Che cosa me ne importa

Transcript

Che cosa me ne importa
Vivere
Marghera
1
14
PERIODICO DI MARGHERA E DINTORNI Numero speciale 1 Dicembre 2014
Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo essilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.
Dante Alighieri, Canto XVII Paradiso, poeta e esule
Che cosa me ne importa
I libri di storia che fin dalle scuole elementari sono presentati ai bambini narrano di cose lontane, più vecchie
dei loro genitori e a volte anche dei nonni.
Cose lontane, vecchie, si sente dire. Cose che non potendo vederle di persona non hanno il sapore, l’odore,
il tatto del reality televisivo. La storia diventa sempre
una cosa superata, non si educa a comprendere che
l’attualità odierna sarà la storia di domani. Noi diventeremo la storia, noi siamo la storia che verrà.
Viviamo, leggiamo, camminiamo, mangiamo, ci curiamo, ora, adesso.
Ma è sempre stato così? Lo sarà anche domani?
Per noi e solo per noi o anche per altri? Chi sono questi
altri, stranieri, italiani emigrati, italiani scacciati.
Ecco, la storia inizia a far scorrere i grani della collana
della vita e della morte.
Quanto vale la vita di un Italiano immigrato da un’altra
regione o quello esule da uno stato che era Italia e a un
certo punto per bizzarria della storia non lo è più stato,
come è accaduto per gli abitanti di Istria e Dalmazia.
Quanto vale la vita di un immigrato italiano in
Argentina, a Buenos Aires, la città che ha il più alto
numero di immigrati italiani? C’è una scala di valori?
Vale di più o di meno di un Italiano residente nella regione di nascita?
SENTITO
PER
Quando avremo la risposta a questa ruota de “il prezzo
è giusto”, solo allora proveremo a dare il prezzo alla
vita degli altri, diversi solo perché gli sono capitate
delle vicissitudini diverse dalla nostre.
La storia siamo noi e nella storia ci siamo anche se non
vogliamo farcene una ragione.
Se siamo religiosi, allora siamo figli dello stesso Dio,
se siamo solo “scientifici” allora siamo figli della stessa
progenie, insomma una sola razza, quella umana.
Oggi 1 dicembre 2014 in occasione dell’ iniziativa
“Il respiro della città!”, abbiamo l’occasione di vivere,
conoscere, condividere la realtà di alcuni esuli, un
capitolo che ogni persona ha e sta scrivendo nel grande
libro del vivere assieme.
La speranza è che la nostra mente sia capace di capire
che non siamo sempre noi singoli che decidiamo, ma
che forze esterne e avide ci impongono il percorso di
vita.
La redazione
STRADA
“Signora è arrivato anche il cous cous marocchino, non solo la polenta.”
“Cossa xe?”
PAGINA 02
VIVERE
MARGHERA
1 dicembre 2014
“Giardiniere, apri la porta del giardino,
che io non sono un ladro di fiori”
Zaher Rezai
Potrebbe capitare a chiunque. Sì, mi dico, potrebbe
capitare a ognuno di noi di trovarsi con tutte le carte
ribaltate. Se poi sei in un luogo di confine, la probabilità diventa più alta. Si sa, i confini sono linee labili.
Mi sto dicendo queste parole mentre vado a incontrare
Vani Kamiran, al Servizio Immigrazione e promozione
dei Diritti di Cittadinanza e dell’Asilo del Comune di
Venezia. Lui rincara subito la dose, riprende il filo dei
miei pensieri e cita le parole di Josep Brodsky, rifugiato polacco, “la geografia combinata al tempo equivale
al destino”. Come dire che il destino che ti è riservato
dipende dal punto sulla cartina geografica nel quale ti
trovi e in quale accadimento storico stai vivendo.
Mi mostra un bel manifesto del 2010 realizzato in occasione della giornata mondiale del rifugiato “Guarda
qua, è capitato a tanti di trovarsi nella condizione di
esule. Vedi, ho voluto mettere le foto di Sandro
Pertini, Miriam Makeba, Albert Einstein, il Dalai Lama
insieme a quelle di una rifugiata curda e a una somala
perché per loro la campana è suonata, hanno dovuto
lasciare per forza il loro paese. La campana può
suonare per tutti”.
I dati dell’Onu sono impressionanti. In questo momento 56 paesi sono in guerra e circa cinquantaduemilioni
di persone sono in giro per il mondo cercando di trovare un posto dove poter vivere in pace e con dignità.
Le notizie che arrivano dalla stampa sono presentate il
più delle volte in modo sensazionalistico ma in verità
i dati forniti dal Ministero dell’interno dicono che nel
2013 sono stati circa 14.000 i richiedenti asilo in Friuli, Trentino e Veneto.
Sono cifre poco confrontabili rispetto all’elevato numero di persone che fuggono nei paesi che confinano
con quelli in guerra. La maggior parte dei rifugiati non
si trova nei paesi occidentali, ma sta nei paesi limitrofi a quelli che sono teatro degli accadimenti. In questi
mesi sono 800.000 i cristiani che sono arrivati in pochi
giorni in Kurdistan e nessuno, in questo caso, parla di
invasione.
Siamo parte di un unico mondo. Se gli emigranti
partono perché cercano soprattutto un lavoro ci sono
invece ogni giorno donne, uomini e bambini, anche da
soli, che scappano perché è l’unica soluzione rimasta.
Diventano profughi e rifugiati perché, indipendentemente dalla propria condizione economica, debbono
‘lasciare’ il proprio paese costretti da guerre,
perse cuzioni , per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o
per opinioni politiche, siccità, catastrofi naturali.
Un rifugiato non può più tornare indietro.
‘Lasciare la propria terra’.
Detta così sembra una cosa dolorosa ma realizzabile.
Come andare all’agenzia di viaggi più vicina e farsi
rilasciare un biglietto, seppure di sola andata.
Ma i viaggi di chi fugge per cercare una vita degna nel
nostro paese, ma soprattutto nel resto d’Europa, sono
sempre lunghissimi e faticosi, spesso durano anni.
Il viaggio, così incerto, a volte ha esiti drammatici.
Come il caso di Zaher Rezai, ragazzo afgano che si era
legato sotto a un camion per attraversare l’ultima frontiera. Ma non ce l’ha fatta ed è scivolato giù. Il capolinea per lui è stato qui, vicino al nostro porto, qualche
anno fa. Sue sono le parole scritte in alto, sono state
trovate insieme ad altre lettere e poesie nelle tasche.
Ma i viaggi continuano.
Chi ce la fa a non perdersi per strada, riesce ad avere
con sé i documenti necessari, ha la padronanza della
lingua italiana, può meglio dimostrare la propria situazione e diventare un richiedente asilo. Significa che
il suo destino sarà determinato dall’accettazione della
sua domanda da parte della Commissione Territoriale
per il Riconoscimento della protezione internazionale.
Sono dieci in tutta Italia.
Anche in questo caso l’attesa è di mesi, di anni in qualche caso!
Se è sicuro che la storia e la geografia fanno il destino,
è anche vero che c’è da prestare attenzione al vocabolario degli esodi e degli esili, per cui non tutti i termini
e le parole si equivalgono.
Uno sfollato per esempio deve abbandonare la propria
abitazione, magari per gli stessi motivi del rifugiato,
ma non oltrepassa un confine internazionale e resta
dunque all’interno del proprio paese.
E un extracomunitario non è sinonimo di clandestino.
Il primo è semplicemente una persona non cittadina di
uno dei paesi che attualmente compongono l’Unione
Europea: anche uno svizzero o un americano sono
extracomunitari.
PAGINA 03
VIVERE
MARGHERA
1 dicembre 2014
Un clandestino è il termine con il quale, in modo
piuttosto improprio, si indica il migrante irregolare,
cioè chi, per qualsiasi ragione, entra irregolarmente in
un altro paese.
A volte scordiamo che anche le nostre sono state terre
di migrazione e tribolazione, Veneto compreso.
A conti fatti, la stima è impressionante: gli italiani
espatriati tra Ottocento e Novecento è di circa trenta
milioni di persone, mentre gli oriundi attuali sono ben
ottanta milioni.
Quelli che sono partiti sono andati tutti in agenzia a
comprare il biglietto e hanno viaggiato in business
class?!
Francesca Lamon
L’esodo giuliano dalmata a Marghera
Tarcisio Benedetti, originario di Pirano, il maestro che
per tanti anni ha insegnato alle scuole Grimani, qualche
anno fa così scriveva sul giornalino parrocchiale di S.
Pio X: “Il nucleo (32 famiglie) che abitano ai civici 128
A e B di via Beccaria e 2-4 di via Correnti si è insediato
nel 1960. La provenienza è varia: ci sono famiglie di
Zara, Fiume, Pola, Neresine, Rovigno, Dignano,
Albona, Pirano, Grisignana.
Non arrivano direttamente dai campi, ora esauriti, ma
da località e sistemazioni diverse perché sono in Italia
ormai da diversi anni.
Tutti hanno attività decorose che permettono alle
famiglie un tenore di vita dignitoso. Alcuni operai continuano le loro precedenti mansioni nel Monopolio già
svolte nella Manifattura Tabacchi di Rovigno o nelle
saline di Pirano, altri sono alle dipendenze del IV
Artiglieria di via Forte Marghera, altri al
Provveditorato al Porto o ai Cantieri Navali; qualcuno
è impegnato nella scuola, c’è qualche artigiano, altri
lavorano nelle fabbriche e nel terziario”.
Il trattato di pace di Parigi del 1947 ha sancito ufficial
mente la cessione dell’Istria, di Fiume e di Zara alla
Jugoslavia e da quei territori, in ondate diverse, circa
350.000 persone hanno subito un esodo forzato. Sono
tante le esperienze, di quotidianità e di sopraffazione,
di morti violente di parenti e amici e poi il dover abbandonare tutto per partire verso l’ignoto. Trasporti più
organizzati, con la nave, come è successo da Pola, ma
anche con mezzi di fortuna e anche fughe rischiose per
chi voleva restare italiano e non aveva il permesso di
partire.
Venezia è stata una delle città più importanti per
l’esodo giuliano dalmata, le navi che facevano spola da
Pola arrivavano ad Ancona e Venezia che diventavano un importante centro di smistamento dei profughi.
Molti poi si fermarono nel Veneto e nel veneziano in
particolare, dove vi erano numerosi campi profughi.
Quattro stavano a Venezia, il più importante era nel
Convitto Foscarini a Cannaregio, in fondamenta di S.
Caterina, poi un altro all’Istituto dei Tolentini (ora Università di Architettura) e gli altri due alla Scuola Giacinto Gallina vicino all’Ospedale Civile e nella
Caserma Cornoldi in Riva degli Schiavoni. Uno era a
Mestre a Carpenedo nella Scuola di via del Rigo.
PAGINA 04
VIVERE
Inoltre a Venezia trovarono ospitalità molti istriani, specialmente di Pola, dipendenti della Marina Militare che
vennero alloggiati nella caserma Sanguinetti a S. Pietro
di Castello. Singole famiglie vennero anche sistemate
nella scuola meccanici in Campo della Celestia, nelle
casermette sommergibili dietro le mura dell’Arsenale
ed in alcuni forti del Lido.
Per alcune persone la permanenza nei campi profughi è
stata di qualche mese, ma per altri è durata molti anni e
una prima sistemazione è avvenuta proprio a Marghera
dove tra gli anni Cinquanta e Sessanta sono state
costruite delle abitazioni per i profughi giuliano
dalmati.
Ecco perché la comunità è costituita e sviluppata nel
territorio di Marghera e i drammi dell’esodo forzato
sono stati superati grazie al lavoro e alla casa e da
questo si è ripartiti per realizzare successivamente una
positiva integrazione.
Alessandro Cuk, Presidente ANVGD Venezia
(Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia)
MARGHERA
1 dicembre 2014
alloggi per esuli istriani e dalmati in via beccaria e via Correnti
Gli occhi esuli
Erano giovani e scelsero di restare italiani a costo di
dover lasciare tutto e quando arrivarono in questa nuova terra che aveva anch’essa il mare di fronte, erano
tuttavia estranei, al luogo e alle persone.
E in quel tempo, per rimediare al torto subito e per
riconoscere la loro identità di origine, lo Stato diede
loro lavoro e una casa in affitto. L’inserimento non fu
per questo meno aspro, dovendo sottostare a critiche di
usurpatori. Erano giovani, arrivati con occhi smarriti,
con la sola fiducia di voler andare avanti e costruirsi
una vita.
E’ trascorso più di mezzo secolo e quel tipo di invisibile connotazione, in alcuni è sopravvissuto come ricordo amaro di un’ingiustizia ancora portata dentro.
In via Correnti a Marghera c’erano le case dei Giuliani
e Dalmati. I bambini nati nel giro di pochi anni erano i
figli dei profughi e quando uscivano fuori dal cortile e
poi a scuola, i loro nomi erano spesso apostrofati con
una postilla aggiunta, della quale loro non capivano.
Invece per altri, poco informati, era come fossero tutti
stranieri, i genitori e pure i loro figli.
Un torto subito ingiustamente nell’infanzia, rimane
spesso terreno esposto anche nel corso della vita; solo
chi sa riscattarsi ne può essere alleggerito.
A Marghera, negli ultimi anni, ci sono state anche altre
accoglienze, persone arrivate da lontano, con altre storie, altri drammi, anche altre persecuzioni.
In molti hanno trovato posto e un senso comune di
possibile convivenza e fratellanza.
Spesso silenziosi e abbassati, i loro occhi sono ancora
esuli.
Dorina Petronio
PAGINA 05
VIVERE
MARGHERA
1 dicembre 2014
Casa mia alle “Vaschette”
Siccome Marghera è piena di gente che viene da
tante parti, stranieri, italiani… tra questi alcuni
venivano dall’Istria. Sì, abitavano pressappoco dove
abitavo io una volta, se te lo dico prendi paura.
> va ben, ma cominciamo dall’inizio
Sono nata nel 1949 a Venezia. Mio papà veniva dal
campo profughi allestito a Venezia nel 1945, lui era un
italiano di Fiume. Si è trovato a vivere in un momento
nel quale, da una parte e dall’altra, non si sapeva cosa
sarebbe accaduto, di che nazionalità saresti diventato.
Da Pola, da Fiume son venuti in Italia, sono scappati:
quella volta là dovevano decidere se andare in Australia o venire qui.
Non so come mia mamma abbia conosciuto mio papà,
lei era nativa di Chioggia, però si è sposata a Fiume.
I profughi sono stati messi in diversi posti. A Venezia
in uno che noi chiamavamo Foscarini.
Ero piccola, mi ricordo grandi stanze, tutte divise da
tende militari. Ogni famiglia stava dentro allo spazio
tra due tende. Beh, io sono nata lì.
C’era anche una mensa, stavamo tutti in fila con una
pignattina e ci davano da mangiare.
Eravamo io, mio papà, mia mamma e mio fratello.
Dopo il campo profughi siamo andati in un altro
posto, sempre a Venezia, dove c’erano delle piccole casette e ogni famiglia aveva una stanza.
Nessuno lavorava. Nel frattempo hanno costruito le
case per i profughi a Marghera, vicino alla chiesa di
Cristo Lavoratore, in un posto che si chiama
“Le Vaschette”. Da Venezia siamo venuti ad abitare là.
Eravamo in centoventi famiglie: chi aveva un
appartamento con una camera, chi con due.
Eravamo tutti felici.
Invece gli abitanti di Marghera che abitavano vicini alle
“Vaschette”, alla Rana, ce l’avevano su con noi perché
a noi avevano costruito le case nuove. Ci ho abitato per
ventidue anni, là sono cresciuta e conoscevo tutti. Da
bambina giocavamo tutti insieme. Ero morta di fame
ma ho ricordi bellissimi, cantavamo sempre.
Mio papà parlava in triestino e io andavo a scuola alla
Rana. C’era confidenza e comunità tra le persone.
> come si è trasformata la comunità?
Ci si aiutava reciprocamente e si interveniva anche nelle dispute delle famiglie vicine di casa.
Nel corso degli anni ho visto tutti i cambiamenti che
si sono succeduti nel tempo: dalle persone che se ne
sono andate, a quelli che sono morti, i nuovi abitanti
che sono venuti a stare, anche zingari.
Eravamo molto poveri: il tavolo e le sedie ce le hanno
regalate. Ora pare impossibile ma non avevamo i soldi
per pagare l’affitto. A volte ci staccavano la luce e
stavamo con le candele.
E’ capitato che l’Ater ha preso le tre famiglie più povere e in pieno inverno ci hanno buttato fuori con la forza
pubblica. La mamma piangeva, era attaccata alla porta
e non voleva aprire ai carabinieri.
Ci hanno portato via anche la poca mobilia che avevamo. Così invece di pagarci l’affitto che noi non potevamo pagare, ci hanno mandato a dormire in una pensione a Venezia. Poi ci davano i soldi per comprare il latte.
Era buonissimo.
Dopo di questo siamo tornati dove abitavamo prima,
ci siamo installati nella cantina. Ci hanno buttato fuori
anche dalla cantina. Poi si sono messi d’accordo e ci
hanno ridato la casa che avevamo. Erano gli anni sessanta. Mio papà faceva lavoretti saltuari e mia mamma
qualche servizio di pulizia.
> e gli altri venuti via da Fiume?
Mah, c’era chi stava meglio perché magari aveva dei
parenti qui.
Quando mio papà finalmente ha avuto un lavoro fisso
dopo poco è morto di embolia cerebrale.
Adesso metà delle “Vaschette” le hanno buttate giù,
erano proprio degradate perché non sono mai stati fatti
lavori di risanamento. Mano a mano che si andavano
svuotando dei primi abitanti è entrato di tutto, drogati,
gente di ogni tipo.
> avevate qualche rapporto con gli altri abitanti di
Marghera?
Certo! C’era anche un gruppo di ‘fioi’ che veniva da
via Case Nuove (che adesso “e xe vecie”) che alla domenica venivano a prenderci alle Vaschette e andavamo a ballare nelle cantine.
Molti di questi “putei” lavoravano nelle fornase dei vetri, a Murano.Quando mi capita di andare a Marghera
anche adesso trovo ancora qualcuno dei veri amici, magari quando vado al mercato del sabato.
Intervista a Gabriella, raccolta da Enrico Comastri
VIVERE
PAGINA 06
MARGHERA
1 dicembre 2014
Da Miramare
Ora
il mio cuore
è
come pietra del Carso,
Cercano
i miei occhi
oltre il grande golfo
la terra
dove sono nata.
Domani,
senza confini,
sarà di nuovo mia
Regina Cimmimo, narratrice e poetessa
Quello delle migrazioni è sempre stato un fenomeno
normale per le comunità umane che nei secoli si sono
spostate verso altri luoghi alla ricerca di nuove opportunità.
Ma a volte ad alcune comunità la migrazione è stata
imposta con la forza, tra queste l’esilio delle popolazioni Giuliane e Dalmate che si sono viste costrette ad
abbandonare le loro case e tutto quanto possedevano.
Il Signor Maggi, sta scrivendo un libro che ripercorre
gli avvenimenti ai quali è stato testimone, come l’episodio narrato qui.
Sono nato in un meraviglioso paese
Si chiama Abbazia, sta sul golfo del Quarnaro.
Eravamo sotto l’occupazione nazista, si doveva stare
attenti a tutto, in particolare al coprifuoco e ai controlli
della Gestapo.
Quotidianamente sotto i bombardamenti angloamericani, tutta la gente aspettava con impazienza la fine
della guerra. Finalmente nel 1945 entrarono in Istria i
partigiani di Tito.
La gente contenta pensava di essersi liberata dalle atrocità della guerra, ma l’illusione durò poco.
Subito dopo l’invasione dell’Istria da parte dei titini,
cominciammo a capire cos’era la vera violenza: stupri,
rappresaglie, rapine, infoibamento degli italiani…
I partigiani titini entravano nelle case con violenza e
rubavano tutto quello che era di valore.
Mi è capitato di assistere nascosto a poca distanza, ad
una incursione in una casa di un ufficiale italiano tornato invalido dalla guerra in Africa.
La madre del ragazzo non voleva far entrare in casa sua
i cinque partigiani comandati da una donna, la quale
senza indugio, dopo aver sparato nel petto all’anziana
signora, entrò in casa seguita dagli altri quattro, e poco
dopo aver ucciso il ragazzo, li vidi uscire ridendo, con
dei pacchi sulle spalle.
La donna notò che l’anziana morta portava un anello, ed estratto un coltello, tagliò di netto il dito della
signora. Noi ragazzi venivamo picchiati per le strade
solo perché parlavamo italiano, e subivamo violenze
di ogni sorta.
La gente, quindi, stanca e terrorizzata incominciò a
partire per l’esilio.
Ogni giorno andavo al molo a salutare gli amici che
partivano, era uno strazio continuo, finché partimmo
anche noi.
Così è cominciato il nostro lungo calvario.
Testimonianza di Gianni Maggi, raccolta da Marilena
De Faci
Estate 2014
Risacca di mare
“grote” grigie,
ciotoli bianchi
terra rossa,
profumo di pini caldi,
frinire di cicale:
sono a casa.
Regina Cimmino, narratrice e poetess
PAGINA 07
VIVERE
MARGHERA
1 dicembre 2014
Sotto le stelle del mondo
Io ed il mio amico Toni
Il desiderio di muoversi, di cambiare, di vedere mondi
nuovi, di migliorare le condizioni di vita è dote naturale dell’umanità e di tutti gli esseri viventi.
Migrare è una condizione del vivere e di rimanere in
vita. E’ una forza che coinvolge anche le piante che,
nate per radicarsi e rimanere in un determinato luogo,
delegano i propri fiori ed i propri semi a migrare.
Migrare, allora, è un desiderio globale di
cambiare,conoscere, colonizzare e migliorare.
I sentimenti come l’amore per le persone e per i luoghi
frenano in parte il desiderio di muoversi, favoriscono
la voglia di rimanere che, soltanto le guerre e le intemperanze politiche e religiose inducono, alla fine, queste
persone a partire, con dolore, alla ricerca di un mondo
migliore.
La maggior parte dei “ foresti” che raggiungono oggi
il nostro paese fuggono da guerre e da intolleranze di
ogni genere nella speranza di risolvere così i loro problemi e di vivere in pace. Sono persone che arrivano da
noi impreparate, non conoscono la lingua ne’ la nostra
cultura, il loro viaggio miserevole e drammatico ha il
solo fine di salvarsi la vita.
Fra questi migranti ci sono anche i profittatori, gente
senza scrupoli che si aggregano per sfruttare tutte le
occasioni, per arricchirsi in modo illecito senza preoccuparsi del discredito che gettano su tutti.
Gli esuli istriani e dalmati fanno parte della nostra dolorosa storia, nel febbraio del 1947 a seguito dell’annessione dell’Istria alla Jugoslavia più di 16.800 esuli
istriani, dopo aver abbandonato le loro case si imbarcarono sulla nave Toscana che in una decina di viaggi li
portò da Pola e Venezia.
Sono queste inquietudini che mi portano a guardare al
cielo, la fetta infinita che mi è concessa di vedere e
immaginare l’enorme immensa infinità esistente oltre
il visibile dove la nostra terra scompare ed io dentro di
essa mi annullo con tutti i miei pensieri.
Giorgio Comastri
Riunione di redazione, la direttora mi suggerisce di
raccontare una storia di migrazione.
Penso subito a Toni, mio carissimo amico dall’adolescenza in poi. Lo vado a trovare, gli spiego lo spirito
dell’iniziativa cui aderisce Vivere Marghera, accetta
con entusiasmo e quel che segue è il resoconto.
“1898 nasce a Chioggia mio nonno Domenico Pugiotto. quando ha pochi anni resta orfano ed è adottato da
uno zio pescatore. Molto giovane comanda un bragozzo da pesca e con lo zio si trasferiscono dall’altra parte
dell’ Adriatico, perchè il mare era più pescoso. Si stabiliscono nell’isola di Cherso, allora dominio austriaco.
Nel 1915 Domenico fugge con la famiglia e torna in
Italia.
Lui, nato italiano, divenuto cittadino austriaco si trova
a combattere contro l’Austria.
Per evitare di venire impiccato come Cesare Battisti o
Nazario Sauro, se catturato dagli austriaci, viene inviato col contingente italiano sul fronte francese a combattere nella battaglia di Verdun. La famiglia intanto è
rimasta a Chioggia e viene sfollata a Nocera Inferiore,
in Campania, dopo un bombardamento austriaco sulla
città.
Finita la Grande Guerra lui e tutta la famiglia torna alla
sua casa nell’isola di Cherso, che nel frattempo è tornata
ad essere italiana. Nel 1948 le grandi potenze vincitrici
del secondo conflitto mondiale, nonostante si fossero
impegnate a fare un referendum perchè la popolazione
della zona B del territorio di Trieste decidesse con che
nazione volesse andare, decidono invece di assegnarla
alla Jugoslavia. Cherso diventa Jugoslavia ma la popolazione può decidere se restare o tornare in Italia.
Con altri 350 mila la mia famiglia rientra in Italia.
Io sono nato nella caserma del centro profughi di Latina nel 1949.
Abbiamo perso la casa e le terre che avevamo perchè
l’Italia le dette alla Jugoslavia in pagamento dei danni
di guerra mentre gli indennizzi furono cifre risibili. Per
via della storia della mia famiglia, altri due miei nonni
hanno origini Slave e l’ultimo è di origine Rumena facendo parte di una migrazione da quel paese avvenuta
nel 1200 circa in Istria, i cosiddetti Cici.
I fatti che hanno coinvolto la mia famiglia mi hanno
vaccinato contro quel sentimento d’inferiorità che è il
razzismo. Sogno il giorno in cui in Italia ci sarà una
mescolanza di origini un vero melting pot perchè allora
avremo sconfitto il razzismo per sempre.”
Testimonianza di Antonio Pugiotto, raccolta da Marco
Donà
PAGINA 08
VIVERE
MARGHERA
1 dicembre 2014
Piroscafo TOSCANA, 39 anni di vita
straordinaria tra guerre, soldati, malati
ed esodi. In breve la storia
L’imbarcazione venne costruita in Germania, a Bremen,
varata nel 1923 con il nome di “SAARBRUCKEN”.
Caratteristiche: Stazza 5487/9442 tonnellate, due macchine alternative a vapore alimentate a carbone per
4400 cavalli.
Lunghezza 146,2 metri, larghezza 17,6 metri, pescaggio 8,6 metri, 198 posti per passeggeri aumentabili se
necessario di 142 unità, 176 persone di equipaggio, “
vistose controcarenature per correggerne l’assetto”.
Nel 1935 viene acquistata dal governo italiano e ribattezzata “TOSCANA”, è affidata alla gestione della
Società di Navigazione Italia di Genova per il trasporto, assieme ad altre navi, verso l’Etiopia, di 570.000
militari, 100.000 civili, 29.000 automezzi, 67.000 animali e più di un milione di tonnellate di merci varie.
Nel 1937 la nave viene gestita dal Lloyd Triestino e partecipa al trasporto di soldati e lavoratori nei porti spagnoli, 80.000 uomini e 44.000 mezzi.
Nel 1938 subentra la Flotta Lauro. Il Toscana trasporta
in Libia 20.000 coloni e 1720 famiglie. Nel 1939 ritorna in Spagna per il rimpatrio di 2900 soldati italiani.
Nel 1941 viene registrata come naviglio ausiliario, diventa nave ospedale, è quindi sottoposta a lavori di ristrutturazione per ospitare 700 posti letto.
A fine anno riprende il mare con il colore bianco e croci rosse. Negli anni 1942 - 1943 naviga nel Mediterraneo in servizio medico ma, nonostante la sua veste ospedaliera viene più volte
attaccata subendo danni e lamentando feriti.
Nel 1944 viene cancellata dal registro navi ausiliarie,
passa in gestione alla Regia Marina, seguono nuovi lavori e ristrutturazioni per poi servire gli alleati.
Altri lavori e modifiche vengono fatti alla nave nel
1945 in Inghilterra viene trasferita al Comitato Gestione Navi e nel 1946, è restituita al Lloyd Triestino.
Nel 1947 effettua 10 viaggi da Pola a Venezia ed Ancona trasportando 13.056 esuli (alcune note parlano di
16.800). Seguono altri lavori di riammodernamento e
conversione delle macchine a nafta. Il 1948 la vede in
servizio per il Sud Africa e poi in navigazione verso
l’Australia per trasportare un notevole flusso emigratorio giuliano. Nel 1961 viene messa in disarmo in attesa della demolizione che avviene nel 1962 a Trieste.
Storia di una nave di dolori e delusioni ma anche di
speranze che a distanza di tanti anni riesce ancora a
commuovere.
Note a cura di Giorgio Comastri
VIVERE
PAGINA 09
MARGHERA
1 dicembre 2014
LA CUCINA DI CASA
KIPFEL/CHIFFEL
I chiffel possono essere fatti con lo stesso impasto degli
gnocchi di patate e fritti nell’olio come accompagnamento di pollo fritto, arrosti o stinco, oppure in versione dolce cosparsi di miele.
L’origine è tedesca ma in Austria si cominciano a fare
in forma di mezzaluna in disprezzo dei turchi che sotto
il comando di Cara Mustafà assediarono Vienna nel
1683.
La versione che vi proponiamo è stata gentilmente
offerta dal ricettario di una famiglia italiana residente
in Istria. In questo caso vengono utilizzate le noci mentre generalmente si usa la farina di mandorle.
400 gr. Farina 00
250 gr. Burro o margarina
150 gr. Noci macinate finemente
4 cucchiai grandi di zucchero
1 uovo
½ bicchiere di latte (in inverno)
½ bustina di lievito per dolci
1 pizzico di sale
Lavorare bene la farina con il burro, aggiungere l’uovo, lo zucchero, le noci, il lievito e il pizzico di sale.
Amalgamare bene gli ingredienti e formare dei biscottini a forma di mezzaluna.
Cuocere per circa 15 minuti a 180/200 gradi.
Una volta raffreddati cospargerli di abbondante zucchero a velo.
Il diario
Il fiore ha scritto il suo diario:
metà del diario
parlava della bellezza dell’acqua.
L’acqua ha scritto il suo diario:
metà del diario
parlava della bellezza del bosco.
Il bosco ha scritto il suo diario:
metà del diario
parlava della terra armata.
E quando la terra scrisse il suo diario
tutto il diario
parlava della libertà.
Sherko Bekas, poeta curdo
IL TE’
In gran parte del mondo il tè è la bevanda più diffusa, ogni paese ha il proprio cerimoniale per servirlo
e berlo.
Il tè viene preparato in una teiera tipica.
Il pentolino grande viene riempito d’acqua, quello piccolo appoggiato sopra il primo, come coperchio, con
dentro del tè ad ammorbidirsi in pochissima acqua;
sopra, un coperchio.
Si mette sul fuoco. Quando in basso l’acqua bolle si
toglie la teiera dal fuoco, si scolano le foglie del tè e vi
si versa sopra una buona quantità d’acqua bollente.
Allora il pentolino più piccolo viene messo direttamente sul fuoco,per far raggiungere in un attimo il bollore e
far salire in superficie le foglie del tè.
Si spegne, si copre, si rimette sopra al pentolino grande
e, in cinque minuti, è pronto.
Al momento di servire, in ogni occasione della giornata, si versa nei bicchieri il contenuto delle due parti
della teiera: l’acqua calda e l’infuso.
Ivan Carlot e Giorgio Bombieri, Di tè in tè, 2008 Comune di Venezia
PAGINA 10
VIVERE
MARGHERA
1 dicembre 2014
Ma secondo voi fanno più puzza i cavoli lessi
o cipolla e curry?
Costituzione della Repubblica Italiana
Articolo 10
Noi e Loro , comunitari ed extracomunitari, bianchi,
neri, rossi e gialli …
L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla
legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese
l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel
territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati
politici.
Noi e gli Altri.
Migrazioni, emigrazioni, immigrazioni, volontarie o
imposte. Fame, malattie e Guerre.
Globalizzazione, crisi economica: i motivi che spingono gli individui a lasciare la propria realtà per una nuova sono comunque dettati dalla necessità e dal bisogno,
quando addirittura non sono imposti.
Fino a qualche anno fa Noi osservavamo questi fenomeni in maniera distaccata dato che l’immigrazione
verso il nostro paese era marginale, ma adesso, in piena
crisi economica, ora che ci siamo accorti che Loro sono
arrivati e sono tanti e continuano ad arrivare, adesso
siamo un po’ smarriti, ci siamo scoperti incapaci di accoglienza, ci guardiamo intorno per strada e forse ci
sentiamo in minoranza.
Loro occupano i nostri spazi, ci portano via il lavoro.
Pero’, invece che barricarci dentro i nostri appartamenti, pronti a difendere quello che ci appartiene, potremmo aprire il pugno e tendere la mano: trasformare la
diffidenza in accoglienza.
Ci vorrà del tempo perché l’integrazione abbia corso,
bisogna imparare a conoscersi reciprocamente, ma non
esiste alternativa perche finché ci saranno guerre, fame
e malattie ci saranno individui che scappano in cerca di
opportunità e non esistono confini o regole che possano
bloccarli.
Claudio
Quartine
Sono l’aquila che vive sulle vette
Dall’alto osservo i pascoli.
Senza famiglia, senza casa e terra
Come sudario avrò le mie ali soltanto.
Tutto quel che desidero è di avere accanto
Un volto splendente come il tulipano.
Se alle montagne narrassi il mio soffrire
Sui pendii non crescerebbero più i fiori.
E’ addolorato il mio cuore, Signore,
soffre e trema d’angoscia
anela la patria, piange l’esilio.
E questo fuoco mi brucia.
Baba Tahir, poeta curdo, secolo
PAGINA 11
VIVERE
MARGHERA
1 dicembre 2014
Marghera, che abitanti ha?
A Marghera siamo in 33.178 residenti: 28.525 di cittadinanza italiana e 5.881 di altre nazionalità.
La media generale dei residenti nell’intero Comune di
Venezia è per i maschi di circa 45 anni, mentre per le
donne è di circa 49 anni.
Ma se osserviamo più da vicino i numeri scopriamo
che nel Comune di Venezia ci sono delle vistose differenze anagrafiche tra i cittadini di nazionalità italiana,
rispetto alle altre nazionalità.
Ecco i dati forniti dal Comune:
maschi italiani 124.783 con età media 47 anni
femmine italiane 140.103 con età media 51 anni
maschi altre nazionalità 14.530 con età media 32 anni
femmine altre nazionalità 17.271 con età media 36
anni
Le attività principali degli abitanti di Marghera di nazionalità non italiana sono legate al commercio, al settore alberghiero, al facchinaggio, alle commesse portuali e all’assistenza famigliare.
Ci risulta che nella maggior parte dei casi i lavoratori sono legalmente iscritti nelle gestioni dell’INPS e
come tali versano i contributi dovuti.
Ora mettiamo “i piedi nel piatto” e dopo questi, seppur
parziali numeri, dobbiamo parlare di legalità, rispetto
delle “regole sociali”, “regole economiche”, d’ordine
pubblico.
Tutto questo è doveroso che sia operato e osservato
dagli immigrati cosi come lo deve essere dagli italiani.
Non ci sono due metri di misura, non esiste la tolleranza per le azioni non legali se compiuto da un soggetto,
mentre per un altro no.
Fare distinzioni di finto buonismo in realtà è controproducente e paradossalmente si diventa razzisti al contrario, in quanto non tratto chi commette reati ancora una
volta come se non fosse una persona con uguali diritti
e doveri.
Chi delinque è un delinquente; chi non paga le tasse è
un evasore; chi non rispetta l’ambiente è un inquinatore. Chi sfrutta la prostituzione sia come magnaccio che
come “cliente”; chi discrimina le donne; chi fa violenza alle donne e ai minori; chi utilizza il credo religioso
non per la pace e l’armonia dei cuori ma per esercitare
subdole coercizioni, è un criminale.
Il concetto vale per tutte le persone che vivono la città,
che siano amministratori pubblici, imprenditori privati,
cittadini italiani o stranieri.
Aldo Bastasi
PAGINA 12
VIVERE
MARGHERA
1 dicembre 2014
Architetti e urbanisti senza saperlo perché
emigrati
Marghera ha qualcosa di raro nella sua configurazione
urbanistica, grazie a un meraviglioso sognatore del
vivere bene come l’ingegner. Emmer, che ha strutturato quella che noi chiamiamo “Città Giardino”. Poi una
strana convivenza tra quelli che erano i luoghi del lavoro e la città per il segno, l’arteria, la linea d’asfalto che
è via Fratelli Bandiera. Negli anni successivi come un
segno di disprezzo ai predecessori si volle dare corso
al complesso edile anomalo e sovrastante “La CITA”.
Infine le due periferie quella dei Cà Emiliani e quella
di via Trieste.
Ma non dobbiamo dimenticare il casuale, stupefacente
contributo che anonimi nostri concittadini hanno regalato a tutta la comunità.
Prendiamoci la libertà di passeggiare partendo da Piazzale della Concordia e inoltriamoci in via della Rinascita per poi deviare in via Lazzaneo quindi in via
Canetti e passare ancora in via Beccaria e poi in via
Silvio Pellico, via Meneghetti angolo Via Cavour, via
Manetti…
Sono tanti gli spazi da scoprire, anzi vi invitiamo a segnalarceli.
Li vedete tutti quegli spazi verdi, con accesso dalle
strade e tutto attorno alle abitazioni?
Tappeti erbosi che ricevono la compagnia di alberi tutti
rigorosamente nati e cresciuti da soli.
Sono superfici che senza cartelli monitori di divieti
sono mantenuti puliti, vivi.
Mi fermo davanti ad uno di essi e vi racconto una storia
silenziosa e commovente. Ricordo che questi appezzamenti c’erano sempre stati e su di essi non si edificava
neppure quando negli anni 60 ogni lembo di terra era
un cantiere.
Perché non accadeva? Perché sono arrivati a noi per
essere fruibili? La proprietà di questi terreni di chi
era?
Ecco la storia, anzi le tante misteriose storie di tutti
questi lembi di verde.
Negli anni 80 l’amministrazione comunale chiese che
i proprietari delle terre non recintate dessero segno di
interesse e si qualificassero. Ci fu chi si identificò e
recintò quello che fino ad allora era libero, altri invece
non diedero corso alla richiesta.
A quel punto tutti gli “assenti” persero il diritto della
proprietà e la terra divenne pubblica. La cosa meravigliosa è che tutti i pezzi di terra sembrano pensati,
disegnati, inseriti ad arte nella città. Invece nessun disegno a tavolino ma la bizzarra storia della vita che
lascia delle tracce anche se non si è andati a scuola.
Ma chi erano questi uomini e donne che ci hanno fatto
dono di questo bene: il verde?
Quando se ne sono andati e in quali luoghi lontani?
Perché non c’è traccia della loro storia. Emigrati, quanti e dove? Sarebbe bello poter raccogliere e tessere la
conoscenza di coloro che ad un certo punto hanno lasciato la nostra città per vivere altrove.
Chi conosce, chi ha parenti, chi ha amici che sono emigrati, batta un colpo e potremo raccontare insieme la
loro storia.
Corrado Gasparri
PAGINA 13
VIVERE
MARGHERA
1 dicembre 2014
Vi segnaliamo un libro, un film, un luogo che ci diano
degli stimoli per riflettere ancora.
UN LIBRO
Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, 2010,
Mondadori editore
La famiglia Peruzzi di Codigoro, contadini a mezzadria, lavoravano la terra con un sacco di figli per il
conte Zorzi Vila. La terra era buona, non si potevano
lamentare, quando all’improvviso nel 1927 il patatràc:
la quota 90!
L’industria italiana era in crisi, e la produzione del grano insufficiente, bisognava acquistarlo all’estero con il
cambio in sterline a 150 lire per una sterlina.
Ecco allora la bella trovata del Duce: si rivaluta a non
più di 90 lire per una sterlina. Tutti contenti ma quando
i Peruzzi a fine raccolto fanno i conti col conte si trovano a dividere le spese con cifre da far paura, che non
avevano.
“Nudi e crudi. Una mano davanti e una di dietro ci
hanno ridotto. Ridotti alla fame”.
Racconta Antonio Pennacchi nel suo libro
“Canale Mussolini” le ragioni dell’esodo nelle Paludi
Pontine della famiglia Peruzzi come per tante altre dal
Friuli, dalle campagne tra Rovigo e Ferrara, dalla pianura Padana. Un esodo!
In trentamila nel giro di tre anni lasciano tutto quel che
hanno, poco, visto che i vari nobili e latifondisti li avevano portati alla fame per questa “quota 90”, e per la
fame vengono spediti nelle terre Pontine per renderle
fertili con la speranza di averle un giorno in proprietà.
“Le Pontine? Ha fatto lo zio Pericle terrorizzato, perchè lui da militare Le Pontine le aveva viste …
le foreste impenetrabili, gli stagni, gli acquitrini e …
da Cisterna … i banditi di cui raccontavano i cisternesi, gente che aveva ammazzato al suo paese e si veniva
a rifugiare qua, perchè qua nessuno veniva a cercarli.”
In realtà “A Littoria (Latina) c’era gente di tutte le città e regioni d’Italia. Calabresi, siciliani, toscani, piemontesi, sardi, marchigiani, genovesi, chi non aveva
da lavorare al paese suo era venuto a Littoria.” ed il
lavoro in Pontinia era già avanzato con i poderosi interventi di bonifica e canalizzazione, come, appunto, il
canale Mussolini.
E le genti dei monti Lepini e del Lazio con il dente
avvelenato: “Cispadani, invasori ci avete rubato i poderi!” e loro in risposta “Marocchini!”
Una storia di vicende umane, di lotte, adattamenti e
pacificazioni di genti accomunate da un medesimo destino, quell’antico legame che unisce i popoli nel medesimo cammino per la vita!
Enrico Comastri
UN FILM
Amore, cucina e curry.
Regia di Lasse Hallström. 2014
Il film è stato in programmazione al cinema Dante poco
tempo fa, non appena uscito sugli schermi. Ci parla
dell’incontro tra due cucine, quella francese, stellata
Michelen e quella indiana, ricca di spezie e di aromi.
Così diverse, sembrano inconciliabili tra loro, come
impossibile pare la convivenza tra le due famiglie
dirimpettaie, ognuna impegnata ai fornelli del proprio
ristorante.
Il regista di Chocalat questa volta ci propone di prendere coscienza dei pregiudizi razziali. Essi sono il frutto della paura di perdere qualcosa (il lavoro, i privilegi,
lo status sociale). Il suo è un messaggio di tolleranza
e ci ricorda la necessità di superare le barriere tra le
persone e le culture. Lo fa in modo molto preciso e
delicato al contempo, mettendo in primo piano il cibo,
perché “parla in modo diretto a tutti i sensi senza passare per la mediazione dell’intelletto o dell’esperienza,
ed è dunque una forma di comunicazione immediata e
piena di amore”.
Francesca Lamon
PAGINA 14
VIVERE
MARGHERA
1 dicembre 2014
UN LUOGO
Scegliamo un luogo che ci è vicino:
la CITA di Marghera. In una delle zone più diversificate di Marghera è nato un nuovo esperimento di
condivisione.
Ago e filò:
“Chi sa insegna, chi non sa impara”
Questo è il motto di Ago e Filò, laboratorio multiculturale di pratiche tessili nato a Marghera nella primavera
dello scorso anno. Il progetto è stato promosso dal Servizio Immigrazione in collaborazione con il Servizio
Sociale della Municipalità di Marghera e organizzato
dalla Cooperativa Sociale La Gagiandra.
L’obiettivo è quello di mettere in relazione donne di
diverse nazionalità attraverso le pratiche tessili. Cucito,
uncinetto, maglia, ricamo ... ognuna porta il proprio saper fare (o la voglia di imparare) che diventa occasione
di incontro.
Da ottobre 2014 il gruppo di Ago e Filò, desideroso di
proseguire questa esperienza, si costituisce in Associazione Culturale.
E’ un traguardo molto importante e una prova di cittadinanza attiva tutta al femminile. Il direttivo è composto da sette donne di cinque nazionalità diverse: tre
italiane residenti alla Cita, una spagnola, una bengalese, una curda turca e una macedone. Una integrazione
tra la cittadinanza che parte direttamente dal gruppo
costitutivo. L’inaugurazione del 7 novembre 2014 era
perfettamente nello stile Ago e Filò: una cena multietnica, colorata, festosa e partecipata. Un clima davvero
conviviale.
Primo obiettivo è quello di mantenere il laboratorio
settimanale: tutti i mercoledì dalle 9.30 alle 12.30 presso il patronato del quartiere Cita: il laboratorio è aperto
per i soci. Ma in cantiere anche laboratori pomeridiani,
piccoli corsi e non solo a proposito di filati e di tessuti
... ma anche di cucina multietnica!
>Come sostenere Ago e Filò?
“E’ semplice” dicono le ideatrici dell’associazione.
“La quota associativa 2014-15 costa solo 5 euro.
Potete venire a trovarci il mercoledì mattina o seguirci
sulla pagina facebook Ago e Filò per rimanere aggiornati sulle nostre proposte”.
Chiara Bertoncello
Registrazione al tribunale di Venezia - Num.2 del 27/1/2010
REDAZIONE: Aldo Bastasi, Anita Costanzo, Marilena De Faci,
Marco Donà, Corrado Gasparri
Hanno collaborato: Chiara Bertoncello, Enrico Comastri,
Alessandro Cuk, Claudio Petti, Dorina Petronio
DIRETTORE RESPONSABILE: Francesco Moisio
DIRETTORE: Francesca Lamon
Questo numero è realizzato in collaborazione con Area
Solidale dell’Osservatorio Politiche di Welfare del Comune di
Venezia, stampa a cura del Comune di Venezia
web: www.viveremarghera.it
email: [email protected]
facebook: Vivere Marghera
tel: +39 3311030819
Vivere Marghera è gemellato con LeVoci di Via Piave
www.levocidiviapiave.com
“Poi, dopo l’esodo c’è il tempo dell’esilio: più che i corpi riguarda le anime”
Anna Maria Mori