventura dei Lestrigoni e la fuga della nave di Ulisse verso l’isola di Circe, episodio assente nel
cospicuo patrimonio figurativo delle imprese di Ulisse; seguono due pannelli
con la reggia di Circe, il secondo dei quali pressoché illeggibile, due quadri
158
con la discesa agli inferi, tutti oggi conservati ai Musei Vaticani. Ad essi si è aggiunto un frammento con Ulisse e le Sirene, che ebbi la fortuna di identificare
molti anni fa e che si trova al Museo Nazionale Romano. Per completare la
sequenza omerica mancano una prima scena con Polifemo ed un’ultima con
Scilla, presumibilmente perdute. Molte figure sono corredate da iscrizioni in
greco con i nomi dei personaggi, Antilochos, Anchialos, Euribates, i compagni
di Ulisse, Antiphates, re dei Lestrigoni, i personaggi della Nekyia, le Sirene, e,
secondo un costume ellenistico, di personificazioni, come i prati, nomoi; la
fonte, krene; i lidi, aktai; ecc.
Le scene sono immaginate al di là di una partizione creata da elementi
architettonici di cosiddetto «secondo stile», pausate da pilastri dipinti con
capitelli jonico-corinzi decorati fra le volute joniche da un’aquila con le ali
chiuse.
Queste architetture non interrompono, però, la continuità del paesaggio,
che appare evidente soprattutto nei primi quattro pannelli («Lestrigoni e fuga
della nave di Ulisse verso l’isola di Circe, Eea»). La scena successiva, che dovrebbe essere la sesta, calcolando nel numero un primo quadro scomparso,
con la rappresentazione della dimora di Circe dalle sontuose architetture, racchiude in realtà due scene: l’arrivo di Ulisse, ricevuto sulla soglia da un’ancella, e l’incontro vittorioso dell’eroe con la maga. Questa scena funge da asse
centrale del ciclo, come dimostra la prospettiva dei pilastri che in seguito
appare speculare rispetto a quella dei precedenti. Nel quadro successivo, quasi
illeggibile, si intravedono appena ancora le architetture della dimora di Circe
e doveva esservi illustrata la riconversione in uomini dei compagni di Ulisse
ed il commiato dalla dea. La Nekyia è fedele solo in parte al testo omerico,
poiché alle ombre evocate da Ulisse o da lui incontrate nell’Ade, Tiresia, la
«I Lestrigoni attaccano le
navi dei compagni di Ulisse»,
affresco, 40-50 a.C.,
Roma, Musei Vaticani.
159
madre Anticlea, le grandi donne dell’epopea, gli eroi compagni nella guerra di
Troia, i grandi ribelli, Sisifo, Tantalo, Tizio, si sono aggiunte cinque Danaidi,
costrette a riempire una botte forata, un mito assente nell’Odissea e testimoniato nelle arti figurative solo dopo il IV secolo a.C. Le Sirene hanno l’aspetto
di due fanciulle; Omero non ne precisa le forme, ma tutta l’iconografia arcaica
le rappresenta con viso femminile e corpo di uccello.
Rispetto al testo omerico non vi è equilibrio fra lo spazio affidato all’avventura presso i Lestrigoni (tre quadri e mezzo), nel poema una cinquantina di
versi (80-132 del libro X), e quello degli episodi successivi, Circe, in tutto il
seguito del libro X, e specialmente l’evocazione dei morti che occupa l’intero
XI libro ed offre lo spunto per una vera e propria digressione mitologica. Ci
troviamo quindi di fronte ad un documento pittorico ispirato al poema, ma
che adotta un nuovo linguaggio espressivo e formale e propri, autonomi spazi
temporali. Tuttavia queste singolarissime pitture di così elevate qualità formali, restituiscono per la prima volta in modo unitario il ciclo quasi completo
delle avventure narrate da Ulisse ad Alcinoo, re dei Feaci.
Una vastissima letteratura si è sforzata di indagarne le origini e gli eventuali
modelli, ma molti interrogativi sono rimasti irrisolti o non hanno ancora ricevuto risposte univoche.
Un elemento certo era individuato nella tecnica dell’apparato murario
dell’edificio a cui essi appartenevano, datato in età cesariana, fra il 40 e il 30
a.C., mentre un famoso passo di Vitruvio, riferito ad una moda che precedeva
quella del suo tempo (Augusto), sembra illustrarne fedelmente il soggetto.
Come se, scrivendo, Vitruvio avesse presenti proprio queste immagini: «…
ambulationibus vero propter spatia longitudinis varietatibus topiorum ornarent
a certis locorum proprietatibus imagines exprimentes; pinguntur enim portus,
promuntoria, litora, flumina, fontes, euripi, fana, luci, montes, pecorae, pastores
nonnulli; loci item signorum megalographiam habent et deorum simulacra seu
fabularum dispositas explicationes; non minus Troianas pugnas seu Ulixis errationes per topia. Sed haec quae, ex veris rebus, exempla sumebantur nunc iniquis
moribus improbantur…» (VII, 5, 2-3). (« … invece nelle passeggiate coperte
l’ornamento pittorico fu costruito – data la lunghezza degli spazi parietali –
da una serie variata di paesaggi, prendendosi gli elementi e le immagini da
determinate proprietà dei vari luoghi: e cioè porti, promontori, lidi, fiumi,
fonti, canali, santuari, boschi sacri, monti, greggi e qualche pastore; parimenti
al posto delle statue usando la grande pittura: simulacri di dei e scene mitologiche in serie, o le battaglie sotto Troia o le peregrinazioni di Ulisse di paese
in paese; ed altre scene configurate con metodi analoghi. Ma tutti questi temi
pittorici, i quali venivano presi come copie di cose vere, ora per l’iniquo costume vengono abbandonati e spregiati…» (trad. Ferri, 196). Un recente studio
revoca in dubbio anche questa certezza cronologica e con argomenti tecnici e
stilistici di un certo peso, anche se non determinanti, avanza l’ipotesi di una
collocazione nella prima età imperiale.
La parola topia, traslata, o meglio, adattata, dal greco topos, viene interpretata come paesaggio, un paesaggio particolare mentre le precisazioni «… a cer-
160
tis locorum proprietatibus imagines exprimentes …» (prendendosi gli elementi
e le immagini da determinate proprietà dei vari luoghi) «… ex veris rebus…»
(come copie di cose vere), sembrano insistere sulla veridicità del paesaggio
rappresentato. Il termine topiaria opera è usato da Plinio (XXXV, 117) per
illustrare la «pittura di genere» («lucos, nemora, colles, piscinas, euripos, amnes,
litora» ecc. – sono quasi le stesse parole di Vitruvio –), inventata, a suo dire,
dal pittore augusteo Ludius o Studius; ma la prima menzione dell’arte topiaria
si trova già in una lettera di Cicerone al fratello (54 a.C.), ove decanta l’opera
del suo giardiniere nella decorazione della terrazza della propria villa.
Nella prima metà del secolo era giunto a Roma da Alessandria il pittore
Demetrios, forse di origine siriaca, certo prima del 164 a.C. quando, secondo
alcune fonti, ospitò Tolomeo VI Filometore in esilio. Egli viene definito come
topographos (Plinio, XXXV, 23, 113, 116); anche se in via puramente induttiva si suppone che abbia introdotto a Roma la visione a volo d’uccello tipica
delle carte geografiche (chorographia). Questa visione sarebbe stata adattata
alla pittura e si ritroverebbe, fra l’altro, nel mosaico di Palestrina, secondo
Coarelli copia di un dipinto, allegoria dell’Egitto dei Tolomei (fine II secolo
a.C.), nella scena che riproduce la lotta avvenuta fra Pompeiani e Nucerini
nell’anfiteatro di Pompei (Napoli, Mus. Arch.), nei monocromi della villa di
Boscoreale e della casa di Livia. Questi ultimi due cicli sono di elevate qualità
artistiche. Anche tali pitture illustrano fatti o immagini per topia, cioè con
elementi di paesaggio, ma con un ethos ed una tecnica diversi da quelli dei
nostri affreschi.
Di fronte a questi dati sulla cronologia e sulla tipologia delle pitture
dell’Odissea, molti, come ho detto, sono gli altri pesanti interrogativi che tuttora esse pongono.
Il primo concerne il committente, proprietario di una dimora che doveva
essere particolarmente sontuosa; forse una villa fornita di un criptoportico,
di un peristilio, o di una vasta aula, che conteneva le pitture. La zona fra
l’Oppio, il Cispio e l’Esquilino, in età arcaica insalubre luogo di necropoli, divenne, soprattutto in età augustea, ma certo anche negli ultimi decenni della
repubblica, elegante zona residenziale, sede di horti famosi, poi passati fra le
proprietà imperiali, come, fra gli altri, quelli di Mecenate e gli horti Lamiani,
dei quali una splendida mostra allestita da M. Cima e E. La Rocca per il Comune di Roma ci ha fatto conoscere sculture, suppellettili ed arredi preziosi.
La ricchissima e nobile famiglia equestre degli Aelii Lamii, forse di origine
formiana, ai quali Orazio dedicò uno dei suoi carmi (Odi, III, 17), vantava
una mitica discendenza da Lamo, il re dei Lestrigoni. La collocazione dei loro
«horti», seppure dai confini non ancora definiti, non consente di cedere senza
riserve ad una facile e seducente attribuzione che potrebbe aiutare a sistemare
due incerti tasselli del nostro lacunoso puzzle; e cioè la singolarità delle prime
scene dei Paesaggi dedicate ai Lestrigoni, il cui re sarebbe stato il mitico antenato dei Lamii, presunti committenti, e la identificazione dei luoghi illustrati
con la costa formiana, sito originario della famiglia. Non è escluso, peraltro,
che i Lamii, prima di creare i loro horti, probabilmente nel 3 d.C., avessero al-
161
tre proprietà sull’Esquilino, un’area ancora abbastanza inesplorata, malgrado
le numerose ricerche di questi ultimi anni. Valerio Massimo (IV, 4,8) menziona una «domuscula» degli Aelii in età tardo repubblicana, che potrebbe essere
stata incorporata più tardi negli horti o trovarsi in tutt’altro luogo, presso il
Campidoglio. Nel 45 a.C. Cicerone (XII, 21, 2; 22, 3) incarica Attico di cercargli una proprietà ove situare un monumento in ricordo della amatissima,
defunta figlia Tulliola e gli addita gli horti Lamiani, quelli di Druso ed i Cassiani (XII, 19, 17); si ritiene che i primi, come gli altri citati, si trovassero alla
zona di Trastevere, né sono certo da identificare con lo «domuscula» ricordata
da Valerio Massimo, ma non se ne può escludere una collocazione sull’Esquilino che converrebbe al nostro monumento.
Sull’Oppio sorgeva anche la casa di Vedio Pollione, decantata – e deplorata
– per la sua magnificenza; ricevuta in eredità da Augusto fu da lui distrutta per
far luogo ad un monumento pubblico, la porticus Liviae. Uno dei primi esegeti dei Paesaggi dell’Odissea, il Matranga, avanzò una suggestiva ipotesi, cioè
che si trattasse proprio della casa di Vedio Pollione, ma studi recenti hanno
riconosciuto i resti della porticus Liviae fra via in Selci, via delle Sette Sale ed
il colle Oppio.
Il secondo quesito riguarda l’autore delle pitture. Non certo il suo nome,
destinato a restare sconosciuto, ma le sue radici, la sua formazione culturale,
e soprattutto lo misura della sua dipendenza da un eventuale modello, il tasso
di originalità della sua creazione. Qualche errore nelle iscrizioni in greco che
qualificano le figure, un uso comune anche ad altre pitture romane (vedi, ad
esempio, l’Ilioupersis nella casa del Criptoportico a Pompei), come Anchialos
con il solo chi greco invece del gamma + chi; Siy … (Sisifo) per indicare, invece, Orione nella Nekyia, Sirenes per Seirenes, hanno fatto pensare ad un artista
di madrelingua non greca. Ma semplice copista, rielaboratore di un modello
ellenistico perduto, o autore originale? Non è stato sempre facile per questo
momento della storia dell’arte figurativa romana, e soprattutto per lo pittura,
districare quanto vi è di autenticamente ed originalmente romano e quanto
sia da riferire a modelli greci perduti e noti solo dalle descrizioni delle fonti
letterarie. E ciò è maggiormente difficile nel caso di pitture di qualità così
elevata.
Come è noto, episodi dei poemi omerici e in particolare dell’Odissea, anche se con una scelta limitata di soggetti, hanno fornito fin dall’età arcaica
materia per opere figurative e letterarie; per l’età classica non si possono non
ricordare l’Ilioupersis e la Nekyia dipinte su tavola da Polignoto per la Lesche
degli Cnidi a Delfi, tramandate dalle descrizioni delle fonti e dalle riproduzioni su opere ceramiche e fin in una tomba traquiniese, quella dell’Orco. Con
l’Ellenismo, però, si assiste ad un rinnovato interesse per questi temi. Licofrone, erudito poeta alessandrino dell’età dei Tolomei (fine III/inizio II secolo
a.C.), ripercorre nella sua Alessandra le vicende di Ulisse: egli affida, infatti,
all’infelice figlia di Priamo, Cassandra, la profezia del tragico destino di Troia
e delle avventure di Odisseo, descrivendo e localizzandone i luoghi, anche se si
discosta in alcuni casi dal testo omerico e attinge ad altri poemi perduti, come
162
la Telegonia dedicata alle storie di Telegono. Inoltre, alla fine del II secolo a.C.
i grammatici del Mouseion di Alessandria si accinsero alla redazione testuale
dei poemi omerici, ed anche questo contribuì al revival omerico testimoniato
dalle illustrazioni delle c.d. coppe megaresi, dalle tabulae iliache, da gruppi
plastici, come testimoniano le sculture di Sperlonga, quelle di Baia ed i rinvenimenti della nave naufragata ad Antikythera.
A Roma l’Odissea era già stata tradotta in versi saturni, ancora nella sua
redazione pisistratea, da Livio Andronico, un liberto proveniente da Taranto
e vissuto nel III secolo a.C. (280/60-200 a.C.); il suo studio costituiva l’esordio della Grammatica nella paideia dei giovani aristocratici romani (Orazio,
Epist. 2.1. 69, ss.). All’inizio del I secolo in una Roma grecizzata esistevano
oltre venti scuole per lo più gestite da schiavi e liberti greci. L’acquisizione
delle grandi biblioteche greche – quella di Aristotele finì nelle mani di Silla –,
la migrazione a Roma di tanti capolavori dalle città della Grecia e del mondo
ellenistico avevano profondamente trasformato i costumi degli uomini della
tarda repubblica. «Erat Italia tum plena Graecarum artium ac disciplinarum…»
(Cicerone, pro Archia, 3, 5). Lucrezio, Catullo e poi Virgilio, Tibullo, Orazio
e soprattutto Ovidio si aprono alle descrizioni della natura ed all’evocazione
delle forme vegetali con una partecipazione e quasi un annullamento panteistico che va ben oltre i modelli della poesia idilliaca ellenistica. Vi contribuiscono la filosofia epicurea, l’esaltazione dell’età aurea dell’umanità, le
suggestioni del paradiso pitagorico, ma anche i grandi giardini che la sapiente
ars topiaria andava creando a Roma in quegli anni.
In questa temperie opera il pittore dei Paesaggi dell’Odissea. Secondo l’acuta lettura che il Blackenhagen (1963) ne ha fatto egli si sarebbe ispirato ad
una megalografia o ad un rotolo dipinto con una narrazione continua, servendosi, cioè, di quel modo narrativo presente già nel piccolo fregio di Telefo
a Pergamo, ma che diventerà uno dei connotati più peculiari dell’arte romana. Il modello sarebbe stato seguito più fedelmente nei primi sei quadri (dai
Lestrigoni a Circe), mentre nella seconda parte si noterebbe una maggiore
approssimazione e sinteticità. Le figure particolarmente allungate, la foggia
di alcuni copricapi femminili, l’esistenza di alcuni papiri del primo periodo
alessandrino con l’illustrazione dei poemi omerici, la proposta di dipingere
scene omeriche nella galleria di una casa di Alessandria in un papiro del I
secolo d.C., hanno fatto propendere molti studiosi, fra i quali anche me, per
l’esistenza di un modello alessandrino. Blanckenhagen inclina piuttosto per
una paternità magnogreca, ad esempio Taranto, ove i temi storici e bellici
trovarono larghi consensi fin dal IV secolo (vasi del pittore di Dario). Moreno pensa piuttosto ad un ciclo pittorico creato a Rodi e nato in quello stesso
ambiente che avrebbe prodotto il Laocoonte e la Scilla; ma non si potrebbe
neppure escludere Pergamo. La recentissima, minuziosa lettura del Biering
riconosce la presenza di tre mani, una delle quali circoscritta ai paesaggi, e si
orienta piuttosto verso maestranze romane.
Vi è quindi una grande incertezza, derivante sia dalla obiettiva carenza di
informazioni e di documentazioni, sia, soprattutto, dalla singolarità di queste
163
pitture. Non dimentichiamo poi che solo dopo la scoperta delle tombe macedoni, soprattutto della megalografia con la caccia di Alessandro e di quella
con il ratto di Persefone, possiamo finalmente percepire quale fosse la qualità
della grande pittura greca.
Altri miti omerici ricorrono con frequenza in molte pitture romane; Plinio (XXXV, 144) riferisce che nel portico di Filippo, portativi forse in età
augustea, si trovavano quadri di Theon di Samo (IV secolo a.C.) con scene
della guerra di Troia; ad essi si ispirarono forse la descrizione virgiliana delle
pitture del tempio di Giunone a Cartagine (Eneide, I, 637-642), quella di
scene dell’Iliade e dell’Odissea che si ammiravano nel portico della casa di
Trimalcione (Petronio, Satyricon, 29) ed i cicli pompeiani nella casa del Criptoportico ed in quella di Decimo Ottavio Quartione a Pompei. Nessun effettivo confronto può istituirsi fra queste, tutte comunque più tarde, e le nostre
pitture. Lo stesso può dirsi per i paesaggi presenti nella casa di Livia (fregio
giallo), in quelli della Casa della Farnesina e della villa di Boscoreale e per le
«pitture di giardino» o i numerosi quadretti idillici o mitologici, anche con
scene odissiache, di III e IV stile, se non il comune riferimento ad un generico
impressionismo nell’esecuzione «compendiaria» delle figure.
Pitture uniche, dunque, nello stile, nella scelta di alcuni soggetti, come
quello dei Lestrigoni, ma anche nella rappresentazione di quelli figurativamente noti. Le figure umane sono totalmente dominate dalla grandiosità del
paesaggio che le avvolge in uno spazio arioso e fantastico. Se non avessero una
loro precisa qualificazione potrebbero essere assenti e la loro assenza nulla toglierebbe all’intensità drammatica della rappresentazione. La riduzione, o, addirittura, l’esclusione della figura umana, diventeranno consuete nei paesaggi
idillico-sacrali di terzo e quarto stile attribuiti a Ludius. Plinio annota che Serapione, pittore alessandrino, apprezzato a Roma, specialista in paesaggi, non
sapeva dipingere la figura umana (XXXV, 113). Come non evocare, allora,
l’immagine di quella città deserta riemersa di recente sulle mura della Domus
Aurea a Roma? Paesaggio puro, un lussureggiante giardino che evoca i paradeisos orientali, è anche quello della Villa di Livia a Prima Porta (30 d.C.).
E veniamo ora ad ulteriore interrogativo, la possibile identificazione del
paesaggio. Si tratta di un paesaggio ampiamente accidentato: porti sinuosi,
rocce a strapiombo, dolci declivi, archi naturali e caverne. I punti di vista dal
quale doveva essere osservato e la sua prospettiva, multipla, sono diversi da
quello dei pilastri e delle architetture che li inquadrano. Quest’autonomia lo
fa apparire sospeso in lontananza, in uno spazio altro, avulso dalla realtà architettonica dell’ambiente e delle stesse fittizie architetture della parete. Abile
accorgimento dell’artista o incapacità di riadattamento del modello preesistente?
A molti studiosi il paesaggio rappresentato è parso del tutto immaginario,
paradigmatico sfondo per quell’ars topiaria allora in auge a Roma. Ove forte
è la carica di trasfigurazione artistica, il vero può avere spesso l’aspetto del
fantastico. Con paragoni molto lontani nel tempo e nello spazio, ma che mi
sembrano pertinenti, basta pensare ai paesaggi di Guilin, fedelmente trasferiti
164
nella pittura cinese e a quello che diviene la campagna romana nei quadri del
grande Claude Lorrain.
Nel passo più volte ricordato Vitruvio insiste sul fatto che si tratta di paesaggi realistici («ab certis locorum proprietatibus immagines exprimentes…» «…
ex veris rebus»), proprio per accentuare la differenza con le figure fantastiche
ed innaturali della moda pittorica del suo tempo. Può essere quindi lecito supporre che il pittore abbia riprodotto paesaggi realmente esistenti. Il Matranga
che, come si è detto, fu uno dei primi esegeti di questo ciclo e non si poneva
il problema se fosse un originale o una copia, identificò la città lestrigonia di
Lamo con Terracina. Anche il Grimal vi riconobbe la costa fra Gaeta e Terracina, dove si trovavano le grandi ville romane, arricchite da quegli «operosa
antra» (Properzio, El. III, 2, 11-14), dei quali la grotta di Sperlonga, ma anche
il ninfeo di Baia, sono gli esempi più illustri. Ove operosus sta per artificiale.
Strabone ricorda che sulla costa laziale «si aprono immense caverne a cui sono
state annesse vaste e sontuose residenze» (Geografia, V, 3, 6).
Si può supporre che il pittore (o pittori) di buon livello che ha trasferito
sulle pareti della ricca dimora patrizia alle pendici dell’Esquilino un grande
ciclo pittorico ellenistico vi abbia anche aggiunto di suo un paesaggio familiare e vi abbia trasferito quella nuova concezione della natura e dell’uomo nella
natura che egli aveva assimilato dalla raffinata cultura letteraria e filosofica
romana del suo tempo? Una cultura, peraltro, di matrice greca.
O si tratta piuttosto di scenari fantastici, paradigmatici di quello che un
alessandrino, avvezzo ai bassi e piatti lidi del Delta, poteva immaginare come
un accidentato paesaggio roccioso?
O forse. era un magnogreco al quale erano ben noti gli aspetti impervi di
alcune delle nostre coste?
O, con un’ipotesi non nuova, ed avanzata anche nel recente studio del
Biering, possiamo azzardare che sia una pittura originale nata in quel clima di
forte ellenizzazione di cui abbiamo parlato, anche se la cultura archeologica è
tuttora spesso renitente a concedere alla pittura romana di questi tempi un’autonomia di scelte narrative mitiche di un livello così elevato? Il pittore avrebbe
seguito l’indicazione del committente privilegiando fra le avventure di Ulisse
quelle che si erano consumate sul suolo italiano, con particolare insistenza
sull’incontro con i Lestrigoni.
Gli interrogativi rimangono aperti; le risposte, come si è visto, possono
essere molte e appunto per questo non soddisfacenti; ma la pittura antica,
malgrado tante scoperte ed indagini, rimane ancora un libro al quale troppe pagine sono state strappate perché possa risultare del tutto decifrabile. Le
antichità, diceva Francis Bacon, sono «storia senza volto, ovvero qualche residuo di storia casualmente sfuggito al naufragio del tempo». Sebbene da allora
il fervore delle ricerche, il numero delle scoperte e l’acume degli archeologi
abbiano gettato non poca luce sul passato, questo giudizio non ha del tutto
perso la sua validità.
Eppure questi venerandi brandelli di quella che fu un’arte considerata degli
antichi eccelsa, sembrano la parafrasi del motto oraziano ut pictura poësis. In-
165
fatti, pur nella consapevolezza delle ambiguità e delle delusioni che sollevano
sia confronti analogici che la trasposizione di un linguaggio poetico o retorico
dalla letteratura alle arti figurative, ritengo che a questi quadri potrebbe ben
convenire il motto parafrasato: ut poësis pictura.
dal convegno del 6 settembre 2002:
La Grotta di Tiberio e il problema del Laocoonte*
Bernard Andreae
1. «La cronologia del Laocoonte rende necessario confrontarsi con le sculture di Sperlonga». Sceglierei come sottotitolo del mio contributo questa frase
dal recente libro «Laocoonte. Fama e stile» di Salvatore Settis, che domani, in
riconoscimento dei suoi meriti scientifici, riceverà il Premio Grotta di Tiberio, perché in questo interessantissimo libro egli ha fatto – per primo – una
constatazione molto importante sia per il problema del Laocoonte che per
quello delle sculture di Sperlonga. Questo problema esiste dal 1957, quando
si è scoperta a Sperlonga la firma dei tre scultori rodiesi Athenodoros, Hagesandros e Polydoros che, secondo Plinio, hanno scolpito in marmo anche il
Laocoonte.
Salvatore Settis ha messo il dito sul punto in cui Plinio, nel suo famosissimo, ma anche tormentato, passo della Storia naturale (36, 37) confronta i
tre materiali: colori, bronzo e marmo, con cui si possono fare opere d’arte e
dei quali egli tratta nel trentaquattresimo, trentacinquesimo e trentaseiesimo
libro. Questa constatazione è tanto evidente che mi stupisco per il fatto che
nessun altro sia arrivato prima a questa conclusione. Salvatore Settis traduce il
breve passo di Plinio come segue: «...come nel caso del Laocoonte che è nella
casa di Tito, opera da giudicarsi al di sopra d’ogni altra, della pittura come
della statuaria, cioè scultura in bronzo». Settis sottolinea che «non può esservi
alcun dubbio che statuaria designi qui la scultura in bronzo, come risulta specialmente dalla struttura dell’intero passo pliniano, che si apre nel paragrafo
15 su un confronto fra la scultura in marmo, e altre artes, precisamente la
pictura e la statuaria. Pittura, bronzo, marmo: in questa triade si concentra il
problema da trattare.
Si può dire che fino alla scoperta di Sperlonga nel 1957 non esisteva un
problema del Laocoonte. Non era conosciuto nessun altro lavoro dei tre artisti rodiesi e si poteva giudicare il gruppo del Laocoonte solamente secondo
criteri intrinseci. Ma, d’un tratto, si veniva a conoscenza di cinque altri gruppi
scultorei, eseguiti dagli stessi scultori, che si dovevano confrontare tra di loro
e con il gruppo del Laocoonte: il gruppo di Scilla, il gruppo del Polifemo,
* Relazione riprodotta parzialmente con autorizzazione dell’autore.
166
il gruppo del ratto del Palladio, il gruppo di Filottete – purtroppo molto
frammentario – e il gruppo cosiddetto del Pasquino. Quest’ultimo è particolarmente interessante, perché ne conosciamo molte altre repliche. Anche
degli altri gruppi esistono delle repliche, ma nel caso del gruppo del Pasquino
ciò pone una domanda cruciale: può essere il gruppo del Pasquino trovato a
Sperlonga l’originale o non è, come del resto tutte le altre repliche del Pasquino, anch’esso una copia di un originale perduto? A questa domanda si può
rispondere in modo sicuro.
Paragonando i frammenti delle gambe dell’eroe morto di Sperlonga con
le gambe delle altre repliche si constata che solo nella replica di Sperlonga il
tendine di Achille del piede sinistro è tagliato. Ciò vuol dire che il gruppo
Frammento ritenuto
«Piede di Achille»,
Sperlonga, Museo
archeologico.
del Pasquino, che in tutte le altre repliche rappresenta Menelao con la salma
di Patroclo, a Sperlonga è stato trasformato in una rappresentazione di Ulisse
con il corpo morto di Achille. Questa scoperta porta alla deduzione: la replica del gruppo del Pasquino di Sperlonga non può rappresentare l’originale
della creazione, ma piuttosto una copia in marmo di un originale ellenistico
bronzeo.
La seconda domanda è: se questo vale anche per gli altri gruppi scultorei di
Sperlonga e di conseguenza perfino per il gruppo del Laocoonte? Tale ultima
conclusione – cioè che anche questo gruppo scultoreo, il più famoso del mondo, sia una copia – sembra tanto ardita che la scienza finora non si è potuta
decidere. Da una generazione è in atto una guerra scientifica tra i sostenitori
dell’originalità del Laocoonte e quelli che sono del parere che tutte queste
sculture siano copie romane in marmo di capolavori ellenistici, che, secondo
la nostra conoscenza, dovevano essere di bronzo. Tutti gli argomenti sono stati
167
esposti ripetutamente e nessuno può aspettarsi di convincere l’altro se non
presenta un argomento completamente nuovo. Ciò sembra molto difficile
perché dei presunti originali bronzei sappiamo solo dalla letteratura. Furono
tutti distrutti e fusi per coniare monete. Allora come possiamo pervenire ad
una soluzione?
Sono molto grato di poter oggi rendere pubblicamente noto un rarissimo
gruppo bronzeo ellenistico che è certamente un originale dell’inizio del II
sec. a.C. e che sembra stilisticamente alquanto simile al gruppo di Scilla di
Sperlonga.
L’interessante gruppo bronzeo raffigura un Tritone che abbraccia un cavallo marino: si trova ora al Bible Land Museum di Gerusalemme. È alto circa 27
centimetri e presenta alcune peculiarità. Il Tritone, che mette il braccio sinistro intorno al collo di un cavallo marino, ha una sola coda mentre le gambe
anteriori assumono la forma di pinne. La grande coda di pesce si sviluppa
orizzontalmente dai glutei, alzandosi con robuste spire nell’aria. Gli arti inferiori spuntano sotto un triplice grembiule di pinne. La gamba sinistra si incrocia con la zampa destra anteriore del cavallo marino; la destra, all’altezza del
ginocchio, è ripiegata indietro. Il corpo del Tritone, dalla sommità della testa
fino al ventre, ha le forme di un giovane uomo. Capigliatura ed espressione
del volto rassomigliano ai ritratti di Alessandro Magno, specialmente all’Erma
Azara del Museo del Louvre. Egli guarda fissamente a destra, il braccio destro
è teso indietro verso il basso, afferrato alla coda del cavallo marino, che tiene
stretto per il collo col braccio sinistro.
Sembra chiaro che il creatore di questo gruppo ha dato al Tritone le due
particolarità rilevate per meglio integrarne la figura con quella del cavallo
marino che gli ha posto accanto. Se avesse dato al Tritone la consueta coppia
di code di pesce al posto delle gambe, o la forma di un Ittiocentauro, quale il
Tritone presenta per esempio nella risalita ovest dell’Ara di Pergamo, avrebbe
dovuto rappresentare nello stesso gruppo tre code di pesce e quattro zampe di
cavallo, soluzione questa innegabilmente complicata.
Questa osservazione apre l’altra domanda: per quale motivo il creatore del
gruppo ha voluto rappresentare un Tritone nell’azione di costringere con il
braccio sinistro un cavallo marino, che si muove ostinatamente, a seguirlo,
mentre con il suo sguardo acuto egli sembra cercare la strada?
Risponde a questa domanda la sbalorditiva constatazione, che il gruppo
scultoreo si rifà a una metafora poetica tratta dagli Argonauti di Apollonio
Rodio.
Nel quarto libro delle Argonautiche (IV 1589-1624) il poeta descrive una
grandiosa scena, in cui Tritone accompagna la nave Argo dal lago da lui dominato verso il mare aperto, per mezzo di un’immagine: egli paragona la nave
a un cavallo veloce, híppon thoón, un destriero che uno stalliere accompagna
all’ippodromo.
Il nostro movimentato gruppo si presenta come la trasposizione diretta
della metafora poetica in un gruppo scultoreo. Per capire meglio il significato
di questa scoperta, sembra necessario richiamare alla memoria il contesto in
168
cui Apollonio Rodio, con un’accelerazione impressionante, arriva all’immagine poetica.
Al ritorno dal viaggio nella Colchide gli Argonauti, come punizione per l’assassinio di Apsyrtos, fratello di Medea, vengono spinti da Zeus alla
deriva nel deserto libico. Solo l’aiuto di Anfitrite,
sposa di Posidone, potrà salvarli dalla disperata
situazione nelle sabbie del deserto. Ciò racconta
Apollonio Rodio nella parte centrale del quarto
libro delle Argonautiche, scritto intorno all’anno
240 a.C. (IV 1363-1379).
In precedenza, Anfitrite aveva sciolto il bel
cocchio di Posidone (IV 1355 sg.). Il carro di
Posidone è noto da molte rappresentazioni. Assumiamo come esempio il mosaico della Casa del
Granduca di Pompei, ora al Museo Nazionale di
Napoli (Inv. 10007), perché si tratta di un’opera
approssimativamente della stessa epoca del gruppo bronzeo di Gerusalemme. Il carro di Posidone
non è mai tirato da cavalli normali, ma sempre da
cavalli marini il cui corpo finisce in una coda di
pesce. Ciò si deve tener presente, quando si leggono i versi seguenti (IV 1363-1379), nei quali
viene descritto l’aiuto di Anfitrite, che mostra agli
Argonauti una via d’uscita dal deserto libico:
«Così disse, e tutti stupirono a sentire. Ed ecco che si verificò per i Minii
il più grande dei portenti. Dal mare balzò sulla terra un cavallo immane,
enorme, con l’aurea criniera volteggiante sul collo; scosse dal morso l’abbondante schiuma e si slanciò in corsa, con gli zoccoli simili al soffio del vento.
Immediatamente Peleo esultante parlò ai compagni radunati: ‘Io credo che il
cocchio di Posidone è stato ora sciolto per mano della sua sposa; quanto poi
alla madre, prevedo che altro non sia che la nave, che portandoci senza tregua
nel suo ventre soffre un penoso travaglio. Ebbene, con forza incrollabile e salde spalle noi dovremo caricarcela addosso e la trasporteremo per questa terra
sabbiosa, là dove il veloce destriero si è già slanciato in corsa. Questi non vorrà
ritirarsi nel deserto, e penso che le orme ci indicheranno qualche percorso
verso il mare’».
Gli Argonauti fanno quanto Peleo raccomanda, seguono il cavallo del
cocchio di Posidone e portano sulle loro spalle la nave per dodici giorni e
dodici notti, attraverso il deserto sabbioso della Libia, fino al Lago del Tritone. Dopo altre difficili vicende, tra cui l’incontro con le Esperidi, che Eracle
ha derubate delle loro mele, e dopo la morte decisa dagli immortali per i
compagni Kanthos e Mopsos, tornano di nuovo alla nave e si fanno portare
lontano dal vento del sud, senza però trovare l’uscita verso il mare aperto. I
loro tentativi sarebbero rimasti vani, se non avessero sacrificato, per il felice
Piccolo gruppo bronzeo
di Tritone con un cavallo
marino, alto 26,8 cm e
largo 12,7 cm,
Gerusalemme,
Bible Lands Museum.
169
ritorno, al demone di questa regione il grande tripode di Apollo, che avevano portato con sé da Delfi. Apparve allora Tritone, «dominatore di questo
grande paese» (IV 1551 seg.). In questa prima apparizione Tritone assume,
come il poeta sottolinea, le sembianze di un uomo. Seguono i versi: «Tritone,
con il suo grande tripode, fu visto tuffarsi nel lago, ma nessuno poi si accorse
di come egli con il tripode divenne invisibile. Ma il loro cuore gioì, perché
uno dei beati li aveva incontrati con spirito favorevole, e invitarono Giasone
a scegliere e sacrificare la bestia più prestante del gregge, intonando un inno
di lode. Subito egli la scelse, e sollevatala la sgozzò a poppa, e disse pregando: ‘Dio che apparisti al limitare di questo lago, sia che fanciulle marine ti
chiamino Tritone, la miracolosa creatura marina, sia che ti chiamino Forci o
Nereo, sii a noi propizio, concedici l’esito desiderato per il nostro viaggio’.
Così pregando, recise la gola alla vittima e dalla poppa la gettò nell’acqua:
subito il dio emerse dagli abissi, apparendo nel suo vero aspetto. Come quando un uomo allena un veloce cavallo sull’ampio circuito della pista, e trotta
tenendo la docile bestia per la folta criniera, seguito dal destriero che drizza
fieramente il collo e in risposta fa tinnire in bocca i freni sfavillanti mordendoli, così il dio, reggendo la parte inferiore della nave Argo, la tirava in avanti
verso il mare. Il suo corpo, dalla sommità del capo e intorno alle spalle e dalla
cintola fino al ventre, meravigliosamente somigliava nelle forme a quello dei
beati: ma da sotto i fianchi si allungava da una parte e dall’altra una coda
biforcuta, da mostro marino, e fendeva la superficie delle acque con la spina
dorsale, che in basso si divideva in curvi pungiglioni, simili ai corni della
luna. Guidò la nave finché la fece arrivare al mare, e quindi si immerse nel
vasto abisso: gli eroi levarono un grido, vedendo con i loro occhi il grande
prodigio. Lì v’è il porto Argo con i segni del passaggio della nave e vi sono
altari in onore di Posidone e Tritone, perché quel giorno si fermarono. Poi
verso l’alba, tenendo a destra quella terra desertica, a vele spiegate, filarono al
soffio di Zefiro» (IV 1589-1624).
Sembra fuori dubbio che il creatore del gruppo bronzeo di Gerusalemme
conosceva questi versi e ha cercato, con grande intuito, di tradurli in una
figura plastica. Bisogna ammettere che ciò appare un caso unico. Non si tratta dell’illustrazione di un racconto prefigurato come nelle rappresentazioni
consuete di racconti mitici, bensì della trasposizione in immagine di una metafora poetica desunta da un racconto. Ciò può sembrare strano, perché già
conosciamo una rappresentazione della nave Argo accompagnata da Tritone
nel mare aperto. Si tratta di una gemma incisa, una corniola del tardo III sec.
a.C., ora nel Museo Ingauno di Albenga. Questa illustrazione bidimensionale del racconto di Apollonio Rodio mette in evidenza come una rappresentazione plastica, in tre dimensioni, per ragioni di proporzioni, oltre che
prospettiche, non fosse consigliabile, anzi impossibile: la nave intera sarebbe
stata troppo lunga. Perciò l’artista si è fermato a questo punto della metafora
che il poeta aveva usato per dar forza al suo racconto; sostituendo un cavallo
marino alla nave, la figura non era troppo lunga per accostarla a Tritone in un
gruppo plastico.
170
Nonostante tutto, si potrebbe dubitare che si tratti veramente di una raffigurazione della metafora. Non potrebbe trattarsi semplicemente di Tritone che
gioca con un ippocampo? Ciò non si può escludere, ma non sembra probabile,
per le seguenti ragioni. Non esistono, per quanto io sappia, rappresentazioni
simili. Tritoni e ippocampi sono molto frequenti nelle rappresentazioni di un
tiaso marino; tuttavia non sono posti mai in un contatto così ravvicinato. Si
ha inoltre l’impressione che il creatore del gruppo di Gerusalemme fosse più
profondamente impressionato dalla metafora inventata dal poeta per rinvigorire il proprio racconto, che non dalla scena dell’accompagnamento della nave
trasformata nell’insolita immagine. Sottolineo che egli, per tener conto delle
proporzioni, non avrebbe potuto rappresentare in un piccolo bronzo l’intera
nave.
Questo argomento porta, infine, a un altro gruppo scultoreo non dissimile
da quello di Gerusalemme, nel quale è rappresentata però come pars pro toto
la poppa di una nave, tagliata all’altezza dei remi. Si tratta del grande gruppo
marmoreo di Scilla rinvenuto a Sperlonga, dove un mostro con duplice coda
di pesce, che si torce nell’aria, appare accanto a una nave, di cui per ragioni
di prospettiva si vede la sola parte posteriore. Questo gruppo viene ritenuto
da parte di molti archeologi un originale dell’epoca di Augusto; sarebbe da
datare intorno agli anni venti del I sec. a.C., mentre io sono del parere, più
volte ribadito, che si tratti di una copia di marmo dell’epoca di Tiberio (anni
14-19 d.C.) tratto da un originale bronzeo esposto a Rodi intorno al 180 a.C.
come monumento per i caduti nella guerra contro i pirati.
Nel sesto secolo della nostra era questo monumento fu trasportato a Costantinopoli e collocato nel grande ippodromo. Nel 1204-5, durante la Quarta Crociata, fu distrutto e fuso dai Franchi per coniare delle monete, ma noi
ne conosciamo l’aspetto da un mosaico dell’inizio del I sec. a.C., trovato a
Gubbio e conservato al Museo Civico di Perugia. La testimonianza del gruppo di Scilla di Sperlonga è molto importante per la storia dell’arte, perché è
firmato dagli stessi scultori rodiesi che, secondo Plinio (Historia Nat. 36, 37),
avevano eseguito anche la copia in marmo del Laocoonte trovata sul Monte
Oppio a Roma e conservata nei Musei Vaticani.
Quanto più attentamente si paragona il gruppo di Gerusalemme con la
ricostruzione del gruppo di Scilla conservata al Museo della Civiltà Romana
a Roma-EUR, più si vede che questi due gruppi – nonostante le intrinseche
diversità – sono molto simili nel modo di creare un’opera d’arte e nel modo
di comporre un gruppo costituito da elementi contrastanti. In tutti e due i
gruppi ritorna una grande figura dominante, affiancata da un elemento subordinato.
L’evidente rassomiglianza del piccolo gruppo bronzeo, che è certamente un
originale ellenistico dell’inizio del II sec. a.C., al grande gruppo marmoreo di
Sperlonga è una prova decisiva contro la tesi che il gruppo di Sperlonga sia la
copia in marmo di un modello ellenistico. Finalmente conosciamo – anche
se in proporzioni ridotte – un analogo originale ellenistico: il gruppo bronzeo
di Tritone con l’ippocampo. Non è più una pura supposizione sostenere che
171
alla base della Scilla di Sperlonga stia un modello bronzeo, se ora disponiamo di un originale bronzeo della medesima epoca in cui fu creato anche il
gruppo di Scilla. Lo stesso vale anche per il gruppo di Laocoonte, definito da
Plinio, in Historia naturalis 36, 37, «opus omnibus et picturae et statuariae artis
praeferendum», perché era di marmo, materiale che per la rappresentazione
del Laocoonte gli piaceva di più della pittura (pictura) o della bronzistica (ars
statuaria). Plinio verosimilmente conosceva almeno un Laocoonte in bronzo,
lo stesso originale, che doveva essere del tutto uguale al gruppo marmoreo.
Altrimenti come avrebbe potuto paragonarne l’effetto, per dichiarare che egli
preferiva il marmo?
Secondo quanto è possibile ricostruire circa l’originale bronzeo del gruppo
di Scilla, si può concludere che esso era opera di una officina rodia. A causa
della stretta parentela del gruppo di Scilla con il piccolo gruppo bronzeo di
Gerusalemme, rappresentante Tritone con la nave Argo in forma di cavallo
marino, si può forse arrivare alla conclusione, che anche quest’opera fa parte
dell’arte rodia dell’inizio del II sec. a.C. Ma siccome non è tuttora possibile
definire con precisione le particolarità dell’arte rodia in età ellenistica in confronto allo stile che era in uso ad Atene, Pergamo e in altri centri dell’epoca,
questa distinzione rimane solo un’ipotesi. Più importante deduzione è che,
con il piccolo gruppo scultoreo di Gerusalemme, veniamo a conoscere per la
prima volta un bronzo ellenistico originale, che potrebbe considerarsi un modello operativo per la creazione del gruppo di Scilla, di cui è conservata solo
la copia in marmo di Sperlonga.
2. Chiudo il mio intervento occupandomi dell’ultima questione: se sia
possibile stabilire in quale epoca e per quale motivo fu eseguita la decorazione
scultorea della grotta di Sperlonga Davanti alla grotta si trova un’isola-triclinio sulla quale il proprietario della Villa poteva banchettare con i suoi ospiti.
Il posto dell’oste di solito era in cornu sinistro, nell’angolo sinistro di tre letti
in forma di U, perché solo in questo punto l’oste non aveva nessuno alle sue
spalle. Chi era sdraiato in questo punto aveva una veduta molto interessante.
Per un solco obliquo praticato nella roccia solo lui, guardando in alto, vedeva
come l’aquila di Giove portava il Ganimede sopra l’orlo della grotta giù al triclinio per servire da coppiere ai banchettanti. L’oste doveva avere la sensazione
di essere Giove sulla terra. L’unico che poteva dire questo di sé era l’Imperatore. Siccome la Villa di Sperlonga dagli scrittori antichi viene definita praetorium speluncae, il che significa posto di comando dell’Imperatore Tiberio,
dobbiamo pensare che il proprietario della grotta fosse questo imperatore,
Claudio di nascita e figlio adottivo di Cesare Augusto*.
[...]
* L’argomento viene ripreso da B. Andreae a Sperlonga nella “Conversazione” a pag. XXVII
del presente volume.
172
Riflessioni sul Laocoonte*
Salvatore Settis
Sono particolarmente emozionato nel parlare oggi in questa sede, proprio
in mezzo alle sculture di Sperlonga. Mi sembra quasi che questi antichi marmi, che se sapessero parlare potrebbero rispondere a tanti nostri interrogativi,
possano ascoltarmi; e ne temo il giudizio. Vedo fra il pubblico molti colleghi;
nessuno di essi, credo, sarà sorpreso nel constatare che non concordo con le
posizioni di Bernard Andreae, ma tutti sanno che la nostra amicizia non è
stata mai scalfita dal nostro disaccordo.
Sono anche molto grato per il premio che mi verrà dato domani, che ha
offerto l’occasione di questo incontro e di questa visita a Sperlonga, straordinariamente accogliente e piacevole. Nel presentare la mia relazione non ripeterò il contenuto del mio libro recente, già cortesemente menzionato dalla
dottoressa Licia Borrelli Vlad nella sua relazione introduttiva, ma cercherò di
seguire un filo almeno in parte diverso. La mia comunicazione sarà suddivisa
in due parti: la prima sarà rivolta ai più esperti del problema del Laocoonte, un
problema che, come è noto, è strettamente collegato a Sperlonga, senza ovviamente trattarne tutti gli aspetti ma solamente alcuni; nella seconda vorrei
discutere invece la fortuna del Laocoonte nel XX secolo, per esempio presso gli
artisti e nella cultura popolare.
Il problema della cronologia e dell’interpretazione del Laocoonte è molto
complicato e richiede, come ci ha ricordato Bernard Andreae, l’esercizio della
nostra abilità congetturale. Essa tuttavia ha delle regole e dei limiti molto
severi: per ricordarne solo uno, è stato calcolato – ma è un calcolo molto
difficile – che meno del cinque per cento della letteratura greca e latina si è
conservato fino a noi. E stato anche calcolato – calcolo ancor più difficile –
che abbiamo meno dell’uno per cento della scultura prodotta dagli antichi, e
di sicuro meno dell’uno per diecimila della pittura prodotta dagli Antichi. In
queste condizioni, con una documentazione tanto frammentaria e lacunosa,
gli argomenti ex silentio non valgono nulla, e anzi è ben raro che si possano
raggiungere delle certezze. Dobbiamo quindi svolgere delle linee di argomentazione in cui si cerchi di esplicitare al massimo ciò che crediamo di aver
capito, perché gli altri possano esercitare il debito controllo, e contrapporre congettura a congettura, interpretazione a interpretazione. Quando, poi,
sussistono linee di argomentazione che conducono in direzione opposta (e
questo è il caso della cronologia del Laocoonte) non vi è assolutamente da stupirsi. Può darsi che un giorno una delle due ipotesi, sulla base di dati nuovi, si
imponga sull’altra, o che emerga un inatteso elemento «conciliativo», o infine
che un nuovo documento porti verso una direzione sino allora imprevista.
Vorrei anche avvertire che la diversità di approccio fra Bernard Andreae e
me a proposito del Laocoonte, e dunque la diversità delle cronologie proposte,
risente di un problema metodologico molto più generale, legato al contrasto
* Relazione riprodotta parzialmente con autorizzazione dell’autore.
173
fra datazione stilistica e datazione documentaria. È un problema che nella
storia dell’arte, antica o post-antica, si pone assai sovente. Uno studioso, dal
punto di vista dello stile, afferma che una certa opera sia, poniamo, del 1532,
e successivamente qualcun altro tira fuori dagli archivi un documento da cui
risulta che esso risale a cinque anni prima o a dieci anni dopo. Chi ha ragione,
a questo punto? L’occhio del conoscitore o il documento? La cosa non è sempre chiara a prima vista, anzi a volte lo diventa solo dopo molta discussione,
che può durare decenni. La prima mossa, però, dev’essere sempre quella di
rilevare le differenze, le contraddizioni, le incongruenze fra le due strategie di
datazione, per cercare in seguito di soppesarle, di conciliarle se possibile, o –
in alternativa – di fare una scelta e di argomentarla. Vorrei ricordare qualche
esempio che mi è capitato di studiare.
Un cassone ferrarese ora in una collezione americana, che presenta storie
della leggenda medievale di Traiano, negli anni Trenta fu datato da uno studioso tedesco, in base a criteri esclusivamente stilistici, «intorno al 1470».
Ebbene, quando qualche anno fa studiavo quel cassone, ho potuto identificare lo stemma che vi è posto al centro, e che combina le armi di due famiglie
ferraresi (gli Estensi e i Romei). Ora, siccome risulta un solo matrimonio tra le
due famiglie, che si è verificato nel 1472, l’elemento documentario che avevo
individuato confermava puntualmente (in questo caso) la diagnosi stilistica
del conoscitore.
174
Prendiamo un altro caso, quello della pala di Castelfranco di Giorgione,
sulla cui cronologia sussiste una forte disputa. Per molto tempo la si è datata
intorno al 1504, ma poi alcuni studiosi ne hanno anticipato la cronologia al
1499-1500. Chi ha ragione? Si dà il caso che esista un’evidenza documentaria
secondo cui la pala fu commissionata dopo la morte del capitano di ventura
Matteo Costanzo, avvenuta fra il 1503 e il 1504. Il mio punto di vista è che
questa argomentazione sulla base dei documenti «batte» l’analisi stilistica, la
quale deve adattarsi ad essa. In altri termini, in caso di conflitto fra datazione
stilistica e datazione documentaria, in linea di principio la priorità spetta, io
credo, alla datazione documentaria.
Terzo caso (e ci stiamo allontanando molto
da Sperlonga e dall’arte
antica, ma il problema
di metodo è il medesimo). Nessuno conosceva il Caravaggio meglio
di Roberto Longhi, il
quale tuttavia ha completamente sbagliato la
datazione dei due grandi teleri della Cappella
Contarelli in San Luigi
de’ Francesi. Egli li datava al 1590, ma una documentazione imponente, venuta fuori più tardi,
dimostra che le pitture in
questione sono del 1600.
Longhi aveva dunque
sbagliato di dieci anni.
Dovremo biasimarlo per
questo? No, perché nella
ricerca storica si procede,
è ovvio, per successive approssimazioni. Ma cito questo esempio per ricavarne un’altra «morale della favola»: lo stesso Longhi formulava il suo giudizio
stilistico agganciandosi, per indicare una data, a un elemento documentario,
e cioè l’iscrizione su porfido (sul pavimento della cappella) che reca la data
1590. Longhi riteneva che l’iscrizione fosse stata posta al termine dei lavori
nella cappella, ma una inequivoca documentazione dimostra che essa è stata
posta in realtà all’inizio, e che i quadri di Caravaggio arrivarono alla fine. In
altri termini, anche la datazione su base stilistica, anche lo sguardo del conoscitore più acuto devono appoggiarsi pur sempre a una base documentaria,
implicita o esplicita che sia.
Qui e nella pagina a fronte:
«Gruppo del Laocoonte»,
Roma, Musei Vaticani.
175
Torniamo al Laocoonte. Se vogliamo riferirci al principio metodologico
sopra enunciato ed esemplificato, la domanda è: esistono documenti che
riguardino la cronologia degli scultori del Laocoonte? Io credo di sì. Plinio,
che oggi è stato ricordato più volte, ci dà il nome degli scultori di Rodi
che furono gli autori del Laocoonte: Agesandro, Polidoro e Atenodoro. Ora,
questi stessi scultori sono documentati da 15 iscrizioni, alcune delle quali
provengono da Rodi, altre dall’Italia, fra cui la più importante, quella di
Sperlonga. Tra queste iscrizioni una in particolare, di Rodi, è datata esattamente al 42-41 a.C., e contiene la firma di uno di questi scultori. Un’altra
iscrizione, collegata alle precedenti, è datata al 60-50 a.C. Non abbiamo qui
il tempo per una discussione più approfondita su queste datazioni, mi basti
dire che sono certe e non contestate da nessuno. Ecco quindi un elemento
documentario con cui fare i conti. Sono possibili varie combinazioni per
«mettere insieme» i dati anagrafici offerti dalle iscrizioni e tradurli in un
albero genealogico che includa almeno due degli scultori del Laocoonte (che,
come è noto, sono anche quelli di Sperlonga). A un estremo (ipotesi «pessimistica»), i nostri scultori possono aver appartenuto a diverse famiglie, fino
a quattro; all’altro estremo, potrebbero essere stati tutti membri di una stessa
famiglia (ipotesi «ottimistica»). Quel che importa è però che, nell’un caso
come nell’altro, i dati e la cronologia delle due iscrizioni non cambiano, e ci
portano fra il 60 e il 40 a.C.; il Laocoonte dovrebbe essere stato scolpito poco
dopo, quando, si può presumere in base a elementi di contesto, quei maestri di Rodi dovettero trasferirsi in Italia, forse a Roma. Potrebbe trattarsi di
coincidenze, di omonimie? È possibile. Ma è probabile? Assolutamente no.
Il criterio che propongo di usare, in mancanza di meglio, è un calcolo delle
probabilità, che porta inevitabilmente alla conclusione che i tre scultori di
Rodi erano ancora attivi nella loro isola fino al 42 a.C. Questo è dunque un
argomento che non credo sia possibile ignorare.
Plinio è la sola fonte letteraria che menzioni il Laocoonte (Naturalis Historia, xxxvi.37-38); ma sulla cronologia non dice assolutamente nulla: dice solo
dove la scultura si trovava al suo tempo, ossia nella casa di Tito imperatore,
il che non vuole dire nulla sulla cronologia. Il fatto che, per esempio, Tiberio
avesse l’Apoxyomenos nel suo cubicolo non ci dice affatto che l’opera fosse del
tempo di Tiberio. In quel caso conosciamo la cronologia della statua perché
conosciamo bene, da tante altre fonti, la cronologia di Lisippo. Nel caso del
Laocoonte, la cronologia dei suoi autori non risulta, io credo, da Plinio; ma
risulta dalle iscrizioni, ed è da quelle che dobbiamo partire.
Ma c’è un altro punto di vista – e qui il dialogo con Andreae continua –,
e cioè che, invece, il passo di Plinio fornisca indizi utili a stabilire la cronologia del Laocoonte. Ora, Andreae sa molto meglio di me che i punti sicuri di
aggancio della cronologia nell’arte ellenistica sono ben pochi. In un articolo
del 1989 egli stesso indica solo cinque punti d’appoggio in tutto il primo
secolo a.C.
Nella discussione tra noi sul passo famoso di Plinio sul Laocoonte, devo
dire, le differenze di punti di vista si sono molto ridotte con il passare del tem-
176
po. Sul fatto che la parola statuaria designi la scultura in bronzo, per esempio,
abbiamo sempre concordato, e credo che ormai su questo ci sia generale concordia fra gli studiosi. Ma, per discuterlo meglio, ricordiamo qui il passo di
Plinio, che riporto con la mia traduzione italiana:
Plinio, Naturalis Historia, XXXVI.37
Nec deinde multo plurium fama est, quorundam claritati in operibus
eximiis obstante numero artificum, quoniam nec unus occupat gloriam
nec plures pariter nuncupari possunt, sicut in Laocoonte, qui est in Titi
imperatoris domo, opus omnibus et picturae et statuariae artis praeferendum. Ex uno lapide eum ac liberos draconumque mirabiles nexus
de consilii sententia fecere summi artifices Hagesander et Polydorus et
Athenodorus Rhodii.
«Né sono molti altri [scil.: scultori in marmo] quelli che hanno meritato la fama: anche nel caso di opere eccelse, quando vi abbiano
contribuito più artisti ciò nuoce alla celebrità dei singoli, poiché né
uno solo di essi può prendere per sé tutta la gloria, né è possibile citarli
tutti alla pari. E questo il caso del Laocoonte che è nella casa di Tito
imperatore, opera da giudicarsi al di sopra d’ogni altra, della pittura
come della statuaria (scultura in bronzo). Lo scolpirono in un sol blocco
di marmo, coi figli e i mirabili viluppi dei serpenti lavorando insieme
di comune intesa, i sommi artisti, Hagesandros, Polydoros e Athenodoros Rodii»
Guardiamo ora le tre espressioni sub iudice di quel passo di Plinio. Primo: vi si dice che il Laocoonte fu scolpito ex uno lapide. In un primo tempo
Andreae affermava che ex uno lapide volesse dire «di marmo» in opposizione
al bronzo; e che, dunque, si volesse qui dire che il Laocoonte è una copia (in
marmo) da un originale (in bronzo). Nei suoi ultimi studi, tuttavia, accogliendo completamente la mia analisi del topos delle sculture «scolpite in un
sol blocco» nelle letterature greca e latina, Andreae accetta che l’espressione
significa «in un solo blocco di marmo». Su questo punto, dunque, non c’è
più fra noi nessun disaccordo, il che vuol dire che non c’è in queste parole di
Plinio nessuna indicazione né sulla data del Laocoonte né sulla sua natura di
originale o di copia. Secondo punto: i tre scultori, dice Plinio hanno operato
de consilii sententia. Qui Andreae offre due traduzioni diverse: «di comune
accordo», s’intende fra i tre scultori; o «secondo un consiglio che viene dato
dall’imperatore», ossia il Laocoonte sarebbe stato creato sulla base di una deliberazione del Consilium principis. Ora, non si conosce nessun caso in cui il
Consilium principis abbia deliberato in merito alla commissione di opere d’arte; in più, ho molta difficoltà, lo confesso, a credere che Tiberio abbia riunito
il Consilium principis per decidere che si facesse una copia. Plinio distingueva
bene gli originali dalle copie, come dimostrano i passi in cui parla di copie
177
utilizzando una parola tecnica, exemplar. In alcuni passi Plinio usa addirittura
due termini tecnici: exemplar quod apographon vocant (un termine tecnico in
latino e uno in greco: xxxv.125).
Passiamo ora al terzo elemento su cui Andreae ha richiamato la nostra
attenzione: la comparazione tra il Laocoonte e tutte le opere di pittura e di
statuaria. Andreae ritiene che questa frase (opus omnibus et picturae et statuariae artis praeferendum) voglia dire che Plinio compara il Laocoonte di marmo
con altri Laocoonti in bronzo, e in particolare con l’originale, e con altri Laocoonti in pittura: come se Plinio avesse scritto opus omnibus Laocoontibus et
picturae statuariae artis praeferendum. Ma io la parola Laocoontibus in Plinio
non la leggo e non la vedo, né esplicita né implicita, né – credo – potrebbe
mai esserci. Piuttosto, come cercherò di argomentare brevemente in questa
sede, la frase significa che Plinio, in quel contesto, vuole elogiare il Laocoonte
affermando, con uso encomiastico dell’artifizio retorico noto come iperbole,
che lo si può preferire a qualsivoglia altra opera della pittura e della statuaria.
Secondo Andreae, inoltre, vi sarebbe qui una sorta di sfumatura tra «artisti»
e «artigiani», e l’espressione summi artifices vorrebbe significare «bravissimi
copisti». Non credo che questa interpretazione sia sostenibile. Prima di tutto,
la distinzione tra arte e artigianato non era affatto chiara nell’antichità; si può
anzi dire, sulla scia di uno studio famoso di P.O. Kristeller, che l’artisticità
come tale, il valore specifico della parola «arte» non sia presente nella cultura
occidentale prima del Settecento. Per gli antichi, ars (come l’equivalente greco
techne) non vuol dire mai «arte», ma semmai un’arte specifica, che può essere
la pittura o la scultura, ma anche (per esempio) la medicina, l’astronomia, la
poliorcetica: «arti» tutte per cui gli antichi adoperavano il termine di techne,
o, in latino, ars. In secondo luogo, Plinio nella sua opera usa chiaramente la
parola artifices per designare non solo gli scultori del Laocoonte, ma anche i più
celebrati artisti dell’antichità, come Fidia o Prassitele (così p.es. in xxxvi.44,
vedi sotto).
Ma guardiamo ora a quel passo di Plinio nel suo contesto, e cioè nell’ambito del libro XXXVI della Naturalis Historia. Guardiamo rapidamente uno
schema dei suoi contenuti:
Plinio, Naturalis Historia, XXXVI:
marmoris gloria et claritas artificum
t 1-8: diatriba contro la luxuria in marmoribus;
t 9-14: i primi artifices che conquistarono la celebrità scolpendo il
marmo;
t 15: la scultura in marmo è più antica della pictura e della statuaria;
Fidia ha lavorato sia in bronzo che in marmo;
t 16-26:
a) artisti celebri che hanno scolpito il marmo [Alcamene, Agoracrito,
Fidia, Prassitele qui marmoris gloria superavit etiam semet, Bryaxis,
Scopas, Cefisodoto];
178
t
t
t
t
t
t
b) le loro opere visibili a Roma: Cupido e altre opere di Prassitele,
Latona e altre opere di Cefisodoto, Apollo e altre opere di Scopas;
• 27-29: multitudo operum a Roma, dove tuttavia la vita tumultuosa
ne comporta l’obliteratio:
> si ignora chi sia l’autore di certe statue, fra cui la Venere del Tempio
della Pace
> si esita a attribuire alcune altre statue, fra cui i Niobidi, a Scopas o
a Prassitele
> si discute sugli autori di altre sculture, che tuttavia possono ben
essere ammirate anche se gli autori restano sconosciuti: sine auctoribus placent;
30-31: aemuli, i.e. artifices che hanno scolpito il marmo lavorando in
collaborazione:
Scopas, Bryaxis, Timoteo e Leochares, che lavorarono in collaborazione alle sculture del Mausoleo di Alicarnasso:
> occorre parlarne «tutti insieme», simul, dato che hanno lavorato
tutti insieme, pariter
> è dunque difficile distinguerne le mani (certant manus);
32-36: opera quae sunt Romae [fra cui quelle dei monumenta Pollionis]
37:
a) pochi scultori del marmo hanno raggiunto la gloria
b) specialmente difficile è raggiungere la gloria quando più artisti
hanno lavorato in collaborazione; in questi casi:
> la gloria non appartiene a uno solo di essi
> ma è impossibile condividerla alla pari, pariter
c) come mostra l’esempio del Laocoonte;
38: altre sculture in marmo che:
a) si trovano nei palazzi dei Cesari
b) sono state fatte in collaborazione da:
> Cratete e Pythodoros
> Polydeuce e Hermolao
> Pythodoro e Artemon [ma Aphrodisius ha lavorato da solo,
singularis]
39-43: Pasitele, Arcesilao, Canaco e altri scultori nel marmo e nel
bronzo;
44: Haec dicta sint de marmoris sculptoribus summaque claritate artificum.
In questa analisi, devo essere brevissimo (rimando per altri particolari al
mio libro e a due articoli successivi), ma intendo affermare il principio ineludibile e indiscutibile che non possiamo estrarre un passo da un determinato
testo e interpretarlo fuori dal contesto. In altri termini, il passo di Plinio sul
Laocoonte va inteso nel quadro dell’intero libro XXXVI della Naturalis Historia, e in particolare della sezione xxxvi.30-38, dedicata in prevalenza alle
sculture in marmo fatte da più scultori in collaborazione fra loro.
179
Plinio, è noto, non era uno scrittore «professionale» di storia dell’arte, ma
nella sua immensa Naturalis historia (che vuol essere una sorta di compendio
del mondo) egli parla di tutto, anche dei materiali, come la pietra, il marmo,
il bronzo, le gemme; ed è solo in questo contesto che egli mette a frutto le sue
letture delle opere in greco dedicate alla «storia dell’arte», riassumendole in
uno stile assai nervoso e conciso, comprimendole in poche frasi. Egli poteva
leggere, a proposito di scultori e di pittori, una serie di fonti antiche in lingua
greca che purtroppo noi conosciamo solo attraverso di lui. E naturalmente
egli scriveva per qualcuno che poteva, volendo, anche procurarsi e leggere le
opere intere (che infatti Plinio cita «in bibliografia»), mentre noi non possiamo farlo: è come se noi avessimo un riassunto della Divina Commedia, ma
non il testo di Dante.
Ma che fonti aveva Plinio per il libro XXXVI? Egli disponeva di numerosi trattati greci di storia della scultura in bronzo e di storia della pittura, ma
non di storia della scultura in marmo: nella gerarchia dei materiali in vigore
nel mondo greco, il bronzo veniva assai prima del marmo, e di opere sulla
scultura in marmo, a quel che pare, semplicemente non ce n’erano. Plinio
era però legato alla grande tradizione retorica per cui, una volta scelto un
tema per un proprio scritto, era d’obbligo elogiare ed esaltare il soggetto
che si era prescelto. Ecco perché, nella parte del libro XXXVI dedicata alla
scultura in marmo, egli comincia col rivendicarne la maggiore antichità
rispetto alla pictura e alla statuaria (scultura in bronzo). Come dire: è vero,
la scultura in marmo è meno nobile di pittura e statuaria, ma è anche più
antica (e almeno in questo senso ha un suo titolo di nobiltà). Inoltre, aggiunge, anche alcuni scultori grandissimi, che si sono cimentati con il bronzo (e cita, ad esempio, Fidia) hanno prodotto opere in marmo. Dopo averne
citato un piccolo numero, e indicato al suo lettore alcune loro statue che si
potevano vedere senza muoversi da Roma, Plinio aggiunge che esistono casi
in cui degli ottimi scultori in marmo non sono tanto famosi quanto meriterebbero perché le loro opere sono il prodotto di una collaborazione «di
gruppo». E cita l’esempio del Mausoleo di Alicarnasso, dove hanno lavorato
insieme vari scultori (Scopas, Bryaxis, Timoteo e Leochares), affermando
che, quando diversi scultori hanno lavorato insieme, è difficile distinguere la
«mano» (lo stile) di ognuno, e pertanto nessuno di essi riesce, singolarmente, a raggiungere la fama. Questo, dice infine, è proprio il caso del Laocoonte, un’opera, dice Plinio, che pur essendo da preferirsi a tutte le opere della
pittura e della statuaria, e cioè pur essendo un’opera così straordinariamente
bella rispetto ad arti normalmente ritenute più nobili, non ha dato ai suoi
tre summi artifices la fama che meriterebbero, e che non hanno raggiunto
proprio perché hanno lavorato in tre, de consilii sententia.
Per me è dunque chiaro che Plinio non offre alcun elemento di cronologia per il Laocoonte e per i suoi tre scultori; ci parla dell’opera come di un
originale, non certo di una copia; ci dice (forse anche per elogiare la famiglia
imperiale nella cui casa si trovava) che essa è molto importante e molto bella.
Riassumo: (1) vi sono documenti epigrafici che sembrano porre gli scultori
180
del Laocoonte verso la metà del I secolo a.C.; (2) la testimonianza di Plinio
non fornisce alcuna indicazione sulla cronologia, né dice che il Laocoonte è
una copia. Intendo dire con ciò che le ipotesi di Andreae sono definitivamente
sconfitte? No, voglio soltanto dire che ho sviluppato una linea di pensiero;
Andreae, secondo il mio punto di vista, può benissimo continuare a sostenere
che il Laocoonte è una copia, ma in tal caso deve aggiungere che Plinio non
lo sapeva o non se n’era accorto. Può benissimo datare la statua, in base a
considerazioni stilistiche, prima o dopo il 40 a.C. circa, ma in tal caso deve
argomentare che quelle iscrizioni (in particolare quelle datate) non hanno
nulla a che vedere con gli scultori del Laocoonte. Esistono inoltre, devo aggiungere io, una serie di altre questioni, che qui non sto considerando per
ragioni di tempo: in particolare gli importantissimi confronti con le sculture
di Sperlonga, su cui Andreae ha fatto significative scoperte. Rimangono, qui
davanti a voi, due linee di pensiero che portano a due conclusioni diverse.
Come spesso accade, si tratta di discordanze tra datazione documentaria e
datazione stilistica, o di ragionamenti diversi che sono suscettibili di interpretazioni cangianti, e solo qualche volta si ricompongono a vicenda; in questo
caso non so se accadrà.
[...]
B.
Ambiente (paesaggio, architettura) e cultura
Elenco degli incontri:
1. L’architettura come ambiente
mercoledì 8 settembre 1999
Saluto di Armando Cusani, Sindaco di Sperlonga
«Conversare e innovare. Nuovi strumenti giuridici per il patrimonio urbano», Paolo Stella Richter, professore ordinario di Diritto urbanistico nella Università
degli studi “La Sapienza” di Roma
«L’architettura come bene ambientale», Emilio Garroni, professore ordinario di
Estetica nella Università degli studi “La Sapienza” di Roma
«La salvaguardia dei nuclei architettonici originari», Paolo Marconi, professore
ordinario di Restauro nella Università degli studi “Roma Tre”
«Evoluzione urbana, nuclei originari e contesti ambientali», Francesco Cellini,
professore ordinario di Composizione architettonica e urbana, preside della
facoltà di architettura nella Università degli studi “Roma Tre”
Conclusioni di Paolo Stella Richter
181
2. Effetti ambientali e sociali delle nuove tecnologie di comunicazione
sabato 2 settembre 2001
Saluto di Armando Cusani, Sindaco di Sperlonga
Relazione introduttiva di Antonio Maccanico, membro della Camera dei deputati, già Ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni
«Nuovi servizi di comunicazione e modelli di consumo», dottor Antonio Pilati
membro dell’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni
«Benefici e rischi sociali dello sviluppo scientifico», Luciano Angelucci, professore
ordinario di Farmacologia nell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma
«Mutamenti delle strutture logiche e del linguaggio nell’evoluzione ipermediale»,
Gianni Orlandi professore ordinario di elettrotecnica, Pro-rettore della Università degli studi “La Sapienza” di Roma
«Le lingue nazionali e la comunicazione globale». Francesco Sabatini, professore ordinario di Storia della Lingua italiana nell’Università degli studi “Roma
Tre”, Presidente dell’Accademia Nazionale della Crusca
Dibattito Ingegner Franco Velonà, docente di Centrali termoelettriche
nell’Università degli studi di Bari
3. Il mare e la nutrizione
venerdì 5 settembre 2003
Saluto di Enzo Fusco, Vicesindaco di Sperlonga
Relazione introduttiva di Elisabetta Bernardi, biologa, specialista in Scienza
dell’alimentazione
«Qualità nutrizionale e dietetiche degli alimenti marini», Carlo Cannella, professore ordinario di Scienza della alimentazione nell’Università degli Studi
“La Sapienza” di Roma.
«Aspetti economici ed ambientali delle produzioni ittiche», Stefano Cataudella
professore ordinario di Ecologia applicata nell’Università degli studi “Tor Vergata” di Roma
«Tracciabilità come strumento di tutela della qualità dei prodotti ittici», Ettore
Ianì, Presidente nazionale di Lega Pesca
Dibattito Plinio Conte, Vice Direttore generale per la pesca e l’acquacoltura
del Ministero delle politiche agricole e forestali
Conclusioni di Enzo Fusco
4. Riguardare la costa
(Una nuova attenzione percettiva per la tutela e la riqualificazione del litorale)
venerdì 2 settembre 2005
Saluto di Armando Cusani, Sindaco di Sperlonga
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Ricordo di Emilio Garroni, Giacomo di Raimo, Supervisore delle manifestazioni culturali di Sperlonga
Relazione introduttiva dell’architetto Carmen Carbone
«L’insegnamento della spontaneità», Roberto de Rubertis, professore ordinario
di Disegno nell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma
«Rappresentare per modificare», Livio Sacchi, professore ordinario di Disegno
nell’Università degli Studi “Gabriele D’Annunzio” di Pescara
Interventi conclusivi di Sandro Amorosino e di Paolo Stella Richter, professori
ordinari nell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma
5. Salute e Ambiente
giovedì 8 settembre 2005
«Genetica e modificazioni dell’ambiente», Luciano Angelucci, professore emerito di Farmacologia nell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”
«Malattie ed ecologia marina», Carlo De Bac, professore ordinario di malattie
infettive nell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma
6. Sperlonga: un paesaggio del mito
venerdì 7 settembre 2007
Presentazione di Sandro Amorosino, professore ordinario di Diritto dell’economia nell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma
Relazione introduttiva dell’architetto Carmen Carbone
Relazioni
Mario Cademartori, architetto
Roberto de Rubertis, professore ordinario di Disegno nell’Università degli
studi “La Sapienza” di Roma
Franco Purini, professore ordinario di Composizione architettonica nell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma
Le lingue nazionali e la comunicazione globale (2001)
Francesco Sabatini
Desidero preliminarmente rivolgere un ringraziamento al Sindaco di Sperlonga per aver favorito l’iniziativa odierna, e al Collegio culturale organizzatore di queste manifestazioni e al suo Presidente, che non nomino perché,
essendo mio amico, apparirebbe come un omaggio all’amico e non un apprezzamento per i risultati del suo impegno.
Siamo tutti sotto l’effetto, credo, dell’alta tensione creata dalle problematiche ben precise e coinvolgenti connesse con i temi giuridici, scientifico-tec-
183
nologici, sanitari e psicologici trattati dai relatori che mi hanno preceduto.
La connessione tra i processi della globalizzazione e il tema delle lingue nazionali può apparire, a questo punto, priva di una siffatta tensione: tanto più
se nell’aggettivo nazionale vediamo espressa una dimensione puramente geografica. In questo modo si rischia di non cogliere la natura stessa della lingua,
cioè di non intenderla come quella parte della dotazione biologica e psichica
che forse più di ogni altra ha contraddistinto l’evoluzione dell’homo sapiens
sapiens.
Quando si parla di condizione linguistica del mondo di oggi la mente di
tutti corre subito a richiamare l’esistenza di una lingua che ha una larghissima
diffusione nel mondo, in una misura inusitata nella storia umana, l’angloamericano appunto, di fronte al quale nell’opinione comune le lingue nazionali si
sarebbero già ridotte, o quasi, al rango dei nostri dialetti. Questa visione dei
fatti è spropositata; essa è fortemente viziata da impressioni momentanee e da
approssimazioni eccessive, dovute a mancanza di cognizioni appena appena
adeguate all’essenza delle lingue. Ciò che colpisce di più, in queste profezie
demolitorie, è l’ignoranza del peso che ha la durata temporale nell’esistenza
delle lingue. A tutti sembra che le lingue si trasformino molto velocemente e
abbiano cicli vitali molto brevi. Forse solo il linguista, che dispone di dati e
testimonianze, sa che il moto delle lingue è molto lento, si misura su distanze
secolari e spesso millenarie, tanto più quando una lingua è parlata da una
massa notevole di parlanti (alcune decine di milioni, come nel caso dell’italiano), è dotata di una solida e antica tradizione scritta e di una norma esplicita
e occupa un’ampia serie di posizioni nello scacchiere delle funzioni comunicative. Tutti requisiti, questi, posseduti dall’italiano e largamente assenti nei
nostri dialetti o idiomi regionali che dir si vogliano.
Insisto sull’aspetto della lunga durata dei processi linguistici perché dal
prendere coscienza di tale fenomeno derivano tutte le altre indicazioni sull’atteggiamento da assumere riguardo all’uso delle lingue nel mondo della comunicazione globalizzata. Partendo infatti da questa considerazione si arriva
a porre un freno a quell’insulso cupio dissolvi linguistico da cui molti italiani
si fanno prendere. La lingua di cultura della quale siamo stati dotati dalle
generazioni che ci hanno preceduti – la lingua animosamente costruita attraverso i secoli come mezzo di ideazione ed espressione che congiungesse la
sfera della vita pratica (è nata da un volgare cittadino, di una città di mercanti
come la Firenze del ‘200 e del ‘300) e la sfera del sapere intellettuale e quindi
potesse proiettare la nostra esistenza particolare nell’universale – questa lingua
non ha affatto esaurito i suoi compiti. Essa, come tante altre, è entrata oggi
in contatto stretto e carico di vibrazioni con la lingua della civiltà egemone
nel mondo, è sottoposta a una tensione senza precedenti, ma si tratta di un
moto ondoso che sconvolge soprattutto gli strati superficiali della “massa”
del mare sottostante, immagine con la quale non mi riferisco semplicemente
alla stratificazione socio-culturale della popolazione ma alla “massa degli usi
linguistici”, nella quale si sommano comportamenti ed esigenze sia di ambiti
socio-culturali sia di campi di esperienze e domini espressivi diversi. Prima
184
che il moto ondoso si trasmetta a tale massa occorrerà parecchio tempo, sempre che il moto si conservi uniformemente accelerato e orientato nella stessa direzione.
Fuori di metafora, prima che l’accostamento a un’altra
lingua ci porti – intendo gran parte di noi, comunità insediata compattamente in questo territorio – a usare quella
lingua con facilità e flessibilità per pensare creativamente, ai livelli elementari e a quelli più elevati, discutere dei
più diversi argomenti con le persone più varie della nostra
comunità, indicare l’infinita quantità di oggetti, forme e
immagini che ci circondano, esprimere stati d’animo fortemente commossi (da amore, odio, pietà, speranza, …),
descrivere processi d’ogni genere, passeranno di sicuro parecchi decenni, diciamo tranquillamente qualche secolo.
Dunque, questa lingua non ha affatto esaurito i suoi compiti. Sicché della sua funzionalità dobbiamo aver cura.
Qui torna utile ancora il parlare per immagini. La lingua di cui sto parlando – familiare e formale a un tempo –
è come la casa principale nella quale al momento viviamo:
anche se sappiamo che di lì a quindici o venti anni (per attenerci a una certa
proporzione tra i due fatti) venderemo quella casa o essa sarà abbattuta, non
per questo trascuriamo di ripararne il tetto o di sostituire i vetri rotti di una
finestra.
Ho parlato di funzionalità, di preoccupazione per la buona manutenzione
della lingua come della casa. Per la lingua c’è da cogliere un aspetto che il
paragone con la casa forse non mette bene in luce. L’uso della lingua non è solipsistico, come può esserlo quello della casa. La lingua si usa per comunicare
con gli altri: il suo cattivo funzionamento può interrompere la comunicazione
e creare subito fratture nella convivenza. Quando si usano forestierismi per
necessità e all’interno di un rapporto comunicativo tra pari, non si creano
guasti nella comunicazione; ma quando si usano termini che la massa dei
parlanti non conosce il rapporto comunicativo è minato. Faccio subito due
esempi: in molte aziende si va diffondendo l’uso di chiamare il “Servizio clienti” Customer Service. Questa espressione si legge, per esempio, nelle bollette
emesse dall’Italgas; addirittura, nei volumi degli elenchi telefonici si segnala,
nelle pagine di “avantielenco”, il Customer Care (distinto in Customer Care
Clienti Residenziali e Customer Care Clienti Business!). Sono esempi palesi di
come la smania dell’anglicismo nuoccia decisamente alla chiarezza dell’informazione: si tratta di un servizio di “assistenza ai clienti”, e questa espressione
sarebbe stata assolutamente calzante, tanto più che nella nota esplicativa che
segue a Customer Care si usa proprio il termine “assistenza” e nella rubrica subito accanto si parla di Servizio Assistenza Clienti Blu. Mi fermo qui, ma sarei
tentato di soffermarmi su altri aspetti di questa terminologia bislacca, come
la ripetizione costituita dall’ibrido Customer … Clienti e dai sintagmi Clienti
Residenziali e Clienti Business.
Ruggero Savinio,
«Comunicazione mediatica»,
disegno, 1998
(logo del Premio Grotta di
Tiberio per la comunicazione
e la divulgazione).
185
Non mi pare che in questi casi ci si trovi davanti alla stessa necessità che
spinge gli scienziati ad usare l’inglese per la redazione e la diffusione dei loro
scritti.
Vengo alla conclusione. La comunicazione globalizzata comporta certamente l’uso di una lingua di dimensione mondiale, che per noi non è certo
l’italiano, come non lo è ormai il francese per i francesi e nemmeno lo spagnolo per gli spagnoli. Di lingua mondiale non può essercene – per definizione
– che una sola e questa è, almeno per ora e per chissà quanto altro tempo,
l’angloamericano. Ma di questa lingua, in questa funzione, bisogna distinguere vari usi: quello della comunicazione di alto livello scientifico-intellettuale
(è qui che può calzare il paragone con il latino, usato largamente come lingua
internazionale di cultura almeno fino alle soglie del secolo XIX) e quello delle comunicazioni pratiche di ambito limitato (cartelli, messaggi in luoghi di
intensa circolazione di persone di varia provenienza, scambi di informazioni
momentanee). La vita di una comunità nazionale numerosa e di antiche tradizioni linguistiche proprie ha bisogno di continuare a usare e usar bene la
propria lingua. Ci sono casi, addirittura – ed è proprio il caso italiano – in cui
nella comunità nazionale ci sono ancora forti dislivelli nel possesso della lingua primaria. Sarebbe una colpa grave favorire il più intenso apprendimento
di una lingua straniera nella nostra comunità globalmente presa senza preoccuparsi di aiutare a raggiungere il possesso pieno dell’italiano le fasce sociali
che sono ancora fortemente sotto un accettabile livello. Ancor più grave sarebbe se all’obiettivo appena indicato si anteponesse quello della “salvaguardia e
promozione” dei dialetti introducendone, a caro prezzo, l’insegnamento nelle scuole. Non solo l’operazione risulterebbe estremamente complicata sotto
tutti i punti di vista: i dialettofoni del luogo sarebbero avvantaggiati rispetto
agli alunni “esterni”; la competenza dei docenti risulterebbe indimostrabile e
incomparabile; l’insegnamento stesso sarebbe di versificato da villaggio a villaggio; ecc. Ma sarebbe un fallimento, perché molti non si rendono conto che
lingue di tal fatta (lingue certamente sono, nel senso di “idiomi” strutturati)
non si insegnano ma si imparano, e si imparano quando c’è modo e scopo di
impararle dal vivo nel contesto che le usa veramente.
dal convegno dell’8 settembre 1999:
L’architettura come bene ambientale
Emilio Garroni
Il mio compito è di esporre in breve le ragioni generali per cui l’architettura può essere considerata un bene ambientale. Questo farò, senza alcuna
pretesa di essere rigoroso ed esauriente. Mi accontenterò di delineare alcune
idee, degne, mi auguro, di essere almeno discusse, con la speranza che esse,
pur nella loro corsività, possano suscitare qualche interrogativo. Che è già un
186
inizio non insignificante di comprensione, contro la nostra quasi inevitabile
tendenza opposta ad accontentarci di sfogliare distrattamente le pagine del
corrente Dictionnaire des idées reçues. Concluderò infine con due considerazioni, ancora più rapide, sul se e sul come possiamo e dobbiamo difendere tale
bene e sul perché dovremmo farlo.
Veniamo al punto principale. E dico subito che proporsi di dimostrare che
l’architettura deve poter essere considerata un bene ambientale può avere sulle
prime l’aria del compito superfluo, visto che il nostro ambiente è caratterizzato soprattutto da oggetti architettonici o, male che vada, edilizi e, in ogni
caso, da oggetti fabbricati in vista di qualche scopo. Ma il fatto è che si pensa
di solito che ci sia sotto tutti i profili una distinzione netta e un’opposizione
competitiva tra oggetto artificiale e oggetto naturale, e che la difesa dell’ambiente debba essere volta esclusivamente agli oggetti naturale, insidiati dalla
violenza degli oggetti artificiali, sempre più invadenti e degradanti. È, questo,
il punto di vista del pensiero ambientalista o ecologico, almeno per come
esso è passato nell’opinione comune, tendente sempre a ipersemplificare, ma
infine non sempre lontano dalla verità. È del tutto evidente infatti che proprio l’opera dell’uomo, non solo e forse non tanto l’opera fabbricatoria, ma
innanzi tutto quella trasformativa e industriale, nonché i consumi immani e
fortemente inquinanti che ne conseguono, è la responsabile dell’attuale degrado ambientale.
Tuttavia non facilita la comprensione dei nostri problemi ambientali, che
sono insieme problemi di sopravvivenza e di civiltà, prendere quel punto di
vista alla lettera, come se tra natura e cultura l’opposizione fosse radicale e gli
oggetti appartenenti alla natura fossero senza il minimo dubbio distinguibili
sotto ogni profilo dagli oggetti della cultura.
Naturalmente nessuno nega che l’oggetto naturale sia possibile a condizioni qualitativamente diverse rispetto all’oggetto artificiale. Questo prevede
un’intelligenza esplicita, un’intenzione volta alla produzione di oggetti materiali in quanto scopi, nonché una consapevole e appropriata tecnica produttiva; quello è invece tutto abbandonato, per così dire, alla propria inesplicita
logica interna: la natura, certo, non «vuole», nel senso dell’unica volontà che
conosciamo, la nostra, produrre enti naturali.
È una logica inesplicita che per se stessa equivale al fatto che la natura si
comporta così e così perché semplicemente accade che così e così si comporti,
senza nessuna costrizione di regole esplicite, che sono invece costruite da noi.
Ma qui stiamo parlando della natura non come è possibile, ma come ci
appare e ci risulta, in quanto è abitata ed esperita dall’uomo. Il quale, per
tentare di afferrarla come tale, può al massimo considerarla come oggetto di
conoscenza, cioè secondo le proprie esigenze e possibilità conoscitive: ciò che
la natura come tale, al di fuori dell’uomo in quanto animale culturale per
eccellenza, non si sogna di fare e che non è quindi, essa stessa, un’operazione
priva di forti valenze culturali.
Voglio dire che anche nella conoscenza scientifica più oggettiva afferriamo
non la natura come tale, ma già la natura in rapporto all’uomo, che mira al
187
Paesaggio di Sperlonga
(foto N. di Raimo, 2007).
188
suo addomesticamento, al suo padroneggiamento e in definitiva alla sua culturizzazione. In altre parole: non ha senso ritenere una cosa del tutto ovvia la
natura come tale, che starebbe lì, tale e quale, dato che non solo non sappiamo
che cosa essa sia, ma ripeto, non ha neppure senso domandarsi che cosa sia.
Una domanda del genere eccede vistosamente ogni possibilità di conoscenza. Può essere, a certe condizioni, ammessa solo nel cosiddetto e nonconoscitivo discorso filosofico, in quanto però la natura come tale viene intesa
appunto come il referente o il presupposto totale e solo ideale, e per ciò indeterminato, di ogni conoscenza particolare.
Se poi ci trasferiamo dal
piano strettamente scientifico a quello della varia
esperienza che abbiamo di
ciò che chiamiamo natura,
la sua non-indipendenza
apparirà sempre più chiaramente. La natura che
sperimentiamo è in tutti i
sensi e sotto tutti i riguardi
qualcosa di inconfondibile
rispetto a quel simulacro
vuoto o a quell’idea che è
la natura come tale. È infatti natura non in sé, ma
per noi: come ce la rappresentiamo, come ce la immaginiamo, come la modifichiamo, anche solo mentalmente, come la usiamo, come la inseriamo nel
nostro vissuto. È insomma non la natura naturale senz’altro, ma già una natura culturale, e come tale si è presentata storicamente, via via, nelle forme più
varie, sempre, per così dire, al servizio dei bisogni pratici e teorici dell’uomo.
Per esempio, in tempi cosiddetti preistorici, la natura è stata una riserva di
caccia, un territorio adatto o non adatto per la raccolta di cibo o, poi, per la
coltivazione, e tale da dover essere utilizzata non solo mediante una tecnica,
ma anche con l’ausilio indispensabile di complessi rituali magici, che sempre
più la culturalizzavano, ben al di là degli intenti puramente pragmatici di
cacciatori, raccoglitori e coltivatori. Alla natura, allora e sempre, è stato dato
un volto umano. È stata considerata ora generosa, ora avara, ora affidabile, ora
temibile, come se essa stessa avesse intenti nei riguardi degli esseri viventi che
la popolano, ora abitata da spiriti vitali, maligni o benigni, come nella cultura
ilozoistica e animistica, ora dominata da divinità specifiche (della terra, del
cielo, del mare, e così via), ora percorsa da un’intelligenza sotterranea, ora
ciecamente meccanica e indifferente, come nel pensiero dei Greci, aristotelici
o epicurei, ora rivelatrice della libera creazione di un essere onnipotente, come
nella cultura filosofico-religiosa cristiana, e così via.
In ogni caso, e non poteva essere altrimenti, è stata sempre concepita in
termini culturali e ha quindi fatto parte integrante di una cultura.
A riprova del suo carattere culturale, basterà ricordare che non esiste alcun
interesse autonomo, estetico e non solo scientifico, per la natura prima del
secolo XVIII, quando finalmente monti e mari richiamano quella libera attenzione dei viaggiatori che a noi pare tanto naturale. Si manifesta allora per
esempio un nuovo interesse per le montagne (è il caso di Horace de Saussure)
e con esso l’alpinismo moderno, ben diverso da quello passeggiante petrarchesco. La stessa immagine artistica della natura (il paesaggio in quanto pittura
di paesaggio oltre che paesaggio tale e quale) non risale molto più indietro, di
solito però, prima di allora, quasi sempre con qualche motivazione mitologica
(come in Peter Bruegel o in Poussin) oppure scientifico-osservativa (come in
Dürer o in Leonardo).
Il paesaggio, di cui si è occupato assai bene il filosofo Rosario Assunto, è
oggetto di godimento e genere pittorico tipicamente moderno. Si costituisce
solo in quel secolo la categoria del cosiddetto «bello di natura». E tuttavia
anche il bello di natura, non solo quello artistico, veniva considerato di solito
(per esempio da Burke e da Kant) non qualità oggettiva degli enti naturali, ma
piuttosto una qualità soggettiva degli uomini e identica al loro sentimento, ed
era quindi per ciò stesso qualcosa di culturale.
Nasce allora, dunque, il paesaggio come oggetto e come immagine pittorica, il compiacimento per i panorami, la contemplazione della luna e dei tramonti, delle nubi fiammeggianti, delle onde del mare, delle acque tranquille
dei laghi, delle montagne e dei picchi, tutti precedenti indispensabili per gli
stereotipi turistici che si sarebbero formati e consolidati nel secolo successivo
e nel nostro.
Il fenomeno è tutt’altro che incomprensibile: la natura, abbandonata dagli
spiriti e dagli dei, viene riumanizzata sotto il profilo estetico, come se fosse
uno spettacolo fatto apposta per gli occhi degli uomini. Il che non significa
quindi che finalmente si sia scoperta la natura come tale; al contrario essa, in
correlazione con l’attenuarsi dello spirito religioso e l’affermarsi di una cultura
immanentistica, viene investita di forti valenze culturali estetiche.
Il caso limite è quello della pittura romantica. Per esempio, nella pittura di
Caspar David Friedrich la natura viene tematizzata come natura panica che
assomma e azzera tutte le distinzioni, in un certo senso qualcosa di ancora più
prossimo all’anima del mondo che alla natura come tale, e in cui l’uomo si
perde e insieme si ritrova come frammento fragile, ma pensante. Insomma:
una inedita congiunzione, nell’arte, di natura e filosofia.
Guardiamo ora al solo aspetto materiale di ciò che chiamiamo natura. Ebbene, proprio qui non avremo difficoltà a riconoscere che la natura come tale,
nell’unica forma pensabile in modo determinato, cioè come natura esistente
prima dell’uomo, non c’è più da nessuna parte. Dovunque si guardi, della
natura così com’era prima dell’uomo e della sua opera trasformatrice ci sono
solo tracce relativamente modeste e forse non mai del tutto esenti da modificazioni, neppure nella foresta amazzonica ancora non sventrata o nell’Antarti-
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de più inaccessibile. Direttamente, attraverso la coltivazione, la selezione delle
piante e degli animali, la rimodellazione del territorio, la costruzione di case,
di strade, di paesi, di città, di manufatti di qualsiasi tipo, o indirettamente,
attraverso gli effetti della cultura industriale, la natura terrestre ha cambiato
volto e dappertutto mostra i segni, piaccia o non piaccia, di una profonda culturalizzazione diretta o indiretta, formatrice o solo modificatrice, in peggio o
in meglio che sia (va da sé, infatti, che la parola «culturalizzazione», usata qui
in senso antropologico, non ha necessariamente un valore positivo).
La culturalizzazione della natura ha portato anche, quindi, a una culturalizzazione oggettiva, non solo soggettiva: non soltanto ha rappresentato soggettivamente la natura come qualcosa di culturale, ma l’ha modificata oggettivamente, nelle cose stesse e a livello planetario. Si tratta, per così dire, di una
sorta di «architettura della terra», di cui l’architettura dei giardini è solo un
esempio particolare, aggraziato o emozionante, geometrico o pittoresco, in
ogni caso concentrato e isolante.
Una prima conclusione è dunque la seguente: che la natura che dobbiamo
difendere contro le dissennatezze distruttrici (se mettiamo da parte qui il problema della difesa delle grandi risorse naturali, necessarie alla sopravvivenza:
aria, acqua, foreste, e così via) non è affatto la natura incontaminata, quale
talvolta ci immaginiamo ingenuamente, ma la natura culturalizzata, anche se,
naturalmente, proprio la natura culturalizzata non dissennatamente, cioè in
modo formativo e non solo modificativo. E di questa natura da difendere gli
elementi architettonici sono punti di condensazione particolarmente evidenti
della sua culturalizzazione.
Difenderla significa difenderla non dalle influenze nefaste della cultura,
senza alcuna discriminazione, ma semmai dalla cattiva cultura, cioè dalla speculazione, dall’imprevidenza, da ogni azione che, invece di essere formatrice,
è piuttosto quasi casualmente predatrice e distruttrice.
La vera nemica dell’ambiente è infatti la casualità che si insinua nella sfera
culturale attraverso lo sfruttamento delle capacità di padroneggiamento del
mondo che la cultura stessa offre e mette a disposizione di tutti, produttori e
consumatori, distinti avventurieri e cittadini onesti, intrallazzatori accreditati
e persone ingenue e disinteressate, speculatori di ogni risma o poveretti che
tirano a campare, malavitosi dichiarati o mafiosi più o meno occulti, nonché
le loro vittime. Un esempio limite: la stessa guerra è un fatto culturale, non
solo, naturalmente, a partire dalla bomba di Hiroshima, e si manifesta tuttavia come un potere distruttivo anche casuale, controllato solo a metà, e forse
anche di meno, da politici e generali, come sapeva benissimo il Kutusov di
Tolstoj.
Torniamo al nostro tema e completiamo la conclusione dell’argomento
principale. Dunque, natura e architettura – e va da sé che sto ancora parlando dell’architettura progettata con sapienza almeno artigianale, non in ogni
caso di un qualsiasi manufatto semicasuale – collaborano in modi diversi alla
forma del nostro ambiente. E per forma dell’ambiente non intendo un’unità
compatta e una congruenza totale di elementi omogenei ed eterogenei, anche
190
Da sinistra il Sindaco
A. Cusani, P. Stella Richter
(al microfono), P. Marconi,
E. Garroni (settembre 1999).
singolari e imprevedibili, che si integrano e si contrappongono in un insieme
discontinuo e interessante proprio perché così caratterizzato.
Da una parte la natura, privata dell’architettura, perderebbe in molti casi
la propria pregnanza, e propriamente quella che le è propria in quanto natura;
così come l’architettura, se si cancellasse o si stravolgesse il suo intorno naturale e in ogni caso spaziale, come spesso è purtroppo accaduto, rischierebbe di
restare un manufatto monco e isolato, senza radici e senza senso.
Questo è un tema caro agli architetti e ai teorici dell’architettura. E mi
piace ricordare qui che proprio un ottimo studioso nativo di questa zona,
Giovanni Rocci, ha utilizzato con intelligenza e profitto la letteratura esistente
sull’argomento (per esempio Norberg-Schultz e Lynch), al fine di ricostruire
criticamente la storia della formazione del Borgo Pio di Terracina, fatta via via
di felici intuizioni, di errori, di miscomprensioni e di resipiscenze.
Proprio Terracina è un ottimo esempio ai nostri fini: che ne sarebbe della
sua architettura senza le nude rocce incombenti e che ne sarebbe di queste
senza l’architettura sottostante? La città ha la sua fisionomia precisamente
in forza di una strettissima e, direi, drammatica collaborazione di natura e
architettura.
Questa, in linea generalissima, la legittimità di una considerazione dell’architettura in termini di possibile bene ambientale. Ma il manufatto o l’oggetto artificiale, abbiamo detto più volte, non è necessariamente un bene
ambientale, nel senso che può non essere formativo dell’ambiente, ma solo
modificativo, distruttivo e deturpante.
Oggi accade quasi sempre che l’oggetto artificiale, lo si chiami architettura
o no, contribuisca non alla forma dell’ambiente, ma alla sua dissipazione mediante l’intenzionalità di un fare che produce effetti non voluti e si trasforma
quindi in casualità, innescata dai più vari interessi, talvolta occhiuti, ma altre
191
volte solo fatui, sciocchi, insensati ed essi stessi casuali, tutti in ogni caso procedenti per inerzia.
Ma la patologia di un costume non annulla per se stessa la sua possibile fisiologia, che dovrebbe consistere nel difendere l’architettura come bene
ambientale non con il conservare l’esistente in quanto esistente, ma con il
distinguere tra oggetti formativi e oggetti distruttivi, per stabilire se, dove
e come dobbiamo intervenire, restaurando, eliminando, anche in certi casi
completando o proseguendo un’opera che non ha ancora trovato la propria
funzione ottimale nell’ambiente, sia pure nella forma dell’episodio isolato che
tuttavia contribuisce alla caratterizzazione di un luogo, e perfino costruendo grandi opere infrastrutturali, pubbliche o di interesse pubblico, in modo
relativamente compatibile con la loro necessità e con l’integrità territoriale,
tali da eccedere le dimensioni e i caratteri ammessi, tali cioè da non passare
inosservate.
La minimizzazione di interventi non rinviabili di questo tipo, sulla base
del rifiuto puramente estetico del loro «impatto ambientale», spesso comporta banalità progettuale e sistemi costruttivi standardizzati e piattamente
industriali. Se c’è una ragione perché quelle opere si debbono fare, perché non
creare invece interessanti singolarità paesaggistiche?
Può darsi che io meriti le proteste degli ambientalisti, ma debbo confessare non solo che certe grandi opere di qualità non mi scandalizzano, ma
le trovo paesaggisticamente produttive. L’argomento è rischioso, e mi fermo
qui, consapevole di non avere la competenza sufficiente per articolare meglio
una semplice idea avventizia che ogni tanto mi passa per la testa. Ma non è
rischioso d’altra parte anche il non fare nulla o il fare il meno possibile ai livelli
minimi di progettazione?
Insomma non credo che debbano essere approvati gli integralismi ambientalistici. Certo, oggi non si può non essere saggiamente favorevoli in linea di
massima a una politica di grande cautela, intelligentemente, cioè non ciecamente, incline proprio alla conservazione, che spesso è più augurabile dell’innovazione, e avversa quindi a quella proliferazione inconsulta dei manufatti
edilizi che anche presso taluni esperti comincia purtroppo ad avere qualche
perversa udienza.
Per esempio alcuni di tali esperti, in un recente convegno di architettura,
hanno sostenuto proprio questa tesi della proliferazione libera, spontanea,
non progettata, proponendo addirittura l’abolizione di ogni regolamentazione urbanistica.
Ho sentito dire, stupefatto, che le città, in opposizione al gusto classicistico e centralistico tradizionale, dovrebbero crescere piuttosto, come dire, «in
modo naturale», cioè secondo i capricci degli utenti, ma in definitiva dei costruttori, secondo una logica della casualità che è identica alla pratica dell’abusivismo e infine della speculazione edilizia.
Per avere che cosa in cambio della città tradizionale? Non la città moderna,
in perpetua trasformazione, dalle mille facce, luogo ideale di un nomadismo
giornalistico-letterario un po’ kitsch, che essi ingenuamente vagheggiano, ma
192
un groviglio da terzo mondo più simile a una baraccopoli che a una città. E
tuttavia, ripeto, anche il non fare nulla, sotto norme restrittive indiscriminanti, o il fare il meno possibile, in spregio a ogni autentica capacità progettuale,
è alle lunghe intristimento e consumazione dell’ambiente.
Ma dove e come fare? Diciamo subito che non esistono regole, o almeno
esistono solo regole negative: ciò che bisogna non fare, non ciò che bisogna fare. Ciò che non bisogna fare, per chi sia attento senza integralismi ai
problemi dell’ambiente nel senso più ampio, è facile dirlo, e mi risparmierò
le esemplificazioni ovvie. Ma ciò che bisogna fare, non avendo regole, non
può essere innanzi tutto affidato che alla cultura, alla comprensione, alla
sensibilità, alla sapienza, al talento, alla responsabilità di progettisti e amministratori.
Credo che sarebbe augurabile che divengano più decisive tali qualità che
continuare a sottomettere una materia così indefinibile solo a regole approssimative, per definizione insufficienti o troppo costrittive, arbitrarie e
addirittura insensate. Tali regole, per quanto ne so, sono per di più amministrativamente macchinose, fonte di contenziosi che facilitano la corruzione
o quanto meno le soluzioni pasticciate di compromesso, più spesso complicanti che semplificanti, e quindi controproducenti ai fini di un’efficace
difesa dell’ambiente.
Quelle qualità non regolamentabili sono richieste anche, su scala ridotta,
ma più fine, con variabili meno numerose, nel caso del restauro di opere pittoriche e scultoree: Cesare Brandi, il grande storico e teorico dell’arte e del
restauro, insegnava che con il restauro non bisogna soltanto restituire, per
quanto è possibile, l’integrità della forma dell’immagine, ma anche il passaggio su di essa della storia e del tempo.
Ma chi decide e in base a quali regole dove finiscono le tracce della storia
da salvare e cominciano le superfetazioni da rimuovere? Non le regole, ma
appunto l’intelligenza, la preparazione culturale, la saggezza e il talento dei
restauratori e degli esperti.
Su scala maggiore e con variabili molto più numerose, cioè con preoccupazioni non solo formali, lo stesso è vero nella difesa attiva e non solo passiva
dei beni ambientali, architettonici e no: bisogna decidere caso per caso, sulla
base di alcune regole negative generali e di una vasta esperienza stratificata, ma
non mai sufficiente per i casi ulteriori.
Questa, naturalmente, non è una soluzione subito utilizzabile del nostro
problema e tuttavia a me pare che sia l’unica soluzione possibile, espressa nella
forma dell’augurio, non molto ottimista per la verità, che la cultura ambientale comune possa crescere in futuro nel senso indicato.
Ma, infine, perché difendere l’ambiente natural-culturale? La domanda
può sembrare bizzarra sulle prime. Ma anche in questo caso credo che valga
la pena sollevare un interrogativo. È diffusa presso certi saggisti la convinzione, anche sulla scorta di note riflessioni di Heidegger, che l’ambiente che ci
circonda, e in particolare l’ambiente culturalizzato architettonicamente, sia la
«casa in cui abita l’uomo» e che l’uomo riconosce come tale, in cui si ritrova
193
come essente e in cui la non-familiarità, la Unheimlichkeit, del mondo si fa
familiare.
Ho semplificato, naturalmente, ma la sostanza è anche questa: che si pensa
con ciò che l’ambiente natural-culturale dato garantisce della nostra completa
identità culturale. Si tratta di un argomento a doppio taglio. Da una parte una
qualche garanzia di identità contribuisce alla nostra passabile sopravvivenza,
ma per altro verso, se spinta troppo oltre, può trasformare il mondo intero in
questo nostro piccolo mondo familiare e separato, chiudendoci al mondo non
ancora familiare.
Gli effetti disastrosi di questa aspirazione all’identità culturale, nazionale,
locale ed etnica, talvolta inventata di sana pianta, ma non per ciò meno intollerante e stupida, sono sotto gli occhi di tutti. No, non credo che sia augurabile che la difesa dell’ambiente si colori di un’ideologia del genere. La prima
preoccupazione deve essere un’altra: non la difesa dell’identità, ma, di nuovo,
la difesa dalla casualità. Assistere senza fiatare e senza neppure accorgersene
alla degradazione dell’ambiente naturale e culturale in cui viviamo significa
abbandonarsi alla casualità e volgarità del costume corrente e mandare in malora, insieme all’ambiente, quella stessa ideale civiltà senza confini (certo, non
priva di contrasti e di fermenti interlocutori, ma sempre tesa all’unificazione)
che è il patrimonio più prezioso di cui, tra tutti gli esseri della terra, solo l’uomo è depositano.
Evoluzione urbana, nuclei originari e contesti ambientali
Francesco Cellini
In questa sede, in contrapposto quasi al professor Marconi, starei a rappresentare le ragioni dell’architettura innovativa, del moderno, della trasformazione. Condivido però tutto quanto è stato detto nel corso degli interventi
che mi hanno preceduto, e quindi tenterò di affrontare gli stessi temi già
trattati solo con la particolare accentuazione richiesta dal mio punto di vista:
emergeranno piccole differenze di impostazione e di tono, ma in queste piccole differenze si situa (credo) la condizione dell’architettura contemporanea
e, ragionandoci un poco sopra, è proprio in queste piccole differenze che se ne
possono cogliere i gravosi impegni.
In un contesto culturale come quello che viviamo, in cui l’architettura e
l’urbanistica (insieme a tutte le articolazioni della cultura civile e del sentire
comune) devono indubbiamente consistere anche in una rinnovata e fervida
attenzione ai lasciti del passato, è però necessario fare chiarezza su alcune
questioni di fondo o, meglio, su alcune idee correnti (ed in linea di massima
giuste), che peraltro quando sono banalizzate e soprattutto quando diventano
slogan acritici rischiano di fuorviare ogni ragionamento utile.
Una di queste è che tutti noi troppo spesso dimentichiamo, nel ripetere
l’equazione progresso economico e sociale-distruzione dell’ambiente (che è
anche questa, se vogliamo, un’idea corrente un po’ generica), di valutare la
194
misura reale del progresso, se questo c’è stato, e di confrontarne gli effetti
positivi con quelli negativi.
Vorrei farvene un esempio: sono da poco rientrato da una vacanza in Grecia, che ora sta vivendo un periodo molto interessante e che gli architetti
dovrebbero conoscere e studiare, perché è proprio ora soggetto a quel tipo di
trasformazione tumultuosa e disastrosa che in Italia abbiamo conosciuto dagli
anni Cinquanta ai Settanta, e sono stato in un paese di Cefalonia che avevo
visitato soltanto venticinque anni fa. Qui, a Fiskardo, ho provato lo shock di
constatare che, accanto a quello che c’era prima, alcuni cipressi e poche case
saggiamente poste accanto al bellissimo porto antico, sono sorte tantissime
case finto-veneziane di cemento armato, volgari e casuali, alcune pure, le peggiori, connotate da maldestri tentativi di adattamento all’ambiente.
D’impatto ho pensato che avrei preferito lasciare tutto com’era venticinque anni fa; ho, in quel momento, condiviso con tutti gli immaginabili ambientalisti, verdi, cultori del paesaggio, ecc., la repulsione per il moderno, lo
spirito della conservazione ad ogni costo. Poi mi sono ricordato di aver allora,
venticinque anni fa, chiesto ad una vecchietta, all’interno di un poverissimo
caffè, come fosse lì la vita d’inverno, e che costei mi aveva risposto: «melanconia, melanconia, melanconia», com’era ovvio in un paese senza vita né
Sperlonga 1960
(coll. G. Giardino).
195
speranze; mentre ora le case, pur brutte, vivevano, erano affittate a turisti di
tutto il mondo, c’era un’attività economica, un plausibile (anche se rischioso)
futuro.
Così sono rimasto con 1’amarezza del dubbio che il mio compianto per la
trasformazione avvenuta ed il mio desiderio frustrato di una conservazione assoluta facessero parte delle sensazioni di rito di un turista snob, di un estraneo
ricco (non io, ma la realtà che rappresentavo) farisaicamente impegnato a far
la morale in casa d’altri.
Una seconda idea assai diffusa, ma del tutto fuorviante, per cui ancora mi
torna utile l’esempio di Fiskardo, è l’idea di originarietà: che è proprio, di
fronte alla constatazione degli scempi e del degrado contemporaneo, quello
che ti salta in mente per opposizione e confronto. Cioè appunto la Fiskardo
del 1974, con le sue poche case così ben orientate, così ben collocate, così fresche malgrado il clima caldo, così sobrie, così ben proporzionate con i materiali ed i dettagli così giusti e così distintivi, che istintivamente finiamo (ed ho
finito io stesso) per idealizzare come una realta raggiunta, compiuta, perfetta,
essenziale e purtroppo perduta: un nucleo urbano originario, che sarebbe appunto l’oggetto di ogni ipotesi conservativa (o di ripristino, o di restauro).
Tuttavia è evidente che quella era solo la Fiskardo del 1974, consegnataci
da una storia evolutiva che nulla ci autorizza a considerare semplice né priva
di contraddizioni, né lineare, né esemplare, né chiara. Da questo punto di vista la stereotipa qualità di molte città e paesaggi famosi rivela, solo a grattarci
un po’ dentro, ben strane sorprese: la sterminata distesa di aranceti della Conca d’Oro, che profumava di zagare tutta la città di Palermo prima che questa
se la mangiasse con i suoi casermoni, non permane dai giardini della città
araba, ma è il derivato di un drastico, eppure economicamente e socialmente
drammatico, espianto dei gelsi, avvenuto a metà Ottocento; i terrazzamenti
dell’altopiano ragusano, che sono sei-settecenteschi, sono il risultato di una
feroce lotta economico-politica fra gruppi sociali, e sostituiscono un paesaggio di acque, forre ed orti, oggi del tutto scomparso, ecc.
Ne viene quindi che al concetto di originarietà, proposto in modo assurdamente metastorico, bisogna sostituire qualcosa di più vero, che ne salvi un
aspetto essenziale: il fatto cioè che esso traduce (malamente) la consapevolezza comune che la storia ci propone, non importa per ora attraverso quale
e quanto lineare evoluzione, dei raggiungimenti, delle soluzioni compiute
ed imperfettibili, degli ambienti delle città e dei paesaggi di per sé del tutto
adeguati.
Qui valgono bene alcuni esempi semplici: la forchetta, il violino, ecc. Oggetti che, non conta ora attraverso quale processo, si sono evoluti fino ad
uno stadio praticamente finale; né ha senso trattarne un’innovazione, pena il
grottesco, almeno finché si seguiterà a mangiare 1’attuale tipo di cibo con le
attuali modalità o si seguiterà ad ascoltare Mozart. Così forse vale pure per
alcuni degli aspetti della Fiskardo del 1974: vedi per esempio la straordinaria
sensatezza della disposizione delle sue semplici case in pietra e legno sul suolo
e la sapienza del loro orientamento, il che le ha preservate dal degrado, dal
196
vento, finanche dagli eventi sismici, e le ha rese fresche, ventilate, asciutte,
allegre, igieniche.
È chiaro che qui abbiamo davanti il risultato di una lunga e forse contraddittoria evoluzione, che a partire da determinate tecniche (la costruzione
in pietra, ecc.) e per determinati bisogni, finisce per averci consegnato un
prodotto praticamente perfetto ed esteticamente compiuto; è chiaro pure che
tutto questo è stato favorito, probabilmente, da una certa lentezza e durata del
processo (lentezza nella trasformazione dei bisogni, continuità nell’evoluzione
tecnica), che hanno aiutato quella successiva messa a punto e sperimentazione,
e poi ripensamento ed affinamento di tutte le strategie e di tutti i particolari.
Ma è soprattutto chiaro, infine, che. qui comincia a porsi un serio problema conoscitivo e pratico per noi architetti, perché ci troviamo di fronte ad un
vero patrimonio di conoscenze e di tecniche stratificate, selezionate, mirate,
raffinate: un tesoro di intelligenza umana condensato in un manufatto, che
non possiamo permetterci di perdere.
Da questo punto di vista appaiono relativamente componibili e poco significative molte delle ragioni della feroce opposizione che esiste oggi fra i
conservazionisti ed i restauratori e fra essi ed i sostenitori dell’innovazione: infatti (so di semplificare molto) di fronte alla constatata compiutezza di quella
casa greca a noi architetti restano in fondo solo due opzioni. Se le condizioni
ed i bisogni a cui assolveva quel manufatto non sono cambiati (oppure se
quelli attuali sono con essi compatibili, che poi verosimilmente era il caso
ricordato), non ha senso tentare di innovarlo; va bene così, va ricostituito
nello stesso modo e con gli stessi criteri. Se invece le condizioni ed i bisogni
sono cambiati, bisogna per forza fare una cosa nuova, ma una cosa nuova in
cui non vada perduto nulla della sapienza accumulata in quella vecchia (non,
come purtroppo avviene a Fiskardo, e dovunque, allorché si fanno cose scriteriate ed insipienti che del vecchio copiano solo alcune forme).
Il denominatore comune fra queste due alternative è la conoscenza tecnica, pratica, produttiva: bisogna, in ogni caso, ripercorrere passo dopo passo
tutte le fasi dell’evoluzione del manufatto, comprenderne le ragioni pratiche
e le motivazioni estetiche, le tecniche ed i modi per impadronirsene appieno.
Allora soltanto sapremo conservare e restaurare, o rifare: tutti termini che qui
appaiono quasi come sinonimi. Se si tratta di violini, dovremo conoscere i
giusti legni, e le tecniche storiche per curvarli e scolpirli, le colle, le lacche, le
vernici e le tecniche antiche per produrli, ecc., sia che si tratti di restituire uno
Stradivari o un Amati rotto alla mano del violinista, sia che si tratti di fare un
nuovo strumento eccellente; restando qui soltanto esclusa l’ipotesi di ibernare
per sempre, con qualche procedura chimica o alchemica, uno Stradivari rotto
allo stato di rottura attuale (questa è ora, purtroppo, la più diffusa interpretazione della conservazione).
Se si tratta di case, allora dovremo conoscerne tutto (smontare e rimontare le parti e capire le ragioni di una porta spoletina del Seicento, come fa
Marconi con i suoi studenti), per rifarle, riattivarle e renderle utili, se questo
è ragionevole e logico.
197
Ma allora soltanto sapremo anche progettare il nuovo: qui il ripercorrimento delle ragioni storiche dell’evoluzione tecnica non vale soltanto come
ginnastica (eppure l’esercizio serve assai bene alla didattica, è straordinariamente formativo, come stiamo di nuovo imparando nelle università), né come
educazione al rispetto del passato (che pure è vitale), ma è intrinseco, quasi
consustanziale, allo stesso progetto creativo. Questo, in breve, non può infatti
che consistere anche in una paziente scansione del già fatto e del perché è stato
fatto, come dimostrano, se non altro, gli studi ed i quaderni di appunti, presi
dall’antico, di tutti i grandi maestri contemporanei, Le Corbusier in testa.
Certamente quello della possibilità di riuscire ad introiettare nell’innovazione gli elementi di saggezza derivanti dalla conoscenza storica non è un
tema semplice da spiegare in poche parole: è un tema squisitamente umanistico presente, ma celato e quasi sotterraneo, in tutta la tradizione del moderno
e soltanto ora diventato centrale e palese; tanto da essere, tutto sommato, il
nucleo di tutto quello che insegniamo all’Università.
Il fatto è che abbiamo vissuto (noi in Italia dal dopoguerra agli anni Settanta) trasformazioni rapidissime, misurate in pochi decenni, e rilevantissime
(incrementi di popolazione, di reddito, moltiplicazioni radicali delle strutture
economiche e sociali, ecc.), che hanno portato, assieme all’opinione comune, anche la percezione degli architetti a concentrarsi solo sulle differenze tra
l’attualità ed il passato e non a coglierne le analogie. Avevamo di fronte agli
occhi la velocità e l’urgenza delle trasformazioni in atto e non siamo riusciti
a compararle con quelle più remote, che pure ci hanno consegnato i contesti
ambientali, le città, i paesaggi e le architetture più nobili del nostro patrimonio; queste le abbiamo, non del tutto erroneamente ma certo superficialmente, associate a sviluppi più lenti, più evolutivi, più artigianali, più progressivi,
assolutamente inconfrontabili, nella percezione comune, con la modernità.
Così, assieme al travisamento della dinamica a volte drammatica e contraddittoria della reale formazione storica dell’ambiente, abbiamo finito per
vedere il passato come una realtà immobile, lontana, metastorica, idealizzata, irraggiungibile; una realtà quindi che si può solamente e disperatamente
conservare oppure rimpiangere. Da qui pure una pratica della conservazione
(quella delle soprintendenze, degli archeologi, ecc.) che sembra avere come
scopo solo la creazione di un infinito archivio o museo inattivo, privo di ogni
possibile uso contemporaneo, e come metodo quello dell’ibernazione dei reperti, di tutti i possibili reperti, per consegnarli ai posteri. Da qui pure il
costume della lamentazione perenne, un po’ snobistica, come abbiamo già
visto, sul degrado in atto, a cui solo sembra si possa opporre il concetto di salvaguardia, di vincolo o di tutela (che sono ancora, come si vede, tutti concetti
e strategie intrinsecamente negative dell’attività e dell’uso).
A tutto questo si deve sostituire, credo, un approccio più laico, cioè più
tecnico, più attento alle cose e al loro senso ed uso e, nello stesso tempo, più
storicamente consapevole (e quindi veramente e compiutamente umanistico); sulla conoscenza vera, concreta, materiale e dialettica della storia si deve
fondare sia l’innovazione che il restauro, la conservazione e pure la salvaguar-
198
dia. Termini che, abbandonata l’idea di volere il nuovo a tutti i costi, anche
dove ciò che c’è va bene, che è una delle forme più comuni della stupidità
modernista, perdono qualsiasi carattere aprioristico di contrapposizione: essi
descrivono solo attività diverse, praticate per scopi diversi, con metodi non
incompatibili, alimentate da una profonda. e seria cultura comune.
Evoluzione ed architettura
Roberto de Rubertis (7 settembre 2007)
Sperlonga ha un fascino irresistibile. Essere qui oggi, invitato a parlarne,
induce la tentazione di non smettere mai. L’unico modo per resistere alla tentazione è cederle, recita il celebre aforisma di Oscar Wilde, ma questa volta
mi sforzerò di non applicarlo e mi limiterò a proporvi brevemente una diversa
occasione di riflessione sulla città; un’occasione che, pur stimolata e alimentata oggi da questa splendida città, possa dire anche altro.
Introduco il mio intervento delineandone l’obiettivo in una premessa rapidissima. Intendo parlare delle mutazioni delle città in chiave dichiaratamente
evoluzionistica; vale a dire che intendo inquadrare i processi evolutivi riscontrabili in architettura, riconducendoli ai paradigmi essenziali introdotti da
Charles Darwin per l’interpretazione delle mutazioni in biologia. Il pensiero
evoluzionista, come ben si sa, non viene mai affrontato in architettura. Se ne
parla e se ne discute, anche animatamente e con argomentazioni fortemente
coinvolgenti, in molte discipline, soprattutto nelle scienze naturali e in parte
in sociologia e in linguistica, ma mai in architettura. Proverò a verificare se
Sperlonga può aiutarmi in questo compito.
Secondo il pensiero evoluzionista la vita, in senso biologico, nacque in
quello che si suole definire il brodo primordiale, dove in qualche modo – e
non si sa come – la materia, in circostanze ambientali singolarmente favorevoli, cominciò casualmente ad organizzarsi per dar luogo a qualcosa di più e
di diverso da ciò che c’era prima.
Organismi sempre più complessi andarono selezionandosi attraverso lentissime e interminabili mutazioni accidentali, fino alla situazione attuale,
senza un preordinato intendimento iniziale, vale a dire senza la guida di un
“disegno intelligente” finalizzato allo scopo.
Il problema è se in architettura, che in buona sostanza rappresenta un
frammento dell’evoluzione sul pianeta, possa osservarsi qualcosa di simile.
Un riferimento analogico, se vogliamo, può essere offerto, proprio in casi
come quello di Sperlonga, dall’esistenza di un brodo primordiale, per così dire
culturale, che è il Mediterraneo, culla della civiltà. Si può dire, forse riduttivamente, che il Mediterraneo rappresenta il brodo primordiale della civiltà
occidentale (e forse non solo), e quindi della sua architettura. Anche in questo caso circostanze particolari indirizzarono la selezione naturale dei modelli
urbani, degli stili e dei linguaggi verso le forme attuali, consentendone poi la
diffusione altrove.
199
Successive ondate di influenze reciproche in vari momenti storici portarono a reinnestare nel Mediterraneo ulteriori mutazioni accidentali maturate lontano e nuovamente cresciute e sbocciate in questo mare chiuso, dove
ogni influenza estranea trova humus fertile per germogliare e riprodursi con
ricchezza di varietà. E sempre Darwin insegna che dove le varietà si producono con maggiore ricchezza tipologica, c’è maggiore probabilità che alcune
superino la selezione naturale, per la quale sopravvivono solo i prototipi più
adattabili al mutare delle condizioni ambientali (in senso lato).
Intorno a questo anello di coste, successione di fasce di terra sottili che si
affacciano sul mare, come per miracolo – o per caso, preferisco pensare – si
sono venute determinando situazioni strane, anomale, che in altre zone del
mondo non si sono verificate. Sembra che in luoghi precisi, oggi perfettamente riconoscibili, si siano formati sorta di focolai di germinazione di invenzioni
architettoniche feconde, si siano sperimentate, per decine di migliaia di anni,
soluzioni spaziali, morfologiche, tipologiche e linguistiche, tra le quali si sono
selezionate le configurazioni più idonee alla sopravvivenza, perché più durature o perché più riadattabili a differenti condizioni d’impiego o semplicemente
per caso.
In questi luoghi particolari si determinò lentamente nel tempo un coacervo di eventi, un moltiplicarsi di circostanze, di episodi orografici, storici, di
dinamica demografica, di carica simbolica, fortemente portatori di valenze
consolidative. Si pensi all’apporto di civiltà indotto dai Fenici quando per primi chiusero l’anello delle comunicazioni marittime intorno al Mediterraneo,
creando cortocircuiti tra Cartagine e Byblos, in Libano, tra le coste africane
della Syrte e le coste italiche del Tirreno.
Quell’anello fu, ed è tuttora, una costellazione di luoghi casualmente
prodigiosi, sede di circostanze singolari, artefici di quello sviluppo urbano
e architettonico che oggi giunge a noi evoluto e stabilizzato nelle forme che
conosciamo e che apprezziamo. Sperlonga è uno di questi luoghi; ciascuno ha
circostanze condizionanti diverse: un porto dotato di forte potere attrattivo,
una confluenza viaria strategicamente importante, un ruolo storico di particolare peso, una caratteristica orografica singolare. I casi sono molti e notevolmente differenziati, anche strani o anomali, talora, ma sempre intessuti in
una rete di collegamenti che si annoda intorno al Mediterraneo e che da esso
trae la vitalità per un reciproco rafforzamento. In termini evoluzionistici può
dirsi che dal Mediterraneo emergono le occasioni accidentali, moltiplicate
dalle condizioni di vicinanza e di scambio, per un progressivo “adattamento”
del preesistente alla mutevolezza dell’ambiente, tali da favorirne la sopravvivenza.
Gli attuali luoghi privilegiati dell’architettura sorsero e si accrebbero senza alcuna previsione di sviluppo, così come accadde ai primi organismi nel
brodo primordiale, fino a perfezionarsi (parola evoluzionisticamente priva di
senso) per assumere la configurazione attuale; quella che noi, attraverso un
meccanismo di valutazione anch’esso passato per successivi stadi di evoluzione, giudichiamo eccellente.
200
È appunto il caso di Sperlonga dove una lunga successione di vicende storiche, di eventi notevoli, di felici convergenze di accadimenti di varia natura,
progressivamente riadattati e rivitalizzati dalle esigenze poste da un ambiente
orograficamente singolare e da una collocazione territorialmente favorevole,
ha condotto alla maturazione di una gemma urbana nella quale è difficile
sostenere oggi l’assenza di un intento programmatorio iniziale lucido e lungimirante.
Ma l’osservazione più straordinaria, da farsi su Sperlonga come su altri
centri ugualmente distinguibili per il mirabile equilibrio dinamico che mani-
Nucleo storico di Sperlonga
(foto S. Massotti, 2007).
festano, anche sotto il profilo figurativo, è che va evidenziandosi una vitalità
quasi autonoma della città, indipendentemente dalle volontà dei singoli uomini che pur concorrono ad edificarla e trasformarla e indipendentemente
dalla vicende delle singole componenti edilizie, infrastrutturali e funzionali.
201
È come se ci trovassimo sulla soglia di un’importante mutazione evolutiva,
nella quale, come nel brodo primordiale, organismi semplici e indipendenti
si uniscono per dar vita a un superorganismo più complesso, nel quale ogni
singola componente concorre inconsapevolmente a determinare una sorta di
volontà collettiva.
Oggi l’esito imprevisto di un’accidentale sommatoria di elementi singoli,
non deliberatamente orientati (edifici, infrastrutture, istituzioni, iniziative,
dinamismi), porta all’insorgenza di qualcosa di molto diverso: l’entità urbana,
intesa come complesso di elementi fisici, di relazioni e di tendenze che conducono alla nascita di un’entità nuova, definibile “vita” di grado superiore.
Così come l’organismo animale è superiore agli aggregati di cellule di cui si
compone e così come la cellula è superiore alle catene di aminoacidi di cui a
sua volta si compone.
Mi riferisco a una città come Sperlonga, naturalmente, ma anche alle tante
altre nelle quali da tempo immemorabile si realizzano situazioni evolutive
particolari. Mi riferisco a tutti i luoghi deputati ad accogliere favorevolmente
le mutazioni, i luoghi dove accadono sempre eventi che non si disperdono,
ma si adattano a nuove condizioni proclamando ogni volta la loro sopravvivenza. Luoghi dove i fatti si fissano nella memoria, le azioni si stampano sulle
pietre, la storia ripercorre itinerari forti, capaci di ricostituirsi sempre in modo
innovativo, fino a dichiarare una sorta di autonomia; una sorta di progressione evolutiva apparentemente coesa da una logica di sviluppo, quasi un’intenzionale strategia di sopravvivenza tanto somigliante ad un libero arbitrio.
Ci troviamo di fronte ad un fenomeno molto singolare, un fenomeno che
forse oggi, per l’elevato grado di complessità assunto dalle reti informatiche e
dalle comunicazioni nel loro insieme, sta manifestandosi per la prima volta:
alcune “sostanze” urbane (architettoniche, storiche, umane in genere) determinano la vita della città “come se” fossero organizzate secondo programmi lucidamente determinati. Città come organismo, quindi, ma anche città
come vita.
Anche in biologia ci fu un tempo in cui un primo organismo si configurò
come qualcosa di diverso dal resto, cominciò a riprodursi, a mantenersi unitario, acquistando maggiore stabilità e quindi riuscendo a sopravvivere più a
lungo, mentre forse tutto il resto si disfaceva intorno a lui. Forse qualche condizione ambientale, qualche mutazione fisica o chimica del brodo d’alimentazione degli organismi primordiali favorì un’aggregazione, che poi risultò
vantaggiosa e sopravvisse evolvendosi.
Per i luoghi urbani è verosimile che quel tempo sia ora; che le reti di comunicazione forniscano quella mutazione ambientale necessaria a compiere il
salto qualitativo e a dare origine alla città vivente.
Qualcosa di simile era già accaduto sul pianeta. In fondo nelle forme di
aggregazione degli animali sociali (insetti, ma non solo) l’individuo non è più
l’ape o la formica, ma è l’alveare o il formicaio. Il singolo componente, come
una cellula nell’organismo animale, ignora di essere funzionale a qualcosa di
più grande di lui e d’altra parte la società nel suo insieme, che pur sembra
202
Da sinistra F. Purini,
l’assessore T. De Simone,
S. Amorosino, R. de Rubertis
(al microfono), C. Carbone
e M. Cademartori
(7 settembre 2007).
mostrare volontà autonoma, è priva di strategia intenzionale. L’obiettivo della
migliore sopravvivenza collettiva, ancorché limitato ad un intorno limitato
(boscimani, bantù e lapponi figurano poco nei programmi assistenziali comunitari), è solo il risultato della sommatoria degli interessi individuali.
Secondo l’ipotesi qui delineata si sta assistendo oggi ad un fenomeno storicamente straordinario: la nascita di un organismo di livello superiore. Per la
prima volta il fenomeno si verifica fuori da un’evoluzione biologica, ma nel
quadro di un processo artificiale, composto da materiale inorganico, come
sono le case, le strade, i metalli dei conduttori elettrici e delle ferraglie, lo hardware e il software dei motori e dei computer. Ne consegue una forma di vita
non più animale ma di complessità diversa; tuttavia ugualmente organizzata e
in grado di comportarsi “come se” fosse dotata di libero arbitrio e lottasse per
la propria sopravvivenza.
Non è però necessario che questa espressione di volontà sia consapevole,
così come non era consapevole nella prima ameba che cominciò a svilupparsi
senza averne conoscenza. Non è necessario che la città sappia che sta diventando un organismo vivo: l’importante è che ciò accada.
Resta da chiedersi quale sia il ruolo degli uomini nella progressione evolutiva della città verso l’autonomia. Forse nient’altro che api nell’alveare, o
cellule nell’organismo animale, o ancor meno, aminoacidi nella cellula, enzimi catalizzatori. Come api o formiche crediamo di agire per noi, per i nostri
bisogni, per i nostri interessi o per i nostri sogni e in realtà siamo parti inconsapevoli di un meccanismo, anch’esso inconsapevole, ma di complessità assai
più elevata. Un meccanismo dotato di strategie apparentemente mirate, che
muta, si evolve e si adatta a situazioni nuove; un meccanismo che, osservato
a grande scala, si muove, si agita e si sviluppa, cresce nel bene e nel male, nel
buon governo e nella speculazione, nella gloria e nel degrado. Un meccani-
203
smo che si differenzia, assume un’identità, consegue esiti estetici e forse tenta
disperatamente di sopravvivere, magari senza saperlo. Un meccanismo che
sostanzialmente ci ignora.
C.
Istituzioni giuridiche e ordinamenti costituzionali
elenco degli incontri:
1. La difficile transizione politico-costituzionale
venerdì 11 settembre 1998
Saluto di Armando Cusani, Sindaco di Sperlonga
«Vie realistiche alla riforma», Giuseppe Vegas, senatore della Repubblica
«Costituzione economica e Unione Europea», Carlo Pace, professore ordinario di Economia politica nell’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma,
membro della Camera dei Deputati
«Finalità e valori del cambiamento costituzionale», Pietro Scoppola, professore
ordinario di Storia contemporanea nell’Università degli Studi “La Sapienza”
di Roma
«Le difficoltà della transizione», dottor Antonio Gambino, giornalista
Conclusioni di sintesi dell’on. Antonio Maccanico, Ministro delle Poste e delle
Telecomunicazioni.
2. Certezza del diritto (o dei diritti) nella crisi della giustizia italiana
sabato 2 settembre 2000
Saluto di Armando Cusani, Sindaco di Sperlonga e del professor Carlo Pace,
componente del Comitato d’onore
Premessa del professor Giovanni Conso, Presidente emerito della Corte Costituzionale e Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei
«Certezza come uniformità e certezza come tempestività. I costi delle garanzie»,
Gilberto Lozzi, professore ordinario di Diritto processuale penale nell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma
«Il ruolo ambiguo della Cassazione tra legittimità e merito», Mario Morelli, presidente di Sezione della Corte di Cassazione
«Le vie d’uscita», on. Anna Fidelbo Finocchiaro, Presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati
«Primi passi della riforma del giudice unico», Nino Abbate, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione
«Giudice ordinario e giudice amministrativo: giurisprudenze parallele?», Paolo
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Stella Richter, professore ordinario di Diritto urbanistico nell’Università degli
studi “La Sapienza” di Roma
3. Il sistema amministrativo tra pubblico e privato
venerdì 7 settembre 2001
Saluto di Armando Cusani, Sindaco di Sperlonga
Introduzione di Paolo Stella Richter, professore ordinario di Diritto urbanistico nell’Università degli studi “La Sapienza” dì Roma
«Stato, mercato ed esternalizzazione dei servizi pubblici», Carlo Pace, professore ordinario di Economia politica nell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma
«Il principio di sussidiarietà: affidamento dei servizi pubblici ai privati», Sandro
Amorosino, professore ordinario di Diritto dell’economia nell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma
«Riforma della pubblica amministrazione e modelli di azione privatistici»,
Raffaele di Raimo, professore ordinario di Diritto civile nell’Università
degli studi di Lecce
«L’amministrare pubblico per accordi e convenzioni», Paolo De Ioanna, consigliere di Stato, già Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri
«Risultati e prospettive del processo di riforma», Vincenzo Cerulli Irelli,
professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università degli studi
“La Sapienza” di Roma
4. La riforma del Titolo V, parte II, della Costituzione
mercoledì 4 settembre 2005
Saluto di Armando Cusani, Sindaco di Sperlonga
Relazione introduttiva di Paolo Stella Richter, ordinario di Diritto urbanistico
nell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma
«L’architettura generale della riforma», Antonio D’Atena, professore ordinario
di Diritto costituzionale nell’Università degli studi “Tor Vergata” di Roma
«La ripartizione delle funzioni normative», Alberto De Roberto, Presidente del
Consiglio di Stato
«Le funzioni amministrative tra Regioni e Autonomie locali», Paolo Caretti,
professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università degli studi
di Firenze
«L’attuazione della riforma», Sandro Amorosino, professore ordinario di Diritto dell’economia nell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma
«Prospettive», Vincenzo Cerulli Irelli, professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma
205
Relazione conclusiva del professor Leopoldo Elia, Presidente emerito della
Corte Costituzionale
5. La tutela del paesaggio tra Stato, Regioni e Comuni
giovedì 7 settembre
Introduzione di Sandro Amorosino, professore ordinario di Diritto dell’economia nella Università degli studi “La Sapienza” di Roma
Relazioni
Pierluigi Portaluri, professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università degli studi di Lecce
Paolo Stella Richter, professore ordinario di Diritto urbanistico nella Università degli studi “La Sapienza” di Roma
dal convegno del 2 settembre 2000:
Premessa
Giovanni Conso
Il titolo di questo ormai tradizionale convegno, come sempre così ben
preparato, sottintende uno stato di cose che ritengo pressoché disastroso: la
certezza del diritto non esiste, anzi – inutile illudersi – ve ne sarà sempre di
meno. Allo stesso modo, non vi è speditezza, anzi ve ne sarà sempre di meno:
anche qui inutile illudersi.
Non vorrei apparire una sorta di Cassandra, ma spero che mi capirete: sono
circa cinquant’anni che subisco delusioni per aver sempre battuto invano sui
tasti di una giustizia più celere e di un diritto più certo. Anziché migliorare,
entrambi sono sempre andati peggiorando, per cui temo che si tratti di un
trend inevitabile.
Non resta che addolcire la melanconia con i colori meravigliosi ed il sole
splendente che oggi privilegiano il vostro ospite. Egli ha qui, invero, molte fortune: vede un nobilissimo pubblico, le belle litografie della mostra di
Guccione alle pareti, uno splendido panorama. E, ulteriore motivo di soddisfazione, un programma della Settimana Culturale di Sperlonga quanto mai
interessante: parte dall’Odissea, dalla Grecia, da Ulisse. Ma, ecco che l’accostamento fa riemergere la malinconia: purtroppo, la giustizia si fa aspettare
in Italia assai più di quanto Penelope dovette attendere il ritorno del marito.
Siamo, quindi, un po’ tutti delle Penelopi, mentre non so dove sia l’Ulisse
capace di condurre in porto la nave travagliata del nostro sistema giudiziario.
Carlo Pace, nel suo saluto, ha sottolineato un aspetto decisamente importante: “Bisogna destinare di più alla giustizia, se si vuole che funzioni”. Con tale
sacrosanta affermazione l’economista dà grande sostegno al giurista: sarà, infatti, inutile contare su veri miglioramenti nel campo della certezza del diritto e
206
della celerità processuale, se, nel predisporre la legge finanziaria, lo Stato – non
ne faccio una questione di prima o seconda repubblica: ciò avviene da sempre
– continuerà a destinare sì e no alla giustizia l’uno per cento delle disponibilità.
E chiaro che, con l’assegnare una quota così ristretta delle proprie risorse (per
lungo tempo la quota è stata persino minore) ai problemi macroscopici e crescenti della giustizia, vi sarà ben poco da sperare. Se non si apporterà un netto
cambiamento a questa impostazione, si potrà discutere all’infinito, proporre
rimedi, rifarsi a modelli stranieri o storici, ma Penelope continuerà ad aspettare
all’infinito. Anzi, la situazione non potrà che aggravarsi.
Occorre, allora, un franco esame di coscienza: chiedersi, cioè, per quale
ragione lo Stato italiano sia costante nel concedere tanto poco alla giustizia.
Prima di rispondere, domandiamoci fino a che punto vi sia un effettivo interesse del mondo politico al buon funzionamento della giustizia. Se vi fosse un
interesse reale, prima o poi, questo o quel Governo, questo o quel Parlamento
avrebbe pur potuto rendersi finalmente conto che l’uno per cento è davvero
troppo poca cosa, tenuto anche conto degli inevitabili residui passivi che, ogni
volta, riducono più o meno di un terzo l’effettiva spendita. Come pretendere
che i nostri Ministri della giustizia che si succedono a ritmo piuttosto frequente possano far fronte ai tantissimi problemi che hanno dinanzi? A malapena
si riescono a consumare i due terzi delle già scarse somme disponibili, a causa
anche della burocrazia e degli asfissianti passaggi tra questo e quell’organo di
controllo, per di più sempre troppo lenti.
Mi auguro che nel corso della prossima campagna elettorale emerga debitamente la necessità di riconoscere alla giustizia quello che le è davvero
indispensabile, allo stesso modo di quanto avviene negli altri Paesi europei.
Anche su questo piano, infatti, siamo molto indietro: praticamente, gli ultimi
nell’Europa che conta.
Venendo più specificamente ai temi oggi in discussione, va subito sottolineato che il programma parla di certezza dei diritti. La variante è importante
rispetto alla consuetudine che suole incentrare la discussione sulla certezza del
diritto. Della novità va dato merito a Giacomo di Raimo che ha organizzato
il convegno. Infatti, dibattere di certezza del diritto con riguardo all’interezza
dell’ordinamento giuridico, è impresa troppo complessa, dalle molteplici articolazioni ed altrettante complicazioni. Parlare, invece, di certezza dei diritti
significa portare il discorso su un terreno più praticabile, dove è l’individuo ad
essere chiamato direttamente in causa, con la giustificata pretesa di conoscere
esattamente di quali diritti e di quali doveri sia titolare in rapporto ai suoi
impegni e alle sue attività di ogni giorno. Ecco perché, se d’ora in avanti si
parlerà di certezza dei diritti piuttosto che di certezza del diritto – la si persegue da secoli, ma non la si raggiunge mai – qualche passo avanti potremmo
forse farlo, tanto più che, nel crescente risalto dato ormai ai diritti umani,
l’approccio soggettivistico, o meglio ancora individualistico, può essere più
produttivo.
Ma perché alla certezza del diritto non si perviene mai? Mi è parso di un
certo interesse dare uno sguardo alle “voci” dedicate alla certezza del diritto
207
da varie, non tutte, le nostre enciclopedie, “voci” significative perché destinate
ad un’ampia consultazione ed oggetto, quindi, di un divulgazione seriamente
impegnata. Ebbene, mi sono trovato di fronte ad un panorama incredibilmente diversificato: mentre la Giuffré tace, la Garzanti destina all’argomento dieci righe assai efficaci, la Treccani ne illustra il significato in moltissime
pagine, il Digesto Italiano in pochissime. Una estrema varietà, quindi, di atteggiamenti al riguardo: da quello di chi non affronta l’argomento a quelli di
chi gli dedica una trattazione scarsa o, addirittura, una discettazione, com’è il
caso della suggestiva esposizione della Treccani, scandita in argomenti e sotto
argomenti. Mi soffermerò sulla “voce” più sintetica, quella della Garzanti: a
quanti considerano la certezza del diritto come un elemento intrinseco, cioè
essenziale, del diritto, per cui questo o è certo o non è diritto, vengono contrapposti (ma è davvero una contrapposizione sul piano dei risultati?) quanti
ne parlano come di un mito, anzi di una mera illusione e quindi, di una fonte
sicura di delusione. Di fronte al nulla insito nell’illusione è meglio, però, quel
quid di positivo che il mito racchiude, perché, anche se non raggiungibile,
può almeno essere considerato come una bussola.
Si tratta, in ogni caso, di una strada – quella verso la certezza del diritto
– cosparsa di tali e tante difficoltà, ostacoli e pregiudizi, da non permettere
illusioni. Tutto ciò conferma come sia più funzionale il concetto, centrale nel
titolo del presente convegno a Sperlonga, della certezza dei diritti, tra cui spiccano i diritti della persona umana, uomo e donna, invocati continuamente
poiché continuamente violati in Italia e all’estero, ma sempre più oggetto di
dichiarazioni solenni, che valgono almeno a consolidare quelli indiscussi.
La cronaca di questi giorni ha dato particolare risalto a due notizie riguardanti, più o meno direttamente, la certezza dei diritti. La prima – della quale
è facile deplorare il modo in cui è stata presentata dalla stampa, generando
subito una grande confusione – si trova sulla prima pagina dei quotidiani oggi
in edicola. I titoli recitano: “Fumo, è già battaglia sui nuovi divieti”, anche se
gli articoli specificano che la “guerra totale ai fumatori ha ottenuto soltanto il
sì del Governo”. Si tratta, dunque, di un disegno di legge, non di una legge,
mentre il titolo di prima pagina farebbe intendere che da parte dei fumatori
vi sarebbe già battaglia contro un “nuovo” divieto. Non è così, e non lo sarà
ancora per molto. Sono, infatti, convinto che entro la fine di questa legislatura
non si riuscirà a varare una legge così delicata, al cui varo si opporranno in tanti, dai proprietari di locali pubblici non attrezzati ai produttori, al Monopolio
dello Stato, in primis, per non parlare dei fumatori più incalliti. Del resto, in
questi ultimi anni, sono già state parecchie le volte in cui si è annunciato che
non sarebbe più stato possibile fumare in locali pubblici, ma, frequentando
le biblioteche, si trova sempre qualcuno che fuma tranquillamente e nessuno
può impedirglielo perché una norma non esiste ancora.
Più importante, e confacente, la notizia, divulgata ieri, secondo la quale
il Ministro dell’Interno avrebbe firmato il nuovo regolamento dei Centri di
permanenza temporanea. Tale nuovo regolamento, in accordo con le associazioni di immigrati, era accompagnato dalla carta dei diritti e dei doveri
208
degli irregolari in attesa di espulsione. Tema delicatissimo che coinvolge molte
zone d’Italia: delicatissimo per le crescenti presenze, i diversi modi di vedere,
l’urgenza di individuare soluzioni, la necessità di affrontare la questione in
modo distensivo. A tale proposito, il titolo di un articolo pubblicato su un
quotidiano di ieri recitava: “E arrivata la carta dei diritti”, mentre si sarebbe
dovuto aggiungere “e dei doveri”, come, del resto, si poteva leggere all’interno
del testo. La differenza non è da poco. Far pensare che agli immigrati in attesa
di espulsione siano conferiti solo diritti equivale ad innescare micce pericolose
in coloro che di immigrati nemmeno vogliono sentir parlare. Invece, questo
regolamento ha proprio il pregio di fornire contributi di certezza, delineando
un ambito di diritti e di doveri in ordine ai quali occorre essere chiari e precisi,
ad evitare il nascere di proteste disordinate, con il rischio di compromettere
ulteriori, più approfondite, intese.
Sono necessari, un po’ dappertutto, tavoli di confronto meno litigiosi e
meno strumentalizzabili. Un esempio: fra le forze politiche e le rappresentanze sindacali solo una dialettica aperta potrebbe consentire di raggiungere intese in grado di evitare stalli pericolosi e nefaste ambiguità. Allo stesso modo,
tornando per concludere ai problemi giudiziari e forensi, il tema dei rapporti
tra magistrati ed avvocati ha bisogno di un dialogo costruttivo, diretto ad
evitare ritardi e prevenire incertezze: un confronto leale è indispensabile, non
potendo nessuna delle due categorie pensare di imporsi all’altra. La certezza
dei diritti si serve dando anche vita ad intese chiare, nell’interesse, questo sì
superiore, della giustizia.
Il ruolo ambiguo della Cassazione tra legittimità e merito
Mario Morelli
Desidero in primo luogo ringraziare il professor Giacomo di Raimo e complimentarmi con lui per questa bella iniziativa, che egli ha coltivato con tanto
entusiasmo e tanta grinta. Ottima idea quella di un convegno giuridico a
Sperlonga: perché Sperlonga, ancorché fuori dal circuito ufficiale dei seminari di diritto, è, ciononostante, a mio avviso, un luogo deputato, direi quasi
elettivo, per il dibattito giuridico. E lo è in virtù e per merito di quella estesa
colonia di valenti giuristi che da sempre la frequentano e che ha il suo riconosciuto gran maestro nel presidente Nino Abbate, che anche oggi abbiamo
il piacere di avere tra noi.
Questi giuristi dibattono – è vero – di regola in luoghi meno aulici di
quello che oggi ci ospita: sotto gli ombrelloni, in spiaggia, tra i tavolini del bar
Trani, o in occasione delle canoniche mille «vasche» che occupano le serate
sperlongane.
Cambia però oggi solo lo scenario, ma il clima è pur sempre quello familiare ai cultori del diritto... e di Sperlonga.
Ma vengo subito al tema assegnatomi.
Come è noto, il processo consiste nell’applicazione di una norma giuridica
209
a una situazione di fatto; esso comporta l’accertamento del fatto e l’interpretazione della norma giuridica. Due giudizi vengono quindi demandati al giudice: quello storico-ricostruttivo del fatto, che si compie attraverso l’esame dei
dati obiettivi, delle posizioni testimoniali, le perizie, ecc., e quello tecnico, che
consiste nel distillare dalla norma il suo contenuto assiologico e precettivo.
In effetti, in virtù dell’interpretazione che se ne dà in ogni processo la norma
cambia: essa vive, assume contenuti più completi e conformi (sempre compatibilmente con il dato letterale). Si parla così di «diritto vivente», applicato
dal giudice perché ad ognuno dei casi (penali o civili) relativamente ai quali è
chiamato a jus dicere egli applicherà la disposizione introdotta dal Legislatore,
con il carico delle valenze dei contenuti attribuitigli dalle precedenti interpretazioni. Se ogni giudice svolgesse tale giudizio di interpretazione tecnica
della norma in libertà, vi sarebbero tante interpretazioni e tante norme viventi
quanti sono i processi, con la conseguenza che quel principio di uguaglianza
che soprattutto deve applicarsi alla legge («La legge è uguale per tutti») ne
risulterebbe vulnerato e, addirittura, azzerato.
La Corte di Cassazione svolge allora proprio la funzione di assicurare 1’interpretazione uniforme della legge, attraverso la cassazione, appunto, delle
sentenze che non vi si conformino.
Il che dovrebbe garantire anche una tendenziale certezza del diritto, inteso
nella sua oggettività di norma giuridica.
Se il sistema funzionasse nei termini fisiologici ora esposti, ne conseguirebbe anche un certo effetto deflattivo. Di fronte a un’interpretazione consolidata,
ferma e chiara della Corte di Cassazione, infatti, è difficile che si instaurino
quei giudizi che si alimentano proprio della pluralità delle possibili interpretazioni. Purtroppo, però, tale certezza non sussiste: allo stato attuale la Corte
di Cassazione non è – e sarà sempre meno – in grado di somministrarla. Nella
sua attività di nomofilachia (così viene definita, con aulico termine, la funzione
di interpretazione uniforme), essa pronuncia interpretazioni contraddittorie
anche in tempi contestuali, con nessuna tenuta, dal momento che il principio
interpretativo viene continuamente capovolto; pertanto, la parte che intenda
instaurare un giudizio troverà sempre una massima, un’interpretazione, in grado di confortare il proprio assunto. Quindi, la dissuasione che dovrebbe derivare dalla nomofilachia della Corte di Cassazione non esiste nella realtà.
È questa una conseguenza inevitabile dell’insostenibile «sovraccarico» che
la Cassazione si è assunta per il perseguimento di un’anomala (per un giudice
di legittimità), concorrente funzione di ulteriore controllo del merito (di verifica dell’esatta ricostruzione, cioè, del fatto) in terzo grado.
Cosicché, per l’impossibilità di dominare la marea dei ricorsi da cui è per l’effetto sommersa, quella Corte finisce con l’essere inevitabilmente in ritardo sul piano
della nomofilachia e col perdere in qualità per dover rincorrere la quantità.
Ma qual è il rapporto costo-benefici di questa situazione?
Il beneficio consiste nel fatto che, attraverso questo ulteriore controllo,
in alcuni casi vengono corrette talune storture consumate nei due gradi del
giudizio di merito. Si tratta però di un beneficio virtuale, perché la Corte di
210
Cassazione non entra nel merito, ma
ordina semplicemente che venga celebrato ex novo il processo, a seguito
del quale il giudice di pari grado (il
cosiddetto giudice di rinvio) potrà
ribadire la precedente decisione.
I costi consistono appunto
nell’intasamento totale della macchina della giustizia: vengono emesse ventimila sentenze civili in luogo
di duemila; allo stesso modo, in
campo penale, non meno del 90 per
cento delle pendenze della Corte di
Cassazione sono relative a giudizi di
merito. Occorre considerare inoltre
che non vi sono limiti al ricorso in
Cassazione, che può essere riproposto all’infinito contro le sentenze di
rinvio. Nella pratica, dunque, nella
sua dimensione involontariamente perversa, il giudizio di Cassazione esteso
al fatto costituisce un meccanismo di moltiplicazione all’infinito della durata
dei processi. Sono numerosi i casi in cui, presso la Corte di Cassazione, la lite
si trascina tra gli eredi degli eredi delle parti originali. Mi è capitato spesso di
trovarmi di fronte a giudizi cassati su un unico motivo e tornati, a distanza di
quattro anni, con decine di motivi; a loro volta, ricassati, sono tornati ancora
con altri motivi. È chiaro infatti che quando viene cassato un giudizio e viene
rinviato per il rifacimento di un determinato segmento del processo, vengono
introdotte ulteriori questioni, in quanto cambiano gli avvocati, le notifiche,
gli eredi e quant’altro.
Così come la Corte Costituzionale svolge la funzione di caducare le norme
quando queste siano in contrasto con la Costituzione, la Corte di Cassazione
dovrebbe essere il giudice parallelo che svolge la funzione di assicurare la certezza
del diritto in termini di uniforme interpretazione della norma, che si imponga a
tutti i giudici, affinché la legge sia, nel concreto, uguale per tutti. La distorsione
del terzo grado di merito (che costituisce il vero problema, risolto il quale si
scioglierebbe uno dei nodi più grossi della giustizia) viene raggiunta attraverso
il vizio di motivazione. La Corte di Cassazione, infatti, giudica le violazioni di
legge; anche le leggi processuali possono essere violate, e tra queste vi è anche
quella che impone la motivazione. Pertanto, la Corte di Cassazione deve rilevare
se la sentenza manchi di motivazione, e in questo caso cassarla. Allo scopo di
fornire una garanzia ulteriore, si è stabilito che la sentenza merita di essere cassata quando la motivazione esista solo in apparenza, ma non nella sostanza, in
quanto consti di una clausola di stile, oppure quando sia contraddittoria.
Fin quando i vizi che devono condurre alla cassazione, e quindi al rifacimento ex novo del processo, vengono colti all’interno della sentenza come
Da sinistra M. Morelli,
C. Pace, G. di Raimo,
P. Stella Richter,
il Sindaco A. Cusani,
G. Conso, G. Lozzi
e N. Abbate
(2 settembre 2000).
211
prodotto finito (leggendo quindi la decisione), va tutto bene: essi meritano
di essere emendati e statisticamente rivestono un peso relativo. Il problema
consiste nel fatto che per controllare la congruenza della motivazione vengono rivisti gli atti del processo; il giudice di Cassazione, pertanto, ritiene non
congrua o insufficiente la motivazione non sulla base di quanto è scritto nella
sentenza, bensì di ciò che si legge negli atti, addebitando alla Corte d’Appello
di non aver valutato un teste.
Ho parlato di «giudice ambiguo» perché una parte della Corte di Cassazione è consapevole della sua funzione di giudice di legittimità, mentre un’altra
parte è restia a limitarsi a tale funzione, o addirittura non è neppure consapevole della limitazione. Esistono infatti giudici di Cassazione «di allevamento»,
che dopo cinque o sei anni di applicazione al Massimario imparano il mestiere, e altri che vi giungono in tarda età, a seguito di esperienze totalmente di
merito e che quindi non entreranno mai nella dinamica e non avranno mai
la forza di vincere le suggestioni della caduta nel processo di merito. Come
ho già avuto occasione di sostenere, l’attrazione fatale per il merito da parte
dei giudici di legittimità non è meno forte di altre attrazioni alle quali va soggetto un uomo di sana e robusta costituzione fisica; esistono tuttavia uomini
e donne che resistono a quelle tentazioni e fanno voto di castità. Il giudice
di legittimità dovrebbe essere consapevole del fatto che la propria funzione,
dimidiata, di controllo della sola corretta esegesi delle norme giuridiche (senza
ulteriore possibilità di riesame del merito) comporta una sorta di analogo voto
di castità.
Di ciò, del resto, il giudice costituzionale è ben consapevole e non si è
mai preoccupato, nel sindacare la legittimità di una legge, di quali fossero
gli effetti nel processo in cui la questione è stata sollevata. Gli effetti di una
pronuncia della Corte Costituzionale possono essere, invero, devastanti nel
giudizio a quo. Ma la predetta Corte deve assolutamente scavalcare tale ottica.
Altrettanto deve valere per la Corte di Cassazione: la garanzia della corretta
applicazione della legge, della uniforme interpretazione, che è certezza del
diritto e costituisce una funzione – a mio avviso – costituzionalizzata dall’art.
3 Cost., non può essere ricondotta ad effettività se non isolata dall’improprio
terzo grado di merito che viene svolto su tutto il territorio, senza alcun limite, neanche economico. Fino a quando l’individuazione della via d’uscita da
tale situazione rimarrà affidata ai magistrati di Cassazione non si giungerà
ad alcun risultato, a causa delle due anime della Corte. Ne consegue, quale
ulteriore costo. una certa variabilità: infatti, a seconda della formazione dei
magistrati che compongono il collegio, del tutto episodica (essa dipende dalla
disponibilità dei singoli in un determinato giorno), un giudizio che affonda nel merito subirà una trattazione nel merito o, viceversa, sarà dichiarato
inammissibile ante portas perché prospetta questioni estranee alla legittimità.
Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una «variabile» che non credo
possiamo permetterci.
È dunque necessaria una «dieta dimagrante» per la Corte di Cassazione,
che sia però una dieta equilibrata.
212
Oggi accade, invece, che il legislatore, anziché eliminare i grassi superflui,
tolga le proteine nobili.
Con riguardo alle controversie tra cittadini e pubblica amministrazione –
finora conosciute dal giudice amministrativo limitatamente a quelle coinvolgenti «interessi legittimi» in conseguenza della violazione di «norme di azione»
e non anche la tutela dei «diritti soggettivi» per effetto di violazione di «norme
di relazione» (di norme cioè di diritto privato) – il legislatore ha inaugurato,
infatti, un nuovo criterio di riparto della giurisdizione «per materie» e non per
natura delle situazioni incise dalla pubblica amministrazione.
Tale disegno è stato innanzitutto perseguito mediante un decreto legislativo (n. 80/98) di cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità
per eccesso di delega (con sentenza 292/2000); esso però è stato reiterato contestualmente con legge n. 205/2000), per cui è venuto meno tale vizio.
Vi è però un ulteriore profilo di incostituzionalità che il legislatore non si
è prospettato (secondo purtroppo l’ormai invalsa tecnica di legiferazione sulla
base di spinte pragmatiche «dal basso» e non per derivazione «dall’alto», dai
valori e princìpi fondamentali, cioè, fissati nella Carta costituzionale). Nel
momento infatti in cui si demanda al giudice amministrativo di occuparsi, in
quelle materie, anche dei diritti perfetti dei cittadini e di applicare le norme
del diritto privato in controversie (in materie ad esempio di inadempimento
contrattuale) aventi la struttura tipica delle liti civili, si apre la possibilità della
formazione di due diritti viventi paralleli. Come è noto ai tecnici, infatti, le
sentenze amministrative non sono impugnabili per violazione di legge; in altri
termini, sulle sentenze del giudice amministrativo non è esercitabile l’attività
di nomofilachia, l’uniforme interpretazione della legge. Pertanto, tutto quanto
costituisce la suitas di un giudizio civile può essere risolto attraverso diversi
tipi di interpretazione della legge a seconda che la decisione sia demandata
al giudice amministrativo o a quello ordinario. La norma vivente, dunque,
si sdoppia. Non so se il legislatore si sia posto il problema della violazione
dell’articolo 3 Cost., ma ritengo che se lo porranno i giudici nel prosieguo, e
che la Corte Costituzionale sarà presto chiamata a risolverlo.
Giudice ordinario e giudice amministrativo: giurisprudenze parallele?
Paolo Stella Richter
Intervenendo per ultimo, desidero tirare le fila del discorso; la mia diagnosi
è in gran parte differente da quelle illustrate negli interventi precedenti, anzitutto perché occorre tenere ben distinto il problema di una giustizia rapida
(che è certamente anche una questione di mezzi) da quello della certezza del
diritto, o dei diritti, che costituisce il più specifico oggetto dell’incontro odierno. A tal proposito, dissento da quanto è stato detto perché, con riferimento
alla mia materia, il diritto amministrativo (forse più arido rispetto a quello
penale), la Corte di Cassazione e il Parlamento hanno a mio avviso operato
molto bene. Non vi è però dubbio che la certezza del diritto sia oggi in crisi
213
come non mai, perché l’applicazione del diritto non ha per oggetto qualcosa
di statico, bensì l’ordinamento, che si muove. E siccome negli ultimi cinquant’anni la nostra società, e quindi il nostro ordinamento, si è mossa con
una rapidità mai registrata in precedenza, questo periodo vale, in termini di
cambiamenti sociali, come i precedenti mille anni, con la conseguenza che i
problemi si sono moltiplicati e continueranno inevitabilmente a moltiplicarsi.
Occorre farsi una ragione di ciò; se vogliamo essere una civiltà che cresce con
una rapidità impensabile fino a pochi anni fa, ci troveremo sempre più di
fronte alla rincorsa delle norme e dell’ordinamento rispetto ai problemi.
Particolarmente calzante, al riguardo, è l’esempio dato dal titolo della relazione che il Presidente del Collegio culturale mi ha affidato; nel volgere di
meno di un mese, infatti, le cose sono cambiate due volte relativamente ad
un problema antico. Per illustrarlo, premetto che, oltre a occuparmi di Università, svolgo la libera professione; il cliente che si rivolge all’avvocato amministrativista chiede sempre di conoscere chi ripagherà la perdita di tempo
e il nocumento finanziario derivanti dal lungo tempo necessario all’iter del
ricorso. Per oltre trent’anni ho risposto che il risarcimento non è dovuto, non
trattandosi di diritto soggettivo, ma di interesse legittimo; di fronte a tale risposta, il cliente sospetta di essere stato ingannato. Spiego allora che le norme
sono di due generi: quelle che attribuiscono direttamente il bene della vita,
che definiamo «norme di diritto privato attributive di un diritto», e quelle di
diritto amministrativo, le quali prevedono che un potere pubblico valuti la
situazione, applicando le norme, e al termine di un certo procedimento può
darsi che, spesso a discrezione dell’amministrazione, vengano riconosciuti i diritti. Tale posizione di «tutela indiretta o occasionale» è un interesse legittimo
che, secondo l’assunto della Corte di Cassazione costantemente confermato
da centocinquant’anni, non è risarcibile. Finalmente, anche grazie al fatto che
il nostro Paese è entrato a far parte dell’Unione Europea, nel luglio del 1999
la Corte di Cassazione ha cambiato la sua giurisprudenza, affermando che le
conseguenze di una cattiva amministrazione non possono essere sopportate
soltanto dalla vittima di un provvedimento illegittimo, e aggiungendo che la
lesione di un interesse legittimo è risarcibile.
Ciò però ha sollevato un ulteriore problema: dal momento che di taluni
risarcimenti a volte si occupava in via esclusiva il giudice amministrativo e in
altre occasioni quello ordinario, si stavano creando due giurisprudenze diverse, con gravi inconvenienti per la certezza del diritto. Per di più, la Corte
Costituzionale, alla fine del luglio 1999, ravvisò una illegittimità costituzionale che rischiava di scardinare ulteriormente il sistema; avvertito del fatto, il
Parlamento, con una rapidità davvero straordinaria, ha approvato e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 26 luglio 2000 una legge, entrata in vigore il
10 agosto dello stesso anno, che ha superato la questione delle giurisprudenze
parallele, affidando il risarcimento per l’interesse legittimo in via esclusiva
al giudice amministrativo. Pertanto, la Corte di Cassazione e il Parlamento
hanno fatto il proprio dovere: la prima rispondendo a una sentita e diffusa
esigenza di ampliamento dell’ambito del danno risarcibile, e il secondo po-
214
nendo rimedio ad un incidente di natura costituzionale con una tempestività
veramente straordinaria.
Purtroppo, però, i problemi non sono tutti risolti, perché la rincorsa alla
quale ho fatto riferimento ha aperto una serie di ulteriori questioni: ad esempio, la norma non riconosce il diritto ad una licenza da parte di un cittadino, in quanto la valutazione spetta all’amministrazione; se questa adotta un
provvedimento per qualche motivo illegittimo (ad esempio perché l’istruttoria non è stata adeguata, la motivazione è insufficiente, o non ha sentito un
determinato parere), a seguito dell’annullamento del quale si procede a un
riesame, nulla garantisce che la licenza venga concessa, perché la norma non
attribuisce direttamente tale diritto, ma lo rimette al giudizio discrezionale
dell’amministrazione.
Si è così avviato il discorso cosiddetto delle chances, secondo il quale il giudice deve valutare le probabilità per il cittadino di ottenere un provvedimento
favorevole, anche perché, date le disponibilità, non sempre le amministrazioni
sono in grado di pagare; il che crea un’ulteriore questione, del tutto nuova e
frutto dell’evoluzione dell’ordinamento, la quale porrà certamente problemi
di contenimento della spesa pubblica e di compatibilità del risarcimento degli
interessi legittimi con la finanza pubblica allargata. Non è infatti pensabile di
risarcire integralmente tutti gli errori commessi dall’amministrazione.
Aggiungo che l’amministratore, il quale non guadagna molto, contrariamente a quanto a volte si sente dire, ma anzi spesso è davvero sottopagato, un
tempo, nel dubbio, applicava una particolare prudenza, nel timore di sbagliare; oggi egli non vorrebbe tardare, non vorrebbe che il suo diniego, che pure
potrebbe essere giustificato dall’interesse generale, desse luogo ad un risarcimento. Non vorrei che tale aspetto inducesse a concedere tutto ai privati, dal
momento che l’interesse generale esiste ancora.
Non bisogna, dunque, scagliarsi contro i giudici e contro il Parlamento,
ma occorre prendere atto che il cammino della civiltà, e quindi dell’ordinamento che la rappresenta, è difficile e richiede un perfezionamento continuo,
e che la giustizia, della quale si dibatte in questa sede, è una giustizia umana e
non divina. Pertanto, l’aspirazione – mai appagata – e l’ansia di disporre di un
ordinamento perfetto è un’utopia; lottiamo per raggiungerlo, ma non bisogna
farsi troppe illusioni né trovare necessariamente dei responsabili, perché la
difficoltà è nelle cose.
Stato, mercato ed esternalizzazione dei servizi pubblici (2001)
Carlo Pace
Vorrei avvalermi del nuovo potere che mi deriva dal fatto di essere diventato cittadino di Sperlonga e del vecchio privilegio di essere il più anziano tra
i professori presenti, per unirmi al Sindaco nel rivolgere un saluto e nell’esprimere il più vivo compiacimento per il fatto che, nell’avvicendarsi delle nuove
generazioni, abbiamo tra noi il professor Raffaele di Raimo.
215
Desidero inoltre esprimere la più piena soddisfazione per l’organizzazione
che è riuscita a portare qui due personaggi di grande livello, quale il consigliere De Ioanna, che è stato Capo di Gabinetto del Ministro del Tesoro Ciampi,
prima di essere Segretario generale della Presidenza del Consiglio, e l’amico
e collega Vincenzo Cerulli Irelli, che è stato Presidente della Commissione
parlamentare per l’attuazione della riforma della pubblica amministrazione,
vivendo con partecipazione diretta e grande impegno il tema della riforma
Bassanini.
Il tema della relazione tra Stato e mercato si pone oggi come enucleazione
di compiti dalla Pubblica amministrazione e la loro cessione per una gestione
di tipo privatistico, ossia in termini di privatizzazioni. Ma in realtà la questione non è nuova: il rapporto tra Stato e mercato, la prevalenza dell’uno o
dell’altro, l’attribuzione allo Stato di compiti più o meno ampi o di converso
la loro assegnazione a soggetti del settore privato è argomento dibattuto da
molto tempo. Siamo di fronte ad una sorta di oscillazione pendolare e naturalmente, alla pari di un pendolo, si giunge verso certi estremi per poi volgersi
in direzione opposta.
Si tratta di un’oscillazione lentissima, che certamente non si svolge nello
spazio di un secondo ed i cui riflessi hanno tempi molto più lunghi. Simile
oscillazione tra Stato e mercato è, ad esempio riscontrabile nel caso delle ferrovie. Noi siamo stati abituati a considerare il trasporto ferroviario come un
servizio apprestato dal soggetto pubblico. In realtà si giunse a questo risultato
nel XIX secolo, al momento della caduta della Destra, mediante la statizzazione o nazionalizzazione di società ferroviarie private, che suscitò gli strali
critici di Ruggero Bonghi. In quell’occasione, ciò che era nato privato divenne
pubblico, ed ora siamo in presenza di una tendenza opposta.
In tempi più recenti una simile trasformazione da privato a pubblico si
ebbe nel caso dell’energia elettrica. La produzione e distribuzione dell’energia
elettrica entrò nella sfera pubblica non per esplicito disegno, ma come evento
che potremmo definire casuale, quando la crisi industriale e la connessa crisi
bancaria condusse alla formazione del sistema dell’IRI ed all’acquisizione da
parte dell’Istituto delle imprese elettriche. La formula, successivamente elaborata anche sul piano teorico, oltre che su quello normativo, delle “partecipazioni statali”, avrebbe dovuto assicurare il contemperamento delle esigenze
di controllo del comportamento conforme al pubblico interesse delle imprese
elettriche, con quello dell’economicità della gestione. Noto per inciso che la
“degenerazione” del sistema è, a mio avviso, dovuta alla mancanza di una norma idonea a spingere le imprese a mantenere le partecipazioni azionarie private al di sopra di una certa soglia. L’uscita dei privati ha invece generato una
spinta verso una gestione squilibrata sul versante pubblico, per non dire su
quello politico. Nell’assetto che si era comunque andato consolidando, l’interesse pubblico trovava un secondo pilastro – oltre quello dell’assetto proprietario – nell’intervento ministeriale in tema di determinazione delle regole di
prestazione dei servizi e di fissazione delle tariffe. Eppure, nelle condizioni politiche ed ideologiche prevalenti al momento dell’avvento del Centro-sinistra,
216
tutto ciò non fu considerato costituire adeguata garanzia del perseguimento
del pubblico interesse e si volle la nazionalizzazione del settore elettrico. Da
ciò si può dedurre che la natura pubblica o privata del gestore di un servizio
rivolto al pubblico non è problema risolubile sul piano dei principi astratti,
ma è piuttosto questione di opportunità: la scelta della formula va operata, a
seconda delle condizioni vigenti, in modo da assicurare il migliore servizio al
costo più contenuto.
In realtà, esistono servizi che difficilmente possono essere lasciati alla produzione ed alla libera determinazione del settore privato. Ciò si verifica soprattutto nel caso dei servizi a rete. La ragione risiede nel fatto che simili
servizi sono forniti in condizioni sostanzialmente monopolistiche. Nel caso
dei servizi a rete, si è in presenza di una sorta di “monopolio naturale”, poiché
non risulta ammissibile – ad esempio nel caso dei servizi ferroviari o tranviari
– ipotizzare più linee parallele, gestibili perciò da diversi concorrenti. Del resto basta ricordare che negli Stati Uniti la guerra combattuta tra le due società
ferroviarie nel collegamento della costa occidentale con le California e la costa
del Pacifico si svolse in sede di costruzione della strada ferrata. Ma la continuità della linea fu salva, in quanto venne realizzata una sola linea.
Dunque, come ho ricordato poc’anzi, nel caso di simili servizi da tempo
si è avvertita l’esigenza di controllare la gestione di una produzione fatta in
condizioni di monopolio. E ad evitare che un privato monopolista utilizzasse
il suo potere di mercato ricavando un profitto monopolistico dalla differenza
tra tariffa e costo marginale di produzione, ci si è orientati verso la soluzione
del monopolio pubblico.
L’idea che un servizio pubblico, reso in condizioni di monopolio, conducesse ad una sottoutilizzazione della capacità produttiva e quindi ad una
gestione inefficiente del servizio medesimo è antica. Essa risale ad Arsène Dupuit, ingegnere dell’Amministrazione dei Ponts et chaussées, il quale, studiando
l’utilità apportata dalle opere pubbliche, trattò il tema della gestione razionale
di un ponte. La questione consisteva nella scelta tra l’utilizzo gratuito o quello
con pagamento di pedaggio. La soluzione di Dupuit fu, per l’epoca, rivoluzionaria. Egli giunse alla conclusione che non si dovesse far pagare alcun pedaggio, in quanto in caso contrario l’opera sarebbe stata utilizzata da un numero
inferiore di persone. Ad esempio, per alcuni sarebbe stato più oneroso il pagamento del pedaggio, rispetto al vantaggio arrecato dall’utilizzo del ponte. Ma
l’adozione della soluzione dell’utilizzo gratuito comporta necessariamente che
sia la costruzione, come la successiva gestione (comprendente ovviamente la
manutenzione) deve essere pubblica, potendo soltanto un soggetto pubblico
gestire l’opera a pedaggio zero, finanziando le spese con la leva tributaria.
La questione della gestione pubblica di un sistema, altrimenti suscettibile
di sfruttamento monopolistico, risale quindi al secolo XIX. Ma occorre avvertire che esiste tuttavia, almeno in linea di principio, la possibilità che un
soggetto privato possa gestire un servizio in condizioni di monopolio, senza
peraltro operare da monopolista. Quel che conta non è, infatti, l’aspetto strutturale, bensì il modello di comportamento adottato. In altri termini, esistono
217
forme intermedie tra quella strettamente pubblica e quella rigorosamente privata del libero agire del monopolista. Un esempio in tal senso è rappresentato
dalla forma della gestione in concessione, nella quale si stabiliscono i limiti
e/o le modalità di fissazione delle tariffe, nonché le altre condizioni di accesso
al servizio. Si pensi, in proposito, al regime nel quale hanno operato i fornitori
del servizio telefonico in Italia, settore nel quale pubblico e privato si sono
avvicendati. All’inizio, come è noto, la formula adottata fu quella pubblica;
successivamente il servizio venne affidato a società private, la maggior parte
delle quali rientrò nella sfera pubblica, quali società a partecipazione statale.
Come ho già accennato, nel sistema delle partecipazioni statali si presupponeva una sorta di equilibrio, in quanto la prassi vigente nel sistema, almeno sino
alla metà degli anni ‘60, era la compresenza di capitale pubblico e privato.
L’essere azionista di una società a partecipazione statale non significava essere
penalizzato sotto l’aspetto reddituale dalla prevalenza dell’interesse pubblico
su quello privato. In altri termini, come l’azionista di una società che fabbrica biciclette si attende un qualche profitto – sotto forma di dividendi e/o di
incremento del valore della propria partecipazione – la medesima cosa può
ben valere per l’azionista di una società telefonica a partecipazione pubblica,
senza necessità che l’azionista privato si attenda di ricavare un extraprofitto da
monopolio.
Dunque la formula della partecipazione statale con la compresenza di
privati non portava necessariamente a privilegiare il profitto, ma consentiva
l’aspettativa di un saggio di profitto in linea con quello che è ricavabile nelle
attività produttive condotte da privati in condizioni di concorrenza. Nel corso del tempo, tuttavia, ed in maniera graduale, il prevalere di istanze di tipo
pubblico su quelle della gestione economica condusse al deterioramento dei
bilanci delle società a partecipazione statale. Sicché i privati risultarono sacrificati e si ritrassero dal sistema. Gli aumenti di capitale, spesso richiesti per
la copertura delle perdite, vennero sottoscritti soltanto dal soggetto pubblico: nel caso dell’IRI dallo Stato, attraverso i fondi di dotazione, per l’assenza
di una qualche attrattiva per i risparmiatori. Il graduale allontanamento dei
privati dal settore ha portato ad una crescente disattenzione nei confronti
del problema della economicità della gestione; mentre di converso le imprese
venivano caricate di oneri “impropri”. Ad esempio, molti tra noi ricordano il
disservizio che caratterizzò l’esercizio telefonico tra la fine degli anni Settanta
e la metà degli anni Ottanta. Allo scopo di rallentare la crescita degli indici dei
prezzi, che a loro volta – in un sistema ad elevata indicizzazione qual era quello del nostro Paese – avrebbe fornito ulteriore impulso al processo inflazionistico, lo Stato non consentì l’adeguamento delle tariffe – che pure era previsto
nelle regole della concessione, nonostante la forte ascesa dei costi. Le aziende
non poterono esigere il rispetto delle regole di adeguamento tariffario, dato
che chi operava il blocco era allo stesso tempo il loro proprietario. Esse non
disponevano conseguentemente di risorse da investire. Nel caso dell’esercizio
telefonico, ciò portò al blocco degli investimenti. Soltanto dopo lo sblocco
delle tariffe si poté porre mano ai necessari investimenti: le strade delle nostre
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città vennero contemporaneamente sconvolte dai lavori di scavo per la posa
di nuovi cavi, vennero sostituite le vecchie centraline a selezione elettromeccanica. Dopo l’eccesso del blocco, con la privatizzazione del settore da molte
parti si è lamentato un eccessivo aumento delle tariffe. Ritengo che in parte si
sia trattato di mero recupero; ma non si può escludere che parte degli aumenti
tariffari sia stato consentito dall’esercizio del potere di controllo sul mercato.
Il caso preso in esame appare di particolare interesse, poiché nel frattempo
si sono prodotti alcuni interessanti sviluppi. Il primo è costituito dall’affiancarsi della telefonia mobile a quella a rete fissa, che ha ridotto di per sé il potere di controllo sul mercato detenuta da quest’ultima. Il secondo è consistito
nella produzione normativa, che ha previsto regole idonee a facilitare l’accesso
alla rete da parte dei concorrenti e ad evitare discriminazioni nei confronti di
questi.
L’eventualità dell’esercizio del potere di controllo sul mercato da parte del
monopolista – argomento su cui per lungo tempo si è concentrata l’attenzione
di economisti e di attori di decisioni di politica economica, rappresenta soltanto uno degli aspetti della produzione di servizi in condizioni di monopolio. Come dicevo, per lungo tempo l’attenzione si è incentrata sul fatto che il
monopolista, essendo in sostanza in grado di fissare il prezzo del servizio che
offre, tenda a stabilirlo in maniera da massimizzare il proprio profitto. Ciò non
dà luogo alla massima espansione del servizio, perché l’elevazione della tariffa
è ottenuta mediante una restrizione dell’offerta. Questo è stato considerato
l’aspetto prevalente. Se si pensa alla politica di tutela della concorrenza, il cui
primo passo fu l’adozione, negli Stati Uniti, dello Sherman Act, tra le prime
misure adottate figura quella della frammentazione delle imprese petrolifere.
Cosa analoga si profila nei confronti di Microsoft. Ma nel dividere in pezzi
un’azienda non si tiene conto del fatto che due metà possono essere meno
efficienti di un intero. La suddivisione può comportare un innalzamento dei
costi di produzione, se nel settore assumono rilievo le economie di scala. E va
notato che queste ultime divengono certamente rilevanti nei settori nei quali si
realizzano progressi tecnologici caratterizzati da elevato impiego di capitale.
L’evoluzione dei mercati, l’apparire di prodotti sostituti – come nel caso
del trasporto ferroviario il diffondersi del trasporto su gomma – riduce il
margine di potere del monopolista, ossia quello che noi definiamo il grado
di monopolio economico. Il problema principale della gestione di servizi in
regime di monopolio non è più il divario tra prezzo e costo di produzione,
bensì l’efficienza della produzione. A questo aspetto si riferiva Einaudi, quando parlava di “trincee monopolistiche”, al cui riparo i nostri produttori potevano prestare limitata attenzione alle esigenze di contenimento e di riduzione
dei costi. Emerge allora l’altro aspetto virtuoso, l’altro vantaggio, del regime
concorrenziale, che non è pertanto solamente quello di tenere bassi i prezzi
livellandoli al costo marginale, ma anche quello di premere verso la riduzione
dei costi.
Nel caso di servizi forniti dal soggetto pubblico si presenta una difficoltà
teorica non superabile, posta dalla circostanza che si conviene che il loro va-
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lore sia pari al loro costo. In base a questo principio convenzionale, si sostiene
ad esempio che se un dato servizio costa mille, esso vale mille. E se, per caso,
il costo sale a duemila, allora il valore è assunto pari a duemila. Ciò avviene
perché se certi servizi sono forniti soltanto dallo Stato, non esiste un mercato
su cui si scambino e che ne determini i prezzi, e quindi non esiste un controllo
sull’adeguatezza del prezzo che per tali servizi si paga. Esistono, come sappiamo, i servizi a tariffa, che non costituiscono parte irrilevante, ma rappresentano soltanto una parte del problema.
Per quanto concerne le eventuali soluzioni da adottare, una volta convinti
che l’aspetto del divario tra livello della tariffa o del prezzo e costo marginale di
produzione rappresenti un problema controllabile, anche attraverso la forma
della convenzione – ossia mediante una commistione tra libertà ed autorità,
tra mercato e Stato – l’attenzione deve spostarsi verso l’aspetto dell’efficienza.
Appare allora necessario trovare strumenti in grado di controllare i costi di produzione, anche grazie al progresso delle conoscenze tecniche e alla disponibilità
di nuove strumentazioni. L’unico – ma potente – strumento di cui il mercato
dispone per realizzare l’obiettivo dell’efficienza è rappresentato dalla concorrenza, che peraltro non può operare direttamente nei servizi resi in condizione
di monopolio naturale ed in quelli a rete. E qui la via consiste nel potenziare
l’offerta di sostituti, come quelli già richiamati della telefonia mobile nei confronti di quella a rete fissa e del trasporto su gomma – o su acqua – rispetto a
quello su rotaia. Se in Italia si riuscisse a potenziare il trasporto di cabotaggio,
si disporrebbe di un ulteriore elemento per intensificare la concorrenza.
Va inoltre considerato che quel che conta non è tanto la concorrenza “attuale”, come quella assicurata dalla presenza sul mercato di una molteplicità
di produttori, quanto quella “potenziale”, dipendente dalla contendibilità del
mercato, a sua volta connessa con le condizioni di accesso. Quando un mercato è contendibile, chi vi opera sa di essere sempre esposto alla contesa ed alla
perdita di esso o di quote sostanziali di esso.
In conclusione appare estremamente importante stabilire, anche nel caso di
servizi pubblici affidati in gestione ai privati, delle regole precise che consentano di far sentire al gestore il fiato sul collo. Ad esempio, si potrebbe prevedere
che, decorso un certo periodo dall’inizio dell’attività da parte del gestore, se
intervenisse un altro soggetto che – prestando adeguate garanzie – proponesse
di assumersi il servizio a condizioni, di prezzo e/o qualità, più soddisfacenti,
il contratto con il primo gestore potrebbe essere rescisso. Si tratterebbe, in sostanza, di estendere la gara oltre il momento dell’aggiudicazione del servizio.
Nel caso di servizi gestiti da soggetti pubblici, si dovrebbe cercare di stabilire un termine di confronto, anche attraverso il sistema della concessione agli
utenti della possibilità di accedere alternativamente al servizio fornito da operatore privato. Si pensi in proposito, per intenderci, all’ipotesi di introduzione
di “buoni scuola”. O ancora, nel caso in cui una clinica dovesse smaltire dei
rifiuti speciali, potrebbe rivolgersi al sistema pubblico o a una ditta privata,
naturalmente in tal caso documentando che lo smaltimento è avvenuto attraverso ditta a ciò abilitata.
220
Dunque, buona parte dei servizi può esser realizzata istituendo termini
di confronto, mentre per i restanti casi potrebbero essere utilizzati strumenti
surrogati, che consentano un’evoluzione delle tariffe che tenga conto dell’inflazione nonché dell’andamento della produttività. Mi riferisco qui a sistemi
del tipo price-cap di cui qualche esperienza è stata già acquisita nel comparto
delle aziende di servizi pubblici locali. Questa non è certamente la soluzione
adatta a tutti i problemi, ma almeno consente di inserire nel sistema di produzione pubblica di servizi degli elementi di spinta all’efficienza e alla revisione
dei modelli organizzativi, che altrimenti tenderebbero alla cristallizzazione,
finché varrà la convenzione che i servizi resi dal gestore pubblico valgono quel
che essi costano.
D. Politica, economia e società
elenco degli incontri:
1. La sfida del mercato mondiale tra politiche regionali e identità culturali
venerdì 10 settembre 1999
Saluto di Armando Cusani, Sindaco di Sperlonga
«Aspetti della globalizzazione economica», Carlo Pace, professore ordinario di
Economia politica nell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma, membro della Camera dei Deputati
«Prospettive e implicazioni sociali», Paolo Garonna, professore ordinario di
Politica economica nell’Università degli studi di Padova, Direttore generale
dell’ISTAT
«Le politiche economiche in un mondo globalizzato», Domenico Da Empoli,
professore ordinario di Scienza delle finanze nell’Università degli studi “La
Sapienza” di Roma
«Valori e identità culturali», Carlo Vallauri, professore titolare di Storia contemporanea nell’Università degli studi per stranieri di Siena
Dibattito
Leopoldo Elia, Presidente emerito della Corte Costituzionale; Giuseppe Vegas, senatore della Repubblica; Gloria Pirzio Ammassari, professore ordinario
di sociologia dei fenomeni politici nell’Università degli studi “La Sapienza”
di Roma
Conclusioni di Carlo Pace
221
2. La difficile transizione europea
10 settembre 2004
Saluto di Armando Cusani, Sindaco di Sperlonga
Relazione introduttiva del professor Riccardo Chieppa, Presidente emerito
della Corte Costituzionale
«La Costituzione europea», professor Carlo Mezzanotte, Vice presidente della
Corte Costituzionale
«L’identità culturale europea», dottor Antonio Gambino, giornalista
«Integrazione europea e democrazia», professor Domenico Fisichella, Vice presidente del Senato della Repubblica
Conclusioni di sintesi di Riccardo Chieppa.
3. Giovanni Paolo II, un Papa geopolitico
venerdì 9 settembre 2005
Saluto e presentazione di Armando Cusani, Sindaco di Sperlonga
Relazione di Marco Politi, giornalista
4. Migrazione o invasione? Mutazione demografica e identità europea
4 settembre 2007
Coordinamento e presentazione di Raffaele di Raimo, professore ordinario di
Diritto civile nell’Università degli studi di “Lecce”
Relazione introduttiva di Mario Di Napoli, docente di Storia contemporanea
nell’Università degli studi “La Sapienza” di Roma
Relazioni
Alessandro Barbero, professore ordinario di Storia medioevale nell’Università
degli studi del Piemonte Orientale; Alessandro Politi, Direttore dell’Osservatorio Scenari Strategici (NOMISMA)
Intervento di sintesi di Armando Cusani, Presidente della Provincia di Latina
dal convegno del 10 settembre 2004:
L’identità culturale europea
Antonio Gambino
Il tema che questa sera sono chiamato ad affrontare è quello dell’identità
culturale europea. E mi sembra che sia stata un’ottima scelta perché, se uno
degli obiettivi sui quali noi italiani mostriamo, al di là di altri aspetti di divergenza, di essere d’accordo è quello di fare l’Europa, allora è evidente che un
discorso approfondito costituisce un contributo per raggiungerlo.
222
Al tempo stesso, però, credo che nell’affrontare questa discussione sia importante avere ben chiaro a cosa ci si riferisce quando si parla di una identità,
intesa, come nel nostro caso, non in un senso logico ma psicologico. Appare
subito chiaro che il dato con cui si ha a che fare – appunto l’identità – è qualcosa di globale, nel senso che mentre da un lato contiene al suo interno aspetti
diversi (di cui quello della cultura è sicuramente uno dei più importanti),
dall’altro lato non può essere ridotto a nessuno di loro.
L’identità, infatti, è al tempo stesso un’immagine e un sentimento. È un’immagine in quanto è l’idea che un soggetto, sia individuale che collettivo (cioè
tanto un singolo uomo quanto un insieme di uomini, vale a dire un popolo),
si forma di se stesso. Ed è contemporaneamente un sentimento – non a caso, a
questo proposito, Freud parla di un Ichgefühl, di un sentimento dell’Io – perché, una volta che tale idea abbia cominciato a prendere forma, il soggetto che
con essa si identifica dimostra di esserle profondamente legato, avvertendo
che essa esprime l’essenza stessa del proprio essere, vale a dire quel quid che lo
distingue dagli altri e che garantisce la sua continuità nel tempo.
Indicare esattamente in cosa consista questa immagine, vale a dire quale ne
sia il contenuto, è tutt’altro che facile per lo stesso soggetto in questione. Noi
tutti ricordiamo – o almeno molti di noi, perché ormai nelle nostre scuole
le poesie si leggono sempre di meno e soprattutto si è smesso di impararle
a memoria – il manzoniano «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di
sangue e di cor», una frase che già ci mostra la complessità delle radici di una
simile nozione.
Ma in realtà non si tratta soltanto di questo, perché alla costruzione di una
identità concorrono materiali di ogni sorta: da quei «propri pensieri segreti»
di cui parla Hördelin, ai ricordi degli anni o dei secoli passati, alle convinzioni
più criticamente elaborate, ma anche, e certamente in misura non minore, ai
pregiudizi più sedimentati, a cui noi siamo fortemente attaccati come popoli
e come singole persone.
In tutti casi è certo che solo attraverso la presenza di questo dato (che per
ogni individuo costituisce – come dice Arnold Epstein – la sua verità interna,
e per proteggere il quale è perfino pronto a morire) che gli uomini e i popoli
cessano di essere unicamente dei “corpi” e diventano dei “soggetti”. Se non c’è
un’identità non esiste un soggetto e quest’ultimo nasce solo quando all’aspetto fisico se ne unisce uno mentale.
Un processo, quello della formazione di un’identità, che sia sul piano individuale che su quello collettivo si presenta complesso e in larga misura indecifrabile, come – per fare un solo esempio, riferendoci a cose che sono a tutti
note – ci indica in maniera molto evidente la storia della Germania moderna
quando ci mette sotto gli occhi il fenomeno della nascita di una Nazione
tedesca, nel momento in cui una serie di elementi già da tempo presenti acquistano improvvisamente – nel corso delle guerre napoleoniche e nel periodo
immediatamente successivo – una nuova valenza. Trovano, cioè, il modo di
coagularsi e di esaltarsi, e raggiungono un risultato che fino a poco tempo
prima non era neppure immaginabile. La Germania che esce dal Trattato di
223
Westfalia divisa in oltre 300 Stati sembrava destinata a durare per sempre, ma
improvvisamente si unisce e nasce rapidamente una Nazione tedesca.
Se le cose stanno così, cioè se è vero che l’identità è un’immagine ed un
sentimento (più giusto sarebbe forse dire: un sentimento legato ad un’immagine), e se si comprende che, nella sostanza, essa è per l’individuo, singolo o
collettivo, il suo bene maggiore, appare del tutto impossibile parlarne in forma parcellizzata. Tentare di farlo è non solo teoricamente sbagliato, ma anche
deviante nel senso che, invece di avvicinare la realizzazione del progetto che si
ha in mente, finisce solo con l’ostacolarla.
Fatta questa premessa, chiarito cioè che la cultura può e deve essere un
aspetto fondamentale dell’identità europea in quanto idea e sentimento globale, ma che non può presentarsi come un elemento a sé stante, mi sembra
evidente che le domande da porci siano essenzialmente due. La prima è se
questa identità globale europea già esiste; la seconda, nel caso che si arrivi alla
conclusione che essa non esiste, quali sono le cause che le si oppongono e cosa
si può fare per modificarle.
Per sgombrare il campo da ogni ambiguità, vi dirò subito con franchezza
che la mia risposta alla prima di queste due domande è “no”: vale a dire che
ritengo che nel momento attuale non esiste una vera identità europea e che i
fatti si incaricano ogni giorno di mostrarcelo. Infatti, anche lasciando da parte
il modo del tutto disarticolato, e spesso apertamente conflittuale, in cui i Paesi
dell’Unione Europea hanno affrontato il problema di un intervento armato
in Iraq, basterebbe un esame della normale attività dell’Unione Europea per
dimostrare fino a che punto, al suo interno, seguitano ad agitarsi, e spesso a
prevalere, le motivazioni strettamente nazionali: fino a che punto, cioè, i vari
Paesi membri, invece di mettersi al servizio della Comunità, cerchino – come
gli ormai pluridecennali scontri in campo agricolo hanno ampiamente dimostrato – di servirsi della Comunità per i loro obiettivi più ristretti.
Non rimane quindi altro da fare che esaminare nei suoi aspetti, sia pure in
modo schematico, la seconda delle domande prima formulate e cioè per quali
motivi a dispetto di tante attese e di tante speranze l’Europa unita non è ancora
nata, e che cosa si può fare non per raggiungere in pieno questo traguardo, ma
almeno per riuscire a compiere alcuni passi decisivi su tale strada.
La prima cosa di cui mi sembra necessario tener conto – non per giustificare i nostri fallimenti, ma perché non farlo sarebbe semplicemente puerile – è
un elemento che possiamo indicare con l’etichetta del “peso della storia”. Esso
consiste nel fatto che negli ultimi tre millenni nessuna zona del nostro pianeta
è stata tanto penetrata, tanto vissuta dalla storia come quel piccolo lembo di
terra che va sotto il nome di Europa occidentale.
Infatti, come tutti sappiamo, è qui che è nata la civiltà moderna, ma è
anche qui che, dopo il disfacimento dell’Impero romano, si è andato faticosamente formando un insieme di Stati, dapprima patrimoniali e poi nazionali
i quali, anche attraverso una loro continua contrapposizione, spesso armata,
hanno sviluppato un certo numero di precise, e distinte, identità. Con il risultato che quando l’esigenza di stabilire una forma di unione tra questi Paesi
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ha cominciato a manifestarsi – e ciò è avvenuto, in modo embrionale, dopo la
fine della prima guerra mondiale e, in modo più concreto, dopo la fine delle
seconda – è con questo quadro, non solo composito ma anche fortemente
conflittuale, contrassegnato da organizzazioni statali e specialmente da sentimenti di lealtà contrapposti, che essa ha dovuto fare i conti.
Insomma, un “Europa delle patrie” – per riprendere la formula di Charles
De Gaulle – e per di più di patrie che erano ben lontane dall’aver dimenticato
le loro precedenti guerre e i loro rancori. Il che significava – ed è bene sottolinearlo al fine di eliminare tante ricorrenti semplificazioni – che il ripetersi,
in tale contesto, di un fenomeno anche vagamente paragonabile a quello della
nascita degli Stati Uniti (vale a dire di un lento e faticoso agglutinarsi, in uno
spazio sostanzialmente vuoto, di progressive ondate di immigranti intorno ad
un primo nucleo centrale ben caratterizzato) era in partenza escluso. Coloro
che parlano di Stati Uniti d’Europa prendendo ad esempio gli Stati Uniti
d’America fanno affermazioni che non hanno alcun senso.
Se, a dispetto di tutti questi ostacoli, sia fisici che psicologici, la convinzione della necessità di un’integrazione europea ha cominciato, già nella seconda
metà degli anni ‘40, a prendere forma, è stato essenzialmente per un motivo:
la convinzione che in un mondo ormai dominato da due superpotenze, gli
Stati Uniti e l’Unione Sovietica, i Paesi del vecchio continente non avessero
alcuna possibilità di far sentire la loro voce, neppure per difendere i loro fondamentali interessi economici, se non si fosse stabilito tra loro un minimo di
unità e di collaborazione.
Affermare ciò non significa negare che anche altri elementi, di carattere
diciamo così psicologico e spirituale, abbiano contribuito in quel momento
alla nascita del nuovo orientamento. Al contrario, è certo che le decine di
milioni di morti e le immense distruzioni materiali provocate dalla seconda
guerra mondiale, venute a così breve distanza da quelle prodotte dalla prima,
avevano suscitato un diffuso disgusto per l’idea di una terza guerra fratricida.
Alla forza di questo dato emotivo si univa, inoltre, quella di una constatazione immediata: e cioè che l’intero quadro geopolitico era profondamente cambiato. Francia, Germania ed Inghilterra si erano infatti combattute,
quando la posta in gioco del loro scontro era il dominio del mondo; invece
ora questa ragione del contendere aveva cessato di esistere perché i destini del
pianeta erano ormai nelle mani dei due Grandi. Uno scontro armato tra i tre
maggiori Paesi europei non aveva più alcun senso perché, semplicemente,
come si dice, il gioco non valeva più la candela.
E qui consentitemi di aprire una piccola parentesi. Molti di coloro, anche
se fortunatamente non tutti, che sono favorevoli all’unità europea – quelli cioè
che si possono definire gli europeisti di professione, i “fondamentalisti europei”
– pensano che il modo migliore di difendere la loro causa sia quello non di indicare i mezzi concreti per raggiungere il risultato sperato, bensì di magnificare
i risultati positivi che si sono già ottenuti. Fra tali risultati essi mettono sempre
al primo posto il fatto che Germania e Francia hanno smesso di combattersi;
meglio ancora, che una guerra tra questi due Paesi è diventata impensabile.
225
Anch’io sono convinto che per il futuro da noi prevedibile la situazione si
presenti esattamente in questi termini. Ma mi chiedo: si può davvero sostenere che tutto ciò avviene solo perché quasi mezzo secolo fa è stato firmato il
Trattato di Roma ed è nato prima il Mercato comune, poi la Comunità e infine l’Unione Europea? O non è opportuno rovesciare questo percorso mentale
e prendere atto che la pace europea di cui oggi godiamo, e che giustamente
riteniamo assicurata per il futuro prevedibile, è il frutto innanzi tutto del
fatto che una guerra tra i nostri Stati ha perso – ora che Francia, Germania e
Inghilterra non sono più grandi potenze mondiali – ogni vera motivazione e
ogni preciso contenuto?
Certo, si può dire che nell’esaminare le diverse situazioni un po’ di idealismo non fa mai male, ma ritengo che esso debba essere sempre del tipo che
John Kennedy aveva indicato in uno dei suoi ultimi discorsi, cioè un “idealismo senza illusioni”, un orientamento che tenga conto degli ideali, senza però
sottovalutare gli ostacoli che si frappongono alla loro realizzazione. Se invece
si persegue un “idealismo con illusioni”, che è poi un falso idealismo, il primo
risultato che è di ottundere la nostra capacità di comprensione e di valutazione, con conseguenze, anche pratiche, inevitabilmente negative.
Ma riprendiamo il filo del nostro discorso. L’Europa occidentale, immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale, decide di trovare una
forma di integrazione, perché ritiene che altrimenti il suo peso sulla scena
politica internazionale sia destinato rapidamente a decrescere. Si tratta sicuramente di un’impostazione seria, che tuttavia ha la debolezza insita in tutte
quelle di contenuto difensivo, le quali, sottolineando i pericoli da evitare, non
prestano sufficiente attenzione alle motivazioni positive da dare.
Naturalmente sono il primo a riconoscere che in questa mia valutazione
vi è una buona dose di schematismo. I Padri fondatori del Mercato comune
erano infatti molto interessati – dall’Accordo sul carbone e l’acciaio in poi
– anche ai vantaggi concreti che la progressiva integrazione tra i nostri Paesi
avrebbe potuto produrre, ma il loro discorso non andava molto oltre, perché
i vantaggi che essi prospettavano erano essenzialmente economici. Potevano
però bastare tali valutazioni, da sole, a dar vita ad un soggetto globale – cioè
non solo economico ma anche politico e culturale – realmente nuovo? Poteva
davvero nascere da questo terreno una nuova identità europea?
A tale obiezione, che talvolta, anche se non spesso, veniva sollevata, i Padri fondatori del Mercato comune avevano in realtà una risposta pronta che
consisteva nella teoria dell’ingranaggio, elaborata e fortemente sostenuta dal
primo presidente della Commissione europea, il tedesco Walter Hallstein.
Ridotta alla sua essenza, essa si fondava sulla convinzione che la progressiva
estensione delle diverse forme di cooperazione economica e produttiva avrebbe avuto inevitabilmente delle ricadute politiche, al punto che presto i Governi dei Paesi membri – che a quell’epoca erano sei – si sarebbero resi conto di
non poter far altro che estendere la loro collaborazione a tutti gli altri campi:
con la conseguenza che, al pari di Minerva, uscita tutta armata dalla testa di
Giove, anche l’unione politica europea sarebbe rapidamente nata da quella
226
economica. Cartina di tornasole di tale impostazione avrebbe dovuto essere
il passaggio, all’interno del Mercato comune, dalle decisioni all’unanimità a
quelle a maggioranza.
Quando, nel 1965, si arrivò al momento di varcare questa soglia storica le
cose andarono però diversamente. La Francia disse apertamente di no e questo scatenò contro De Gaulle l’ira e gli insulti dei “fondamentalisti europei”,
convinti che senza la sua malefica influenza l’unità europea sarebbe stata già
cosa fatta: e quanto poco fondata fosse questa convinzione lo si può desumere
dal fatto che il problema delle decisioni adottate a maggioranza all’interno
della Comunità europea è ancora oggi, a quasi quarant’anni di distanza, ben
lontano dall’essere stato risolto. Alla fine si arrivò ad un accordo, che anche se
qualificato diplomaticamente come un compromesso, di fatto rimandò sine
die il problema delle decisioni adottate a maggioranza.
In realtà, l’impuntatura della Francia di De Gaulle – a cui si univa la sotterranea perplessità di molti degli altri partners europei, che erano anche loro
poco convinti ma non volevano mostrarlo – aveva messo in luce la debolezza
strutturale dell’impostazione di Hallstein e degli altri suoi colleghi. Essa era
ispirata ad un banale economicismo, certamente non minore di quello del
più rozzo marxismo (nella sostanza, quello che gli interessi economici sono gli
unici che veramente contano e che finiscono con il prevalere sui sentimenti e
sulle convinzioni generali degli uomini); e soprattutto non teneva conto del
fatto che l’interdipendenza economica, se non è accompagnata dalla presenza
di un forte potere politico unitario, tende fatalmente non ad unire ma a creare
nuove tensioni.
Per fare un’Europa che non fosse una semplice zona di libero scambio ma
anche un soggetto politico bisognava quindi essere capaci non solo di sforzarsi
di trovare dei costosi e spesso perniciosi compromessi in campo agricolo, ma
anche di coinvolgere le menti, la volontà e i cuori dei suoi cittadini. Bisognava
cioè parlare loro di grandi progetti comuni e di grandi aspirazioni condivise, e non solo del miglior modo di provvedere allo stoccaggio dell’immensa
sovrapproduzione di burro, che è stata per anni uno dei temi centrali della
discussione europea.
Su questo punto, però, torneremo più avanti, perché ciò che in questa
breve ricostruzione mi sembra utile mettere subito in luce è che gli avvenimenti, pure abbastanza traumatici, del 1965 non ebbero, per gli eurocrati di
Bruxelles, in alcun modo il valore di una lezione. Essi seguitarono per la loro
strada, quello di pensare che l’Europa unita non dovesse essere il frutto di un
sentimento comune – l’identità di cui oggi stiamo parlando – ma di piccoli
do ut des e specialmente di una qualche forma di ingegneria politica, a base
di obiettivi spesso senza senso (basti pensare allo slogan “allargamento insieme
all’approfondimento” di cui si è discusso per quindici anni) e di intese economiche più o meno ben riuscite.
A questo secondo gruppo, quello delle intese economiche, appartiene, almeno in parte, anche la nascita dell’euro, non perché la creazione di una moneta comune non sia stata un’iniziativa di grande importanza (e, sia detto tra
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parentesi, per noi italiani un vero colpo di fortuna, visto che senza di essa la
nostra situazione economica sarebbe oggi infinitamente peggiore), ma perché
attribuirle un potere taumaturgico – come da più d’uno è stato fatto – era indubbiamente un errore. Dire, come è stato affermato, «quando tutti gli europei pagheranno la loro spesa in euro si sentiranno più vicini» non significava,
e non significa, assolutamente nulla.
In ogni analisi e in ogni valutazione bisogna essere capaci di distinguere i
dati strutturali e quelli sovrastrutturali. Un dato strutturale è che la seconda
guerra mondiale, declassando il rango dei maggiori Stati europei, ha reso di
fatto non immaginabile un loro scontro armato, perché i danni sarebbero,
anche per la parte vincente, molto maggiori dei possibili benefici. Invece la
moneta è qualcosa di sovrastrutturale, e pensare che essa, di per se stessa, possa
produrre nuovi sentimenti e nuovi orientamenti è del tutto abusivo. Quindi,
l’euro è certamente utile, comodo, piacevole e – lo ripeto – benedetto per noi
italiani, ma si può essere sicuri che non da esso potrà nascere un’Europa unita, in quanto dotata di una propria identità e di una propria configurazione
politica.
E allora, se questa – come noi tutti speriamo – è destinata a nascere, come
si potrà fare un passo avanti? In un campo come questo nessuno può pensare
di poter dare prescrizioni precise. Il massimo che si può fare – e che io farò
– è di mettere in luce quattro errori che, se evitati, possono rendere il nostro
cammino meno faticoso.
Il primo errore è quello di pensare che già oggi esiste un’Europa come
soggetto politico unitario. La realtà di ogni giorno – lo abbiamo già accennato – ci indica, attraverso moltissimi segni, che le cose non stanno così. Si
potrebbe allora affermare che non vi è bisogno di portare altre prove, ma
almeno un’altra manifestazione di tale stato di cose mi sembra valga la pena
di essere sottolineata.
Tutti ricordano lo straordinario periodo iniziato il 9 novembre 1989 con la
caduta del Muro di Berlino; un intero assetto continentale e mondiale andò
in frantumi nel giro di un paio di anni e con esso una delle caratteristiche
centrali del precedente quarantennio: la possibilità, sempre meno realistica
ma mai del tutto astratta, di una spinta verso occidente dell’Unione Sovietica,
possibilità che i Paesi dell’Europa occidentale avevano deciso di neutralizzare
dando vita all’Alleanza Atlantica, cioè affidando di fatto la loro protezione al
potenziale militare degli Stati Uniti d’America.
Scomparsa la causa di tale necessaria scelta – che non era, peraltro, priva
di alcuni aspetti negativi e di alcuni prezzi da pagare – ci si sarebbe potuti
aspettare che i Paesi europei, dopo aver ringraziato l’America, le dicessero che,
da quel momento in poi, di fronte ad un pericolo ormai inesistente, desideravano assumersi da soli l’onere e l’onore della propria difesa. La realtà, però,
è che nessun passo in questa direzione fu compiuto, né la situazione cambiò
quando, poco dopo, scoppiò la crisi della ex Iugoslavia. Infatti, di fronte ad
essa non solo i Paesi europei non pensarono all’opportunità di un comune intervento, ma cominciarono subito a litigare tra di loro – la Francia a favore di
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Belgrado, la Germania a favore della Croazia e della Slovenia, eccetera – fino
a che non furono gli Stati Uniti ad intervenire e a prendere in mano l’intera
situazione.
Da allora mi sembra che lo stato delle cose non è in alcun modo cambiato;
e se qualcuno ritiene questa affermazione troppo perentoria, credo gli sia sufficiente rivolgere lo sguardo al conflitto israelo-palestinese, nei cui confronti
l’Europa brilla, costantemente, per la sua totale assenza.
Il secondo errore che non si deve commettere – perché già è stato fatto in
passato – è di voler mirare troppo in alto. Quella attuale – inutile negarlo – è
ancora un’Europa delle patrie, ma quello che è possibile fare è porre accanto
alle patrie esistenti un’altra patria comune: l’Europa. Questo si può fare se
ricordiamo che, insieme ai tanti aspetti che ancora ci dividono, che hanno le
loro radici essenzialmente nel passato, ce se sono molti altri che ci possono
unire, perché riguardano, o potrebbero riguardare, il nostro futuro: grandi
progetti industriali, grandi imprese umanitarie (di cui il nostro pianeta ha,
ogni anno di più, estremo bisogno) e grandi ricerche scientifiche, che l’Europa può fare solo operando in comune. Se il sentimento di identità nazionale
è, come diceva Renan, «un plebiscito che si rinnova ogni giorno», vale a dire
qualche cosa non di statico ma di dinamico, è ovvio che è per questa strada
che possiamo cercare di costruire un’identità europea da mettere al principio
sullo stesso piano e poi sempre più al posto di quella nazionale.
Il terzo errore è di non valutare abbastanza – anzi spesso di svalutare – ciò
che già oggi noi europei abbiamo in comune, ossia (anche per riprendere il
titolo di un famoso libro di Norbert Elias) “Una civiltà delle buone maniere”:
che ovviamente non è tutto ma, specie se paragonata alla rozzezza e alla brutalità di altri modi di vivere, è certo qualcosa e, per indicarvi a cosa mi riferisco
e per precisare che queste «buone maniere» vanno intese nel senso più ampio
come codici di convivenza, vorrei portarvi un esempio.
Una delle caratteristiche della nostra cultura europea occidentale è stata,
da oltre due secoli, un forte senso di solidarietà, non perché tale sentimento
non esista anche altrove, ma perché da noi si manifesta in un modo diverso,
e cioè non su un piano personale – come, ad esempio, nei Paesi anglosassoni
– bensì come convinzione diffusa che esso debba costituire una caratteristica
essenziale della collettività nel suo insieme. Noi diamo, cioè, per scontato
che spetta allo Stato di occuparsi e di prendersi cura dei suoi membri più
deboli, i quali per noi non sono, come altrove (ad esempio negli Stati Uniti,
ma anche in Inghilterra), innanzitutto degli sfaticati e dei poco di buono
che cercano di vivere a spese degli altri, ma in primo luogo dei nostri fratelli
meno fortunati.
Su questo tema si potrebbe fare un lungo discorso che qui sarebbe fuori
luogo e in parte anche inutile, perché sono convinto che molti di voi abbiano
già compreso qual è lo sfondo politico-culturale a cui mi riferisco: la Rivoluzione francese, con la sua esigenza di eguaglianza e addirittura di fratellanza,
la lunga tradizione socialista che da essa è nata, ma che ha anche precise radici
cristiane. Tutto ciò non è presente in altre parti del mondo, anche occidentale,
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non perché questi Paesi siano meno buoni di noi, ma solo perché hanno avuto
una storia diversa.
E lo dimostra il fatto che il concetto che altrove manca è quello di “cittadinanza sociale”, che in Europa si è sviluppato con chiarezza nei trent’anni successivi alla fine delle seconda guerra mondiale (quelli che i francesi chiamano,
a giusto titolo, “i trenta gloriosi”). Concetto con il quale si tende a sottolineare che, affinché vi sia una vera cittadinanza e tutti gli uomini e le donne di
uno Stato possano davvero essere considerati cittadini, non è sufficiente che
essi siano eguali dal punto di vista civile – la legge è eguale per tutti – e da
quello politico – tutti hanno diritto a votare – ma è anche indispensabile che
si creino le condizioni per cui essi possano effettivamente esercitare tali diritti,
cioè che abbiano quel minimo di beni essenziali che li rendano davvero dei
cittadini.
Io penso che il principio della cittadinanza sociale potrebbe e dovrebbe
essere uno dei pilastri delle nostra futura identità europea, ma, al tempo stesso, ho qualche dubbio in proposito. Perché? Perché, per farlo, dovremmo
essere capaci di liberarci di un nostro quarto errore: che, detto in modo molto
semplicistico, è il nostro – europeo, e specialmente italiano – timore di essere
diversi, che ci porta a non comprendere, o meglio a non voler comprendere
che non c’è identità senza distinzione, e cioè, per dirla con Spinoza, che omnis
determinatio est negatio.
Questo principio di elementare buonsenso (chiunque intuisce che ogni
soggetto, per essere tale, deve avere dei limiti) sembra da qualche tempo, in
realtà dalla fine della seconda guerra mondiale, costituire un peso e una fonte
di preoccupazione per molti di noi; infatti, mentre da un lato diciamo di voler essere europei e spesso, a un livello più banale, esprimiamo questo nostro
desiderio in modo perfino fastidioso, dall’altro, appena entrano in gioco problemi e princìpi più rilevanti, siamo presi da una sorta di timidezza, o meglio
di paura, che questo nostro orientamento, che in realtà è solo di distinzione,
possa essere scambiato per ostilità.
Allora ci rannicchiamo in un angolo e facciamo il massimo sforzo per assicurare tutti che non siamo contro nessuno, e specialmente che non abbiamo sentimenti che non siano di totale stima per quella che è ormai l’unica
superpotenza mondiale. Con il risultato di gettare, secondo un vecchio detto,
insieme all’acqua sporca anche il bambino. Nel nostro caso, insieme all’acqua
torbida dell’ostilità anche quella, certamente limpida, dell’autonomia.
Credo che possiamo dire davvero di essere giunti alla fine. Per cui vorrei
chiudere questo mio intervento con una previsione, sebbene una lunga esperienza inviti alla prudenza chi tenti di mettersi su questa strada visto che,
come sosteneva il grande fisico danese Niels Bohr, le uniche previsioni attendibili sono quelle che riguardano il passato, la mia previsione è la seguente:
fino a quando noi europei non svilupperemo un vero senso di identità, cioè di
quella percezione interna per indicare la quale molti usano il termine “medesimezza”, al fine di sottolinearne l’aspetto di totale adesione e identificazione
con se stessi, e fino a quando, al contrario, seguiteremo ad accontentarci di un
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generico “occidentalismo” (dietro il quale molto spesso traspare una spiccata
tendenza all’opportunismo e al servilismo), è certo che quell’Europa unita, a
cui pure diciamo di aspirare, non vedrà mai la luce.
Integrazione europea e democrazia
Domenico Fisichella
Grazie, Presidente. Il tema «Integrazione europea e democrazia» esige necessariamente un sia pur rapidissimo excursus storico. Comincerò ricordando
che la democrazia nasce in Europa; quindi, c’è un nesso genetico preciso tra
democrazia ed Europa.
Ma cosa vuol dire «democrazia» e quali connotati ha in origine?
Nella Grecia antica, dove nasce, il concetto di democrazia spesso ha un significato derogatorio, cioè un significato negativo. La democrazia è la forma, la
versione cattiva della politìa (polit…a), vale a dire del governo libero nel rispetto della legge e nell’interesse generale. Questo dunque è il concetto di politìa,
anche quando la parola «democrazia» è talvolta assunta dagli stessi autori in
opere differenti in senso positivo. In tal caso, la parola «democrazia» coincide
pertanto con la parola politìa, vale a dire l’ordinamento delle cariche pubbliche
di un governo libero nel rispetto della legge e nell’interesse generale.
Ciò mette in evidenza che il concetto di democrazia è un’espressione squisitamente politica, al punto che regime di libertà e politica sono sinonimi.
Questo è importante perché ci fa ricordare un dato: la grande storia del pensiero politico è europea. In Europa da almeno 2.500 anni abbiamo una grande
produzione di pensiero politico, ma non conosciamo nulla di simile al di fuori
dell’Europa. E questo, nel momento in cui il significato della parola politìa
non di rado è una sorta di sinonimo di governo libero, dice molto su come
fosse originariamente inteso il concetto di libertà e contemporaneamente il
concetto di Europa.
Difatti l’Europa era continuamente distinta dall’Oriente, dal dispotismo
orientale, il quale aveva un carattere fondamentale: uno solo comanda e tutti gli altri sono schiavi. Questo cosa significava? Essenzialmente due cose.
Innanzitutto, il dispotismo orientale si caratterizzava per un eccesso di concentrazione politica, economica e simbolica; e dunque, per differentiam, il
reggimento specifico dell’Europa, la politìa, era tale da non poter consentire
un eccesso di concentrazione di risorse economiche, politiche e simboliche,
vale a dire culturali e anche religiose. Il secondo dato messo in evidenza da
questa definizione del dispotismo orientale significa, sempre per differentiam,
che nella politìa, nella democrazia non vi era uno solo che comandava, ma
c’era una partecipazione alla gestione delle cariche pubbliche condivisa da una
pluralità di soggetti.
Altro carattere della democrazia, così come viene intesa geneticamente, è
che però essa è un regime adatto soltanto alle piccole comunità. Questo concetto, che nasce nell’antica Grecia, lo ritroviamo ancora in Rousseau, il quale
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nel suo «Contratto sociale» afferma che la democrazia è adatta alle piccole
comunità, l’aristocrazia è adatta agli Stati di media grandezza e la monarchia è
adatta agli Stati grandi e ricchi. Quindi, il carattere costitutivo della democrazia, dal punto di vista genetico, è che essa è piccola sotto il profilo territoriale
e demografico.
Anche la nozione di dispotismo orientale, che nasce in contrapposizione
all’idea di democrazia nel mondo antico, percorre la storia del pensiero politico, così come l’idea che la democrazia è adatta alle piccole comunità.
Ritroviamo il concetto, esattamente riproposto, in Machiavelli e in Montesquieu: ciò che distingue – ed entrambi sostanzialmente fanno lo stesso
esempio – il re di Francia dal sultano turco, dal despota orientale, è che il
primo è circondato da una molteplicità di centri potestativi, da una molteplicità di baroni che hanno, come dice Machiavelli, le loro «preeminenzie». Il re
non gliele può togliere, non le può sottrarre, ma le deve rispettare perché sono
iscritte nella storia. Dunque, ciò che caratterizza il mondo della democrazia è
un’articolazione nella quale si evita la concentrazione.
In che modo partecipano coloro che nell’antica Grecia, nella città, nella
polis, nella sua distinzione rispetto al dispotismo orientale, sono presenti attivamente? Partecipano essenzialmente a due livelli: uno è quello dell’ecclesìa
(ekklhs…a), cioè dell’assemblea; l’altro è il livello delle cariche pubbliche,
che sono religiose, politiche e magistrali, intendendosi con questo termine le
magistrature politico-amministrative e le magistrature giudiziarie.
Ma chi partecipa? Non tutti, bensì solo i cittadini. Ciò vuol dire che nella
città ci possono essere persone non libere, ci sono inoltre persone libere ma
che non sono cittadini e infine ci sono i cittadini. Solo questi ultimi hanno
titolo a partecipare alla cosa pubblica. Dunque, l’idea di cittadinanza è un’idea
squisitamente politica. Ci possono essere uomini liberi che non sono cittadini; solo la cittadinanza conferisce il titolo alla partecipazione, attraverso l’assemblea o attraverso la presenza diretta nelle cariche pubbliche, alla gestione
della vita democratica.
È vero che i cittadini partecipano alla vita pubblica e alla gestione della
polis, ma – e questo è un dato che si deve mettere in evidenza, perché è molto
importante nello sviluppo ulteriore della democrazia – nell’antica democrazia
la religione e la politica coincidono e l’economia è drasticamente subordinata
alla politica. Quindi c’è un livello, quello della politica, coincidente con il
livello della religione, perché la religione è religione patriottica, e c’è un livello
assolutamente subordinato che è quello dell’economia.
Bisogna attendere il cristianesimo e poi il medioevo (entrambi propiziati da una vasta riflessione precedente e da un’ampia prassi politica) perché
si realizzino tre grandi innovazioni, sotto il profilo culturale e istituzionale,
che incidono profondamente sull’idea di democrazia: l’idea di persona come
soggetto universale e quindi distinto dal cittadino, che è soggetto politico
(perciò persona ulteriore rispetto alla condizione della cittadinanza politica);
la distinzione fra autorità spirituale e potere temporale, probabilmente la più
grande innovazione del genio europeo dal punto di vista istituzionale; l’emer-
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genza dell’uomo economico come soggetto con una sua dignità e autonomia
categoriale rispetto all’uomo politico.
Qual è allora, sulla base di questi elementi, il nuovo connotato della democrazia rispetto a quanto ho fin qui detto? Che la democrazia postula l’autonomia della dimensione culturale, inclusa la religione, rispetto alla politica,
l’autonomia dell’economia rispetto alla politica, ma anche l’autonomia della
politica rispetto all’economia e rispetto alla religione. È questo quadro complesso di autonomie tra dimensione politica, dimensione economica e dimensione religiosa che costituisce lo specifico unicum europeo, non riscontrabile
altrove, della vita istituzionale del vecchio continente e correlativamente della
vita istituzionale della democrazia.
Lo Stato nazionale emerge successivamente come prodotto della dissoluzione della res publica cristiana medievale, quando ad una grande unità culturale
(perché quella della res publica cristiana cioè dell’Europa – le due espressioni
erano sinonime – è stata la stagione della maggiore unità culturale) inizia a
corrispondere una crescente parcellizzazione strutturale e si determina, anche
in ragione della riforma protestante, una situazione che prelude e che accompagna l’emergenza e quindi la crescente affermazione degli Stati.
L’importanza dello Stato sta nel fatto che solo all’interno di esso si sviluppa
la democrazia moderna. Mentre la democrazia degli antichi si svolgeva all’interno della città, la democrazia dei moderni si sviluppa all’interno dello Stato.
Quindi, continuità e specificità della democrazia degli antichi evidenziano,
tra le altre cose, questo fondamentale elemento: attraverso un lungo processo, che dura più di 2.000 anni, la democrazia riesce a passare da istituzione
politica che consentiva l’azione di governo solo nei piccoli spazi e nei piccoli
ambiti demografici (l’Atene dell’età di Pericle aveva 200.000 abitanti, ma solo
20.000 cittadini) a forma politica che assume una dimensione spaziale e territoriale molto ampia.
E come avviene questo? Qual è il principale fattore distintivo sotto il
profilo istituzionale che consente tale ampliamento? È l’idea e la prassi della
rappresentanza politica, naturalmente distinta dalla rappresentanza di tipo
privatistico. L’idea di rappresentanza politica impiega oltre due millenni per
affermarsi e per consentire una gestione di tipo democratico in vasti spazi
territoriali e con ampie comunità demografiche.
Ciò è messo in evidenza proprio dai saggi sul federalismo, raccolta degli
scritti dei tre autori (Alexander Hamilton, James Madison e John Jay) che
hanno elaborato le linee-guida dell’impianto costituzionale americano e che
addirittura, per definire la nuova forma di reggimento basato sulla rappresentanza politica, parlano di repubblica distinguendola dalla democrazia. Difatti,
ancora alla vigilia della nascita degli Stati Uniti d’America come esperienza federale, l’idea di democrazia era legata a quella di governo delle piccole comunità. Hamilton dice che non si sta mettendo in piedi una democrazia, bensì
una repubblica, vale a dire un governo fondato sull’idea di rappresentanza.
Citando gli Stati Uniti, ho parlato di un’esperienza che non di rado viene
richiamata come il precedente al quale fare ricorso allorché si immagina il
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processo di costruzione dell’Europa. Qui però bisogna intendersi. Sono state
evocate da più parti le straordinarie distinzioni di tipo storico tra la realtà
americana e quella europea.
Voglio aggiungere un dato, che è importante dal punto di vista della democrazia. Quando si riunirono a Philadelphia i rappresentanti degli Stati che
volevano impostare in una logica federale l’assetto costituzionale degli Stati
Uniti, gli abitanti di tali territori erano meno di quattro milioni; lo ha messo
in evidenza Robert Dahl in un suo lavoro uscito recentemente. Oggi l’Europa
ha circa 400 milioni di abitanti, e ciò naturalmente comporta una straordinaria differenza. Infatti, anche se è vero, che, in ragione di un impegno
teoretico ed empirico durato oltre due millenni, siamo riusciti a passare dalla
democrazia delle piccole comunità alla democrazia rappresentativa, rimane il
fatto che più una realtà è grande più è difficile costruirvi e farvi funzionare la
democrazia.
Fatta questa premessa, che rinvia ai precedenti storici e mette in evidenza come certe differenze apparentemente quantitative sono anche differenze
qualitative, possiamo ora richiamare tre aspetti che sono importanti perché,
con tutte le differenze del caso, gli Stati Uniti si trovarono (come ora l’Europa
si sta trovando) di fronte a tre problemi analoghi.
Il primo era il problema delle quote. I padri costituzionali degli Stati Uniti dovettero superare l’ipotesi delle quote, in ragione della quale privilegiare
questo piuttosto che quell’altro Stato, su questo piuttosto che su quell’altro
terreno (e non dimentichiamo che allora si trattava di realtà sociali semplici,
mentre oggi siamo in presenza di realtà straordinariamente complesse, e che
quella era una società sostanzialmente omogenea dal punto di vista sociologico, in cui non c’era un’articolazione di classi o un’articolazione tecnologica
come quella che noi oggi viviamo). L’idea delle quote era dunque ostacolo alla
nascita e allo sviluppo di un assetto coesivo in chiave federale.
L’altro problema era quello della necessità di passare dal criterio unanimitario al criterio maggioritario. Lo hanno avuto gli Stati Uniti in maniera
assolutamente cruciale e si ripropone anche per l’esperienza europea.
Il terzo problema era quello dei veti. In particolare, loro dicevano «no» ai
veti delle corporazioni, intendendo per corporazioni anche i singoli Stati, le
fazioni, gli interessi particolari. Quindi, «no» alle interferenze che da parte di
Stati, fazioni e interessi particolari potevano condurre a vulnerare quello che,
a loro avviso, doveva essere il rapporto immediato tra cittadinanza e patria
comune. L’idea di Stati Uniti presuppone una precisa idea di cittadinanza che
non deve conoscere interferenze drastiche nel rapporto diretto tra cittadino e
potere politico centrale.
Questo è uno dei fondamenti che sono stati richiamati finora costantemente, ma oggi la letteratura mette in evidenza che una delle grandi trasformazioni in atto negli Stati Uniti è dovuta al fatto che, in ragione di una
molteplicità di fattori, connessi anche con i flussi migratori, sempre meno
componibili e integrabili nella cultura del bianco protestante anglosassone, si
stanno formando gruppi di natura etnico-culturale che intendono negoziare
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direttamente con il potere politico centrale in una logica «corporativa», facendo venir meno quel rapporto diretto e immediato fra cittadini (nella loro individualità) e potere politico centrale che i fondatori consideravano costitutivo
del sistema istituzionale degli Stati Uniti.
Aggiungo peraltro che questa visione del rapporto diretto e immediato tra
cittadini e autorità centrale è stata resa più duttile quando, tra la fine del XIX
e l’inizio del XX secolo, si è venuto affermando negli Stati Uniti un filone
culturale focalizzato sul tema del pluralismo, il quale ha messo in evidenza
che anche un’articolazione pluralistica della società può integrarsi nell’idea di
democrazia quale si è venuta sviluppando negli Stati Uniti, purché – va precisato – poi ci sia un organo che riesca ad individuare il punto di equilibrio tra
i diversi segmenti sociali e che sia capace di esprimere la sovranità e l’indirizzo
generale della comunità.
Come vedete, da questa rapidissima rassegna emerge che l’Europa (con la
sua appendice storica nord-americana) è la patria della democrazia, e quindi
se c’è un luogo dove la democrazia in qualche modo ha trovato il suo humus
culturale questo è l’Europa, così come se c’è un luogo che malgrado tutte le
sue recenti e meno recenti lacerazioni può ascendere a realtà istituzionale più
grande degli Stati nazionali, questo è l’Europa.
Detto ciò, oggi di fronte a noi abbiamo almeno tre questioni: quella
dell’esportabilità della democrazia, quella di un regime mondiale a fondamento democratico e infine quella della morte della democrazia, che si è verificata più volte in Europa.
La possibilità dell’esportazione della democrazia è straordinariamente difficile proprio perché le condizioni della democrazia sono quelle che ho, sia
pur rapidissimamente, richiamato. Senza questo insieme di presupposti, che
si sono tradotti poi in profili istituzionali, è difficile immaginare una esportabilità di tale forma di reggimento politico. A maggior ragione, la democrazia mondiale si conferma un traguardo privo di realismo. Quanto alla terza
questione, in Europa la democrazia è morta più volte, però è difficile che essa
possa trovare altrove quelle condizioni che qui ne hanno consentito la nascita
e lo sviluppo. E tale dato sottolinea il nesso che lega la realtà europea e la realtà
democratica.
Bisogna aggiungere che la democrazia è la forma di governo più complessa perché, per molti aspetti, è anche la forma di governo più artificiale,
cioè meno rispondente ai connotati profondi della natura umana. Un grande
sforzo culturale, dunque, sta alla base della democrazia. La natura umana non
tende ad essere democratica: è la cultura che può, con uno sforzo immenso
sulla natura umana, cercare di orientare le persone verso la consapevolezza che
i costi di forme politiche differenti dalla democrazia sono più elevati dei costi
della democrazia, mentre i benefici sono minori. Ma anche qui; attenzione:
non si può spingere l’artificialità fino a negare i limiti naturali all’intervento
della politica e, con essa, della legislazione.
Siamo perciò in presenza di uno sforzo di equilibrio e quindi di un impegno straordinariamente difficile, non soltanto perché molte volte le democra-
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zie non hanno dato storicamente prova della loro capacità, ma anche perché,
non di rado, è carente la consapevolezza nelle classi dirigenti che questo è un
impegno fondamentale che deve essere sviluppato. Più le classi dirigenti si
muovono nella logica dei particolarismi e delle fazioni (è un insegnamento
costante nella storia del pensiero politico europeo) più è difficile realizzare una
credibilità della democrazia e superare, in queste condizioni, l’ordine della
possibilità. È stato richiamato l’ordine della necessità, ma c’è anche l’ordine
della possibilità (le cose che si possono fare e quelle che non si possono fare) e
l’impegno delle classi dirigenti è essenziale per superare, o almeno ridurre, gli
spazi delle impossibilità.
Ciò però significa avere classi dirigenti aduse prevalentemente alla ricerca
dell’interesse generale, mentre nelle democrazie c’è un’antinomia di fondo
che non possiamo trascurare: le democrazie nascono sempre con grandi progetti tesi ad elevare le classi per così dire «inferiori» verso l’etica ed i livelli
intellettuali delle classi «superiori», ma questo processo – che all’inizio ha
una sua credibilità – nel corso del divenire storico tende a declinare, anzi
spesso si verifica il contrario, le classi dirigenti abbassano il loro livello sia
intellettuale che morale e perciò non sono più capaci di fare da guida e di
proporsi come guide nella vita pubblica. Io credo che di fronte alle immense
e straordinarie difficoltà che abbiamo davanti nella costruzione di un’Europa
democratica l’ordine della necessità debba valere in primo luogo per le classi
dirigenti, che devono avere la capacità di far cogliere ai cittadini nel loro
complesso tale necessità. Questo è il grande sforzo che si deve compiere.
Sono stato a lungo un sostenitore delle riforme istituzionali, perché
ritenevo che potessero aiutare, nel rapporto tra passioni umane e istituzioni, a frenare gli aspetti negativi delle passioni umane e ad incanalare le
passioni positive a favore della costruzione dell’interesse generale. Oggi
ho la sensazione che il quadro istituzionale, pure necessario, non sia più
sufficiente se non c’è un grande impegno anche dal punto di vista intellettuale e morale.
La possibilità di estendere la democrazia all’esperienza europea dipende
quindi ampiamente dalla capacità che le classi dirigenti avranno di rendersi
credibili e di rendere credibile la stessa democrazia. Questa è la grande sfida
dell’avvenire, e non è una sfida di poco conto. Essa si presenta nel momento
probabilmente meno facile della vita europea: al di là delle globalizzazioni,
delle questioni economiche, per una ragione di tipo strutturale molto più
profonda. Io ricordo con una certa frequenza questo dato fondamentale:
nel 1900 c’era un europeo ogni 4 abitanti del globo, il 25 per cento della
popolazione mondiale era composta da europei; fra circa 2030 anni (le proiezioni dei demografi presentano talune oscillazioni) ci sarà un europeo ogni
17 abitanti del globo.
Abbiamo di fronte un’immensa trasformazione strutturale, che si riverbererà in maniera straordinaria su tutta la dimensione culturale del nostro
continente. Più che mai è indispensabile la capacità di integrare o di reintegrare culturalmente l’Europa; se ciò non accadrà, saremo straordinaria-
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mente fragili nei confronti di questa sorta di grande onda che si profila e
che può essere affrontata prevalentemente, se non esclusivamente, dal punto
di vista intellettuale e morale. In assenza di ciò, gli strumenti più drasticamente conflittuali (ammesso e non concesso che siamo in grado di metterli
in campo) non soltanto potrebbero non vederci vincenti, ma certamente
attenuerebbero le ragioni della libertà, perché quando il conflitto cresce le
ragioni della libertà si assottigliano.
Questa è una costante della storia che non può essere trascurata. Solo alla
condizione che ci sia un grande risveglio delle coscienze europee l’Europa
rimarrà quella realtà che ha dato al mondo il contributo più grande nello
sviluppo delle istituzioni di libertà e certamente il contributo più grande
nella difesa della dignità della persona umana. Grazie.
dal colloquio del 4 settembre 2007:
Immigrazione e assimilazione nell’Impero romano
Alessandro Barbero
Gli oratori che mi hanno preceduto sono stati molto gentili, hanno evocato Carlo Magno e in qualche modo mi aiutano a fare quella che stasera è la
mia parte, cioè a spostare bruscamente la riflessione indietro nel tempo. È il
compito dello storico quando non è uno storico contemporaneo: lo storico
contemporaneo si muove a suo agio tra il passato, il presente e il futuro; chi,
come me, si occupa di Medioevo rimane invece molto indietro nel tempo, e
tutt’al più può tornare ancor più indietro. È quello che ho fatto, perché in
realtà da Carlo Magno, che ho studiato qualche anno fa, negli ultimi anni mi
sono spostato ancora più indietro (ed è il motivo per il quale sono stato qui
invitato), occupandomi di Impero romano, di caduta dell’Impero romano e
di invasioni barbariche.
All’inizio non lo immaginavo, ma mi sono accorto abbastanza presto
che questo è un tema che tocca un nervo scoperto della nostra civiltà. Il
termine stesso “barbari” ha una diffusione immensa; ci sono trasmissioni
televisive, serie giornalistiche, film che prendono spunto dalle invasioni
barbariche. Il rischio è di accontentarsi a volte di analogie un po’ facili.
Stamattina mi hanno telefonato dal quotidiano “La Stampa” di Torino,
con il quale ogni tanto collaboro, dicendomi: «Sai, hanno arrestato quei
disgraziati che hanno ucciso quella coppia di anziani a Treviso. Sono rumeni e albanesi e noi stiamo preparando una grande pagina su questo tema;
ci starebbe benissimo un tuo commento, del tipo “I nuovi barbari”». Al di
là del fatto che fortunatamente ero a Sperlonga, e non potevo scrivere oggi
pomeriggio un articolo di giornale prima di venire qui, non avrei comunque inteso, così a caldo, accettare questa sollecitazione, questa analogia
così facile. L’analogia forse c’è, ma secondo me bisogna stare attenti a vederla da tante angolazioni.
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Quello che vorrei brevemente fare qui con voi adesso è puntare di nuovo sul sottotitolo di questo incontro (mutazione demografica da una parte e
identità dall’altra), per provare a vedere cos’era l’Impero romano prima che
arrivassero i barbari e in che modo l’arrivo dei barbari ne ha cambiato identità
e demografia.
Racconterò i fatti da storico e non sottolineerò, volutamente, l’eventuale
analogia col presente; rimane eventualmente a tutti noi (e soprattutto al nostro moderatore, professor Raffaele di Raimo) verificare se sia possibile delinearne qualcuna.
Ciò che mi sembra fondamentale sottolineare è che noi abbiamo in mente
l’immagine, che non è sbagliata ma è parziale, di un grande Impero che ad un
certo punto viene invaso e abbattuto. Questo grande Impero fa parte in qualche modo del nostro passato, delle nostre radici. Certo, le radici europee sono
stratificate e complesse, come abbiamo avuto modo di apprendere in questi
anni quando si è discusso della Costituzione europea, ma certamente l’Impero
romano ha costituito uno dei livelli di queste radici, anche se in realtà è un
impero greco-romano: un impero costruito con le armi e con la forza politica
e militare di Roma, che però assorbe la cultura greca ed ellenistica. Anche
quando questo Impero diventa cristiano, ciò rappresenta nuovamente una
mediazione con la cultura greco-ellenistica del Mediterraneo, un’espansione
di questa nuova fede che arriva di laggiù.
Noi siamo abituati a vedere questo Impero che ad un certo punto viene
aggredito da barbari, quindi per definizione da stranieri, da alieni; è già uno
dei punti su cui rischiamo di semplificare troppo, perché le cose non sono
così semplici.
Se avessimo più tempo potremmo riflettere sul fatto che quello di “barbaro” è un concetto a geometria variabile (si può sempre essere il barbaro
di qualcun altro), inventato, come sappiamo, dai Greci. Quando i Greci
hanno incontrato per la prima volta i Romani, ovviamente si sono messi le
mani nei capelli e hanno detto: «Ecco degli altri barbari, anche peggio di
quelli che abbiamo conosciuto finora, perché i Persiani li abbiamo sconfitti,
mentre è difficile vincere questi barbari che vengono dall’Occidente, tanto
difficile che poi alla fine bisogna accettarli, mettersi d’accordo con loro e
civilizzarli». E dunque i primi barbari che sono stati civilizzati sono stati i
Romani.
Vorrei però insistere maggiormente su un fatto che conosciamo tutti,
però a volte non ci pensiamo. Quando evochiamo l’Impero romano ci viene
in mente l’Italia, naturalmente, la Gallia di Cesare, e magari quando andiamo in Marocco e vi troviamo meravigliose rovine romane ci sorprende,
per un attimo, constatare che i Romani sono arrivati fin lì. Chi poi va, per
esempio, sul Mar Caspio e trova anche lì delle rovine romane si ferma ulteriormente a riflettere e magari pensa che se invece fosse andato in Scozia
le avrebbe trovate anche lì. Questo è un impero che si estende dalla Scozia
alla Mesopotamia, al Tigri e all’Eufrate, fino al deserto del Sahara, al deserto
arabo, fino al Danubio e al Reno.
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Ebbene, questo immenso Impero – per riprendere una distinzione fondamentale fatta poc’anzi dal professor Di Napoli – è multietnico ma non è
multiculturale, poiché è un Impero solidamente tenuto insieme da un’unica
civiltà, da un’unica cultura: quella greco-romana. Naturalmente essa cambia
fra mille conflitti (l’avvento del Cristianesimo, ad esempio, è un cambiamento molto conflittuale), però è quest’intera civiltà che pian piano accetta
la nuova fede e poi si omogeneizza di nuovo.
Quindi, si tratta di un Impero multietnico a tutti i livelli che per secoli
ha saputo assimilare i popoli più diversi, popolato da gente di tutte le razze e
di tutti i colori, un Impero che programmaticamente fa dell’assimilazione di
molti popoli diversi il fondamento del suo potere, della sua ideologia e del suo
stesso scopo storico.
Pur non svolgendo ricerche direttamente su questo argomento, di recente
mi è capitato di leggere articoli di colleghi che dove abito io, cioè in Piemonte, si occupano del periodo romano. In Piemonte è possibile riscontrare numerose testimonianze di gente vissuta all’epoca romana, così come in molte
regioni d’Italia e d’Europa, perché appena avevano un po’ di soldi si facevano
costruire una lapide in memoria. Quindi, abbiamo traccia di innumerevoli
persone vissute nell’antichità, con tanto di nome, di carriera, di famiglia, di
età, e così via.
Da sinistra R. di Raimo,
A. Politi, A. Barbero
(al microfono)
e M. Di Napoli
(4 settembre 2007).
239
Ebbene, in Piemonte (non sto citando la Magna Grecia), nell’epoca imperiale romana viveva un’infinità di gente con nomi greci. Erano per lo più
liberti, ex schiavi venuti dall’Oriente, dalla Grecia vera e propria, dai Balcani e dall’Asia Minore, riconoscibilissimi proprio in quanto avevano un
nome greco. Quando poi venivano liberati ci aggiungevano un nome romano; quindi, ad esempio, abbiamo Marco Aurelio Hermes. Provenivano dai
quattro angoli del Mediterraneo, ma una volta liberati diventavano cittadini
romani e si integravano; ce n’erano in tutte le province dell’Impero.
Particolarmente indicativo della multietnicità dell’Impero romano è l’esercito, e qui mi viene da tradire la promessa che ho fatto, cioè quella di non
sottolineare le analogie, perché a mio avviso l’esercito americano rappresenta
un’affascinante analogia da questo punto di vista. Alcuni di noi quando pensano all’esercito romano evocano il legionario, magari quello di Asterix, che
parla pure in romanesco. In realtà, l’esercito romano è sempre stato composto
per una buona metà da reparti ausiliari reclutati in tutte le zone possibili e
immaginabili, all’interno ma anche al di fuori dell’Impero, e tutti secondo
regole precise. Si trattava non di mercenari, ma di persone che diventavano
soldati romani e dopo venticinque anni di servizio cittadini romani. L’esercito
romano era costituito da questi reparti, che poi per politica programmatica
del governo venivano trasferiti da una provincia all’altra, in modo che non
facessero troppa amicizia con la gente del posto, visto che l’esercito svolgeva
compiti che oggi sono di competenza della Polizia, della Guardia di finanza,
eccetera.
Ed è impressionante leggere, di nuovo sulle lapidi, che l’esercito recluta un
reparto di cavalleria in Arabia e lo trasferisce, ad esempio, in Germania, che
recluta un reparto fra i Mori del Nord-Africa e lo trasferisce nei Balcani. Il
punto è che tutti questi sono per un po’ ancora riconoscibili come Mori, come
Scotti, come Pitti, come provenienti dalle isole del Nord, poi però pian piano
anche loro si assimilano; quelli che lasciano il servizio diventano cittadini e di
conseguenza lo diventano i loro figli.
Si può parlare di un Impero multietnico e – lo ripeto – non multiculturale
perché non si dà nessun valore alle culture di origine, alle lingue di questa
gente; solo i culti religiosi sono accettati perché non avrebbe senso proibirli, per cui si nota che questa gente porta con sé i propri culti e che Roma,
capitale dell’Impero, è sede di templi di tutti gli dei del mondo. A parte i
culti religiosi, che sono facilmente assimilabili, il resto non è valorizzato e
si perde. Noi non sappiamo quasi nulla delle mille lingue che tutta questa
gente parlava in casa, perché quando viene romanizzata comincia a utilizzare
il latino o il greco.
Parlare di queste cose evidentemente vuol dire parlare di cittadinanza. Anche qui, tutti sappiamo cosa significava essere cittadino romano (civis romanus
sum), ma come si è declinato nel tempo questo concetto di cittadinanza? C’è
un’evoluzione molto interessante, perché all’inizio vi è un impero costruito da
un popolo di dominatori che hanno conquistato gli altri Paesi e che naturalmente vogliono trarne profitto.
240
Quindi, in origine quello romano è un impero abitato dai cittadini romani, che sono i padroni, e dai provinciali, gli indigeni, che sono i barbari
sottomessi, magari in via di assimilazione, naturalmente con meno diritti ed
esclusi dalla cittadinanza.
All’inizio si tratta di una situazione quasi coloniale (di nuovo vi è un anacronismo un po’ forte, ma secondo me non forzato), un rapporto fra colonizzatori ed indigeni. Ma la cittadinanza romana, che garantisce tutti i privilegi,
è una cosa che può essere distribuita oculatamente, che per convenienza si
decide a tavolino di concedere in modo che tutte le persone che contano qualcosa tra i popoli sottomessi, e di cui è utile guadagnarsi l’amicizia, possano
essere cointeressate all’Impero. Dunque, la cittadinanza viene distribuita, e
noi ci troviamo in questa situazione curiosa: ci sono i cittadini romani, l’élite
privilegiata, e gli altri, ma non è detto che i cittadini romani siano anche romani o italici di stirpe.
Cito un caso che tutti conosciamo perché è riportato in un testo che non
è solitamente considerato una fonte di storia romana, ma tutti ne conoscono l’esistenza per altri motivi: gli Atti degli Apostoli. Un notabile ebreo, di
potente e ricca famiglia ebraica dell’Asia minore, quindi assimilata – una di
quelle potenti famiglie che i Romani volevano tenersi buone e alle quali concedevano la cittadinanza – si fa cristiano, comincia a predicare (è San Paolo,
naturalmente, Saulo di Tarso), va a Gerusalemme. Gli ebrei di Gerusalemme
non sono per niente contenti, lo denunciano e la polizia romana lo arresta.
Quando si preparano a farlo fustigare, San Paolo, con aria innocente, dice:
«Ma potete far frustare un cittadino romano?». Immediatamente corrono a
chiamare il governatore e gli dicono: «Stai attento a quello che stai facendo,
perché quello è un cittadino romano». Il governatore va da San Paolo e gli
chiede: «Ma tu sei cittadino romano?». San Paolo risponde: «Eh, sì». E il comandante romano (romano anche lui, ma veniamo a sapere che tanto romano
di razza non è) aggiunge: «Anch’io sono romano; a me è costata un sacco di
soldi questa cittadinanza»; e San Paolo dice: «No, io sono romano di nascita».
Già nel I secolo d. C. funzionava così.
Naturalmente non è detto che questi meccanismi di assimilazione andassero sempre bene, perché a volte finivano male. Faccio un esempio in onore
del nostro amico professor Alessandro Politi, che è di ascendenze teutoniche.
Tutti sappiamo che il tentativo romano di conquistare la Germania al tempo
di Augusto finisce molto male quando i Germani si ribellano e distruggono
le legioni di Varo alla Selva di Teutoburgo sotto la guida di un capo tribale,
Arminio, che poi naturalmente la storiografia tedesca ottocentesca ha celebrato come eroe, difensore della libertà germanica contro questi conquistatori
“meridionali” che venivano da Roma. Peccato che Arminio si chiamasse Caio
Giulio Arminio, fosse romano, cavaliere romano – non lo avevano ancora
fatto senatore, ma era uno di quelli sulla buona strada! – ed avesse prestato
servizio in qualità di ufficiale romano, comandante di un reggimento ausiliario nell’esercito. Tacito ricorda che quando parlava latino si capiva che l’aveva
imparato in caserma. Arminio era uno di quelli che a un certo punto fanno
241
una scelta: reputa che, per gli equilibri che ci sono in casa sua, tutto sommato
sia preferibile puntare sulla ribellione, dal momento che gli può andare bene.
Invece, mille altri come lui collaboravano ed evitavano che le ribellioni scoppiassero.
Questa politica della diffusione della cittadinanza fra le élites locali fa sì che
in effetti, in età imperiale, il ceto dirigente sia totalmente multietnico. Se badiamo all’origine, agli dèi che uno si portava dietro, al colore dei capelli, come
cultura erano tutti civilizzati (avrebbero detto loro), erano tutti diventati dei
greci, dei romani, ma l’origine non se la dimenticavano.
E accade un fatto di cui pochi si ricordano, cioè che nel terzo secolo un
arabo diventa imperatore romano. C’è un imperatore romano che gli storici
chiamano “Filippo l’arabo”. È arabo, ma naturalmente si chiama Filippo, il
che vuol dire che è già abbastanza ellenizzato. Gli arabi sono un piccolo popolo che vive ai margini dell’Oriente imperiale greco-romano, quindi i loro
capi si affrettano (siamo ancora prima dell’Islam) a civilizzarsi e un arabo può
diventare imperatore romano.
L’élite va molto bene, ma forse a noi interessa anche comprendere se questo processo di diffusione della cittadinanza si è allargato a tutti. Ebbene sì,
ad un certo punto è avvenuto questo, poiché in parte le differenze culturali
si andavano in ogni caso riducendo, perché un po’ ovunque l’appartenenza
ad un unico impero creava un tessuto comune di valori, di idee e di lingua,
anche se poi le culture locali continuavano ad esistere.
Si arriva ad un momento in cui per un po’ ci si sforza di mantenere il
controllo riconoscendo che si può dare la cittadinanza a coloro che se la
meritano. Però, quelli che se la meritano sono tantissimi: tutti i veterani
dell’esercito. Per un po’ si continua a dire: «Va bene, averti fatto cittadino
dopo venticinque anni di servizio è una cosa importante, noi segnamo il tuo
nome in un apposito archivio a Roma, ti diamo un diploma di bronzo che
attesta che tu, individualmente, sei diventato cittadino romano». Gli archeologi hanno rinvenuto migliaia di questi diplomi di bronzo.
Ad un certo punto, però, questa procedura ad personam comincia ad apparire superata. Ha ancora senso mantenere la distinzione tra cittadini privilegiati e indigeni, visto che ormai non c’è quasi alcuna differenza, visto che i
cittadini sono tantissimi e in tutte le comunità? Ed ecco che un imperatore
decide di fare la prima sanatoria della storia: nel 212 d.C. l’imperatore Caracalla stabilisce che da allora in poi tutti quelli che abitano nell’Impero
diventeranno cittadini romani. Naturalmente sappiamo poco delle ragioni
politiche complesse che hanno reso possibile adottare un provvedimento del
genere. I pochi storici antichi che ci parlano di questa vicenda odiano Caracalla, ne parlano malissimo e gli attribuiscono delle motivazioni ignobili. Più
seriamente, molti storici oggi dicono: «Bella forza, a quell’epoca l’imperatore
aveva un potere talmente tirannico che tra cittadino e non cittadino non vi
era più alcuna differenza: in realtà erano tutti sudditi dell’Impero».
Fatto sta che questo editto di Caracalla, che estende la cittadinanza a
tutti gli abitanti dell’Impero, viene percepito dai contemporanei come un
242
qualcosa di straordinario. Abbiamo varie testimonianze di persone vissute in
quegli anni che hanno ottenuto la cittadinanza. Ad esempio, c’è un papiro
con una lettera di un egiziano, Marco Aurelio Ammone, che dice: «Io sono
quello che si chiamava solo Ammone fino a poco tempo fa, prima del sacro
dono, poi è arrivato il sacro dono» e lui, come tutti i nuovi cittadini, ha preso
il nome dell’imperatore, Marco Aurelio Antonino Caracalla. Di colpo metà
degli abitanti dell’Impero romano si chiamano Marco Aurelio, in aggiunta al
loro nome barbaro, perché sono tutti cittadini. Troviamo interi reggimenti
dove tutti i militari che conosciamo si chiamano Marco Aurelio e qualcos’altro. Questo fatto rimane anche nella memoria, perché dopo secoli troviamo
ancora autori insospettabili, che penseremmo si occupassero di tutt’altro,
che lo ricordano con entusiasmo. Sant’Agostino, per esempio, nella “Città di
Dio” afferma che quello è stato un grande momento, è stata una decisione
generosissima, gratissima, per cui è diventato di tutti quello che prima era
di pochi.
Ecco che abbiamo un impero attrezzato per invadere nuovi Paesi, sottomettere nuovi popoli, accettare senza scandalizzarsi troppo la loro enorme
differenza etnica, senza però darvi troppa importanza perché, appunto, la
civiltà vera è una sola; è già uno sforzo accettare il fatto che ci siano due lingue civili, il greco e il latino, ma non si può farne a meno, devono essere due
per forza, tutte le altre non interessano a nessuno. Si può assimilare chiunque
purché voglia accettarlo; le regole sono piuttosto chiare e continuano ad esserlo anche dopo perché, a seguito dell’editto di Caracalla, l’Impero romano
si trova in una situazione sempre più simile a quella del nostro odierno Occidente.
Lei, professor Di Napoli, ha pronunziato la parola cruciale: “manodopera”.
L’Impero romano aveva un bisogno costante di manodopera, ne aveva bisogno già prima nell’esercito, ma da Caracalla in poi si vede che c’è un’esigenza
massiccia di manodopera anche nelle campagne, per lavorare la terra; è un
impero attraversato da epidemie, dove spesso ci sono regioni che rimangono
spopolate. Quindi, questo impero si attrezza per far entrare i barbari; vengono
istituite intere prefetture che hanno il compito, una volta che l’Impero ha deciso di far entrare una certa tribù, di trovare la zona in cui sistemarla, i campi
dove farla lavorare.
C’è un’intera ideologia, che scaturisce dai discorsi dei politici e dalle orazioni che si tenevano a Costantinopoli davanti all’imperatore, un’ideologia
dominante nell’élite dell’Impero romano, che è appunto quella dell’assimilazione, per cui Roma è unica perché ha sempre saputo essere madre di tutti.
Naturalmente si tratta di discorsi bellissimi e quando si leggono queste orazioni ci si commuove. Io ne ho trovata una incredibile di Temistio (oratore greco
del IV secolo), il quale si complimenta con l’imperatore perché ha sconfitto i
Goti: poteva ammazzarli tutti (una volta si faceva così), invece non l’ha fatto,
li ha perdonati e accolti. Temistio ci dice (e io trasecolavo mentre leggevo), che
molti si preoccupavano tanto che non sparissero gli ippopotami dal Nilo, gli
elefanti dall’Africa, i leoni dalla Tessaglia, che tutte le specie animali dovevano
243
essere conservate, e quindi bisognava rallegrarsi che si fosse conservato «un
popolo di uomini, magari barbari dirà qualcuno, ma pur sempre uomini».
Sono testi commoventi, ma naturalmente le retoriche del potere hanno sempre dei risvolti; questi testi commoventi stanno anche a significare
che l’imperatore, proprio perché non è soltanto l’imperatore romano ma
anche il padre del genere umano, ha il diritto di intervenire dove vuole in
tutto il mondo. I confini dell’Impero sono provvisori, esistono solo per
comodità, perché magari non si avevano i mezzi per collocare delle guarnigioni oltre l’Eufrate, ma ad ogni modo l’imperatore aveva il diritto di
intervenire ovunque perché l’Impero di Roma era destinato a governare
il mondo.
L’altra faccia di questa ideologia dell’assimilazione è che i barbari vengono
assimilati, li si fa entrare nell’Impero, si dà loro lavoro: intere tribù di profughi
(come li chiameremmo noi) scacciate dalla guerra, dalla fame e dalle epidemie
arrivano ai confini dell’Impero e vi sono grosse operazioni di stanziamento.
Cronisti del III e del IV secolo ne raccontano tantissime.
Naturalmente può anche succedere che l’Impero abbia bisogno di manodopera e proprio in quel momento non ci sia nessuno che vuole venire.
Allora la si va a prendere: non vi è alcuno scrupolo a inviare una spedizione militare oltre confine, ad esempio oltre il Reno, per catturare in massa
qualche tribù di Alamanni o di Franchi e trasferirli. Però, la cosa curiosa
è che mentre all’inizio, ai vecchi tempi, li si sarebbe ridotti in schiavitù,
adesso non lo si fa più. Ora c’è l’abitudine di dire: «Vi abbiamo portati dentro, vi diamo della terra e voi, da bravi, la lavorate, i giovani li arruoliamo
nell’esercito, pagate le tasse». Si tratta di un tema che torna continuamente
in tutti questi testi: «Avremo dei nuovi contribuenti, pagano le tasse come
noi, quindi sono cittadini come noi, obbediscono all’imperatore, prestano
servizio nell’esercito, diventano cristiani», dal momento in cui anche essere
cristiani diventa una delle condizioni cruciali per sentirsi appartenenti alla
civiltà romana.
L’Impero romano per molto tempo gestisce tutto questo (non voglio dare
un quadro troppo idilliaco) con brutalità, garantendo un minimo di diritti
e un minimo di regole, però quel minimo lo garantisce. Garantisce l’assimilazione, che per la massa vuol dire essere assimilati ai sudditi dell’Impero
(che sono in realtà dei poveracci anche loro), per quelli che fanno carriera
significa diventare generali o governatori, e ce ne sono tanti esempi.
Per molto tempo le regole sono abbastanza chiare: tutta questa gente può
entrare – e a volte la si fa entrare anche con la forza – purché lavorino, paghino
le tasse, diventino greci e romani. A queste condizioni chiunque può entrare,
perché si vuole che un giorno tutti i popoli del mondo siano un’unica stirpe.
Questo lo dicono quei poeti della tarda latinità che a scuola non studiavamo
perché non c’era più tempo, che invece in genere sono autori straordinari
(Claudiano, Prudenzio), sia pagani che cristiani. I cristiani aggiungono che è
Dio che ha voluto questo, è Dio che ha voluto l’Impero di Roma, che assimila
tutti i popoli per aprire la via a Cristo.
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Concludo, anche se il punto cruciale è proprio quello che ora liquiderò
in pochi secondi. Viene il momento in cui questo impero non riesce più a
gestire questi flussi di immigrazione, in cui le regole non sono più chiare, in
cui vi sono episodi di corruzione, anche scandalosi, nella gestione di certe
emergenze umanitarie che provocano malessere, ribellioni violente, e di fronte
a questo vi sono governi deboli che negoziano, trattano, concedono cose che
prima non erano mai state concesse, non sanno più assicurare le garanzie che
prima si davano e, al tempo stesso, non sanno più pretendere quello che un
tempo si pretendeva.
A quel punto le cose cominciano ad andare molto male, però – come
comprendete – questa è un’altra storia; quindi, forse ne parleremo l’anno
prossimo.
Intervento di sintesi
di Armando Cusani
Il Presidende della
Provincia di Latina,
Armando Cusani (2007).
Il professor Raffale di Raimo ha sapientemente coordinato il colloquio
con osservazioni pregnanti sul piano
giuridico, disegnando nell’insieme un
panorama ampio, interessante dal quale è possibile derivare stimoli per riflessioni ulteriori.
Sono state dette cose molto importanti. Per tutti e in particolare per
coloro i quali, in ragione della responsabilità di governare di cui sono stati
investiti attraverso il consenso degli
elettori, devono assumere decisioni
destinate ad incidere sul futuro della
comunità.
In un certo senso, per la funzione
pubblica alla quale assolvo attualmente, mi sono sentito chiamato in causa
sia sul problema dell’immigrazione, che su quello della identità europea. E da
quest’ultima, vorrei partire per proporre alcune considerazioni.
“Unità nelle diversità”! In varietate concordia! Questi assunti concettuali sull’idea di Europa, hanno radici salde e profonde nella nostra provincia. Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, sono figure di
grande rigore morale e passione civile che nei duri anni del confino di
polizia raccolsero ne Il Manifesto di Ventotene principi, valori, prospettive
dell’Europa dei cittadini come strumento di progresso comune contro gli
egoismi nazionali, di democrazia, pace e libertà per ciascun uomo contro
avventure totalitarie nuove e devastanti, quanto le precedenti, per tutto
il genere umano.
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Tali principi, valori e prospettive muovono dalla nostra terra e ne hanno
fatto nel tempo un laboratorio di cultura e di idee, ma anche un crocevia di
identità e culture diverse in armonia con le origini di una Provincia giovane,
nonostante i suoi settanta anni, che nacque perché una volontà imperiosa
decise di coinvolgere in una grande opera della storia dell’uomo – la bonifica della palude – genti di diverse località del Nord, offrendo loro possibilità
e opportunità per sottrarsi alle condizioni di povertà dei luoghi di nascita
e costruire un avvenire per sé e per i loro figli in una terra resa fertile dalla
fatica e dal sudore.
Sono state così create le Città di Fondazione: Littoria, Sabaudia, Pontinia, Aprilia e, con esse, Pomezia. Così come è stato impostato il colloquio,
mi è parso una intuizione felice e del tutto condivisibile perché si è coniugata l’analisi storica delle origini con gli scenari che, in terra pontina come in
Italia e in Europa, avremo di fronte nel breve, medio e lungo periodo.
Le sfide da affrontare sono molte: le perderemo, se non sapremo agire
con chiarezza di visione politica, approccio pragmatico e determinazione.
Con i relatori appartengo ad una generazione che dovrà sostenere un immane e complesso cambiamento dai ritmi rapidissimi e la cui portata, forse,
non è stata percepita compiutamente dalle generazioni precedenti.
L’Ambiente, per esempio. I problemi che esso presenta scaturiscono non
solo dai mutamenti climatici, dalla crescita del livello dei mari cagionato
dallo scioglimento dei ghiacciai, ma anche, per usare le parole del professor
Alessandro Politi, dall’impoverimento delle risorse del pianeta che non sono
per tutti e per sempre.
Non ho idea se Al Gore o altri come lui fonderanno le proprie campagne
politiche su un tema di così vasta portata. Ma, è indiscutibile che la classe
dirigente, se vorrà assumere decisioni con cognizione di causa, non potrà
prescindere da una seria analisi scientifica e dell’apporto degli studiosi.
Sull’Europa credo opportuno tornare a soffermarmi per dire che le
argomentazioni del professor Mario Di Napoli mi trovano concorde. È
vero: il processo di unificazione europea ha subito un indebolimento. Il
voto negativo di francesi ed olandesi sul Trattato costituzionale, la divisione dei Paesi membri sulla questione irachena e, più in generale su
quella mediorientale, pongono in rilievo la fragilità di questa Unione Europea oggettivamente priva di una politica estera e in quanto tale debole
nella sua reale capacità di interloquire sul piano internazionale, senza una
politica unitaria per l’immigrazione, senza un esercito, senza cittadini
culturalmente europei.
Sulle responsabilità della decelerazione subita dai lavori per la costruzione della Casa europea ho percepito nell’esposizione del professor Di Napoli
una certa timidezza. Ma è bene dirsele, è bene “denunciare” gli egoismi
nazionali e contestualmente rilanciare questa Europa sul piano interno ai
Paesi membri e su quello internazionale su questioni vitali come la pace, la
sicurezza, lo sviluppo compatibile, la redistribuzione delle risorse, il debito
dei Paesi poveri, l’immigrazione.
246
Un’Europa forte, solidale, strutturata ed autonoma tra Est ed Ovest è
l’unica via possibile per affrontare i problemi descritti, compreso quello del
deficit demografico che con l’immigrazione costituisce il tema del colloquio.
Diversamente, l’Europa finirà per sfaldarsi coinvolgendo nella pericolosa
spirale i singoli Paesi del continente.
Dicono che la storia si ripete. L’Impero romano era plurietnico ma non
pluriculturale (la distinzione è chiara nel discorso del professor Barbero)
perchè i barbari integrati divenivano culturalmente romani. Gli USA, cui
si fa spesso riferimento, costituiscono, invece, una comunità anche pluriculturale e non solo plurietnica. La particolare esperienza americana – dice
il professor di Raimo – non può essere per noi un esempio per la diversità
del processo di formazione politica e delle identità nazionali. Mi ha colpito la sua citazione della giurisprudenza delle corti americane che hanno
fatto prevalere sulle norme generali della comunità quelle di gruppi etnici
o religiosi assai particolari. Non più uguaglianza davanti alla legge, bensì il
diritto come mediazione tra gruppi, che seguono i propri riti e le proprie
regole chiudendosi nei confronti della comunità più ampia. Se tutto questo
V. Cademartori, da «Migranti»,
tecnica mista su tela
(esposta a Sperlonga nel 2005).
247
può cagionare una conflittualità anche esplosiva (vedasi la Francia) è agevole
desumere che essa potrà riprodursi pure da noi, che abbiamo, come dice il
professor di Raimo, una diversa tradizione giuridica e dello Stato: e, allora,
a quali conseguenze andremo incontro in tema di stato di diritto, di libertà,
di democrazia? Quali immigrati saranno da accettare e quali da respingere?
Dunque, dobbiamo riflettere ed essere consapevoli di un mutamento radicale che da qui al 2050 trasformerà la nostra in una società multietnica.
Potremo far poco se non accettiamo fin d’ora la premessa che il processo
è inevitabile; potremo far molto se partiamo da tale premessa, avviando il
rimodellamento della società italiana su regole in grado di contemperare le
nostre con le altrui radici e creando il collante giuridico-sociale attraverso
il quale assicurare la convivenza civile nel nostro Paese ed interiorizzare il
sentimento di Nazione multietnica quale l’Italia diventerà.
Entro ora sul terreno della mia esperienza di Presidente di una Provincia. Latina è una Provincia di medie dimensioni con i suoi quasi 530.000
abitanti e si colloca tra le medie Province italiane che ogni anno contano
circa 13.000 nuove iscrizioni anagrafiche di persone, italiani e stranieri, che
arrivano da fuori. Avendo un 5,3 per cento del PIL derivante dal settore
dell’agricoltura – il doppio rispetto al 2,5 per cento del PIL nazionale e
quattro volte tanto quello dell’intero Lazio attestato sull’1,4 per cento – è
agevole immaginare che vi sia una buona parte di irregolari, perché si sa che
l’agricoltura è uno di quei settori in cui lavora una immigrazione sommersa
molto consistente.
Ci siamo posti l’esigenza di intervenire in anticipo per fare in modo che
un processo inevitabile, frutto della necessità di manodopera secondo l’analisi che è stata qui fatta egregiamente dal professor Politi (è quella e non si
sfugge!), potesse trovare politiche di regolazione e di sostegno. Non avendo
potere legislativo – le Province svolgono funzioni amministrative al pari dei
Comuni – abbiamo considerato la questione sulla quale si è soffermato il
professor Di Napoli. Certo, noi avremmo bisogno di avere una comunità
nello Stato, ma, oggi, la nostra Repubblica, dopo la modifica del Titolo V
della Costituzione, è molto più variegata rispetto al passato. Chi si occuperà
delle politiche di controllo e sostegno dell’immigrazione e perciò delle politiche di integrazione? Sarà soltanto il Parlamento nazionale? Saranno i Consigli regionali, oppure, come io credo, questi temi dovranno essere affrontati
con responsabilità e sensibilità culturale da tutti i livelli che compongono la
Repubblica, dallo Stato ai Comuni, ed ognuno dovrà fare la sua parte. Personalmente ritengo applicabile alle politiche dell’immigrazione il principio
del welfare community e, ad esso, si è sostanzialmente ispirata l’azione della
Provincia.
Essa è partita dalla scuola, perché in questo settore l’Ente può assumere delle responsabilità nei confronti delle famiglie e dei ragazzi al seguito
delle persone che giungono da noi per motivi di lavoro. Siamo uno dei
pochi esempi in Italia di una Provincia che, pur consapevole della competenza dello Stato in tema di istruzione, anche per gli immigrati, ha inte-
248
grato gli stanziamenti trasferiti dallo Stato stesso con risorse del bilancio
provinciale messe a disposizione dei presidi (amo chiamarli ancora così!)
di varie scuole.
Siamo infatti convinti che non possiamo aspettare che vi sia un Parlamento finalmente illuminato, di destra o di sinistra, che si accorga della
necessità di avviare politiche tempestive per evitare il crollo del sistema democratico. L’analogia con quanto è successo per l’Impero romano credo sia
assolutamente condivisibile e il discorso del professor Barbero in tal senso
è di grande attualità. Esso è un ottimo riferimento e vale anche per l’altro
problema, quello della sicurezza del quale la Provincia di Latina continua ad
occuparsi ancora oggi.
Appena eletto, nel 2004, provai un senso d’impotenza nel vedere presso
i semafori delle città di Latina e di Aprilia (Latina è la seconda città del
Lazio, dopo Roma, con 120.000 abitanti, mentre Aprilia ne ha 80.000,
quindi città complesse e importanti, molto vicine all’area metropolitana)
persone, bambini per la maggior parte, che chiedevano l’elemosina e nel
notare anche che a quei semafori passavano carabinieri, finanzieri, poliziotti, magistrati, cioè tutti coloro che hanno una qualche responsabilità per
intervenire.
Mi chiesi quali fossero i motivi per cui ognuno pensava che c’è sempre
qualcun altro ad avere il potere o il dovere di fare qualcosa. Allora la Provincia si è fatta carico di predisporre un progetto, un programma, denominato “Angeli Custodi”, che non avesse alla base soltanto un contenuto
repressivo (come si riscontra a volte nelle normative, ad esempio nell’ordinanza contro i lavavetri) ma fosse indirizzato concretamente a risolvere il
problema: una task force coordinata dalla Provincia insieme alla Prefettura,
costituita da assistenti sociali, psicologi, carabinieri, finanzieri, poliziotti in
borghese.
È un progetto che sta in piedi e che funziona. Sono stati compiuti 355
interventi (su più di 600 in generale) in un anno e mezzo e non ci sono più
ragazzi a chiedere l’elemosina ai semafori delle nostre strade. Quanti tra loro
sono risultati minorenni ora sono accuditi e seguiti nelle case famiglia, gli
altri sono tornati a scuola. Per altri ancora, risultati senza genitori, sono stati
svolti approfondimenti per capire se vi fosse un collegamento con il racket o
con la criminalità organizzata.
Forse questo può essere un modello da seguire. Forse questo può essere
un messaggio che, insieme agli altri elementi emersi nel colloquio svoltosi
nella «piccola Atene» come è stata definita più volte, in questo laboratorio
di pensiero che da dieci anni abbiamo costruito a Sperlonga, può motivare
altri a continuare e a far meglio nell’interesse di una società non ancora
consapevole delle mutazioni profonde che la stanno interessando. Lo spero
davvero.
249
Mostre foto-documentarie
250
Antica Chiesa
1. dal 16 luglio all’11 settembre 2005
Riguardare la costa
a cura di Carmen Carbone e Roberto de Rubertis
2. dal 15 luglio al 30 settembre 2006
Giuseppe Mazzini cittadino d’Europa
a cura di Mario Di Napoli
3. dal 28 luglio al 31 ottobre 2008
Sperlonga 1948-1968: l’architettura della ricostruzione
a cura di Carmen Carbone
In questa pagina: «Antica Chiesa», mostra su Giuseppe Mazzini;
nella pagina seguente: Locandina della mostra «Riguardare la costa».
251
Locandina della mostra
su Giuseppe Mazzini.
252
Antica Chiesa, mostra
sull’architettura moderna
(1948-1968) di Sperlonga.
253
Spettacoli cinematografici e teatrali
254
a cura di Angelo Loy
presentata da Luigi Di Gianni
Cinema documentario
a cura di Angelo Loy e di Luigi Di Gianni
L’idea iniziale dei due curatori, condivisa da Giacomo di Raimo, era quella
di sperimentare la possibilità di creare a Sperlonga un festival permanente di
cinema documentario di giovani autori italiani, accompagnato da retrospettive
di documentario storico. Si intendeva valorizzare un mezzo narrativo di grande
tradizione facendone strumento di incontri su argomenti predeterminati di attualità. L’ambizioso progetto fu portato avanti per tre anni con molte difficoltà
di carattere organizzativo e finanziario. Dal 2001 si è passati alla proiezione
di films storici.
1998
sabato 5 settembre
“Lettera dall’America” di Gianfranco Pannone; “Uomini
e lupi” di Daniele Vicari; “Diario di una siciliana ribelle”
di Marco Amenta
domenica 6 settembre
“Repubblica nostra” di Daniele Incalcaterra; “Matera 2
luglio” di Fabrizio Berruti; “Il fuoco di Napoli” di Alessandro Rossetto
1999
sabato 4 settembre
“Prima Sicilia” di Salvo Cuccia; “Mega dei 99 fosse” di
Caterina Del Molin; “Ritratto di Altinè nella stagione
secca” di Elisa Mereghetti e Marco Mensa; “L’America a
Roma” di Gianfranco Pannone
domenica 5 settembre
Retrospettiva di Vittorio De Seta
Luigi Di Gianni presenta
“Grisbi” di J. Becker (2005).
2000
lunedì 4 settembre
Lezione di L. Di Gianni sul cinema documentario;
documentari di Raffaele Morelli e Gianfranco Pannone
martedì 5 settembre
Rassegna retrospettiva introdotta da Cecilia Mangini e Luigi Di Gianni: documentari di Vittorio De Seta. Lino Del Frà, Cecilia Mangini, Raffaele Andreassi e Michele Gandin
255
Che cos’è il cinema documentario?
a cura di Luigi Di Gianni * (2000)
Proviamo a semplificare facendo appello alla storia del cinema.
Già dopo la consacrazione ufficiale del Cinématografe del 28 dicembre 1895,
il cinema si orienta su un doppio binario, da una parte la vocazione documentaria con La sortie des usines, L’arrivée d’un train, La Ciotat, La sortie du port, dei
fratelli Lumière, dall’altra la vocazione favolistica o la finzione, con il cinema
“da baraccone” del genialissimo Georges Meliès (Le voyage dans la lune, Le
voyage travers l’impossible, ecc.). Questo doppio binario percorre tutta la storia
del cinema, ma nel cinema non esistono barriere, solo commistioni e combinazioni diverse e quindi, si può parlare anche e spesso di un cinema di finzione
con vocazione documentaria e di un cinema documentario con vocazione alla
finzione. Si tratta, comunque, di distinzioni metodologiche o di comodo, a
parte le considerazioni che possono nascere a proposito del mercato.
Allora, se nel cinema non esistono distinzioni schematiche che cosa possiamo
intendere, volendo differenziare, per cinema documentario? Hanno provato in
molti a dare una definizione ma spesso con esiti non esaurienti o problematici
(d’altra parte le risposte problematiche sono sempre più convincenti). Possiamo iniziare da Grierson che nella sua recensione a Moana di Flaherty nel 1926
introdusse il termine documentario e al quale dobbiamo un testo classico come
“Documentario e realtà” fino a Bill Nichols nel suo stimolante “Introduzione
al documentario” pubblicato in Italia da “Il castoro” nel 2006.
Secondo me il documentario è una forma di cinema “aperto”, che rompe
con le convenzioni spettacolari e che può contenere attualità, cronaca, testimonianze, finzione ma trascende in termini creativi gli ingredienti stessi.
Acutamente una mia allieva rispondendo al quesito circa la natura del cinema documentario, rispose in modo categorico: il cinema documentario è
tutto il cinema non spettacolare. E possiamo essere d’accordo.
Comunque, a mio avviso, se si sgombra il campo da una pretesa ricerca di
oggettività molto in voga per qualche tempo soprattutto tra gli studiosi di
antropologia che esigevano una registrazione asettica di fatti, possiamo anche tener conto di una formula che definisce il cinema documentario come
il tentativo di intervento diretto sulla realtà. Dobbiamo però notare che la
suddetta formula, sia pure arricchita da precisazioni, connotazioni e distinzioni di carattere informativo, critico e poetico (e mi riferisco soprattutto ai
documentari “creativi” o “autoriali”), appare generica e stantia. Cioè bisogna
approfondire i termini che ci riguardano. Il rapporto diretto con le cose non
può escludere, credo, alcuni modi diversi di porsi nei confronti del reale come
“l’ascoltare” o “l’evocare” l’anima del reale stesso, nonché modi diversi di rappresentazione come la stilizzazione ed altro. Purtroppo la formula è spesso
legata ad una concezione semplicistica e forse materialistica o politicamente
strumentale della realtà.
* Regista cinematografico e televisivo e docente di Cinema.
256
Una volta mi chiesero, perché i personaggi dei miei documentari non si
soffiassero mai il naso, e io risposi seccamente: «non hanno il raffreddore...»
In sostanza ero accusato di poco rispetto della realtà perché mi ero attenuto
a scelte stilistiche che non tenevano conto del verosimile. Evidentemente si
confondeva il verosimile con il reale e la realtà può anche essere inverosimile.
Un equivoco frequente nasce tra realtà e verosimiglianza e tra verità e verosimiglianza.
Ma ritorniamo alle definizioni.
«Può essere “documentario di creazione” qualsiasi opera che tratti di una
realtà passata o presente, che abbia costituito l’oggetto di un lavoro di ricerca,
di analisi, di scrittura, che trasmetta l’originalità dello sguardo dei suoi autori»
(Da: Aide à l’écriture et a la préparation de documentaires destinés a une première
diffusion visuelle, a cura del CNC Centre National de la Cinématographie).
Bene. Ma il concetto di realtà rimane ancora poco definito. La realtà riguarda solo gli aspetti esterni, i fatti sociali e così via oppure anche l’intimità dell’uomo? Possiamo parlare nel documentario solo della realtà sociale o
anche di quella più intima ed esistenziale? Esiste solo la realtà della veglia o
anche quella del sogno? Anche il sogno è reale. Anche la “visione” è reale. La
realtà è dilatabile e dipende anche dalla nostra ricettività.
Si parla spesso di cinema di finzione visionario; d’accordo e a buon diritto
possiamo anche parlare di un cinema documentario visionario. Tutto il cinema, nel suo complesso, può essere visionario.
E penso ad alcuni documentari di Herzog, che pur immersi nelle cose del
mondo hanno una tinta visionaria.
Vorrei concludere questo mio breve intervento qui a Sperlonga, rispondendo problematicamente al quesito di fondo, con una citazione che riguarda il cosiddetto cinema verità (e ci sarebbe molto da discutere sull’uso
del termine verità e non intendo comunque essere irrispettoso nei riguardi
degli autori illustri che lo rappresentano), con un’affermazione forse un po’
troppo categorica, ma sferzante, di Herzog: «il cinema verità è il cinema dei
contabili».
Cinema storico
a cura di Luigi Di Gianni
2001
mercoledì 5 settembre
Lezione di L. Di Gianni sul cinema storico italiano;
“Divorzio all’italiana” di Pietro Germi (1961)
2002
martedì 3 settembre
Il cinema di Giuseppe De Santis, presentato da L. Di Gianni: “Non c’è pace
tra gli ulivi” (1950)
257
2003
Carrellata nel cinema francese – Tre film in memoria dell’attore Jean Gabin:
lunedì 1 settembre: “Il porto nelle nebbie” (Quai des brumes), di Marcel Carné
(1938)
martedì 2 settembre: “Il bandito della Casbah” (Pépé le Moko), di Julien Duvivier (1936)
mercoledì 3 settembre: “Alba tragica” (Le jour se lève), di Marcel Carné (1939)
2005
Nuova Carrellata nel cinema francese:
martedì 6 settembre: “L’assassino abita al n. 21” (L’assassin habite au 21), di
Henri-George Clouzot (1942)
mercoledì 7 settembre: “Grisbi” (Touchez pas au grisbi), di Jacques Becker
(1954)
2006
Ciclo di proiezioni in ricordo di Luchino Visconti:
Mercoledì 6 settembre: “Rocco e i suoi fratelli” (1960)
2007
Ciclo di proiezioni in ricordo di Luchino Visconti:
martedì 5 settembre: “Ossessione” (1943)
giovedì 6 settembre: “Senso” (1954)
Recite teatrali
1999
giovedì 10 settembre
COMPAGNIA DI SPERLONGA “TEATRO”
Passerotti e pipistrelli, di Vincenzo Salemme
Interpreti: Nadia Beltrano, Nazzareno D’Arcangelo, Fernando Fragione, Monica Fusco, Massimo Matacchione, Salvatore Rosato
2000
giovedì 7 settembre
LA COMPAGNIA
I due gentiluomini di Verona, di William Shakespeare
Interpreti: Pasquale di Filippo, Francesco Guidi, Lorenzo Lutteri, Tommaso
Minniti, Candida Nieri, Enrico Petronio, Michele Radice, Alessio Tempesta,
Nicola Vignola, Sara Zoia
Nella pagina seguente:
Locandina de I due gentiluomini.
258
Premio Grotta di Tiberio
“Testa di Ulisse”,
disegno di Bruno Caruso, 1998
(logo del Premio Grotta di Tiberio
per l’archeologia).
Elenco dei premi assegnati
nei settori primari
Per l’archeologia
1998 Bernard Andreae
2000 Eugenio La Rocca
2002 Salvatore Settis
2004 Wolf Dieter Heilmeyer
2006 Adriano La Regina
Cerimonia di consegna del Premio
nel Museo archeologico (1998).
260
Lettura delle motivazioni dei premi: da destra Rosetta Loy (1998) e Daniela Ciotola (1999).
per il paesaggio e l’ambiente
1999 Arturo Osio
2001 Desideria Pasolini dall’Onda
2003 Corrado Clini
2005 Grazia Francescato
2007 Amedeo Postiglione
La Sopraintendente archeologica
per il Lazio Anna Maria Reggiani
con il Sindaco Armando Cusani
nell’area archeologica (2002).
261
Elenco dei premi
assegnati nei settori complementari
per la poesia o la traduzione di poesie
1998 Lorenzo De Angelis
1998 Umberto Bellintani
2001 Ariodante Marianni
2002 Umberto Piersanti
per le arti figurative
1999 Giulia Napoleone
1999 Federica Galli
2000 Piero Guccione
2002 Antonio Corpora
2007 Achille Perilli
Wolf Dieter Heilmeyer,
premiato per l’archeologia,
con Licia Borrelli Vlad
e il Sindaco Armando
Cusani (2004).
262
per la critica musicale
2002 Landa Ketoff
per la saggistica
2001 Luigi De Rosa
2003 Francesco Purini
2004 Franco Piperno
2006 Piero Boitani
per la comunicazione
1998 Francesco Sabatini
1999 Vittorio Emiliani
per l’architettura
2007 Roberto de Rubertis
per la divulgazione culturale
2000 Paolo Mauri
per l’interpretazione musicale
2005 Bruno Canino
2006 Giuseppe La Licata
2007 Massimo Quarta
per il giornalismo
1998 Antonio Gambino
2003 Marco Politi
Silloge breve di motivazioni
2002 Salvatore Settis
premio per l’archeologia
Salvatore Settis è studioso di fama internazionale, elegante scrittore, noto
e apprezzato collaboratore della stampa culturale. I suoi efficaci interventi
costituiscono punto di riferimento e valido sostegno per tutti coloro che
sono impegnati nella salvaguardia del patrimonio storico-artistico italiano.
Ha diretto il Getty Center for the History of Art and the Humanities di Malibu
ed è attualmente Direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa.
La Commissione scientifica ha attribuito a Salvatore Settis il Premio biennale per l’archeologia Grotta di Tiberio per il suo fecondo magistero, per
il multiforme impegno profuso in originali contributi nei principali campi
dell’archeologia e della storia dell’arte, per aver ideato e promosso la pubblicazione di importanti opere collettive in Italia e all’estero.
(estensore Licia Borrelli Vlad)
2003 Corrado Clini
premio per il paesaggio e l’ambiente
Laureatosi in medicina presso l’Università di Parma e poi specializzatosi
in medicina del lavoro e in igiene e sanità pubblica, Direttore generale del
Ministero dell’ambiente, Corrado Clini si è sempre dedicato ad attività e
allo svolgimento di funzioni concernenti la tutela dell’ambiente, affermandosi, a livello internazionale, come uno dei maggiori esperti di tale settore.
Coordinatore di esperti della UE e rappresentante della stessa o del Governo
italiano nella preparazione di conferenze e predisposizione di Convenzioni
in materia di ambiente e salute, guida il Gruppo interministeriale del Governo italiano per l’attuazione del protocollo di Kyoto, presiede dal 1999
il Comitato Paneuropeo istituito dalle Nazioni Unite ECE-ONU e dalla
OMS dopo esser stato a capo sino al 2001 della task-force istituita sulle energie rinnovabili dai Capi di Stato e di Governo del Gruppo G8, è responsabile di vari programmi bilaterali di cooperazione ambientale (Italia-Cina;
Italia-USA, ecc.), è membro del Board del REC e del Bureau dell’Agenzia
europea per l’ambiente.
Anche in relazione a tali attività è autore di numerosi articoli e saggi su
riviste e giornali specializzati, nazionali e internazionali, e di importanti studi sull’ambiente e sui rischi per la salute connessi ai mutamenti climatici e
sulle tecnologie e il mercato delle energie rinnovabili, tra i quali mette conto
ricordare Renewable Energy: Development That Lasts, redatto in collaborazione con Sir Mark Moody Stuart, e “Clima e ozono”, entrambi del 2001.
Ha svolto in tempi e sedi universitarie diverse attività di insegnamento sulle
materie della tutela dell’ambiente e della salute.
(estensore Giacomo di Raimo)
263
Paolo Stella Richter
consegna ad Amedeo
Postiglione il premio per
il paesaggio e l’ambiente
(2007).
2003 Marco Politi
premio per il giornalismo
Marco Politi ha iniziato la sua professione giornalistica nel 1969 su “Il Messaggero di Roma”, proseguendola dal 1993 su “La Repubblica”. Interessatosi a
lungo di problemi internazionali, si è affermato come “vaticanista” vale a dire
come analista della politica religiosa e sociale della Santa Sede, al punto da
essere riconosciuto oggi come uno dei massimi specialisti in questo campo.
Contrassegnano i suoi scritti una spiccata autonomia di giudizio unita a una
profonda conoscenza delle tendenze della Chiesa e del mondo cattolico che gli
permise di individuare anzitempo l’identikit di un “papa pastore” che avrebbe
corrisposto esattamente allo stile dei pontificati di Albino Luciani e di Karol
Woytila. Tra i molti suoi scritti una biografia di Giovanni Paolo II, composta
nel 1996 in collaborazione con Carl Bernstein, best seller tradotto in dieci lingue, e “La confessione”, del 2000, prima testimonianza apparsa in Italia sulla
vita e sulle scelte di un prete gay.
(estensore Antonio Gambino)
2003 Francesco Purini
per la saggistica architettonica
Francesco Purini è professore ordinario di composizione architettonica nella Facoltà di architettura “Valle Giulia” dell’Ateneo “La Sapienza”. Teorico
dell’architettura e progettista di fama internazionea, usa una personalissima
espressione grafica per dar vita alle sue visione architettoniche.
Con i numerosi scritti, che hanno accompagnato la sua attività compositiva
e didattica, ha sempre indagato le ragioni del farsi dell’architettura, che, in
quanto arte “esprime, attraverso il costruire o il modificare l’esistente, il senso
dell’abitare dell’uomo sulla terra”.
264
Nella tradizione della trattatistica Purini reca la sua attenzione non tanto alla
storia dell’architettura, quanto piuttosto alla collocazione dell’architettura
nella storia: “ciò che per l’architetto è infatti necessario comprendere in termini
compositivi è la natura dei temi che compaiono in forma diversa in tutte le epoche
della architettura”.
L’invito conclusivo del suo ultimo scritto “Comporre l’architettura” è a cercare il nuovo orgogliosamente confrontandosi con quanto di più bello è stato
costruito dall’umanità, ricordando però che perché esso sia valido e vero deve
sempre trovare nella ragione la misura che lo giustifichi in modo da raccogliere i significati più profondi della vita umana cui l’arte dell’architettura sa dare
forma e contenuto di messaggi poetici.
(estensore Carmen Carbone)
2004 Wolf-Dieter Heilmeyer
premio per l’archeologia
Wolf-Dieter Heilmeyer è ampiamente noto per i suoi fondamentali studi sull’Olimpia arcaica, sulla bronzistica greco-romana e sull’architettura di
Roma nonché per aver promosso in ambito internazionale iniziative determinanti per la lotta agli scavi e al mercato clandestino ed in favore di una più
ampia circolazione delle opere d’arte antica tra musei e istituzioni.
Per lunghi anni Professore nella Freie-Universität e Direttore delle Antikensammlungen di Berlino, ha compiuto, negli anni successivi alla caduta del muro,
la grande opera di riunificazione delle collezioni archeologiche berlinesi nel
ripristinato complesso del Pergamon Museum e dell’Altes Museum.
La Commissione scientifica ha inteso riconoscere a Wolf-Dieter Heilmeyer
l’altissimo contributo offerto alla conoscenza del patrimonio artistico del
mondo classico e l’appassionato impegno per la sua tutela e valorizzazione.
(estensore Carlo Gasparri)
2005 Grazia Francescato
premio per il paesaggio e l’ambiente
Nella complessa attività di Grazia Francescato è possibile tener distinto l’aspetto determinato dai suoi fondamentali interessi ambientalisti e culturali da
quello più propriamente politico, pur se la sua carriera politica nasce all’interno del movimento ambientalista. Laureata in lingue e letterature straniere alla
Bocconi di Milano, Grazia Francescato indirizza ben presto la sua attenzione
ai rpoblemi della società e dell’ambiente. Fondatrice nel 1973 e direttrice di
Effe, la prima rivista femminista italiana, collabora con numerosi giornali e
riviste su temi ambientalisti, conduce il programma Geo di Rai 3, pubblica diversi libri (da ricordare in particolare «Pianeta avvelenato»), partecipa a
numerose e importanti conferenze internazionali (tra cui quelle dell’ONU
di Stoccolma sull’ambiente e di Bucarest sulla demografia), dirige dal 1989
il mensile del WWF Italia dal 1992 al 1998, entra a far parte nel 1994 anche
del WWF Internazionale, diventando membro del Futures Group incaricato di
265
individuare le strategie dell’Associazione per il Terzo Millennio. Parallelamente sviluppa la sua attività politica che la porta alla carica di Presidente della
Federazione dei Verdi nel gennaio 2000 e sino al novembre 2001.
L’attribuzione a Grazia Francescato del Premio Grotta di Tiberio per il paesaggio e per l’ambiente vuole essere il riconoscimento del suo costante impegno
per la considerazione e la tutela dei valori dell’ambiente sempre più rilevanti
nella società e nel mondo attuali.
(estensore Paolo Stella Richter)
2006 Adriano La Regina
premio per l’archeologia
Dopo una prima esperienza nel Molise, in cui mostrò le sue doti di studioso delle antiche popolazioni italiche, Adriano La Regina ha retto per trenta
anni la Sopraintendenza archeologica romana promuovendo il restauro e la
valorizzazione dei principali monumenti con disegno innovatore e ricorso ai
più ampi contributi interdisciplinari. Con gli stessi criteri ha riorganizzato il
polo museale e ha creato nuovi istituti quali Palazzo Massimo, la Crypta Balbi
e Palazzo Altemps, mirando sempre ad integrare le sedi espositive nell’esteso
tessuto storico archeologico della città di Roma.
Attualmente insegna Etruscologia e antichità italiche nell’Università «La Sapienza» di Roma e una ricca bibliografia ne attesta l’importante rilievo scientifico.
L’attribuzione del Premio Grotta di Tiberio per l’archeologia vuole essere ulteriore segno della gratitudine e della stima che a lui devono non solo gli studiosi
ma quanti hanno a cuore la sopravvivenza delle memorie del nostro passato.
(estensore Licia Borrelli Vlad)
2006 Piero Boitani
premio per la saggistica letteraria
Nei suoi saggi Piero Boitani, professore ordinario di Letterature comparate nella Università «La Sapienza» di Roma, si mostra finissimo erudito, conoscitore
come pochi del mondo letterario, scrittore dalla prosa accattivante e dai brillanti tagli espositivi. Affascinato dalle narrazione e dai miti dell’antichità e
dagli enigmi che essi sottendono, dai grandi autori medievali e moderni, ne
rivisita e raffronta il messaggio simbolico attraverso percorsi obliqui e trasversali di sorprendente interesse.
Tra i molti temi Ulisse («L’ombra di Ulisse» 1992, «Sulle orme di Ulisse»
1998, «Esodi e Odissee» 2004), l’eroe che insegue sull’infinito mare il limite
ignoto dell’esistenza, Icaro e il suo folle volo («Parole alate» 2004), personaggi
e figure dall’Antico e dal Nuovo Testamento («Riscritture» 1197), sempre con
accostamenti che giungono sino ad oggi.
La Sottocommissione, integrata da Antonio Gambino e Francesco Sabatini, e
la Commissione scientifica hanno ritenuto, all’unanimità, giusto attribuire a
Piero Boitani il Premio Grotta di Tiberio per la saggistica letteraria in considerazione della sua intensa e preziosa attività di scrittore e letterato.
(estensore Giacomo di Raimo)
266
Da destra Federica Galli,
premiata per l’incisione,
il Sindaco Armando Cusani
e Giacomo di Raimo (1999).
Da destra Roberto de Rubertis,
premiato per l’architettura,
Alessandra Tuccinardi, Giacomo
di Raimo, il Sindaco Rocco Scalingi
e Paolo Stella Richter (2007).
267
Riconoscimento di merito al cittadino sperlongano
268
Per esigenze pratiche le cerimonie relative al riconoscimento di merito e al
conferimento di cittadinanze onorarie venivano di regola abbinate.
Nella foto il Sindaco Cusani porge all’attore Raf Vallone la pergamena
di cittadino onorario subito dopo aver consegnato all’ex sindaco La Rocca
(seduto a destra) la targa del riconoscimento di merito.
Cittadini di Sperlonga
insigniti del riconoscimento di merito
(1998-2007)
1998 Giulio Scalfati, avvocato
per le ricerche storiche su Sperlonga culminate nella pubblicazione dell’opera
“Splonga – Sperlonga” largamente apprezzata
1999 Antonio La Rocca, ex sindaco
per aver guidato con efficacia il Comune di Sperlonga nella difficile fase di ricostruzione e di sviluppo dopo il conflitto mondiale
2000 Antonio Guglietta, medico – chirurgo e dottore di ricerca
per le interessanti ricerche nel campo delle malattie gastrointestinali svolte in Italia, in Spagna e negli USA
2001 Fratelli Antonio e Claudio Faiola, ristoratori
per aver promosso la migliore tradizione gastronomica italiana nella gestione del
ristorante “Stresa” a Parigi con positivi riscontri sulla stampa quotidiana internazionale e su guide e riviste specializzate
2002 Francesco Rendinaro, albergatore
per la qualità di assoluto pioniere nello sviluppo della ricettività alberghiera e
balneare di Sperlonga
2003 Vinicio Guglietta, imprenditore
per aver dato vita all’unica impresa industriale esistente nel territorio di Sperlonga
con notevole successo di mercato locale e nazionale
2006 Pierpaolo Trani, sportivo
per i successi personali in gare internazionali nelle discipline dello sci nautico e
per gli eccellenti risultati conseguiti sia come allenatore nello Sci-club Acquapiatta
da lui creato a Sperlonga sia come commissario tecnico della squadra nazionale
“juniores”
2007 Giuseppe Di Lelio, scultore; Francesco Pezzuco, pittore
per la schietta vena creativa che ha ottenuto ampi riconoscimenti da grandi esperti
e conoscitori d’arte nazionali
269
Regolamento e organigramma
delle manifestazioni culturali di Sperlonga
Regolamento
Art. 1
(Ambito e procedura di modifica della
normativa)
1 - Le disposizioni del presente Regolamento disciplinano le attività relative alla
Settimana culturale di Sperlonga e al Premio Grotta di Tiberio, istituiti dal Comune
di Sperlonga. Possono essere modificate dal
Collegio per la programmazione delle manifestazioni culturali, in una riunione indetta
e presieduta dal Supervisore culturale, con
norme da sottoporsi alla Giunta comunale
che ne dispone l’osservanza. Ove la Giunta comunale formuli osservazioni critiche o
integrative, queste devono essere accolte con
trasmissione alla Giunta di un nuovo testo.
Art.2
(Finalità, caratteri e finanziamento della
Settimana culturale e del Premio)
1 - La Settimana culturale di Sperlonga
ha svolgimento ogni anno alle date stabilite
dal Collegio per la programmazione delle manifestazioni culturali di concerto con il Supervisore culturale e con il Sindaco di Sperlonga.
La consegna del Premio Grotta di Tiberio avviene di regola a conclusione della Settimana
culturale.
2 - Finalità della Settimana culturale è di
contribuire allo sviluppo degli interessi culturali della cittadinanza di Sperlonga attraverso
manifestazioni di vario genere e di elevato
livello, prevalentemente concentrate in un
periodo di pochi giorni.
3 - Finalità del Premio Grotta di Tiberio è di dare rilievo all’immagine culturale di
Sperlonga, legata al patrimonio archeologico e ambientale nazionale, arricchendola del
peculiare contributo costituito dal conferi-
mento di riconoscimenti di merito nei settori dell’archeologia e della conservazione e
valorizzazione del paesaggio e dell’ambiente.
In via complementare sono conferiti i riconoscimenti nei settori indicati nel comma 2
dell’articolo 4.
4 - Organi delle manifestazioni culturali
di Sperlonga sono il Supervisore culturale –
ove l’incarico venga conferito –, il Collegio
per la programmazione delle manifestazioni
culturali (più brevemente Collegio culturale), il Comitato operativo e la Commissione
scientifica per il Premio Grotta di Tiberio, cui
spettano le attribuzioni definite negli articoli
5, 6 , 7 e 8.
5 - L’Amministrazione comunale può
sospendere in qualsiasi momento lo svolgimento di una delle due manifestazioni di cui
ai commi 2 e 3, lasciando proseguire la realizzazione dell’altra. Nel caso di sospensione
restano sospesi dalle loro funzioni anche gli
organi preposti alla manifestazione.
6 - Il finanziamento delle manifestazioni
culturali avviene mediante la contribuzione
del Comune, della Provincia e della Regione
nonché di altri enti pubblici o di privati.
7 - La gestione dei fondi costituiti dai
contributi di cui al comma precedente, la
tenuta degli atti e i compiti generali di segreteria sono affidati ad un apposito ufficio del
Comune alle dirette dipendenze del Segretario comunale. In particolare l’Ufficio cura la
procedura per le autorizzazioni di spese e per
il controllo delle relative fatture nonché la redazione del bilancio consuntivo delle manifestazioni. I soggetti che abbiano o ricevano
l’incarico di programmare o portare a compimento iniziative nell’ambito della Settimana
culturale o del Premio Grotta di Tiberio inviano all’Ufficio preventivi di spesa che de-
271
vono essere previamente vistati dal Segretario
comunale o dal Sindaco di Sperlonga.
Art.3
(Contenuti e modalità di svolgimento della
Settimana culturale di Sperlonga)
1 - La Settimana culturale comprende
manifestazioni scelte di massima tra le seguenti:
a) conferenze su temi di attualità giuridica, politica e in genere su temi culturali;
b) la presentazione di un’opera ovvero un
colloquio o un convegno su un tema archeologico o anche mitologico, storico, letterario, artistico oppure su temi della natura e
dell’ambiente preferibilmente in corrispondenza al Premio Grotta di Tiberio – per l’archeologia o per il paesaggio e l’ambiente –
assegnato nell’anno;
c) esposizioni di arte figurativa e concerti
di musica classica o moderna o altri spettacoli in periodi estivi anche precedenti o successivi a quelli della Settimana culturale;
d) seminari culturali in periodi anche diversi da quelli della Settimana culturale;
e) spettacoli teatrali;
f ) la proiezione di documentari, preferibilmente di giovani autori italiani, o di opere
storiche del cinema.
2 - Il programma della Settimana culturale è predisposto dal Collegio culturale che
lo approva in una riunione allargata cui sono
chiamati a partecipare il Coordinatore o altro rappresentante del Comitato operativo e
il Direttore pro-tempore del Museo archeologico di Sperlonga nonché – senza voto deliberativo – il Supervisore culturale e il Sindaco di Sperlonga o un suo delegato. Ove vi
sia il parere contrario o manchi comunque il
parere favorevole del Supervisore culturale, il
programma è sottoposto a riesame e a nuova
deliberazione.
3 - La fase realizzativa della Settimana
culturale è curata dal Comitato operativo,
in collaborazione con la Direzione del Museo archeologico e con un assessore delegato
dal Comune di Sperlonga che provvedono a
quanto di rispettiva pertinenza.
4 - Separatamente dalle altre manifestazioni è attribuito durante la Settimana culturale, con cadenza pluriennale determinata
dalla Amministrazione comunale, un ricono-
272
scimento di merito inteso ad onorare cittadini sperlongani che si siano distinti nel mondo
della cultura e delle attività imprenditoriali,
professionali e sociali. Il riconoscimento consiste in una targa riproducente il logo della
Settimana culturale di Sperlonga ed è conferito da una apposita giuria composta da cinque
membri di cui tre eletti dal Collegio culturale, integrato dal Supervisore culturale, e due
nominati dal Sindaco. La giuria è presieduta
dal componente più anziano d’età.
Art. 4
(Settori e modalità di assegnazione del Premio
Grotta di Tiberio)
1 - II Premio Grotta di Tiberio è assegnato nel settore dell’archeologia e in quello della conservazione e valorizzazione del
paesaggio e dell’ambiente, con alternanza
di anno in anno in modo da rendere appropriate le denominazioni di “Premio biennale
per l’archeologia” e di “Premio biennale per
il paesaggio e l’ambiente”.
2 - Ciascun anno, a complemento del
premio di cui al primo comma, sono attribuiti uno o più premi nei settori appresso
menzionati:
a) letteratura, pittura e altre arti figurative; musica e architettura;
b) saggistica e opere della comunicazione
o della divulgazione.
3 - Il Sindaco di Sperlonga può ammettere, d’intesa con il Supervisore culturale, che
vengano sponsorizzati da enti o privati, nei
settori di cui al comma precedente, premi a
carattere speciale sino ad un massimo di tre
per ciascuna stagione.
4 - I premi conferiti nei settori di cui
al primo comma ovvero in quelli di cui al
secondo comma consistono rispettivamente
in medaglie ovvero in targhe recanti raffigurazioni proprie per ognuno di tali settori. Il
conferimento può essere accompagnato dal
dono di un’opera di un artista contemporaneo o di altro oggetto oppure di una somma di denaro destinata anche a finanziare la
pubblicazione di un’opera inedita o di una
silloge di opere già pubblicate.
5 - I settori in cui sono attribuiti annualmente i premi di cui al comma 2 e i doni
di cui al comma 4 sono prescelti in una ri-
unione alla quale partecipano il Supervisore
culturale, che la convoca e presiede, l’Ufficio
di Presidenza della Commissione scientifica
per il Premio Grotta di Tiberio e il Presidente
del Collegio culturale.
Art. 5
(Attribuzioni del Supervisore culturale)
1 - L’Amministrazione comunale può
conferire, per la durata di cinque stagioni delle
manifestazioni culturali, a persona che abbia
acquisito meriti particolari in tali manifestazioni l’incarico di Supervisore della Settimana culturale e del Premio Grotta di Tiberio.
L’incarico comporta l’esercizio di funzioni di
garanzia per l’interpretazione e l’applicazione
del presente Regolamento, di supervisione e
di coordinamento generale.
2 - Il Supervisore culturale riceve comunicazione dal Presidente del Collegio culturale delle proposte e delle deliberazioni sui
programmi delle manifestazioni culturali, in
ordine ai quali esercita un potere consultivo
ai sensi del comma 2 dell’articolo 3. È componente di diritto della Commissione scientifica per il Premio Grotta di Tiberio. Esercita le altre attribuzioni previste nel presente
Regolamento.
3 - Qualora l’incarico di cui al comma 1
non sia stato affidato non si applicano le relative disposizioni del presente Regolamento;
il potere di interpretazione del Regolamento
è esercitato dal Presidente del Collegio culturale.
Art.6
(Composizione e attribuzioni del Collegio
culturale)
1 - L’Amministrazione comunale nomina, per quattro stagioni delle manifestazioni culturali, il Collegio culturale costituito
dal Presidente, dal Vicepresidente e da altri
tre componenti dei quali due designati dal
Supervisore culturale. Il Presidente esercita
funzioni di impulso e di coordinamento della programmazione culturale del Collegio e
tiene i rapporti con il Supervisore culturale e
il Comitato operativo .
2 - Il Collegio definisce date e contenuti
dei programmi della Settimana culturale se-
condo le modalità di cui al comma 2 dell’articolo 3. Si riunisce altresì con il Supervisore
culturale per approvare modifiche al Regolamento ovvero per eleggere tre membri della
Giuria per i riconoscimenti di merito al cittadino sperlongano o per proporre all’Amministrazione comunale una rosa di nomi per la
nomina dei componenti della Commissione
scientifica.
3 - Il Collegio è convocato dal Presidente, o dal Supervisore culturale nei casi
particolari di cui al comma 2, mediante
lettera oppure avviso consegnato a mano o
telegramma o fax, fatti pervenire almeno sei
giorni prima della data della riunione. Delibera validamente se è presente la maggioranza dei suoi componenti.
Art.7
(Composizione e attribuzioni del Comitato
operativo)
1 - Il Comitato operativo, costituito dal
Coordinatore e da altri due componenti, è
nominato dall’Amministrazione comunale per quattro stagioni delle manifestazioni
culturali. Partecipano alle sue riunioni, con
pienezza di poteri propositivi e di voto, il Direttore pro-tempore del Museo archeologico
nazionale di Sperlonga nonché il Coordinatore dello Speciale Gruppo per la pubblicità
delle iniziative di Sperlonga operante presso
il Comune.
2 - Il Comitato gestisce la fase realizzativa delle manifestazioni culturali, conformandosi alle indicazioni del Supervisore culturale e alle direttive del Presidente del Collegio
culturale.
3 - Il Coordinatore tiene i rapporti con
il Collegio culturale e con lo Speciale Gruppo di cui al comma 1 ai fini della attuazione
del programma deliberato; sovrintende e assegna compiti particolari agli altri due componenti.
4 - Con l’atto di nomina dei componenti sono attribuiti specificamente i seguenti
compiti:
a) la cura della corrispondenza per la
concessione di patrocini o di contributi e
della segreteria corrente per l’attività dei collegi;
b) la cura della redazione e della stampa
273
di documenti ufficiali, materiale informativo, atti di manifestazioni e cataloghi delle
mostre d’arte, in conformità di quanto predisposto o indicato dal Presidente del Collegio culturale;
c) l’eventuale integrazione dell’attività
di pubblicità delle manifestazioni svolta dallo Speciale Gruppo di cui al comma1.
5 - Il Comitato è convocato dal Coordinatore – anche su richiesta del Presidente del
Collegio culturale – con lettera oppure avviso a mano o telegramma o fax fatti pervenire
cinque giorni prima della data della riunione.
Delibera validamente se sono presenti almeno due componenti nominati dall’Amministrazione comunale; nelle votazioni, in caso
di parità, prevale il voto del Coordinatore.
Art.8
(Composizione e attribuzioni della
Commissione scientifica
per il Premio Grotta di Tiberio)
1 - La Commissione scientifica per il
Premio Grotta di Tiberio viene nominata
per quattro stagioni del Premio dall’Amministrazione comunale, nello stretto ambito
dei nomi proposti dal Collegio culturale ai
sensi dei commi 2 e 3 dell’articolo 6. Si compone di un presidente, di tre vice presidenti
e di sei membri ordinari. Ne fanno parte
altresì, con voto deliberativo, il Supervisore
culturale e il Sopraintendente archeologico
per il Lazio nonché coloro che abbiano rivestito la carica di Supervisore culturale in
periodi precedenti.
2 - Il Presidente della Commissione costituisce, d’intesa con il Supervisore culturale, tre sottocommissioni, con la
partecipazione anche di esperti, incaricate
di sottoporre proposte alla Commissione
rispettivamente per il premio per l’archeologia, per il premio per il paesaggio e l’am-
274
biente e per i premi da assegnare nei settori
complementari.
3 - La Commissione conferisce ogni
anno i premi di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 4.
4 - La Commissione è convocata dal
Presidente secondo le modalità di cui al
comma 3 dell’articolo 6. Delibera validamente se è presente, in prima convocazione,
almeno la metà dei propri componenti ovvero, in seconda convocazione, almeno un
terzo degli stessi.
5 - Il Presidente della Commissione organizza con il Supervisore culturale le manifestazioni finali e quella di consegna dei
premi incaricando uno o più componenti di
leggere la motivazione per ciascun premiato
o prescegliendo, allo stesso scopo, una o più
personalità culturali.
Art.9
(Revocabilità delle nomine e gratuità delle
cariche)
1 - L’Amministrazione comunale può
revocare con atti motivati in qualsiasi momento le nomine di cui agli articoli precedenti. Tutte le cariche previste dal presente
Regolamento non danno diritto ad alcuna
retribuzione.
Art.10
(Partecipazione del Sindaco agli organi
collegiali)
1 - Il Sindaco di Sperlonga può partecipare, senza voto deliberativo, alle riunioni
di tutti gli organi collegiali. Presiede, insieme al Supervisore culturale e al Presidente
della Commissione scientifica per il Premio
Grotta di Tiberio, la cerimonia di consegna
dei premi.
Organi delle manifestazioni culturali di Sperlonga
strutture comunali:
Ufficio per le manifestazioni culturali
Alessandra Tuccinardi
(alle dirette dipendenze del Segretario Comunale D. G.)
strutture autonome:
Supervisore
della Settimana culturale e del Premio Grotta di Tiberio
Giacomo di Raimo
Collegio per la programmazione delle manifestazioni culturali
Presidente
Vicepresidente
Componenti
Sandro Amorosino
Franco Velonà
Giuseppe di Lelio, Mario Di Napoli
Raffaele di Raimo
Commissione scientifica per il Premio Grotta di Tiberio
Presidente
Vice presidenti
Componenti
Componenti di diritto
Paolo Stella Richter
Alfonso Maccanico, Licia Borrelli Vlad
Agostino Ziino
Giuseppe Ammassari, Mario Cademartori
Bruno Caruso, Carlo Gasparri
Carlo Guarienti, Fulco Pratesi
Marina Sapelli Ragni
Soprintendente archeologica per il Lazio
Giacomo di Raimo
Supervisore culturale
Consulenti esterni
per l’arte:
per la poesia e la letteratura:
per la musica:
per la saggistica e la comunicazione:
per il cinema:
Claudio Zambianchi
Francesco Sabatini, Bruno Zambianchi
Riccardo Cerocchi, Roman Vlad
Antonio Gambino
Luigi Di Gianni
Comitato operativo
Coordinatore
Componenti
Componente di diritto
Collaboratori esterni
Alessandra Faiola
Enza Marra, Francesco Pezzuco
Nicoletta Cassieri
Direttrice del Museo archeologico nazionale
di Sperlonga
Leone D’Ambrosio, Gianni Santavenere
275
Elenco degli artisti
presentati nella antologia di note critiche
Pasquale Basile, 33
Bruno Caruso, 83
Arnoldo Ciarrocchi, 59, 64, 66, 68
Fabrizio Clerici, 49, 51, 57
Antonio Corpora, 10, 14
Giuseppe Di Lelio, 31
Alberto Gianquinto, 29, 69, 75
Carlo Guarienti, 36
Piero Guccione, 7, 69, 75
Achille Perilli, 18, 20, 25
Francesco Pezzuco, 34
Ruggero Savinio, 30
Guido Strazza, 41
Lorenzo Tornabuoni, 69, 75
Aldo Turchiaro, 45
276
Elenco degli autori dei testi presenti nel volume
(le pagine indicate tra parentesi contengono motivazioni del Premio Grotta di Tiberio)
Andreae Bernard, XXVII, 109, 166
Appella Giuseppe, 29, 30, 31, 36, 41,
68
Baroni Simonetta, 25
Bilardello Enzo, 84
Boitani Piero, 114
Borrelli Licia, 151, (263), (266)
Barbero Alessandro, 237
Carbone Carmen, (265)
Cellini Francesco, 194
Ciotola Daniela, 2, (9), 14, 34, 45, 64
Colino Pablo, 133
Conso Giovanni, 206
Cordano Federica, 151
Cusani Armando, IX, 245
De Rubertis Roberto, 199
Di Raimo Giacomo, XV, (4), (5), (6), 18,
33, 49, 93, (124), (128), 139, (263),
(266)
Elia Leopoldo, XIII, 66
Fratini Valentina, 147
Fisichella Domenico, 231
Gambino Antonio, 222, (264)
Garroni Emilio, 186
Gasparri Carlo, (265)
Gigante Marcello, 103
Giuffré Guido, 7, 75
Ketoff Landa, 141
Maccanico Alfonso, (129)
Maccanico Antonio, XI
Mauri Paolo, 57
Millesimi Ines, 51
Morelli Mario, 209
Pace Carlo, 215
Sabatini Francesco, XVI, 183
Scalingi Rocco, XXIII
Settis Salvatore, 173
Stella Richter Paolo, 213, (266)
Vegas Giuseppe, XIII
Zambianchi Bruno, (94), (96), (98)
Zambianchi Claudio, 10, (16), 20, 59, 69
Ziino Agostino, (126), (127), 135
277
Si ringrazia
Giuseppe Giardino,
insieme agli altri autori
delle foto di Sperlonga
Finito di stampare nel mese di maggio 2008
presso l’azienda grafica EREDI dott. G. BARDI srl
Piazza delle Cinque Lune, 113 - 00186 Roma
Azienda con Sistema Qualità certificato da Bureau Veritas