Giorgio Gaber, Io non mi sento italiano

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Giorgio Gaber, Io non mi sento italiano
16
marzo2003
CHICCADISCO
vitamine recensioniletterarie,cinematograficheemusicali acuradiPaoloBoschi
t LIBRI
Pino Cacucci,
Ribelli!
(Feltrinelli)
Ribelli!, recentemente riedito nella
collana tascabili “Universale Economica”, è una raccolta di tredici
racconti per altrettante storie di rivolta o di fuga in cui Cacucci, da
sempre intrigante scrittore del
Messico come terra di frontiera, ha
“estremizzato” una delle sue tematiche privilegiate di riferimento:
tutti i personaggi di cui il narratore
bolognese ha scelto di raccontare
per questa volta sono infatti ribelli
“puri”, eretici perfino rispetto alla
linea di chi la rivoluzione ha finito
per vincerla, raggiungendo il potere costituito, scrivendo una pagina
della storia ufficiale e finendo per
tradire lo spirito originario della rivolta.
I ribelli di questa raccolta sono eroi
mitici che hanno combattuto contro la dittatura, l’ingiustizia in senso
lato, contro ogni tipo di colonialismo, insofferenti a regole e compromessi, inadatti ad una blanda
forma di opposizione politica, uomini e donne che non si sono rassegnati, perdenti ma non “vinti”,
colpevolmente cancellati dai testi
ufficiali per la loro irriducibilità.
Ribelli! si apre con le beffe organizzate dalla primula rossa Silvio
Corbari, partigiano in prima linea
nella lotta ai nazifascisti, per chiudersi con Jim Morrison, rockstar e
poeta che finì per autodistruggersi
come estrema forma di ribellione
allo shobiz. In mezzo scopriamo altre figure memorabili: dall’ingiusta
odissea di Sacco e Vanzetti alla lotta e morte di Irma Bandiera durante
la Resistenza; dalla rivolte di Tupac
Amaru e di Jacinto Canek, detto il
Serpente Nero, all’amicizia tra Pancho Villa e l’americano John Reed;
dal geniale ladro Alexandre-Marius
Jacob – che col ricavato delle rapine
finanziava il movimento anarchico
ed ispirò allo scrittore Maurice Leblanc il personaggio di Arsenio Lupin – al contagioso sorriso di
Camilo Cienfuegos; dalla lotta antifranchista di Francisco Sabaté detto
“Quico” fino a Tamara Bunke detta
“Tania la guerrigliera”, cresciuta in
Argentina da famiglia tedesca e
morta prima dei trent’anni lottando al fianco di Ernesto “Che” Guevara per la libertà dei popoli
latinoamericani.
t FILM
Chicago,
regia di Rob Marshall,
con Renée Zellweger,
Richard Gere,
Catherine Zeta-Jones,
Lucy Liu, John C. Reilly,
Queen Latifah;
musical, Usa/Can.; 2002; C.
The Hours,
regia di Stephen Daldry,
con Nicole Kidman,
Julianne Moore, Meryl Streep,
Ed Harris, Claire Danes;
drammatico; Usa; 2002; C.
La donna, il flusso di coscienza, il
tempo, Virginia Woolf, l’intertestualità... le ore. In estrema sintesi
l’opera seconda di Stephen Daldry,
già autore del delizioso Billy Elliott,
è in perfetto accordo con la complessità della fonte letteraria,
l’omonimo romanzo di Michael
Cunningham, geniale nella sua capacità di unire tramite il fil rouge di
un classico della letteratura contemporanea tre donne in tre tempi diversi.
Ma
veniamo
all’ingarbugliatissima trama: anni
Venti, nel suo forzato buen retiro di
campagna la scrittrice britannica
Virginia Woolf inizia la stesura di
Mrs. Dalloway, il cui spunto princi-
pale consisterà nel racchiudere
l’intera vita di una donna in un solo
giorno. Nonostante l’assidua assistenza del marito, Virginia, afflitta
da crisi di nervi ed ossessionata dal
moralismo coevo, va meditando il
suicidio.
Anni Cinquanta: Laura Brown, madre del piccolo Ritchie e prototipo
della casalinga americana insoddisfatta, sta sfogando i propri desideri
repressi nella lettura di un romanzo,
ovviamente Mrs. Dalloway: per
sfuggire al proprio destino la donna
sembrerebbe pronta a tutto, ma
pare mancarle il coraggio del gesto
estremo. Infine, nella New York dei
giorni nostri, Clarissa Vaughan sembra incarnare una sorta di versione
contemporanea di Mrs. Dalloway,
che per l’appunto è l’epiteto con cui
continua a rivolgersi a lei il poeta-scrittore Richard, il suo primo e
mai dimenticato amore di gioventù,
in odore di canonizzazione letteraria, ammalato di Aids e da tempo
assistito amorevolmente da Clarissa. Alla fine, come nel romanzo, il
visionario della situazione dovrà
morire. Daldry è riuscito nella titanica impresa di raccordare le tre sottotrame del plot ricorrendo a
frequenti virtuosismi di montaggio
per saltare senza apparente soluzione di continuità tra la prima, la seconda e la terza storia.
The Hours ha conquistato nove
(meritatissime)
nominations
all’Oscar nelle categorie principali.
Imperdibile.
Traslazione sul grande schermo
dell’omonimo musical coreografato
dal grande Bob Fosse, rimasto in
cartellone a Broadway per oltre un
ventennio, Chicago conferma il rinato amore del cinema americano
per un genere portato all’apice nella
golden age di Hollywood da Fred
Astaire fino a Gene Kelly, e recentemente tornato in auge grazie a Moulin Rouge di Baz Luhrmann. La
storia è ambientata nei ruggenti
anni Venti, per l’esattezza nel 1929,
ovviamente a Chicago: la protagonista, Roxie Hart, finisce in galera
per l’omicidio di un imbroglione reo
di avere alimentato le sue ambizioni, promettendole un ingresso privilegiato nel magico mondo dello
showbiz. Dopo aver ucciso il suo
pigmalione, Roxie finisce in galera,
nel braccio della morte, nella stessa
cella occupata dalla grande Velma
Kelley, una starlette imprigionata
per omicidio: la diva del Vaudeville
ha infatti assassinato la sorella ed il
marito dopo aver scoperto una tresca tra i due. Paradossalmente
l’incarcerazione costituirà per entrambe un ideale trampolino di lancio, soprattutto grazie all’irresistibile
carisma oratorio di Billy Flynn, il clas-
sico avvocato che non ha mai perso
una causa in carriera, uso a farsi pagare parcelle astronomiche ma capace di lavorarsi ad arte i giornalisti:
non a caso Flynn riuscirà ad influenzare la giuria trasformando le sue
clienti in eroine incomprese dalla società. Uscita dal braccio della morte,
Roxie sale così sul treno del successo
con un biglietto di prima classe, con
un piccolo aiuto della fama galeotta, ma il caso ha in serbo altre sorprese e la gloria (si sa) è assai
effimera. Opera prima del pluripremiato regista teatrale Rob Marshall,
Chicago è un musical in cui si respira
profumo di sogno, ispirato in primo
luogo ai capolavori di Bob Fosse
(vedi Cabaret e All that jazz) e ricco
di omaggi a miti del passato, da Elvis
a Marilyn.
Chicago è il logico favorito della
notte delle stelle con tredici nominations.
t DISCHI
U2, The best of 1990-2000
[Island 2002]
Difficile prescindere dal richiamo di
una nuova uscita degli U2, anche se
si tratta di un best of perfettamente
inquadrato nella logica perversa della raccolta antologica, spesso dichiaratamente commerciale. Per
Bono Vox, The Edge, Adam Clayton
e Larry Mullen Jr. il discorso è diverso, perché il gruppo di Dublino, da
almeno quindici anni a questa parte, si è guadagnato a forza di coerenza e talento il titolo di rock band
più amata a livello planetario. In
ogni caso The best of 1990-2000
obbedisce alle regole d’oro del genere miscellaneo proponendo tutti i
successi del decennio per i fans
dell’ultima ora più gli immancabili
inediti per richiamare collezionisti
inveterati.
Rispetto al primo best of, questa seconda raccolta fotografa un periodo
più complesso sul versante della
sperimentazione musicale, dal controverso Zooropa fino al ritorno alle
origini di All that can’t you leave
behind.
Dopo l’incredibile popolarità raggiunta alla fine degli anni Ottanta,
nei Novanta gli U2 sono stati quasi
costretti a ricercare nuovi traguardi,
ad andare oltre, non sempre con risultati felici (come nel caso di Pop),
ma azzeccando al contempo una
manciata di gemme musicali destinate a durare. The best of
1990-2000 le ripropone tutte, nessuna esclusa: One, tanto per cominciare, forse la ballata più intensa in
oltre vent’anni di carriera, e Stay,
semplicemente meravigliosa nella
sua insostenibile malinconia, Staring at the sun, Beatiful day,
l’idillica Stuck in a moment you
can’t get out of, perfino i due ottimi
inediti The hands that built America e la notevole Electrical storm, proposta nel remix di William Orbit.
All’appello non mancano neppure i
brani rock più movimentati: l’apripista
Even better than the real thing,
l’acida Gone, Until the end of the
world, la scatenata dance di Discotheque, le sonorità dark di Hold me,
thrill me, kiss me, kill me. Come
neppure le cose più strane, tipo
l’irresistibile Numb o Miss Sarajevo,
dall’esperienza con i Passengers. Sedici
brani imperdibili che faranno la felicità
di neofiti e fans di vecchia data.
Norah Jones,
Come away with me
[Blue Note/Emi 2002]
Nata a New York, classe 1979, Norah
Jones si è presto trasferita a Dallas,
dove ha frequentato la Booker T. Washington High School for the Performing and Visual Arts: ha cominciato a
suonare il piano intorno ai dieci anni e,
prima di firmare per l’etichetta jazz
Blue Note nel 2001, ha vinto per due
anni il premio come miglior jazz vocalist e suonato in un paio di gruppi.
Come away with me è composto di
quattordici brani complessivi, di cui tre
covers (rispettivamente The nearness
of you, Cold cold heart e la deliziosa
Turn me on) e ben undici brani originali – due opera della stessa Jones,
mentre gli altri sono stati scritti a quattro mani dal bassista Lee Alexander e
dal chitarrista Jesse Harris –. Il disco attinge a piene mani dalla tradizione
della musica popolare americana, proponendo non solo jazz, ma anche country, folk, rhythm’n’blues e blues. Un
disco che impressiona per la patina
d’epoca che ne traspare: a partire
dall’apripista Don’t know why,
l’indiscussa gemma dell’album, seguita a ruota dalla ballata Seven years,
malinconica e dal retrogusto diaristico,
dal sapore folk della ballata Feelin’
the same way, dalla notturna titletrack, dall’intensa semplicità di Shoot
the moon, dal country di Lonestar,
dall’atmosfera retrò di I’ve got to see
you again, dalla soffusa Painter
song (all’aroma di Bacharach),
dall’irresistibile R&B di One flight
down, dall’essenzialità acustica di
Nightingale ed infine dalla malinconia The long day is over (con la chitarra di Bill Frisell). Un album fuori dal
tempo per un’esordiente che si è subito dimostrata degna dell’accostamento all’indimenticabile Billie
Holiday. Agli ultimi Grammy Awards
Come away with me è stato giudicato miglior album dell’anno ed è valso a Norah Jones altri quattro Oscar
della musica nelle categorie riservate al
disco ed alla canzone dell’anno, alla
miglior performance pop femminile
ed alla miglior artista esordiente.
I libri sono cortesemente offerti
dalla libreria SEEBER,
Via Tornabuoni 70/r, Firenze
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I dischi sono gentilmente offerti
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DISCO
Giorgio Gaber, Io non mi sento italiano
Lo chansonnier di periferia ci ha lasciato il suo ultimo lavoro
n Paolo Boschi
Cantautore per definizione,
chansonnier di periferia,
uomo di spettacolo completo,
ma soprattutto “uomo” nel
vero senso del termine, capace di esiliarsi senza rimpianti
dai lustrini della TV e da una
carriera già tracciata in cerca
pagina precedente
della verità o semplicemente
sulle orme indistinte del senso riposto delle cose sul palcoscenico di un teatro, in grado di cogliere le mille idiosincrasie di una società, come
quella italiana, che non è proprio il massimo come giustizia sociale e sistema dei valori, a pensarci bene: stiamo
parlando ovviamente di Giorgio Gaber, che se n’è andato
in punta di piedi il primo gennaio del 2003, a soli sessantatré anni, poco prima di aver
terminato le registrazioni della sua ultima fatica discografica, Io non mi sento italiano,
uscita postuma. Fermo restando che l’ascolto dei brani
induce una logica commozione per la scomparsa di un
uomo intelligente e di un artista veramente originale, entriamo nel dettaglio della tracklist rilevando subito che, tra
le dieci tracce complessive,
sono sei le canzoni inedite e
quattro i brani estrapolati dal
vasto repertorio teatrale
dell’uomo di spettacolo milanese.
L’album si apre all’insegna
della pensosa amarezza che
contraddistingue Il tutto è
falso, una disincantata fotografia di un mondo in cui, a
voler togliere le cose false che
lo affollano, non resta più
niente. La tonalità di generalizzato pessimismo è la stessa
che marcava La mia generazione ha perso, ravvivata, esat-
tamente come il precedente
album di Gaber, da sprazzi di
irridente vitalismo e squarci
di intenso lirismo, come nel
caso della successiva traccia
Non insegnate ai bambini
che, ad ascoltarla dopo la
scomparsa di Gaber, sembra
quasi l’eredità morale di un
uomo saggio e sensibile, preoccupato di far crescere le nuove generazioni al di fuori dalle pastoie ideali degli adulti di
oggi.
A ruota arriva anche la title
track, un’allegra marcetta che
passa in rassegna le troppe
idiosincrasie della società italiana, con un’agilità ed una capacità di dettaglio sorprendenti, senza mai esagerare
perché, se Gaber non si sente
italiano, ammette “per fortuna o purtroppo” di esserlo. Ad
un dipresso segue L’illogica
allegria, che ci racconta la
sensazione di paradossale armonia che un uomo sa trovare in se stesso anche quando
intorno a lui tutto va in rovina,
un brano degli anni Ottanta,
estratto dallo spettacolo
Pressione bassa, esatta-
mente come Il dilemma ,
giocata sul dilemma per definizione, l’amore.
L’album presenta anche due
brani degli anni Novanta, ovvero la splendida La parola
io ( tr a tta d a llo sh o w
Un’idiozia conquistata a
fatica) e l’impagabile satira
“catodica” di C’è un’aria
(tratta da Io come persona).
Io non mi sento italiano si
completa con la disperata I
mostri che abbiamo dentro, il blues allusivamente erotico de Il corrotto (davvero
delizioso) e la conclusiva Se
ci fosse un uomo, una canzone intensa e difficile, volta
ad un futuro oscuro in cui
s’intravede comunque un barlume di speranza, per certi
versi una sorta di testamento
spirituale di Gaber.
Il Signor G è morto, lunga vita
al Signor G: saranno in molti a
non dimenticare la sua sensibilità ed il suo acume, mai esibito platealmente, ma diffuso
con allusiva ironia.
John Lee Hooker,
Mr. Lucky
A parte i bluesmen
maledetti entrati nel mito
per la precoce scomparsa
(uno su tutti: Robert
Johnson), la via del
cantore di blues
solitamente dura tutta la
vita, almeno se l’artista in
questione ha riesce a
percorrerla con la
necessaria coerenza.
Nonostante l’incombere
delle numerose
primavere, l’ultimo
periodo artistico di John
Lee Hooker è stato
complessivamente
oltremodo fruttuoso, e
Mr. Lucky costituisce un
po’ la gemma della
vecchiaia del compianto
boogie man.
Spesso accade che i
discepoli diventati famosi
si uniscano intorno alla
carismatica figura del
vecchio maestro per
colorare il suo album con
la tinta, sempre più
diffusa, del
collaborazionismo a tutti i
costi, che raramente
riesce a coniugare
compattezza ed armonia,
ma in Mr. Lucky tutto
finisce magicamente per
andare nel verso giusto,
soprattutto in virtù del
carisma di Hooker. La sua
voce di carta vetrata e la
sua chitarra essenziale
costituiscono le linee
conduttrici dell’album
dalla prima all’ultima
delle complessive dieci
tracce.
Non a caso nell’apripista I
want to hug you John
Lee Hooker si presenta da
solo, ripetendosi con lo
scarno e disadorno blues
dell’apripista Highway
13. Ovviamente l’ottimo
cast di musicisti ospiti,
quando è chiamato
all’appello, fa
egregiamente il proprio
dovere: degne di
segnalazione in tal senso
il contagioso boogie di
This is hip con Ry
Cooder alla chitarra, il
duetto con Robert Cray
nella title-track, e quindi
Backstabbers, Stripped
me naked, Suzie e
Crawlin’ kingsnake,
nelle quali alla chitarra si
alternano rispettivamente
signori del calibro di
Albert Collins, Carlos
Santana, Johnny Winter e
Keith Richards.
La gemma dell’album è la
struggente I cover the
waterfront, in cui il
vecchio maestro si
“contamina” in direzione
celtic blues duettando
con Van Morrison.
P.B.
John Lee Hooker
dedicò Mr. Lucky
alla memoria
di Stevie Ray Vaughan
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