Contratti in generale

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Contratti in generale
I CONTRATTI•ANNO XIV
SOMMARIO
GIURISPRUDENZA
Parte I - Contratti in generale
RISOLUZIONE DEL CONTRATTO PER INADEMPIMENTO E LOCAZIONE IMMOBILIARE PER USO NON ABITATIVO
Cass., sez. III, 18 novembre 2005, n. 24460
Commento di Viviana Mancinelli
645
COLLAZIONE DELLA DONAZIONE DISSIMULATA E LIMITI PROBATORI PER IL COEREDE LEGITTIMARIO
Trib. Rimini 27 dicembre 2005
Commento di Laura Vagni
652
RASSEGNA DI LEGITTIMITÀ
659
Parte II - I singoli contratti
NULLITÀ DELLA FIDEIUSSIONE A «SCADENZA ANTICIPATA»
Cass., sez. I, 4 novembre 2005, n. 21396
Commento di Pier Giovanni Traversa
663
I DIRITTI DEL CONDUTTORE ALLA PARTECIPAZIONE ALL’ASSEMBLEA CONDOMINIALE E ALL’USO DEL PARCHEGGIO
Cass., sez. III, 3 ottobre 2005, n. 19308
Commento di Monica Selvini
672
LA RESPONSABILITÀ DELL’INTERMEDIARIO NEL CASO CIRIO E LA RECENTE LEGGE PER LA TUTELA DEL RISPARMIO
Trib. Trani 31 gennaio 2006
Commento di Valerio Sangiovanni
686
RASSEGNA DI LEGITTIMITÀ
702
RASSEGNA DI MERITO
Sentenze esposte da Elettra Bruno
705
PANORAMA FISCALE
A cura di Sara Armella e Francesca Balzani
718
ARGOMENTI
LICENZE PUBBLICHE DI SOFTWARE E CONTRATTO
di Carlo Piana
720
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA
IL CONTRATTO DI ASSICURAZIONE EUROPEO: TRA MODELLO OPZIONALE ED E-INSURANCE
di Nicola Brutti
728
OSSERVATORIO COMUNITARIO
A cura di Elena Bigi, Studio legale De Berti, Jacchia, Franchini, Forlani - Bruxelles
737
I C ONTRATTI N. 7/2006
643
I CONTRATTI•ANNO XIV
MODELLI CONTRATTUALI
IL PATTO DI FAMIGLIA
di Carmen Leo
741
INDICI
745
iContratti
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GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
Inadempimento
Risoluzione del contratto
per inadempimento e locazione
immobiliare per uso non abitativo
Cassazione civile, sez. III - Sentenza del 18 novembre 2005, n. 24460
Pres. Sabatini - Rel. Massera - P.M. Sgroi (Conf.) - Ric. P. E. - Res. L. G.
I.
Contratto in genere - Scioglimento del contratto - Risoluzione del contratto - Per inadempimento - Importanza
dell’inadempimento - Inadempimento delle obbligazioni primarie ed essenziali del contratto - Gravità
dell’inadempimento - Configurabilità - Fattispecie in tema di locazione ad uso commerciale
In tema di risoluzione contrattuale per inadempimento, la valutazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1455 Codice civile, della non scarsa importanza dell’inadempimento - riservata al giudice di merito - deve ritenersi implicita ove l’inadempimento stesso si sia verificato con riguardo alle obbligazioni primarie ed essenziali del contratto, quale, in materia di locazione, quella di pagamento dei canoni dovuti. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, nella quale, in applicazione
del richiamato principio ed in relazione ad una locazione ad uso commerciale, era stato considerato
di non scarsa importanza l’inadempimento del conduttore che, sebbene il contratto prevedesse il pagamento anticipato del canone mensile, aveva corrisposto il pagamento di due mensilità solo successivamente alla notificazione dell’intimazione di sfratto, mentre in precedenza aveva consegnato
al locatore un assegno non andato a buon fine, circostanza questa che non poteva trovare alcuna giustificazione nell’asserita convinzione del conduttore-ricorrente che la banca lo avrebbe pagato ugualmente).
II.
Procedimenti sommari - Per convalida di sfratto per finita locazione - Intimazione di licenza o di sfratto - Per
morosità - Successiva purgazione della mora da parte del conduttore intimato - Gravità del pregresso inadempimento
- Accertamento nell’ambito del giudizio ordinario di risoluzione seguito alla fase sommaria - Ammissibilità
In tema di locazioni, la purgazione della mora, successiva alla domanda di risoluzione insita nell’intimazione di sfratto per morosità, non è ostativa, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 1453 Codice civile, all’accertamento della gravità del pregresso inadempimento nell’ambito del giudizio ordinario che
a tal fine prosegua successivamente al pagamento dei canoni scaduti da parte dell’intimato.
Svolgimento del processo
on sentenza in data 19 giugno-13 agosto 2001 il
Tribunale di Taranto dichiarava risolto per inadempimento il contratto di locazione intercorso
per uso commerciale tra il proprietario G. L. e la conduttrice E. P. per inadempimento di quest’ultima, che
condannava al rilascio dell’immobile.
Con sentenza in data 27 marzo-23 aprile 2002, la Corte
d’Appello di Lecce - Sezione distaccata di Taranto - rigettava l’appello della soccombente, che condannava al
pagamento delle ulteriori spese processuali.
La Corte territoriale osservava che l’esito negativo del-
C
l’assegno con cui erano stati «pagati» i canoni novembre-dicembre 1999 bastava a concretare il grave inadempimento. Aggiungeva che il canone, da corrispondersi anticipatamente per ciascun mese, era stato materialmente corrisposto per due mensilità solo dopo la notificazione dell’intimazione di sfratto; che la polizza contro gli incendi era stata sottoscritta in ritardo; che vi erano questioni anche in relazione alle spese di registrazione del contratto e alle spese di fogna; che l’evoluzione
non lineare del rapporto era dimostrato dalle raccomandate prodotte dall’appellato.
Avverso la suddetta sentenza la P. ha proposto ricorso
I CONTRATTI N. 7/2006
645
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
per cassazione affidato ad un unico motivo, mediante il
quale eccepisce vizio di motivazione circa la gravità, ove
sussistente, degli asseriti inadempimenti.
Il L. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
a P. sostiene che la Corte d’Appello, dopo avere
accolto l’istanza di inibitoria, peraltro in armonia
con l’ordinanza del Tribunale che già aveva respinto l’istanza della controparte di emissione del provvedimento di rilascio provvisorio dell’immobile, si è
contraddetta rigettando immotivatamente il proprio
gravame.
Osserva la Corte che non è giuridicamente e razionalmente configurabile alcuna contraddizione tra un provvedimento emesso dal giudice di appello in sede di cognizione sommarla e ignorando la motivazione della
sentenza impugnata, depositata solo successivamente, e
la decisione finale pronunciata dal medesimo giudice in
esito all’esame completo delle questioni prospettate e
delle risultanze processuali.
Meno che mai è ipotizzabile una situazione di contraddittorietà tra provvedimenti emessi in gradi diversi, essendo fisiologico che il giudice di grado superiore possa
modificare la decisione adottata nel grado precedente.
Quanto alla sufficienza della motivazione, contestata
dalla ricorrente, è decisivo rilevare la Corte territoriale
ha indicato le ragioni del proprio convincimento e ciò
basta a soddisfare l’onere motivazionale.
La P. sottopone all’attenzione della Corte anche il tema
della gravità dell’inadempimento, che però è di esclusiva
pertinenza del giudice di merito.
È noto (Cass. n. 19652 del 2004) che, in tema di risoluzione contrattuale per inadempimento, la valutazione, ai
sensi e per gli effetti dell’art. 1455 Codice civile, della
non scarsa importanza dell’inadempimento deve ritenersi implicita ove l’inadempimento stesso si sia verificato con riguardo alle obbligazioni primarie ed essenziali del contratto, ovvero quando dal complesso della motivazione emerga che il giudice lo ha considerato tale da
incidere in modo rilevante sull’equilibrio negoziale.
In particolare (Cass. n. 14234 del 2004), qualora l’inadempimento sia accertato con riguardo alle obbligazioni
primarie ed essenziali del contratto, quale, in ipotesi di
locazione, quella di pagamento dei canoni dovuti, la valutazione della non scarsa importanza dell’inadempimento, ai sensi ed agli effetti dell’art. 1455 Codice civile, che è valutazione riservata al giudice di merito, deve
ritenersi implicita.
Peraltro (Cass. n. 14527 del 2002) la purgazione della
mora, successiva alla domanda di risoluzione insita nell’intimazione di sfratto, non è ostativa, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 1453 Codice civile, all’accertamento della gravità del pregresso inadempimento nell’ambito del giudizio ordinario che a tal fine prosegua dopo il
pagamento dei canoni scaduti da parte dell’intimato.
La Corte territoriale ha correttamente applicato questi
L
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I CONTRATTI N. 7/2006
principi e, nell’esprimere il proprio apprezzamento di
merito, ha fatto leva sulla considerazione che, sebbene il
contratto prevedesse il pagamento anticipato del canone mensile, la P. corrispose il pagamento di due mensilità
solo dopo la notificazione della intimazione di sfratto e
che in precedenza aveva consegnato un assegno non andato a buon fine, circostanza che non trova giustificazione alcuna nell’asserita convinzione della ricorrente che
la banca lo avrebbe pagato ugualmente.
Inoltre la Corte d’Appello, seppure in modo criptico, ha
tenuto conto anche di altre inadempienze minori che,
valutate unitamente all’inadempienza principale, ne
hanno rafforzato il convincimento circa l’importanza
dell’inadempimento nella valutazione sinallagmatica
delle rispettive prestazioni contrattuali e, quindi, della
sua gravità.
Trattasi di un valutazione di merito sufficientemente
motivata e, quindi, non suscettibile di censura in questa
sede.
Ne consegue che il ricorso va rigettato con aggravio per
la parte soccombente delle relative spese, che vengono
liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare al resistente le spese del giudizio di cassazione, che liquida in
complessivi euro 1.600,00, di cui euro 1.500,00 per onorari oltre spese generali o accessori di legge.
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
IL COMMENTO
di Viviana Mancinelli
L’Autore commenta la decisione in esame analizzando
i criteri di valutazione della gravità dell’inadempimento, ai fini della risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive, alla luce dell’interpretazione giurisprudenziale della norma contenuta nell’art. 1455 Codice civile. Dopo aver trattato la questione dell’applicabilità della predeterminazione legale della gravità
dell’inadempimento del conduttore ai contratti di locazione di immobili destinati ad uso non abitativo, si
sofferma sugli effetti della sanatoria della morosità,
intervenuta successivamente all’intimazione di sfratto per morosità, sulla valutazione dell’importanza dell’inadempimento.
Il caso
Oggetto della controversia in esame è un contratto
di locazione immobiliare per uso commerciale, dichiarato risolto dal giudice di primo grado per inadempimento
del conduttore. Avverso la sentenza del Tribunale di Taranto la parte soccombente proponeva appello, che veniva puntualmente rigettato dalla Corte d’Appello territoriale, a giudizio della quale l’inadempimento posto in essere dal conduttore dell’immobile locato presentava
quella non scarsa importanza richiesta a norma dell’art.
1455 Codice civile, ai fini della risoluzione del contratto.
In concreto, difatti, l’appellante aveva pagato un
canone di locazione con assegno non andato a buon fine, ed inoltre aveva corrisposto al locatore due mensilità
solo successivamente alla notificazione dell’atto di intimazione di sfratto, benché il contratto prevedesse il pagamento anticipato del canone mensile.
La questione anzidetta veniva sottoposta al giudizio
della Corte di Cassazione, che, nel confermare la decisione del Giudice d’Appello, afferma dei principi, per la
verità in parte già espressi in precedenti giudicati, dai
quali prendono le mosse le considerazioni che seguono.
Gravità dell’inadempimento tra discrezionalità
del giudice, predeterminazione legale
e criteri di riferimento
La S.C., nel giudicare correttamente ed esaurientemente motivata la decisione dei giudici d’Appello, dalla
quale pertanto non si discosta, precisa, in maniera puntuale e doverosa, che il tema della gravità dell’inadempimento contrattuale resta di esclusiva pertinenza del giudice di merito. In tal senso, la giurisprudenza sulla questione
è ormai consolidata (1), tanto che è la stessa Corte a citare sue precedenti pronunce (2), in cui ha avuto modo di
ribadire che l’apprezzamento del giudice di merito sulla
sussistenza di elementi comprovanti l’inadempimento e la
sua gravità nel quadro dell’economia contrattuale, impli-
cando la risoluzione di questioni di fatto, è insindacabile
in Cassazione se immune da errori logici o giuridici.
La S.C. in una recente decisione si è spinta anche
oltre tale principio, affermando che «anche in difetto di
un’espressa indagine diretta a qualificare la gravità dell’inadempimento, l’obbligo del giudice di merito di accertare l’importanza dell’inadempimento medesimo deve
ritenersi assolto ove dal complesso della motivazione
emerga che quel giudice lo ha considerato tale da incidere in modo rilevante sull’equilibrio negoziale, enunciando gli elementi del proprio convincimento» (3).
Ai sensi e per gli effetti dell’art. 1455 Codice civile
la risoluzione del contratto prevista dall’art. 1453 Codice civile, quale rimedio offerto alla parte non inadempiente nei contratti a prestazioni corrispettive, non può
essere pronunziata in presenza di qualsiasi inadempimento (4). Il legislatore richiede espressamente che l’inadempimento sia di non scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra parte. Dalla norma in esame discendono diverse problematiche, sulle quali si rendono necessarie alcune considerazioni (5).
Note:
(1) Fra le pronunce più recenti si segnalano: Cass. 7 marzo 2005, n. 4949,
in Guida dir., 17, 45; Cass. 27 febbraio 2004, n. 4033, in Guida dir., 2004,
15, 73, in cui si stabilisce appunto che «In materia di risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive il giudizio sull’importanza dell’inadempimento di cui all’art. 1455 del c.c. costituisce questione di fatto, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito ed è
incensurabile in sede di legittimità, se sorretta da una motivazione congrua e immune da vizi logici e giuridici»; Cass. 25 novembre 2002, n.
16579, in Arch. civ., 2003, 956; Cass. 4 gennaio 2002, n. 59, in Giust. civ.,
2002, I, 1261; Cass. 26 luglio 2002, n. 11055, in Arch. civ., 2003, 553.
(2) Si vedano Cass. 1 ottobre 2004, n. 19652, in Guida dir., 2004, 46, 85
nonché Cass. 28 luglio 2004, n. 14234, in Arch. locaz., 2004, 742.
(3) Così Cass. 31 maggio 2005, n. 11603, in Guida dir., 2005, 26, 38.
(4) Per un approfondimento dell’ampio tema della risoluzione del contratto per inadempimento si vedano tra gli altri G. G. Auletta, La risoluzione per
inadempimento, Milano, 1942; A. Belfiore, Risoluzione del contratto per inadempimento, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 1307; R. Sacco, Risoluzione per
inadempimento, in Dig. Civ., XVIII, Utet, 1998, 56; Spallarossa La risoluzione del contratto per inadempimento, in Giur. sist. civ. comm., IV, 2, Torino,
1991; G. Alpa e M. Bessone, I contratti in generale, II, IV, Effetti, invalidità e
risoluzione del contratto, Torino, 1990; Carnevali, Costanza, Luminoso, Risoluzione per inadempimento, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca,
artt. 1453-1454, 1990.
(5) Sull’argomento già un ventennio fa V. Ricciuto, Il recente orientamento della Cassazione sui criteri di valutazione dell’importanza dell’inadempimento, commento a Cass. 28 giugno 1986, n. 43111, in Riv. dir. comm., 1987,
451, metteva in luce che «la laconicità della norma di cui all’art. 1455 codice civile ha spesso determinato indirizzi giurisprudenziali in cui la definizione del concetto di <interesse dell’altra parte> è stata caratterizzata
da elementi assai singolari ed eterogenei, assumendo rilevanza aspetti e
profili a volte non giustificabili su un piano squisitamente giuridico».
L’Autore riporta inoltre l’assunto di Spallarossa, Importanza dell’inadempimento e risoluzione del contratto, in Riv. dir. civ., 1972, II, 640, per una interessante disamina sui criteri assunti dalla giurisprudenza in sede di applicazione dell’art. 1455 Codice civile.
I CONTRATTI N. 7/2006
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GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
Come è stato efficacemente osservato, il concetto
di gravità è un parametro non del tutto oggettivo, ma
neppure completamente astratto (6). Tale premessa è indispensabile per comprendere le ragioni per le quali si sono alternate in dottrina e giurisprudenza diverse teorie
sui criteri, alla stregua dei quali va commisurata la condotta inadempiente, perché sia qualificata come grave.
A ben vedere, però, un primo punto fermo viene segnato dalla sentenza in commento, in tal senso non isolata, laddove si riconosce carattere implicito alla valutazione della non scarsa importanza dell’inadempimento,
in ipotesi in cui l’inadempimento stesso sia accertato
con riguardo alle obbligazioni primarie ed essenziali del
contratto (7).
La fattispecie dalla quale si origina la decisione in
commento rappresenta una concreta applicazione di tale principio, dal momento che al pagamento del canone
di locazione va certamente riconosciuta la natura di obbligazione primaria ed essenziale del contratto stesso, come previsto dall’art. 1587 Codice civile (8).
Ciò detto, non si può però non rilevare che a stretto rigore di norma, al giudice non viene fornita alcuna
indicazione specifica su come orientarsi nel giudizio di
gravità dell’inadempimento che, ragionando in questi
termini, risulta pertanto rimesso alla discrezione del giudicante (9), pur con le dovute eccezioni.
Difatti per talune tipologie contrattuali il legislatore ha provveduto a predeterminare la gravità dell’inadempimento che dà luogo alla risoluzione giudiziale del
contratto; nella specie, in tema di locazioni di immobili
urbani, la disciplina dell’inadempimento del conduttore,
relativamente al pagamento del canone, è dettata dagli
artt. 5 e 55 Legge 27 luglio 1978, n. 392, sulla quale si
avrà modo di tornare successivamente (10).
La giurisprudenza più risalente, sostenuta in parte
da certa autorevole Dottrina, ha in un primo momento
individuato nella volontà presunta delle parti il parametro di valutazione dell’importanza dell’inadempimento,
così riconoscendo al comportamento delle parti una rilevanza determinante ai fini del giudizio di gravità. Tale
impostazione, che privilegia una valutazione soggettivista, si basa principalmente sulla formulazione letterale
dell’art. 1455 Codice civile, che pone come unico parametro di riferimento proprio l’interesse della parte non
inadempiente (11).
È necessario però evidenziare che tale formulazione
non è stata immune da critiche o dubbi, dal momento
che, come è stato sostenuto, ancorando il giudizio di gravità dell’inadempimento unicamente a criteri soggettivi,
si corre il rischio di consentire alla parte adempiente di
ottenere una pronuncia di risoluzione giudiziale, invocando semplicemente la lesione soggettiva del suo interesse (12).
In contrasto rispetto alla teoria c.d. soggettiva ed ai
limiti ad essa connaturati, ha trovato largo spazio in giurisprudenza una teoria che potrà dirsi oggettiva, poiché
assume quale metro di valutazione della gravità le circo-
648
I CONTRATTI N. 7/2006
stanze oggettive presenti al momento dell’inadempimento ed alla loro incidenza sull’equilibro del rapporto e
sull’economia contrattuale, ponendosi, pertanto, la norma contenuta nell’art. 1455 Codice civile come una regola di proporzionalità (13).
I giudici di legittimità, nel tentativo di interpretare
il dettato dell’art. 1455 Codice civile, dopo aver alternato pronunce ora fedeli all’impostazione soggettiva, ora a
quella oggettiva, hanno elaborato e accolto una tesi per
così dire intermedia (14), secondo la quale la gravità dell’inadempimento deve essere accertata sulla base di un
criterio relativo, idoneo a consentire di coordinare la valutazione dell’elemento obiettivo della mancata prestaNote:
(6) Così G. Nardelli, nota a Cass. 17 febbraio 2004, n. 3002, in Giur. it.,
2005, 712.
(7) Vedi Cass. 1 ottobre 2004, n. 19652, in Impresa, 2005, 1, 114; Cass. 6
novembre 2002, n. 15553, in Arch. civ., 2003, 956; App. Bari 12 gennaio
1982, in Corti di Bari, 1982, 390, con nota di Paparella.
(8) Sul punto si vedano fra le altre Cass. 28 luglio 2004, n. 14234, in Arch. locaz., 2005, 84; Cass. 7 ottobre 1998, n. 9913, in Arch. locaz., 1999,
91, Trib. Napoli 3 ottobre 1988, in Arch. locaz., 1989, 101.
(9) Come rileva Dalmartello, voce Risoluzione del contratto, in Noviss.
Dig. it., XVI, Torino, 1969, 133: «La valutazione dell’importanza dell’inadempimento è rimessa al giudizio discrezionale del giudice: è perciò
uno di quei casi in cui il diritto non risolve, perché non può risolvere, in
termini generali ed aprioristici il problema, ma deve fare ricorso a quell’estremo e delicato criterio che è l’equità del giudice».
(10) Fra tutti si veda G. Bernardi, L’inadempimento del conduttore, in Il contratto di locazione, a cura di S. Patti, in Giur. sist. civ. e comm., Torino,
1996, 151.
(11) In Cass. 22 maggio 2001, n. 6951, in Foro pad., 2001, I, 505, con nota di Maniàci, la S.C. ritiene che «il criterio stabilito dall’art. 1455 del
Codice civile...impone un apprezzamento complessivo del comportamento del contraente, la cui gravità va commisurata non all’entità del
danno prodotto, ma alla rilevanza delle violazioni contrattuali commesse, considerando anche l’interesse della parte incolpevole», nonché Cass.
7 giugno 1993, n. 6367, in Giur. it, 1994, I, 1, 1209, con nota di De Michel.
(12) Così Scognamiglio, in I Contratti in generale, in Trattato di diritto civile, diretto da Grosso-Santoro Passatelli, Milano, 1972, 273.
(13) Cfr. da ultimo Cass. 21 luglio 2004, n. 13601, in Guida dir., 2004, 43,
40, in cui la S.C. afferma che «Con riguardo alla disciplina della risoluzione per inadempimento dei contratti a prestazione corrispettive, il disposto dell’art. 1455 del codice civile pone una regola di proporzionalità,
in virtù della quale la risoluzione del vincolo contrattuale è collegata unicamente all’inadempimento delle obbligazioni che abbiano una notevole rilevanza nell’economia del rapporto, per la cui valutazione, occorre
tener conto dell’esigenza di mantenere l’equilibrio tra prestazioni di eguale peso, talché l’importanza dell’inadempimento non deve essere intesa in
senso subiettivo, in relazione alla stima che la parte creditrice abbia potuto fare del proprio interesse, violato, ma in senso obiettivo, in relazione
cioè all’attitudine dell’inadempimento a turbare l’equilibrio contrattuale
e a reagire sulla causa del contratto e sul comune intento negoziale», ed
in senso del tutto conforme Cass. 14 giugno 2001, n. 8063, in Studium Juris, 2002, 97, nonché Cass. 26 luglio 2002, n. 11055, in Arch. locaz., 2003,
203. In dottrina Mosco, La risoluzione per inadempimento, Napoli, 1950,
48; Mirabelli, Dei contratti in generale, in Commentario del codice civile, IV,
II, Torino, 1958, 475; Distaso, I contratti in generale, II, Utet, Torino, 1966,
1183; Giogianni, L’inadempimento, 1982; Smiroldo, Profili della risoluzione
per inadempimento, Milano, 1982.
(14) Ex multis Cass. 10 settembre 1991, n. 9485, in Giur. it., 1992, I, 1,
1081.
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
zione nel quadro dell’economia generale del negozio,
con gli elementi soggettivi, costituiti principalmente dal
comportamento della controparte e dall’interesse di
questo ad un esatto adempimento nel termine pattuito
(15).
In conclusione dunque, secondo tale teoria, la gravità dell’inadempimento va accertata seguendo dei criteri relativistici, che tengano conto tanto di elementi
obiettivi, connessi allo squilibrio prodotto al sinallagma
negoziale, quanto di elementi di carattere soggettivo
(16).
Segue: grave inadempimento del conduttore
nei contratti di locazione immobiliare
Anche la risoluzione per morosità del contratto di
locazione soggiace al principio generale sancito dall’art.
1455 Codice civile, con le dovute precisazioni. In materia di locazioni, la figura che con maggior frequenza si
presenta nella pratica è quella dell’inadempimento del
conduttore alle proprie obbligazioni.
In varie pronunce, aventi ad oggetto fattispecie
analoghe a quella di cui si tratta, si è riconosciuto che
l’omesso pagamento dei canoni dovuti alla scadenza pattuita, rappresentando inadempimento ad una obbligazione primaria ed essenziale del contratto, non rende necessaria una valutazione specifica della gravità dell’inadempimento, poiché essa è implicita nella circostanza
stessa del mancato pagamento (17).
Tuttavia non è escluso che il mancato pagamento
del canone, pur costituendo inadempimento ad un’obbligazione principale del contratto, in concorso con determinate circostanze che il giudice può apprezzare discrezionalmente, possa essere considerato inadempimento di scarsa importanza (18).
La Legge n. 392/1978 in materia di locazioni di immobili urbani (c.d. Legge sull’equo canone), prevede
nell’art. 5 che «il mancato pagamento del canone, decorsi venti giorni dalla scadenza prevista, ovvero il mancato pagamento, nel termine previsto, degli oneri accessori quando l’importo non pagato superi quello di due
mensilità del canone, costituisce motivo di risoluzione,
ai sensi dell’articolo 1455 del Codice civile». Tale norma, come già sottolineato, avendo introdotto una valutazione legale tipica della gravità dell’inadempimento,
esclude che il giudice, nelle ipotesi in cui potrà trovare
applicazione, possa effettuare l’indagine sulla non scarsa
importanza dell’inadempimento (19). Resta invece disciplinata dall’art. 55 della citata Legge la sanatoria della morosità del conduttore.
Non è tuttora del tutto pacifica la questione della
applicabilità della predeterminazione legale della gravità
dell’inadempimento ai fini della risoluzione del contratto, così come formulata dall’art. 5, alle locazioni di immobili destinati ad uso diverso dall’abitazione. Da una
disamina delle sentenze di legittimità sulla questione,
non è dato infatti scorgere una uniformità di voci.
Da un lato, vi è un orientamento giurisprudenziale
in via di consolidamento che in modo rigoroso esclude
che la disciplina della predeterminazione legale dell’inadempimento che possa giustificare la risoluzione del
contratto si estenda anche alle locazioni ad uso non abitativo, per le quali quindi continua ad operare il criterio
della non scarsa importanza dell’inadempimento stabilito dall’art. 1455 Codice civile (20).
Note:
(15) Così Cass. 7 giugno 1993, n. 6367, in Giur. it., 1994, I, 1209, ed inoltre tra le prime pronunce Cass. 28 marzo 1995, n. 3669, in Mass. Giur. it.,
1995, 710; Cass. 29 settembre 1994, n. 7937, in Giur. it., 1995, I, 1, 1010;
Cass. 6 giugno 1997, n. 5086, in Nuova giur. comm., 1998, 201; ed invero, di recente Cass. 19 agosto 2003, n. 12112, in Guida dir., 2003, 38, 75,
in cui la Corte stabilisce che «Per la risoluzione di un contratto a prestazione corrispettive la gravità dell’inadempimento di una parte deve essere accertata avuto riguardo sia all’entità oggettiva di esso, sia al protrarsi
dei suoi effetti, sia alla natura e alla finalità del rapporto, sia all’economia
complessiva della convenzione sia, infine, all’interesse che l’altra parte
intende realizzare», ed ancora si veda Cass. 6 aprile 2000, n. 4317, in
Corr. giur., 2000, 1338, con nota di De Giorgi. Tale impostazione «intermedia» ha trovato diversi sostenitori in dottrina, si vedano pertanto R.
Sacco, op. cit., 61; Dalmartello, in Risoluzione del contratto, in Novissimo
Dig. it., XVI, Torino, 1969, 133; A. Belfiore, op. cit., 1322.
(16) Cfr. Cass. 5 settembre 1966, n. 2319, in Foro pad., 1967, I, 966.
(17) Così App. Bari 12 gennaio 1982, in Corti di Bari, 1982, 390, con nota di Paparella, ed in senso conforme Cass. 28 luglio 2004, n. 14234, in
Arch. locaz., 2005, 84, nonché Trib. Palermo 2 marzo 2004, in Arch. locaz., 2005, 72 in cui: «In tema di locazioni non abitative, la condotta del
conduttore il quale non abbia versato nei termini pattuiti ben quattro canoni di locazione (pari a 1/3 dell’importo dovuto annualmente}, provvedendo a pagare solo dopo aver costretto il locatore a promuovere procedimento giudiziale di sfratto per morosità e che, in passato, non abbia rispettato reiteratamente le scadenze contrattuali sebbene diffidato in tal
senso, valutata in relazione all’interesse concreto del proprietario ad un
puntuale adempimento, ben vale ad integrare gli estremi dell’inadempimento ex art. 1455 codice civile, idoneo a giustificare la risoluzione del
contratto».
(18) Cass. 4 agosto 2000, n. 10239, in Arch. locaz., 2005, 92.
(19) Contro tale assunto si vedano Pret. Marano di Napoli 10 novembre
1982, in Arch. locaz., 192, 744: «In caso di morosità del conduttore nel
pagamento del canone, poiché l’art. 5 l. 392/78 non ha introdotto un’ipotesi di presunzione assoluta della gravità dell’inadempimento ai fini
della risoluzione del contratto di locazione, resta fermo il potere-dovere
del giudice di accertare in concreto la gravità dell’inadempimento, ai sensi dell’art. 1455 c.c.», e più recentemente Cass. 12 maggio 1999, n. 4688,
in Arch. locaz., 2005, 92, in cui la Corte stabilisce che: «In tema di risoluzione per inadempimento di locazione ad uso non abitativo, per la quale non trova applicazione l’art. 5 della l. n. 392 del 1978 sulla predeterminazione legale della gravità dell’inadempimento, nel caso di morosità
nel pagamento del canone (e degli oneri accessori), non può reputarsi automaticamente sussistente la gravità sol perché l’inadempimento incide
su una delle obbligazioni primarie scaturenti dal contratto, dovendosi invece accertare la gravità in concreto, cioè l’idoneità a ledere in modo rilevante l’interesse contrattuale del locatore, a sconvolgere l’intera economia del rapporto e a determinare un notevole ostacolo alla prosecuzione del medesimo».
(20) Cass. 4 agosto 2000, n. 10239, in Arch. locaz., 2005, 92; App. Bari 5
maggio 2001, in Giur. mer., 2002, 721; Cass. s.u. 28 aprile 1999, n. 272,
in Foro it., 1999, I, 1774, in cui la Corte afferma che: «Nel regime ordinario delle locazioni urbane fissato dalla l. n. 392 del 1978, la disciplina
di cui all’art. 55 relativa alla concessione di un termine per il pagamento
dei canoni locatizi scaduti e per la sanatoria del relativo inadempimento
non opera in tema di contratti aventi ad oggetto immobili destinati ad
uso diverso da quello abitativo. Ed, infatti, il legislatore, nel dettare la disciplina della sanatoria in questione, non si è limitato a prevedere in ge(segue)
I CONTRATTI N. 7/2006
649
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
La ratio di tale esclusione, secondo una recente decisione della S.C., si desume: «a) dalla collocazione testuale della norma nell’ambito del Capo I («Locazione
di immobili adibiti ad uso di abitazione») del Titolo I
(«Del contratto di locazione») della suindicata Legge n.
392/1978, mentre le locazioni ad uso diverso da abitazione sono disciplinate al Capo II del medesimo Titolo I; b)
dall’essere i due diversi tipi contrattuali a loro volta distinti in sottotipi, con differente disciplina in ragione dei
differenti interessi tutelati; c) dal non risultare il citato
art. 5 indicato nell’art. 41 tra quelli applicabili alle locazioni ad uso diverso da abitazione; d) dal non essere stata la norma in questione, diversamente da numerose altre, espressamente abrogata dalla Legge n. 431/1998; e)
dal non potersi l’applicazione estensiva dell’art. 5 farsi
discendere dalla parziale liberalizzazione del canone di
locazione introdotta dalla detta Legge n. 431/1998 per le
locazioni ad uso abitativo» (21).
Del resto, anche la possibilità di sanare la morosità
nei contratti di locazione di immobili, stipulati per uso
non abitativo, sembra essere esclusa da una parte della
giurisprudenza (22).
In misura minoritaria, ma non per questo irrilevante, si attesta qualche decisione in cui si considera applicabile anche alle locazioni di immobili destinati ad uso
non abitativo l’art. 5 della Legge n. 392/1978 (23), nonché la sanatoria giudiziale della morosità ex art. 55 della
stessa Legge (24).
Da ultimo va rilevato che non sono mancate decisioni in cui il giudice di legittimità, pur partendo dalla
considerazione che la predeterminazione legale non fosse direttamente applicabile alle locazioni di immobili
destinati ad uso non abitativo, tuttavia ha prospettato la
possibilità che tale criterio legale sia preso in considerazione come parametro di orientamento per valutare in
concreto a norma dell’art. 1455 Codice civile, se l’inadempimento del conduttore sia stato o no di scarsa importanza (25).
Sanatoria della morosità, giudizio di risoluzione
del contratto e valutazione della gravità
del pregresso inadempimento
Vivace e per niente sopito è il dibattito in dottrina e
giurisprudenza in merito alla possibilità per la parte inadempiente, di adempiere validamente l’obbligazione dedotta nel contratto, in un momento successivo alla proposizione della domanda giudiziale di risoluzione del contratto (26), stante la norma dettata dall’art. 1453, terzo
comma, Codice civile che letteralmente dispone che
«Dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente
non può più adempiere la propria obbligazione» (27).
Come osservato in una decisione risalente della
S.C. «Il divieto per il debitore di adempiere la propria
obbligazione dopo la proposizione della domanda di risoluzione non è assoluto, in quanto, basandosi sulla mancanza di interesse del creditore ad ottenere l’adempimento, presuppone il fondamento della domanda di ri-
650
I CONTRATTI N. 7/2006
soluzione; di conseguenza, qualora la domanda non sia
fondata, lo stesso debitore non è esonerato dall’obbligo
di adempiere, potendo il suo persistente atteggiamento
negativo riflettersi sulla valutazione del comportamento
pregresso, trasformando il precedente inadempimento
“non grave” in inadempimento “grave”, e perciò tale da
legittimare l’accoglimento della domanda» (28).
Note:
(segue nota 20)
nere che il conduttore convenuto per la risoluzione del contratto possa
evitare tal effetto pagando, nell’ultimo termine consentitogli, tutto quanto da lui dovuto per canoni ed oneri ed accessori, ma ha limitato la portata della sua previsione al solo ambito delle ipotesi di inadempimento da
morosità descritte e prese in considerazione dall’art. 5 della stessa legge, di
tal che è la stessa disposizione di cui all’art. 55 - la quale risulta inclusa tra
quelle di natura processuale, le quali, di per sé, non sono idonee a dilatare l’ambito di applicazione di una norma di natura sostanziale - a delineare la limitazione del suo ambito di applicazione alle sole locazioni abitative»; Cass. 22 ottobre 2002, n. 14903, in Guida dir., 2003, 1, 85; Cass. 21
maggio 1992, 6124, in Rass. equo canone, 1992, 258; Cass. 16 luglio 1986,
n. 4600, in Foro it., 1987, I, 11.
(21) Cass. 10 giugno 2005, n. 12321, in Arch. locaz., 2006, 1, 77.
(22) Cfr. Cass. 28 febbraio 1992, n. 2496, in Vita not., 1992, 1195.
(23) Cass. 19 novembre 1994, n. 9805, in Arch. locaz., 1995, 69, ma anteriormente Cass. 23 novembre 1987, n. 8605, in Foro it., 1998, 420, con
nota di Piombo nonché in Corr. giur., 1988, 41, con nota di Carbone;
Trib. Brescia 15 aprile 2003, in Mass. Trib. Brescia, 2004, 148, in cui si riconosce che i criteri dettati dall’art. 5 della Legge n. 392/1978 per la predeterminazione legale della gravità dell’inadempimento nelle locazioni
abitative possono trovare applicazione, in via analogica, anche per le locazioni di immobili adibiti ad uso diverso, ed ancora Cass. 15 marzo 1991,
n. 2772, in Riv. giur. edil., 1991, I, 574.
(24) Così Trib. Bassano del Grappa 2 dicembre 1999, in Foro it., 2000, I,
2091 in cui si stabilisce che «In seguito all’entrata in vigore della l. n. 431
del 1998, che ha fatto venire meno anche per le locazioni abitative il
principio della determinazione legale del canone, lasciando tuttavia in vigore il disposto degli art. 5 e 55 l. n. 392 del 1978, l’istituto della sanatoria giudiziale della morosità, previsto da quest’ultima norma, deve ritenersi applicabile anche con riferimento alle locazioni di immobili adibiti
ad uso diverso dall’abitazione», ed inoltre Cass. 27 novembre1986, n.
6995, in Giur. it., 1987, I, 1, 1396.
(25) Cass. 4 febbraio 2000, n. 1234, in Arch. locaz., 2005, 92; Cass. 29
novembre 1994, n. 10202, in Rass. loc. condom., 1995, 220 con nota di
Guida; Cass. 27 febbraio 1995, n. 2232, in Giur. it., I, 1, 528, in cui «In tema di locazioni di immobili adibiti ad uso diverso dall’abitazione, pure
ammessa l’operatività dell’art. 55 l. n. 392 del 1978, per la valutazione
della gravità dell’inadempimento del conduttore nel pagamento del canone e degli oneri accessori, non trova applicazione il principio della predeterminazione legale stabilito dall’art. 5 della stessa legge con riferimento alle locazioni abitative, ma continuano a valere i comuni criteri di cui
all’art. 1455 c.c., salva la facoltà del giudice di utilizzare il principio di cui
all’art. 5 cit. come criterio orientativo del proprio giudizio circa la gravità
dell’inadempimento, alla stregua della particolarità del caso concreto»;
Cass., s.u., 28 dicembre 1990, n. 12210, in Rass. equo canone, 1991, 346.
(26) Sull’impossibilità di adempiere l’obbligazione dopo la domanda di risoluzione giudiziale del contratto, secondo il disposto dell’art. 1453, terzo
comma, Codice civile, si veda tra le altre Cass. 14 agosto 1986, n. 5050,
in Foro it., 1987, I, 93, con nota di Straziata.
(27) Nell’ampia letteratura sull’argomento, si vedano tra gli altri R. Miccio, La Locazione, in Giur. sist. civ. comm., Torino, 1967, 109, ed ancora
Bernardi, op. cit., 170.
(28) Così Cass. 29 agosto 1990, n. 8955, in Nuova giur. civ. comm., 1991,
I, 188, con nota di D’Angiolella.
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
La questione è quanto mai interessante, dal momento che occorre chiarire allora, se ed in che modo i
comportamenti posti in essere dell’inadempiente, nel
caso di specie il conduttore dell’immobile locato, successivi alla proposizione della domanda di risoluzione giudiziale del contratto, possano essere valutati ai fini del giudizio sulla gravità dell’inadempimento.
La Corte, nella seconda parte della decisione, affronta la questione, affermando che la purgazione della
mora, successiva alla domanda di risoluzione insita nell’intimazione di sfratto per morosità, non è ostativa, ai
sensi dell’ultimo comma dell’art. 1453 Codice civile, all’accertamento della gravità del pregresso inadempimento nell’ambito del giudizio ordinario che a tal fine
prosegua successivamente al pagamento dei canoni scaduti da parte dell’intimato (29).
Dall’orientamento giurisprudenziale consolidato
emerge come vi sia autonomia tra il giudizio di risoluzione del contratto, nell’ambito del quale rileva la valutazione della gravità dell’inadempimento, e l’eventuale
adempimento tardivo offerto in seguito alla notifica dell’atto intimazione di sfratto per morosità (30). Secondo
tale impostazione, allora, una volta sanata la morosità, il
giudizio prosegue con il rito ordinario, e pertanto il giudice non può esimersi dal valutare l’inadempimento pregresso della parte, a nulla rilevando il comportamento
successivo alla proposizione dell’atto di citazione per
convalida di sfratto (31).
Diversamente, in ciò rilevando un contrasto giurisprudenziale attuale, in altre pronunce la Corte di Cassazione ha affermato che, ai fini dell’emissione della richiesta pronunzia costitutiva di risoluzione del contratto
per morosità, il giudice deve valutare la gravità dell’inadempimento del conduttore anche alla stregua del suo
comportamento dell’inadempiente successivo alla proposizione della domanda (32).
Secondo tale orientamento, l’adempimento contrattuale successivo alla proposizione della domanda di
risoluzione del contratto, pur non arrestando il giudizio,
va preso in esame dal giudice, poiché può costituire circostanza decisiva a rendere l’inadempimento di non
scarsa importanza, precludendo addirittura la possibilità
di risolvere il contratto (33).
Osservazioni conclusive
A conclusione di questa disamina delle principali
problematiche sottese alla previsione normativa di cui
all’art. 1455 Codice civile, ed in particolare in tema di
contratti di locazione, muovendo dalla sentenza in commento, si può constatare che gli orientamenti della giurisprudenza e della dottrina più attenta non sono coerenti ed uniformi.
Tuttavia, in merito alla risoluzione dei contratti a
prestazione corrispettive, in termini generali, appare
condivisibile quella l’impostazione «intermedia», che,
nell’ambito del giudizio di non scarsa importanza dell’inadempimento, ai fini della dichiarazione giudiziale di
risoluzione del contratto, suggerisce al giudice un bilanciamento di diversi fattori, taluni di carattere soggettivo,
altri di natura oggettiva.
Sotto l’ulteriore profilo dell’incidenza della speciale
sanatoria della morosità sulla valutazione che il giudice
deve effettuare, ai fini della decisione sulla domanda di
risoluzione del contratto, si può riconoscere che la sentenza in commento sia coerente tanto con la natura e la
funzione dell’istituto ex art. 55 della Legge sull’equo canone, quanto con la disciplina della risoluzione del contratto per grave inadempimento, secondo il combinato
disposto degli artt. 1453 e 1455 Codice civile.
Note:
(29) In senso assolutamente conforme Cass. 11 ottobre 2002, n. 14527,
in questa Rivista, 2003, 3, 287; Cass. 25 ottobre 1980, n. 3758, in Arch.
civ., 1981, 127; Cass. 25 ottobre 1980, n. 558, in Arch. locaz., 1981, 224.
(30) Cass. 10 aprile 2000, n. 4505, in Giur. it., 2001, 477 «La facoltà del
conduttore di sanare la morosità ai sensi dell’art. 55 l. 27 luglio 978 n. 392
nel corso del procedimento per convalida di sfratto di cui all’art. 658
c.p.c. non è preclusa dalla precedente instaurazione, da parte del locatore, di un ordinario giudizio di risoluzione del contratto di locazione per
inadempimento, in quanto ciascun procedimento conserva la sua piena
autonomia e dunque la pendenza del giudizio ordinario di risoluzione per
inadempimento non può provocare il venir meno, nel procedimento speciale, di una legittima facoltà del conduttore».
(31) Trib. Piacenza 11 marzo 2002, in Arch. locaz., 2002, 314; Cass. 4 giugno 2002, n. 8076, in Arch. civ., 2003, 430; App. Bari 5 maggio 2001, in
Giur. mer., 2002, 721, in cui si afferma «Nell’azione di risoluzione del
contratto di locazione di immobile adibito ad uso commerciale a seguito
di grave inadempienza del conduttore ed intimazione di sfratto per morosità, sono applicabili i principi generali in tema di risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive per inadempimento, in ragione dei quali la suddetta risoluzione non può essere impedita dall’eventuale adempimento, successivo però alla proposizione della relativa domanda. La l. n.
392 del 1978, infatti, ha previsto, relativamente ai nuovi contratti, la sanatoria delle morosità esclusivamente per le locazioni ad uso abitativo»;
inoltre App. Bologna 21 febbraio 2001, in Arch. locaz., 2001, 561 in cui:
«Ove il conduttore paghi tardivamente i canoni e gli oneri accessori non
controversi ex art. 666 c.p.c., alla speciale procedura subentra il normale
giudizio di cognizione e riprende vigore il principio generale di cui all’art.
1453 c.c. per il quale la purgazione tardiva della mora non vale ad arrestare gli effetti della domanda di risoluzione per inadempimento, insita
nell’intimazione di sfratto per morosità».
(32) Cass. 2 aprile 2004, n. 6518, in Rass. locaz. condom., 2005, 65.
(33) Cass. 1 giugno 2004, n. 10490, in Impresa, 2004, 1640, ma già Cass.
4 settembre 1991, n. 9358, in Giur. it., 1992, 864, con nota di P. Oddi, ed
ancora Cass. 1 giugno 1993, n. 6121, in Vita not., 1994, 763 in cui si afferma che «Dal momento in cui è proposta la domanda giudiziale di risoluzione del contratto per inadempimento dell’altra parte e fino a quando
non si sia formato il giudicato su questa domanda, il convenuto, sia nel
caso in cui la predetta domanda debba considerarsi fondata sia in quello
opposto, non può più adempiere efficacemente la propria obbligazione
perché l’adempimento è espressamente «vietato» dall’art. 1453 c.c., senza distinzione e limiti di sorta; conseguentemente il giudice, nella valutazione della gravità dell’inadempimento, non può tenere conto del ritardo
ulteriore dovuto alla durata del processo, ma deve decidere valutando la
situazione cristallizzata al momento e per effetto della domanda di risoluzione».
I CONTRATTI N. 7/2006
651
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
Simulazione
Collazione della donazione
dissimulata e limiti probatori
per il coerede legittimario
Tribunale Rimini - Sentenza del 27 dicembre 2005
G.U. Gambitta - G. F. c. G. A.
Contratto in generale - Donazione indiretta - Contratto simulato - Agevolazioni probatorie ex art. 1417 Codice
civile
Ritiene il giudicante come, per giurisprudenza ormai consolidata, sia consentito all’erede che agisce
per la declaratoria della simulazione del contratto posto in essere dal de cuius di giovarsi delle agevolazioni probatorie previste dall’art. 1417 Codice civile. (Massima d’Autore).
Svolgimento del processo
attrice in epigrafe evocava in giudizio, innanzi
all’intestato Tribunale, G.A. per sentirsi accogliere le domande sopra precisate. Esponeva che
essa era coerede della madre G.C., deceduta a Cattolica
il 10 gennaio 1992; che quest’ultima in vita aveva venduto, con rogito regolarmente trascritto, alla figlia naturale G.A. una porzione di fabbricato sito a Cattolica, del
quale venivano forniti i dati identificativi, al prezzo di lire 35 milioni risultante dall’atto stipulato interamente
pagato e quietanzato; che la compravendita era da considerare simulata, preordinata a sottrarre il bene all’asse
ereditario e a pregiudicare i diritti degli altri coeredi; che
per l’esiguità del prezzo rispetto all’effettivo valore nell’operazione si potevano ravvisare gli estremi della simulazione relativa ex art. 1414, secondo comma, Codice civile, dissimulandosi una donazione o una donazione indiretta. Deduceva che, nel caso di donazione dissimulata, l’appartamento doveva essere conferito nell’asse ereditario per così soddisfare i diritti successori di tutti gli
eredi, mentre nell’ipotesi di donazione indiretta il conferimento doveva avere ad oggetto il maggior valore dato
dalla differenza tra quello venale ed il prezzo indicato come pagato nel contratto impugnato. Lamentava, infine,
la F. che la convenuta era entrata nella detenzione di tutti i beni mobili presenti nell’abitazione.
La domanda e le tesi dell’attrice venivano contestate
dalla G. che, costituitasi con memoria, confermava l’effettività dell’acquisto e la congruità del prezzo corrisposto, assumendo, inoltre, di avere eseguito opere di miglioria. La stessa instava in via riconvenzionale per ottenere dall’attrice il concorso nelle spese funerarie ed il
rimborso, pro quota, di tutte le somme riguardanti l’assistenza prestata alla madre fino al suo decesso. Istruita la
causa con l’assunzione delle prove testimoniali ammesse
L’
652
I CONTRATTI N. 7/2006
e l’espletamento di CTU tesa ad accertare l’effettivo valore dell’immobile oggetto del negozio contestato, la
stessa, dopo l’assegnazione del presente procedimento a
questo giudice, veniva tratta a sentenza all’udienza del
20 giugno 2005.
Motivi della decisione
pregiudiziale la necessità di dirimere il contrasto
insorto tra le opposte difese circa la veste assunta dall’attrice, discendendo effetti rilevanti e diversi sul piano probatorio a seconda che la stessa sia da
considerare, rispetto al contratto impugnato, parte, come
assume la G., o terza, come sostiene la F.
Infatti, nel primo caso l’erede che agisca per far valere la
simulazione, se parte, si troverebbe nell’impossibilità di
giovarsi delle agevolazioni probatorie previste dall’art.
1417 Codice civile; nel secondo caso, quale terzo, non
incontrerebbe i limiti probatori imposti alla parte.
Osservato, al riguardo, che dalla citazione risulta evidente la volontà dell’attrice di recuperare il bene oggetto
dell’atto asseritamente simulato al patrimonio ereditario, ritiene il giudicante come, per giurisprudenza ormai
consolidata, sia consentito all’erede che agisce per la declaratoria della simulazione del contratto posto in essere
dal de cuius di giovarsi delle agevolazioni probatorie previste dall’art. 1417 Codice civile.
Da ultimo la Cassazione Civile, sez. II, 18 aprile 2003, n.
6315 - confermando il precedente e costante insegnamento contenuto nelle sentenze n. 11286 del 30 luglio
2002, n. 2093 del 24 febbraio 2000 e n. 6031 del 29 maggio 1995, tutte della II sezione - ha chiaramente affermato «che non può essere disconosciuta la qualità di “terzo”
all’erede che attraverso l’azione di simulazione miri a reintegrare la quota spettategli … in tutto o in parte lesa dalla disposizione simulata, perché in tal modo l’erede difende un di-
E
’
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
ritto proprio che gli spetta per legge e che lo pone, quindi, in
una posizione antagonista rispetto al de cuius».
Alla luce di siffatto insegnamento, vanno, rigettate le
eccezioni della parte convenuta in ordine agli strumenti
probatori utilizzati nel corso dell’istruttoria.
Alla luce di quanto sopra, il giudicante ritiene che la domanda attrice, tesa alla dichiarazione di simulazione del
contratto in data 3 aprile 1991, a ministero del notaio
B.C., registrato a Rimini il 16 aprile 1991 e trascritto
nella Conservatoria dei RR.II. di Rimini il 24 aprile
1992 al n. 4098 R.G. e al n. 3117 R.P., meriti di essere
accolta.
Dalle emergenze probatorie risulta, invero, che la stessa
G.A., in sede di interrogatorio formale, ebbe a dichiarare che la somma consegnata «in contante a mani di mia
madre prima della stipula del rogito» le era stata data dal
suocero in parte e la rimanenza dal di lei marito R.G.
Così clamorosamente smentendo la versione trascritta
all’art. 7 del contratto summenzionato, laddove si legge
che «il presente acquisto è stato effettuato con il prezzo
del trasferimento di beni personali» dell’acquirente. Tale dichiarazione, certamente funzionale a fare acquisire
la personalità dell’acquisto ai sensi dell’art. 179 Codice
civile rende inveritiere, inattendibili e non credibili le
versioni della convenuta.
Neppure credibile è l’interrogata quando afferma che l’ipotetico corrispettivo potrebbe essere stato dilapidato
dalla madre per giocate al lotto, in assenza di conforti
probatori sul punto, e considerato che la defunta, necessitante di assistenza e cure per le patologie attestate dalle cartelle cliniche prodotte, avrebbe di certo utilizzato
l’importo ricevuto per curare la propria condizione. E di
ciò avrebbe sicuramente resa edotta la figlia, per ammissione di quest’ultima vicina affettivamente più di quanto non lo sia stata l’attrice.
La versione del finanziamento da parte del coniuge R.G.
è da questi smentita nella sua audizione come teste,
avendo questi affermato che «non ho fornito denaro a
mia moglie». Tale testimonianza non è censurabile, considerato che, venuto meno il divieto di testimoniare previsto dall’art. 247 Codice procedura civile per i soggetti
legati da vincolo di parentela o di coniugio, in virtù della sentenza della Corte Costituzionale n. 248 del 1974,
l’attendibilità del teste non può essere esclusa aprioristicamente per il solo fatto dell’esistenza di vincoli familiari con le parti (Cass. Civ., sez. III, 21 novembre 1997, n.
11635).
Né può parlarsi nella specie di incapacità del teste a motivo della sua partecipazione all’atto negoziale impugnato, non traendone egli dall’atto alcun effetto, ma essendo la sua presenza necessitata dalla qualità di coniuge in
regime di comunione. Per altro lo stesso ebbe a prendere
atto che l’acquisto dell’immobile si realizzava nella sfera
patrimoniale esclusiva della moglie.
Tutto quanto sopra rende convinto questo giudice che i
contraenti formalmente impegnatisi in un contratto di
compravendita, in realtà ritennero di dar vita ad una ve-
ra e propria donazione, tal che il contratto apparente è
da considerare simulato e perciò nullo e privo dei suoi effetti tipici. E come naturale corollario ne discende l’obbligo per la convenuta di conferire il bene de quo nella
massa ereditaria.
Quanto, infine, alla domanda in via riconvenzionale
della G., volta ad ottenere il concorso nelle spese funerarie dell’attrice, ritiene questo giudice che, se è pur vero
che quest’ultima, formalmente interrogata, ha preso atto
delle fatture rappresentative dei costi relativi e che ha
ammesso di non avere concorso alle stesse - sostanzialmente non contestando la richiesta, contrariamente a
quanto sostenuto in conclusionale dalla difesa della F. - è
anche da tener conto che la richiesta necessita dell’esatta quantificazione delle quote cui correlare l’onere per
ciascuno parente di sopportare le spese dei funerali. E ciò
considerato che la stessa parte convenuta dà atto, nella
comparsa di costituzione, dell’esistenza di altri eredi. In
carenza di prova in ordine all’entità degli eredi, l’attrice
non può essere condannata alla somma richiesta dalla
G., chiaramente non corrispondente alla sua quota ereditaria. Per tali considerazioni la domanda della convenuta va rigettata.
P.Q.M.
Il Tribunale di Rimini, in composizione monocratica ed
in persona del GOA avv. Italo Gambitta, sulle domande
proposte dalla F. nei confronti di G.A., e su quella in via
riconvenzionale di quest’ultima, ogni contraria istanza,
deduzione ed eccezione disattesa, nel contraddittorio
delle parti così provvede:
- accoglie la domanda principale per l’effetto I) dichiara
simulato e nullo il contratto stipulato tra le parti in data
3 aprile 1991 per avere le parti inteso dar vita ad una donazione avente ad oggetto l’immobile sito in Cattolica,
via … come descritto in detto contratto; 2) dichiara
G.A. obbligata a conferire nella massa ereditaria venutasi a formare con l’apertura della successione della defunta G.C. il predetto immobile;
- rigetta la domanda in via riconvenzionale della convenuta;
- pone definitivamente a carico di tale ultima parte le
spese di consulenza tecnica d’ufficio, come liquidate in
corso di causa;
- vengono liquidate in euro 4.500,00 oltre spese generali, iva e cap ex lege le spese, funzioni e competente di questo procedimento, condannando la G. a rifonderle all’attrice.
I CONTRATTI N. 7/2006
653
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
IL COMMENTO
di Laura Vagni
L’Autore analizza le diverse problematiche concernenti l’applicazione dell’art. 1417 Codice civile (prova
della simulazione) al legittimario, evidenziando la
difformità della soluzione accolta dal Tribunale di Rimini rispetto all’orientamento maggioritario della
giurisprudenza e della dottrina. Per quest’ultime, il legittimario che ha accettato l’eredità conserva la qualità di terzo ai fini della prova della simulazione solo
se esperisce l’azione di riduzione nello stesso giudizio,
o comunque se dimostra che l’azione di simulazione è
oggettivamente strumentale alla tutela del suo diritto alla quota di legittima. Il Giudice di Rimini, invece,
ammette il coerede legittimario a provare la simulazione con testimoni, anche in assenza dei presupposti
anzidetti.
Il fatto
In data 3 aprile 1991 la signora C. stipulava con sua
figlia A. un contratto di compravendita di un immobile
per il prezzo di lire 35.000.000.
Il 10 gennaio 1992 la signora C. decedeva e si instaurava una comunione ereditaria tra la figlia naturale
A. e la figlia legittima G.
Quest’ultima agiva in giudizio contro la sorella, sostenendo che il contratto di compravendita intercorso
tra sua madre e A. dissimulava una donazione. L’immobile in realtà era stato donato e di conseguenza era soggetto a collazione ex art. 737 Codice civile. In via subordinata l’attrice richiedeva al giudice di configurare il
contratto intercorso tra la madre e la sorella come una
donazione indiretta, vista l’esiguità del prezzo di vendita
rispetto al valore di mercato dell’immobile, e conseguentemente condannare A. al conferimento del bene
alla massa ereditaria. G. produceva prova testimoniale a
sostegno delle sue ragioni.
A resisteva in giudizio eccependo che la sorella G.
non aveva fornito la prova della simulazione del contratto. Secondo il disposto dell’art. 1417 Codice civile,
infatti, le parti del contratto possono provare la simulazione solo per iscritto, salvo che si intenda dimostrare
l’illiceità del contratto dissimulato. La convenuta sosteneva che G. agiva come coerede, per far valere la simulazione relativa della compravendita e sottoporre l’immobile oggetto della controversia a collazione. L’attrice,
pertanto, doveva essere considerata parte del contratto,
agendo a tutela di un interesse comune al de cuius, e perciò sottoposta ai limiti probatori previsti dall’art. 1417
Codice civile per i simulanti. Le testimonianze prodotte
da G. a prova della simulazione, quindi, erano inammissibili.
Il Giudice di Rimini accoglieva le domanda princi-
654
I CONTRATTI N. 7/2006
pale dell’attrice, dichiarando la simulazione relativa del
contratto di compravendita intercorso tra C. e A. e condannando quest’ultima a conferire l’immobile alla massa
ereditaria.
Il Tribunale riteneva ammissibili le testimonianze
prodotte dall’attrice nel corso del giudizio, non applicando a quest’ultima il limite probatorio previsto dall’art.
1417 Codice civile. La decisione era motivata sostenendo che nel caso concreto G. agiva in qualità di terzo e
non di parte contrattuale, in quanto la sua domanda mirava comunque a tutelare l’interesse autonomo dell’attrice a reintegrare la quota ereditaria spettantegli.
L’erede e la prova della simulazione
La principale questione di diritto su cui il giudice
interviene nel caso in esame concerne l’applicazione
dell’art. 1417 Codice civile al legittimario coerede, che
agisca in giudizio per far valere la simulazione relativa di
una compravendita stipulata dal de cuius.
Il legislatore detta una disciplina particolare in tema di prova del negozio simulato, disponendo che le parti possono valersi di ogni mezzo per provare la simulazione, solo quando intendono dimostrare l’illiceità del contratto dissimulato. Negli altri casi i simulanti possono
dar prova della simulazione solo per iscritto.
Un regime diverso è invece disposto per i terzi e per
i creditori pregiudicati dalla simulazione. Per quest’ultimi «La prova per testimoni della simulazione è ammissibile senza limiti [...]» (art. 1417 Codice civile, primo
comma). I terzi e i creditori, pertanto, potranno valersi
di testimonianze e presunzioni per dimostrare l’apparenza del negozio posto in essere dalle parti, non incontrando gli stessi limiti stabiliti dalla legge per i simulanti. La
ratio della norma è duplice. Da un lato si vuole evitare
che i soggetti pregiudicati dalla simulazione si trovino
nell’impossibilità di darne prova in giudizio. La segretezza propria dell’accordo simulatorio rende estremamente
difficile a qualsiasi soggetto estraneo procurarsi una prova scritta dello stesso. D’altro lato, la simulazione costituisce per i terzi e per i creditori una mera circostanza di
fatto, che può essere provata con ogni mezzo (1).
Da quanto detto si deduce che l’applicazione dell’art. 1417 Codice civile richiede di stabilire se chi agisce
in simulazione è parte del negozio simulato o rientra invece nella categoria dei terzi e dei creditori pregiudicati
dalla simulazione.
Sono parti ai fini della prova della simulazione i
Nota:
(1) Gentili, Simulazione dei negozi giuridici, in Dig. civ., Torino, 1998,
XVIII, 523; sulla prova della simulazione v. anche Id., Il giudizio di simulazione, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, Torino, 2002, IV,
687 ss.
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
successori in universum ius di uno dei simulanti (2). Come noto, con l’accettazione dell’eredità, l’erede subentra
in tutte le situazioni giuridiche attive e passive facenti
capo al de cuius e suscettibili di trasmissione. Questi continua la persona del de cuius anche per quanto concerne
tutti i diritti e gli obblighi processuali: succede al suo
dante causa nel processo e acquista la legittimazione attiva riguardo azioni che potevano essere esperite dal de
cuius e non sono ancora prescritte.
Nell’ipotesi che qui interessa, l’erede con l’accettazione dell’eredità acquista la legittimazione attiva ad
esercitare l’azione di simulazione, con gli stessi limiti in
cui si trova nel patrimonio ereditario.
Il successore in universum ius, subentrando al de
cuius, diventa parte del contratto simulato, e in quanto
tale potrà provare la simulazione solo per iscritto, salvo
che intenda far valere l’illiceità del negozio dissimulato.
Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel riconoscere una posizione diversa da quella del successore in
universum ius al legittimario pretermesso, ossia al legittimario che sia stato completamente escluso dalla devoluzione ereditaria.
Quest’ultimo non è erede, non avendo espresso alcuna accettazione dell’eredità, ma piuttosto titolare di
un diritto ad ottenere una quota ereditaria.
In ragione di ciò, il legittimario pretermesso può
impugnare la simulazione posta in essere dal de cuius come terzo pregiudicato dal negozio simulato. Ne consegue
che il legittimario pretermesso potrà provare la simulazione posta in essere dal de cuius anche per testimoni e
presunzioni, al pari di tutti i terzi e i creditori pregiudicati dalla simulazione (3).
L’erede legittimario e la prova della simulazione
Nell’ipotesi in cui il legittimario sia istituito erede
legittimo o testamentario, la distinzione tra parti del negozio simulato, terzi e creditori pregiudicati dalla simulazione si complica: nello stesso patrimonio, infatti, si riuniscono sia il diritto ad agire per far valere la simulazione
del contratto stipulato dal de cuius in qualità di terzo, sia
il diritto ad esercitare la stessa azione come parte del
contratto simulato.
Occorre chiedersi, allora, quali siano i presupposti
perché l’erede legittimario possa conservare la terzietà rispetto al contratto simulato, onde avvalersi delle agevolazioni probatorie previste dall’art. 1417 Codice civile.
Un orientamento dottrinario più restrittivo sostiene che l’erede legittimario mantiene la qualità di terzo,
ai fini della prova della simulazione del contratto stipulato dal de cuius, solo se contestualmente esperisce l’azione di riduzione (4). Secondo questa tesi, l’esercizio dell’azione di riduzione costituirebbe una condizione essenziale, in assenza della quale sarebbe impossibile dimostrare che l’erede richiede l’accertamento della simulazione ex iure proprio. La simulazione, infatti, non è di per
sé idonea ad intaccare il patrimonio del de cuius a scapito del legittimario. Il negozio simulato, ad esempio, po-
trebbe non essere lesivo della quota di legittima. Quest’orientamento trova riscontro nella maggioranza della
giurisprudenza di legittimità, la quale ammette l’erede
legittimario a provare la simulazione posta in essere dal
de cuius con testimoni e presunzioni solo se esperisce nello stesso giudizio l’azione di riduzione (5). Terzo ai sensi
dell’art. 1417 Codice civile, quindi, non è il legittimario
Note:
(2) Figurelli Noterbartolo, Osservazioni in tema di prova testimoniale nel giudizio di simulazione proposto dal legittimario, nota a App. Bari 24 maggio
1969, in Giur. mer., 1971, I, 550.
(3) Azzariti, Atto simulato, lesione di legittima ed efficacia dell’azione del legittimario, in Riv. dir. civ., 1978, II, 27.
(4) Trabucchi, nota a Cass., sez. II, 4 ottobre 1951, n. 2620, in Giur. it.,
1952, I, 1, 113 ss.; Distaso, La simulazione nei negozi giuridici, Torino, 1960,
653 ss.; Barbero, Impugnazione e prova della simulazione da parte del legittimario, nota a Cass., sez. II, 9 aprile 1953, n. 916, in Foro pad., 1953, I, 718
ss.; Razza, I legittimari e la prova della simulazione, nota a Trib. Napoli 30
aprile 1990, in Giur. mer., 1991, I, 504 ss.; Granzotto, L’erede nella prova
della simulazione, nota a Trib. Roma 3 ottobre 1992, in Giur. mer., 1993, I,
334 ss.
(5) V. Sacco - De Nova, Il Contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da
R. Sacco, III ed., Torino, 2004, I, 683-684; da ultimo v. Cass., sez. II, 30
luglio 2002, n. 11286, dove si legge: «È [...] opinione del tutto prevalente
nella giurisprudenza di legittimità in materia che, ai fini della prova della
simulazione d’una vendita posta in essere dal de cuius onde dissimulare
una donazione, l’erede possa essere considerato terzo ed, in quanto tale,
beneficiare delle agevolazioni probatorie previste dall’art. 1417 c.c. solo
quando, contestualmente all’azione intesa alla dichiarazione della simulazione, proponga, facendo valere anche la sua qualità di legittimario e sulla specifica premessa che l’atto dissimulato comporti una lesione del suo
diritto personale all’integrità della quota di riserva spettantegli, un’espressa e concreta domanda di riduzione della donazione dissimulata, diretta a
far dichiarare, in aggiunta dell’appartenenza del bene all’asse ereditario,
che la quota di riserva di sua pertinenza deve essere calcolata tenendo
conto del bene stesso, non anche quando siasi limitato a chiedere l’accertamento della simulazione nell’ambito d’una petitio hereditatis ma senza alcuna connessa ed esplicita domanda di reintegrazione della legittima. Ciò
in quanto l’erede legittimo, il quale miri semplicemente a far rientrare
nella massa ereditaria un bene che assume solo apparentemente uscito dal
patrimonio del de cuius, non lamenta lesione alcuna dei diritti successori
a lui personalmente riconosciuti dall’ordinamento nella sua qualità anche
di legittimario ma fa valere, nella sua qualità sola di successore universale
subentrato mortis causa in tutti i rapporti già facenti capo al de cuius, un diritto ricompreso nel patrimonio di quest’ultimo [...]». La Corte inoltre fa
notare che: «[...] - a prescindere dal testo delle massime, non sempre esattamente rispondente alle argomentazioni sviluppate dalle sentenze e ai
principi dalle stesse desumibili - ove si ponga attenzione alle motivazioni
risulta agevole rilevare come l’esonero dalle limitazioni probatorie della
simulazione sia stato riconosciuto all’erede legittimo, e negato in caso
contrario, sempre solo e in quanto questi avesse contestualmente allegato
che il suo diritto alla quota di riserva non poteva trovare soddisfazione sui
beni relitti o comunque, che la quota di riserva stessa doveva essere calcolata tenendo conto anche del bene la cui simulata alienazione era stata
dedotta in giudizio [...]»; Cass., sez. II, 11 ottobre 1986, n. 5947, in Giur.
it., 1987, I, 1866, con nota di Azzariti, Il legittimario e la prova della simulazione. Da ultimo Cass., sez. II, 28 ottobre 2004, n. 20868, in Giust. civ.
mass., 2004, 10 (s.m.), la sentenza per esteso può leggersi in Juris Data, in
tal caso la Corte specifica che l’erede legittimario può provare per testi e
presunzioni la simulazione se «[...] contestualmente all’azione di simulazione, proponga - sulla premessa che l’atto simulato comporti una diminuzione della sua quota di riserva - una domanda di riduzione (o di nullità
o di inefficacia) della donazione dissimulata, diretta a far dichiarare che il
bene fa parte dell’asse ereditario e che la quota spettantegli va calcolata
tenendo conto del bene stesso [...]».
I CONTRATTI N. 7/2006
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GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
in quanto tale, ma colui che agisce in riduzione delle disposizioni lesive della quota di riserva (6).
L’erede legittimario, provata la simulazione del negozio posto in essere dal de cuius e lesivo della sua quota
di riserva, potrà soddisfarsi sul bene oggetto del negozio
oltre i limiti della legittima, facendo valere la sua qualità
di erede. La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie ritengono che le agevolazioni probatorie a favore del legittimario debbono riconoscersi anche quando la dichiarazione della simulazione ha l’effetto di far rientrare il bene nel patrimonio ereditario, così che il legittimario se
ne avvantaggia sia in tale sua qualità, che come successore a titolo universale. Sarebbe infatti contraddittorio
applicare rispetto ad un unico negozio simulato, per una
parte una regola probatoria e per un’altra parte una regola diversa (7).
Altra parte della dottrina, contraria alla tesi precedentemente esposta, ritiene invece che il legittimario è
terzo in quanto tale, indipendentemente dall’esercizio
dell’azione di riduzione (8).
Così argomentando, si sostiene che l’erede può provare liberamente la simulazione del negozio posto in essere dal de cuius in tutti i casi in cui agisce in veste di legittimario. Ciò avviene quando l’azione di simulazione è
in qualche modo strumentale alla tutela del suo diritto
personale a ricevere una quota del patrimonio ereditario,
indipendentemente dall’esercizio dell’azione di riduzione nello stesso giudizio.
Alcuni Autori tra coloro che aderiscono a quest’ultimo orientamento affermano che tale ipotesi si verifica
solo se l’erede legittimario accetta l’eredità con beneficio
di inventario. L’accettazione con beneficio d’inventario
consente infatti di mantenere un’alterità tra la posizione
giuridica dell’erede e quella del de cuius (9).
Secondo il disposto dell’art. 564, primo comma,
Codice civile «Il legittimario che non ha accettato l’eredità con beneficio dell’inventario, non può chiedere la
riduzione delle donazioni e dei legati, salvo che le donazioni e i legati siano stati fatti a persone chiamate come
coeredi, ancorché abbiano rinunziato all’eredità [...]». In
assenza di accettazione con beneficio di inventario, pertanto, è escluso che l’erede legittimario che esercita l’azione di simulazione voglia tutelare un diritto proprio,
dato che gli sarà preclusa l’azione di riduzione. Sarà quindi applicabile il limite della prova scritta previsto dall’art. 1417 Codice civile per i simulanti.
Questa tesi certamente non trova applicazione se il
negozio simulato sia stato concluso tra il de cuius ed uno
dei coeredi, come è avvenuto nel caso che si sta commentando. Il Codice, infatti, stabilisce che l’azione di riduzione nei confronti dei coeredi può essere esperita anche dal legittimario che accetta puramente e semplicemente.
Come rilevato dalla più recente giurisprudenza,
inoltre, non sempre l’accettazione con beneficio di inventario è presupposto necessario perché il legittimario
agisca ex iure proprio. Si pensi al caso in cui il legittimario
656
I CONTRATTI N. 7/2006
fa valere la simulazione assoluta di un negozio posto in
essere dal de cuius, ovvero la simulazione relativa allorché il negozio dissimulato sia affetto da nullità (10): il legittimario può esercitare l’azione di simulazione per riportare il bene oggetto del negozio simulato nel patrimonio ereditario, col fine di rendere il relictum sufficiente a soddisfare la sua quota di riserva. Non si vede il motivo di subordinare l’ammissibilità della prova della simulazione per testi o presunzioni alla presenza dell’accettazione con beneficio di inventario, che è presupposto necessario solo per esperire l’azione di riduzione.
L’erede legittimario in queste situazioni conserva la
qualità di terzo ai sensi dell’art. 1417 Codice civile, purNote:
(6) Contra, Sacco - De Nova, op. cit., 684.
(7) Per tutte v. Cass., sez. II, 2 febbraio 1999, n. 848, in Riv. Not., 1999,
1260 ss.; Cass., sez. II, 26 aprile 2002, n. 6078, in Giust. civ. mass., 2002,
722 (s.m.), la sentenza per esteso può leggersi in Juris Data; esiste anche
una giurisprudenza contraria, anche se risalente, v. Cass. 13 gennaio 1932,
in Giur. it., 1932, I, 1, 186; Cass. 13 luglio 1949, n. 1780, in Giur. it., 1949,
I, 1, 457; Cass. 3 marzo 1954, n. 607, in Giur. it, 1954, I, 1, 596; Cass. 26
aprile 1969, n. 1361, in Foro it., 1969, I, 720; sull’evoluzione giurisprudenziale in questa materia v. Azzariti, Atto simulato, lesione di legittima ed efficacia dell’azione del legittimario, cit., 24-25; Cappiello, Cosa giudicata e positiva
evoluzione della giurisprudenza in tema di ammissibilità della prova della simulazione da parte del legittimario successore a titolo universale, nota a App. Napoli 22 febbraio 1980, in Giur. mer., 1980, I, 760 ss.
(8) La domanda di formazione della massa ereditaria per il calcolo della legittima, qualifica già il legittimario come titolare di un interesse diverso ed
opposto a quello del de cuius. La quota di legittima, infatti, è calcolata tenendo conto anche dei beni che il de cuius, con diversa volontà, aveva disposto a titolo di legato o di liberalità tra vivi. Sul punto v. Mengoni, Successione necessaria, in Trattato di diritto civile comm., diretto da A. Cicu e F.
Messineo, Milano, 2000, XLIII, 2, 183; Bernardoni, Divisione ereditaria.
Collazione delle donazioni dissimulate. Limiti probatori, in Giust. civ., 2001, I,
3064.
(9) Azzariti, ult. op. cit., 36-37; Azzariti, Se il legittimario erede che agisca in
simulazione sia da ritenersi «parte» o «terzo» ai fini della prova, in Giust. civ.,
1970, IV, 122 ss., commento a Cass. 26 aprile 1969, n. 1361; Tatarano, Atti simulati dal defunto e tutela del legittimario, nota a Cass., sez. II, 28 aprile
1980, n. 471, in Rass. dir. civ., II, 1143.
(10) Cass, sez. II, 18 aprile 2003, n. 6315, in Giust. civ., 2004, I, 200: «[...]
l’azione esperita dall’erede nei confronti di soggetti estranei alla comunione ereditaria, per far valere la simulazione assoluta di un negozio posto in
essere dal de cuius, ovvero per far valere la simulazione relativa allorché il
negozio dissimulato prospettato sia affetto da nullità assoluta per mancanza di forma prescritta, non è soggetta alla condizione della previa accettazione dell’eredità con beneficio di inventario, richiesta dall’art. 564 c.c.,
per le azioni di riduzione». In tal caso la Corte era chiamata a decidere un
caso parzialmente diverso da quello oggetto della sentenza in commento:
il figlio del de cuius conveniva in giudizio un terzo non erede per far dichiarare al giudice la simulazione assoluta del contratto di compravendita
di un immobile, stipulato dal proprio genitore in favore di quest’ultimo. In
via subordinata l’attore richiedeva al giudice di dichiarare la simulazione
relativa del contratto perché dissimulante una donazione e di ridurre la
stessa ex art. 560 Codice civile. Nel caso di specie la Corte riteneva corretta la decisione dei giudici di merito di ammettere l’attore a provare la
simulazione per testi, qualificandolo come terzo ai fini dell’applicazione
dell’art. 1417 Codice civile. Si ravvisava infatti il fine esplicito di quest’ultimo di recuperare l’immobile oggetto della compravendita simulata
per reintegrare la sua quota di riserva, rilevando che: a) l’attore aveva proposto azione di riduzione in via subordinata; b) l’immobile in questione
costituiva l’unico cespite ereditario; c) c’era stata lesione della quota di legittima.
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
ché renda noto negli atti del giudizio l’insufficienza del
relictum alla soddisfazione della quota spettantegli per
legge o esprima un collegamento teleologico tra l’azione
di simulazione proposta e l’eventuale successiva proposizione dell’azione di riduzione (11).
Ad opinione di chi scrive, in tali ipotesi assume un
ruolo fondamentale l’esatta individuazione della causa
petendi: il giudice dovrà tener conto del diritto sostanziale affermato dalla parte e in forza del quale viene richiesta la simulazione. è un’indagine scrupolosa sulla ragione
obiettiva per cui si esercita l’azione di simulazione a consentire al giudice di distinguere se la domanda sia basata
su un diritto vantato iure proprio o iure successionis. Questa verifica dovrà essere effettuata caso per caso.
Collazione e azione di riduzione:
diverse finalità degli istituti
Sulla base delle considerazioni precedentemente
svolte, si ritiene di poter formulare le seguenti osservazioni sulla sentenza oggetto di commento.
L’attrice G. propone la domanda di simulazione relativa della vendita di un immobile da parte della madre
defunta alla figlia naturale A.
Contestualmente alla domanda di simulazione, l’attrice chiede al giudice di condannare A. al conferimento del bene dissimulatamente donato alla massa ereditaria, in applicazione della disciplina della collazione.
La domanda di simulazione, in tal caso, è strumentale alla collazione e quindi al conferimento del bene donato al patrimonio ereditario.
Come noto, con l’istituto della collazione il legislatore intende evitare una disparità di trattamento tra alcuni coeredi (il coniuge e i discendenti del de cuius) dovuta alle donazioni effettuate a quest’ultimi dal de cuius
in vita.
La collazione produce un reale aumento dell’asse
ereditario da dividere tra coniuge e discendenti che hanno accettato l’eredità, obbligando quest’ultimi a conferire alla massa ereditaria in denaro o in natura le donazioni ricevute in vita dal de cuius, salvo espressa dispensa. Le
donazioni al coniuge e ai discendenti si considerano infatti come delle anticipazioni di quanto loro spettante
sulla successione; per tale ragione occorre tenerne conto
in sede di divisione ereditaria ed evitare che uno di questi coeredi riceva ingiustamente una parte del patrimonio superiore alla quota spettantegli (12).
Si comprende, pertanto, che l’istituto della collazione adempie ad uno scopo totalmente diverso rispetto alla tutela del legittimario. Certamente attraverso la collazione si può ottenere il risultato di eliminare una lesione
della quota di legittima di un legittimario coerede. Ciò
non rende tuttavia la collazione uno strumento per la
reintegrazione della legittima (13). L’istituto non intende garantire ai legittimari una parte del patrimonio. Il
coerede che agisce in collazione tutela un interesse comune agli altri coeredi tenuti alla collazione e soprattutto al de cuius: quello di assicurare una parità di tratta-
mento nella divisione della massa ereditaria tra coniuge
e discendenti.
Così, il bene conferito alla massa ereditaria ex art.
737 Codice civile è a vantaggio di tutti coloro che sono
tenuti alla collazione.
Il coerede è tenuto al conferimento indipendentemente dal fatto che la donazione è lesiva della quota
spettante ad un coerede legittimario.
Il coerede legittimario che esercita la collazione,
pertanto, vanta un diritto del tutto similare a quello di
altri coeredi e soprattutto non in contrasto con la volontà del de cuius.
Se il coerede legittimario esperisce l’azione di simulazione relativa, al solo fine di richiedere la collazione del
bene dissimulatamente donato, agisce in veste di successore in universum ius e non come titolare di un diritto autonomo alla quota di legittima (14). Della stessa opinione è la giurisprudenza di legittimità, la quale in un’ipotesi del tutto similare ha stabilito che: «[...] la richiesta di
collazione delle donazioni ricevute in vita [...] non equivale a proporre l’azione di riduzione. Segue che con la
domanda di collazione non può ritenersi proposta l’azione di riduzione: gli eredi legittimi, in quanto succedono
nella stessa posizione giuridica del defunto nei rapporti
da lui instaurati, non possono considerarsi terzi. Per giurisprudenza costante l’erede che agisca non quale legittimario ai fini del recupero o della reintegrazione della
quota di riserva, assumendo veste di terzo rispetto al negozio di cessione dei beni ereditari compiuto dal de cuius,
Note:
(11) Cass., sez. II, 27 giugno 2003, n. 10262, in Giust. civ., 2004, I, 1569
ss., con nota di Tedesco, In tema di azione di simulazione proposta dal legittimario contro persone non chiamate come coeredi; Cass., sez. II, 1 aprile 1997,
n. 2836, in Vita Not., 1997, 883: «La ragione per la quale il legittimario
non è soggetto ai limiti probatori da detta norma previsti in tema di simulazione, risiede esclusivamente nella sua qualità di terzo che agisce per fare valere il proprio personale diritto alla quota di riserva. Ma per perseguire tale finalità il legittimario non sempre è tenuto a promuovere l’azione
di simulazione congiuntamente a quella di riduzione. La proposizione di
entrambe le domande è necessaria solo nel caso in cui non sia posta in
dubbio la validità del negozio dissimulato»; Cass., sez. II, 19 marzo 1996,
n. 2294, in Corr. giur., 1996, 1279 ss., con nota di Gasparini, Azione di riduzione, simulazione relativa e accettazione con beneficio di inventario; Cass.,
sez. II, 29 maggio 1995, n. 6031, in Nuova giur. civ. comm., 1996, 255 ss.,
con nota di Feola, Nullità della donazione dissimulata disposta dal de cuius e
azione di simulazione promossa dall’erede legittimario, dove si chiarisce che
non si può sostenere che «[...] il legittimario difende veramente un diritto
proprio, attribuitogli dalla legge contro la stessa volontà del de cuius solo
quando agisca per la reintegrazione della legittima lesa, mentre nei confronti dei contratti assolutamente simulati o relativamente simulati dissimulanti un contratto nullo, non vi sarebbe nulla da reintegrare. [...] Il legittimario, ove il relictum non sia sufficiente per soddisfare il suo diritto alla quota di riserva, agisce in simulazione per far valere tale diritto proprio[...]», ivi 256-257.
(12) La dottrina in argomento è vastissima, per tutti v. Palazzo, Le successioni, in Trattato di Diritto Privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, II ed., Milano, 2000, IV, II, 1000 ss.; Bianca, La famiglia e le successioni, in Diritto civile, III ed., Milano, 2001, II, 568 e riferimenti ivi.
(13) Così testualmente Bianca, op. cit., 569-570.
(14) V. Bernardoni, op. cit., 3062-3063 e riferimenti ivi.
I CONTRATTI N. 7/2006
657
GIURISPRUDENZA•CONTRATTI IN GENERALE
del quale deduca la simulazione, bensì con azione di simulazione relativa al fine di acquisire alla massa ereditaria i beni ceduti [...], resta vincolato alla posizione del de
cuius, nei cui rapporti subentra, anzitutto sul terreno dell’accertamento probatorio» (15). La domanda di collazione e la domanda di riduzione si distinguono sia per il
petitum che per la causa petendi, per cui il coerede legittimario che agisce «[...] per lo scioglimento della comunione previa collazione delle donazioni dissimulate per
ricostruire il patrimonio ereditario e ristabilire l’uguaglianza tra i coeredi, subentra nella posizione del de cuius
[...]» (16) e non agisce a tutela di un suo proprio diritto a
ricevere una quota del patrimonio. Come conseguenza
egli è sottoposto allo stesso limite probatorio stabilito
dall’art. 1417 Codice civile per le parti.
L’esercizio nello stesso giudizio dell’azione di simulazione e della collazione, in conclusione, non è idoneo a
dimostrare la strumentalità della prima alla reintegrazione della quota spettante per legge al legittimario. Per
mantenere la sua terzietà ai fini della prova della simulazione il legittimario deve dare dimostrazione, perlomeno, che la simulazione è lesiva del suo diritto alla legittima e che il relictum non è sufficiente a soddisfare la quota che gli spetta per legge. Ciò anche secondo quella tesi meno restrittiva, accolta da parte della dottrina e della giurisprudenza, secondo la quale l’erede legittimario
può qualificarsi come terzo ai fini della prova della simulazione, anche se non esercita nello stesso giudizio l’azione di riduzione.
In caso contrario si riconoscerebbe la qualità di terzo a tutti gli eredi che nello stesso tempo siano legittimari, vanificando in parte il limite probatorio stabilito
dall’art. 1417 Codice civile per le parti contraenti.
Nel caso in commento, l’attrice non esperisce l’azione di riduzione.
Dallo svolgimento del processo riportato in sentenza emerge che l’attrice richiede al giudice di dichiarare la
simulazione della compravendita avvenuta tra la madre
defunta e la sorella perché «[...] preordinata a sottrarre il
bene dall’asse ereditario e a pregiudicare i diritti degli altri coeredi [...]» e «Deduce[va] che, nel caso di donazione dissimulata, l’appartamento deve [doveva] essere
conferito all’asse ereditario per così soddisfare i diritti
successori di tutti gli eredi».
Dalla motivazione della sentenza non risulta chiaramente che la compravendita simulata è lesiva della
quota di riserva spettante all’attrice o comunque che il
relictum è insufficiente a soddisfare la quota che gli spetta.
Non è dato sapere se negli atti introduttivi del giudizio sia stato evidenziato il pregiudizio che la simulazione relativa ha arrecato all’attrice nella sua qualità di legittimario. Il Giudice afferma solamente che «[...] dalla
citazione risulta evidente la volontà dell’attrice di recuperare l’oggetto dell’atto asseritamente simulato al patrimonio ereditario».
Sulla base di questi pochi dati è difficile stabilire
658
I CONTRATTI N. 7/2006
una strumentalità tra l’azione di simulazione e la tutela
di un autonomo diritto di G. alla legittima.
Per queste ragioni si ritiene criticabile la soluzione
accolta dal Tribunale di Rimini nella sentenza in commento. Il Giudice infatti ha riconosciuto all’attrice la
qualità di terzo ai fini della prova della simulazione, senza un’indagine adeguata sull’esistenza di un rapporto tra
la domanda di simulazione e il diritto di G. alla legittima.
A ben vedere anche la giurisprudenza di legittimità
richiamata in motivazione dal Tribunale di Rimini non
sembra avvalorare la tesi infine accolta da quest’ultimo,
avendo anche ad oggetto fattispecie diverse da quella del
caso in esame (17).
Note:
(15) Cass., sez. II, 29 luglio 1994, n. 7142, in Giust. civ. mass., 1994, 1036
(s.m.), la sentenza per esteso può leggersi in Juris Data.
(16) Cass., sez. II, 12 settembre 2000, n. 12038, in Riv. Not., 2001, 925,
nel prosieguo della motivazione della sentenza si legge: «[...] la domanda
di collazione proposta nel giudizio di divisione ereditaria con riguardo ai
beni che si assumono donati in vita al coerede con atti di alienazione simulati, non implica la domanda di riduzione delle relative attribuzioni patrimoniali, diversi essendo sia il petitum, che nella prima ha per oggetto la
ricomposizione in modo reale dell’asse ereditario, e nella seconda la riduzione delle attribuzioni patrimoniali di cui hanno beneficiato gli altri eredi, sia la causa petendi, che nella domanda di collazione ha fondamento
nel diritto dei coeredi discendenti di conseguire nella divisione porzioni
uguali e nella domanda di riduzione nel diritto alla quota di legittima». In
senso conforme Cass., sez. II, 1 ottobre 2003, n. 14590, in Riv. Not., 2004,
1037 ss.
(17) Cass., sez. II, 18 aprile 2003, n. 6315, cit., v. supra, nota 10; Cass., sez.
II, 30 luglio 2002, n. 11286, cit., v. supra, nota 5; Cass., sez. II, 24 febbraio
2000, n. 209, in Giur. it., 2000, 1355 ss.: in tal caso l’attrice richiedeva al
giudice di accertare che l’atto di vendita posto in essere dal de cuius a favore di uno dei coeredi dissimulava una donazione e conseguentemente
ridurre il valore di tale donazione entro la quota disponibile e reintegrare
la quota legittima a lei spettante. La Corte riconosceva all’attrice la qualità di terzo ai fini della prova della simulazione motivando «[l’attrice] ha
agito quale legittimaria ed ha chiesto la riduzione delle donazioni perché
lesive della sua quota di riserva, sicché agendo per la tutela di un proprio
autonomo diritto è da ritenersi terzo rispetto agli atti impugnati, con conseguente ammissibilità senza limiti della prova per presunzioni così come
previsto proprio dall’art. 1417 c.c.»; Cass. 29 maggio 1995, n. 6031, cit.:
in tal caso due figlie impugnavano la vendita simulata effettata dalla madre defunta nei confronti di un terzo e dissimulante una donazione nulla
per difetto di forma, sulla motivazione della sentenza v. supra, nota 11.
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Rassegna di legittimità:
contratti in generale
Formazione
Cassazione Civile, sez. III, 12 dicembre 2005, n. 27338
Pres. Fiduccia - Rel. Massera - P.M. Ceniccola (Conf.) - Di G. c. F. ed altro
Contratti in genere - Effetti del contratto - Tra le parti - Diritti ed obblighi delle parti - Contenuto - Determinazione
- Trattative - Rilevanza - Esclusione - Contratto - Rilevanza esclusiva - Configurabilità - Fondamento
È nozione di comune esperienza che, nel corso delle trattative prodromiche alla conclusione del contratto, le parti
assumono posizioni diverse e prospettano soluzioni varie, svolgendo le argomentazioni di cui il testo definitivo costituisce espressione della sintesi convenzionalmente raggiunta ed accettata, solamente a quest’ultimo occorrendo fare, peraltro, riferimento al fine di stabilire i rispettivi diritti ed obblighi.
Regolamento
Cassazione Civile, sez. III, 7 dicembre 2005, n. 27000
Pres. Preden - Rel. Di Nanni - P.M. Sorrentino (Conf.) - G. c. C. ed altri
Contratti in genere - Interpretazione - In genere - Relativo procedimento - Suddivisione in fasi - Individuazione - Preventiva ricerca della volontà delle parti - Successivo inquadramento della fattispecie nell’ambito dello schema legale corrispondente - Apprezzamento della rilevanza giuridica - Sindacato di legittimità in relazione alle distinte fasi Limiti
L’interpretazione del contratto, dal punto di vista strutturale, si collega anche alla sua qualificazione e la relativa
complessa operazione ermeneutica si articola in tre distinte fasi: a) la prima consiste nella ricerca della comune
volontà dei contraenti; b) la seconda risiede nella individuazione del modello della fattispecie legale; c) l’ultima è
riconducibile al giudizio di rilevanza giuridica qualificante gli elementi di fatto concretamente accertati. Le ultime
due fasi, che sono le sole che si risolvono nell’applicazione di norme di diritto, possono essere liberamente censurate in sede di legittimità, mentre la prima - che configura un tipo di accertamento che è riservato al giudice di merito, poiché si traduce in un’indagine di fatto a lui affidata in via esclusiva - è normalmente incensurabile nella suddetta sede, salvo che nelle ipotesi di motivazione inadeguata o di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, così come previsti negli artt. 1362 ss. Codice civile.
Cassazione Civile, sez. II, 2 dicembre 2005, n. 26234
Pres. Spadone - Rel. Bucciante - P.M. Uccella (Diff.) - T. ed altri c. F.
Contratti in genere - Interpretazione - In genere - Negozi comportanti trasferimenti immobiliari - Oggetto - Individuazione - Criteri - Dati censuari - Esclusività - Insussistenza - Concorso con altri elementi alternativi, anche eventualmente contrastanti con quelli censuari - Configurabilità - Fattispecie
Ai fini dell’individuazione dell’oggetto dei negozi comportanti trasferimento di beni immobili i dati censuari costituiscono soltanto uno dei vari elementi utilizzabili in proposito, ben potendo, a tale scopo, esserne impiegati altri, in
ipotesi contrastanti con gli stessi estremi catastali. (Nella specie, la S.C., enunciando tale principio in accoglimento
del ricorso proposto, ha cassato con rinvio la sentenza di appello impugnata, nella cui motivazione, al fine della ricostruzione dell’oggetto di alcuni contratti di trasferimento immobiliare riportati nell’atto di scioglimento di una S.r.l. e
di contestuale assegnazione dei beni sociali, era stato fatto riferimento soltanto agli estremi catastali degli apparta-
I C ONTRATTI N. 7/2006
659
GIURISPRUDENZA•SINTESI
menti in questione, senza prendere in alcuna considerazione, unitamente agli stessi dati censuari, alla stregua di una
valutazione globale e comparativa, gli ulteriori elementi costituiti dallo stato di fatto delle unità immobiliari all’atto
dello scioglimento della società e dalle risultanze peritali riferite alle estensioni e ai valori dei beni medesimi, in funzione di una corretta ricostruzione delle quote di diritto effettivamente spettanti ai condividenti).
Cassazione Civile, sez. II, 2 dicembre 2005, n. 26233
Pres. Spadone - Rel. Bucciante - P.M. Uccella (Diff.) - G. ed altro c. B.
Contratti in genere - Contratto preliminare (compromesso) - Esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto - Preliminare di vendita - Sentenza costitutiva ex art. 2932 Codice civile - Contratto conseguente - Distinzione dal preliminare - Sussistenza - Risoluzione - Ammissibilità - Condizioni - Motivi - Individuazione
La pronuncia di risoluzione del contratto non può che riguardare obbligazioni da esso nascenti e non certo la mancata esecuzione di un precetto contenuto in una sentenza che, nell’ipotesi di cui all’art. 2932 Codice civile, produce gli effetti del contratto non concluso soltanto dal momento del suo passaggio in giudicato, dando luogo ad un
rapporto che è distinto da quello derivante dal preliminare e che è, a sua volta, suscettibile di risoluzione per inadempimento, ma per ragioni inerenti al nuovo sinallagma venuto in essere.
Invalidità e scioglimento
Cassazione Civile, sez. II, 7 dicembre 2005, n. 26970
Pres. Pontorieri - Rel. Oddo - P.M. D’Ambrosio (Diff.) - E. ed altro c. C. ed altri
I.
Contratti in genere - Invalidità - Nullità del contratto - In genere - Fabbricati - Obbligo di indicazione degli estremi
della concessione edilizia - Funzione - Violazione - Conseguenze - Nullità ex artt. 17 e 40 Legge n. 47/1985 - Difetto
di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo urbanistico - Irrilevanza
Gli artt. 17 e 40 della Legge 28 febbraio 1985, n. 47 comminano la nullità degli atti tra vivi con i quali vengano
trasferiti diritti reali su immobili ove essi non contengano la dichiarazione degli estremi della concessione edilizia
dell’immobile oggetto di compravendita, ovvero degli estremi della domanda di concessione in sanatoria, sanzionando specificamente la sola violazione di un obbligo formale, imposto al venditore al fine di porre l’acquirente di
un immobile in condizione di conoscere le condizioni del bene acquistato e di effettuare gli accertamenti sulla regolarità del bene stesso attraverso il confronto tra la sua consistenza reale e quella risultante dalla concessione edilizia, ovvero dalla domanda di concessione in sanatoria. Pertanto nessuna invalidità deriva al contratto dalla difformità della realizzazione edilizia rispetto alla licenza o alla concessione e, in generale, dal difetto di regolarità sostanziale del bene sotto il profilo del rispetto delle norme urbanistiche.
II.
Contratti in genere - Scioglimento del contratto - Rescissione - Azione generale di rescissione per lesione - Sproporzione tra le prestazioni corrispettive - Valutazione - Criteri - Apprezzamento del giudice di merito - Sindacabilità in
Cassazione - Esclusione - Limiti
In materia di rescissione del contratto per lesione, i criteri per la valutazione della sproporzione tra le prestazioni
corrispettive che integri gli estremi della lesione ultra dimidium sono rimessi al prudente apprezzamento del giudice di merito, la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua motivazione.
Cassazione Civile, sez. II, 2 dicembre 2005, n. 26232
Pres. Spadone - Rel. Trombetta - P.M. Apice (Diff.) - S. c. C.
Contratti in genere - Caparra - Confirmatoria - Domanda di risoluzione del contratto e di risarcimento del danno proposte dalla parte non inadempiente - Successiva proposizione in appello della domanda di recesso ex art. 1385, secondo comma, Codice civile - Ammissibilità - Esclusione - Fondamento
660
I CO N T R ATTI N. 7/2006
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Contratti in genere - Scioglimento del contratto - Recesso unilaterale - Domanda di risoluzione del contratto e di risarcimento del danno proposte dalla parte non inadempiente - Successiva proposizione in appello della domanda di
recesso ex art. 1385, secondo comma, Codice civile - Ammissibilità - Fondamento
Impugnazioni civili - Appello - Domande - Nuove - In genere - Domanda di risoluzione del contratto e di risarcimento del danno proposte dalla parte non inadempiente - Successiva proposizione in appello della domanda di recesso ex art. 1385, secondo comma, Codice civile - Ammissibilità - Esclusione - Fondamento
Nell’ipotesi di versamento di una somma di danaro a titolo di caparra confirmatoria, la parte adempiente che, dopo aver intimato la diffida ad adempiere, abbia agito per la risoluzione del contratto e per la condanna al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1453 Codice civile non può, in sostituzione di dette pretese, chiedere in appello il recesso dal contratto a norma dell’art. 1385, secondo comma, Codice civile, risultando tale istanza preclusa
dalla risoluzione del contratto già avvenuta di diritto con la proposizione della domanda di risoluzione, restando irrilevante la natura dichiarativa della sentenza che accerta la già avvenuta risoluzione. (Nella specie, la S.C. ha chiarito che l’adempiente ha tuttavia diritto di ottenere dall’altra parte la restituzione della somma conferita, configurabile non più quale liquidazione anticipata del danno, ma come somma indebitamente trattenuta dalla parte inadempiente, una volta venuta meno, con la risoluzione, la causa giustificativa della corresponsione).
Cassazione Civile, sez. III, 25 novembre 2005, n. 24899
Pres. Varrone - Rel. Fico - P.M. Scardaccione (Conf.) - R. c. L.
Contratti in genere - Scioglimento del contratto - Risoluzione del contratto - Per inadempimento - Eccezione d’inadempimento - Opponibilità - Condizioni - Insindacabilità in sede di legittimità - Limiti
L’eccezione di inadempimento prevista dall’art. 1460 Codice civile è opponibile quando sussista un rapporto di corrispettività e contemporaneità tra le prestazioni relative alle obbligazioni reciproche delle parti e la non contrarietà
a buona fede dell’inadempimento da parte di colui che formula la relativa eccezione. La valutazione relativa a tali
elementi, indispensabili per l’applicabilità della suddetta eccezione, si risolve in un apprezzamento di fatto demandato al giudice del merito ed è, pertanto, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato.
I C ONTRATTI N. 7/2006
661
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
Fideiussione
Nullità della fideiussione
a «scadenza anticipata»
Cassazione Civile, sez. I - Sentenza del 4 novembre 2005, n. 21396
Pres. Losavio - Rel. Celentano - P.M. Sorrentino (Diff.) - Ric. Banca Novara Scarl - Res. Edilsider S.r.l.
Contratti in genere - Interpretazione - Contratto di fideiussione - Fattispecie in tema di scadenza dell’obbligazione di
garanzia - Collegamento con l’obbligazione principale anche ai fini dell’interpretazione delle relative clausole Necessità - Individuazione dei criteri ermeneutici in tema di negozio fideiussorio - Criterio letterale - Sufficienza Esclusione - Interpretazione complessiva delle clausole - Necessità, anche in relazione alla natura delle obbligazioni
garantite
Dal carattere accessorio dell’obbligazione fideiussoria rispetto all’obbligazione principale discende
che anche l’interpretazione del negozio fideiussorio non può prescindere dal collegamento con la predetta obbligazione, risultando anzi decisiva l’individuazione della stessa obbligazione principale, con
riferimento ai relativi termini di scadenza previsti allorché assumano rilevanza in relazione agli obblighi assunti dal fideiussore. Ai fini della corretta interpretazione delle clausole contrattuali concernenti un negozio fideiussorio non è sufficiente il ricorso al solo dato letterale che fissa l’operatività
della fideiussione senza indagare circa l’effettivo intento del fideiussore dichiarante, occorrendo, altresì, procedere ad un’interpretazione complessiva delle clausole medesime, ai sensi dell’art. 1363 Codice civile, da correlare necessariamente alle particolarità delle obbligazioni garantite. (Nella specie,
la S.C., cassando con rinvio la sentenza impugnata, ha rilevato la violazione dei criteri stabiliti dagli
artt. 1362 e 1363 Codice civile e l’insufficienza della motivazione con cui il giudice di merito aveva
assunto quale unica premessa del procedimento interpretativo il dato letterale indicativo del tempo
di validità ed efficacia della prestata fideiussione senza porlo in correlazione con i termini fissati alla debitrice per il pagamento della sua obbligazione principale oltre che con quelli dati al creditore per
escutere la banca fideiubente, e senza domandarsi se, posti gli uni e gli altri termini, non dovessero
altresì ritenersi coperte dalla garanzia fideiussoria le obbligazioni della stessa debitrice sorte nel termine di operatività della garanzia ma scadute ed esigibili dal creditore presso il fideiussore pur dopo
quel termine, secondo il particolare meccanismo temporale che regolava l’escussione del fideiussore,
e se la banca non fosse nel giusto nel ritenersi non ancora liberata dall’obbligazione di garanzia pur
dopo la scadenza del termine pattuito).
Svolgimento del processo
precedenti di fatto della controversia possono essere
così precisati, in quei termini che concordemente la
parti hanno dedotto:
per i crediti di F. V. S.p.a. nei confronti di E. S.r.l. derivanti da forniture di materiali, la B. P. D. N. (di seguito B.
o, anche, la banca) si rese fideiussore con atto del 6 aprile
1993 della società acquirente, in favore della venditrice
creditore. E. costituì in pegno in favore della Banca suddetta, ed a titolo di controgaranzia, il libretto di risparmio
n. 4. portante il saldo apparente di lire 150.000.000.
Rimasta inadempiuta la obbligazione principale di E., la
F. V. escusse la fideiussione con lettere del 17 e del 21 settembre 1993; la banca rispose eccependo la cessazione
dell’efficacia della fideiussione per decorso del termine
di validità (alla data del 10 settembre 1993) rifiutando di
onorarla e alla richiesta di E. di ottenere la restituzione
I
del libretto costituito in pegno sul presupposto della sopravvenuta inefficacia della fideiussione, oppose che l’avrebbe restituito se e quando la richiedente le avesse
procurato una dichiarazione liberatoria della garantita F.
V.
Perdurando il rifiuto suddetto, nonostante i reiterati solleciti di restituzione del pegno, B. richiese ed ottenne
(ordinanza del 7 febbraio 1996) dal giudice designato del
tribunale di Ancona il sequestro liberatorio del libretto
di risparmio e con successivo atto di citazione in data 11
marzo 1996 convenne in giudizio E. S.r.l. richiedendo
che all’adito tribunale «che fosse dichiarato l’obbligo di
essa banca di restituire il pegno soltanto una volta che
fosse stata riconosciuta estinta o che fosse stata fatta oggetto di rinunzia la fideiussione bancaria prestata in favore della soc. F. V. e che fosse accertata la liceità della
sua pretesa di restituire il pegno solo dietro presentazio-
I CONTRATTI N. 7/2006
663
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
ne di una dichiarazione liberatoria o di una rinuncia della creditrice ovvero della restituzione del documento fideiussorio; inoltre, che fosse accertato il pieno adempimento, da parte sua, dei suoi obblighi nascenti dal rapporto pignoratizio».
In contraddittorio della convenuta, la quale oppone che
«la validità della fideiussione era venuta meno alla data
del 10 settembre 1993 per espressa previsione contrattuale così che l’attrice B. doveva restituire il libretto indipendentemente da qualsiasi dichiarazione liberatoria
del creditore dato che il creditore aveva escusso la garanzia solo dopo tale data e, dunque, non poteva più legittimamente avanzare alcuna richiesta in proposito», il
Tribunale accolse la domanda e dichiarò «il diritto di B.
di trattenere il pegno fino a quando non avesse ottenuto
dal creditore una rinunzia alla fideiussione, una dichiarazione liberatoria dalla garanzia o la restituzione del documento fideiussorio».
Propose appello E. S.r.l. per la riforma della sentenza nel
senso del rigetto della domanda di B.; quest’ultima resistette al gravame per la conferma della sentenza.
All’esito del giudizio di gravame, la Corte di Appello territoriale, con sentenza emessa il 7 maggio 2001, in riforma della sentenza del tribunale respinse la domanda proposta da B.
Avverso la sentenza la banca ha proposto ricorso per cassazione, illustrato con memoria.
Resiste con controricorso e memoria difensiva la E. S.r.l.
Motivi della decisione
iova, per il miglior intendimento dell’impugnazione, riportare qui di seguito le argomentazioni
decisive della Corte di merito.
Questa:
a) individuò il thema decidendum nella risoluzione della
questione circa l’ambito di operatività della garanzia fideiussoria prestata da B., puntualizzando in questi termini le contrapposte posizioni delle parti: «avendo l’appellante interesse ad affermare che la garanzia era già cessata - alla data del 10 settembre 1993 - al momento in cui
il creditore l’aveva escussa mentre l’intendimento dell’appellato è quello di conservare il pegno ad essa collegato, salvo avere la certezza della propria avvenuta liberazione»;
b) puntualizzò che l’indagine interpretativa, da condurre
alla stregua dell’esclusivo canone di cui all’art. 1362 Codice civile, investiva il negozio fideiussorio, costituito
dalla lettera datata 6 aprile 1993 con la quale la B. si era
costituita garante verso la F. V., nella ricerca dell’intento,
non già della comune intenzione delle parti, bensì, trattandosi di atto unilaterale, di quello proprio del dichiarante «senza far ricorso, per determinarlo, alla valutazione del comportamento del destinatario dello stesso»;
c) precisati i criteri, ritenne decisivo che «nel negozio fideiussorio per cui è causa appare del tutto inequivoca la
dizione per cui la garanzia avrebbe conservato validità ed
efficacia fino al 10 settembre 1993 mentre dopo tale da-
G
664
I CONTRATTI N. 7/2006
ta sarebbe stata da ritenersi nulla indipendentemente
dalla restituzione di questo documento»; che «la chiara
espressione utilizzata nell’atto mostra(va) in maniera palese l’intenzione del garante di non estendere la fideiussione al di là di detto termine ed era indubbio che dette
parole indicavano un contenuto sufficientemente preciso che esclude(va) la possibilità per l’interprete di ricavare un significato diverso da quello letterale in base ad
altri criteri ermeneutici e, segnatamente, di dare rilievo
ad un criterio sussidiario quale quello di cui all’art. 1367
c.c. al quale avevano fatto riferimento i primi giudici»;
ed infine, che «le esplicite affermazioni contenute nelle
varie missive inviate dalla banca confermavano che la
volontà dell’Istituto di credito era stata quella di garantire le obbligazioni della E. fino alla data suindicata».
d) osservò che «la prospettata incompatibilità tra il termine di scadenza dell’obbligazione principale e quello di
validità della fideiussione - che, comunque, per quanto
esposto, non poteva consentire una proroga della escussione oltre il 10 settembre 1993 - era presumibilmente e
verosimilmente dovuto ad un difetto di coordinamento
tra il tempo a disposizione del beneficiario (i trenta giorni dalle singole scadenze di pagamento previste nelle fatture, essendo questo stabilito in centoventi giorni «fine
mese», oltrepassavano il limite di operatività della garanzia) per trasmettere copia delle fatture inevase insieme alla richiesta di intervento del fideiussore e la validità
della garanzia, senza, tuttavia, che ciò abbia reso impossibile o eccessivamente difficile il diritto di escussione
esercitabile solo fino alla predetta data del 10 settembre
1993».
Tale motivazione è censurata a mezzo di un unico motivo rubricato «violazione e falsa applicazione di norme di
diritto, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo».
La tesi dell’errore nell’interpretazione dei termini del negozio fideiussorio è argomentata sia con riferimento al
canone ermeneutico (quello di cui all’art. 1362 Codice
civile) seguito dai giudici dell’appello e denunciato come «inadeguato» rispetto alla indicata necessità di
un’interpretazione «complessiva delle clausole contrattuali (art. 1363) nell’osservanza del principio di conservazione (art. 1367), di buona fede (artt. 1366 e 1374 Codice civile)» e secondo la finalità complessiva cui l’atto
era destinato sia con riferimento alle particolarità delle
obbligazioni garantite, rispetto alle quali deduce la ricorrente si dimostrava l’insostenibilità dell’interpretazione
adottata dalla Corte perché finiva per considerare esaurita la garanzia fideiussoria prima (alla data del 10 settembre 1993) della scadenza dell’obbligazione principale (fatture emesse dal 9 al 30 aprile 1993 che avrebbero
dovuto essere pagate da E. entro 120 giorni fine mese,
cioè il 31 agosto 1993 per le quali la lettera fideiussoria
prevedeva l’impegno di essa garante a «pagarvi gli importi delle singole forniture dietro vs. semplice richiesta,
corredata di copia delle fatture, entro 30 giorni dalle singole scadenze» quindi il 30 settembre 1993).
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
Sulla base di tali dati, trascurati dalla Corte di merito, risultava inconfutabilmente - deduce la ricorrente - che
dovendo necessariamente attribuirsi una qualche valenza alla prestata fideiussione, il termine del 10 settembre
1993 non poteva essere ritenuto di «validità ed efficacia» atteso che a quella data nessuna obbligazione fideiussoria, valida fino a 30 giorni dalla scadenza del termine di pagamento che a sua volta era a 120 giorni fine
mese dalla consegna, avrebbe potuto mai essere azionata
dalla creditrice garantita, sicché l’interpretazione avrebbe dovuto essere nel senso che la data del 10 settembre
1993 si riferiva alla scadenza del pagamento delle fatture
garantite e non alla validità temporale dell’importo fideiussorio.
L’esposizione delle censure proposte dalla ricorrente ne
dimostra l’ammissibilità, contestata, invece, dalla resistente. Esse non soltanto attengono al principio di diritto secondo il quale l’interpretazione degli atti negoziali è
sindacabile in sede di legittimità sia per violazione delle
regole ermeneutiche sia per inadeguatezza (con riferimento tanto alla sua esaustività che alla correttezza logico - giuridica) della motivazione ma risultano anche correttamente formulate attraverso la specifica indicazione
dei criteri che si assumono in concreto violati dalla Corte di merito.
Disaminate nel loro contenuto critico, le censure medesime sono da ritenersi fondate.
Dal carattere accessorio dell’obbligazione fideiussoria rispetto all’obbligazione principale, di talché la posizione
del fideiussore è strettamente collegata al rapporto che intercorre tra il debitore principale e il creditore e alla particolarità dell’obbligazione principale, trattandosi, appunto,
di garantire l’esatto adempimento di questa, discende anche che l’interpretazione del negozio fideiussorio non può
prescindere da tale collegamento, risultando anzi decisiva
l’individuazione dell’obbligazione principale, segnatamente dei suoi termini di scadenza allorché assumano rilevanza in relazione agli obblighi del fideiussore.
Ne consegue, per il caso di specie, che la dizione, contenuta nel negozio fideiussorio e sulla quale la Corte di merito ha formato la sua attenzione, «per cui la garanzia
avrebbe conservato validità ed efficacia fino al 10 settembre 1993 mentre “dopo tale date sarà da ritenersi
nulla indipendentemente dalla restituzione di questo
documento”» e che la stessa ha individuato come da sola concludente e decisiva al fine di ritenere che la garanzia fideiussoria prestata da B. conservasse efficacia e validità fino alla data del 10 settembre 1993, ancorché interpretata secondo la lettera, non risulta idonea a togliere senso a quella ulteriore formulazione della stessa lettera fideiussoria - la cui esistenza, dedotta secondo i criteri
di autosufficienza del ricorso per cassazione (v. pag. 7 del
ricorso) la resistente E. S.r.l. non ha contestato né nel
controricorso né nella memoria e che è rimasta in tutta
evidenza trascurata nel procedimento interpretativo - la
quale, individuando l’impegno della garante B. di «pagare gli importi delle singole fatture dietro vostra semplice
richiesta, corredate di copia delle fatture, entro 30 giorni
delle singole scadenze», precisava, appunto, i termini di
escussione del fideiussore con riferimento alla data di
scadenza dall’obbligazione principale.
Risultano dunque effettivamente violati lo stesso art.
1362 Codice civile, perché la Corte ha tenuto in considerazione il solo dato letterale che fissava l’operatività
della fideiussione senza indagare circa l’effettivo intento
del fideiussore dichiarante, nonché il criterio ermeneutico dall’art. 1363 Codice civile secondo il quale «le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle
altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto».
La violazione di quest’ultimo criterio ermeneutico viene
in evidenza proprio in quel passaggio della motivazione
della sentenza (v. pag. 7) nel quale è esposta una giustificazione, quale la Corte di Appello ha inteso dare, a quella «incompatibilità» che la banca appellante aveva prospettato tra il termine di scadenza dell’obbligazione principale e quello di validità della fideiussione. La spiegazione data dalla Corte, in termini di «presumibilità e verosimiglianza», è tale che è rimasta attribuita ad una
anormalità («difetto») intrinseca del negozio fideiussorio quel mancato «coordinamento tra il tempo a disposizione del beneficiario per trasmettere copia delle fatture
inevase insieme alla richiesta di intervento del fideiussore e la validità della garanzia stessa» che, invece, avrebbe potuto essere affermata, e giustificata con adeguata
motivazione, soltanto all’esito di una esauriente analisi
di tutte la clausole del negozio suddetto, in collegamento con le particolarità delle obbligazioni garantite. Quel
coordinamento non ha trovato invece spiegazione, se
non quella basata sull’affermato difetto, proprio perché
la Corte ha assunto quale unica premessa del procedimento interpretativo il solo dato letterale indicativo del
tempo di validità ed efficacia della prestata fideiussione
senza porlo in correlazione con i termini fissati alla soc.
E. per il pagamento della sua obbligazione principale e
con i termini dati alla creditrice F. V. per escutere la banca fideiubente e senza domandarsi se, posti gli uni e gli
altri termini, non dovessero altresì coperte dalla garanzia
fideiussoria le obbligazioni di E. sorte nel termine di operatività della garanzia ma scadute ed esigibili dal creditore presso il fideiussore pur dopo quel termine, secondo il
particolare meccanismo temporale che regolava l’escussione del fideiussore - sicché la banca non fosse nel giusto nel ritenersi non ancora liberata dell’obbligazione di
garanzia pur dopo la scadenza del termine del 10 settembre 1993.
La sentenza impugnata dov’essere, pertanto, cassata con
rinvio ad altro giudice, il quale provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata
e rinvia per nuovo esame, e per la spese del giudizio di
cassazione, alla Corte di Appello di Bologna.
I CONTRATTI N. 7/2006
665
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
IL COMMENTO
di Pier Giovanni Traversa
Dall’analisi della sentenza in commento, l’Autore ha
ricostruito la distinzione giurisprudenziale tra la fattispecie valida della fideiussione a tempo determinato e quella a scadenza anticipata (nulla, secondo la
giurisprudenza di legittimità, perché conclusa in duriorem causam), prestando particolare attenzione alla modalità con la quale la S.C. ha proceduto all’individuazione dei criteri ermeneutici del negozio fideiussorio, attraverso un’interpretazione complessiva delle
clausole e non solamente sulla scorta del criterio letterale.
Il caso
A garanzia del pagamento di crediti rivenienti da forniture di materiali, la società resistente concesse fideiussione alla società creditrice, a mezzo dell’istituto bancario
ricorrente costituendo in pegno, in favore del fideiussore
ed a titolo di controgaranzia, un libretto di risparmio.
Poiché l’obbligazione principale della debitrice resistente rimase inadempiuta, la società creditrice tentò di
azionare la sua garanzia personale, escutendo la fideiussione inutilmente, però, a seguito dell’eccepito decorso
del termine di validità della stessa, sollevata dall’istituto
bancario il quale, inoltre, si rifiutò di restituire alla società debitrice resistente il libretto costituito in pegno,
fino a quando la stessa non le avesse fornito una dichiarazione liberatoria da parte della società creditrice, garantita dalla fideiussione.
Al fine di dare giuridica consistenza alle proprie
istanze, in via preventiva, la banca fideiussore ottenne il
sequestro liberatorio (art. 687 Codice di procedura civile) del libretto di risparmio costituito in pegno convenendo, inoltre, la società garante in giudizio perché «[…]
fosse dichiarato l’obbligo della banca di restituire il pegno soltanto una volta che fosse stata riconosciuta estinta o che fosse stata oggetto di rinunzia la fideiussione
bancaria prestata in favore della [società creditrice] e che
fosse accertata la liceità della sua pretesa di restituire il
pegno solo dietro presentazione di una dichiarazione liberatoria o di una rinuncia della creditrice ovvero della
restituzione del documento fideiussorio; inoltre, che fosse accertato il pieno adempimento, da parte sua, dei suoi
obblighi nascenti dal rapporto pignoratizio […]».
La società convenuta (debitrice della somma; concedente la fideiussione; resistente in Cassazione), oppose alla banca attrice (fideiussore) che, per espressa previsione contrattuale, la fideiussione si era estinta precedentemente all’escussione e che, pertanto, la banca era
tenuta a «[…] restituire il libretto (la controgaranzia) indipendentemente da qualsiasi dichiarazione liberatoria
del creditore […]»
666
I CONTRATTI N. 7/2006
Il Tribunale accolse la domanda attorea, dichiarando legittimo il comportamento del fideiussore.
In appello, invece, venne completamente ribaltato
l’esito del giudizio favorevole alla banca in prima istanza.
La pronunzia della Corte d’Appello fu, successivamente, censurata dalla banca ricorrente in Cassazione
con un motivo unico, rubricato «violazione e falsa applicazione di norme di diritto, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo».
Vediamo perché.
Il contratto di fideiussione
Nella normale dialettica del rapporto obbligatorio,
«il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri» (1). Tra gli strumenti di garanzia forniti dal legislatore e dalla prassi mercatoria, la scelta delle parti può orientarsi tra due distinte
opzioni: le garanzie reali (2) (con le quali il creditore ottiene la possibilità di soddisfarsi su determinati beni del
debitore) o le garanzie personali (3) (ove una terza persona assume l’obbligo di rispondere, al posto del debitore, nel caso in cui questi resti inadempiente).
La fideiussione costituisce la garanzia personale
maggiormente utilizzata nella prassi, avendo come soggetti stipulanti il fideiussore ed il creditore. Il terzo è soltanto soggetto interessato al contratto. Prova ne è la circostanza (nella prassi alquanto remota) che questi possa
anche non essere a conoscenza della prestata fideiussione (art. 1936 cpv. Codice civile).
Anche se ai fini della validità del contratto di fideiussione, la legge non richiede espressamente né la
forma scritta (4), né l’utilizzazione di formule particolari
(5), normalmente le parti si avvalgono della forma scritta, poiché «la volontà di stipulare la fideiussione deve risultare in modo espresso (art. 1937 Codice civile), senza
incertezze o ambiguità» (6).
Nel presente commento si cercherà di analizzare
esclusivamente i limiti (art. 1941 Codice civile) e l’estensione (art. 1942 Codice civile) della fideiussione,
unitamente all’interpretazione del contratto fideiussoNote:
(1) Cfr. art. 2740, primo comma, Codice civile.
(2) Oltre ai due classici istituti del pegno (artt. 2784 ss. Codice civile) e
dell’ipoteca (artt. 2808 ss. Codice civile), sempre maggiore interesse (soprattutto nei mercati finanziari), vanno assumendo i contratti di garanzia
finanziaria (D.Lgs. n. 170/2004).
(3) Tra le più utilizzate citiamo: l’avallo; il mandato di credito; il contratto autonomo di garanzia; la lettera di patronage (c.d. comfort letter); la cessione di credito in garanzia; il mandato all’incasso.
(4) Cfr. Cass. 4 marzo 1981, n. 1262, in Mass. Giust. civ., 1981, 3.
(5) Cfr. Cass. 22 maggio 1980, n. 3377, in Giur. it., 1981, I, 1, 1528.
(6) Cfr. Cass. 8 maggio 1981, n. 3027, in Giur. it., 1982, I, 1.
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
rio, alla luce di quanto stabilito dalla Suprema Corte
nella pronuncia in rassegna.
Tuttavia occorre effettuare una breve considerazione sui principi cardine dell’istituto giuridico in oggetto.
Autorevole dottrina (7) si è espressa nel senso che il
contenuto dell’obbligazione fideiussoria consisterebbe
nell’adempimento di una prestazione uguale a quella
principale con la libertà, per il creditore, di rivolgersi indifferentemente al debitore o al fideiussore (8). Il rapporto fideiussorio realizzerebbe la propria funzione di garanzia in virtù di un «allargamento del potere di aggressione del creditore» (9) anche alla persona del nuovo
debitore obbligato nei limiti, però, previsti dal disposto
di cui all’art. 1941 Codice civile.
Gli elementi dell’accessorietà e della sussidiarietà
del rapporto fideiussorio, pur esplicandosi nell’estensione della garanzia «[…] a tutti gli accessori del debito
principale, nonché alle spese […]», secondo quanto stabilito dall’art. 1942 Codice civile, troverebbero il proprio limite nella sostanziale equivalenza alla quale ricondurre le due obbligazioni, in conformità a quanto disposto dall’art. 1941 Codice civile.
La validità della fideiussione con durata minore
rispetto all’obbligazione principale
Ad avviso di chi scrive, dalla lettura della sentenza in
commento, emergono alcuni interrogativi che troppo poco hanno occupato dottrina e giurisprudenza in passato.
Le parti possono stabilire che la fideiussione abbia
una durata minore rispetto all’obbligazione principale
garantita? In altre parole, è configurabile nel nostro ordinamento una fideiussione a tempo determinato? Quali
ripercussioni eserciterebbe l’asimmetria cronologica sul
collegamento negoziale? Dalla lettera dell’art. 1957 Codice civile, emerge come il legislatore abbia preso in esame soltanto la scadenza anticipata dell’obbligazione
principale (primo comma), oppure la coincidenza temporale tra quest’ultima e l’obbligazione accessoria (secondo comma), non curandosi degli interrogativi di cui
sopra.
Da una superficiale ricognizione dei citati commi di
legge, il concetto di scadenza e quello di durata dell’obbligazione (indifferentemente se principale o accessoria), sembrerebbero sovrapporsi l’uno all’altro, fino a
confondersi.
Il problema interpretativo non è di poco momento,
visto che già in passato (10) (relativamente alle obbligazioni con esecuzione periodica o ripetuta) i giudici di legittimità ebbero modo di occuparsi di simili questioni,
stabilendo che il termine di scadenza di cui all’art. 1957
Codice civile, è quello entro il quale «devono eseguirsi
le singole prestazioni e non quello che segna l’estinzione
dell’intero rapporto». La Corte motivò la sua pronuncia
richiamandosi alla regola del «normale adeguamento
della estensione, nel tempo, della obbligazione fideiussoria a quella del rapporto principale, di cui la fideiussione
è accessoria».
In quella sede, però, si verteva in una fattispecie
parzialmente diversa da quella in commento, poiché all’attenzione dei giudici giunse la questione della coincidente scadenza temporale dell’obbligazione principale e
di quella accessoria.
Il legislatore, nell’elaborazione dell’art. 1957, primo
comma, Codice civile, prese in considerazione il caso in
cui la fideiussione non fosse stata gravata da alcun termine di validità o di efficacia. Per evitare che il fideiussore potesse rimanere obbligato in aeterno, allora, il legislatore decise di introdurre un limite al potere di escutere la garanzia da parte del creditore, costringendolo ad
azionare la fideiussione entro sei mesi dalla scadenza dell’obbligazione principale.
Tale decadenza è in assoluta coerenza con la ratio di
cui all’art. 1941 Codice civile, ma lascia, in chi scrive, la
sensazione che talvolta possa essere facilmente confusa
(quantomeno semanticamente) la scadenza dell’obbligazione, con la sua estinzione.
Tale sovrapposizione va assolutamente respinta,
coerentemente a quanto sopra riportato (11). Benché
scaduta, l’obbligazione, infatti, non può dirsi ancora
estinta.
Il disposto dell’art. 1218 Codice civile non dà luogo
a fraintendimenti: l’inesatta esecuzione della prestazione
dovuta, da parte del debitore, sottopone quest’ultimo al
risarcimento del danno.
Due sono le possibili condotte negative dell’obbligato sanzionate dal legislatore: l’inadempimento ed il ritardato adempimento. Il primo dà il via alla patologia
del rapporto obbligatorio, il secondo contraddice il principio di correttezza, al quale dovrebbe ispirarsi il comportamento delle parti negoziali e caduca quel favor debitoris chiaramente desumibile dal combinato disposto degli artt. 1183-1186 Codice civile.
A sostegno di quanto detto, è facile osservare come il
legislatore stesso abbia ragionato in questi termini, allorché ha stabilito che, in caso di coincidenza temporale del
termine di scadenza dell’obbligazione principale e di quella fideiussoria (art. 1957, secondo comma, Codice civile),
non si vanifica il carattere dell’obbligazione di garanzia,
Note:
(7) Per tutti Ravazzoni, voce Fideiussione, in Dig. civ., 280.
(8) Si tratta, ovviamente, di una semplificazione che non tiene conto del
dibattito dottrinario - giurisprudenziale sulla solidarietà sui generis o atipica della fideiussione di cui all’art. 1944, primo comma, Codice civile e
che, secondo parte autorevole della dottrina, porterebbe il creditore a doversi rivolgere preventivamente al debitore, prima di escutere la garanzia
(c.d. beneficium ordinis). In questo senso Fragali, Della fideiussione, in Enc.
dir., 363; Campobasso, La obbligazione cambiaria, 120; D’Orazi Flavoni, Fideiussione, in Trattato Grosso e Santoro Passarelli, 36 ss. In senso difforme
Cass., s.u., n. 5572/1979, in Giur. it., 80, I, 581; Cass. 4 marzo 1995, n.
2517, in Mass. Giur. it., 1995.
(9) Ravazzoni, voce Fideiussione, in Dig. civ., 258.
(10) Cass. 27 ottobre 1972, n. 3315, in Rep. Foro it., 1972, voce Fideiussione, 21, 1182.
(11) Ibidem.
I CONTRATTI N. 7/2006
667
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
ma è possibile ancora chiederne l’adempimento entro un
termine decadenziale, anche se più ristretto (due mesi).
La legge tace, però, sul caso in cui le parti abbiano
apposto alla fideiussione un termine non coincidente
con quello dell’obbligazione principale.
Di seguito restringeremo la nostra analisi soltanto
alla fattispecie della fideiussione con durata minore rispetto all’obbligazione principale (12).
Prima del 1987, fattispecie del genere non erano
ancora giunte all’attenzione della S.C.
Con la prima pronuncia in argomento (13), la Corte affrontò un caso molto simile a quello che ci occupa,
trattandosi di una fideiussione prestata da un istituto di
credito a garanzia del pagamento di forniture di merci
(convenuto, tra le parti, a novanta giorni dalle singole
forniture). Accadde che la fideiussione venne stipulata
con un termine di «efficacia» e «validità» (14) inferiore
a quello dell’obbligazione principale.
All’epoca i giudici di legittimità ritennero che, ai
sensi dell’art. 1941 Codice civile, le parti avrebbero ben
potuto limitare la «portata» della fideiussione, prestandola «per un determinato periodo di tempo, decorso il
quale la fideiussione [si sarebbe estinta]» (15). Infatti,
sempre secondo il ragionamento della S.C., la limitazione temporale della fideiussione non sarebbe stata in contrasto con il principio della naturale accessorietà della
medesima.
La pronuncia, però, presta il fianco ad alcune critiche, poiché oltre a non motivare la ragione di tale arrêt,
la S.C. aggiunse che la ragione della validità della stipula di un termine minore, fosse da ricercare nell’«interesse del fideiussore di non rimettere alla mera volontà del
garantito […] il termine della garanzia, prolungandone
la durata senza il consenso del fideiussore, mediante la
concessione al proprio debitore di modalità di pagamento che renderebbero più onerosa l’obbligazione fideiussoria». In quel caso, la volontà del fideiussore di limitare la
durata della garanzia, venne dedotta dalla «chiara formulazione della lettera [fideiussoria], nella quale veniva
stabilito che la garanzia avrebbe perduto efficacia e validità» ad una certa data e che, trattandosi di «non equivoca volontà del fideiussore, risultante dalla […] scrittura», «non era consentito il ricorso ad altri criteri interpretativi», al di fuori di quello letterale.
Dodici anni dopo quella prima pronuncia, la Cassazione tornò nuovamente sull’argomento (16) e nella sua
motivazione, oltre a riportare pedissequamente quanto
stabilito dai giudici del 1987, furono inserite le parole di
commento di un annotatore anonimo della prima pronuncia. Il risultato finale di quest’operazione ortopedica,
ha portato i giudici di legittimità a distinguere nettamente la fattispecie valida da quella nulla.
Secondo la giurisprudenza riportata, quindi, sarebbe
possibile stipulare un contratto di fideiussione per un periodo di tempo determinato, «decorso il quale la garanzia viene ad estinguersi» (17). Sulla scorta di tale ragionamento, secondo la S.C., le parti potrebbero valida-
668
I CONTRATTI N. 7/2006
mente stabilire una durata della fideiussione minore rispetto a quella convenuta per l’obbligazione principale.
In questo senso, allora, possiamo dire che la durata
del rapporto principale e di quello accessorio, possono essere validamente modulati dall’autonomia contrattuale
delle parti ai sensi dell’art. 1322 Codice civile ma, qualora
l’intento negoziale fosse quello di anticipare l’esigibilità
della fideiussione rispetto alla normale scadenza dell’obbligazione principale (caducando il principio dell’accessorietà), la fattispecie non troverebbe più adeguata regolazione nel dispositivo di cui all’art. 1957 Codice civile,
bensì violerebbe i limiti contemplati dall’art. 1941 Codice civile esponendo il fideiussore ad un forte pregiudizio.
È in tale contesto che, a parere di chi scrive, andrebbe studiata la problematica della fideiussione prestata in leviorem o duriorem causam, cioè avendo ben presenti quali siano i limiti oltre i quali la fideiussione prestata risulti carente di meritevolezza sociale.
Brevi cenni di diritto comparato
Taluni sistemi giuridici lontani geograficamente dal
nostro, ma fortemente tributari della tradizione romanogermanistica (18), tra le cause di estinzione della fideiussione, contemplano espressamente «la scadenza del termine» (19).
Il Código civil peruviano del 1984, all’art. 1898 (20),
prevede il caso in cui il fiador (fideiussore), obbligatosi
per un periodo di tempo determinato, si liberi dalla proNote:
(12) In relazione all’ipotesi opposta, cfr. Cian - Trabucchi, Commentario
breve al Codice civile, Padova, 2004, art. 1957, I, 4, 1934.
(13) Cass. 19 dicembre 1987, n. 9466, in Banca borsa tit. cred., 1989, II,
133.
(14) Ibidem.
(15) Ibidem.
(16) Cass. 20 febbraio 1999, n. 1427, in Giur. it., 1999, II, 1576.
(17) Ibidem.
(18) Per un’approfondita disamina sulle novità giurisprudenziali che riguardano la Bürgschaft (fideiussione) in Germania, in particolare quella
«a prima richiesta» (auf erstes Anforden), rinviamo alle pagine di Barillà,
Fideiussione «a prima richiesta» e fideiussione «omnibus» nella giurisprudenza
del Tribunale Federale Tedesco, in Banca borsa tit. cred., 2005, 337.
(19) Calderale, Autonomia contrattuale e garanzie personali, Bari, 1999, 36 ss.
(20) Artículo 1898 - Fianza por plazo determinado. «El fiador que se obliga
por un plazo determinado, queda libre de responsabilidad si el acreedor no exige notarial o judicialmente el cumplimiento de la obligación dentro de los quince días siguientes a la expiración del plazo, o abandona la acción iniciada.».
Norme simili sono prevista dal Código civil venezuelano: Artículo 1836
«El fiador que haya limitado su fianza al mismo plazo acordado al deudor principal, quedará obligado, aun más allá de este término, y por todo el tiempo necesario para apremiarle al pago, siempre que el acreedor en los dos meses siguientes al vencimiento del término, haya intentado sus acciones y las haya seguido con diligencia hasta su definitiva decisión» e da quello messicano: Articulo 2848 «El fiador que se ha obligado por tiempo determinado, queda libre de
su obligacion, si el acreedor no requiere judicialmente al deudor por el cumplimiento de la obligacion principal, dentro del mes siguiente a la expiracion del
plazo. Tambien quedara libre de su obligacion el fiador, cuando el acreedor, sin
causa justificada, deje de promover por mas de tres meses, en el juicio entablado contra el deudor».
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
pria obbligazione allorché l’acreedor (creditore) non esige giudizialmente o stragiudizialmente l’adempimento
del debitore nei quindici giorni successivi allo spirare del
termine o abbandona l’azione già intrapresa.
Questa norma adotterebbe, secondo certa dottrina
(21) la medesima prospettiva del nostro art. 1957 Codice civile, secondo e terzo comma, «cercando di conciliare gli opposti interessi del fideiussore e del creditore, concedendo a quest’ultimo un breve termine, successivo alla scadenza della fianza, per esigere il pagamento dal debitore e per inoltrare la sua richiesta in via stragiudiziale,
senza iniziare a tutti i costi un processo, spesso non necessario» (22).
Tuttavia, coerentemente con quanto fin qui scritto,
riteniamo che il mero rinvio al disposto di cui all’art.
1957 Codice civile, non sia l’unico dato comparativo da
prendere in esame.
Posto che il Codice civile peruviano prevede
espressamente la possibilità per il fideiussore di obbligarsi in maniera più onerosa rispetto al debitore (23), il problema della durior causa e del coordinamento con i limiti di cui al nostro art. 1941 Codice civile, in quell’ordinamento giuridico, non si pone, semmai è interessante
notare come in Perù, la fideiussione debba essere stipulata per iscritto a pena di nullità (24) e, soprattutto, possa
essere prestata a garanzia di un’obbligazione a termine
(25).
deiussione non può essere validamente prestata, sancendo la nullità di quelle «modalità di adempimento dell’obbligazione, che vengono ad importare concretamente un aggravamento della prestazione, socialmente apprezzabile» (31).
Quindi, se la parti stabiliscono che la fideiussione
possa essere escussa dal creditore prima della scadenza
dell’obbligazione principale, stipulano una fideiussione in duriorem causam, sancendo l’invalidità della relativa clausola, rilevabile anche d’ufficio dal giudice
(32), poiché attinente alla causa del contratto di garanzia.
In condizioni normali, questa sarebbe la grande differenza rispetto alla diversa situazione in cui le parti stabiliscono una durata minore della fideiussione che, non
esponendo il garante ad un «aggravamento socialmente
apprezzabile della prestazione», è da ritenersi, al contrario, valida ed efficace.
Tuttavia il nostro caso è affatto peculiare. Nell’atto
costitutivo della fideiussione (che personalmente riteniamo essere stata sottoposta dalle parti ad una clausola
«a prima richiesta») (33), la dizione utilizzata dai contraenti è meno cristallina di quanto abbiano ritenuto i
giudici di appello.
Note:
Scadenza anticipata della fideiussione.
Nullità della clausola in duriorem causam
Nel caso che ci occupa, come si concilia la fideiussione «a prima richiesta» (fattispecie considerata generalmente valida da dottrina (26) e giurisprudenza
(27)), con il «concreto aggravamento» (28) dell’onerosità della prestazione fideiussoria riveniente da una
scadenza più breve della stessa rispetto all’obbligazione
garantita?
Perché nel secondo caso si parla di fideiussione in
duriorem causam, con la conseguente nullità della clausola relativa all’anticipazione del tempo di adempimento dell’obbligazione fideiussoria, ai sensi dell’art. 1941
Codice civile?
Nella fideiussione con clausola «a prima richiesta»,
il fideiussore rinuncia ad opporre al creditore le eccezioni di cui all’art. 1945 Codice civile, derogandovi e sottoponendosi, sostanzialemente ad una clausola solve et repete (29) (prima paghi, poi contesti).
Tale modalità di fideiussione, pur continuando a
partecipare dell’accessorietà che contraddistingue la fideiussione vera e propria (con ciò differenziandosi dal
contratto autonomo di garanzia, indipendente dall’obbligazione principale, salva l’eccezione di dolo) (30), si
caratterizza da un punto di vista processuale per la circostanza che il fideiussore prima adempie e solo dopo può
contestare il credito.
Col disposto di cui all’art. 1941 Codice civile, invece, il legislatore ha introdotto i limiti oltre i quali la fi-
(21) Calderale, op. cit., 37.
(22) Pezet, Montero, Quiros, Contrato de fianza, sub art. 1898, 613 in Código civil, VI, Esposicion de motivos y comentarios, Lima, 1985.
(23) Artículo 1873 - Extensión de la obligación del fiador «Sólo queda obligado el fiador por aquello a que expresamente se hubiese comprometido, no pudiendo exceder de lo que debe el deudor. Sin embargo, es válido que el fiador se
obligue de un modo más eficaz que el deudor».
(24) Artículo 1871 - Formalidad de la fianza «La fianza debe constar por escrito, bajo sanción de nulidad».
(25) Artículo 1872 - Fianza de obligacioness futuras «[…]Es igualmente válida la fianza por una obligación condicional o a plazo».
(26) Fra i numerosi Autori che si sono occupati della fattispecie in questione, si segnalano in particolare Bonelli, Le garanzie bancarie «a prima
domanda»; Draetta e Vaccà, Le garanzie contrattuali. Fideiussione e contratti autonomi di garanzia nella prassi interna e nel commercio internazionale, Milano, 1994, 204 ss; Calderale, Fideiussione e contratto autonomo di garanzia,
Bari, 1989, 229 ss.; Cuccovillo, Pagamento «a prima richiesta» e decadenza
del creditore, tra autonomia e accessorietà della garanzia, Riv. dir. civ., 2005,
379.
(27) Cfr. per tutte Cass. 1 giugno 2004, n. 10486, in Banca borsa tit. cred.,
2005, II, 481.
(28) Ravazzoni, voce Fideiussione, in Dig. civ., 280.
(29) Cfr. art. 1462 Codice civile.
(30) Cass. 3 febbraio 1999, n. 920, Mass. Giur. it., 1999.
(31) Ravazzoni, Fideiussione, cit., 260.
(32) Cfr. Cass. 13 agosto 1953, n. 2729, citata da Ravazzoni, cit.
(33) Questa circostanza farebbe venir meno la questione della scadenza
anticipata della fideiussione e della conseguente nullità della clausola in
duriorem causam, poiché costringerebbe il garante in ogni caso ad adempiere e soltanto in un secondo momento lo legittimerebbe a contestare il
credito.
I CONTRATTI N. 7/2006
669
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
La S.C. interpreta complessivamente le clausole
del negozio fideiussorio
Secondo l’insegnamento tradizionale (34), «interpretare vuol dire individuare il significato di un atto o di
un fatto» e nel caso particolare del contratto e degli atti
giuridici in generale, si pone «il problema della determinazione del significato della dichiarazione in relazione
agli scopi che gli autori intendono realizzare» (35). Lo
sforzo richiesto all’interprete consiste nel trovare una
congruenza tra l’atto considerato e la funzione che ad esso attribuisce la norma giuridica, attraverso il tipo negoziale riconosciuto, oppure quella liberamente voluta dalle parti col limite, però, della meritevolezza degli interessi perseguiti (art. 1322, secondo comma, Codice civile).
Le regole dell’interpretazione del contratto, riportate agli artt. 1362 ss. Codice civile, secondo la dottrina
maggioritaria (36) costituirebbero dei veri e propri «precetti normativi», anche se i canoni ermeneutici in essi
racchiusi, non esprimerebbero in maniera «costante e
continua espressioni di regole collegate e consequenziali
l’una all’altra» (37).
Con la sentenza in commento, la Cassazione ha
censurato l’interpretazione del giudice di secondo grado,
il quale erroneamente ha ritenuto esaurita la garanzia fideiussoria prima (10 settembre 1993) della scadenza dell’obbligazione principale, inibendone la successiva
escussione.
Secondo quanto desumibile dagli accordi intercorsi
tra il fornitore e l’acquirente, l’importo risultante dalle
fatture emesse, avrebbe dovuto essere pagato «entro 120
giorni fine mese». La lettera fideiussoria, inoltre, prevedeva l’espresso impegno, da parte del garante, a pagare
gli importi delle fatture «dietro […] semplice richiesta,
corredata di copia delle fatture, entro 30 giorni dalle singole scadenze» (30 settembre 1993).
La Corte ha accolto, pertanto, le deduzioni della ricorrente procedendo ad un’interpretazione complessiva
(art. 1363 Codice civile) del negozio fideiussorio, non limitandosi al dato letterale che fissava la materiale operatività della fideiussione al prescritto termine.
Secondo giurisprudenza costante della S.C. «è necessario procedere al coordinamento delle varie clausole
anche quando l’interpretazione parrebbe potersi compiere sulla sola base letterale della singola clausola» (38).
Da quest’operazione ermeneutica è risultato che,
nel caso in rassegna, il termine apposto alla fideiussione
non era di validità ed efficacia della stessa, visto che a
quella data la fideiussione non poteva essere ancora
escussa. Quindi, non era in questione la validità temporale dell’importo fideiussorio, bensì «la scadenza del pagamento delle fatture garantite» (39).
Secondo i giudici di legittimità, quindi, il contratto
fideiussorio doveva essere interpretato dal giudice di merito (Corte d’Appello) avendo riguardo al contenuto
dello stesso (40), in particolare alla luce della volontà
dei contraenti i quali, volontariamente e concordemente, aggiunsero nel contratto un’ulteriore dizione (non
670
I CONTRATTI N. 7/2006
contestata dalla resistente né nel controricorso, né nella
memoria), in forza della quale le obbligazioni sorte nel
periodo di garanzia, benché non ancora scadute (leggi
esigibili), godevano ancora della copertura fideiussoria
(41), indipendentemente dal sopraggiunto termine finale del contratto di garanzia stipulato (42).
Riteniamo che la Corte abbia fatto emergere con
forza il carattere accessorio sul quale poggiava l’obbligazione fideiussoria, salvandone il collegamento negoziale
con l’obbligazione principale, attraverso la considerazione unitaria della fattispecie, da un punto di vista oggettivo (il nesso eziologico tra i negozi) e soggettivo (la comune intenzione delle parti a coordinare i negozi per la
realizzazione di un fine ulteriore, casualmente autonomo) (43).
È questo il senso che dovrebbe comunemente attribuirsi alla funzione della garanzia personale la quale, come mezzo di rafforzamento dell’aspettativa satisfattoria
del creditore, comporta inevitabilmente un nesso di
coordinazione tra rapporto di garanzia e rapporto garantito (44).
Conclusioni
Qual è la funzione socialmente meritevole di tutela
di una fideiussione di durata inferiore rispetto all’obbligazione principale? La giurisprudenza non risponde
espressamente a questa domanda, ma ha riconosciuto
validità alla fattispecie de qua, in un caso (45) attenenNote:
(34) Grassetti, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo
ai contratti, Padova, 1983, con rinvio alla dottrina tedesca ed in particolare a Friedrichs, Der allgemeine Teil des Rechts, Berlino, 1927, 125. Nel panorama dottrinario italiano ci limitiamo, per brevità, a segnalare Alpa,
L’interpretazione del contratto, Milano, 1983. Per una ricostruzione sistematica dei concetti di qualificazione ed interpretazione del negozio giuridico, ci sia consentito rinviare al nostro Contratto di…e qualificazione, in
questa Rivista, 2006, 329 ss.
(35) Costanza, voce Interpretazione dei negozi di diritto privato, in Dig. civ.,
1993, X, 26.
(36) Per tutti Sacco, Il contratto, Tratt. Sacco, II, Torino, 1993, 366 ss.;
Bianca, Il contratto, cit., 416 ss.; Bigliazzi Geri, L’interpretazione del contratto, in Commentario Schlesinger, 31 ss. In senso contrario Carresi, Il contratto, in Trattato dir. civ. comm., Milano, 1987, II, 519.
(37) Cfr. Sacco, Il contratto, Tratt. Vassalli, Torino, 1975, 903.
(38) Per tutte Cass. 14 novembre 2002, n. 16022, Mass. Giust. civ., 2002,
1976.
(39) Vedi sentenza in commento.
(40) Cfr. Trib. Milano 29 ottobre 2004, in Banca borsa tit. cred., 2005, II,
483.
(41) Cfr. Cass. 25 gennaio 2000, n. 805, Mass. Giust. civ., 2000, 133.
(42) Facciamo riferimento a quella parte del contratto in cui si esplicita
l’impegno della banca fideiubente a «pagare gli importi delle singole fatture dietro vostra semplice richiesta, corredate di copia delle fatture, entro 30 giorni dalle singole scadenze».
(43) Cfr. Cass. 17 dicembre 2004, Mass. Giust. civ., 2004.
(44) Cfr. A. Giusti, La fideiussione e il mandato di credito, Milano, 1998, 33.
(45) Nota 13.
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
dosi al mero dato letterale del contratto e, nell’altro
(46), distinguendola dall’ipotesi di fideiussione con
«scadenza» anticipata, da dichiararsi nulla perché stipulata in duriorem causam.
Nella pronuncia qui in rassegna, la Cassazione non
ha esaudito la curiosità del commentatore, poiché si è
giustamente preoccupata di interpretare complessivamente le clausole del negozio fideiussorio collegato con
l’obbligazione principale. In questo modo essa si è
conformata ad un suo precedente arresto (47) sul rapporto esistente tra la durata dell’obbligazione principale
e quella della fideiussione ed il normale adeguamento
dell’estensione nel tempo, alla luce del principio di accessorietà e di quanto stabilito dall’art. 1941 Codice civile in tema di limiti della fideiussione
Se, da un lato si può dire che la fideiussione a «sca-
denza» anticipata sia passibile di nullità perché conclusa
in duriorem causam, dall’altro lato e provando a rispondere all’interrogativo di cui sopra, non ci convince che la
fideiussione a «durata» inferiore risponda ad un interesse meritevole di tutela, né per il creditore, né tantomeno
per il debitore dell’obbligazione principale, anzi la carenza di una sua funzione concreta la porrebbe, a parere di
chi scrive, in forte sospetto di nullità per la mancanza di
uno dei requisiti essenziali del contratto, la causa (artt.
1418 e 1325 Codice civile).
Note:
(46) Nota 16.
(47) Nota 10.
I CONTRATTI N. 7/2006
671
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
Locazione
I diritti del conduttore
alla partecipazione
all’assemblea condominiale
e all’uso del parcheggio
Cassazione Civile, sez. III - Sentenza del 3 ottobre 2005, n. 19308
Pres. Fiduccia - Rel. Perconte Licatese - P.M. Apice (Conf.) - Ric. Maec S.r.l. In Liq. - Res. Imm. Campoloniano S.r.l.
I.
Locazione - Disciplina delle locazioni di immobili urbani (Legge 27 luglio 1978, n. 392, cosiddetta sull’equo
canone) - Immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione - Diritti ed obblighi delle parti - Partecipazione del
conduttore all’assemblea dei condomini - Obbligo d’informazione da parte del locatore - Limiti - Delibere relative alla
modificazione dei servizi comuni da cui derivi un aggravio di spese - Inadempimento - Rifiuto di rimborsare i maggiori
oneri derivanti dalle delibere adottate - Legittimità - Risoluzione per inadempimento - Esclusione - Sospensione
dell’adempimento - Esclusione
In tema di locazione, l’art. 10 della Legge 27 luglio 1978, n. 392, applicabile anche alla locazione d’immobili urbani ad uso diverso da quello abitativo, riconoscendo al conduttore la facoltà
d’intervenire, senza diritto di voto, nelle assemblee condominiali aventi ad oggetto delibere relative alla modificazione dei servizi comuni diversi da quelli di riscaldamento e condizionamento d’aria, pone a carico del locatore un obbligo d’informazione, il cui inadempimento legittima il
rifiuto da parte del conduttore di rimborsare i maggiori oneri conseguenti a delibere adottate in
sua assenza per mancata informazione, ma non incide sul sinallagma contrattuale, e non può
quindi essere addotto dal conduttore quale motivo di risoluzione del contratto di locazione, né
per sospendere l’adempimento delle proprie obbligazioni, ai sensi dell’art. 1460, primo comma,
Codice civile. In quanto volto a tutelare l’interesse del conduttore a non sopportare maggiori spese per la fornitura dei servizi comuni, il diritto d’intervento è peraltro limitato alle sole assemblee in cui si discutano modificazioni dei predetti servizi da cui derivi una spesa o un aggravio
di spesa che, in definitiva, andrà a gravare sul conduttore, e non anche alle assemblee con diverso oggetto oppure deliberanti su servizi comuni ma senza riflessi sull’onere delle spese.
II.
Contratti in genere - Invalidità - Nullità del contratto - Parziale - Area predisposta per il parcheggio degli autoveicoli
- Vincolo pertinenziale - Locazione - Trasferimento del diritto all’uso dell’area - Clausole di esclusione - Nullità Sostituzione «ope legis».
La speciale normativa urbanistica che prescrive la destinazione obbligatoria di appositi spazi a parcheggi (art. 41 sexies della Legge 17 agosto 1942, n. 1150, aggiunto dall’art. 18 della Legge 6 agosto
1967, n. 765, e modificato dall’art. 9 della Legge 23 aprile 1989, n. 122, ed art. 26, quarto comma,
della Legge 28 febbraio 1985, n. 47) pone un vincolo pubblicistico di destinazione che non può subire deroga negli atti privati di disposizione degli spazi stessi; in caso di locazione, pertanto, il diritto
del proprietario di un’unità immobiliare all’uso dell’area predisposta per il parcheggio degli autoveicoli deve essere necessariamente trasferito al conduttore, alla stregua della stretta inerenza del diritto stesso all’effettiva utilizzazione dell’immobile secondo la sua destinazione, con la conseguenza che
il contratto di locazione il quale escluda tale trasferimento è affetto da nullità parziale, determinandosi «ope legis» il trasferimento medesimo, attraverso la sostituzione di diritto delle clausole difformi con la norma imperativa.
672
I CONTRATTI N. 7/2006
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
Svolgimento del processo
el 1990 la S.r.l. M. 3 conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Rieti, la S.r.l. Immobiliare
C., premettendo di avere stipulato con essa, il 1°
dicembre 1989, un contratto di locazione commerciale,
deducendo il colpevole inadempimento della locatrice
all’obbligazione di garantirle l’uso, da parte della clientela, dell’area di parcheggio antistante all’immobile locato,
e chiedendo pertanto la risoluzione del contratto, il risarcimento dei danni conseguenti alla chiusura dell’esercizio, avvenuta per mancanza di parcheggi, nonché la restituzione dei canoni pagati e del deposito cauzionale.
La convenuta replicava che il contratto prevedeva la sola locazione della superficie coperta e non anche del parcheggio e che comunque la disciplina del parcheggio era
stata adottata dall’assemblea condominiale, nel corso
della quale essa si era opposta alla delibera poi approvata.
Avendo il presidente del Tribunale di Rieti emesso un
decreto ingiuntivo a carico della M. 3 per il pagamento
dei canoni insoluti, l’ingiunta proponeva opposizione,
esponendo gli stessi argomenti della prima citazione.
Riuniti i giudizi, il Tribunale, con sentenza n. 747 del
1993, dato atto del pagamento eseguito dalla M. 3, revocava il decreto; rigettava tutte le domande della M. 3; dichiarava risolto il contratto del 1° dicembre 1989 per
inadempimento di quest’ultima e la condannava al pagamento dei canoni dovuti, detratto il deposito cauzionale ricevuto dalla locatrice.
Il Tribunale rilevava, anzitutto, che, contrariamente a
quanto asserito dall’attrice, non risultava stipulato fra le
parti alcun patto aggiunto al contratto del 1° dicembre
1989, relativo alle modalità di uso e godimento dell’area
di parcheggio, diverse e più ampie di quelle consentite a
ciascun condomino; inoltre, che la deliberazione (peraltro impugnata dalla locatrice) di approvazione del regolamento condominiale era stata adottata dall’assemblea
del 18 novembre 1989, in data quindi antecedente a
quella di stipulazione del contratto, donde la inoperatività del diritto d’intervento del conduttore; che nessuna
prova era stata data alla M. 3 circa l’incidenza della situazione di fatto creatasi a seguito della delimitazione
dell’area di parcheggio nel volume di affari dell’esercizio
commerciale gestito dalla stessa; che, da ultimo, quanto
al decreto ingiuntivo, lo stesso andava revocato solo perché la M. 3 aveva provveduto al pagamento del dovuto,
non risultando elementi capaci di giustificare il venir
meno del credito in capo alla società locatrice.
Nel frattempo la M. 3 chiedeva ed otteneva, il 23 maggio 1991, un decreto ingiuntivo per lire 15.000.000, per
la restituzione del deposito cauzionale. Proponeva opposizione l’ingiunta società Immobiliare e, in riconvenzionale, chiedeva la condanna della controparte al pagamento dei canoni dovuti dall’agosto 1990 fino alla riconsegna dei locali.
Con sentenza n. 717 del 1994, il Tribunale di Rieti revocava il decreto, rigettava le domande della M. 3 e la condannava a pagare alla Immobiliare C. lire 45.000.000.
N
La M. 3 impugnava le suddette sentenze n. 747 del 1993
e n. 717 del 1994. L’appellata si costituiva in entrambi i
giudizi, chiedendo il rigetto dei gravami.
Con sentenza 15 febbraio 2001, la Corte d’Appello di
Roma, dopo aver riunito i giudizi, rigettava le impugnazioni.
Ricorre per la cassazione di tale sentenza la M. 3 in liquidazione, formulando sei mezzi di annullamento.
Resiste con controricorso la società Immobiliare C.
Ambo le parti hanno depositato una memoria e la ricorrente, altresì una replica alle conclusioni del P.G.
Motivi della decisione
ol primo motivo, denunciando la violazione degli artt. 1362, 1575 nn. 2 e 3 e segg. e 2697 Codice civile nonché omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art.
360 nn. 3, 4 e 5 Codice procedura civile), la ricorrente,
per contestare la ritenuta anteriorità della delibera condominiale al contratto, deduce come pacifici e incontestati una serie di fatti, e cioè: che il contratto di locazione, stipulato all’origine con la S.d.f. M. A. e C., è del 19
marzo 1989; che la M. 3 è subentrata nel contratto per
cessione di azienda; che la stessa M. 3 esercitò l’attività
di supermercato già prima della delibera condominiale
18 novembre 1989 di limitazione del parcheggio; che il
1° dicembre 1989 il contratto venne semplicemente
volturato a nome della M. 3; che perciò non vi è soluzione di continuità tra la S.d.f. M. A. e C. e la M. 3 nella gestione del supermercato; che la stessa controparte riconobbe l’anteriorità dell’attività della locataria M. 3 rispetto alla delibera condominiale; che la M. 3 ha iniziato l’attività il 21 ottobre 1989 con autorizzazione amministrativa.
Ricorda come la Corte d’Appello ammetta che vi era un
uso del parcheggio, da parte del supermercato, antecedente al 1° dicembre 1989 e alla delibera condominiale;
e come la stessa Immobiliare C., dopo la delibera, abbia
messo a disposizione della M. 3 il telecomando per accedere al parcheggio, declinando verso il Condominio
ogni responsabilità per i danni che la chiusura del parcheggio avrebbe potuto arrecare all’attività della conduttrice.
Avrebbe dovuto perciò la Corte riconoscere il titolo della M. 3 a partecipare all’assemblea condominiale e adeguatamente interpretare, a tale scopo, il comportamento
delle parti prima, durante e dopo il contratto.
Col secondo motivo, denunciando la violazione degli
artt. 1575 nn. 2 e 3, 1578, 1581, 1582, 1585 e 1586 Codice civile, 18 della Legge 6 agosto 1967, n. 765, 26 della Legge 28 febbraio 1985, n. 47, 41 sexies della Legge 17
agosto 1942, n. 1150, introdotto dalla Legge 6 agosto
1967, n. 765 e novellato dall’art. 2, secondo comma, della Legge n. 122 del 1989, nonché vizio di motivazione
(art. 360 nn. 3 e 5 Codice di procedura civile), premesso
che il bene locato, per la sua destinazione, deve disporre
di un parcheggio, la cui esistenza è condizione per l’eser-
C
I CONTRATTI N. 7/2006
673
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
cizio dell’attività in base a inderogabili previsioni normative; sostiene che è in atti la prova dell’uso del parcheggio da parte della clientela della M. 3 già all’atto
della stipulazione della locazione e prima della delibera
condominiale, mentre la postuma consegna del telecomando alla M. 3 non era idonea e sufficiente a ripristinare, dopo la delibera condominiale, quell’uso. Il diritto
all’uso del parcheggio dev’essere e viene trasferito per
legge al conduttore e il locatore è tenuto ad assicurarne
il godimento pieno: atti privatistici che fossero diretti a
sottrarre dette aree alla loro destinazione sarebbero nulli, perché contrari a norme imperative.
Tutti questi problemi sono stati ignorati dalla Corte
d’Appello.
Col terzo motivo, denunciando la violazione degli artt.
1571, 1575 nn. 2 e 3 e 1582 Codice civile nonché omessa pronuncia (art. 360 n. 4 Codice di procedura civile),
lamenta che non sia stata esaminata la sua domanda di
risoluzione del contratto per fatto e colpa della Immobiliare C.: colpa ravvisabile nel non aver adempiuto l’obbligo di garantire al supermercato il pacifico godimento
del parcheggio, in modo che la cosa locata potesse continuare ad essere usata secondo la destinazione convenuta, come negozio. Il venir meno del parcheggio infatti fa
venir meno quella che, per norma inderogabile di legge,
è una caratteristica che assurge a condicio sine qua non
della stessa possibilità di realizzazione edilizia e di uso tipico del bene. Nessuna valutazione è stata fatta di questo
inadempimento grave e molteplice della immobiliare
C., anche sotto il profilo del mancato invito della conduttrice all’assemblea.
Col quarto motivo, denunciando la violazione degli artt.
30, secondo comma, e 59 u.c. della Legge n. 392 del
1978 nonché vizio di motivazione e omessa pronuncia
(art. 360 nn. 2 e 5 Codice di procedura civile), rileva come non sia stata accolta e nemmeno esaminata l’eccezione di incompetenza sollevata nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, sotto il profilo che la condanna ai canoni locatizi era di competenza per valore o
per materia del pretore e non del tribunale.
Lamenta ancora la ricorrente che la materia della sentenza n. 717 del 1994 sia stata dalla Corte d’Appello immotivatamente liquidata con una conferma del grave
inadempimento della conduttrice.
Col quinto motivo, denunciando la violazione dell’art.
2697 Codice civile (art. 360 n. 3 Codice di procedura civile), dopo aver ricordato che una normativa inderogabile impone, con valutazione sottratta alle parti, che i
negozi (supermercati) debbano avere parcheggi pertinenziali, osserva che è stato negato il rapporto causale
tra la chiusura del parcheggio e la chiusura dell’esercizio
commerciale, senza dare la possibilità di provare il contrario alla M. 3, le cui istanze istruttorie sono state tutte
rigettate.
Col sesto motivo, infine, denunciando la violazione degli artt. 1216 e 1209, secondo comma, Codice civile (art.
360 nn. 3 e 5 Codice civile), rileva che la locatrice ri-
674
I CONTRATTI N. 7/2006
fiutò di prendersi in restituzione l’immobile offertole fin
dalla citazione del 25 luglio 1990, imponendo quale
condizione che la M. 3 si riconoscesse inadempiente e rinunciasse a qualsiasi pretesa verso la Immobiliare C. Dal
momento di tale offerta pertanto non poteva decorrere
più alcun obbligo di pagamento di canoni.
Va risolta, prima di passare al merito di queste censure,
una questione pregiudiziale.
Eccepisce la resistente l’inammissibilità del ricorso perché notificato solo nel domicilio eletto dalla Immobiliare C. nel giudizio di appello n. 432 del 1996 (avverso la
sentenza n. 717 del 1994) e non anche nel domicilio
eletto dalla medesima nel giudizio di appello n. 351 del
1995 (avverso la sentenza n. 747 del 1993).
Il rilievo è esatto, ma improduttivo di conseguenze processuali.
Si premette che la Immobiliare C., nelle due cause di appello, elesse domicilio, col proprio difensore Avv. …, a
Roma, in due luoghi diversi, e precisamente a Via …,
presso l’Avv. … (n. 351/1995) e a Via …, presso l’Avv.
… (n. 432/1996); e che il ricorso è stato notificato all’Immobiliare C., il 29 marzo 2002, presso l’Avv. …, solo nel domicilio eletto in Via …, dato il trasferimento altrove dell’altro domiciliatario.
Ciò premesso, con l’unico ricorso sono state gravate le
sentenze terminative dei due giudizi di appello, occasionalmente riunite nell’unica sentenza n. 509 del 2001, e
pertanto a costituire validamente il rapporto d’impugnazione, in relazione all’intera materia controversa, è sufficiente la notifica alla parte, presso il procuratore costituito, l’Avv. …, in uno dei due domicili eletti, ai sensi
dell’art. 330 u.c. Codice procedura civile; giacché con
quest’unica notifica la parte (e per essa il suo procuratore costituito) ha avuto conoscenza del gravame interposto contro ambedue le pronunce riunite ed è stata così in
grado di difendersi, come poi ha fatto, su tutta la materia
del ricorso.
L’autonomia concettuale dei giudizi e delle relative pronunce, ancorché contestuali, fatta salva dalla riunione
disposta ai sensi dell’art. 274 Codice procedura civile,
non può essere infatti spinta fino a richiedere, per una
valida impugnazione, una duplice notifica della medesima impugnazione alla stessa parte e presso lo stesso procuratore costituito; ossia, in violazione del criterio di
economia processuale, la duplicazione del medesimo
adempimento.
Consegue che entrambe le sentenze pronunciate nei due
giudizi di appello, solo formalmente riunite nell’unica
sentenza n. 509 del 2001, ma concettualmente autonome, sono state ritualmente impugnate.
Nell’ordine logico viene, subito dopo, l’esame del quarto
motivo, di cui va affermata l’infondatezza.
Nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dalla M. 3 per la restituzione della cauzione, la locatrice chiese e ottenne, in riconvenzionale, il pagamento
dei canoni scaduti. Per quanto è dato di capire, il Tribunale, secondo la ricorrente, sarebbe stato competente ra-
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
tione valoris per la restituzione della cauzione (lire
15.000.000, pari a tre mensilità: pag. 14 del ricorso), ma
non per il pagamento dei canoni, di competenza del pretore o per valore o per materia.
Senonché, all’epoca dell’introduzione (1991) e della decisione (sent. n. 717 del 1994) della causa riconvenzionale, la competenza per valore del pretore era di lire
5.000.000 (art. 2 della Legge 30 luglio 1984, n. 399), per
cui certamente eccedeva tale importo la domanda di pagamento «dei canoni di locazione e comunque dei corrispettivi dovuti, ai sensi dell’art. 1591 Codice civile, dall’agosto 1990 alla data di riconsegna dei locali» (pag. 15
del ricorso), e, nello stesso periodo, non era ancora subentrata la speciale competenza per materia del pretore
nelle controversie relative a rapporti di locazione (art. 8,
secondo comma, n. 3 Codice procedura civile, in vigore
dal 30 aprile 1995).
La speciale competenza per materia del pretore, configurata dall’art. 30 della Legge n. 392 del 1978, invocato
dalla ricorrente, riguardava la «procedura per il rilascio»
degli immobili adibiti ad uso diverso dall’abitazione, non
le cause di pagamento dei canoni della locazione, che seguivano, fino al 30 aprile 1995, le regole ordinarie di
competenza.
Legittimamente quindi il Tribunale provvide anche sulla domanda riconvenzionale, di sua competenza (art. 36
Codice procedura civile).
Per quanto concerne la seconda parte del motivo, dove
la ricorrente denuncia l’immotivata affermazione del suo
inadempimento all’obbligazione di pagare il canone, se
ne dirà più oltre.
Il primo, il secondo, il terzo e il quinto motivo, da trattare, per le loro connessioni, congiuntamente, sono destituiti di fondamento.
Ha accertato in punto di fatto la sentenza impugnata,
sulle orme del Tribunale, «l’anteriorità, non contestata,
della delibera condominiale relativa all’area di parcheggio rispetto al contratto di locazione in questione», dovendo per ciò solo escludersi che l’appellante avesse titolo per partecipare all’assemblea del 18 novembre
1989.
È opinione altresì del giudice di appello che «il precedente uso, in qualche modo tollerato, contrariamente a
quanto assunto dall’«appellante», sia «fatto inidoneo a
costituire titolo al suo mantenimento, non conferendo
alcuna situazione giuridica protetta».
La sentenza soggiunge essere «del tutto irrilevante che
fossero intervenute autorizzazioni amministrative, essendo pacifico che tali atti sono rilasciati, sempre, fatti salvi
i diritti dei terzi».
Ed infine, conclude, «neppure emerge se il dissesto economico della M. 3 S.r.l. fosse da imputare al venir meno
del parcheggio o piuttosto ad una non accorta conduzione della gestione dell’impresa».
Ciò premesso, rileva anzitutto il Collegio che l’anteriorità della delibera condominiale è difficilmente contestabile sulla base del puro dato cronologico, risalendo il
contratto di locazione al 1° dicembre 1989. Ma, seppure
si volesse dare per ammesso, in via di ipotesi, quanto dedotto dalla ricorrente su una precedente cessione del
contratto locativo ai sensi dell’art. 36 della Legge n. 392
del 1978 (argomento sul quale la sentenza tace), non per
questo avrebbero pregio giuridico le doglianze esposte
nel primo motivo, per le considerazioni che seguono.
A norma dell’art. 10, primo comma, della Legge 27 luglio 1978, n. 392, «il conduttore ha diritto di voto, in
luogo del proprietario dell’appartamento locatogli, nelle
delibere dell’assemblea condominiale relative alle spese
e alle modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e
di condizionamento d’aria»; mentre, per il secondo comma, «egli ha inoltre diritto di intervenire, senza diritto di
voto, sulle delibere relative alla modificazione degli altri
servizi comuni».
La disposizione, stante il richiamo contenuto nell’art.
41, primo comma, della stessa legge, si applica anche alle locazioni di immobili urbani ad uso diverso da quello
di abitazione.
Orbene, nel secondo caso, destinatario dell’avviso di
convocazione è sempre il condomino locatore, il quale è
soltanto obbligato ad informare il conduttore della facoltà di intervenire, senza diritto di voto, a tutela di un
interesse suo proprio, nell’assemblea.
Se il locatore venga meno a quest’obbligo, abbia o no il
conduttore la legittimazione ad impugnare e invalidare
per ciò solo il deliberato, lo stesso potrà rifiutarsi di corrispondere al locatore il rimborso dei maggiori oneri
conseguenti a delibere di modifica di servizi comuni
adottate, per mancata informazione, in sua assenza.
Resta sicuramente esclusa, per concorde opinione di
dottrina, ogni conseguenza dell’omissione sulla funzionalità del sinallagma contrattuale della locazione. Non
può, in altri termini, questa omissione del locatore essere addotta dal conduttore a motivo di risoluzione del
contratto locativo (artt. 1453 e segg. Codice civile) e
nemmeno per valersi, ai sensi dell’art. 1460, primo comma, Codice civile, della sospensione dell’adempimento
delle proprie obbligazioni. Essa spiega insomma efficacia
solo nell’ambito dello speciale rapporto che si instaura
ope legis, tra locatore e conduttore, in tema di partecipazione alla spesa relativa alla fornitura, in genere, dei servizi comuni (artt. 9, primo comma, 10, secondo comma,
e 41, primo comma, della cit. Legge n. 392 del 1978).
Tuttavia, proprio in forza della naturale correlazione tra
la fornitura del servizio comune e la spesa a carico del
conduttore, il diritto di intervento alle assemblee senza
diritto di voto, dovendo essere coordinato con l’interesse del medesimo a non sopportare aggravi di spesa, non
può riferirsi che alle sole modificazioni dei servizi comuni le quali importino una spesa o un aggravio di spesa
che, in definitiva, andrà a gravare sul conduttore; non
già ad assemblee con diverso oggetto oppure deliberanti
su servizi comuni ma senza riflessi sull’onere delle spese.
Tutto ciò premesso, non risulta dalla sentenza e nemmeno viene dedotto nel ricorso che la delibera del 18 no-
I CONTRATTI N. 7/2006
675
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
vembre 1989 abbia comportato, sul tema controverso
della disciplina del parcheggio negli spazi condominiali,
una spesa o un aggravio di spesa che dovesse ricadere a
carico della M. 3; e pertanto nulla dimostra che quest’ultima dovesse essere informata dell’assemblea dalla locatrice.
In secondo luogo, a tutto concedere, la M. 3, per l’eventuale violazione, da parte della locatrice, del dovere di
informativa, non potrebbe mai chiedere e ottenere la risoluzione del contratto di locazione per inadempimento
della locatrice né avrebbe mai potuto sottrarsi all’obbligo di pagare il canone, potendo semmai rifiutarsi solo di
rimborsare alla proprietaria la spesa o la maggiore spesa
approvata con la delibera, ma tale questione non è oggetto di controversia.
Indiscutibile dunque l’inadempimento della M. 3 all’obbligo di pagamento dei canoni, giustamente sanzionato
dal giudice di merito.
Nessun altro inadempimento può essere ascritto alla locatrice C.
Ben s’intende come, col contratto di locazione in discorso, siano stati trasferiti alla conduttrice, sulle parti comuni dell’edificio, gli stessi poteri spettanti alla condomina
locatrice, stante il principio che, in forza del contratto di
locazione, nei limiti della prevista destinazione del bene
locato, passano al conduttore tutte le facoltà di godimento appartenenti al proprietario, senza distinzione tra
le utilità fornite dalla porzione immobiliare esclusiva e
quelle eventualmente derivanti dall’uso delle parti condominiali, tra cui gli spazi adibiti a parcheggio. Il conduttore può pertanto servirsi di tali beni comuni nella
identica misura e con le stesse modalità con le quali se
ne sarebbe potuto servire il proprietario e sottostando alla relativa disciplina condominiale.
Può altrimenti dirsi, sempre in conformità della giurisprudenza di questa Corte Suprema, che, in caso di locazione di una unità immobiliare compresa in un edificio
in condominio, il godimento concesso al conduttore
non si esaurisce nella porzione del singolo piano di proprietà esclusiva del condomino locatore, bensì riguarda
anche, nei limiti della quota spettante a quest’ultimo, le
parti comuni che siano necessarie per l’esercizio dei diritti derivanti dalla locazione.
Orbene, la sentenza impugnata, come già il Tribunale,
ha accertato che non risulta «stipulato fra le parti alcun
patto aggiunto anteriore, contemporaneo o posteriore al
contratto di locazione del dì 1° dicembre 1989, relativo
alle modalità di utilizzazione e godimento dell’area di
parcheggio antistante i locali, diverse e più ampie di
quelle consentite a ciascun condomino» (pag. 3: statuizione anch’essa, a pag. 6, giudicata corretta «e perciò da
confermare»); e, segnatamente, di quelle consentite alla
locatrice C., tra le quali, come è incontroverso, non
rientrava una facoltà di uso delle aree destinate a parcheggio pari, per estensione, a quella pretesa dalla conduttrice, ovvero proporzionata alle presumibili esigenze
della clientela di un supermercato.
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I CONTRATTI N. 7/2006
La pretesa di quest’ultima di permettere il parcheggio, in
dette aree, alla propria clientela, senza sottostare alla diversa disciplina condominiale, ovvero alle stesse regole
cui avrebbe dovuto sottostare la locatrice, è dunque, solo per questo, priva di giuridico fondamento (per non dire che, in linea di principio, la disciplina dell’uso delle
cose comuni rientra soltanto nei poteri della collettività
dei condomini (art. 1138 Codice civile), per cui nemmeno con un apposito patto sarebbe stato possibile attribuire alla conduttrice poteri più ampi di quelli spettanti
alla locatrice).
È il caso di sottolineare, altresì, che non ha pregio il richiamo della ricorrente alla speciale normativa urbanistica prescrivente la destinazione obbligatoria di appositi spazi a parcheggi (art. 41 sexies della Legge 17 agosto
1942, n. 1150, aggiunto dall’art. 18 della Legge 6 agosto
1967, n. 765, secondo cui «nelle nuove costruzioni ed
anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse,
debbono essere riservati appositi spazi per i parcheggi in
misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione» (rapporto raddoppiato dalla
Legge n. 122 del 1989); art. 26, quarto comma, della
Legge 28 febbraio 1985, n. 47, secondo cui «gli spazi di
cui all’art. 18 della Legge 6 agosto 1967, n. 765 costituiscono pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti degli artt. 817, 818 e 819 Codice civile»).
Tali norme infatti pongono un vincolo pubblicistico di
destinazione, che non può subire deroga negli atti privati di disposizione degli spazi stessi, le cui clausole difformi
sono perciò sostituite di diritto dalla norma imperativa
(Cass. 7 giugno 2002, n. 8262). Per meglio dire, il diritto del proprietario di un’unità immobiliare all’uso dell’area predisposta per il parcheggio degli autoveicoli, secondo la citata disciplina innovativa, deve essere necessariamente trasferito, in caso di locazione, al conduttore,
alla stregua della stretta inerenza del diritto stesso all’effettiva utilizzazione dell’immobile secondo la sua destinazione, con la conseguenza che il contratto di locazione il quale escluda tale trasferimento è affetto da nullità
parziale, determinandosi ope legis il trasferimento medesimo (Cass. 25 febbraio 1992, n. 2337).
Data la funzione svolta da queste norme, che è quella di
assicurare, per esigenze di ordinario sviluppo urbanistico,
un determinato rapporto tra cubatura degli edifici e spazi destinati a parcheggio e di sancire l’immodificabilità di
tale destinazione anche nei rapporti tra privati, non si
comprende come la ricorrente possa invocarle a tutt’altri fini, ossia per farne derivare il proprio diritto all’uso
dell’area di parcheggio in una misura che non spettava
alla dante causa e che quindi quest’ultima non poteva,
in forza delle regole generali o speciali, trasferirle.
Ma se poi, in base alla normativa locale, l’esistenza di un
ampio parcheggio per la clientela fosse, come pure prospetta la ricorrente, condizione per ottenere le autorizzazioni all’esercizio del supermercato, un problema del genere non potrebbe interessare la locatrice, ma sarebbe di
stretta competenza della conduttrice, obbligata a procu-
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
rarsi, a proprie spese, in proprietà o ad altro titolo, l’area
ritenuta adeguata alle proprie esigenze; per cui, se la M.
3 abbia subito conseguenze pregiudizievoli per non avere provveduto, imputet sibi.
Tutte queste considerazioni sull’infondatezza del primo,
secondo e terzo motivo del gravame, rendono superfluo
l’esame del quinto, dacché, nessun inadempimento essendo imputabile alla locatrice (la quale, circa le modalità di uso del parcheggio, nulla doveva garantire che
non fosse già ad essa consentito a norma del regolamento condominiale e, come è pacifico, mise a disposizione
della conduttrice il telecomando per accedere. con facoltà pari a quelle che alla locatrice sarebbero spettate,
nell’area delimitata ad uso di parcheggio); nemmeno si
pone il problema della derivazione causale della chiusura dell’esercizio, e del danno conseguente, da un’attività
cosciente e volontaria della C.
Analoga sorte del rigetto merita il sesto ed ultimo motivo.
È sufficiente osservare che, secondo la giurisprudenza di
questa Corte Suprema, l’unico mezzo per costituire in
mora il creditore e provocare la liberazione del conduttore dall’obbligo di pagamento del canone è rappresentato dall’offerta formale di riconsegna per intimazione, ai
sensi dell’art. 1216 Codice civile, seguita, nel caso di rifiuto, dalla nomina di un sequestratario e dalla consegna
a questo della cosa dovuta (Cass. 10 febbraio 2003, n.
1941 e 13 febbraio 2002, n. 2086): ciò che pacificamente non è avvenuto nella fattispecie.
Le spese del presente giudizio gravano sulla parte soccombente e sono liquidate nel dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a
rimborsare alla resistente le spese del giudizio di Cassazione, liquidate in euro 5.100,00, di cui 5.000,00 per
onorario, oltre alle spese generali e agli altri accessori
come per legge.
IL COMMENTO
di Monica Selvini
L’Autore commenta la pronuncia della Corte di Cassazione riguardante i diritti del conduttore a partecipare all’assemblea condominiale avente ad oggetto la
modificazione dei servizi comuni e a godere del parcheggio, evidenziando il merito della sentenza nell’aver precisato che la nullità parziale per contrasto con
la disciplina in tema di parcheggi non investe solo i
contratti di compravendita, ma anche i contratti di locazione.
Per altro aspetto, la S.C. sembra limitare eccessivamente la tutela del conduttore: non sembrerebbe condivisibile la tesi secondo la quale la violazione, da
parte del locatore, dell’obbligo di informare il conduttore dell’assemblea condominiale non influirebbe sul
sinallagma del contratto di locazione.
Il caso
La controversia che ha fornito alla Suprema Corte
l’occasione per una nuova pronuncia in materia di diritti dei conduttori e, in particolare, in tema di parcheggi è
scaturita da una questione tanto semplice quanto attuale: la conduttrice, esercente attività commerciale, conviene in giudizio la propria locatrice, deducendo l’inadempimento all’obbligazione di garantire l’uso, a se stessa e quindi alla clientela del supermercato, dell’area di
parcheggio antistante l’immobile locato.
L’attrice chiede la risoluzione del contratto di locazione e il risarcimento dei danni conseguenti alla chiusura dell’esercizio commerciale a causa della mancanza
di parcheggi (oltre alla restituzione dei canoni pagati e
del deposito cauzionale), la convenuta replica che il
contratto prevedeva la locazione della sola superficie coperta e non dell’area di parcheggio, la cui disciplina era
stata adottata con delibera dell’assemblea condominiale,
alla quale si era peraltro opposta.
Contestualmente la conduttrice si oppone, in forza
degli stessi motivi, al decreto ingiuntivo emesso dal Presidente del Tribunale di Rieti, con il quale era stata condannata a pagare i canoni di locazione insoluti.
I due giudizi vengono riuniti ed il Tribunale di Rieti revoca il decreto ingiuntivo e, rilevato che non sussiste alcun patto aggiunto disciplinante l’uso dell’area di
parcheggio in modo più ampio di quello consentito a
ciascun condomino e che in capo alla conduttrice non
sussisteva alcun diritto di intervento nell’assemblea
condominiale de qua (la delibera era stata adottata in
epoca precedente alla stipulazione del contratto di locazione), dichiara risolto il contratto di locazione per inadempimento della conduttrice, condannandola al pagamento dei canoni dovuti, al netto del deposito cauzionale.
La conduttrice, soccombente anche nel giudizio
d’Appello, propone ricorso per Cassazione, lamentando
che la Corte distrettuale avrebbe dovuto riconoscerle titolo a partecipare all’assemblea condominiale, in quanto
è subentrata nel contratto di locazione per cessione d’azienda, quindi senza alcuna soluzione di continuità con
la precedente conduttrice.
Inoltre, lamenta che il bene locato, per la sua destinazione, deve godere di posti auto, la cui esistenza è condizione per l’esercizio dell’attività in base a inderogabili
previsioni normative, e che, pertanto, il grave inadempi-
I CONTRATTI N. 7/2006
677
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
mento della locatrice all’obbligo di garantire al supermercato l’uso del parcheggio avrebbe dovuto condurre
alla risoluzione del contratto per colpa della locatrice.
La S.C., esaminando congiuntamente i motivi di ricorso, afferma che, al di là della questione circa l’anteriorità o meno della delibera assembleare rispetto al contratto di locazione, comunque la violazione da parte del
locatore dell’obbligo di informare il conduttore della facoltà di intervenire nell’assemblea condominiale, senza
diritto di voto, a tutela di un suo interesse, non ha altro
effetto che quello di legittimare il conduttore pretermesso al rifiuto di corrispondere al locatore la spesa o la maggiore spesa approvata con la delibera, non comportando
la risoluzione del contratto di locazione o la sospensione
dell’adempimento di pagamento dei canoni ex art. 1460
Codice civile.
Aggravio di spesa, che a parere della S.C., non era
avvenuto nel caso di specie.
Inoltre, la S.C. ha ritenuto infondata la pretesa della ricorrente di permettere alla propria clientela il parcheggio nell’area condominiale.
In particolare, i Giudici di legittimità hanno sostenuto il principio secondo il quale con il contratto di locazione vengono trasferiti in capo alla conduttrice tutte
le facoltà di godimento appartenenti alla locatrice, senza distinzione tra le utilità fornite dalla porzione immobiliare esclusiva e quelle derivanti dall’uso delle parti comuni, tra le quali le aree destinate a parcheggi.
Alla conduttrice spetta, pertanto, l’uso dell’area di
parcheggio negli stessi limiti nei quali spetterebbe alla
locatrice, e non nella misura corrispondente alle esigenze di un supermercato.
Soggiunge, poi, la Corte Suprema che la speciale
normativa urbanistica prescrivente la destinazione obbligatoria di appositi spazi a parcheggi, pone in realtà solamente un vincolo pubblicistico di destinazione, inderogabile dai privati e non la possibilità di ottenere dal locatore il trasferimento di un diritto d’uso del parcheggio
più ampio di ciò che spetta al proprietario.
Il diritto di partecipazione del conduttore
all’assemblea condominiale:
conseguenze giuridiche della sua violazione
I Giudici di legittimità anche se ritengono la delibera condominiale, relativa all’area di parcheggio, anteriore rispetto al contratto di locazione de quo, suppongono sussistente il diritto del conduttore a partecipare alla
relativa assemblea condominiale - avvalando, se pur in
via del tutto ipotetica, la tesi della ricorrente su una precedente cessione del contratto di locazione ai sensi dell’art. 36 Legge 27 luglio 1978, n. 392 - e in tal modo si
pronunciano sulle conseguenze della violazione di tale
diritto di partecipazione.
La legge sull’equo canone prevede, all’art. 9, una serie di oneri accessori relativi ai servizi comuni, a carico
del conduttore (salvo patto contrario) e all’art. 10 riconosce allo stesso soggetto il diritto di esprimere la propria
678
I CONTRATTI N. 7/2006
opinione nelle assemblee dei condomini aventi ad oggetto tali servizi.
In particolare, l’art. 10 Legge n. 392/1978 (che in
forza del rinvio operato dall’art. 41, primo comma, si applica anche alle locazioni di immobili ad uso diverso da
quello abitativo) distingue tra delibere condominiali relative alle spese e alle modalità di gestione dei servizi di
riscaldamento e di condizionamento dell’aria, nelle quali il conduttore ha diritto di voto in luogo del proprietario dell’appartamento, e delibere relative alla modificazione degli altri servizi comuni, ove è previsto solamente
il suo diritto di intervento.
L’art. 10 citato introduce, pertanto, nella disciplina
del condominio un’ipotesi di assemblea condominiale
allargata alla partecipazione dei conduttori, i quali deliberano in luogo dei condomini: a tal proposito la dottrina e la giurisprudenza parlano di sostituzione legale del
conduttore al locatore (1).
È noto che, nel condominio, accanto ai diritti di
proprietà esclusiva dei titolari dei vari piani o porzioni di
piano, vi è un correlato diritto di comproprietà sulle parti che, per ragioni strutturali o di utilità, sono destinate a
restare in godimento comune (2).
Ciascun partecipante alla comunione ha la facoltà di
usare tutte queste cose comuni (3), rispettando il principio di solidarietà ai sensi dell’art. 1102 Codice civile, ma,
a fronte di ciò, ha anche il dovere di partecipare alle spese
relative a tutto ciò che usa in comunione con gli altri.
Il conduttore di una unità immobiliare subentra nel
godimento della stessa e delle parti e servizi comuni nell’identica posizione del suo locatore: può utilizzare le cose comuni, ma dovrà partecipare alle spese necessarie per
il loro mantenimento (4).
Il diritto di voto o di intervento del conduttore nelle assemblee aventi ad oggetto i suddetti servizi comuni
è il legittimo presupposto di tal onere, ma può essere garantito solamente con un’adeguata informazione.
Note:
(1) G. Terzago, Il condominio - Trattato teorico-pratico, Milano, 2003, 250.
In giurisprudenza, ex multis: Cass. 13 gennaio 1995, n. 384; Cass. 22 aprile 1992, n. 4802.
(2) La finalità delle parti comuni è, infatti, sempre strumentale, in quanto tendono a rendere possibile il godimento delle parti di proprietà esclusiva (in tal senso G. Terzago, op. cit., 19-20).
(3) Il legislatore, all’art. 1117 Codice civile, ha elencato le parti che sono
generalmente (salvo patto contrario) oggetto di proprietà comune. Tale
elenco risulta sicuramente sovrabbondante rispetto a quello di cui all’art.
9 Legge n. 392/1978, ma tale disposizione (così come quella di cui al successivo art. 10) ha carattere eccezionale rispetto alla disciplina del condominio e, di conseguenza, non è suscettibile di interpretazione estensiva
(in tal senso ex multis: Cass. 27 agosto 1986, n. 5238).
(4) La disciplina del contratto di locazione è, infatti, orientata dal principio che, offrendo il locatore al conduttore la fruizione di servizi comuni,
ulteriori rispetto al godimento del bene locato e implicanti una spesa,
questa deve essere sopportata dal conduttore, a corrispettivo del complessivo godimento ottenuto. M. Di Marzio, Il corrispettivo e le altre obbligazioni di pagamento a carico del conduttore, in La locazione, a cura di P. Cendon,
Torino, 2005, 983.
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
La ratio sottesa all’art. 10 citato è, infatti, proprio
quella di realizzare una migliore tutela degli interessi degli inquilini conduttori in relazione a particolari aspetti
del contratto di locazione, riguardanti il diretto godimento del bene e che potrebbero essere non conosciuti
dal proprietario (5).
Purtroppo l’art. 10 Legge n. 392/1978 non precisa
né le modalità per assicurare la partecipazione del conduttore all’assemblea, né le conseguenze dell’omessa
convocazione e nulla statuisce in merito alla possibilità
del conduttore pretermesso di impugnare le delibere
adottate in sua assenza.
Per quanto attiene al primo aspetto la S.C., con la
sentenza in commento, ha precisato che destinatario
dell’avviso di convocazione è il condomino locatore e
che, quindi, costui ha l’obbligo di informare il conduttore della facoltà di intervenire nell’assemblea a tutela di
un suo interesse, in forza del rapporto di locazione che li
lega.
La Cassazione sembra, quindi, accogliere l’orientamento prevalente secondo il quale l’art. 10 Legge n.
392/1978 non deroga al combinato disposto degli artt.
1136 Codice civile e 66-67 disp. att. Codice civile e non
muta il rapporto tra il condominio e il singolo condomino: l’amministratore, il cui mandato è stato conferito
esclusivamente dai condomini, resta estraneo al rapporto di locazione e, non avendo alcun rapporto diretto con
il conduttore inquilino, ha l’onere di avvisare dell’assemblea solamente il locatore (6).
Le conseguenze della violazione, da parte del locatore, di quest’obbligo di informazione costituiscono uno
dei punti centrali della pronuncia in esame.
I giudici di legittimità, infatti, senza considerare il
problema della validità delle delibere assembleari adottate senza la partecipazione del conduttore (7) - con o
senza diritto di voto così come previsto dalla legge sull’equo canone - concentrano la loro attenzione sulle conseguenze di tale inadempimento del locatore.
In particolare, i giudici scindono i rapporti giuridici
tra il proprietario e l’inquilino in due parti: da un lato
pongono il contratto di locazione, dall’altro il rapporto
che si instaura ope legis in tema di partecipazione alla spesa relativa alla fornitura dei servizi comuni.
L’omessa informazione dell’assemblea da parte del
locatore al conduttore non influirebbe, pertanto, sul sinallagma del contratto di locazione, ma spiegherebbe la
sua efficacia esclusivamente sulla ripartizione degli oneri di spesa dei servizi comuni tra locatore e conduttore.
In particolare, secondo la Suprema Corte, il conduttore potrà rifiutarsi di corrispondere al locatore il rimborso (8) dei maggiori oneri conseguenti a delibere di
modifica dei servizi comuni, adottate in sua assenza, per
mancata informazione (9), ma non potrà fondare su tale
omissione la risoluzione del contratto di locazione né potrà sospendere l’adempimento delle proprie obbligazioni
ai sensi dell’art. 1460, primo comma, Codice civile.
Il principio affermato dalla sentenza in commento
risulta limitare la tutela del conduttore, contraente debole.
Si consideri, infatti, che:
Note:
(5) Nel caso di specie, il conduttore aveva il diritto di intervenire - senza
diritto di voto - nell’assemblea, in quanto avente ad oggetto l’uso dell’area di parcheggio. M. De Tilla, La convocazione dell’assemblea dei conduttori nel caso di unico proprietario locatore e in generale i diritti del conduttore in
relazione all’assemblea condominiale che delibera sul riscaldamento, nota a
Cass. 3 aprile 1990, n. 2762, in Giust. civ., 1990, 2027.
(6) G. Terzago, Le locazioni dopo l’equo canone, Milano, 1980, 347; R.G.
Balzani, Chi ha l’obbligo di trasmettere l’invito dell’assemblea dei condomini
agli inquilini, in Arch. loc., 1981, 335-336; Cosentino-Vitucci, Le locazioni
dopo le riforme del 1978-1985, Torino, 1986, 249; F. Basile, Sull’obbligo di
comunicare all’inquilino la convocazione dell’assemblea dei condomini, nota a
Trib. Milano 6 giugno 1988, in Giur. it., 1989, 327-330; Sapeva, Gli oneri condominiali nel contratto di locazione, Padova, 1989, 28 ss.; R. Triola,
L’assemblea di condominio, Milano, 1991, 45. In dottrina si registra, tuttavia, anche altro orientamento che ritiene la modificazione delle norme in
tema di convocazione dell’assemblea implicita nella previsione del diritto di voto del conduttore ex art. 10 Legge n. 392/1978, altrimenti il locatore dovrebbe rilasciare delega al conduttore in quanto non potrebbe diversamente giustificare la sua partecipazione all’assemblea nei confronti
degli altri condomini, verso i quali non vanta alcun diritto. Tale tesi afferma, pertanto, che è preferibile ritenere sussistente il diritto del conduttore a partecipare all’assemblea direttamente nei confronti del condominio, con la conseguenza di ritenere da un lato il conduttore onerato dell’obbligo di comunicare all’amministratore la sua qualità e dall’altro l’amministratore obbligato a inviagli l’avviso di convocazione. In tale senso
cfr. Potenza-Chirico-Annunziata, L’equo canone, Milano, 1978, 106; Militerni, L’equo canone, Napoli, 1978, 25; Bozzi-Conforti-Del Grosso-Zimatore, voce Locazione di immobili urbani, in Nuoviss. Dig. it., VI, Torino,
1983, 1005. In giurisprudenza sostengono la tesi di cui in narrativa: Cass.
22 aprile 1992, n. 4802; Cass. 10 luglio 1980, n. 4420; App. Genova 4
maggio 1996; Trib. Milano 6 giugno 1988; Pret. Bologna 9 febbraio 1984.
Contra, Cass. 10 luglio 1980, n. 4420, Trib. Perugia 7 settembre 1989;
Trib. Varese 4 luglio 1978.
(7) L’opinione prevalente in dottrina e in giurisprudenza è nel senso di
considerare invalide e impugnabili dallo stesso conduttore pretermesso le
deliberazioni assembleari aventi ad oggetto l’approvazione di spese e modalità di gestione dei servizi comuni nelle quali non è stato garantito il suo
diritto di intervento. In dottrina: S. Maglia, Il punto sull’applicazione dell’art. 10 della L. n. 392/78: i diritti-doveri dei conduttori alla luce delle recenti
innovazioni normative e giurisprudenziali, in Arch. loc., 1994, 453; R.G. Balzani, op. cit., 336-337 (in tema di invalidità delle delibere assembleari);
Potenza-Chirico-Annunziata, op. cit., 108; Militerni, op. cit., 25. Tuttavia
è da segnalare anche l’orientamento opposto, secondo il quale la mancata partecipazione dei conduttori non comporta la nullità delle deliberazioni assunte, attribuendo esclusivamente la possibilità per i pretermessi
di rifiutare le modifiche inerenti deliberate. In tal senso G. Terzago, op.
cit., 251-252. In giurisprudenza ex multis: Cass. 18 agosto 1993, n. 8755
(che precisa che l’inquilino ha diritto di impugnare le delibere viziate, ma
solo se hanno ad oggetto le spese e le modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento dell’aria); Cass. 28 febbraio 1987, n.
2148; Cass. 9 dicembre 1987, n. 9109; Trib. Monza 8 febbraio 2001; Trib.
Milano 6 giugno 1988.
(8) Posto che il condominio è estraneo al contratto di locazione e, quindi, non ha alcun rapporto giuridico con l’inquilino conduttore, l’onere di
spesa relativo ai servizi comuni è, nei rapporti con il condominio stesso,
interamente a carico del proprietario dell’unità immobiliare. In tal senso
A. Giraldi, Ancora sulla legittimazione passiva del conduttore per il pagamento degli oneri accessori, nota a Pret. Grosseto 10 gennaio 1986, in Arch. loc.,
1986, 513-514; G. Grasselli, La locazione di immobili nel codice civile e nelle
leggi speciali, Cedam,1999, 166-168; Cosentino-Vitucci, op. cit., 240.
(9) La fattispecie presa in considerazione dalla Cassazione riguarda il caso in cui il conduttore ha diritto di partecipazione all’assemblea, senza diritto di voto.
I CONTRATTI N. 7/2006
679
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
- attraverso il contratto di locazione il conduttore
subentra al locatore non solo nel godimento della proprietà esclusiva del locatore stesso, ma anche delle parti
comuni del condominio (così come affermato dalla S.C.
con la sentenza in commento);
- l’art. 9 Legge n. 392/1978 pone a carico del conduttore alcune spese relative ai beni comuni;
- l’art. 10 della stessa Legge garantisce al conduttore il diritto di intervento nelle delibere assembleari che
riguardano le spese e le modalità di gestione dei servizi
comuni, rilevando il suo interesse alla partecipazione in
prima persona alle vicende relative ai beni di cui ha il
godimento.
Da quanto sopra sembrerebbe logico concludere
che la ripartizione delle spese relative alle parti comuni
del condominio attiene allo stesso contratto di locazione, o comunque vi è strettamente connesso, e non riguarda, come invece sostenuto dalla Suprema Corte, un
separato e autonomo rapporto interno tra proprietario e
inquilino.
A tal proposito si consideri che l’art. 5 Legge n.
392/1978 prevede che l’inadempimento da parte del
conduttore all’obbligazione di pagamento degli oneri accessori - quando l’importo non pagato superi quello di
due mensilità del canone - costituisce motivo di risoluzione del contratto di locazione ai sensi dell’art. 1455
Codice civile.
Tale disposizione considera, quindi, l’obbligazione
del conduttore (di immobile ad uso abitativo) di pagamento degli oneri accessori - se pur ritenuta autonoma
rispetto a quella attinente al pagamento del canone parte integrante della struttura sinallagmatica del contratto (10).
Tuttavia la S.C. ritiene che la suddetta norma, che
ha predeterminato la gravità dell’inadempimento ai fini
della risoluzione del contratto, trovi applicazione solamente per le locazioni di immobili ad uso abitativo e
non sia estensibile ai contratti di locazione commerciale, come quello del caso di specie, in quanto l’art. 41 della legge sull’equo canone non rinvia anche al suddetto
art. 5: ne consegue che per quest’ultimo tipo contrattuale resta operante il criterio della non scarsa importanza
dell’inadempimento stabilito dall’art. 1455 Codice civile (11), salva la facoltà per il giudice di utilizzare il principio anzidetto come parametro orientativo del giudizio
(12).
Non si può non osservare, tuttavia, che anche il
contratto di locazione di immobile ad uso commerciale
prevede prestazioni corrispettive del locatore e del conduttore: il primo deve garantire al secondo il godimento
della sua proprietà esclusiva e delle parti e dei servizi comuni, mentre il conduttore dovrà adempiere alla propria
obbligazione di pagamento del corrispettivo pari al canone di locazione e alle spese per alcuni servizi comuni
(cfr. art. 9 Legge n. 392/1978) (13).
Ne consegue che gli oneri accessori fanno sempre
parte della struttura sinallagmatica del contratto (14):
680
I CONTRATTI N. 7/2006
d’altronde non si comprende il motivo per il quale si dovrebbe considerarli tali nel caso di locazione ad uso abitativo ai sensi dell’art. 5 Legge n. 392/1978 e, invece,
non costituirebbero parte del sinallagma contrattuale
nel caso di locazione ad uso diverso (15).
Riteniamo, infatti, che il mancato rinvio all’art. 5
nel caso di locazioni commerciali sia da spiegare solamente nella volontà del legislatore di ritenere per tali
contratti non predeterminata - ma da determinarsi caso
per caso - la gravità dell’inadempimento tale da giustificare la risoluzione del contratto.
Note:
(10) In tal senso cfr. M. De Tilla, Il punto sull’art. 9 legge n. 392 del 1978 in
relazione agli oneri accessori a carico del conduttore, nota a Cass. 11 novembre 1988, n. 6088, in Giust. civ., 1989, 1879-1883; G. Grasselli, op. cit.,
168. Il principio è stato espresso anche dalla giurisprudenza, che, ritenendo di non poter più seguire l’indirizzo giurisprudenziale formatosi sotto la
vigenza della previgente disciplina - in base alla quale l’omesso pagamento degli oneri accessori giustificava la risoluzione del rapporto locatizio
soltanto in caso di rilevante e reiterata gravità dell’inadempimento (quindi solo in casi eccezionali), ha affermato non solo che l’inadempimento
da parte del conduttore all’obbligazione di pagamento degli oneri accessori può essere per il locatore causa di risoluzione del contratto, ma anche
che tale domanda può essere paralizzata con l’eccezione di inadempimento del conduttore per non aver ottenuto dal locatore l’indicazione specifica delle spese condominiali e per non aver potuto prendere visione dei
documenti giustificativi (diritti del conduttore previsti dall’art. 9, terzo
comma, Legge n. 392/1978). Occorre considerare, infatti, l’incidenza degli oneri accessori sull’economia del contratto. Cass. 12 agosto 1982, n.
4492; Cass. 10 agosto 1982, n. 4490; Trib. Napoli 4 ottobre 1982.
(11) Sul punto la giurisprudenza ha oscillato tra le opposte tesi di applicabilità o meno dell’art. 5 anche alle locazioni per uso diverso, ma
infine il contrasto è stato risolto dalle Sezioni Unite (Cass., s.u., 28 dicembre 1990, n. 12210) che hanno aderito all’orientamento sfavorevole all’estensione della citata norma alle locazioni ad uso non abitativo, sulla base di diverse argomentazioni: la collocazione della norma
nell’ambito delle locazioni ad uso abitativo, il mancato rinvio da parte
dell’art. 41 anche a tale disposizione e le pronunce della Corte Costituzionale (cfr. sentenze nn. 128 e 252/1983, n. 116/1987), con le quali aveva precisato che il trattamento differenziato tra le locazioni ad
uso abitativo e quelle ad uso diverso non viola il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., in quanto non vi è omogeneità di situazioni,
stante il diverso rilievo economico e sociale che esse presentano.
Conformi: Cass. 10 giugno 2005, n. 12321; Cass. 22 ottobre 2002, n.
14903; Cass. 4 agosto 2000, n. 10239; Cass. 4 febbraio 2000, n. 1234;
Cass., s.u., 28 aprile 1999, n. 272. L. Razza, La rilevanza degli oneri accessori nell’ambito della risoluzione per inadempimento del contratto di locazione, in Arch. loc., 1983, 9-10.
(12) Cass. 18 agosto 1997, n. 7678; Cass. 29 maggio 1995, n. 6023; Cass.
19 novembre 1994, n. 9805; Cass., s.u., 28 dicembre 1990, n. 12210.
(13) Il carattere sinallagmatico del contratto di locazione comporta che
gli oneri accessori integrino il corrispettivo dovuto dal conduttore per il
complessivo godimento ottenuto dalla cosa locata, anche attraverso la
fruizione di servizi comuni. M. Di Marzio, op. cit., 984-985.
(14) Nel senso che degli oneri accessori della locazione, ormai, sono divenuti parte essenziale nel quadro sinallagmatico del contratto si è pronunciata anche la Corte Cost. 31 marzo 1988, n. 377.
(15) Contra, Cass. 21 dicembre 1998, n. 12769, secondo la quale gli oneri accessori (che costituiscono un mero rimborso delle spese anticipate dal
locatore) sono del tutto fuori dal sinallagma contrattuale, così che il mancato pagamento degli stessi determina un vizio funzionale soltanto quando l’importo non pagato si talmente elevato da alterare apprezzabilmente
l’equilibrio delle reciproche prestazioni, sopprimendo l’interesse oggettivo del locatore alla prosecuzione del rapporto.
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
Si consideri, inoltre, che la disciplina legislativa del
contratto di locazione è volta a tutelare il conduttore dal
pericolo che l’ammontare delle spese accessorie chieste
dal locatore possa essere talmente alto da porre nel nulla
le limitazioni previste dal legislatore in relazione alla misura del canone: si è dato così al conduttore un potere di
controllo sull’ammontare e sui criteri di ripartizione delle spese, consentendogli di votare o di partecipare alle
assemblee condominiali aventi ad oggetto i servizi comuni (vedi art. 10 Legge n. 392/1978), convincendo o
comunque influenzando gli altri condomini con il suo
parere (16).
Il diritto di voto o di partecipazione del conduttore
alle assemblee condominiali relative ai servizi comuni è,
quindi, strettamente e direttamente collegato all’obbligo
di pagare le spese degli stessi servizi comuni e trova la sua
giustificazione nel diritto di godimento, con il corollario
di tutti quei diritti che ne consentano una dignitosa utilizzazione (17).
Da quanto esposto consegue che gli effetti della
mancata comunicazione al conduttore dell’avviso della
convocazione dell’assemblea si esplicano direttamente
sul contratto di locazione stesso: la delibera risulta inopponibile al conduttore pretermesso, con la conseguenza
di legittimare quest’ultimo al rifiuto di corrispondere le
spese (18).
La Suprema Corte, con la sentenza in commento,
pur riconoscendo il diritto del conduttore a rifiutare di
corrispondere al locatore le maggiori spese deliberate in
sua assenza, per colpa del locatore stesso, non ritiene che
queste attengono pur sempre al rapporto di locazione e al
suo sinallagma contrattuale e, pertanto, non qualifica tale rifiuto quale eccezione di inadempimento (19).
La tutela del conduttore risulta, pertanto, notevolmente limitata dall’interpretazione dei giudici di legittimità: sembrerebbe, invece, ragionevole ritenere, che l’inadempimento del locatore all’obbligo di comunicazione dell’assemblea condominiale legittimi il conduttore a
proporre eccezione di inadempimento ex art. 1460 Codice civile, sottoforma di rifiuto alla corresponsione dei
maggiori oneri accessori.
Tale eccezione avrebbe, infatti, l’importante effetto
di paralizzare la possibilità per il locatore di chiedere la
risoluzione del contratto per inadempimento (sempre
che l’entità del suo credito sia particolarmente rilevante
ex art. 1455 Codice civile) (20).
Inoltre, l’eccezione di inadempimento consente all’excipiens di avvalersi sia di un’eventuale clausola risolutiva espressa ai sensi dell’art. 1456 Codice civile che della diffida ad adempiere ex art. 1454 Codice civile, impedendo all’altro contraente di farvi ricorso (21).
Infine la Corte di Cassazione, con la sentenza in
commento, afferma che il diritto di partecipazione del
conduttore alle assemblee condominiali, senza diritto di
voto, deve essere coordinato con il suo interesse a non
sopportare aggravi di spesa: tale diritto sussisterebbe, pertanto, solamente per quanto attiene alle delibere aventi
Note:
(16) In tal senso G. Accordino, Edifici non in condominio e assemblea dei
conduttori, nota a Trib. Milano 21 luglio 1983, in Arch. loc., 1984, 285289; Bucci-Malpica-Redivo, Manuale delle locazioni, 1989, 299.
(17) S. Maglia, op. cit., 451-454.
(18) F. Basile, op. cit., 329-330.
(19) Come è noto, l’eccezione di inadempimento è estrinsecazione del
potere attribuito ad un contraente di paralizzare l’altrui pretesa di fronte
all’inadempimento dell’altra parte: la ratio è quella di conservare l’equilibrio delle situazioni di reciproco diritto ed obbligo delle parti, fungendo
da causa di giustificazione dell’inadempimento. Affinché possa esercitarsi tale diritto potestativo (peraltro, anche in via stragiudiziale come sostenuto dalla dottrina più autorevole soprattutto nel caso di inadempimento irreversibile) è necessario che vi sia una corrispettività delle prestazioni: la dottrina e la giurisprudenza (ex multis: Cass. 21 febbraio 1987, n.
4531; Cass. 5 giugno 1984, n. 3397) hanno però precisato che è possibile
estendere il campo di operatività dell’art. 1460 Codice civile, facendovi
rientrare anche le prestazioni interdipendenti, quindi tutti gli obblighi
che siano riconducibili al rapporto-base oppure, senza ricorrere alla categoria della interdipendenza, a tutti i doveri (ad esempio quelli di protezione) che costituiscono essi stessi momenti particolari dell’obbligazione.
A tal proposito, per quel che qui più interessa, è stato ritenuto che qualunque fatto idoneo ad alterare la funzione causale del predisposto regolamento di interessi e che evidenzia, pertanto, un collegamento tra le prestazioni, legittima il ricorso all’eccezione di inadempimento. In tal senso
risulta evidente la stretta connessione tra l’obbligo del locatore di comunicare al conduttore l’avviso di convocazione dell’assemblea - che consente al conduttore di partecipare alle delibere che riguardano i servizi comuni di cui all’art. 9 Legge n. 392/1978 - e l’obbligazione del conduttore
di corrispondere le spese per gli oneri accessori relativi: anche se si vuole
ritenere che il rapporto originario di locazione rappresenti solamente l’occasione e non la causa di tale obbligo, risulta comunque evidente che il
suddetto onere di comunicazione si inserisce nel complessivo quadro di
attuazione del rapporto locatizio e che, conseguentemente, il suo inadempimento legittima l’altra parte all’accezione di cui all’art. 1460 Codice civile. Inoltre, la dottrina è unanime nel ritenere che la contemporaneità delle prestazioni richiesta dal dettato letterale dell’art. 1460 Codice
civile non è da intendere rigidamente: l’analogia a fortori impone di trattare allo stesso modo il contraente la cui prestazione sia prevista come posteriore e il contraente la cui prestazione è prevista come contemporanea
(ex multis: Cass. 28 novembre 1984, n. 6196; Cass. 4 ottobre 1970, n.
2026; Cass. 16 luglio 1953, n. 2319). R. Sacco, Trattato di diritto privato,
diretto da Rescigno, Torino, 1998, X, 616-618, L. Bigliazzi Geri, Risoluzione per inadempimento - art. 1460 (eccezione di inadempimento), in Commentario al Codice civile Scialoja-Branca, Zanichelli, 1988, 1-37; F. Realmonte, Eccezione di inadempimento, in Enc. dir., 1978, 234-235; V. Roppo,
Il contratto, in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2001, 985-988; M.R. Spallarossa, Eccezione d’inadempimento, in Giur.
sist. civ. comm., a cura di W. Bigiavi, Torino, 1991, 898-901. Infine, si
consideri che la S.C., s.u., 26 novembre 1996, n. 10492, ha escluso che il
singolo condomino possa sollevare l’eccezione inadimplenti non est adimplendum per esimersi dal pagamento della somma dovuta a seguito della
ripartizione interna derivante dalla gestione dell’impianto centralizzato di
riscaldamento: neppure da tale pronuncia si può ricavare un principio
che non consenta al conduttore di avvalersi del rimedio di cui all’art.
1460 Codice civile. La S.C., con la pronuncia del 1996, aveva correttamente ritenuto che non essendoci alcun rapporto di sinallagmaticità tra
condominio e condomino, quest’ultimo non poteva avvalersi dell’eccezione suddetta nei rapporti con lo stesso condominio, il che è ben diverso dal caso di un conduttore che deve corrispondere non a un terzo ma al
suo locatore il corrispettivo per i servizi comuni.
(20) Infatti, presupposto per la risoluzione per inadempimento è che questo
sia ingiustificato, ma non è tale l’inadempimento che sia giustificato dall’inadempimento di controparte. Il principio è pacifico in giurisprudenza, ex
multis: Cass. 13 aprile 2000, n. 4809; Cass. 11 agosto 1997, n. 7480; Cass.
23 maggio 1980, n. 3400. U. Carnevali, Della risoluzione per inadempimento
- art. 1453, in Commentario al Codice civile Scialoja-Branca, Zanichelli, 1988,
76-80; L. Bigliazzi Geri, op. cit., 45-48; V. Roppo, op. cit., 985-988.
(21) L. Bigliazzi Geri, op. cit., 47.
I CONTRATTI N. 7/2006
681
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
ad oggetto modificazioni dei servizi comuni che comportano una spesa o un aggravio di spesa.
Il principio sostenuto dalla S.C. è sicuramente volto a limitare l’ingerenza del conduttore nella gestione
dei beni comuni, per riservare quest’ultima al proprietario dell’unità immobiliare locata, ma rischia di essere di
difficile applicazione: non si comprende infatti come distinguere aprioristicamente e in base al mero ordine del
giorno dell’assemblea - quasi sempre nella prassi alquanto generico - quelle delibere che importino oneri maggiori o diversi di spesa da quelle economicamente neutre.
Inoltre, il mero dato testuale dell’art. 10 della legge
sull’equo canone non consente di operare una tale distinzione sembrando invece la ratio stessa quella di consentire al conduttore di poter sempre esprimere il suo parere sulla gestione di beni di cui ha il diretto godimento,
potendo così con le sue motivazioni orientare anche il
resto dei condomini.
Ne consegue il diritto del conduttore a partecipare
a tutte le assemblee condominiali di modifica dei servizi
comuni, senza distinzione alcuna: ciò costituisce proprio
il mezzo di tutela dei suoi interessi.
Diritto d’uso da parte del conduttore
dell’area comune destinata a parcheggio
La seconda questione affrontata dalla Corte di
Cassazione concerne le pretese della conduttrice di fruire dell’area di parcheggio condominiale secondo le proprie particolari esigenze di esercizio di un’attività commerciale.
La Suprema Corte disattende le pretese della conduttrice sulla base del principio per cui il locatore trasferisce al conduttore la facoltà di godimento sia della proprietà esclusiva che delle parti comuni condominiali, tra
le quali anche le aree destinate a parcheggio, nei limiti
della quota di queste a lui (proprietario) spettante.
Peraltro, nessuna pattuizione privata potrebbe attribuire ad un inquilino un uso della cosa comune maggiore di quello attribuito a ciascun condomino: ai sensi del
combinato disposto degli artt. 1117 e 1138 Codice civile la disciplina dell’uso dei beni comuni rientra nei poteri della collettività dei condomini e, quindi, può essere
pattuita solamente attraverso il regolamento condominiale.
Il profilo sul quale i Giudici di legittimità si soffermano maggiormente attiene, tuttavia, alla disciplina legislativa in materia di parcheggi.
L’art. 18 della Legge n. 765/1967 (cosiddetta Legge
Ponte) ha aggiunto l’art. 41 sexies alla Legge n.
1150/1942 prevedendo l’obbligo, nelle nuove costruzioni e pertinenze, della riserva di appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore a un metro quadrato per
venti metri cubi di costruzioni (rapporto raddoppiato
dall’art. 2, secondo comma, Legge n. 122/1989) (22).
Sorto un contrasto tra coloro che sostenevano che
la disposizione legislativa citata avesse stabilito un vin-
682
I CONTRATTI N. 7/2006
colo pubblicistico solamente in sede di edificazione (23)
e altri che ritenevano che il vincolo fosse destinato a
rendere per sempre inscindibile il collegamento tra l’unità immobiliare e il parcheggio, la Suprema Corte aveva precisato la natura imperativa ed inderogabile del
suddetto vincolo non solo nei rapporti tra Pubblica Amministrazione e privati (come condizione per il rilascio
della concessione edilizia), ma anche nei rapporti tra privati (24).
Successivamente, l’art. 26, ultimo comma, Legge n.
47/1985 sul condono edilizio, ha qualificato, sul piano
privatistico, il suddetto vincolo come pertinenziale ai
sensi e per gli effetti degli artt. 817, 818 e 819 Codice civile (25).
Ciò nonostante le aree che devono essere adibite a
parcheggio non possono essere oggetto di autonomi atti
di disposizione: la cosiddetta Legge Ponte pone un vin-
Note:
(22) La ratio è quella di conseguire «un ordinato assetto urbanistico»: l’incremento del numero degli autoveicoli ha comportato il parcheggio degli
stessi sulle strade e nelle piazze, creando noti problemi al traffico, problemi che il legislatore ha voluto arginare rimediando alla carenza dei parcheggi condominiali. Infatti, il rapporto tra volume dell’edificio ed estensione del parcheggio mostra chiaramente che l’area di parcheggio è vincolata al servizio dell’intero edificio: in caso di fabbricato condominiale,
l’area destinata al parcheggio dalla Legge Ponte, deve essere, pertanto, garantita in godimento a tutti i condomini. In tal senso G. Terzago, op. cit.,
1039-1042. M. di Marzio, L’oggetto del godimento e gli statuti locatizi, in La
locazione, a cura di P. Cendon, Torino, 2005, 303-308. Inoltre, la giurisprudenza nell’interpretare la locuzione «spazi per parcheggio», ha ritenuto che il legislatore non abbia voluto riferirsi a qualcosa di necessariamente diverso dalle autorimesse, potendo gli spazi consistere indifferentemente in zone scoperte o coperte, interne o esterne all’edificio, o in box
singoli o autorimesse comuni (Cass. 25 febbraio 1992, n. 2337).
(23) Cass. 24 aprile 1981, n. 2452; Cass. 16 novembre 1978, n. 5300.
(24) Cass., s.u., 17 dicembre 1984, n. 6600; Cass., s.u., 17 dicembre 1984,
n. 6601; Cass., s.u., 17 dicembre 1984, n. 6602, che hanno precisato che,
posto che l’art. 18 della Legge Ponte è norma imperativa inderogabile e
che deve incidere anche nei rapporti intersoggettivi di diritto privato inerenti gli spazi destinati a parcheggio, imponendo la permanente destinazione di essi all’uso esclusivo delle persone che stabilmente occupano l’edificio, la S.C. conclude affermando che «nei fabbricati condominiali il proprietario del singolo appartamento gode dello spazio di parcheggio come delle parti comuni e delle loro pertinenze, e che il mancato trasferimento a lui della proprietà pro quota del detto spazio comporta il suo acquisto su di esso di un diritto
reale d’uso». La disciplina urbanistica degli spazi di parcheggio, che ha acquistato rilevanza diretta anche nei rapporti tra privati, in forza di un superiore interesse pubblico alla cui tutela è finalizzata, si inserisce nel quadro dell’abbandono dell’impostazione classica che voleva una rigorosa separazione tra pubblico e privato. In tal senso P. Rescigno, La rilevanza privatistica della disciplina degli spazi a parcheggio, in La disciplina degli spazi per
parcheggio, Milano, 1992, 10 ss.
(25) Le aree di parcheggio sono qualificate come pertinenze, in quanto
assoggettate a servizio dell’unità immobiliare al fine di renderne possibile
una migliore utilizzazione: il rapporto di connessione con il bene principale è inteso dalla legge come rapporto economico-giuridico di strumentalità e complementarietà funzionale. Come tali esse dovrebbero essere liberamente cedibili ex art. 818, secondo comma, Codice civile, ma l’art.
41 sexies Legge n. 1150/1942 ha posto un vincolo tale per cui «il box non
può formare oggetto di rapporti giuridici separati rispetto a quelli inerenti l’appartamento» (Cass. 17 dicembre 1985, n. 6413). G. Grasselli, op.
cit., 38-40.
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
colo pubblicistico di destinazione che non può essere derogato dagli atti di disposizione dei privati (26).
Ne conseguono due corollari: in primo luogo la nullità parziale per contrarietà a norma imperativa (art. 18
Legge n. 765/1967) sia dei trasferimenti del solo spazio
adibito a parcheggio, nella parte in cui lo sottraggono alla sua inderogabile destinazione sia di ogni contratto di
vendita, nella parte in cui non attribuisce all’acquirente
dell’unità immobiliare il godimento dello spazio per parcheggio (27); in secondo luogo si ricava che i contratti di
autonoma disposizione dei parcheggi riservati sono ammissibili a condizione che non intacchino il diritto reale
d’uso a favore dell’unità abitativa della quale sono pertinenze (28).
I Giudici di legittimità, con la sentenza in esame,
confermano innanzitutto l’indirizzo giurisprudenziale ormai pacifico, secondo il quale la normativa urbanistica
citata ha posto un vincolo pubblicistico di destinazione,
che non può subire deroga da parte dei privati.
Più precisamente, la S.C. qualifica come diritto d’uso il diritto del proprietario dell’unità immobiliare al godimento dell’area comune destinata al parcheggio e, posta la «stretta inerenza del diritto stesso all’effettiva utilizzazione dell’immobile secondo la sua destinazione», ritiene che
questo diritto debba essere necessariamente trasferito al
conduttore, a pena di nullità parziale del contratto di locazione, nella parte in cui lo esclude, e del suo conseguente trasferimento ope legis (29).
Nessuna precisazione emerge, tuttavia, sulla natura
giuridica di tale diritto: si potrebbe qualificare il diritto
d’uso in questione come diritto reale oppure quale diritto personale di godimento.
Le diverse conseguenze dell’una o dell’altra opzione
non sono trascurabili, in quanto il diritto personale di
godimento, a differenza del diritto reale, implica un obbligo di cooperazione anche attiva del debitore, che deve non solo consegnare la cosa al creditore, ma è anche
tenuto a garantirlo contro le molestie di terzi che pretendano di avanzare diritti sulla cosa (30).
La giurisprudenza prevalente ritiene che il vincolo
istituito dalla disciplina legislativa citata si traduca in
un diritto reale d’uso sul posto auto a favore dei proprietari della costruzione, diritto reale che non può essere
surrogato da un diritto personale di godimento, proprio
a causa della relazione necessaria e permanente tra la
cosa principale e quella accessoria che la legge impone
e che può essere realizzata solamente mediante un diritto reale (31).
La questione è strettamente connessa con un altro
problema che l’art. 41 sexies lascia irrisolto: il tenore letterale della norma non chiarisce se la necessaria riserva
di uno spazio di parcheggio comporti un vincolo di natura soggettiva, imponendo che il parcheggio debba essere utilizzato solamente dal fruitore dell’unità immobiliare cui inerisce, oppure solamente di natura oggettiva,
senza alcuna indicazione degli utilizzatori.
Attraverso l’interpretazione dell’art. 26 Legge n.
47/1985, che precisa che gli spazi a parcheggio costituiscono pertinenze dell’unità immobiliare, è stato affermato che sussiste un vincolo reale di destinazione tra spazio
per parcheggio e unità immobiliare cui accede (32).
Il presupposto per poter godere dell’area di parcheggio è stato, quindi, rintracciato «nell’occupazione stabile
dell’alloggio» o «l’accesso abituale nell’edificio» (33), in una
parola il godimento dell’unità abitativa, restando indifferente a quale titolo (reale o personale) venga esercita-
Note:
(26) In tal senso Cass., s.u., 18 luglio 1989, n. 3363, la quale, richiamando l’art. 1418 Codice civile quale regola generale di interpretazione nei
casi in cui la legge non commini espressamente la nullità dell’intero negozio come conseguenza della violazione del precetto imperativo, ha affermato che «gli spazi a parcheggio sono liberamente aIienabili, ma nei limiti
della destinazione a parcheggio non modificabile e del diritto reale d’uso esclusivo riconosciuto agli utenti degli alloggi». Ex multis: Cass. 16 febbraio 1996, n.
1196; Cass. 1 giugno 1993, n. 6104; Cass. 17 dicembre 1993, n. 12495;
Cass. 10 luglio 1991, n. 7631; Cass. 9 maggio 1991, n. 5180. Inoltre, è ormai pacifico che il vincolo pertinenziale degli appositi spazi di parcheggio
si instaura globalmente con le nuove costruzioni nelle quali devono essere riservati, restando irrilevante la destinazione abitativa o commerciale
delle singole unità immobiliari. In tal senso Cass. 28 marzo 2001, n. 4530;
Cons. Stato 2001, II, 975.
(27) Trattasi di un’ipotesi di nullità parziale ex art. 1419, secondo comma,
Codice civile, che non inficia la validità dell’intero contratto: la clausola
nulla viene sostituita di diritto da quanto previsto dalla norma imperativa ai sensi del combinato disposto degli artt. 1419, secondo comma, e
1339 Codice civile (in merito a tale aspetto si parlerà più diffusamente in
prosieguo). Non tutta la dottrina condivide l’impostazione della S.C.,
s.u., 17 dicembre 1984, n. 6600, secondo cui è nulla la clausola di un contratto di compravendita di un appartamento di un edificio condominiale
in cui venga escluso il trasferimento della relativa quota di comproprietà
degli spazi di parcheggio. In tal senso R. Triola, In tema di aree condominiali
di parcheggio, in Giust. civ., 1982, 1862. N. Irti, Riserva di spazi a parcheggi
nelle nuove costruzioni, in Giust. civ., 1983, 44, secondo il quale la circolazione giuridica del bene non riduce né minaccia il vincolo di scopo, il
quale accompagna la cosa, come un intrinseco ed inderogabile modo di
essere.
(28) Cass. 23 marzo 2004, n. 5755; Cass. 20 ottobre 1997, n. 10248; Cass.
18 luglio 1989, n. 3363.
(29) In tal senso la Suprema Corte si riporta a due suoi precedenti: Cass.
7 giugno 2002, n. 8262 e Cass. 25 febbraio 1992, n. 2337.
(30) La locazione costituisce un tipico esempio di diritto personale di godimento: attribuisca al conduttore il diritto di disporre immediamente
della cosa, ma se questa si trova presso un terzo, il conduttore non può
pretenderne la consegna direttamente da questo (come accadrebbe nel
caso di diritto reale), ma può solo pretendere che il locatore la recuperi e
gliela consegni. P. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, Milano, 1996,
119-120.
(31) In tal senso Cass. 22 marzo 2004, n. 5755; Cass. 30 luglio 1998, n.
7498; Cass. 17 dicembre 1997, n. 12736; Cass. 27 dicembre 1994, n.
11188; Cass. 19 aprile 1994, n. 3717. Inoltre, la giurisprudenza (ex multis:
Cass. 5 novembre 1996, n. 9631) ha precisato che qualora il contratto di
vendita non menzioni anche il posto auto e, quindi, esso venga trasferito
ope legis all’acquirente, il diritto reale d’uso che spetta al proprietario non
è gratuito, ma occorre garantire al venditore un corrispettivo, al fine di
riequilibrare il sinallagma contrattuale.
(32) Cass., s.u., 25 febbraio 1991, n. 2004. F. Patarnello, Parcheggi, locazione ed equo canone: brevi osservazioni, in Giur. it., 2000, 1580-1581; G.
Amadio, Locazione e spazi a parcheggio: la giurisprudenza come fonte di integrazione del contratto, in Giur. it., 1994, 339-344.
(33) Cass., s.u., 18 luglio 1989, n. 3363.
I CONTRATTI N. 7/2006
683
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
to: in tal modo il diritto all’uso del parcheggio viene
esteso anche ai conduttori (34).
Tuttavia, una tale ricostruzione potrebbe condurre
ad interpretazioni eccessivamente estensive, fino al punto di consentire l’uso del parcheggio a tutti coloro che
accedono all’immobile, anche se non hanno con esso alcuna relazione giuridicamente qualificata (35): in tal
senso verrebbe legittimata ad utilizzare il parcheggio tutta la clientela del supermercato conduttore della fattispecie affrontata dalla sentenza in commento.
Si deve, però, considerare che nell’ipotesi di edificio
condominiale l’area destinata a parcheggio assume la
forma della comproprietà, in capo ai condomini, ex art.
1117 Codice civile se tutti i condomini sono comproprietari di tutti i posti auto; se invece solamente alcuni
sono comproprietari dell’area a parcheggio, allora l’intera area sarà divisa tra coloro che possiedono a titolo di
proprietà e coloro che la possiedono a titolo di diritto
reale d’uso (36).
A tal proposito si deve considerare che sotteso al diritto di utilizzazione delle cose comuni vi è, comunque, il
principio secondo il quale il condomino, nell’uso del suo
potere di godimento e di disposizione del bene, non deve ledere il diritto degli altri condomini: ai sensi dell’art.
1102 Codice civile l’uso della cosa comune è sottoposto
a due limiti fondamentali, consistenti nel divieto di alterarne la destinazione e di impedire agli altri condomini
di farne parimenti uso (37).
Ne consegue che il singolo condomino può usare la
cosa comune, nel caso de quo l’area di parcheggio, anche
in modo non identico agli altri condomini, ma il suo uso
anche solo potenzialmente più intenso non deve comunque alterare il rapporto di equilibrio e il principio di
solidarietà tra i partecipanti (38): sarebbe sicuramente in
tal senso illegittimo l’uso che l’inquilino-supermercato e,
di conseguenza (sempre che si voglia fornire massima
estensione al suddetto presupposto del godimento dell’unità immobiliare) la sua clientela potrebbero fare dell’area comune di parcheggio (39).
L’aspetto comunque più rilevante di cui si è occupata la Corte di Cassazione con la sentenza in esame riguarda proprio la nullità parziale del contratto
di locazione nella parte in cui esclude il trasferimento al conduttore del diritto all’uso dell’area di parcheggio.
Il merito della sentenza in esame è sicuramente costituito dall’aver chiarito espressamente che la nullità
parziale per contrasto con la disciplina in tema di parcheggi non investe solamente i contratti di compravendita, che trasferiscono la proprietà dell’unità immobiliare, ma anche dei contratti di locazione, i quali fondano
in capo al conduttore un ben diverso diritto personale di
godimento.
In particolare, i giudici di legittimità, con la sentenza in commento, hanno precisato che la contrarietà alla
disciplina in materia di parcheggi non comporta la nullità dell’intero contratto, ma la nullità della sola clauso-
684
I CONTRATTI N. 7/2006
la negoziale che esclude il trasferimento del diritto d’uso
del posto auto.
Si tratta, pertanto, di un’ipotesi di nullità parziale ai
sensi dell’art. 1419 Codice civile (40): il principio di
conservazione del contratto (utile per inutile non vitiatur)
impone di salvare il negozio, se conserva la sua utilità
pratica e se si può rintracciare il consenso dei contraenti
sulla parte residuale.
A tal fine occorre operare un giudizio di compatibilità della modifica dell’originario contratto con la sua
causa concreta: è giusto mantenere in vita il negozio solamente se la modifica non ha importanza determinante
tenuto conto dell’interesse delle parti.
Note:
(34) La S.C. ha, infatti, ripetutamente precisato che l’art. 26, ultimo comma, Legge n. 47/1985, incide anche nei rapporti intersoggettivi di diritto
privato, tra cui oltre quelli riguardanti la vendita separata di tali aree, devono ricomprendersi anche quelli concernenti la loro locazione. Ex multis: Cass. 25 febbraio 1992, n. 2337; Cass. 4 febbraio 1992, n. 1155; Cass.
25 gennaio 1982, n. 483; Cass. 7 agosto 1981, n. 4890.
(35) Paradiso, Le aree destinate a parcheggio privato tra vecchia disciplina e
nuove tipologie legislative, in Riv. critica dir. priv., 1989, 490.
(36) In ogni caso è ovvio che l’assemblea dei condomini possa a maggioranza di legge regolare l’utilizzazione dell’area, anche se non sembra che
l’utilizzazione come proprietari o come titolari di diritto reale d’uso possa
comportare particolari differenze. Sul principio per cui gli spazi di parcheggio devo ritenersi parti comuni ex art. 1117 Codice civile, cfr. Cass.
28 gennaio 2000, n. 982; Cass. 3 aprile 1998, n. 3422; Cass. 20 luglio
1987, n. 6365; Cass., s.u., 17 dicembre 1984, n. 6600. G. Casu, Spazi a parcheggio. Passi ulteriori della giurisprudenza di legittimità, nota a Cass. 22 marzo 1991, n. 2004, in Riv. Not., 2004, 1512-1515; A. Luminoso, Contrattazione immobiliare e disciplina urbanistica, in Riv. trim. proc. civ., 1993, 10101011; M Annunziata, I diritti dei conduttori sui parcheggi, in Riv. giur. edil.,
2005, 85-87; M. Annunziata, Ancora sull’uso del parcheggio e sulla natura
del relativo diritto, nota a Cass. 24 maggio 2004, n. 9981, in Riv. giur. edil.,
2004, 1045-1049; F. Petrolati, La locazione del box ed il vincolo di destinazione a parcheggio, in Arch. loc., 1995, 27-29.
(37) Cass. 3 novembre 2000, n. 14353; Cass. 18 aprile 1996, n. 3675.
(38) Cass. 5 gennaio 2000, n. 42; Cass. 13 ottobre 1999, n. 11520; Cass.
23 marzo 1995, n. 3368; Cass. 15 luglio 1995, n. 7752; Cass. 11 dicembre
1992, n. 13107.
(39) La ratio della disciplina legislativa in merito agli spazi di parcheggio è
individuabile, come già accennato, nell’evitare che tale area venga destinata ad un uso diverso da quello previsto per la sosta delle auto di coloro
che hanno un legame particolarmente forte con l’unità immobiliare, impedendo in tal modo una commercializzazione speculativa da parte dei
proprietari, che avrebbe comunque comportato una violazione del vincolo di destinazione di tali aree. A tale risultato si perverrebbe, infatti, consentendo l’uso indiscriminato dell’area di parcheggio da parte dell’intera
clientela del supermercato del caso de quo: il vincolo di destinazione verrebbe irrimediabilmente sacrificato e il corrispettivo della locazione per
l’unità immobiliare e il parcheggio comporterebbe ingenti speculazioni,
in palese violazione della norma di legge. G. Casu, I posti auto o parcheggi
obbligatori: sistemazione definitiva?, nota a Cass. 15 giugno 2005, n. 12793,
in Riv. Not., 2005, 1175-1181.
(40) Il contraente che vorrà giovarsi di tale nullità, presumibilmente il
conduttore, avrà solo l’onere di dimostrare che la nullità colpisce solo parzialmente il contratto, spettando invece all’altra parte dimostrare il contrario. In tal senso la giurisprudenza prevalente, tra cui Cass. 1 marzo
1995, n. 2340; Cass. 22 marzo 1983, n. 2012. R. Sacco, Trattato di diritto
privato, diretto da Rescigno, Torino, 1998, X, 568-572; C. M. Bianca, Diritto civile, Il contratto, III, Milano, 2000, 638-642; A. Di Majo, op. cit.,
102-107; R. Tommasini, Nullità, in Enc. dir., Milano, 1978, 902-908.
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
Tale valutazione è, peraltro, esclusa quando la clausola nulla è sostituita di diritto da norme imperative: nel
caso in esame la clausola nulla viene sostituita ope legis,
secondo la ricostruzione della Suprema Corte, dalla previsione del trasferimento al conduttore del diritto d’uso
dell’area di parcheggio ai sensi del combinato disposto
degli artt. 1419, secondo comma, e 1339 Codice civile
(41).
Qualche dubbio potrebbe, tuttavia, sorgere in ordine alla sussistenza dell’accordo delle parti sul trasferimento non solo dell’unità immobiliare, ma anche dell’uso del parcheggio.
Occorre considerare, però, che «l’accordo» non deve essere trattato come se fosse sinonimo di «consenso»,
di accordo di volontà, ma deve essere inteso come giudizio di relazione, di concordanza tra due dichiarazioni: occorre ricercare l’univoco significato oggettivo delle manifestazioni di volontà (42).
Ne consegue che quando un soggetto adotta un certo comportamento o pronuncia una dichiarazione contrattuale (quale quella di locare un’unità immobiliare)
esprime implicitamente la volontà di introdurre il regolamento di interessi corrispondente (nel caso di specie,
la volontà di conformare il proprio contratto a tutte le
disposizioni imperative di legge, ivi compreso il trasferimento del diritto all’uso del parcheggio).
Infine, si osserva la singolarità dello strumento utilizzato dal legislatore: attraverso una disciplina urbanistica, come tale destinata in genere ad operare nei rap-
porti tra privati e P.A., si procede da un lato a creare in
capo a soggetti privati diritti d’uso, che l’orientamento
prevalente qualifica addirittura quale diritto reale, e dall’altro a determinare legislativamente il contenuto del
contratto.
Note:
(41) Parte della dottrina sostiene che la norma che impone la sostituzione della clausola nulla con il trasferimento ope legis del diritto d’uso dell’area di parcheggio dovrebbe essere integrata con il riconoscimento del
diritto del locatore al corrispettivo, in modo da assicurare l’equilibrio del
sinallagma contrattuale. In tal senso Cass. 27 dicembre 1994, n. 11188;
Cass. 11 gennaio 2001, n. 341. R. Triola, Osservazioni in tema di c.d. spazi
di parcheggio, in Giust. civ., 1995, 336-338. Altra parte della dottrina ha,
peraltro, criticato il meccanismo di sostituzione della clausola illecita in
questione, in quanto sembrerebbe che la disciplina urbanistica non affermi espressamente la sostituzione delle pattuizioni ad essa contrarie (in tal
senso tra gli altri cfr. G. Amadio, op. cit., 344-345). La Suprema Corte
aveva già avuto occasione di precisare che l’art. 1419, secondo comma,
Codice civile non richiede che le disposizioni inderogabili, oltre a prevedere la nullità delle clausole difformi, ne impongano e dispongano espressamente anche la loro sostituzione. La locuzione codicistica «sono sostituite di diritto» va interpretata non nel senso dell’esigenza di una previsione espressa della sostituzione, ma in quello dell’automaticità della stessa,
trattandosi di elementi necessari del contratto o di aspetti tipici del rapporto, cui la legge ha apprestato una propria inderogabile disciplina
(Cass. 21 agosto 1997, n. 7822).
(42) Ciò che rileva non è il profilo soggettivo, ma quello oggettivo e sociale, indipendentemente dalla effettiva volontà del contraente e dalla
consapevolezza del suo contenuto e dei suoi effetti. F. Venosta, Le nullità
contrattuali nell’evoluzione del sistema, I - Nullità ed inesistenza del contratto,
Milano, 2004, 202-222.
I CONTRATTI N. 7/2006
685
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
Intermediazione finanziaria
La responsabilità dell’intermediario
nel caso Cirio e la recente legge
per la tutela del risparmio
Tribunale di Trani - Sentenza del 31 gennaio 2006
Pres. Savino - Rel. Labianca - F.A. e M.I. c. B.M.D.P.D.S. S.p.a.
Disciplina degli emittenti - Appello al pubblico risparmio - Sollecitazione all’investimento - Obblighi degli offerenti Disciplina degli intermediari - Servizi di investimento - Svolgimento dei servizi - Criteri generali - Contratti - Nullità
del contratto - Annullabilità del contratto - Risarcimento del danno
I risparmiatori che negoziano titoli in contropartita diretta con gli investitori istituzionali destinatari
del private placement sono tutelati dalle norme riguardanti gli obblighi di comportamento che gravano sugli intermediari nella prestazione dei servizi d’investimento, costituite dagli artt. 21 ss. D.Lgs.
n. 58/1998 e dalla disciplina contenuta nel Reg. CONSOB n. 11522/1998. Le norme di cui agli artt.
28 e 29 Reg. n. 11522/1998 hanno contenuto precettivo e imperativo in ragione degli interessi tutelati (integrità del mercato e tutela del risparmio). Gli ordini impartiti in violazione di tali disposizioni devono pertanto ritenersi nulli, con obbligo di retrocessione agli attori degli importi ricevuti dalla
banca per l’operazione.
Svolgimento del processo
on atto di citazione notificato in data 10 giugno
2004, F.A. e M.I., premesso:
- di aver acquistato, nel mese di febbraio del
2001, delle obbligazioni «Cirio H. 01.04, ced. 6,25%»,
per un controvalore di euro 76.000,00;
- di essersi determinati all’acquisto esclusivamente a seguito di sollecitazione o attività di proposizione da parte
dell’istituto proponente, che, per il tramite dei propri
funzionari, aveva valorizzato nel predetto titolo la più
valida e remunerativa alternativa ai titoli di Stato, cui
essi erano adusi fare riferimento;
- che l’investimento in parola era stato prefigurato come privo di rischio, a capitale garantito, e senza il minimo accenno al fatto che si trattava invece di uno strumento finanziario privo di «rating» e di prospetto informativo;
- che, a mezzo delle comunicazioni dei mass-media, avevano appreso del «default» dei titoli in parola, per cui,
con reclami datati 21 marzo 2003, 20 giugno 2003 e 18
ottobre 2003 (ex art. 59 del Reg. n. 11522/1998), avevano contestato all’istituto di credito la responsabilità per
inesatte informazioni circa la natura dell’investimento
realizzato, con l’abuso del basso livello di specifica competenza negli strumenti finanziari acquistati (skill);
- che, in particolare, una società di trustee inglese aveva
dapprima dichiarato il default della società emittente i titoli - non avente sede in Italia, ma in Lussemburgo - e
poi il cross default in relazione ad altri prestiti obbligazio-
C
686
I CONTRATTI N. 7/2006
nari emessi da società facenti parte del gruppo Cirio e
parimenti rimasti inadempiuti;
- che, dopo aver richiesto all’istituto finanziario il talloncino attestante il rilascio del documento sui rischi generali dell’investimento, la scheda profilo-cliente degli investitori, il contratto di negoziazione e sottoscrizione di
ordini su strumenti finanziari conforme alla direttiva Eurosim, il contratto di norme di deposito dei titoli a custodia e amministrazione prescritti a pena di nullità dal
D.Lgs. n. 58/1998 e dai correlati disposti del regolamento CONSOB di attuazione, avevano altresì contestato
all’istituto di credito la «inadeguatezza» dell’operazione
conclusa, per «dimensione, oggetto, tipologia e frequenza», ai sensi dell’art. 29 Reg. n. 11522/1998;
- che l’inadeguatezza dell’operazione emergeva dallo
stesso fissato bollato inviato dalla banca, nel quale si segnalava l’inadeguatezza dell’operazione per «dimensione», e che costituiva confessione stragiudiziale della violazione della norma di cui all’art. 29 Reg. n. 11522/1998;
- che i reclami erano rimasti inascoltati dalla banca, per
cui si profilava la necessità di azione giudiziaria;
- che l’inadeguatezza del contratto concluso emergeva
altresì in base alla circostanza che sui menzionati titoli
erano stati allocati la gran parte dei loro risparmi, e ciò in
spregio al disposto del regolamento CONSOB, che
avrebbe invece imposto alla banca di verificare il profilo
e l’esperienza del cliente, onde poter valutare l’adeguatezza dell’investimento;
- che risultava violato l’obbligo di correttezza e traspa-
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
renza sancito dall’art. 21, primo comma, lett. a, D.Lgs. n.
58/1998, posto che lo strumento finanziario era stato
presentato come un prodotto dal rendimento elevato,
senza alcun rischio correlato, ben adatto ai risparmiatori
prudenti e avvezzi ai titoli di Stato;
- che risultavano violati i doveri informativi previsti dall’art. 21, primo comma, lett. b, D.Lgs. n. 58/1998, stanti
le inesatte informazioni in ordine al prodotto venduto;
- che risultava violato l’obbligo di diligenza (gravante sul
professionista qualificato dalla professionalità finanziaria), dal momento che la B.M.D.P.D.S. non aveva operato al fine di ottenere dal servizio «il miglior risultato
possibile» (c.d. best execution), come invece imponeva
l’art. 26, primo comma, lett. f, Reg. n. 11522/1998, né
l’operazione era stata eseguita alle migliori condizioni
possibili, con riferimento al momento, alla natura e alle
dimensioni delle operazioni stesse (art. 32, terzo comma,
Reg. n. 11522/1998);
- che risultava violato pure l’obbligo relativo al conflitto
d’interessi sancito dall’art. 27 Reg. n. 11522/1998;
- che lo strumento finanziario acquistato risultava, infine, privo di rating e di prospetto informativo (e ciò in
violazione degli obblighi d’indicazione completa, puntuale e costante dei contenuti del contratto e delle modalità di svolgimento del servizio) e collocato in violazione della «offering circular», che imponeva la collocazione esclusivamente a investitori istituzionali;
- che, inoltre, era evidente nel concreto la violazione, da
parte dell’istituto proponente, del principio della buona
fede nell’esecuzione del contratto, posto che il dipendente dell’istituto di credito avrebbe dovuto loro dare
un’informativa completa circa la natura, le caratteristiche, i rischi specifici del prodotto, la sussistenza di una situazione di conflitto d’interessi;
- che, dunque, il contratto era nullo non solo per la violazione delle norme imperative summenzionate, ma era
altresì annullabile per vizio del consenso (in particolare
per errore essenziale e riconoscibile) e violazione degli
artt. 1427, 1428, 1429, 1431 e 1439 Codice civile;
- che, peraltro, essi avevano acquistato uno strumento finanziario in veste di consumatori e pertanto era applicabile la disciplina prevista dagli artt. 1469 bis ss. Codice
civile;
- che, in ordine a tale ultima normativa, doveva rimarcarsi che le clausole del contratto sottoscritto non erano
né chiare né comprensibili, per cui doveva dichiararsi
l’abusività delle clausole contrattuali e la relativa inefficacia;
- che, a causa di tale investimento, ne era derivata una
lesione della loro integrità psicofisica, come asseverato
da una relazione medico-legale che si produceva, nella
quale si evidenziava la sussistenza di un danno biologico
apprezzabile in venti punti percentuali e avente nesso
causale rispetto ai fatti per cui è processo.
Tutto ciò premesso, convenivano dinanzi all’intestato
tribunale la B.M.D.P.D.S., onde sentire dichiarare:
1. In via principale, la nullità del contratto di acquisto
dell’obbligazione «Cirio H. 01.04», per la violazione delle norme imperative di cui al D.Lgs. n. 58/1998;
2. In via gradata, dichiarare l’annullamento del contratto ex artt. 1439 e/o 1428 Codice civile;
3. in ulteriore subordine, dichiarare l’inefficacia ex artt.
1469 bis ss. Codice civile;
4. dichiarare la retrocessione di ogni somma conferita
per l’operazione in parola, oltre interessi e rivalutazione
dal giorno dell’acquisto;
5. condannare la banca convenuta al risarcimento del
danno biologico, morale ed esistenziale riveniente dalla
evidenziata colpa nell’esecuzione del contratto, da quantificarsi in via equitativa, con vittoria delle spese di lite.
(Omissis)
Motivi della decisione
(Omissis)
Venendo adesso al merito del giudizio, occorre anzitutto
accertare se, nel caso di specie, si sia trattato di una sollecitazione al pubblico risparmio o di una negoziazione
su base individuale; tale chiarificazione è fondamentale
per il prosieguo della causa, poiché, dalla riconducibilità
della negoziazione dei titoli in questione all’ipotesi della
sollecitazione al pubblico risparmio ovvero a quella della trattativa su base individuale, ne deriva l’applicabilità
della disciplina prevista dagli artt. 94 ss. D.Lgs. n.
58/1998.
Va premesso che la sollecitazione all’investimento è stata individuata dall’art. 94 D.Lgs. n. 58/1998 come «ogni
offerta, invito a offrire, o messaggio promozionale, in
qualsiasi forma rivolti al pubblico, finalizzati alla vendita
o alla sottoscrizione di prodotti finanziari».
Rientrano, dunque, nella nozione di sollecitazione all’investimento, le attività volte a promuovere l’investimento in prodotti finanziari, a incoraggiare cioè l’acquisto o la sottoscrizione di tali prodotti da parte del pubblico.
La disciplina della sollecitazione all’investimento, così
come contenuta nella regolamentazione di attuazione
degli artt. 94 ss. D.Lgs. n. 58/1998 emanata dalla CONSOB (provvedimento n. 11971/1999), prevede, a carico
dell’emittente, dell’offerente e dei responsabili del collocamento, una serie di obblighi informativi che presiedono alla esigenza di una maggiore tutela per il «sollecitato», rendendo garante di tale protezione la CONSOB e
attribuendo alla stessa un potere regolamentare molto
penetrante: invero, secondo l’art. 94, primo comma,
D.Lgs. n. 58/1998, «coloro che intendono effettuare una
sollecitazione all’investimento, ne danno preventiva comunicazione alla CONSOB, allegando il prospetto destinato alla pubblicazione».
La suddetta comunicazione deve contenere la sintetica
descrizione dell’offerta e le indicazioni dei soggetti che la
promuovono, attestare i presupposti necessari per l’offerta, essere corredata dalle informazioni richieste dall’allegato 1/A, e sottoscritta da coloro che intendono effettuare la sollecitazione; il secondo comma dell’art. 94,
I CONTRATTI N. 7/2006
687
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
poi, dispone che il prospetto contiene le informazioni
che - a seconda delle caratteristiche dei prodotti finanziari e degli emittenti - sono necessarie affinché gli investitori possano pervenire a un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria e sull’evoluzione dell’attività dell’emittente nonché sui prodotti finanziari e sui relativi diritti.
Si procede quindi alla pubblicazione del prospetto informativo (disciplinata dall’art. 8 Reg. CONSOB), che avviene con modalità tali da consentire alla CONSOB
forti poteri di controllo, sia sul prospetto sia sui soggetti.
È evidente, allora, che la ratio di tale normativa è deputata a tutelare una molteplicità di soggetti, i quali potrebbero essere tratti in inganno da forme di pubblicità
in prodotti finanziari di dubbia solidità, e pertanto si prevede un previo controllo di un ente pubblico (CONSOB) sulla veridicità delle informazioni diffuse; analoga
tutela non è prevista, e reputata necessaria, nel caso di
un singolo cliente che intende investire su un particolare prodotto o strumento finanziario.
Nel caso delle euro-obbligazioni Cirio, acquistate dagli
odierni attori, non è superfluo rammentare che - una
volta emesse sull’euro-mercato - esse sono state inizialmente assunte «a fermo» da alcune banche, le quali le
hanno, successivamente, vendute a investitori istituzionali e a soggetti privati, analogamente a quanto avvenuto per le principali emissioni internazionali effettuate da
gruppi italiani.
Sul punto, va detto che la Banca d’Italia, nel bollettino
economico n. 41/2003 ha chiarito che «l’assenza del
prospetto informativo previsto per le offerte pubbliche
impedisce alle banche, sia a quelle che sottoscrivono inizialmente i titoli sia a quelle che li acquistano dalle banche collocatrici, di sollecitare il pubblico a comprare i
valori mobiliari. Le banche possono tuttavia vendere i
titoli del proprio portafoglio ai clienti che ne facciano richiesta, nell’ambito di un’attività di negoziazione per
conto proprio».
La sequenza «assunzione a fermo - negoziazione sul mercato secondario» è perfettamente lecita e non implica in
alcun modo violazione dell’obbligo di prospetto; la Banca d’Italia, nel bollettino predetto, non ha messo infatti
in discussione né la liceità della vendita dei titoli suddetti sul mercato (neppure nella fase c.d. di grey market),
né la presenza di attività in qualche modo propositive da
parte degli intermediari.
In particolare, deve rilevarsi come, in relazione alla vendita delle euro-obbligazioni agli odierni attori, nulla impediva alla banca di poter vendere i titoli agli investitori privati che ne facevano richiesta, e ciò nell’ambito di
un’attività di negoziazione individuale; non è stata, invero, in qualche modo dimostrata, da parte attrice,
un’attività di proposizione o di effettiva promozione da
parte dei funzionari della B., né risulta che i titoli fossero
nel portafoglio della banca, che li acquistò - come da documentazione in atti - fuori mercato, su richiesta degli
investitori: non vi sono, pertanto, gli estremi per poter
688
I CONTRATTI N. 7/2006
ritenere che, nel concreto, la vendita delle obbligazioni
Cirio H. 01.04 possa essersi configurata in termini di sollecitazione al pubblico risparmio, con la conseguente applicazione della disciplina prevista dalle regole del
D.Lgs. n. 58/1998 sulla sollecitazione all’investimento.
Esclusa allora la sussistenza di una sollecitazione al pubblico risparmio, non possono essere condivise le argomentazioni di parte attrice, relative alla impossibilità di
collocare tali prodotti a investitori non istituzionali e alla assenza di rating e/o di prospetto informativo sui titoli
per cui è causa. È del tutto evidente, invece, che nella
specie debba trovare applicazione la diversa disciplina
della c.d. negoziazione su base individuale, prevista dall’art. 32 Reg. CONSOB.
Nello specifico, la banca si è posta in contropartita diretta con i clienti, operando nello svolgimento del servizio di negoziazione c.d. «per conto proprio».
È bene rammentare che tale servizio può dar luogo a una
differenza tra prezzo di acquisto del titolo da parte dell’intermediario e il prezzo di vendita ai clienti, in quanto
l’intermediario, nell’operatività per conto proprio, ha
l’obbligo di comunicare al cliente il prezzo al quale è disposto a concludere la transazione, ma non può applicare alcuna commissione; nel concreto, la B. ha acquistato
le euro-obbligazioni Cirio H. 01.04 emesse in Lussemburgo e, successivamente, ha venduto i titoli agli attori,
per un controvalore di euro 76.000,00; l’acquisto in esame non si colloca, pertanto, nella fase c.d. di mercato
«primario» o di emissione, bensì nella fase, successiva, di
mercato c.d. «secondario», in cui il titolo, già in possesso dell’investitore, viene negoziato con un altro soggetto
privato.
Quand’anche, poi, volesse accedersi alla tesi in base alla
quale gli strumenti finanziari in questione furono «consigliati» dai funzionari, e ciò sulla base di un’attività di
consulenza da parte della banca, deve rilevarsi che comunque l’attività di consulenza si caratterizza per la sostanziale «neutralità» dell’intermediario rispetto alla
conclusione delle operazioni eventualmente conseguenti all’esercizio della consulenza; è evidente, infatti, che,
nel caso della consulenza (a differenza dell’attività di gestione, che comporta l’obbligo di effettuare valutazioni
discrezionali circa l’opportunità d’investimenti e l’obbligo di predisporre la possibilità che dette valutazioni si
traducano in operazioni), la scelta di tradurre in operatività i consigli rimane sempre in capo al cliente, e così è
avvenuto nella specie (v. doc. all. e in particolare ordine
di acquisto).
Né, sul punto, parte attrice ha dimostrato la sussistenza
di un precedente accordo o convenzione, tra l’emittente
e la banca, in base al quale la seconda si impegnava a sollecitare la sottoscrizione delle obbligazioni Cirio nei
confronti della clientela; dalla risultanze probatorie è
emerso, piuttosto, che l’attività si è concretizzata in una
vera e propria negoziazione individuale di titoli effettuata su richiesta del cliente e nell’ambito di un’attività di
consulenza, che tuttavia non implicava (e di ciò non è
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
stata fornita alcuna prova) alcuna attività promozionale
e/o di gestione.
Risulta a questo punto opportuno evidenziare che, in generale, nell’ipotesi di acquisto dei titoli dagli investitori
istituzionali destinatari del private placement, i risparmiatori non restano comunque privi di forme di tutela, ma
questa ultima si rinviene nelle norme riguardanti gli obblighi di comportamento gravanti sugli intermediari
nella prestazione dei servizi di investimento, costituite
dagli artt. 21 ss. D.Lgs. n. 58/2003 e dalla disciplina contenuta nel Reg. n. 11522/1998. La fonte comunitaria di
tali disposizioni è la direttiva n. 93/22/CEE (in particolare, l’art. 11).
Si tratta pertanto di verificare se, nel caso di specie, siano state rispettate le regole di comportamento degli intermediari.
Invero, come per il collocamento, anche per la negoziazione di titoli occorre che:
1) i clienti siano adeguatamente informati sulle operazioni poste in essere;
2) venga assicurata al cliente la necessaria trasparenza,
riducendo al minimo le situazioni di conflitto d’interessi;
3) vengano sconsigliate operazioni non adeguate all’investitore;
4) gli strumenti finanziari negoziati siano coerenti con le
esigenze finanziarie, la disponibilità economica, la propensione al rischio dei singoli investimenti.
Di tali disposizioni vanno precisati e ricostruiti i confini
di applicazione.
A tal fine, si può sottolineare come la norma di cui all’art. 21 (e in parte di cui agli artt. 22 e 23) D.Lgs. n.
58/1998 ponga a carico degli intermediari il dovere di
comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati.
Tali clausole generali costituiscono gli standard basilari
per garantire la chiusura e la necessaria elasticità del sistema, individuando i beni di carattere generale (interesse dei clienti; integrità dei mercati) sottesi alla disciplina.
La diligenza richiesta all’intermediario è quella specifica,
esigibile dagli intermediari professionali del settore (art.
1176, secondo comma, Codice civile).
Sul punto, va rimarcato che la banca ha documentato di
aver consegnato ai clienti la documentazione necessaria
a renderli edotti della natura, delle caratteristiche e dei
rischi dell’investimento; in particolare, lo stesso contratto sottoscritto dal cliente costituisce, nella specie, veicolo di informazioni sul piano dei contenuti dell’investimento.
Risulta, poi, dai documenti prodotti, che fu consegnato
agli attori:
- il documento sui rischi generali dell’investimento;
- una copia dell’ordine di negoziazione degli strumenti finanziari, con il visto dell’operatore per l’adeguatezza dell’operazione;
- la scheda per l’individuazione del profilo-cliente, da cui
risulta: la precedente esperienza in strumenti finanziari
strutturati e derivati; un obiettivo a lungo termine; l’obiettivo di rendere fruttifero il risparmio; una disponibilità finanziaria di oltre 200 milioni; la volontà di investire il 50% in titoli azionari; un rendimento atteso medioalto con oscillazioni medie.
Orbene, alla luce della documentazione consegnata, deve ritenersi che sia stato rispettato il requisito della forma scritta ad substantiam, sancito dall’art. 23, sesto comma, D.Lgs. n. 58/1998 (che stabilisce che «i contratti relativi alla prestazione dei servizi d’investimento e accessori sono redatti per iscritto e l’inosservanza della forma
scritta è sanzionata con la nullità»).
L’istituto bancario ha asserito di aver rispettato il principio dell’adeguatezza, soggettiva e oggettiva, conformemente all’art. 11 della direttiva 93/22/CEE, che richiede
all’intermediario finanziario di «…informarsi sulla situazione finanziaria dei clienti, sulla loro esperienza in materia di investimenti e sui loro obiettivi per quanto concerne i servizi richiesti».
In proposito non è superfluo rammentare che la regola di
condotta della c.d. adeguatezza, o «suitability», riassunta
nella nota espressione anglosassone «know your customer rule», impone all’intermediario di esprimere un giudizio sull’operazione, avuto riguardo ai criteri della «tipologia, oggetto, dimensione e frequenza».
L’obiettivo perseguito nella disposizione di legge in esame - vale a dire «la possibilità di valutare se l’operazione
dal cliente proposta o allo stesso suggerita sia compatibile con le sue capacità economiche» (v. Cass. n.
11279/1997) - consiste nel garantire ai clienti le informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione, la cui conoscenza è necessaria al cliente per effettuare scelte consapevoli.
È quindi su tali principi che, trasfusi nel contratto di acquisto, deve essere valutato il comportamento della banca, tenendo presente altresì che l’onere della prova, a
norma dell’art. 23, sesto comma, D.Lgs. n. 58/1998, è invertito, incombendo sulla banca la prova di aver adempiuto con la specifica diligenza professionale richiesta a
un soggetto che opera nella qualità professionale d’intermediario.
Ciò posto, a parere del collegio, si deve escludere che la
banca abbia agito, in relazione all’operazione in questione, in ossequio al combinato disposto degli artt. 28 e 29
Reg. n. 11522/1998.
Risulta, invero, dal contratto di acquisto dei titoli in parola, un visto del funzionario di banca «anche per l’adeguatezza dell’operazione»; tale giudizio risulta, però, successivamente contraddetto dallo stesso istituto di credito nel fissato bollato inviato agli investitori, in cui spicca la dicitura «operazione inadeguata per dimensione».
Ora, è indubitabile che tale documento - nel quale è contenuto, sulla base delle informazioni inserite nell’elaboratore della banca, il giudizio di inadeguatezza dell’operazione - costituisca una vera e propria confessione stragiudiziale sulla inadeguatezza (oggettiva) dell’operazione,
I CONTRATTI N. 7/2006
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GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
quanto meno sotto il profilo della «dimensione»; a nulla
vale, sul punto, sostenere che il fissato bollato era datato
e che teneva conto d’informazioni acquisite all’atto dell’apertura del contratto di conto corrente e del dossier titoli, dunque diverso tempo prima dell’ordine di acquisto
dei titoli per cui è giudizio; è evidente che tale affermazione, oltre a essere rimasta assolutamente indimostrata
da parte della banca, individua comunque un’ulteriore
negligenza della banca, posto che, in questa ultima ipotesi, l’istituto di credito avrebbe dovuto aggiornare le informazioni acquisite, onde poter esprimere valutazioni attuali e congrue sull’adeguatezza degli investimenti operati dai loro clienti, e ciò in considerazione dell’eventualmente mutato profilo di rischi; invero, la regola della c.d.
«suitability» impone all’intermediario di «controllare le
informazioni rilasciate dai clienti attraverso un processo
dinamico, che non si esaurisce all’apertura del rapporto,
ma che richiede necessari aggiornamenti (v. com. CONSOB DI/98087230 del 6 novembre 1998).
Pertanto l’obiettivo perseguito nella disposizione di legge in esame, vale a dire «la possibilità di valutare se l’operazione dal cliente proposta (o allo stesso suggerita) sia
compatibile con le sue capacità economiche» (v. Cass.
n. 11279/1997), non risulta puntualmente adempiuto
dalla banca, laddove si consideri, da un lato, che il fissato bollato reca chiara indicazione d’inadeguatezza dell’operazione per dimensione e, dall’altro - anche a voler
ammettere, per ipotesi, la tesi dell’acquisizione d’informazioni «datate» - che vi sarebbe comunque un profilo
di negligenza della banca per non aver aggiornato le notizie e informazioni sui clienti per cui è causa.
Quanto ai documenti in fotocopia (espressamente e formalmente disconosciuti da parte attrice), contenenti il
profilo di rischio degli attori - pur volendo considerare le
copie conformi agli originali - occorre però rimarcare
che in essi è del tutto carente la data di sottoscrizione,
sicché non v’è neppure la prova che la banca - su cui incombeva il relativo onere - abbia fatto sottoscrivere le
schede d’individuazione del profilo-cliente all’atto dell’ordine di acquisto delle obbligazioni Cirio.
Per completezza, l’intestato tribunale ha disposto consulenza, avente lo scopo di appurare - sulla scorta delle acquisizioni documentali, delle disponibilità degli investitori e delle loro competenze e informazioni in materia l’adeguatezza delle operazione di acquisto dei titoli in parola; secondo quanto risulta dall’indagine affidata al
CTU, l’operazione è risultata inadeguata sotto tutti e
quattro i profili:
- per tipologia e oggetto, in quanto si è trattato della prima operazione «corporate» sottoscritta dagli attori (per
giunta avente un profilo estremamente elevato di rischio, accentuato dall’assenza di rating e di prospetto
informativo) e considerato il livello di bassa scolarizzazione degli attori (casalinga la M., con licenza elementare e operaio metalmeccanico il F., anch’egli con la sola licenza elementare);
- per dimensione, in quanto è stato investito nella singola
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I CONTRATTI N. 7/2006
operazione circa il 60% delle disponibilità liquide degli attori, con un portafoglio titoli che, anziché essere diversificato, comprendeva per il 73% le sole obbligazioni Cirio H.;
- per frequenza, in quanto nel periodo antecedente al 6
febbraio 2001 gli attori avevano effettuato solo altre tre
operazioni in strumenti finanziari.
Alla stregua di tali considerazioni, deve ritenersi che l’operazione sia stata eseguita in palese violazione dell’obbligo di adeguatezza contenuto nel Reg. CONSOB agli
artt. 28 e 29; non è superfluo poi rammentare che tali
norme hanno contenuto precettivo e imperativo in ragione degli interessi tutelati (integrità del mercato e tutela del risparmio), come del resto ha sottolineato la stessa Suprema Corte, nella nota sentenza n. 3272/2001.
Gli ordini impartiti devono pertanto ritenersi nulli, con
l’obbligo di retrocessione agli attori degli importi ricevuti dalla banca per l’operazione in questione, pari a un
controvalore di euro 76.000,00, maggiorati degli interessi legali a far data dal versamento e sino al soddisfo.
Non sussistono i presupposti per il maggior danno, trattandosi di debito di valuta per il quale è necessaria la
prova da parte del creditore di aver subito un maggior
danno (quale, ad esempio, quello derivante da una specifico investimento programmato e non attuato) rispetto a quello individuato dagli interessi legali.
L’accoglimento della domanda principale assorbe gli altri profili d’invalidità evidenziati da parte attrice, con l’esonero di motivazione sul punto da parte del collegio.
In ordine al risarcimento del danno biologico, deve ritenersi che la domanda sia rimasta indimostrata, non essendo stato provato il nesso di causalità tra la sindrome
ansioso-depressiva dell’attore e l’investimento in questione, ben potendo la stessa preesistere all’investimento
in parola ovvero derivare da altre cause, non correlate
con il default dei titoli acquistati.
In ordine alle spese di lite, sussistono giusti motivi per
compensare integralmente tra le parti le spese di lite, data la novità della questione, tranne quelle di CTU, che
devono essere poste, nella misura liquidata, a carico di
parte convenuta.
P.Q.M.
il Tribunale di Trani, prima sezione civile, in composizione collegiale definitivamente pronunziando nel contraddittorio tra le parti sulla causa n. 1811/04 promossa
da F.A. e M.I. nei confronti di B.M.D.P.D.S. S.p.a., così
statuisce:
1) accoglie la domanda proposta da parte attrice e, per
l’effetto, dichiara la nullità del contratto di acquisto delle obbligazioni Orio Holding Luxemburg S.A. 01.04, acquistate per un controvalore di euro 76.000,00 in data 6
febbraio 2001;
2) condanna la convenuta a corrispondere agli attori la
somma di euro 76.000,00 oltre gli interessi legali dalla
data del pagamento al saldo;
3) rigetta ogni altra domanda.
(Omissis)
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
IL COMMENTO
di Valerio Sangiovanni
I recenti scandali finanziari hanno colpito molti investitori e si sta formando al riguardo una copiosa giurisprudenza di merito. La sentenza in commento ne
costituisce un esempio. Il Tribunale di Trani giunge alla conclusione che la violazione degli obblighi che incombono sull’intermediario determina la nullità del
contratto. Ne consegue l’obbligo di restituire ai clienti la somma originariamente messa a disposizione per
l’investimento.
Introduzione
La sentenza in commento affronta un problema di
grande attualità, di cui si stanno occupando molti tribunali italiani. Quando un investimento non produce i risultati sperati, l’investitore cerca, in tutti i modi, di recuperare le somme perse. Il risparmiatore va alla ricerca,
per usare una riuscita espressione (1), di una «deep
pocket» (una tasca profonda, un portafoglio pieno) che
gli consenta di rifarsi delle perdite subite.
L’investitore non può rifarsi sull’emittente (2). È
vero che l’investitore rimane titolare degli strumenti finanziari, ma questi hanno un valore fortemente ridotto
se la società è andata in crisi. Se, per esempio, gli strumenti finanziari erano stati comprati per euro
100.000,00, ma ora valgono euro 10.000,00, l’acquirente ha subito una perdita di euro 90.000,00. Il compratore può attendere e sperare che i titoli raggiungano di
nuovo una quotazione elevata. Ma non è affatto certo
che ciò si verifichi. Rimane allora la possibilità di rifarsi
sull’intermediario, vale a dire il soggetto mediante il
quale gli strumenti finanziari sono stati acquistati (3). A
questo fine occorre tuttavia che la fattispecie presenti
elementi tali da consentire all’investitore di agire in giudizio con successo. Nel caso di specie il Tribunale di Trani ha dichiarato addirittura la nullità del contratto, con
il conseguente obbligo di restituire quanto originariamente prestato.
Due sono i profili di maggior rilievo trattati dalla
sentenza in commento. Innanzitutto essa si occupa di distinguere tra sollecitazione all’investimento e negoziazione su base individuale. Escluso che ricorra la prima
ipotesi, la sentenza tratta dei rimedi a disposizione dell’investitore nel caso in cui un intermediario violi gli obblighi che gli fanno capo. Nella presente nota si esamineranno dapprima i profili di nullità del contratto e, poi,
si cercherà d’identificare le basi normative di un’eventuale domanda di risarcimento del danno (4).
La sentenza in commento concerne, per tanta parte, i servizi d’investimento resi dai soggetti abilitati. Si
tratta di materia che trova il proprio fondamento nel diritto comunitario (5). In attuazione della normativa co-
munitaria, la legge italiana precisa che i servizi d’investimento si devono svolgere secondo certe regole di condotta che sono sancite nell’art. 21, primo comma, D.Lgs.
n. 58/1998 (6).
Dal punto di vista processuale si applica al caso di
specie il rito previsto dal D.Lgs. n. 5/2003 (7), che ha ad
oggetto il c.d. «processo societario». Questa espressione
va messa fra virgolette perché sarebbe più completo parlare, oltre che di processo societario, anche di processo
finanziario, bancario e creditizio. L’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 5/2003 va difatti ben oltre la materia societaria. Tale testo legislativo riguarda in particolare, tra
l’altro, i «rapporti in materia d’intermediazione mobiliare da chiunque gestita, servizi e contratti d’investimento,
ivi compresi i servizi accessori, fondi d’investimento, geNote:
(1) È la divertente espressione usata da A. Perrone, Servizi di investimento
e violazione delle regole di condotta, in Riv. soc., 2005, 1018.
(2) Nel testo della presenta nota si fa uso prevalente dell’espressione tecnica di «strumenti finanziari», definiti nell’art. 1, secondo comma, D.Lgs.
n. 58/1998, tra cui rientrano in particolare - per i profili che qui interessano - le obbligazioni. Gli «strumenti finanziari» rappresentano una sottocategoria dei «prodotti finanziari». L’art. 1, primo comma, lett. u, D.Lgs.
n. 58/1998 definisce come prodotti finanziari «gli strumenti finanziari e
ogni altra forma di investimento di natura finanziaria». Per ragioni di comodità, nel corso di questa nota ogni tanto si utilizzerà anche l’espressione «titoli».
(3) Naturalmente esistono altri soggetti nei cui confronti un investitore
può rifarsi. Si pensi agli amministratori dell’emittente che, con una cattiva gestione, possono avere causato le difficoltà finanziarie. Per tacere poi
della possibilità di azionare forme di responsabilità dei soggetti preposti al
controllo interno oppure esterno della società. Sempre possibile è poi l’affermazione della responsabilità penale, con la conseguente richiesta di risarcimento del danno. Di tutti questi profili non è tuttavia possibile occuparsi in questa sede.
(4) Non è possibile occuparsi in questa sede di un altro possibile rimedio
a disposizione dell’investitore: l’annullamento del contratto. Allo stesso
modo non è possibile soffermarsi sull’eventuale risoluzione del negozio.
Su questo ultimo specifico rimedio v., recentemente, Trib. Napoli 22
marzo 2005, in questa Rivista, 2006, 113 ss., con nota di M. M. Gaeta. Su
annullamento e risoluzione dei contratti nel contesto dell’intermediazione mobiliare sia consentito il rinvio a V. Sangiovanni, La responsabilità
dell’intermediario nel caso Parmalat e la recentissima legge per la tutela del risparmio, in Società, 2006, 5, 605.
(5) Sulle origini comunitarie della disciplina dei servizi d’investimento
cfr., per tutti, G. Ferrarini L’attuazione della direttiva comunitaria sui servizi
di investimento. Temi e problemi, in Riv. soc., 1995, 623 ss.; G. Ferrarini, Le
direttive comunitarie in tema di servizi di investimento, in Banca borsa tit. cred.,
1994, I, 520 ss. Sulla questione specifica del conflitto d’interessi v. L. Enriques, Dum Romae consulitur… verso una nuova disciplina comunitaria del
conflitto d’interessi nei servizi d’investimento, in Banca impresa società, 2004,
447 ss.
(6) Il più recente studio monografico di questa materia è quello di F. Sartori, Le regole di condotta degli intermediari finanziari, Milano, 2004.
(7) D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5. Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’art. 12 Legge 3 ottobre 2001, n.
366.
I CONTRATTI N. 7/2006
691
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
stione collettiva del risparmio e gestione accentrata di
strumenti finanziari, vendita di prodotti finanziari, ivi
compresa la cartolarizzazione dei crediti, offerte pubbliche di acquisto e di scambio, contratti di borsa» (art. 1,
primo comma, lett. d., D.Lgs. n. 5/2003). Nel caso affrontato dal Tribunale di Trani non vi sono dubbi che
trovi applicazione il rito speciale previsto dal D.Lgs. n.
5/2003. Si può dunque passare a esaminare il merito della controversia.
Esclusione di una sollecitazione all’investimento
Il Tribunale di Trani si chiede, anzitutto, se nella
fattispecie di cui si occupa possano trovare applicazione
le disposizioni che regolano la sollecitazione all’investimento. La risposta di questa autorità giudiziaria è negativa.
La sollecitazione all’investimento è regolata dagli
artt. 94-101 D.Lgs. n. 58/1998. La definizione di «sollecitazione all’investimento» è rinvenibile nell’art. 1, primo comma, lett. t, D.Lgs. n. 58/1998: «ogni offerta, invito a offrire o messaggio promozionale, in qualsiasi forma rivolto al pubblico, finalizzati alla vendita o alla sottoscrizione di prodotti finanziari». La stessa definizione
legislativa di sollecitazione all’investimento è sufficiente
per concludere nel senso che, nel caso di specie, non ricorre questa ipotesi. Manca difatti il pubblico. Come si
ricava dalle risultanze processuali, la vendita è avvenuta
a singole persone (8).
Il rapporto intercorso tra le parti va dunque qualificato in altro modo. Il Tribunale di Trani qualifica la relazione come una negoziazione per conto proprio. Si
tratta di uno dei possibili servizi d’investimento previsti
dal legislatore, segnatamente quello indicato nell’art. 1,
quinto comma, lett. a, D.Lgs. n. 58/1998 (9).
Come è noto, la materia dell’intermediazione finanziaria è regolata su due livelli: uno legislativo (costituito dagli artt. 5-60 bis D.Lgs. n. 58/1998) e uno regolamentare (rappresentato dalla delibera CONSOB 1° luglio 1998, n. 11522 (10)). Il Reg. n. 11522/1998 regola i
servizi d’investimento e accessori negli artt. 26-47 (11).
La nullità del contratto
Nel caso in commento gli attori esperiscono l’azione di nullità del contratto. Essi sostengono che l’intermediario avrebbe violato una serie di disposizioni imperative e, conseguentemente, che il contratto sarebbe
nullo.
Se il contratto è nullo, chi ha prestato qualcosa in
base a esso ha diritto a ottenerne la restituzione. Trova
applicazione l’art. 2033 Codice civile, secondo il quale
«chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di
ripetere ciò che ha pagato». Questo è proprio il beneficio principale dell’azione di nullità: una volta che l’attore ha dimostrato che ne sussistono i presupposti, ha diritto a ottenere la restituzione dell’intera somma messa a
disposizione dell’intermediario per l’investimento (12).
Le azioni di carattere risarcitorio producono invece ef-
692
I CONTRATTI N. 7/2006
fetti diversi. L’attore può essere ristorato solo nei limiti
del danno subito.
Segue: a) il requisito della forma scritta
ad substantiam
L’art. 23, primo comma, D.Lgs. n. 58/1998 sancisce
che «i contratti relativi alla prestazione dei servizi d’investimento e accessori sono redatti per iscritto e un
esemplare è consegnato ai clienti… Nei casi d’inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo».
L’azione degli investitori potrebbe basarsi su questa
disposizione. Nullità si ha però, sulla base di questa norma, solo quando non è soddisfatto il requisito della forma scritta (13). Si tratta del caso affrontato in una recente ordinanza del tribunale di L’Aquila (14). Gli attori avevano qui chiesto la restituzione delle somme prelevate dall’intermediario, asserendo sussistere la nullità del
contratto per mancanza di forma scritta.
Sennonché, nel diverso caso affrontato dal Tribunale di Trani qui in commento, risulta che il contratto è
stato stipulato per iscritto. Gli attori che intendono rivalersi sull’intermediario sono dunque costretti a trovare
un’altra base normativa che consenta loro di ottenere il
risultato perseguito, vale a dire la restituzione della somma consegnata per l’acquisto delle obbligazioni.
Segue: b) sguardo d’insieme sulle disposizioni
che si assumono violate
Gli attori fondano la loro richiesta sull’affermazione
che il contratto violerebbe disposizioni imperative. Le
norme che essi assumono essere stata violate sono in parte di origine legislativa, in parte di origine regolamentare.
Note:
(8) Non è qui possibile esaminare un profilo che potrebbe acquistare rilevanza. Ci si dovrebbe difatti chiedere se l’operazione non possa considerarsi in frode alla legge oppure in frode a terzi.
(9) L’art. 1, quinto comma, D.Lgs. n. 58/1998 prevede che «per servizi di
investimento si intendono le seguenti attività, quando hanno per oggetto strumenti finanziari: a) negoziazione per conto proprio; b) negoziazione per conto terzi; c) collocamento, con o senza preventiva sottoscrizione o acquisto a fermo, ovvero assunzione di garanzia nei confronti dell’emittente; d) gestione su base individuale di portafogli di investimento per
conto terzi; e) ricezione e trasmissione di ordini nonché mediazione».
(10) Delibera CONSOB 1° luglio 1998, n. 11522. Regolamento di attuazione del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, concernente la
disciplina degli intermediari.
(11) Il regolamento detta «disposizioni di carattere generale» (artt. 2631) e «norme per la prestazione dei singoli servizi» (artt. 32-47). Tra i singoli servizi la disciplina regolamentare si occupa di «negoziazione» (art.
32), «ricezione e trasmissione di ordini, mediazione» (artt. 33-34), «collocamento e offerta fuori sede» (artt. 35-36), «gestione di portafogli»
(artt. 37-46) e «concessione di finanziamenti» (art. 47).
(12) Cfr., sul punto, A. Perrone, Servizi di investimento, cit., 1015 s.
(13) In merito, sia permesso rinviare a V. Sangiovanni, La nullità del contratto per inosservanza di forma nel caso delle obbligazioni argentine, in Corr.
merito, 2006, 737 s.
(14) Trib. L’Aquila 21 febbraio 2005 (ord.), in Società, 2006, 360 ss., con
nota di F. Platania.
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
La legge di riferimento è il D.Lgs. n. 58/1998 e, in
particolare, il suo art. 21 (15).
Dal punto di vista regolamentare occorre porre attenzione al Reg. n. 11522/1998. Gli articoli di questo regolamento che rilevano nel caso di specie sono l’art. 26
(rubricato «regole generali di comportamento») (16),
l’art. 27 («conflitti di interessi») (17), l’art. 28 («informazioni tra gli intermediari e gli investitori») (18) e l’art.
29 («operazioni non adeguate») (19).
Nel caso in esame l’intermediario ha violato alcuni
di questi obblighi. La maggiore contestazione mossa dagli attori alla banca riguarda l’inadeguatezza della operazione posta in essere. Il Tribunale di Trani ha disposto
una consulenza al riguardo, i cui esiti sono sconfortanti
per l’intermediario. È difatti risultato che questi ha posto
in essere un’operazione inadeguata sotto tutti i profili:
per «tipologia», «oggetto», «frequenza» e «dimensione». Il Tribunale, accertate queste violazioni, si chiede se
esse abbiano per conseguenza la nullità del contratto ai
sensi dell’art. 1418 Codice civile. La risposta data nella
sentenza in commento è positiva.
Segue: c) violazione dell’art. 21
D.Lgs. n. 58/1998?
«Il contratto è nullo quando è contrario a norme
imperative, salvo che la legge disponga diversamente»
(art. 1418, primo comma, Codice civile). Si tratta quindi di stabilire se si siano verificate, nel caso in commento, violazioni di disposizioni imperative.
La materia dell’intermediazione finanziaria rappresenta un miscuglio di disposizioni, alcune di diritto pubblico, altre di diritto privato (20). In questo senso pare significativo l’enunciato dell’art. 5, primo comma, D.Lgs.
n. 58/1998 secondo cui «la vigilanza sulle attività disciplinate dalla presente parte ha per scopo la trasparenza e
la correttezza dei comportamenti e la sana e prudente gestione dei soggetti abilitati, avendo riguardo alla tutela
degli investitori e alla stabilità, alla competitività e al
buon funzionamento del sistema finanziario». La lettura
di questa disposizione fa trasparire due profili: uno di diritto pubblico (stabilità, competitività e buon funzionamento del sistema finanziario) e uno di diritto privato
(tutela degli investitori). Questa duplice finalità trova
un riscontro espresso, per l’argomento specifico che qui
interessa, nell’art. 21, primo comma, lett. a, D.Lgs. n.
Note:
(15) L’art. 21, primo comma, D.Lgs. n. 58/1998 stabilisce che «nella prestazione dei servizi di investimento e accessori, i soggetti abilitati devono:
a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, nell’interesse dei
clienti e per l’integrità dei mercati; b) acquisire le informazioni necessarie
dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati; c) organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse e, in situazioni di conflitto, agire in modo da assicurare
comunque ai clienti trasparenza ed equo trattamento; d) disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi; e) svolgere una gestione indipendente, sana e
prudente e adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei clienti sui
beni affidati».
(16) L’art. 26 Reg. n. 11522/1998 prevede: «gli intermediari autorizzati,
nell’interesse degli investitori e dell’integrità del mercato mobiliare: a)
operano in modo indipendente e coerente con i principi e le regole generali del Testo Unico; b) rispettano le regole di funzionamento dei mercati in cui operano; c) si astengono da ogni comportamento che possa avvantaggiare un investitore a danno di un altro; d) eseguono con tempestività le disposizioni loro impartite dagli investitori; e) acquisiscono una
conoscenza degli strumenti finanziari, dei servizi nonché dei prodotti diversi dai servizi d’investimento, propri o di terzi, da essi stessi offerti, adeguata al tipo di prestazione da fornire; f) operano al fine di contenere i costi a carico degli investitori e di ottenere da ogni servizio d’investimento
il miglior risultato possibile, anche in relazione al livello di rischio prescelto dall’investitore».
(17) L’art. 27 Reg. n. 11522/1998 puntualizza: «gli intermediari autorizzati vigilano per l’individuazione dei conflitti di interessi. Gli intermediari
autorizzati non possono effettuare operazioni con la o per conto della propria clientela se hanno direttamente o indirettamente un interesse in
conflitto, anche derivante da rapporti di gruppo, dalla prestazione congiunta di più servizi o da altri rapporti di affari propri o di società del gruppo, a meno che non abbiano preventivamente informato per iscritto l’investitore sulla natura e l’estensione del loro interesse nell’operazione e
l’investitore non abbia acconsentito espressamente per iscritto all’effettuazione dell’operazione. Ove l’operazione sia conclusa telefonicamente,
l’assolvimento dei citati obblighi informativi e il rilascio della relativa autorizzazione da parte dell’investitore devono risultare da registrazione su
nastro magnetico o su altro supporto equivalente. Ove gli intermediari
autorizzati, al fine dell’assolvimento degli obblighi di cui al precedente
comma 2, utilizzino moduli o formulari prestampati, questi devono recare l’indicazione, graficamente evidenziata, che l’operazione è in conflitto
di interessi».
(18) L’art. 28, primo comma, Reg. n. 11522/1998 recita: «prima della
stipulazione del contratto di gestione e di consulenza in materia di investimenti e dell’inizio della prestazione dei servizi d’investimento e
dei servizi accessori a questi collegati, gli intermediari autorizzati devono; a) chiedere all’investitore notizie circa la sua esperienza in materia
di investimenti in strumenti finanziari, la sua situazione finanziaria, i
suoi obiettivi di investimento, nonché circa la sua propensione al rischio. L’eventuale rifiuto di fornire le notizie richieste deve risultare
dal contratto di cui al successivo articolo 30, ovvero da apposita dichiarazione sottoscritta dall’investitore; b) consegnare agli investitori
il documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari di cui all’allegato n. 3». L’art. 28, secondo comma, Reg. n.
11522/1998 recita: «gli intermediari autorizzati non possono effettuare
o consigliare operazioni o prestare il servizio di gestione se non dopo
aver fornito all’investitore informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione o del servizio, la cui
conoscenza sia necessaria per effettuare consapevoli scelte di investimento o disinvestimento».
(19) L’art. 29 Reg. n. 11522/1998 stabilisce: «gli intermediari autorizzati
si astengono dall’effettuare con o per conto degli investitori operazioni
non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza o dimensione. Ai fini di
cui al comma 1, gli intermediari autorizzati tengono conto delle informazioni di cui all’articolo 28 e di ogni altra informazione disponibile in relazione ai servizi prestati. Gli intermediari autorizzati, quando ricevono da
un investitore disposizioni relative ad una operazione non adeguata, lo
informano di tale circostanza e delle ragioni per cui non è opportuno procedere alla sua esecuzione. Qualora l’investitore intenda comunque dare
corso all’operazione, gli intermediari autorizzati possono eseguire l’operazione stessa solo sulla base di un ordine impartito per iscritto ovvero, nel
caso di ordini telefonici, registrato su nastro magnetico o su altro supporto equivalente, in cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute».
(20) G. Alpa, Qualche rilievo civilistico sulla disciplina dei mercati finanziari e
sulla tutela del risparmiatore, in Banca borsa tit. cred., 1998, I, 372, chiarisce
come la regolamentazione del mercato finanziario rappresenti una disciplina che afferisce al diritto pubblico dell’economia, ma che contiene anche regole che si possono ascrivere al diritto privato. Questo autore ritiene che gli obiettivi primari della regolamentazione siano la stabilità e la
trasparenza, da considerarsi principi strutturali, mentre la tutela degli investitori rimane un obiettivo secondario.
I CONTRATTI N. 7/2006
693
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
58/1998, laddove si stabilisce che i soggetti abilitati devono comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati.
«Interesse dei clienti» e «integrità dei mercati» equivale
a dire «profilo privatistico» e «profilo pubblicistico».
Questi due aspetti convivono nella materia in esame.
Non si può tuttavia ignorare che è la legge stessa a
stabilire espressamente che il comportamento degli intermediari deve essere finalizzato anche alla realizzazione
di interessi pubblici, come l’integrità del mercato. Ad
avviso di chi scrive l’art. 21, primo comma, D.Lgs. n.
58/1998 costituisce una disposizione imperativa. Come
ha affermato una recente pronuncia di merito, nella materia dell’intermediazione finanziaria esistono interessi
di carattere generale che rendono inderogabili le regole
di comportamento (21). Anche il tribunale di Mantova,
in un caso di poco precedente, si è richiamato al carattere pubblicistico degli interessi tutelati (22). La natura
pubblicistica è confermata dal fatto che le inosservanze
degli obblighi che fanno capo agli intermediari finanziari sono punite con sanzioni amministrative (cfr. in particolare l’art. 190 D.Lgs. n. 58/1998 che prevede una sanzione pecuniaria in caso di violazione dell’art. 21 D.Lgs.
n. 58/1998) (23). Il risparmio è, infine, protetto da una
disposizione costituzionale (24).
Cosa intende il legislatore, nell’art. 1418 Codice civile, con l’espressione «norma imperativa»? La Corte di
cassazione ha stabilito che l’ipotesi di nullità del contratto per contrarietà a norme imperative si verifica indipendentemente da una espressa comminatoria della sanzione di nullità nei singoli casi (25). Difatti la norma dell’art. 1418 Codice civile esprime un principio generale,
essendo rivolta a prevedere e disciplinare proprio quei
casi in cui alla violazione di precetti imperativi non si accompagna una specifica previsione di nullità. In tali casi
compito del giudice, ai fini della declaratoria di nullità, è
solo quello di stabilire se la norma o le norme contraddette dall’autonomia privata abbiano carattere imperativo, siano - cioè - dettate a tutela dell’interesse pubblico.
Questa sentenza esprime due principi: la imperatività
non deve essere espressamente comminata dalla singola
disposizione e la norma è imperativa quando è dettata a
tutela dell’interesse pubblico. La nullità per contrarietà
all’art. 21, primo comma, D.Lgs. n. 58/1998 può dunque
realizzarsi anche in assenza di una previsione espressa
che sancisca che tale disposizione è imperativa. Ciò che
conta è che si tratti di una norma posta nell’interesse
pubblico. La disposizione in esame è posta a tutela dell’interesse pubblico: lo dice lo stesso art. 21, primo comma, lett. a, D.Lgs. n. 58/1998 quando impone ai soggetti
abilitati di comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza «per l’integrità dei mercati».
Il Tribunale di Trani ritiene che il contratto intercorso tra intermediario e investitore sia nullo. Chi scrive
non condivide questa conclusione. Occorre difatti distinguere tra il comportamento della banca e il contenuto del negozio (26). Se è il solo comportamento unilate-
694
I CONTRATTI N. 7/2006
rale dell’intermediario a violare norme imperative, ciò
non determina la nullità del contratto. L’art. 1321 Codice civile recita: «il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale». Nullo può essere solo il contratto, vale a dire il risultato dell’accordo dei contraenti,
non il comportamento di una delle parti. Il richiamo all’istituto della nullità non appare essere corretto nel caso
di specie, perché le violazioni poste in essere dall’intermediario sono unilaterali. Ciò che viene contestato dagli attori alla banca non è di avere stipulato un contratto nullo (di cui gli stessi investitori sarebbero parte),
bensì di avere posto in essere dei comportamenti che sono contrari a disposizioni imperative.
Se le parti avessero inserito nel contratto - che, si è
già detto, nella materia in esame deve essere stipulato
per iscritto (art. 23, primo comma, D.Lgs. n. 58/1998) una disposizione in contrasto con l’art. 21, primo comma, D.Lgs. n. 58/1998, allora tale clausola sarebbe nulla
per violazione di norma imperativa. Si immagini che
l’intermediario e gli investitori inseriscano nel contratto
una clausola che dispensa la banca dall’acquisire le informazioni necessarie dai clienti e dall’operare in modo che
essi siano sempre adeguatamente informati. Questa previsione contrattuale sarebbe in contrasto con il tenore
letterale dell’art. 21, primo comma, lett. b, D.Lgs. n.
58/1998. Siccome questa disposizione è imperativa perché tutela interessi pubblici (27), la relativa clausola sarebbe nulla. Ma nel caso affrontato dalla sentenza in
commento le inosservanze sono ascrivibili unicamente
all’intermediario. I comportamenti scorretti della banca
non entrano a far parte del contratto. Non vi è accordo
Note:
(21) In questo senso Trib. Firenze 19 aprile 2005, in Corr. giur., 2005,
1271 ss., con nota di A. di Majo.
(22) Trib. Mantova 12 novembre 2004, in questa Rivista, 2005, 585 ss.,
con nota di M. M. Gaeta.
(23) Sulle sanzioni amministrative nel D.Lgs. n. 58/1998, cfr. P. De Biasi,
Persuasione e castigo, Milano, 2003.
(24) L’art. 47, primo comma, Cost. stabilisce che «la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme».
(25) Cass. 13 maggio 1977, n. 1901.
(26) In questo senso anche A. Perrone, Servizi di investimento, cit., 1020 ss.
(27) L’intero funzionamento dei mercati mobiliari si fonda sull’informazione, che deve essere corretta, completa e tempestiva. Al riguardo cfr.,
per tutti, lo studio monografico di A. Perrone, Informazione al mercato e tutele dell’investitore, Milano, 2003. La centralità del ruolo dell’informazione
nel buon funzionamento del sistema finanziario è riconosciuta in ogni ordinamento. Per riferimenti al regime tedesco sia consentito rinviare alla
mia monografia, V. Sangiovanni, Die Ad-hoc-Publizität im deutschen und
italienischen Recht, Frankfurt am Main, 2003. In lingua italiana sia permesso il rinvio a V. Sangiovanni, Documento d’offerta pubblica e responsabilità civile nel nuovo diritto tedesco, in Riv. dir. civ., 2004, I, 153 ss.; V. Sangiovanni, L’attuazione della direttiva sull’insider trading nel diritto tedesco, in
Banca borsa tit. cred., 2000, I, 540 ss.; V. Sangiovanni, L’informazione c.d.
continua o permanente nel diritto tedesco del mercato dei capitali, in Banca borsa tit. cred., 1998, I, 582 ss.
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
sul punto e non vi è dunque contratto. Ne consegue che
non vi può essere nullità.
Segue: d) violazione di mere disposizioni
regolamentari?
Il quesito sul possibile carattere imperativo di regole può riguardare, almeno teoricamente, sia disposizioni
di legge sia norme regolamentari. L’art. 1418, primo
comma, Codice civile non dice che il contratto è nullo
per contrarietà a norma imperativa «di legge», ma solo
per contrarietà a norma imperativa. Può cagionare nullità del contratto anche la violazione di semplici disposizioni regolamentari (28)?
Al fine di rispondere a questa domanda occorre tenere presente che, astrattamente, si possono realizzare
tre situazioni: violazione della sola legge; violazione di
legge e regolamento; violazione del solo regolamento.
Partiamo dal primo caso: violazione della sola legge.
Si immagini che gli attori contestino all’intermediario,
genericamente, di non essersi comportato con «diligenza, correttezza e trasparenza», violando così il dettato
dell’art. 21, primo comma, lett. a, D.Lgs. n. 58/1998. Se
è stata violata la sola legge, non è nemmeno necessario
chiedersi se - contemporaneamente - sia stato violato il
regolamento. È difatti del tutto ragionevole ritenere che
«imperativa» sia la disposizione di legge. La tesi contraria è difficilmente sostenibile. Si dovrebbe cioè affermare che una disposizione di regolamento è imperativa (vale a dire a tutela d’interessi pubblici), mentre non lo è la
norma di legge che il regolamento si limita ad attuare.
Passiamo ora al secondo caso: violazione contemporanea di legge e regolamento. Si tratta della ipotesi sicuramente più ricorrente nella prassi. Per esempio: gli
intermediari che effettuano operazioni non adeguate,
come è successo nel caso in esame, violano senz’altro
l’art. 29, primo comma, Reg. n. 11522/1998. Essi, tuttavia, violano necessariamente anche i criteri di diligenza,
correttezza e trasparenza fissati dall’art. 21, primo comma, D.Lgs. n. 58/1998. Si può ritenere diligente, corretto e trasparente un intermediario che suggerisce a un
cliente un investimento inadeguato sotto tutti i profili?
La risposta è negativa. Concorrono allora la violazione
di legge e la violazione di regolamento.
Vi è poi il terzo caso. Si possono - teoricamente realizzare ipotesi in cui gli intermediari, senza violare la
legge, violano precetti regolamentari. Scrivo «teoricamente» perché l’inosservanza di una disposizione regolamentare quasi sempre configura anche la violazione di
una norma di legge. Si supponga comunque che esistano
rarissimi casi in cui sia possibile violare solo il regolamento. In questo caso, effettivamente, il giudice dovrebbe svolgere un’indagine volta ad accertare se la disposizione regolamentare possa configurare una norma imperativa.
Ad avviso di chi scrive è pressoché impossibile violare un regolamento attuativo senza violare contestualmente la legge. La questione di cui si sono occupati di-
versi tribunali (se la violazione di norme regolamentari
possa determinare nullità del contratto) tende dunque
ad essere mal posta. Semmai il ragionamento deve essere il seguente: l’inosservanza di regolamento che si è accertata sotto quale inosservanza di legge può essere sussunta? Si ritiene che sia quasi sempre possibile rinvenire
nell’ordinamento disposizioni di legge che vengono violate ogni volta che viene violato un regolamento attuativo.
Concludendo queste osservazioni in merito alla
nullità del contratto si può affermare che l’art. 21, primo
comma, D.Lgs. n. 58/1998 è una disposizione imperativa, perché essa tutela interessi pubblici, e segnatamente
il buon funzionamento e l’integrità del mercato finanziario. La sua violazione è sanzionata amministrativamente, con una sanzione dunque di diritto pubblico, perché
gli interessi in gioco sono pubblicistici. La violazione bilaterale di norma imperativa da parte del contratto dà
luogo a nullità. La violazione unilaterale degli obblighi
che fanno capo all’intermediario non determina invece
nullità del contratto (29).
Segue: e) eventuale nullità parziale?
Non risulta che sia stato sinora affrontato in giurisprudenza e in dottrina un profilo che potrebbe acquisire rilievo nelle cause avviate dagli investitori nei confronti degli intermediari. Si tratta del caso della nullità
parziale.
Come si è visto sopra, la violazione delle regole di
condotta degli intermediari finanziari previste dall’art.
21, primo comma, D.Lgs. n. 58/1998 può diventare parte del contratto stipulato con gli investitori. Si tratta del
caso in cui il testo contrattuale contiene clausole in spregio dei precetti fissati da tale norma. Si immagini l’ipotesi in cui il contratto scritto dispensa il soggetto abilitato dall’«acquisire le informazioni necessarie dai clienti e
operare in modo che essi siano sempre adeguatamente
informati». Se una clausola del genere venisse inserita in
un contratto, essa sarebbe nulla per contrarietà all’art.
21, primo comma, lett. b, D.Lgs. n. 58/1998. Si è difatti
visto che questa disposizione è imperativa perché tutela
interessi pubblici. Ma non è affatto certo che la nullità di
questa clausola contrattuale comporti nullità dell’intero
Note:
(28) Sul tema v. le recenti osservazioni di S. Rizzini Bisinelli, Violazione di
norme regolamentari e nullità asimmetrica, in Società, 2006, 207 s.
(29) Il Tribunale di Trani afferma la natura imperativa delle disposizioni
regolamentari. Non si tratta di un caso isolato. Anche Trib. Ferrara 25
febbraio 2005, in Società, 2006, 203 ss., con nota di S. Rizzini Bisinelli, ha
stabilito che l’inosservanza da parte della banca degli adempimenti posti
dalla normativa regolamentare a tutela dell’investitore, ai fini dell’effettuazione di un investimento consapevole, rende nulle le relative operazioni. Non si condividono tuttavia le conclusioni cui giunge il tribunale
di Ferrara. La violazione unilaterale delle regole di condotta non può essere causa di nullità del contratto. Può essere solo una violazione consensuale a determinare, se del caso, la nullità del contratto. Se non vi è l’accordo delle parti (cfr. l’art. 1325, n. 1, Codice civile), non vi è nemmeno
contratto. Non vi può dunque essere nullità.
I CONTRATTI N. 7/2006
695
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
contratto. La giurisprudenza appare essere, sotto questo
profilo, troppo rigida. Verificata la contrarietà a norma
imperativa, essa desume immediatamente la nullità dell’intero contratto. Ma ciò non è una conseguenza necessaria.
Si allude all’istituto della nullità parziale. Quello
che si vuole sottolineare in questa sede è che non è affatto certo che la nullità di una singola clausola di un
contratto d’investimento cagioni nullità dell’intero contratto. Occorre valutare di volta in volta se ricorrono gli
estremi dell’art. 1419, primo comma, Codice civile: «la
nullità parziale di un contratto o la nullità di singole
clausole importa la nullità dell’intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza
quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità».
La nuova legge per la tutela del risparmio
Nel caso affrontato dal Tribunale di Trani sarebbe
stato probabilmente possibile contestare alla banca anche di avere comprato, e immediatamente dopo rivenduto, gli strumenti finanziari di un emittente in grave
crisi. Un soggetto, come l’intermediario, che vende per
professione titoli deve informarsi sulle caratteristiche dei
beni che tratta e deve comunicare queste informazioni ai
clienti. Rilevante in questo contesto appare essere, in
particolare, l’art. 26, primo comma, lett. e, Reg. n.
11522/1998, secondo cui gli intermediari acquisiscono
conoscenza degli strumenti finanziari offerti. Se l’intermediario non si è informato adeguatamente, viola questo obbligo regolamentare.
Le risultanze processuali sembrano inoltre dire che
la banca ha violato anche disposizioni di legge. Il D.Lgs.
n. 58/1998 impone all’intermediario, tra le altre cose, di
«comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza
nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati»
(art. 21, primo comma, lett. a). È altamente probabile
che un intermediario che offre strumenti finanziari di un
emittente in grave crisi violi questi obblighi. «Altamente probabile» (e non del tutto certo) perché residua un’ipotesi marginale: quella in cui la banca non fosse consapevole dello stato d’insolvenza (o quasi-insolvenza) del
gruppo Cirio. La banca potrebbe andare esente da responsabilità solo ove si dimostrasse che, usando la dovuta diligenza, non sarebbe comunque potuta venire a conoscenza dello stato di grave crisi della società di cui
vendeva gli strumenti finanziari.
Nel caso in commento si trattava di una vendita in
contropartita diretta (30). L’intermediario aveva cioè
comprato in proprio gli strumenti finanziari Cirio al fine
di rivenderli. Questa circostanza potrebbe essere utilizzata, nella valutazione del complessivo comportamento
posto in essere dalla banca, come elemento a favore dell’istituto bancario. L’intermediario potrebbe cioè sostenere di non essere stato a conoscenza dello stato di crisi
in cui versava il gruppo Cirio esattamente per il fatto che
ha comprato in proprio gli strumenti finanziari. Altri-
696
I CONTRATTI N. 7/2006
menti non si spiega il comportamento della banca che
riempie il proprio portafoglio di titoli altamente rischiosi, andando così incontro al pericolo di non riuscire a
collocarli e di subire le conseguenze di un’insolvenza. E
tuttavia un acquisto di strumenti finanziari a elevato rischio si può giustificare, dal punto di vista economico,
quando essi vengono rivenduti immediatamente dopo
ad altri soggetti, conseguendone un guadagno. Un intermediario può avere un incentivo a comprare titoli di società in grave crisi se ha la ragionevole certezza di rivenderli a qualcun altro in tempi brevi. In questo modo la
banca si garantisce un guadagno (la differenza fra prezzo
di acquisto e prezzo di vendita), trasferendo il rischio-insolvenza ad altro soggetto (l’ultimo acquirente).
A questo rischio sembra ora porre rimedio il nuovo
art. 100 bis D.Lgs. n. 58/1998, introdotto con la recente
legge per la tutela del risparmio e rubricato «circolazione
dei prodotti finanziari» (31). Questa disposizione recita:
«nei casi di sollecitazione all’investimento di cui all’articolo 100, comma 1, lettera a), e di successiva circolazione in Italia di prodotti finanziari, anche emessi all’estero,
gli investitori professionali che li trasferiscono, fermo restando quanto previsto ai sensi dell’articolo 21, rispondono della solvenza dell’emittente nei confronti degli
acquirenti che non siano investitori professionali, per la
durata di un anno dall’emissione». L’art. 100 bis D.Lgs. n.
58/1998 rappresenta una disposizione molto importante
per il buon funzionamento dei mercati finanziari. Essa
crea un potente deterrente per gli intermediari. Questi,
d’ora in avanti, devono verificare con estrema attenzione le caratteristiche degli strumenti finanziari che vendono. Se dovesse, difatti, risultare che l’emittente è insolvente, gli intermediari risponderebbero nei confronti
degli acquirenti dei titoli.
E tuttavia, questa disposizione non sembra toccare
il problema che è stato oggetto della sentenza in commento. Il Tribunale di Trani ha difatti affrontato un quesito diverso, vale a dire se la violazione delle regole di
condotta determini nullità del contratto. A questa questione la nuova legge non sembra dare una risposta. Va
tenuto presente che l’art. 100 bis D.Lgs. n. 58/1998 dice
espressamente che resta fermo quanto previsto dall’art.
21 D.Lgs. n. 58/1998. La responsabilità per la solvenza
dell’emittente non fa venire meno l’obbligo di osservare
le regole di condotta. Si deve dunque ritenere che questa nuova forma di responsabilità civile in capo agli intermediari nei confronti degli acquirenti concorra con la
responsabilità per l’inosservanza dei criteri generali di
comportamento.
Note:
(30) Sulla vendita in contropartita diretta v. S. Rizzini Bisinelli, op. cit.,
206 s.
(31) Legge 18 dicembre 2005, n. 262. Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari. Il testo della legge è riprodotto in Società, 2006, 211 ss. Per un primo commento cfr. V. Salafia, La
legge sul risparmio, in Società, 2006, 137 ss.
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
Con la nuova legge per la tutela del risparmio all’art. 21, primo comma, lett. a, D.Lgs. n. 58/1998 è stato
aggiunto il seguente periodo: «i soggetti abilitati classificano, sulla base di criteri generali minimi definiti con regolamento dalla CONSOB, che a tal fine può avvalersi
della collaborazione delle associazioni maggiormente
rappresentative dei soggetti abilitati e del Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti, di cui alla legge
30 luglio 1998, n. 281, il grado di rischiosità dei prodotti finanziari e delle gestioni di portafogli d’investimento
e rispettano il principio dell’adeguatezza fra le operazioni
consigliate agli investitori, o effettuate per conto di essi,
e il profilo di ciascun cliente, determinato sulla base della sua esperienza in materia d’investimenti in prodotti finanziari, della sua situazione finanziaria, dei suoi obiettivi d’investimento e della sua propensione al rischio, salve le diverse disposizioni espressamente impartite dall’investitore medesimo in forma scritta, ovvero anche
mediante comunicazione telefonica o con l’uso di strumenti telematici, purché siano adottate procedure che
assicurino l’accertamento della provenienza e la conservazione della documentazione dell’ordine».
La legge sul risparmio si limita dunque a specificare
meglio gli obblighi informativi che fanno capo all’intermediario. Ora è prevista un’apposita classificazione del
grado di rischiosità dei prodotti finanziari. Inoltre viene
stabilito che occorre rispettare il principio dell’adeguatezza fra le operazioni e il profilo di ciascun cliente. Il legislatore non dice però nulla sulla questione che, nel
presente contesto del commento alla sentenza del tribunale di Trani, veramente interessa: l’inosservanza di questa nuova disposizione come pure di altre norme di legge
o di regolamento che regolano la condotta degli intermediari comporta nullità del contratto? Come si è cercato di dimostrare in questa nota, la risposta è negativa
se la violazione è unilaterale, mentre è positiva quando è
bilaterale. Con la riforma del risparmio, sotto questo
profilo, non pare essere cambiato nulla. Ciò comporta
l’ulteriore conseguenza che la giurisprudenza che si è sinora sviluppata in materia e che continuerà a svilupparsi non dovrebbe subire variazioni di orientamento.
viola le regole di condotta fissate nell’art. 21, primo
comma, D.Lgs. n. 58/1998, potrebbe essere l’art. 1337
Codice civile sulla responsabilità precontrattuale: «le
parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede».
Non è possibile in questa sede occuparsi approfonditamente della questione se questa responsabilità, che
la rubrica stessa dell’art. 1337 Codice civile definisce
«precontrattuale», viva di vita propria (sia cioè un genere di responsabilità a sé stante: appunto «precontrattuale») oppure sia da ricondursi a una forma di responsabilità «contrattuale» o «extracontrattuale» (33).
L’art. 1337 Codice civile disciplina due fattispecie
diverse: la buona fede «nello svolgimento delle trattative» e la buona fede «nella formazione del contratto».
Nel caso affrontato dalla sentenza in commento rileva la
seconda ipotesi. Una responsabilità per violazione della
buona fede nella formazione del contratto potrebbe essere affermata nella fattispecie affrontata dal Tribunale di
Trani. L’intermediario è un soggetto che tratta professionalmente un qualcosa di molto delicato: gli strumenti finanziari. Il mercato mobiliare assicura l’allocazione del
risparmio, vale a dire di un bene costituzionalmente garantito. Il suo corretto funzionamento è nell’interesse di
tutti, senza eccezioni. Per questa ragione il legislatore nazionale, in attuazione delle normative comunitarie, ha
sentito l’esigenza di codificare certe regole di comportamento finalizzate a garantire che le operazioni d’intermediazione finanziaria vengano compiute nell’interesse
del mercato. Si tratta, tra l’altro, delle disposizioni previste dall’art. 21, primo comma, D.Lgs. n. 58/1998. L’intermediario che sta per concludere un contratto non può
prescindere da queste norme. Il suo comportamento precontrattuale non è dunque libero, ma è - almeno in parte - determinato ex lege. Si pensi agli obblighi informativi che fanno capo all’intermediario. La mancata informazione del cliente, in sede di conclusione del contratto, potrebbe rilevare sotto il profilo dell’art. 1337 Codice civile. Se l’intermediario afferma che è certo che uno
Il risarcimento del danno
Note:
Il Tribunale di Trani, dichiarando la nullità del contratto, non ha necessità di affrontare la questione se gli
investitori abbiano diritto a ottenere dall’intermediario
il ristoro del nocumento subito (32). Non appare tuttavia fuori luogo chiedersi se la violazione delle regole di
condotta possa fare sorgere un diritto al risarcimento del
danno. A tal fine la prima cosa che l’interprete deve domandarsi è quale sia la base normativa per una richiesta
del genere. La risposta a questo quesito non è affatto facile.
(32) Sulla responsabilità della SIM per fatto illecito del promotore cfr.,
per tutte, Trib. Milano 11 giugno 1998, in questa Rivista, 1999, 487 ss.,
con nota di A. Maniàci.
Segue: a) responsabilità precontrattuale?
La disposizione di riferimento per fondare un’azione
di responsabilità nei confronti dell’intermediario, che
(33) Cass. 5 agosto 2004, n. 15040, ha deciso che la responsabilità precontrattuale derivante dalla violazione della regola di condotta posta dall’art. 1337 Codice civile a tutela del corretto dipanarsi dell’iter formativo
del negozio costituisce una forma di responsabilità extracontrattuale, cui
vanno applicate le relative regole in tema di distribuzione dell’onere della prova. Cass. 16 luglio 2001, n. 9645, ha stabilito che la responsabilità
precontrattuale, configurabile per violazione del precetto posto dall’art.
1337 Codice civile, costituisce una forma di responsabilità extracontrattuale, che si collega alla violazione della regola di condotta stabilita a tutela del corretto svolgimento dell’iter di formazione del contratto, sicché
la sua sussistenza, la risarcibilità del danno e la valutazione di questo ultimo debbono essere vagliati alla stregua degli artt. 2043 e 2056 Codice civile, tenendo peraltro conto delle caratteristiche tipiche dell’illecito in
questione.
I CONTRATTI N. 7/2006
697
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
strumento finanziario avrà un incremento di valore del
10% all’anno, l’investitore sarà incentivato ad acquistare tale titolo. Si immagini ora che, decorsi tre anni, lo
strumento finanziario in questione abbia perso - invece
di guadagnare - il 30% del suo valore. In una situazione
del genere si può affermare una violazione del dovere di
buona fede in capo all’intermediario, che sapeva che
quanto affermava non poteva essere vero.
È applicabile l’art. 1337 Codice civile ai servizi d’investimento? A questa domanda non può essere data una
risposta assoluta, valevole a priori per ogni fattispecie.
Dipende dalle circostanze del caso. La prestazione dei
servizi d’investimento è un’attività complessa. Parte di
essa si esplica prima della conclusione del contratto di
compravendita degli strumenti finanziari. Si tratta, ad
esempio, della raccolta dal cliente d’informazioni e della
dazione all’investitore stesso d’informazioni. Una violazione del canone di buona fede in questa fase del rapporto può sussumersi nell’art. 1337 Codice civile (34). Ne
ricorrono difatti tutti i presupposti. Le parti del contratto sono l’intermediario e l’investitore. Il contratto da stipularsi varia a seconda delle circostanze del caso. Nella
sentenza in commento si trattava di un contratto di
compravendita avente a oggetto obbligazioni Cirio. La
buona fede manca, per esempio, laddove si suggeriscono
gli strumenti finanziari di un emittente a grave rischio
d’insolvenza. I presupposti per l’applicabilità dell’art.
1337 Codice civile al caso di specie sembrano sussistere
e il cliente può dunque ottenere dall’intermediario il risarcimento del danno.
Il fatto che esista, nell’ordinamento italiano, una
disposizione come l’art. 1337 Codice civile non osta a
che il cliente faccia valere altri rimedi. Nell’esempio sopra fatto in cui l’intermediario promette guadagni del
10% all’anno sapendo che le affermazioni che fa non
corrispondono al vero, è possibile chiedere l’annullamento del contratto per vizio del consenso. Vi sono difatti stati raggiri che hanno determinato la stessa conclusione del contratto (cfr. l’art. 1439 Codice civile). In
definitiva la tesi che si vuole sostenere qui è che l’art.
1337 Codice civile può (ma non sempre deve) trovare
applicazione a fenomeni d’intermediazione mobiliare.
Spesso tuttavia, come del resto nella sentenza in commento, la tutela del cliente avviene mediante altri istituti, come per esempio la nullità del contratto.
Segue: b) responsabilità contrattuale?
Esistono altre basi normative che consentono agli
investitori di chiedere all’intermediario, che ha violato
le regole di condotta previste dall’art. 21, primo comma,
D.Lgs. n. 58/1998, un risarcimento? La risposta a questa
domanda dipende dalla qualificazione che si dà al comportamento della banca. Secondo i canoni generali la
responsabilità può essere contrattuale o extracontrattuale. Sulla possibilità di affermare una responsabilità extracontrattuale dell’intermediario non ci si può soffermare
in questa sede (35). Si svolgeranno qui di seguito alcune
698
I CONTRATTI N. 7/2006
considerazioni sulla sola responsabilità di origine contrattuale.
Affinché vi sia responsabilità contrattuale occorre
che vi sia un contratto. Nel caso di specie vi era una relazione contrattuale tra intermediario e cliente? A questa domanda va data risposta positiva. Tra intermediario
e cliente è stato certamente concluso almeno un contratto, il contratto avente a oggetto la vendita degli strumenti finanziari Cirio. Si tratta del contratto tipico regolato dagli artt. 1470 ss. Codice civile. Ci si deve dunque chiedere se al caso di specie possa trovare applicazione l’art. 1490, primo comma, Codice civile. secondo
cui «il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendono inidonea all’uso a
cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile
il valore». In effetti questa disposizione potrebbe rilevare nel caso di specie. La cosa venduta sono strumenti finanziari. Questi titoli vengono comprati dal cliente per
ragioni d’investimento. L’uso cui è destinata la cosa è
l’investimento. Ma gli strumenti finanziari di un emittente sull’orlo dell’insolvenza sono inidonei all’uso. Il
compratore si ritrova difatti in mano titoli ormai quasi
senza valore. La cosa è inidonea all’uso; l’uso è dato, nel
caso di specie, dall’«investimento». Sulla base di queste
considerazioni non pare dunque fuori luogo suggerire
agli investitori di fondare la loro azione, se ne ricorrono
i presupposti, anche sull’art. 1490, primo comma, Codice civile.
Nel caso di specie gli spazi di tutela per gli investitori paiono tuttavia essere ancora più ampi di quelli sinora prospettati. Da quanto emerge dalla sentenza in
commento risulta che tra l’intermediario e i clienti era
stato concluso un contratto di negoziazione. La fonte
dunque di obbligazioni per le parti può essere ritenuto
questo contratto-quadro, in esecuzione del quale si colloca poi la singola operazione di compravendita.
Se contratto vi è stato (vuoi sotto forma di contratto-quadro di negoziazione vuoi sotto forma di singolo contratto di compravendita), la responsabilità dell’intermediario potrebbe allora fondarsi sull’art. 1218
Codice civile secondo cui «il debitore che non esegue
esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o
il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile». L’applicazione di questa disposizione di legge presuppone
che in capo all’intermediario vi sia l’obbligo di effettuare una prestazione. Occorre cioè risalire a un vincolo
Note:
(34) In questo senso anche M. M. Gaeta, L’applicazione del principio del
know your customer rule ai contratti di deposito ed amministrazione titoli, in
questa Rivista, 2006, 119.
(35) Al riguardo cfr., per tutti, gli interessanti spunti di G. De Nova, La
responsabilità dell’operatore finanziario per esercizio di attività pericolosa, in
questa Rivista, 2005, 709 ss., il quale si chiede se l’attività dell’intermediario non possa essere fatta rientrare nella responsabilità per l’esercizio di
attività pericolose prevista dall’art. 2050 Codice civile.
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
che impone (o, a seconda dei casi, vieta) certi comportamenti alla banca. Nell’ipotesi concreta l’intermediario compie operazioni che non sono adeguate e, così facendo, viola l’art. 29, primo comma, Reg. n. 11522/
1998. La «prestazione dovuta» dal debitore ai sensi dell’art. 1218 Codice civile non è solo quella che risulta
dall’assetto contrattuale posto in essere dalle parti, ma
anche da tutto quello che le disposizioni di legge o di regolamento applicabili al caso di specie impongono. Il
comportamento dell’intermediario non è libero da vincoli, anzi: è assoggettato a controlli particolarmente
stringenti da parte dell’ordinamento. Sulla banca incombe, secondo il tenore letterale dell’art. 21, primo
comma, D.Lgs. n. 58/1998, l’obbligo «di comportarsi
con diligenza, correttezza e trasparenza, nell’interesse
dei clienti e per l’integrità dei mercati». L’intermediario
che suggerisce di comprare strumenti finanziari di un
emittente sull’orlo dell’insolvenza, tra l’altro ponendo
in essere un’operazione del tutto inadeguata rispetto al
profilo degli investitori, non opera con diligenza (perché non ha accertato lo situazione del gruppo Cirio) oppure non opera con correttezza (perché ha accertato lo
stato del gruppo Cirio, ma tace la reale situazione) oppure non opera con trasparenza (perché conosce lo stato del gruppo Cirio ma non lo rivela).
Un problema non affrontato specificamente nella
sentenza in commento, ma che è lecito porsi è se il pregiudizio per gli attori sarebbe stato evitabile in presenza
di corrette e adeguate informazioni da parte dell’intermediario. Se la banca avesse reso edotti gli investitori
della situazione in cui versava il gruppo Cirio, è altamente improbabile che gli investitori avrebbero comprato gli strumenti finanziari di tale gruppo.
La legge impone ai soggetti abilitati, tra le altre cose, di comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza (art. 21, primo comma, lett. a, D.Lgs. n. 58/1998)
nonché di svolgere una gestione indipendente, sana e
prudente (art. 21, primo comma, lett. e, D.Lgs. n.
58/1998). Questi precetti sono stati violati nel caso di
specie. Comportarsi con diligenza significa assumere tutte quelle informazioni che consentono di proporre un
investimento sensato. Offrire strumenti finanziari di un
emittente sull’orlo dell’insolvenza non è un comportamento diligente. Comportarsi con correttezza significa,
tra le altre cose, comunicare eventuali conflitti d’interessi (36). Il conflitto d’interessi, nel caso in esame, è dato dal fatto che l’intermediario ha venduto in contropartita diretta (37). Ciò significa che la banca ha venduto
strumenti finanziari di cui era proprietaria. Il conflitto
d’interessi va segnalato per iscritto al cliente (38). L’operazione è possibile solo se l’investitore vi ha acconsentito espressamente per iscritto (art. 27, secondo comma,
Reg. n. 11522/1998). Il regolamento è dunque molto severo al riguardo: un’operazione in conflitto d’interessi richiede addirittura due atti scritti: un’informativa da parte dell’intermediario e un’autorizzazione da parte dell’investitore. Nel caso di specie non risulta che questi due
adempimenti siano stati soddisfatti. Vi è dunque stata
violazione dell’art. 27 secondo comma, Reg. n.
11522/1998. Ma occorre aggiungere dell’altro (se ne accennava già sopra). Se un intermediario vende in proprio strumenti finanziari di un certo emittente, deve
averli prima comprati. Avendoli comprati, la banca stessa deve essere a conoscenza della situazione economicofinanziaria in cui versa la società. Chi compra professionalmente strumenti finanziari deve essere consapevole
delle caratteristiche dei prodotti che compra (art. 26,
primo comma, lett. e, Reg. n. 11522/1998). Ma la banca
deve essere a conoscenza delle caratteristiche dei titoli e
della situazione della società anche quando, tra l’altro nel caso di specie - a breve distanza di tempo dall’acquisto, rivende gli strumenti finanziari. Se gli investitori
avessero saputo che il gruppo Cirio era gravemente indebitato nei confronti di un elevato numero di creditori,
si sarebbero guardati bene dall’investire in esso i propri
denari. Agire nell’interesse dei clienti significa quantomeno evidenziare la titolarità d’interessi di natura diversa che possono entrare in conflitto con quelli degli investitori. Si accennava infine al fatto che la legge stabilisce
che i soggetti abilitati devono svolgere una gestione indipendente, sana e prudente (art. 21, primo comma, lett. e,
D.Lgs. n. 58/1998). Proporre titoli di un emittente in crisi significa non avere fatto adeguati controlli sullo stato
di tale società. Ma questo è proprio il compito dell’intermediario: una gestione indipendente (da conflitti d’interessi), sana (non offrire strumenti finanziari di società in
grave crisi) e prudente (tra il titolo Alfa e il titolo Beta va
proposto, a parità di altre condizioni, lo strumento finanziario che offre le maggiori garanzie).
L’intermediario ha dunque violato nel caso di specie diversi obblighi che, per legge, gli fanno capo. Il debitore non ha quindi eseguito esattamente la prestazione
Note:
(36) La materia del conflitto d’interessi è stata oggetto di diversi contributi dottrinali, che non si possono qui elencare. Per limitarsi a menzionare solo alcuni dei più significativi lavori cfr. G. De Nova, Gli interessi in
conflitto e il contratto, in Riv. dir. priv., 2004, 241 ss.; G. De Nova, Conflict
of interests and the fair dealing duty, in Riv. dir. priv., 2002, 479 ss.; D. Maffeis, Conflitto di interessi nel contratto e rimedi, Milano, 2002; D. Maffeis, Tutela dell’interesse e conflitto di interessi nella rappresentanza e nel mandato, in
Riv. dir. priv., 2004, 253 ss. Specificamente sul conflitto d’interessi nella
materia dell’intermediazione mobiliare v. D. Maffeis, Conflitto di interessi
nella prestazione di servizi di investimento: la prima sentenza sulla vendita a risparmiatori di obbligazioni argentine, in Banca borsa tit. cred., 2004, II, 452 ss.
Sul conflitto d’interessi nel processo civile sia, infine, permesso rinviare a
V. Sangiovanni, Impugnazione di deliberazione assembleare, conflitto di interessi e nomina di curatore speciale. La battaglia giudiziaria per il controllo di Antonveneta, in Corr. giur., 2005, 1261 ss.
(37) Anche se va dato atto che la sussistenza di un conflitto di interessi
nel caso di vendita in contropartita diretta non è del tutto pacifica in dottrina e giurisprudenza.
(38) Trib. Venezia 22 novembre 2004, n. 2654, in questa Rivista, 2005, 5
ss., con nota di D. Maffeis, ha deciso che sussiste conflitto d’interessi rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 21 D.Lgs. n. 58/1998 e dell’art. 27
Reg. n. 11522/1998 in mancanza di specifica informazione sulla situazione di conflitto d’interessi.
I CONTRATTI N. 7/2006
699
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
dovuta. Ne consegue che l’intermediario è tenuto a risarcire il danno che l’investitore ha sofferto. Vi è legame
eziologico perché la decisione d’investimento è stata determinata dalla politica informativa «omissiva» (e dunque, in realtà, «non informativa») della banca. Con adeguate l’informazioni la vendita non sarebbe stata posta
in essere e il danno non si sarebbe verificato. L’intermediario avrebbe dovuto sincerarsi della reale situazione
economica, finanziaria e patrimoniale di Cirio e - poi nel caso di specie sconsigliare vivamente di effettuare un
tale investimento. Per tacere del fatto che l’operazione
era del tutto inadeguata rispetto al profilo dei clienti.
Tutto ciò non è avvenuto. L’intermediario, operatore
professionale, ha utilizzato il proprio vantaggio informativo per indurre l’investitore a effettuare un investimento negli strumenti finanziari di un emittente in grave crisi. Il comportamento della banca, in ultima istanza, ha
causato il danno. Non il danno a Cirio, ovviamente, ma
il danno in capo all’investitore che ha comprato gli strumenti finanziari Cirio.
È utile richiamare in questo contesto un recente
precedente (39). Il tribunale di Monza, nel 2004, ha stabilito che il cattivo esito di un’operazione d’investimento non è di per sé indice di una responsabilità dell’intermediario finanziario. L’intermediario non deve (perché
non può) garantire che l’investimento effettuato dal
cliente sarà positivo. Chi intermedia professionalmente
l’acquisto di strumenti finanziari non è in grado di garantire che i titoli che suggerisce di acquistare accresceranno il loro valore. Un incremento oppure un decremento della quotazione dipende da tanti fattori, quasi
sempre del tutto indipendenti dall’operato dell’intermediario. Semmai è la buona piuttosto che la cattiva gestione degli amministratori della società, i cui strumenti
finanziari vengono acquistati dall’investitore, a determinarne la crescita o la perdita di valore. La legge non impone quindi all’intermediario di conseguire un obiettivo
economico. Se lo facesse chiederebbe a questi di porre in
essere un risultato impossibile, perché fuori della sua sfera d’influenza. L’intermediario non può garantire che un
certo strumento finanziario realizzerà un determinato
rendimento. La banca, che pure ha agito in modo ineccepibile dal punto di vista tecnico (vale a dire osservando tutti gli obblighi che le fanno capo, in particolare
quelli informativi), non può garantire che l’investimento produrrà un buon risultato.
Il legislatore, tuttavia, impone all’intermediario un
obbligo di mezzi (40). La banca deve, anche solo per riprendere il tenore letterale dell’art. 21, primo comma,
lett. a, D.Lgs. n. 58/1998, «comportarsi con diligenza,
correttezza e trasparenza, nell’interesse dei clienti e per
l’integrità dei mercati». Un intermediario che violi questi doveri o altri obblighi che la legge gli impone (tra cui
assumono particolare rilievo quelli di carattere informativo) si rende responsabile. Se il cliente non viene adeguatamente informato, la banca risponde del danno che
ne consegue. La responsabilità dell’intermediario non è
700
I CONTRATTI N. 7/2006
dovuta al fatto che l’emittente i cui strumenti finanziari
sono stati suggeriti per l’acquisto va male, ma è ascrivibile al fatto che esso ha violato precisi doveri informativi e
- conseguentemente - ha indotto l’investitore a concludere l’operazione.
In questa direzione si muove un altro recente precedente di merito (41). Il Tribunale di Mantova nel 2004
ha stabilito che l’intermediario in strumenti finanziari
non è esonerato dall’obbligo di valutare l’adeguatezza
delle operazioni ex art. 29 Reg. n. 11522/1998, anche
ove i clienti abbiano rifiutato di fornire le informazioni
di cui all’art. 28, primo comma, lett. a, di tale normativa,
dovendo - in tal caso - tenere conto di tutte le informazioni comunque in suo possesso, tanto desumendosi sia
dai principi generali in tema di correttezza, diligenza e
trasparenza dei comportamenti negoziali imposti dalla
normativa generale e speciale (artt. 1175 e 1176 Codice
civile, 21 D.Lgs. n. 58/1998) sia dal tenore dell’art. 29
Reg. n. 11522/1998. Questa sentenza afferma un importante principio. L’intermediario non è esonerato da responsabilità (quando viola i doveri che gli fanno capo)
anche quando il cliente omette di fornire le informazioni che gli vengono richieste (42). Del resto questa specifica ipotesi è prevista espressamente in via regolamentare dall’art. 28, primo comma, lett. a, Reg. n. 11522/1998,
laddove si stabilisce che «l’eventuale rifiuto di fornire le
notizie richieste deve risultare dal contratto di cui al successivo articolo 30, ovvero da apposita dichiarazione sottoscritta dall’investitore». Informazioni provenienti dall’investitore non sono quindi strettamente necessarie.
La loro assenza non significa tuttavia che l’intermediario
possa agire in spregio delle regole di diligenza, correttezza e trasparenza imposte dalla legge.
Corretti paiono i richiami effettuati nella sentenza del tribunale di Mantova agli artt. 1175 e 1176 Codice civile. Il fatto che il contratto relativo alla prestazione di servizi d’investimento sia regolato dettagliatamente nell’art. 21 ss. D.Lgs. n. 58/1998 non significa
che non trovi applicazione la normativa generale. Fa
Note:
(39) Trib. Monza 14 ottobre 2004, in questa Rivista, 2005, 113 ss., con nota di E. Guerinoni.
(40) M. M. Gaeta, Responsabilità oggettiva degli intermediari e validità dei
contratti di investimento, in questa Rivista, 2005, 590; E. Guerinoni, Negligenza e giudizio di responsabilità degli intermediari finanziari, in questa Rivista,
2005, 117.
(41) Trib. Mantova 12 novembre 2004, in questa Rivista, 2005, 585 ss.,
con nota di M. M. Gaeta.
(42) In questo senso anche Trib. Napoli 22 marzo 2005, in questa Rivista,
2006, 113 ss., con nota di M. M. Gaeta. Questa autorità giudiziaria ha stabilito che gli intermediari non sono esonerati dagli obblighi di valutare
l’adeguatezza dell’operazione rispetto al profilo dell’investitore e, nell’ipotesi in cui la valutino inadeguata, di segnalare immediatamente al cliente l’inadeguatezza e le ragioni della stessa anche nel caso in cui l’investitore abbia rifiutato di fornire informazioni. In questo caso la valutazione
va condotta tenendo conto di tutte le notizie di cui l’intermediario sia in
possesso, in ossequio ai principi generali di correttezza, diligenza e trasparenza.
GIURISPRUDENZA•I SINGOLI CONTRATTI
dunque bene il tribunale di Mantova a ricordare che il
debitore e il creditore devono comportarsi secondo le
regole della correttezza (art. 1175 Codice civile). Inoltre «nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve
usare la diligenza del buon padre di famiglia» (art.
1176, primo comma, Codice civile). In altre parole si
può sostenere la tesi che l’intermediario è responsabile non solo nei casi d’inosservanza di quanto disposto
puntualmente dal D.Lgs. n. 58/1998, ma anche quando pone in essere altri comportamenti - pur non
espressamente previsti dalla legge speciale - che configurano però un comportamento non corretto (art.
1175 Codice civile) oppure non diligente (art. 1176
Codice civile).
Segue: c) cenni all’onere della prova
Per quanto riguarda l’onere della prova, questo è a
carico dell’intermediario. Si applica difatti l’art. 23, sesto
comma, D.Lgs. n. 58/1998, secondo il quale «nei giudizi
di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori,
spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta». Rispetto alla regola generale, l’onere della prova viene invertito. Il principio è quello dell’art. 2697 Codice civile, secondo cui
«chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i
fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce
l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si
è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda».
All’art. 23, sesto comma, D.Lgs. n. 58/1998 è stata
data attuazione in una recente sentenza di merito (43).
Nella decisione del tribunale di Monza del 2004 è stato
stabilito che sebbene il cattivo esito di un’operazione
d’investimento non sia di per sé indice di una responsabilità dell’intermediario finanziario, nel caso in cui il
cliente agisca per chiedere il risarcimento dei danni subiti allegando una specifica negligenza dell’intermediario, spetta a quest’ultimo dimostrare l’insussistenza del
profilo di negligenza contestato.
Nella sentenza in commento, la questione dell’onere della prova non è stata oggetto di particolari contestazioni. Le violazioni del D.Lgs. n. 58/1998 e del Reg. n.
11522/1998 risultano difatti evidenti.
l’art. 1418 Codice civile, punisce la nullità del «contratto», non di una condotta unilaterale.
3. Con la sanzione amministrativa può concorrere
una «sanzione» di tipo civile. Non è sempre la stessa sanzione a operare. A seconda dei casi si può trattare di nullità del contratto, di annullamento dello stesso, di risoluzione oppure di risarcimento del danno. L’applicabilità
di un rimedio piuttosto che di un altro dipende dalle caratteristiche del singolo caso. In questo scritto ci si è soffermati in modo particolare sulla nullità del contratto,
perché è il rimedio applicato dal Tribunale di Trani nella fattispecie concreta.
4. In genere i giudici dovrebbero valutare se gli investitori non abbiano diritto al risarcimento del danno.
Le fonti normative dell’obbligo di ristorare il nocumento possono essere le più diverse. Nella fase precontrattuale viene in considerazione l’art. 1337 Codice civile.
Se è stato concluso un contratto, il rimedio può essere
dato dalle disposizioni che regolano il singolo contratto.
Può trattarsi, per esempio, di responsabilità per vizi della
cosa nell’ipotesi di contratto di vendita. In ogni caso dovrebbero trovare applicazione le clausole generali rappresentate dagli artt. 1175, 1176 e 1218 Codice civile.
5. Qualche osservazione finale, mutuata dall’analisi
economica del diritto. La nullità è una sanzione di grave
portata, perché essa obbliga alle restituzioni. Da un lato
la possibilità che si verifichi questa conseguenza induce
gli intermediari a comportarsi con correttezza, diligenza
e trasparenza. Dall’altro lato è stato osservato in dottrina
come questa sanzione possa essere eccessiva (44). Non si
può difatti omettere di considerare che i costi che ricadono sull’intermediario vengono ridistribuiti sulla collettività degli investitori. Se una certa banca è condannata a restituire il capitale messole a disposizione per
l’investimento, essa subisce una grave perdita. Per recuperarla, l’intermediario tenderà ad aumentare i costi dei
propri servizi a carico di tutti coloro che se ne avvalgono. Inoltre il rischio d’incorrere in nullità può deprimere l’attività d’intermediazione. Soprattutto gli intermediari più piccoli potrebbero essere spaventati dalle conseguenze di declaratorie di nullità delle operazioni.
Osservazioni conclusive in forma di tesi
1. L’art. 21, primo comma, D.Lgs. n. 58/1998 è una
disposizione imperativa. In questo senso militano gli argomenti che tale norma tutela interessi pubblici e la sua
violazione è punita con l’applicazione di una sanzione
amministrativa. Si tratta della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 190 D.Lgs. n. 58/1998.
2. La violazione dell’art. 21, primo comma, D.Lgs.
n. 58/1998 rappresentata da un comportamento unilaterale dell’intermediario non cagiona nullità del contratto.
La nullità del contratto può essere causata solo da una
pattuizione (di entrambi i contraenti). Il legislatore, con
Note:
(43) Trib. Monza 14 ottobre 2004, in questa Rivista, 2005, 113 ss., con nota di E. Guerinoni.
(44) A. Perrone, Servizi di investimento, cit., 1018 s.
I CONTRATTI N. 7/2006
701
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Rassegna di legittimità:
i singoli contratti
Assicurazione
Cassazione Civile, sez. III, 16 dicembre 2005, n. 27728
Pres. Fiduccia - Rel. Sabatini - P.M. Iannelli (Parz. Diff.) - La Nationale Comp. Ital. Assic. Riassic c. C. ed altri
Assicurazione - Contratto di assicurazione - Disposizioni generali - Rischio assicurato (oggetto del contratto) - Dichiarazioni del contraente - Reticenze ed inesattezze - Con dolo o colpa grave - Impugnazioni (decadenza) - Onere di
osservanza del termine di tre mesi - Sinistro avvenuto prima di tale termine o della conoscenza delle dichiarazioni inesatte o reticenti - Sussistenza dell’onere - Esclusione
In tema di assicurazione contro gli infortuni, l’onere imposto dall’art. 1892 Codice civile all’assicuratore di manifestare, allo scopo di evitare la decadenza, la propria volontà di esercitare l’azione di annullamento del contratto,
per le dichiarazioni reticenti od inesatte dell’assicurato, entro tre mesi dal giorno in cui ha conosciuto la causa dell’annullamento, non sussiste quando il sinistro si verifichi prima che sia decorso il termine suddetto, ed ancor più
quando il sinistro si verifichi prima che l’assicuratore sia venuto a conoscenza dell’inesattezza o reticenza della dichiarazione, essendo sufficiente, in tali ipotesi, al fine di sottrarsi al pagamento dell’indennizzo, che l’assicuratore stesso invochi, anche mediante eccezione, la violazione dolosa o colposa dell’obbligo posto a carico dell’assicurato di rendere dichiarazioni complete e veritiere sulle circostanze relative alla rappresentazione del rischio.
Azienda
Cassazione Civile, sez. III, 7 dicembre 2005, n. 27011
Pres. Di Nanni - Rel. Durante - P.M. Uccella (Diff.) - Pitti Line Di Marciano Carla S.a.s. c. Sottoscrittori
Lloyd’S Of London Assunto
I.
Azienda - Cessione - Successione nei contratti - Automaticità - Comunicazione o accettazione della cessione - Necessità ai fini della successione nei contratti - Esclusione - Onere di comunicazione della cessione - Funzione
L’art. 2558 Codice civile - il quale prevede con norma suppletiva che, nel caso di trasferimento dell’azienda, salvo
patto contrario, unitamente ai beni che la costituiscono si trasferiscono i contratti a prestazioni corrispettive non
ancora completamente eseguite che non abbiano carattere personale - sancisce, in effetti, che il trasferimento, in
quanto mirante a garantire il mantenimento della funzionalità economica dell’azienda medesima, avviene secondo
un meccanismo di attrazione dei contratti nella circolazione dell’azienda e costituisce un effetto naturale del contratto di trasferimento stesso, nel senso che si verifica indipendentemente dalla volontà delle parti che rileva soltanto per escluderlo. Pertanto, gli effetti del contratto trasferito si producono ipso iure, obbligando il terzo, a prescindere dall’accettazione e senza bisogno di comunicazione, la quale si configura come onere posto a carico delle
parti del contratto di trasferimento dell’azienda e dei soggetti ad esse equiparati finalizzato al decorso del termine di tre mesi previsto per il recesso del terzo, motivato da giusta causa.
II.
Azienda - Cessione - Successione nei contratti - Contratti non aventi carattere personale - Trasferimento ipso iure al
cessionario dell’azienda - Distinzione tra contratti d’impresa e contratti d’azienda - Irrilevanza - Conseguente estensione anche al contratto di assicurazione contro i danni - Sussistenza - Disciplina applicabile - Individuazione
In tema di trasferimento di azienda, la regola stabilita dall’art. 2558 Codice civile - secondo cui si verifica il tra-
702
I CO N T R ATTI N. 7/2006
GIURISPRUDENZA•SINTESI
sferimento ex lege al cessionario di tutti i rapporti contrattuali a prestazioni corrispettive non aventi carattere personale e, quindi, dei cosiddetti contratti di azienda che hanno ad oggetto il godimento di beni aziendali non appartenenti all’imprenditore e da lui acquisiti per lo svolgimento dell’attività - si applica anche ai cosiddetti contratti di impresa che, pur non avendo come oggetto diretto beni aziendali, sono attinenti all’organizzazione dell’impresa, come il contratto di assicurazione contro i danni che sia stato stipulato per l’esercizio dell’azienda, con
la conseguenza, in quest’ultimo caso, che, salvo che le parti non abbiano disposto diversamente, l’acquirente subentra nella posizione dell’assicurato e l’assicuratore, dal canto suo, è tenuto a dare esecuzione al contratto anche
se non ne ha accettato il trasferimento, sempre che nei termini di legge non eserciti la facoltà di recesso.
Contratti bancari
Cassazione Civile, sez. I, 1 dicembre 2005, n. 26210
Pres. Losavio - Rel. De Chiara - P.M. Russo (Conf.) - Cassa Risp. Alessandria Spa c. C. ed altro
Titoli di credito - Assegno bancario - Girata - Controllo della regolare continuità delle girate - Onere gravante esclusivamente sulla banca trattaria - Concorso della responsabilità extracontrattuale della banca girataria per l’incasso
verso l’emittente del titolo - Configurabilità - Condizioni
La responsabilità nei confronti dell’emittente di assegno bancario, per il mancato controllo della regolare continuità delle girate, secondo la previsione dell’art. 38 del R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736, si riferisce alla sola banca trattaria, cui la predetta norma impone uno specifico obbligo operante sul piano del rapporto contrattuale con
il traente. Ciò non esclude, tuttavia, che anche la banca girataria per l’incasso possa essere attinta da responsabilità per diverso titolo - in particolare, da responsabilità extracontrattuale - tutte le volte in cui, con il suo comportamento colposo (o doloso), abbia determinato, o concorso a determinare, il prodursi, a carico del traente, del danno ingiusto consistito nell’indebito pagamento di un assegno da lui emesso (con corrispondente indebita riduzione della sua provvista bancaria) a soggetto non legittimato. E siffatto comportamento colposo ben può consistere
nella mancata o negligente verifica della continuità delle girate, e dunque della legittimazione del possessore dell’assegno giratole per l’incasso e da essa banca illegittimamente incassato presso la banca trattaria.
Locazione
Cassazione Civile, sez. III, 16 dicembre 2005, n. 27731
Pres. Fiduccia - Rel. Finocchiaro - P.M. Fedeli (Conf.) - F. c. Ikebana S.r.l.
Locazione - Durata della locazione - In genere - Spirare del termine - Successiva rinnovazione tacita - Presupposti Individuazione
La rinnovazione tacita del contratto di locazione non può desumersi dal fatto della permanenza del conduttore nella detenzione della cosa locata oltre la scadenza del termine, né dal pagamento e dall’accettazione dei canoni e neppure dal ritardo con il quale sia stata promossa l’azione di rilascio, occorrendo che questi fatti siano qualificati da
altri elementi idonei a far ritenere in modo non equivoco la volontà delle parti di mantenere in vita il rapporto locativo con rinuncia tacita, da parte del locatore, agli effetti prodotti dalla scadenza del contratto.
Mandato
Cassazione Civile, sez. III, 16 dicembre 2005, n. 27716
Pres. Nicastro - Rel. Calabrese - P.M. Russo (Conf.) - Ats Transport S.r.l. c. Borclay’S Ind. Pettinati Di
Claudio
Mandato - Spedizione - Spedizioniere - Obblighi - In genere - Riscossione del prezzo - Assunzione dell’incarico - Operazione accessoria al trasporto ex art. 1737 Codice civile - Configurabilità - Responsabilità nei confronti del committente - Sussistenza - Fattispecie di pagamento contro documenti
I C ONTRATTI N. 7/2006
703
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Lo spedizioniere che abbia assunto l’incarico di provvedere (nella specie curando l’esecuzione di pagamento contro
documenti) alla riscossione del prezzo della fornitura eseguita dal mandante al destinatario del trasporto - operazione qualificabile come accessoria al contratto di trasporto ai sensi dell’art. 1737 Codice civile sul contenuto del
contratto di spedizione - risponde nei confronti del committente del mancato espletamento dell’incarico, visto che
il vettore che sia stato a sua volta incaricato dallo spedizioniere assume al riguardo il semplice ruolo di sostituto
del mandatario, a norma dell’art. 1717 Codice civile.
Vendita
Cassazione Civile, sez. II, 24 novembre 2005, n. 24782
Pres. Calfapietra - Rel. Schettino - P.M. Golia (Parz. Diff.) - T. c. B.
Vendita - Singole specie di vendita - Di cosa altrui - in genere - Preliminare di vendita di cosa altrui - Ignoranza da
parte del compratore - Risoluzione del contratto per inadempimento del promittente venditore prima della scadenza
del termine per la stipulazione del definitivo - Configurabilità - Esclusione - Fondamento
In tema di contratto preliminare di vendita, il promissario acquirente il quale ignori che il bene, all’atto del preliminare, appartenga in tutto o in parte ad altri, non può agire per la risoluzione prima della scadenza del termine
per la stipula del contratto definitivo, in quanto il promittente venditore fino a tale momento può adempiere all’obbligazione di fargli acquistare la proprietà del bene, o acquistandola egli stesso dal terzo proprietario o inducendo quest’ultimo a trasferirgliela.
704
I CO N T R ATTI N. 7/2006
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Rassegna di merito
Sentenze esposte da Elettra Bruno
ASSICURAZIONE
Giudice di pace di Roma - Sentenza 28 febbraio 2005
- Est. Febbi - XXX c. Myy Assicurazioni S.p.a. (Avv.
Laurenti)
dempimento dell’assicuratore, il Giudice di pace la condannato a pagare un risarcimento di euro 70,00, decidendo secondo equità ex art. 113, secondo comma, Codice procedura civile.
I precedenti
Assicurazione - Obbligatoria della RCA - Attestato di
rischio - Mancato rilascio nei termini - Responsabilità
dell’assicuratore - Sussistenza
Il mancato rilascio del certificato di attestato di rischio
almeno tre giorni non festivi prima della scadenza del
contratto obbliga l’assicuratore a risarcire il danno per
non aver potuto l’assicurato stipulare un contratto di
assicurazione con un diverso assicuratore (nella specie,
decidendo secondo equità, il Giudice di pace ha liquidato il relativo danno nella misura di euro 70,00).
Il fatto
Un assicurato conveniva in giudizio la compagnia di assicurazione per la rca lamentando il mancato rilascio in
tempo utile del certificato di attestato di rischio, indispensabile per stipulare un contratto di assicurazione con
un diverso assicuratore. Il Giudice di pace ha accolto la
domanda, liquidando a titolo di risarcimento in via equitativa la somma di euro 70,00.
Le ragioni della decisione
Il Giudice di pace ha ritenuto la condotta dell’assicuratore, il quale rimanga sordo alla richiesta dell’assicurato
di consegna dell’attestato di rischio, in contrasto sia con
l’art. 1175 Codice civile, sia con gli artt. 3 e 4 D.P.R. 16
gennaio 1981, n. 45. Si legge infatti nella motivazione
che l’assicurato ha la possibilità di stipulare un nuovo
contratto di assicurazione con un diverso assicuratore a
condizione che gli venga rilasciato l’attestato di rischio e
che comunichi, nei termini stabiliti la volontà di non
rinnovare tacitamente il rapporto contrattuale. L’attestato di rischio deve essere messo a disposizione del contraente, nell’agenzia o ufficio presso il quale il contratto
stesso è stato stipulato, almeno tre giorni non festivi prima di quello della scadenza del contratto e le Compagnie devono fornire comunicazione dell’aumento del
premio in base alle modalità disciplinate dalle condizioni di contratto, per consentire all’assicurato di impedire
eventualmente il rinnovo automatico del rapporto contrattuale.
Ritenuto, nei termini che precedono, sussistente l’ina-
La decisione, pur suscitando interesse della novità della
fattispecie, desta perplessità sotto vari profili. Il primo e
più evidente è che il Giudice di pace ha deciso secondo
equità una controversia la quale, ai sensi del novellato
art. 113, secondo comma, Codice procedura civile, si sarebbe dovuto decidere secondo diritto. Infatti, per effetto delle modifiche introdotte dall’art. 1, primo comma,
D.L. 8 febbraio 2003, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla Legge 7 aprile 2003, n. 63, non possono essere
decise secondo equità le controversie relative a «rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all’articolo 1342 c.c.», e non v’è dubbio che tra
queste rientri assicurazione della RCA.
In teoria, è ben concepibile un danno da lesione della libertà contrattuale, consistito nella procurata impossibilità di stipulare tempestivamente un contratto di assicurazione della rca in conseguenza dell’inadempimento, da
parte dell’assicuratore, dell’obbligo di consegna dell’attestato di rischio. tuttavia tale danno non pare possa essere liquidato in via equitativa, ma non può che coincidere alternativamente: (a) con il pregiudizio risentito per
non aver potuto disporre del proprio veicolo; (b) ovvero
nel maggior premio pagato in conseguenza del ritardo. Si
ricordi che, ai sensi dell’art. 3 D.P.R. n. 45/1981, l’attestato di rischio deve essere «rilasciato dall’assicuratore in
occasione di ciascuna scadenza annuale dei contratti di
assicurazione obbligatoria della responsabilità civile verso i terzi derivante dalla circolazione di veicoli a motore,
qualunque sia la forma di tariffa secondo la quale il contratto è stato stipulato». Tale norma deve ritenersi implicitamente abrogata per effetto dell’entrata in vigore
del codice delle assicurazioni (D.Lgs. n. 209/2005), il cui
articolo 134 contiene una previsione sostanzialmente
analoga.
CLAUSOLE VESSATORIE
Tribunale di Ancona - Sentenza 28 febbraio 2005 Est. Bonivento - CCIAA di Ancona c. N.N.
Mediazione - Patto di esclusiva e di irrevocabilità natura
vessatoria - Sussistenza
I CONTRATTI N. 7/2006
705
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Sono vessatorie ai sensi dell’art. 1469 bis Codice civile, e ne va perciò inibito l’uso, le clausole inserite nel
contratto predisposto unilateralmente da una agenzia
immobiliare, le quali prevedono l’irrevocabilità del
mandato conferito dal cliente all’agenzia prima di un
certo termine, e l’esclusività dello stesso.
Il fatto
Una camera di commercio chiedeva al tribunale di inibire, ai sensi dell’art. 1469 sexies Codice civile (nel testo
vigente ratione temporis) l’uso, da parte di una c.d. «agenzia immobiliare» (recte, mediatore immobiliare), di due
clausole apposte nel contratto standard fatto sottoscrivere dall’agenzia ai propri clienti. Queste due clausole prevedevano: (a) l’irrevocabilità del mandato conferito all’intermediario; (b) la perdita del deposito cauzionale
nel caso di revoca anticipata della proposta.
Il Tribunale ha accolto la domanda.
Le ragioni della decisione
Il Tribunale ha premesso in fatto che le clausole prevedevano l’irrevocabilità della proposta e, contestualmente, il deposito di una somma di denaro a titolo di cauzione o di caparra: ciò imponeva al consumatore, il cui intento fosse l’acquisto di un bene immobile, l’impossibilità di revoca della propria proposta sino alla data convenuta entro la quale il venditore rimaneva libero di
esprimere (o meno) la propria accettazione. Ove quest’ultima non fosse pervenuta entro il termine convenuto, le suddette somme di denaro sarebbero state restituite senza interessi, con annessa esclusione di ogni ulteriore pretesa a fini risarcitori. Ciò premesso in fatto, la sentenza così prosegue in diritto: «ai sensi del 1469 bis, terzo comma, n. 4) si presumono vessatorie le clausole che
prevedano un impegno definitivo del consumatore,
mentre l’esecuzione della prestazione (da parte del professionista) sia subordinata ad una condizione il cui
adempimento dipenda unicamente dalla sua volontà. Il
«patto chiaro di proposta d’acquisto» altera il concetto
di mediazione quale tipizzato dall’art. 1751, primo comma, Codice civile. Al riguardo, il diritto del mediatore
alla provvigione sorge tutte le volte in cui egli abbia messo in relazione due o più parti per la conclusione di un
singolo determinato affare e quest’ultimo sia stato concluso per effetto del suo intervento e la sua attività, nota
ai contraenti, sia stata da essi accertata (Cass. 14 aprile
1994, n. 3472, in Foro it., 1994, I, 1722). Il mediatore
(sia egli persona fisica o un’apposita agenzia) deve tuttavia essere imparziale nei confronti delle parti del futuro
contratto concluso per effetto del suo intervento; nel
modulo contestato (per cui è causa) vi è squilibrio a favore esclusivo della parte venditrice; se il mediatore dà
anche assistenza e tutela, deve darla, in modo equilibrato e paritetico, a favore di entrambe le parti; in caso contrario, si riconduce il patto in oggetto ad uno schema
ben al di fuori del Codice Civile (art. 1755) della tipologia legale; si pone in essere un tipo (irrituale e non con-
706
I CONTRATTI N. 7/2006
sentito) di mediazione, addirittura contra legem. Un conto è che, legittimamente, tramite il patto de quo (su modulo prestampato), l’agenzia di intermediazione immobiliare definisca con maggior precisione il suo ruolo, faccia meglio risaltare i suoi diritti nei confronti delle future parti stipulanti, il suo ruolo nella conclusione del futuro affare, ma detta definizione deve avvenire in modo
equidistante; altrimenti il mediatore professionale finisce per rappresentare, in modo sbilanciato nel sinallagma contrattuale del contratto di mediazione e del futuro
contratto di compravendita concluso per effetto della
medesima, una soltanto delle parti (il promettente alienante) (...).
L’esclusività non può tuttavia essere intesa nel senso di
ritenere vincolata (senza limiti) la sola parte acquirente, non anche il venditore. Nell’apposito conferimento
al mediatore dell’incarico in esclusiva per un determinato periodo di tempo, il termine «di esclusiva» ha la
sola precipua finalità di garantire il mediatore dall’attività concorrente di altri mediatori; null’altro (Cass. 23
ottobre 1980, n. 5724). Detta garanzia non si ottiene
squilibrando il rapporto fra venditore ed acquirente, ad
esclusivo favore del primo. Certo, i patti di esclusiva e di
irrevocabilità temporanea sono ben compatibili con il
rapporto di mediazione, in quanto rappresentano delle
semplici cautele ai fini di un motivato ripensamento del
proponente, legittimamente consentito nell’ambito dei
poteri di autonomia spettanti alle parti. È possibile, infatti, rendere atipica la mediazione imprimendo al rapporto una regolamentazione diversa da quella legale,
stabilendo il diritto del mediatore al compenso anche
nel caso di revoca anticipata dell’incarico oltre che come per legge - al verificarsi della conclusione del fatto (Cass. 16 febbraio 1998, n. 1630, in Foro it., 1999, I,
2662; Cass. 28 marzo 1997, n. 2766). Ciò tuttavia, ancora una volta, non può legittimare il suddetto squilibrio, nel senso di condicio sospensiva che favorisca il
solo venditore».
I precedenti
Si è voluto riportare ad litteram la parte centrale della
sentenza qui in rassegna, in quanto essa - con una sintassi piuttosto ermetica - solleva vari problemi in tema di
mediazione atipica, e, soprattutto, sembra giungere a
conclusioni contrastanti con le premesse.
Il Tribunale ha ritenuto vessatorie la clausola di esclusiva e quella di irrevocabilità, apposte ad un contratto di
mediazione unilaterale, perché produttive di un significativo squilibrio tra le parti. Per quanto attiene la clausola di esclusiva, non v’è dubbio che essa, ponendo un limite alla libertà contrattuale, si presume vessatoria fino
a prova contraria, che nella specie non sembra essere stata fornita (art. 33, secondo comma, lettera t), D.L. n.
206/2005; olim, art. 1469 bis, terzo comma, n. 18, Codice civile).
Più complesso è il discorso per quanto attiene la clausola di irrevocabilità. La giurisprudenza assolutamente
GIURISPRUDENZA•SINTESI
prevalente la considera ammissibile, e ritiene che il
contratto cui acceda sia una mediazione atipica, cioè
difforme dallo schema legale ma rientrante pur sempre
nel genus delle operazioni mediatorie. Tale clausola, secondo la S.C., ha lo scopo di consentire al mediatore,
che può fare affidamento su una determinata durata dell’incarico, di impegnare la propria organizzazione in una
programmata attività di ricerca dell’altro contraente interessato alla conclusione dell’affare, sottraendolo al rischio di non raccogliere la remunerazione dell’attività
svolta (Cass., sez. III, 1 giugno 2000, n. 7273, in Foro it.,
2001, I, 562, con nota di Caputi, nonché in Giust. civ.,
2001, I, 784). Con riferimento alla clausola in esame,
nelle motivazioni delle sentenze si fa spesso riferimento
ad un preteso «diritto» del mediatore al pagamento della provvigione, nel caso di revoca dell’incarico (Cass.
23 maggio 1991, n. 5846, in Arch. civ., 1991, 1018;
Cass. 28 marzo 1997, n. 2766, in Rep. Foro it., 1997, voce Mediazione, n. 20; Cass. 10 agosto 1993, n. 8587, in
Giust. civ., 1994, I, 114). Tuttavia appare preferibile
qualificare la clausola in esame come clausola penale, ex
art. 1382 Codice civile. Essa, pertanto, attribuisce al
mediatore il diritto al risarcimento del danno nella misura prestabilita dalle parti, non già il diritto al pagamento della provvigione, diritto incompatibile con la
mancata conclusione dell’affare, a meno di non volere
rinunciare a qualificare il contratto in termini di mediazione (in senso conforme, Luminoso, La mediazione,
Milano, 1993, 134-135).
Di tale avviso sono stati non pochi giudici di merito i
quali, qualificata la clausola in esame come «penale», ne
hanno ritenuta la vessatorietà ex art. 1469 bis Codice civile, quando la misura di essa sia manifestamente eccessiva, e comunque pari o prossima a quella che sarebbe
stata dovuta a titolo di provvigione in caso di conclusione dell’affare (Trib. Monza 12 ottobre 2002, in Giur.
mer., 2004, 34; Trib. Milano-Legnano 29 marzo 2002, in
Foro it., 2002, I, 2826, con nota di De Rosas e Palmieri;
Giudice di pace Sulmona 24 giugno 1999, in Giur. it.,
2000, 2086; Pret. Bologna 20 gennaio 1998, in Foro it.,
1998, I, 651, nonché in Danno e resp., 1998, 270, con
nota di Palmieri e Pardolesi).
Contra, invece, sebbene con riferimento a clausola solo
parzialmente coincidente con quella oggetto della sentenza qui in rassegna, si veda Trib. Firenze 4 febbraio
2003, in Foro toscano-Toscana giur., 2003, 7, con nota di
Feri, secondo cui la pattuizione che riconosce il diritto
alla provvigione per il solo fatto di aver reperito un’offerta conforme alle richieste è una clausola che incide
sull’oggetto del contratto e dunque, ai sensi dell’art.
1469 ter, secondo comma, Codice civile, ne è esclusa la
vessatorietà a meno che non sia stata formulata in maniera oscura.
Per una rassegna delle principali questioni in tema di
mediazione atipica, si veda Rossetti, La mediazione atipica, in Cendon (a cura di), I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale, vol. XVI, Torino, 2004, 5 e ss.
CONTRATTI BANCARI
Tribunale di Modena - Sez. civ. - Sentenza 9 maggio
2005, n. 856 - Est. Romagnoli - Credem S.p.a. c. N. N.
Contratti bancari - Apertura di credito in conto corrente
- Conto corrente cointestato - Conseguenze - Fido richiesto da uno solo dei cointestatari - Rilevanza-esclusione
Ottenuta l’apertura di credito regolata su conto corrente cointestato con facoltà di disposizione disgiunta,
tutti i cointestatari sono solidalmente responsabili dell’eventuale saldo passivo del conto corrente sul quale
l’apertura sia confluita, a nulla rilevando che l’apertura
di credito sia stata richiesta soltanto da uno di essi e
per scopi personali.
Il fatto
Un istituto di credito intratteneva un rapporto di conto
corrente cointestato a tre persone. Nel corso del rapporto, ai correntisti venivano concesse reiterate e cospicue
aperture di credito, sino a che il conto non giunse a presentare il considerevole scoperto di circa un miliardo e
mezzo di vecchie lire. Morto nel frattempo uno dei tre
correntisti cointestatari del conto, la banca convenne in
giudizio gli altri due, chiedendone la condanna al pagamento del saldo.
I convenuti si costituivano eccependo che le reiterate
aperture di credito erano state chieste solo dal correntista defunto, e disco nascevano le proprie firme apposte
sulla domanda congiunta di aperture di credito. Il tribunale, accertato che il conto era effettivamente cointestato, ha ritenuto irrilevante la circostanza che l’apertura di credito fosse stata richiesta da uno soltanto o da tutti i correntisti, ed ha accolto la domanda.
Le ragioni della decisione
La sentenza così motiva: «il conto corrente (...) bancario
è il contratto con il quale la banca si obbliga a prestare
un servizio di cassa e a compiere le altre operazioni bancarie accessorie rispetto a tale obbligazione principale
(es. bonifici, versamenti) previa costituzione, se necessario, di provvista da parte del correntista (articolo 1852
Codice civile). Sul conto corrente bancario può essere,
in particolare, regolata l’apertura di credito, con il che la
banca mette a disposizione del correntista una somma di
denaro - a tempo determinato o a tempo indeterminato
- di cui egli può disporre in qualunque momento (articolo 1842 Codice civile). Nel caso in cui il conto sia intestato a più persone, con facoltà per le medesime di compiere operazioni anche separatamente, gli intestatari sono considerati creditori o debitori in solido del conto
(articolo 1854 Codice civile). Se fra la banca e il correntista esistono più rapporti o più conti (...), i saldi attivi e
passivi si compensano reciprocamente, salvo patto contrario (articolo 1853 Codice civile).
I CONTRATTI N. 7/2006
707
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Facendosi applicazione dei principi su esposti al caso di
specie ne deriverebbe (...) che l’eventuale apertura di
credito regolata su conto corrente cointestato a più persone con facoltà per ciascuna di operare disgiuntamente
giova (per il caso di saldo attivo) o va a nuocere (per il
caso di saldo passivo) a tutti i contestatari indifferentemente, cosicché ciascuno è creditore ovvero debitore solidale dell’intero saldo attivo o passivo. Ciò consegue,
infatti, alla descritta funzione del contratto di conto corrente bancario che è quella di rendere disponibili i servizi di cassa in favore di tutti i contitolari. Il caso de quo è
«complicato» dal disconoscimento delle lettere di ampliamento di fido successive alla prima (di lire 100 milioni) laddove il saldo passivo del conto corrente è di
gran lunga superiore al limite di fido pacificamente richiesto da tutti i cointestatari. In sostanza i convenuti
eccepiscono di non avere mai richiesto gli ampliamenti
di fido successivi al primo (di lire 100 milioni) - tanto è
vero che disconoscono le firme apposte alle relative pattuizioni - e sostengono perciò di non essere responsabili
del saldo passivo eccedente il predetto primo ampliamento. Tale assunto è destituito di fondamento.
L’apertura di credito, infatti, è sì contratto distinto da
quello di conto corrente e tuttavia ove sia regolata in
conto corrente ha l’effetto di far confluire una certa disponibilità di denaro sul conto nella libera disponibilità
del suo intestatario (ovvero dei suoi intestatari nel caso
di conto cointestato con facoltà di operazioni disgiunte).
In sostanza l’apertura di credito non è che l’occasione
che determina la creazione della provvista, senza possibilità che le circostanze relative alla sua genesi ovvero la
causale dell’apertura di credito possano influire sulla regolamentazione del rapporto di conto corrente bancario.
In questo senso può dirsi che l’apertura di credito regolata
in conto corrente si configura come una sorta di contratto
accessorio a quello cui accede di conto corrente bancario,
nel senso che la provvista che viene a crearsi sul conto
corrente medesimo è regolata dalle norme proprie del
conto corrente: di essa il correntista può liberamente disporre e del corrispondente debito risponde nei confronti
della banca. Ne consegue che nel caso di conto corrente
cointestato, tutti i cointestatari sono solidalmente responsabili nei confronti della banca del saldo passivo del conto derivante dall’utilizzo dell’apertura di credito regolata
sul medesimo, a prescindere dalla causale dell’apertura di
credito e, in particolare, dalla riferibilità di essa a questo o
a quello dei contestatari (potendosi certamente ipotizzare
d’altronde sia stata concessa per iniziativa di un terzo o anche, in ipotesi di scuola, della stessa banca).
D’altronde, valutata la situazione dal lato attivo, non è
seriamente contestabile che nel caso di apertura di credito concessa su richiesta di uno solo dei cointestatari
del conto, di essa si giovino tutti, perché l’apertura di
credito non fa che confluire sul conto corrente bancario
una provvista che, per effetto della solidarietà attiva derivante dalla contestazione del conto corrente, entra
nella libera disponibilità di tutti i contestatari.
708
I CONTRATTI N. 7/2006
In definitiva dunque, comunque ottenuta l’apertura di
credito regolata su conto corrente contestato con facoltà
di disposizione disgiunta, tutti i contestatari sono solidalmente responsabili dell’eventuale saldo passivo del conto corrente sul quale l’apertura sia confluita, e ciò in
virtù delle regole proprie del conto corrente di corrispondenza e segnatamente dell’articolo 1854 Codice civile, senza che rilevi la genesi o la causale dell’apertura di
credito.
Nei rapporti interni, ovviamente, l’obbligazione in solido si divide fra i diversi debitori (articolo 1298 Codice
civile) cosicché quella derivante dalla contestazione del
conto corrente si divide fra i diversi cointestatari e quello chiamato a rispondere dell’intero in virtù della responsabilità solidale ex articolo 1854 Codice civile potrà
rivalersi pro quota nei confronti degli altri cointestatari.
Sarà ancora nell’ambito dei rapporti interni fra cointestatari del conto corrente che potranno, semmai, essere
fatte valere le ragioni di quello fra essi che pur non avendo richiesto né utilizzato l’apertura di credito, abbia pagato l’intero, nel senso che egli potrà rivalersi non solo
pro quota per la parte di competenza del condebitore,
ma, eventualmente anche della propria quota di debito
ove dimostri che l’obbligazione solidale era stata contratta nell’interesse esclusivo di alcuno di essi (articolo
1298 Codice civile)».
I precedenti
La decisione si uniforma alla tradizionale interpretazione
che la giurisprudenza dà dell’articolo 1854 Codice civile.
Secondo questo consolidato orientamento, il principio
di cui alla norma appena ricordata comporta che, nel caso di conto corrente intestato a più persone, gli intestatari sono considerati creditori o debitori in solido dei saldi del conto anche nell’ipotesi in cui, alle persone alle
quali il conto è intestato, sia riconosciuta la facoltà di
compiere operazioni separatamente (Cass., sez. I, 22 luglio 2004, n. 13663, in Rep. Foro it., 2004, voce Contratti bancari, 1720, 41). Pertanto in questi casi non rileva
chi dei titolari abbia beneficiato dell’accredito o chi abbia utilizzato la somma accreditata perché, una volta che
la relativa somma sia affluita nel conto, essa rientra nelle disponibilità di tutti i correntisti, i quali divengono
condebitori della somma stessa quando venga a risultare
la erroneità del suo accredito (Cass. 24 maggio 1991, n.
5876, in Giust. civ., 1991, I, 2970).
Da ciò si trae la conseguenza che il saldo di conto corrente bancario cointestato, con facoltà di disposizione
disgiunta di ciascuno dei contitolari, non costituisce mai
credito «contratto nell’interesse esclusivo» di alcuno dei
contitolari del credito stesso, ai sensi del primo comma
dell’art. 1298 Codice civile, perché ciò contrasterebbe
con la funzione del contratto di conto corrente bancario,
il quale è finalizzato all’espletamento del servizio di cassa
in favore - dunque nell’interesse - di tutti i contitolari, i
quali, infatti, possono liberamente disporre del saldo attivo (così Cass., sez. I, 21 gennaio 2004, n. 886, in Rep.
GIURISPRUDENZA•SINTESI
Foro it., 2004, voce Contratti bancari, n. 42; nell’affermare quest’ultimo principio, la suprema corte ha conseguentemente negato la rilevanza in giudizio della dedotta prova della causale del versamento alla base del saldo
attivo del conto - causale ritenuta dal ricorrente tale da
dimostrare la esclusiva spettanza a lui del versamento
stesso - perché la censura proposta con il ricorso consisteva nella violazione del primo comma dell’art. 1298
Codice civile, agli effetti del quale rilevava il credito del
saldo - costituente il credito solidale in discussione - e
non il diverso credito, verso terzi, la cui avvenuta riscossione aveva dato luogo alla provvista).
Il principio in esame è stato poi ritenuto applicabile anche al c.d. conto provvisorio, caratterizzato dalla immissione nello stesso di danaro cui viene conferita la specifica destinazione dell’acquisto di titoli, ancorché il danaro
sia stato versato da uno solo dei contestatari o da un terzo a favore di uno solo di essi, salvo che si dimostri che il
titolo di acquisizione di quel denaro rendeva destinatario
dello stesso in via esclusiva il solo cointestatario che poi
lo ha versato sul conto (Cass., sez. I, 22 ottobre 1994, n.
8718, in Giust. civ., 1995, I, 972, nonché in Giur. it.,
1995, I, 1, 1522, ed in Banca borsa tit. cred., 1995, II, 554).
CONTRATTI DI UTENZA TELEFONICA
Giudice di pace di Torre Annunziata - Sentenza 14 novembre 2005 - Est. D’Angelo - XXX c. Telecom S.p.a.
Utenza telefonica - Tentativo di conciliazione - Obbligatorietà - Procedimento dinanzi Autorità Garante delle Comunicazioni
Utenza telefonica - Contratto di adesione - Clausola relativa al pagamento del canone - Natura vessatoria Sussistenza
I.
In tema di contratto di utenza telefonica, il tentativo
obbligatorio di conciliazione è condizione di procedibilità della domanda proposta dinanzi l’Autorità Garante
delle Comunicazioni, ma non condiziona l’azione dinanzi l’Autorità Giudiziaria Ordinaria nei confronti
dell’ente gestore.
II.
Nel contratto di utenza telefonica è vessatoria la clausola che prevede il pagamento del canone, poiché produce uno squilibrio degli obblighi derivanti dal contratto ed in quanto tale inefficace.
Il fatto
Un abbonato conveniva in giudizio la Telecom S.p.a.
chiedendo la restituzione dei canoni di abbonamento al
servizio di telefonia versati dal momento della stipula del
contratto alla domanda.
La Telecom S.p.a. si costituiva eccependo: a) in via pre-
liminare l’improponibilità della domanda per omesso
tentativo obbligatorio di conciliazione dinanzi agli organi preposti; b) nel merito il rigetto della domanda.
Il Giudice di pace ha accolto la domanda.
Le ragioni della decisione
Il Giudice di pace ha preliminarmente esaminato l’eccezione di improcedibilità della domanda proposta dal gestore telefonico, rigettandola. Al riguardo si osserva sentenza che il tentativo di conciliazione è obbligatorio soltanto rispetto al procedimento promosso dinanzi l’Autorità Garante delle Comunicazioni, ma non condiziona
l’eventuale azione giudiziaria che il privato intenda promuovere avanti l’Autorità Giudiziaria ordinaria nei confronti del gestore di telefonia. Solo se il privato abbia prima tentato la conciliazione avanti il Garante, non potrà
adire il giudice ordinario sino a che non sia concluso il
tentativo di conciliazione precedentemente promosso.
Nel merito, la sentenza così motiva: «la convenuta Telecom, per giustificare la pretesa del canone di abbonamento si riporta al disposto dell’art. 3 D.P.R. n. 318/1997
che impone a detta società l’incarico di fornire il servizio
universale su tutto il territorio nazionale. Da un attento
esame della suindicata norma, primo comma, si evince
che il servizio universale consiste nella fornitura di alcuni servizi, ma in essa norma non viene nominato il canone di abbonamento. Il quarto comma della suddetta
norma attribuisce il servizio alla società Telecom S.p.a.
ed aggiunge: «A partire dal 1 gennaio 1998, possono essere incaricati della fornitura del servizio universale anche altri organismi di telecomunicazioni che, nel rispetto delle condizioni previste dal presente regolamento ed
in particolare dall’art. 6, settimo comma, sono in grado
di garantire la fornitura dei servizi di cui al primo comma
su tutto il territorio nazionale o su parte di esso a condizioni economiche accessibili a tutti e non discriminatorie rispetto alla localizzazione geografica dell’utente».
Dette norme precisano che cosa si intende per servizio
universale e che detto servizio viene effettuato dalla Telecom, ma dal 1 gennaio 1998, potrebbe essere espletato
anche da altre società di telecomunicazioni. È pur vero
che il servizio universale dà origine a dei costi che vengono sopportati dalla società Telecom ma proprio per
questo motivo il legislatore ha stabilito un meccanismo
di aggiustamento che non deve essere però sopportato
dall’utente. Il legislatore ha affermato che qualora, in base alle disposizioni del presente articolo, gli obblighi di
fornitura del servizio universale rappresentino un onere
iniquo per l’organismo o gli organismi incaricati di fornire il servizio universale, è previsto un meccanismo atto a
ripartire il costo dei suddetti obblighi con altri organismi
che gestiscono reti pubbliche di telecomunicazioni, con
fornitori di servizi di telefonia vocale accessibili al pubblico e con organismi che prestano servizi di comunicazione mobili e personali (sesto comma). Quindi l’onere
del servizio universale per quanto sopra, deve essere sopportato solo ed esclusivamente, così come dice il legisla-
I CONTRATTI N. 7/2006
709
GIURISPRUDENZA•SINTESI
tore: a) dagli operatori che gestiscono reti pubbliche di
telecomunicazioni; b) dai fornitori di servizi di telefonia
vocale accessibili al pubblico; c) dagli organismi che prestano servizi di comunicazione mobili e personali. Da ciò
si evince che gli utenti finali sono esclusi dall’onere di
costi aggiuntivi, compreso il pagamento del canone di
abbonamento richiesto dalla Telecom».
Escluso dunque l’obbligo di pagamento del canone possa derivare dalla legge, il giudicante è passato ad esaminare se tale obbligo possa legittimamente derivare dal
contratto di utenza telefonica.
Sul punto la sentenza così motiva: «il contratto di utenza telefonica (...) è un contratto di adesione, e ciò significa che nessuna clausola contrattuale è stata oggetto di
contrattazione delle parti che lo hanno stipulato. Atteso
che il contratto di abbonamento telefonico è un contratto di adesione, necessita verificare la eventuale vessatorietà della clausola che prevede il pagamento del canone di abbonamento, facendo riferimento all’art. 1469
bis Codice civile. Di certo la clausola predisposta solo
dalla Telecom produce uno squilibro dei diritti e degli
obblighi derivanti dal contratto. Al pagamento del canone non corrisponde nessun servizio erogato dalla convenuta, producendo uno squilibrio degli obblighi che
derivano dal contratto, giungendo all’assurdo pagamento del canone anche in un bimestre nel quale non vi sia
stato alcun traffico telefonico (...). La clausola contrattuale che prevede il pagamento di un canone fisso, prescindendo dalla tariffa per il servizio richiesto e dal traffico effettivamente erogato è da considerarsi ingiusta e di
natura vessatoria (art. 1469 bis Codice civile) e se ne dichiara l’inefficacia; di conseguenza la richiesta di pagamento del canone di abbonamento che prescinde da un
effettivo servizio erogato dalla convenuta è inammissibile, per cui la Telecom è tenuta a restituire all’utente
quanto percepito a tale titolo.
I precedenti
La prima delle massime in epigrafe non è del tutto nuova, ma in precedenza aveva dato luogo a decisioni discordanti. Secondo un primo orientamento, cui aderisce
la sentenza qui in rassegna, nei «rapporti tra gestori telefonici ed utenti, l’omesso esperimento del tentativo di
conciliazione previsto dall’art. 1, comma 11, Legge 31
luglio 1997, n. 249 non è ostativo al promovimento diretto dell’azione giudiziaria, sia quando l’utente lamenti
l’addebito di costi non dovuti, sia quando le commissioni di conciliazione al momento dell’introduzione del
giudizio non siano state ancora costituite» (Giud. di pace Catania 31 dicembre 2004, in questa Rivista, 2/2005;
in tal senso si è pronunciato anche Trib. Siracusa, ord., 9
giugno 2005, in questa Rivista, 5/2005, ma in quel caso la
decisione aveva ad oggetto un ricorso cautelare, rispetto
al quale è ontologicamente incompatibile un tentativo
obbligatorio di conciliazione).
Per un diverso orientamento, invece, l’azione proposta
in sede giurisdizionale dal soggetto che lamenti un ina-
710
I CONTRATTI N. 7/2006
dempimento dell’azienda fornitrice il servizio telefonico
viola il combinato disposto dell’art. 3 della Delibera autorità garante comunicazioni n. 182/02/Cons, e dell’art.
1, undicesimo comma, Legge n. 249/1997, i quali prevedono un preventivo tentativo di conciliazione dinanzi al
Corecom (comitato regionale per le comunicazioni),
rendendo quindi improponibile la relativa domanda
(Giudi. di pace Bologna 29 aprile 2004, in Arch. civ.,
2004, 1063).
Si ricordi che l’art. 1, undicesimo comma, Legge n.
249/1997 (recante «Istituzione dell’Autorità per le garanzie
nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo») dispone: «l’Autorità disciplina con
propri provvedimenti le modalità per la soluzione non
giurisdizionale delle controversie che possono insorgere
fra utenti o categorie di utenti ed un soggetto autorizzato
o destinatario di licenze oppure tra soggetti autorizzati o
destinatari di licenze tra loro. Per le predette controversie, individuate con provvedimenti dell’Autorità, non
può proporsi ricorso in sede giurisdizionale fino a che non
sia stato esperito un tentativo obbligatorio di conciliazione da ultimare entro trenta giorni dalla proposizione dell’istanza all’Autorità. A tal fine, i termini per agire in sede giurisdizionale sono sospesi fino alla scadenza del termine per la conclusione del procedimento di conciliazione». A tale disposizione l’Autorità garante ha dato attuazione con la Deliberazione 28 marzo 2001, n. 148, adottando il regolamento per la risoluzione delle controversie
tra organismi di telecomunicazioni, mentre con la successiva Deliberazione 19 giugno 2002, n. 182 ha adottato
il regolamento per la risoluzione delle controversie tra organismi di telecomunicazioni ed utenti. L’art. 3, primo
comma, di quest’ultimo regolamento dispone che «gli
utenti (...) che lamentino la violazione di un proprio diritto o interesse protetti da un accordo di diritto privato o
dalle norme in materia di telecomunicazioni attribuite alla competenza dell’Autorità e che intendano agire in giudizio, sono tenuti a promuovere preventivamente un
tentativo di conciliazione dinanzi al Corecom competente per territorio» (il Corecom è il comitato regionale per
le comunicazioni, previsto dal medesimo regolamento; il
Corecom è un organo dell’Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni, nonché organo di consulenza e di gestione della regione in materia di sistemi convenzionali o
informatici delle telecomunicazioni e radiotelevisivo. Il
corecom è composto da un Presidente nominato dal Presidente della Giunta Regionale, sentita la competente
commissione consiliare permanente, e da sei componenti designati dal Consiglio Regionale).
Di fronte alla limpidezza del dettato normativo e di quello regolamentare, appare quindi di difficile condivisibilità la soluzione adottata dal giudice campano con la
sentenza qui in rassegna.
Anche la seconda delle massime di cui in epigrafe non
costituisce una novità assoluta: già in precedenza, infatti, un altro Giudice di pace, anch’esso campano (evidentemente in quella regione deve essere avvertito con
GIURISPRUDENZA•SINTESI
particolare sensibilità il problema del pagamento del canone telefonico) aveva affermato, in modo anche sintatticamente identico rispetto alla sentenza qui in rassegna, che «la clausola contrattuale che prevede il pagamento di un canone fisso, prescindendo dalla tariffa per
il servizio richiesto è da considerarsi di natura vessatoria
(art. 1469 bis Codice civile) e va dichiarata inefficace; di
conseguenza la richiesta di pagamento del canone di abbonamento che prescinde da un effettivo servizio erogato dalla Telecom è inammissibile, per cui la Telecom è
tenuta a restituire all’utente quanto percepito a tale titolo» (Giud. di pace Agropoli 14 aprile 2004, in Giudice di
pace, 2004, 207, con nota di Di Nardo). Non aveva, invece, ravvisato vessatoria tale lacuna nella clausola che
prevede l’obbligo di pagamento del canone Giud. di pace Reggio Calabria 16 ottobre 1998, in Giudice di pace,
2001, 124.
È opportuno altresì ricordare, per l’intelligenza del caso,
che la norma posta dal Giudice di pace a fondamento
della propria decisione (art. 3 D.P.R. 19 settembre 1997
n. 318, disciplinante il pagamento del canone) è stata
abrogata dall’art. 218, terzo comma, lettera (u), D.Lgs.
1° agosto 2003, n. 259 («Codice delle comunicazioni
elettroniche»), che ha abrogato l’intero provvedimento
a decorrere dal 16 settembre 2003. Tale provvedimento
disciplina i criteri di riparto dei costi del «servizio universale» nell’Allegato 11, il cui art. 2, quinto comma,
espressamente prevede che «il recupero o il finanziamento del costo netto degli obblighi di servizio universale implica che le imprese designate soggette a tali obblighi siano indennizzate per i servizi che forniscono a
condizioni non commerciali». Appare, pertanto, alquanto problematica l’affermazione contenuta nella
sentenza qui in rassegna, secondo cui «al pagamento del
canone non corrisponde nessun servizio erogato» dal gestore telefonico.
CONTRATTO D’OPERA PROFESSIONALE
Tribunale di Roma - sez. XIII - Sentenza 23 febbraio
2006 - Est. Rossetti - Fiocco (Avv. Violi) c. Saliola
(Avv. Esposito)
Contratto d’opera - Accettazione dell’incarico da parte
del prestatore - Responsabilità per inadempimento Sussistenza - Opera non rientrante tra quelle di competenza del prestatore - Rilevanza-esclusione
Il prestatore d’opera il quale consenta di eseguire una
prestazione la quale non rientri tra le attività da lui
normalmente esercitate, risponde dei danni derivati
dall’imperfetta esecuzione di essa, anche se abbia preventivamente avvertito il cliente della propria incompetenza; in questo caso, però, la sua responsabilità deve essere ridotta in applicazione dell’articolo 1227, primo comma, Codice civile (nella specie, il titolare di una
auto carrozzeria aveva consentito a riparare il motore di
una vettura di pregio, eseguendo però l’intervento in
modo malaccorto. Il tribunale, in applicazione del principio che precede, ha ritenuto che l’accettazione dell’incarico da parte del prestatore d’opera comportasse
l’accettazione della relativa responsabilità, ma che alla
produzione dell’evento avesse concorso altresì la scelta
del committente di affidare una delicata riparazione a
soggetto non qualificato).
Il fatto
Il proprietario di una vettura di pregio la affidava ad una
autocarrozzeria per alcune riparazioni alle parti metalliche. Poiché la vettura presentava anche un difetto al motore, il proprietario chiese, ed il carrozziere accettò, di riparare alla meglio tale guasto. Poiché tuttavia la riparazione venne eseguita in modo malaccorto, il committente
convenne in giudizio il prestatore d’opera, chiedendone la
condanna al risarcimento del danno. Il convenuto, costituendosi, eccepiva di essere un carrozziere, non un meccanico, che di tale circostanza aveva informato il committente, e che la riparazione era stata eseguita perciò in modo superficiale. Il Tribunale ha accolto la domanda.
Le ragioni della decisione
In fatto, il Tribunale ha accertato che «poiché il cliente
non voleva spendere», il carrozziere eseguì una riparazione approssimativa sul motore dell’autovettura, rendendo
edotto di tutto ciò il cliente.
Ciò posto in fatto, la sentenza così motiva in diritto: «dai
fatti come sopra ricostruiti discende la responsabilità
della convenuta per inadempimento, ex art. 1218 Codice civile, nella specie consistito nella violazione dell’obbligo di correttezza di cui all’art. 1175 Codice civile. Il
principio di correttezza, secondo la Relazione al Codice
Civile, «richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore
il giusto riguardo all’interesse del creditore». Tale criterio
di reciprocità, secondo la S.C., va collocato nel quadro
di valori introdotto dalla Carta costituzionale, e deve essere inteso come una specificazione degli inderogabili
doveri di solidarietà sociale imposti dall’art. 2 Cost. La
sua rilevanza si esplica pertanto nell’imporre, a ciascuna
delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in
modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere
dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge (per
l’affermazione del principio in questi termini, sia pure
con riferimento a diversa fattispecie, si veda Cass. civ.,
sez. I, 5 novembre 1999, n. 12310, in Società, 2000, 303).
Ciò vuol dire che il debitore non può e non deve una
prestazione purchessia, ma una prestazione utile per la
controparte. Dal coordinamento di questo principio con
quello della libertà negoziale (art. 1321 Codice civile)
discende che il prestatore d’opera è sempre libero di scegliere se accettare o meno l’incarico propostogli dal
committente; ma se accetta di eseguire la prestazione è
I CONTRATTI N. 7/2006
711
GIURISPRUDENZA•SINTESI
tenuto ad eseguirla con la speciale diligenza di cui all’art.
1176, secondo comma 2, Codice civile. Né rileva che
egli non abbia le competenze per eseguire a regola d’arte
il lavoro commissionatogli dal cliente, giacché anche in
quest’ultimo caso l’alternativa consentita al prestatore
d’opera è scegliere tra accettare o rifiutare, e non già tra
rifiutare od eseguire una prestazione imperita.
Nel caso di specie, pertanto, la società convenuta ben
avrebbe potuto (e dovuto) astenersi dall’intervenire sul
radiatore dell’olio, non avendo - per sua stessa ammissione - le necessarie competenze. Avendo invece accettato
l’incarico, essa era tenuta ad una prestazione esatta e diligente: esattezza e diligenza la cui mancanza è dimostrata ex se dal fatto stesso che le perdite d’olio non furono rimosse, e che il veicolo dell’attore subì un guasto meccanico che ne comportò il blocco.
Né rileva la circostanza (...) che il rappresentante della
società convenuta invitò l’attore a recarsi presso una officina autorizzata (...). Infatti l’accettazione del veicolo
(...)ha costituito per facta concludentia manifestazione
della volontà di eseguire la prestazione, con conseguente assunzione dell’obbligo di eseguirla in modo diligente.
Sicché, in virtù del principio protestatio contra factum
proprium non valet, l’eventuale informazione data al
cliente circa la necessità di recarsi presso un centro specializzato non elìde la responsabilità della convenuta,
non potendo il debitore - «per la contraddizion che nol consente» - da un lato accettare di eseguire l’opera, e dall’altro contemporaneamente proclamare la propria imperizia od inadeguatezza.
Tuttavia la circostanza che il cliente fosse stato avvertito
dalla necessità di recarsi presso un centro specializzato, se
non vale ad escludere la responsabilità della convenuta,
nondimeno l’attenua ai sensi dell’art. 1227, primo comma, Codice civile. Ed infatti il committente, reso adotto
della approssimazione delle riparazioni eseguite, avrebbe
dovuto - alla stregua del canone della ordinaria diligenza
- accogliere l’invito a rivolgersi presso un centro specializzato. Tale contributo causale alla produzione dell’evento
dannoso può equitativamente stimarsi nella misura del
40%. Nella medesima percentuale andrà pertanto ridotto il risarcimento dovuto dalla società convenuta (...)».
I precedenti
Non constano precedenti editi su fattispecie analoga, ma
la ratio decidendi della sentenza qui in rassegna è tutta incentrata su princìpi ormai saldamente radicati nel diritto
vivente: in particolare, l’affermazione secondo cui il dovere di correttezza è cardine centrale di tutta la materia delle obbligazioni, e l’altra secondo cui il dovere di buona fede impone di fornire alla controparte contrattuale una
prestazione utile (Cass., sez. III, 11 febbraio 2005, n. 2855,
in Rep. Foro it., 2005, voce Contratto in genere, n. 25; Cass.,
sez. III, 30 luglio 2004, n. 14605, in Rep. Foro it., 2004, voce Contratto in genere, n. 302; Cass., sez. II, 18 ottobre
2004, n. 20399, in Guida dir., 2004, 44, 30).
In dottrina, sul tema della correttezza e della buona fede
712
I CONTRATTI N. 7/2006
la produzione è copiosissima. Oltre la classica e fortunata opera di Bianca, Il contratto, Milano, 1987, si vedano
tra i contributi più recenti D’Angelo, Il contratto in generale - La buona fede, in Trattato di diritto privato, diretto da
Bessone, XIII, IV, Torino, 2004; Grondona, Solidarietà e
contratto: una lettura costituzionale della clausola generale di
buona fede, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 727; Alpa, La
completezza del contratto: il ruolo della buona fede e dell’equità, in Vita not., 2002, 611; Russo, Jean Domat, la buona fede e l’integrazione del contratto, in Vita not., 2002,
1247; Vettori, Buona fede e diritto europeo dei contratti, in
Europa e dir. priv., 2002, 915; Garofalo (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e
contemporanea (Atti del convegno internazionale di studi in
onore di Alberto Burdese, Padova-Venezia-Treviso, 14-1516 giugno 2001), I-IV, Padova, 2003.
Tribunale di Marsala - sez. civ. - Sentenza 25 giugno
2005 - Est. Goggi - M.P c. L.I.
Prestazione d’opera professionale - Contratto di cura Natura personale della prestazione - Conseguente Cooperazione di più professionisti - Responsabilità solidale - Esclusione - Fattispecie
La prestazione del medico, come quella di qualsiasi libero professionista, ha carattere strettamente personale. Pertanto ove al conseguimento del risultato finale
cooperino più professionisti, deve ritenersi - in mancanza di prova contraria, che è onere del paziente fornire - che ciascuno di essi abbia stipulato un contratto distinto ed autonomo col paziente (in applicazione di tale principio, il tribunale in un caso in cui due dentisti
avevano assistito la medesima paziente, ha escluso che
il medico chiamato ad eseguire due estrazioni potesse
rispondere dei danni causati dalla imperizia dell’altro,
chiamato ad applicare un apparecchio ortodontico).
Il fatto
I genitori di una minore convenivano in giudizio il medico dentista che aveva estratto alla minore i denti da
latte, imputandogli l’irregolare allocazione dei denti definitivi, con conseguente collocazione di correttori che
non avevano risolto il problema.
Il medico si costituiva eccependo che nessuna responsabilità poteva essergli addebitata, in quanto si era limitato ad estrarre i suddetti denti da latte (che dovevano essere necessariamente tolti) ed a prescrivere, successivamente alla crescita irregolare dei denti definitivi, che era
avvenuta del tutto spontaneamente, appropriati correttori che erano stati applicati da altro professionista.
Il Tribunale ha rigettato la domanda.
Le ragioni della decisione
La sentenza così motiva: «la prestazione medico-odontoiatrica rientra tra le cosiddette prestazioni di opera in-
GIURISPRUDENZA•SINTESI
tellettuale connotate ai sensi dell’art. 2232 Codice civile dal carattere della personalità, per cui il professionista
si impegna ad eseguire personalmente l’attività oggetto
del contratto, potendosi valere sotto la propria direzione
e responsabilità di sostituti ed ausiliari solo se la collaborazione di altri è consentita dal contratto o dagli usi e
non è incompatibile con l’oggetto della prestazione.
Ora, a fronte di tale carattere strettamente personalistico, la prova di un rapporto di collaborazione con terzi
professionisti nell’espletamento dell’incarico ricevuto
deve essere fornita da chi agisce in giudizio in maniera rigorosa, dovendo altrimenti presumersi che il rapporto
intercorso sia stato concluso in via autonoma con ciascuno dei professionisti che ha partecipato ad una fase
dell’intervento medico-ortodontico, a fronte della specializzazione delle professioni e del principio dell’affidamento, per cui ciascuno risponde per la prestazione professionale specificatamente effettuata.
Dagli accertamenti compiuti dal CTU emerge, nella
specie, che ciascuno dei due professionisti sia intervenuto autonomamente per l’opera di sua stretta competenza, essendosi il convenuto limitato ad effettuare l’estrazione dei denti decidui affetti da carie e la presa delle impronte per la costruzione degli apparecchi correttori
scelti ed applicati direttamente dal dott. R., il quale si è
invece occupato dell’impianto di tali apparecchi, dell’intervento chirurgico «per esporre il canino superiore di sinistra» e delle altre terapie dentistiche relative agli anni
1997-1998. Non può pertanto ravvisarsi, in assenza della prova di un rapporto di dipendenza, di sostituzione o
di ausiliarietà tra i due professionisti (...) alcuna ipotesi di
responsabilità del convenuto per le prestazioni ortodontiche fornite dal R., pur essendo l’attività professionale
svolta dal primo proseguita durante l’affidamento della
minore alle cure del secondo.
Ora, dall’accertamento compiuto dal CTU, le cui considerazioni questo giudice condivide, essendo corrette in
fatto ed avendo fatto uso di corrette nozioni di medicina,
è emerso che i disturbi riscontrati al momento della perizia sulla minore (malocclusione, palato fortemente ogivale, deglutizione atipica, respirazione orale, sorriso gengivale) sono riconducibili ad un insieme di fattori causali tra i quali il contributo preminente è individuato nella predisposizione genetico-costituzionale della paziente
(...) mentre, in misura minore, hanno inciso sull’attuale
stato della minore anche i risultati insoddisfacenti di entrambe le prestazioni medico-professionali fornite (...).
Dalle valutazioni effettuate dall’ausiliario emerge pertanto
soltanto una parziale riconducibilità eziologica delle disfunzioni riscontrate sulla periziata all’intervento ortodontico operato dal convenuto. Tenuto conto della natura
delle regole di diligenza e perizia da ciascuno dei due professionisti violate, del rispettivo grado della colpa, della
utilità della rispettiva condotta alternativa corretta, dell’autonomia di ciascuna prestazione professionale effettuata e dell’incidenza della spontanea evoluzione della iniziale malocclusione genetica riscontrata sulla paziente - non
idonea quest’ultima, in ogni caso, ad interrompere il nesso causale tra le prime due cause e l’evento lesioni temporanee - la responsabilità nella causazione del sinistro va
ascritta dunque al [convenuto] nella misura del 30%».
I precedenti
La decisione qui in rassegna, la quale non fa registrare
precedenti editi su fattispecie analoga, può destare forse
più d’una perplessità. In primo luogo, infatti, se è pur vero che ogni prestazione d’opera professionale ha carattere strettamente personale, è altresì vero che proprio nel
settore della responsabilità medica la giurisprudenza ha
da tempo slargato l’ambito di tale regole, attraverso due
strumenti: da un lato, introducendo la c.d. «prestazione
di garanzia» nell’ambito della responsabilità dell’èquipe;
dall’altro, adottando la nozione di obbligazione soggettivamente complessa ad attuazione congiunta, nella quale
le diverse prestazioni, pur formalmente autonome, si
fondono in un risultato unico.
In ordine al primo punto (responsabilità dell’èquipe), l’orientamento che negli ultimi anni è emerso ed è divenuto prevalente in giurisprudenza è quello che si fonda sulla cosiddetta «teoria dell’affidamento».
Secondo questo orientamento, ciascun partecipe risponde solo del corretto adempimento dei doveri di diligenza
e di perizia inerenti ai compiti che gli sono affidati, senza essere gravato per principio dal defatigante obbligo di
sorvegliare il comportamento altrui. Tale regola è però
temperata dal concorrente principio secondo cui il
membro dell’èquipe non è comunque esonerato da qualsiasi obbligo di controllo e di vigilanza: tale obbligo, per
l’esattezza, può insorgere allorché:
(a) si verifichino circostanze concrete che lascino temere contegni altrui non conformi a perizia e diligenza, le
quali annullino l’aspettativa di un comportamento corretto;
(b) ovvero allorché, tra i compiti specifici spettanti ad
alcuno tra i membri del gruppo, rientri proprio quello di
sorveglianza e di controllo dell’operato altrui (cfr., per tali princìpi, Riv. it. medicina legale, 2000, 875; Pret. Verbania 11 marzo 1998, in Indice pen., 1999, 1187; Pret. Bologna-Imola 16 dicembre 1997, in Riv. trim. dir. pen. economia, 1999, 153).
In applicazione di tali princìpi, si è ritenuto che l’aiuto risponda del danno causato dal primario, in tutti i casi in
cui abbia la possibilità di controllare l’operato del primario di esprimere il proprio dissenso, sicché se non interviene per controllare od impedire una scelta terapeutica
oggettivamente sbagliata, è ravvisabile in capo a lui una
colpa omissiva (Cass. pen., sez. IV, 5 ottobre 2000, in Riv.
pen., 2001, 452; Cass. pen., sez. IV, 18 gennaio 2000, in
Resp. civ., 2000, 616; Cass. pen., sez. IV, 17 novembre
1999, in Nuovo dir., 2000, 159; Cass. pen., sez. IV, 28 giugno 1996, in Ced Cass., rv. 205829; Cass., sez. II, 25 agosto 1994, in Mass. Cass. pen., 1995, 2, 119; Pret. Crotone 26 giugno 1993, in Foro it., 1993, II, 721).
In ordine al secondo punto (obbligazioni ad attuazione
I CONTRATTI N. 7/2006
713
GIURISPRUDENZA•SINTESI
congiunta), si è ritenuto che il ricovero finalizzato all’esecuzione di un intervento chirurgico costituisce oggetto
di una obbligazione unitaria a carico di una pluralità di
partì (medico e casa di cura) che, nella esecuzione della
prestazione, si articola in una serie di attività distinte ma
temporalmente indivisibili. Ne consegue che, in caso di
insuccesso dell’intervento, medico e casa di cura sono
tenuti in solido al risarcimento dei danni (Trib. Roma 28
gennaio 2002, in questa Rivista, 2002; Trib. Roma 1 giugno 2001, in questa Rivista, 2002, 85, alla cui ampia nota di ulteriori riferimenti dottrinari e giurisprudenziali,
per brevità, si rinvia).
Non minori perplessità desta, nella sentenza qui in rassegna, la decisione di scindere anche sul piano causale la responsabilità dei due medico che avevano avuto in cura la
paziente.Infatti, posto che per ammissione dello stesso
tribunale il risultato nefasto finale aveva avuto varie concause, avrebbe dovuto trovare applicazione il principio di
cui all’art. 2055 Codice civile, in virtù del quale chiunque abbia fornito un contributo eziologico alla produzione del danno ne risponde in solido con gli altri coautori.
Detto altrimenti, il Tribunale siciliano parrebbe avere
inammissibilmente sovrapposto due piani diversi: quello
della natura personale della prestazione dovuta dal medico al paziente, e quello della sempre possibile concorrenza causale di condotte indipendenti alla produzione dell’evento di danno. Il fatto che la prestazione rimasta inadempiuta debba esser eseguita personalmente dal debitore non esclude affatto che l’inadempimento di questi possa concorrere con l’altrui inadempimento.
CONTRATTI FINANZIARI
Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto - Sentenza 17
novembre 2005 - Pres. Lanza Volpe - Est. Salvo XXX c. Intesa Trade S.I.M. S.p.a.
I.
Nei contratti stipulati col consumatore è nulla, ex art.
1469 bis, n. 18, Codice civile, sia la clausola che preveda un arbitrato rituale, sia quella che preveda un arbitrato libero.
II.
In materia di contratti di intermediazione finanziaria,
foro esclusivamente competente è quello di residenza
del consumatore, e non quello ove la SIM ha sede ovvero dove è sorta o va eseguita l’obbligazione.
III.
L’intermediario finanziario è tenuto a risarcire il danno
patito dal risparmiatore che, avendo effettuato una
operazione di short selling (o vendita allo scoperto,
consistente nel vendere titoli che non si possiedono,
allo scopo di riacquistarli ad un prezzo inferiore al ricavato della vendita), non sia stato informato del fatto
che il controvalore dei dividendi viene addebitato al risparmiatore stesso.
IV.
La circostanza che il consumatore sia esperto in materia finanziaria non esime l’intermediario dal dovere di
informazione previsto dall’articolo 21 D.Lgs. n.
58/1998.
V.
La violazione del dovere di informazione posta a carico
dell’intermediario finanziario non comporta la nullità
del contratto stipulato, ma costituisce una ipotesi di
inadempimento, dalla quale discende l’obbligo a carico
della parte inadempiente di risarcimento del danno.
Il fatto
Intermediazione finanziaria - Acquisto di strumenti finanziari allo scoperto (c.d. short selling) - Clausola compromissoria di arbitrato - Vessatorietà - Sussistenza
Intermediazione finanziaria - Controversie - Competenza territoriale - Individuazione - Luogo di residenza del
risparmiatore - Necessità
Contratti finanziari - Vendita allo scoperto (short selling)
- Trattamento dei dividendi - Obbligo di informazione a
carico dell’intermediario - Sussistenza
Contratti finanziari - Obblighi degli intermediari - Dovere di informazione - Consumatore esperto in materia
finanziaria - Attenuazione del dovere di informazione Esclusione
Contratti finanziari - Obblighi degli intermediari - Dovere di informazione - Violazione - Conseguenze - Nullità del contratto - Esclusione
714
I CONTRATTI N. 7/2006
Un risparmiatore effettuava tramite internet, con la mediazione di una SIM, una operazione di c.d. short selling
(o «vendita allo scoperto»): e cioè vendeva sul mercato
titoli che non possedeva, per poi riacquistarli dopo brevissimo lasso di tempo, al fine di lucrare la differenza tra
il ricavato della vendita e l’importo, sperabilmente minore, speso per riacquistarli.
Accadeva tuttavia che i titoli oggetto della suddetta
operazione erano costituiti da azioni di una società che,
al momento della vendita da parte del risparmiatore, ancora non aveva pagato i dividendi, pagamento che sarebbe avvenuto immediatamente dopo. Poiché il pagamento dei dividendi aveva fatto ovviamente diminuire
il valore dei titoli, la SIM provvedeva ad addebitare al
cliente il controvalore dei dividendi pagati dalla società
sui titoli (ri)acquistati dal cliente (e dunque, per intelligenza del lettore, il risparmiatore aveva venduto a 10 e
ricomprato a 5, guadagnando 5; tale lucro era stato però
successivamente ridotto dall’ulteriore addebito del controvalore dei dividendi per 5).
GIURISPRUDENZA•SINTESI
A questo punto il risparmiatore conveniva in giudizio la
Sim, chiedendone la condanna al risarcimento del danno per violazione del dovere di informazione, danno
quantificato in misura pari al controvalore dei dividendi
addebitatogli dalla SIM.
Quest’ultima, costituendosi, eccepiva in primo luogo
l’improcedibilità della domanda, a causa della previsione
contrattuale d’un arbitrato libero. Nel merito, la società
finanziaria sollevava essenzialmente due eccezioni: innanzitutto, che il risparmiatore non poteva dolersi di
non essere stato informato, in quanto trattavasi di persona esperta nelle operazioni finanziarie; in secondo luogo,
eccepiva che nelle operazioni di short selling il pagamento dei dividendi deve ricevere una disciplina particolare,
dal momento che il prezzo di mercato dei titolo incorpora anche il valore della cedola di prossimo distacco, per
poi diminuire di una somma più o meno pari a quella
versata ai soci.
Questa sicura diminuzione del titolo comporterebbe un
indebito vantaggio del cliente che incamererebbe il dividendo senza alcun corrispondente sacrificio economico,
e che potrebbe utilizzare il meccanismo della vendita allo
scoperto in modo distorto, per speculare sulla fisiologica
diminuzione del prezzo che segue allo stacco della cedola.
Pertanto, per far sì che il pagamento dei dividendo rappresenti, per le parti contraenti, un fatto neutro, è necessario che vi sia un meccanismo correttivo per cui il valore del dividendo incorporato nel titolo è addebitato ai
cliente sotto forma di importo sostitutivo del dividendo.
Il tribunale ha accolto la domanda.
Le ragioni della decisione
Il Tribunale ha, in primo luogo, esaminato e rigettato
l’eccezione preliminare di improcedibilità, a causa della
previsione contrattuale di un arbitrato libero. Tale decisione è stata fondata sul rilievo che nei contratti stipulati col consumatore anche le clausole che prevedono arbitrati liberi (e non solo quelle che prevedono arbitrati
rituali) debbono ritenersi nulle, ai sensi dell’articolo
1469 bis, numero 18, Codice civile.
Il tribunale è quindi passato ad esaminare il merito della
domanda, motivando come segue: «il contratto di short
selling è una operazione finanziaria con la quale il cliente
ordina alla intermediaria la vendita, al prezzo di borsa del
momento, del titolo di cui non dispone. La SIM corrisponde così il controvalore del titolo, mentre una somma di uguale importo è trasferita dal conto del cliente ad
uno specifico conto di garanzia. Di lì a novanta giorni il
cliente può ordinare alla intermediaria il riacquisto dei
titoli venduti, e all’atto del riacquisto la intermediaria
provvede alla restituzione della somma che residua in seguito all’acquisto dei titoli. La convenienza dell’operazione dipenderà dalla andamento del titolo: quanto più i
titoli diminuiscono di valore fra il momento della vendita e quello dell’acquisto, tanto più fruttuosa sarà l’operazione per il cliente (...).
Lamenta l’attore che la SIM è venuta meno al suo dove-
re di informazione non avendo fornito le dovute indicazione sui reale prezzo di vendila del titolo e sull’imminente pagamento dei dividendi, in violazione dell’art. 21
D.Lgs. n. 58/1998 e 32 Regolamento Consob (...).
II rapporto fra intermediari finanziari e investitori è caratterizzato da strutturali problemi di asimmetria. Per tale ragione il momento informativo costituisce un elemento centrale nel sistema normativo. Così nello spirito della normativa comunitaria (art. 11 Direttiva
93/22), l’articolo 21 del D.Lgs. n. 58/1998 attribuisce all’impresa di investimento oneri di informazione, che
non si esauriscono alla fase precontrattuale ma proseguono durante tutta la durata del peculiare rapporto che
si instaura fra intermediari e cliente.
L’art. 21, lettera b), T.U. individua, con riferimento all’elemento informativo, due momenti concorrenti e funzionalmente collegati: l’uno preliminare di ascolto del
cliente finalizzato alla raccolta delle informazioni necessarie; l’altro attivo di adeguata illustrazione della natura
del servizio e dei rischi connessi.
La legge non dice ovviamente quando l’informazione
debba ritenersi adeguata. Il dovere di fornire informazione adeguata durante tutta la durata del rapporto (...) induce a ritenere che le notizie da fornire devono ritenersi
aggiuntive rispetto a quelle la cui elargizione costituisce
l’adempimento dell’obbligo della trasparenza e devono
accompagnare tutte le operazioni negoziali.
Se così è, non basta prevedere genericamente in sede di
stipula ad es. che il contratto di short selling ove abbia ad
oggetto titoli che incorporano cedole di prossimo distacco segua una predeterminata disciplina (...), poiché un
siffatto onere informativo non sarebbe altro che una delle manifestazioni del generale dovere di trasparenza e di
correttezza e buona fede in sede di conclusione del contratto. Il dovere di informazione, come manifestazione di
operare in modo che i clienti siano sempre adeguatamente messi al corrente dell’operazione che pongono in
essere, richiede evidentemente qualcosa di più. E allora
è necessario che l’attenzione del cliente sia richiamata
sulle peculiari caratteristiche del titolo e sulle relative
conseguenze, onde evitare che il cliente medesimo possa riporre aspettative erronee che possono esporlo a rischio di perdite.
Alla luce dell’art. 21 predetto, il comportamento della
SIM appare non improntato al dovere di informazione
illustrato, non avendo essa indicato al XXX la circostanza che i titoli [oggetto dell’operazione] incorporavano dividendi di imminente pagamento che sarebbero stati riconosciuti agli acquirenti, mentre il relativo importo sarebbe stato a lui addebitato. Circostanza questa non irrilevante come vuole la società convenuta, proprio perché
il differenziale fra la vendita ed acquisto di azioni (determinato senza tener conto dell’addebito dei dividendi)
costituisce plusvalenza e come tale soggetta a ritenuta alla fonte. L’acquisto di titoli con dividendi in prossima
scadenza perciò costituisce per il cliente già un fatto pregiudizievole essendo fonte di applicazione delle ritenute
I CONTRATTI N. 7/2006
715
GIURISPRUDENZA•SINTESI
fiscali sul prezzo dei dividendi di cui, di fatto, questi non
è il beneficiario (...).
Né la società può assumere a propria difesa il fatto che il
XXX abbia dimostrato dimestichezza nell’uso degli strumenti finanziari (...). Diversamente opinando si arriverebbe alla conseguenza di ritenere che la società convenuta, con la sola raccolta dei dati per delineare il profilo
del consumatore, fosse del tutto esonerata da qualsiasi
successivo dovere informativo. Ma così ragionando verrebbe di fatto svuotato del suo contenuto precettivo il
disposto di cui all’art. 21 D.Lgs. citato laddove impone
all’intermediario finanziario un dovere di informazione
durante tutta la durata del rapporto.
Problema da risolvere è quello relativo alle conseguenze.
Ritiene questo collegio che nella specie si possa parlare
di inadempimento piuttosto che di nullità. Non pare infatti che si possa parlare di vizio genetico, relativo alla
conclusione del contratto, bensì di vizio funzionale che
attiene alla esecuzione del contratto e che riguarda le
prestazioni. Al riguardo la posizione della SIM appare simile a quella di un professionista che ricevuto un incarico di una prestazione professionale, non fornisce al
cliente quelle informazioni necessarie perché lo stesso
possa operare una scelta consapevole.
Analogamente a qualsiasi altro professionista, l’intermediario finanziario che, richiesto di curare un investimento mobiliare, ometta di avvertire, in modo specifico, il
cliente dei rischi cui va incontro con l’investimento prospettato. La società di intermediazione mobiliare, quindi, non può che rispondere dell’operato dei suoi dipendenti, non risultando dimostrato, nella specie, che costoro abbiano correttamente informato l’investitore dei
notevoli rischi cui andava incontro con l’acquisto delle
azioni in questione.
Inoltre, va tenuto conto, nella ricostruzione della fattispecie in termini di inadempimento, del fatto che l’art.
23 D.Lgs. n. 58/1998, dopo aver previsto, con riferimento ai contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento e accessori, due ipotesi di nullità (per inosservanza della forma prescritta e per il rinvio agli usi per la
determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e
ogni altro onere a suo carico), prevede al sesto comma
che «nei giudizi di risarcimento danni cagionati al cliente nello svolgimento del servizio di investimento e di
quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l’onere della
prova di avere agito con la specifica diligenza richiesta».
Con tale previsione si evidenzia che l’avere agito con la
specifica diligenza (di cui il dovere di informazione è una
specificazione) è «oggetto di azione risarcitoria che è tipicamente connessa nell’ambito contrattuale all’inadempimento di un contratto perfezionato (...)».
I precedenti
Le prime due massime di cui in epigrafe costituiscono
ormai jus receptum. Che la presunzione di vessatorietà di
cui all’articolo 1469 bis, n. 18, Codice civile vada riferita non solo all’arbitrato rituale, ma anche quello libero,
716
I CONTRATTI N. 7/2006
era già stato affermato da Trib. Monza-Desio 21 gennaio
2003, in Giur. merito, 2004, 33; Trib. Torino 27 novembre 2001, in Giur. merito, 2002, 649; Trib. Genova 26
maggio 2000, in Nuova giur. ligure, 2001, 9. In senso
contrario, invece, Trib. Roma 28 ottobre 2000, in Corr.
giur., 2001, 380, con nota di Di Majo, secondo cui solo
arbitrato libero costituisce una deroga alla competenza
dell’autorità giudiziaria, e dunque solo rispetto con riferimento ad esso può trovare applicazione l’articolo 1469
bis, cit.
Anche in tema di foro del consumatore, Cass. [ord.], s.u.,
1 ottobre 2003, n. 14669, in Foro it., 2003, I, 3298, con
nota di Palmieri (nonché in Corr. giur., 2003, 1427, con
nota di Conti, in Dir. giust., 2003, 41, 42, con nota di
Colasanti), ha affermato che la disposizione in virtù della quale si presume la vessatorietà della clausola con cui
si designa come sede del foro competente, in relazione
alle controversie derivanti dal contratto concluso tra un
professionista e un consumatore, una località diversa da
quella di residenza o domicilio elettivo di quest’ultimo
istituisce la competenza territoriale esclusiva del giudice
del luogo di residenza o domicilio elettivo del consumatore (in motivazione, la corte ha specificato che una deroga è ammissibile soltanto se il professionista provi che,
nel caso concreto, non determina squilibrio dei diritti e
degli obblighi derivanti dal contratto).
La terza delle massime in epigrafe costituisce una novità
nel panorama della giurisprudenza di merito, ed affronta il problema della qualificazione giuridica di un contratto sino ad oggi mai pervenuto all’esame delle corti.
Per agio del lettore, può essere opportuno ricordare che
la vendita allo scoperto (o short selling) rientra nel genus
dei contratti finanziari. Differisce dalla ordinaria ipotesi
di compravendita di titoli perché in quest’ultima il risparmiatore normalmente acquista un prodotto finanziario al fine di renderlo ad un prezzo superiore, lucrando così sulla differenza tra quanto speso per acquistare i
titoli, e quanto ricavato dalla vendita. nel contratto di
vendita allo scoperto il meccanismo è diametralmente
opposto: il risparmiatore vende sul mercato titoli (che
non possiede), sperando di poterli nuovamente acquistare ad un prezzo inferiore rispetto quello ricavato dalla vendita. Caratteristica dell’operazione, come accennato, è che il venditore non possiede il titolo che intende vendere, ragion per cui se lo fa «prestare» (recte, concedere in godimento) dall’intermediario finanziario, alla quale per questo servizio viene ovviamente riconosciuta una provvigione.
L’operazione di vendita allo scoperto, da un punto di vista tecnico, si divide in due fasi:
(a) nella prima fase, il risparmiatore vende i titoli «prestatigli» dall’intermediario, pagando il prezzo e versando
altresì a quest’ultimo una somma di denaro a garanzia
(margin account), nel caso in cui il prezzo dei titoli venduti anziché scendere, come auspicato, dovesse salire;
(b) nella seconda fase, il risparmiatore riacquista i titoli
sul mercato, utilizzando il controvalore della vendita ed
GIURISPRUDENZA•SINTESI
il margine di garanzia. La differenza tra quanto incassato
dalla vendita e quanto speso per il riacquisto costituisce
l’utile (o la perdita) dell’operazione di vendita allo scoperto.
Lo short selling può esaurirsi nell’arco di un solo (intraday)
o protrarsi per più giorni (multiday), ma comunque sempre entro un termine relativamente ristretto. Si tratta di
una operazione altamente rischiosa, sino a poco tempo
fa riservata solo ai grandi investitori professionali (è opinione ricevuta che la grande crisi economico-finanziaria
degli anni ’30 ebbe tra le proprie concause anche un eccessivo ricorso, a fini speculativi, allo short selling).
Poiché la caratteristica della vendita di titoli allo scoperto consiste nel fatto che il venditore non è proprietario
del titolo venduto, è normale che se il titolo distribuisce
un dividendo questo spetti al legittimo proprietario (e
quindi, di norma, all’intermediario che ha «prestato» il
titolo al risparmiatore per l’operazione di short selling). La
sentenza qui in rassegna, pertanto, sembra avere dilatato
in modo sensibile il dovere di informazione gravante su
di intermediari finanziari, sino a ricomprendervi un naturale negotii che, in quanto effetto discendente direttamente dalla legge, non può ritenersi una caratteristica
del titolo o un fattore di rischio dell’investimento, e pertanto non sembra potersi sussumere nell’obbligo di
informazione.
In merito all’ultima delle massime deve ricordarsi come
in merito alle conseguenze della violazione del dovere di
informazione da parte dell’intermediario finanziario era
sorto un contrasto in seno alla giurisprudenza di merito,
parte della quale riteneva che conseguenza di tale violazione fosse la nullità del contratto, perché contrastante
con norme imperative; altra parte della giurisprudenza di
merito riteneva invece che la violazione del dovere di
informazione costituisse una ordinaria ipotesi di inadempimento (o, al più, una causa di annullamento del contratto per vizio della volontà).
Sulla questione di recente intervenuta la corte di legittimità, la quale ha sposato il secondo degli orientamenti
appena ricordati, stabilendo che La nullità del contratto
per contrarietà a norme imperative, ai sensi dell’art.
1418, primo comma, Codice civile, postula che siffatta
violazione attenga ad elementi intrinseci della fattispecie
negoziale, cioè relativi alla struttura o al contenuto del
contratto, e quindi l’illegittimità della condotta tenuta
nel corso delle trattative per la formazione del contratto,
ovvero nella sua esecuzione, non determina la nullità del
contratto, indipendentemente dalla natura delle norme
con le quali sia in contrasto, a meno che questa sanzione
non sia espressamente prevista anche in riferimento a
detta ipotesi, come accade nel caso disciplinato dal combinato disposto degli art. 1469 ter, quarto comma, e 1469
quinquies, primo comma, Codice civile, in tema di clausole vessatorie contenute nei c.d. contratti del consumatore, oggetto di trattativa individuale (in applicazione di
siffatto principio, la suprema corte ha escluso che l’inosservanza degli obblighi informativi stabiliti dall’art. 6
Legge n. 1/1991, concernente i contratti aventi ad oggetto la compravendita di valori mobiliari, cagioni la nullità
del negozio, poiché essi riguardano elementi utili per la
valutazione della convenienza dell’operazione, sicché la
loro violazione neppure dà luogo a mancanza del consenso: Cass., sez. I, 29 settembre 2005, n. 19024, in Rep. Foro it., 2005, voce Contratto in genere, 1740, n. 74).
I CONTRATTI N. 7/2006
717
CONTRATTI E FISCO•SINTESI
Panorama fiscale
A cura degli Avv.ti SARA ARMELLA e FRANCESCA BALZANI Studio Uckmar
Iva
CESSIONE D’AZIENDA
Agenzia delle Entrate, Risoluzione 3 aprile 2006, n. 48/E
In risposta a un’istanza di interpello, l’Agenzia delle entrate ha precisato quale sia il regime fiscale applicabile in caso di trasferimento di beni aziendali, a seguito dello scioglimento di una società di persone per il recesso del socio, con continuazione dell’attività da parte del socio superstite (Agenzia Entrate 3 aprile 2006,
n. 48/E, in www.agenziaentrate.it).
Nel caso esaminato, il socio superstite chiedeva di conoscere quale fosse il trattamento fiscale applicabile ai
beni d’impresa, precisando che intendeva procedere a scioglimento della società, ex art. 2272, n. 4 Codice civile e alla successiva prosecuzione dell’impresa in forma individuale.
L’Agenzia esclude che l’operazione possa qualificarsi come di trasformazione in senso proprio, ai sensi degli
artt. 2498 Codice civile ss., ritenendo invece che la continuazione dell’impresa in forma individuale sia sempre preceduta dallo scioglimento della società e dalla liquidazione della medesima. Terminata la fase di liquidazione, il patrimonio sociale residuo è assegnato al socio superstite e si determina l’estinzione della società,
ex art. 2312 Codice civile.
Da tale classificazione deriva che l’assegnazione del patrimonio sociale residuo, ossia dell’intero complesso
aziendale facente capo alla società in liquidazione, rientra tra gli atti propri della società e, pertanto, è soggetta all’imposta di registro.
La cessione del «marchio», unitamente all’azienda, non è, quindi, soggetta a Iva e deve scontare l’imposta di
registro nella misura proporzionale, ai sensi dell’art. 4, lett. d), Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131.
In tal senso, l’Agenzia delle Entrate esprime una tesi ricostruttiva diversa da quella accolta da un orientamento giurisprudenziale (cfr., Cass., sez. trib., 26 marzo 2003, n. 4452; Cass., sez. trib., 1° aprile 2003, n. 4974)
che aveva invece previsto la distinta applicazione dell’imposta di registro alla cessione d’azienda e dell’Iva al
trasferimento del marchio.
SALE AND LEASE BACK
Cassazione civile, sez. trib., Sentenza 29 marzo 2006, n. 7296
Confermando un indirizzo già espresso (cfr., al riguardo, Cass., sez. trib., 28 luglio 2000, n. 9944), la Corte di
Cassazione ha confermato il diritto alla deduzione dei canoni di sale and lease back (Cass., sez. trib., 29 marzo
2006, n. 7296, in banca dati Ipsoa Big).
Nel caso di specie, relativo a un avviso di accertamento emesso nei confronti di una società, la contribuente
sosteneva la deducibilità dei canoni relativi a un’operazione di lease back, in quanto assimilabile, ai fini tributari, ad una normale operazione di leasing.
Il Collegio di secondo grado, tuttavia, qualificava il contratto atipico di sale and lease back come un’operazione assimilabile a un finanziamento, nel quale il trasferimento del bene dall’utilizzatore-venditore assumerebbe funzione di garanzia di un prestito, non essendo interesse dell’imprenditore ottenere un bene strumentale,
bensì denaro da utilizzare per la gestione economico-finanziaria dell’impresa.
La Corte di Cassazione, conformandosi a un proprio precedente orientamento giurisprudenziale, ha ritenuto
non corretta l’interpretazione fornita dal giudice di merito. Il contratto di sale and lease back, infatti, configura un’operazione negoziale complessa - consistente nell’alienazione, da parte dell’imprenditore, di un proprio
bene strumentale di cui mantiene la disponibilità in forza di un rapporto di leasing - che non può ritenersi necessariamente preordinata alla finalità di finanziamento, con fraudolenta elusione del divieto di patto commissorio posto dall’art. 2744 Codice civile.
Risulta necessario, perciò, che l’Ufficio dimostri, sulla base di dati sintomatici e obiettivi relativi alla concre-
718
I CO N T R ATTI N. 7/2006
CONTRATTI E FISCO•SINTESI
ta fattispecie, che la causa esclusiva o prevalente del contratto di sale and lease back è la garanzia di un debito,
in elusione del divieto civilistico.
Ne consegue che, non sussistendo una presunzione di illiceità del contratto in esame e ove la causa dello stesso non sia riconducibile allo scopo di garanzia, il contratto di sale and lease back deve essere assimilato a un’operazione di leasing, con conseguente deducibilità, ai fini fiscali, dei canoni percepiti.
Irap
RICERCA E SVILUPPO
Agenzia delle Entrate, Risoluzione 4 maggio 2006, n. 57/E
Ai fini della determinazione della base imponibile Irap, tra i costi sostenuti per il personale addetto alla ricerca e allo sviluppo, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che sono compresi anche i rapporti di collaborazione, non rilevando la tipologia contrattuale in base a cui il personale svolge la propria attività di ricerca
(Agenzia delle Entrate 4 maggio 2006, n. 57/E, in www.agenziaentrate.it).
Com’è noto, l’art. 1, commi 347 e 348, Legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Finanziaria 2005), ha apportato rilevanti modifiche alla disciplina dell’Irap, introducendo nuove deduzioni dalla base imponibile, tra cui la deduzione per i costi sostenuti in relazione al personale addetto alla ricerca e allo sviluppo.
Al riguardo, l’Amministrazione finanziaria ha fornito i primi chiarimenti con la circolare 13/E del 2005, con
la quale ha precisato che la deduzione può essere operata sia con riferimento ai costi sostenuti per il personale addetto alla ricerca di base (attività che rivestono un’utilità generica per l’impresa), sia con riferimento alla ricerca applicata e allo sviluppo (attività finalizzate ad uno specifico progetto).
Con la risoluzione in commento, l’Agenzia ha precisato che il datore di lavoro può fruire di tale deduzione,
oltre che in relazione ai costi sostenuti per il personale dipendente, anche per le spese sostenute per i lavoratori a progetto e per gli amministratori. In sostanza, l’agevolazione in esame trova applicazione anche per i costi relativi agli addetti alla ricerca e allo sviluppo che operano sulla base di rapporti di collaborazione e agli
amministratori, nella misura in cui le stesse siano riferite alle competenze espletate da tali lavoratori nell’ambito della ricerca e dello sviluppo.
Tale conclusione emerge sia dal dato letterale della citata norma, che non subordina il riconoscimento dell’agevolazione alla circostanza che il lavoratore operi sulla base di un particolare contratto di lavoro, sia in
virtù della ratio legis, finalizzata a incentivare e agevolare ricerca e sviluppo e non un particolare tipo di occupazione.
I C ONTRATTI N. 7/2006
719
ARGOMENTI•DIRITTO D’AUTORE
Licenze pubbliche di software
e contratto
di CARLO PIANA
Il presente articolo (1) (2) si propone di indagare (3) sulla natura contrattuale o meno delle licenze pubbliche di software e in generale di materiale soggetto a diritto d’autore (4). Più precisamente, se sia necessario ritenere che una licenza pubblica di software o di contenuti artistici sia un contratto o non possa
essere (anche e soprattutto) qualcos’altro. O meglio ancora, se l’atto giuridico che importa disposizione
del diritto d’autore per una o più copie di un programma per computer o di contenuti artistici con licenza
pubblica sia necessariamente un contratto.
La species «licenza pubblica» fa ovviamente parte del
genus «licenza». Se per la seconda abbiamo una certa
evoluzione dottrinale che la inquadra con una sufficiente coerenza, per la prima non riscontriamo una trattazione sistematica, tuttalpiù si rinvengono analisi su
casi singoli, che però non operano la generalizzazione
che secondo me è possibile. Per comprendere quale sia la
specificità, e insieme il tratto caratteristico di questa
specie, dunque, è necessario procedere dai pochi punti
fermi a nostra disposizione.
Diritto d’autore e smaterializzazione
dei contenuti
I
diritti d’autore su un’opera circolano con gli stessi
strumenti previsti per gli altri diritti. Non è stata dettata una disciplina completa ed esaustiva degli atti
con i quali i diritti su un’opera vengono trasmessi o concessi.
Si è soliti menzionare che di un’opera è possibile disporre
in due modi: del diritto in sé, quale bene immateriale, o
di un singolo diritto puntuale di utilizzo. L’atto con cui si
esercita tale ultima puntuale disposizione del diritto concessione viene chiamato «licenza». Per la licenza si è
sempre data per scontata la natura contrattuale, salvo
controvertere sul tipo contrattuale più rispondente al
contratto stipulato con l’utente finale: per alcuni locazione di cose, per altri vendita, per altri ancora appalto o contratto «puramente» atipico. Non ci vogliamo
addentrare in tale questione, se pur abbiamo dato tempo
addietro una nostra personale classificazione per quanto
riguarda il software (5).
Ma non sempre ci si è concentrati sulla «licenza». Storicamente l’analisi della tutela del diritto d’autore è incentrata sull’acquisto della copia, e il diritto d’autore è
inteso come un limite alla riproducibilità ulteriore della
copia stessa, anche se da sempre non si ignora la possibilità di una «smaterializzazione» del diritto (come ad esempio quello di rappresentare un’opera musicale o
teatrale).
Per le opere letterarie è piuttosto semplice infatti ri-
720
I CONTRATTI N. 7/2006
Note:
(1) L’idea per l’articolo nasce da uno spunto fornito dall’Avv. Fabrizio
Veutro (professore a contratto di Istituzioni di Diritto Privato, Facoltà di
Scienze dell’Università degli Studi di Milano) su una lista di discussione
della FSFE-Italia e riflette un anno di rielaborazioni e scambi d’opinione
con vari studiosi nell’ambiente, tra cui mi preme citare il Prof. Lawrence
Lessig. Desidero ringraziare per la collaborazione il Dr. Claudio Palmieri,
che ha contribuito alla ricerca di parte del materiale.
(2) Il presente articolo viene concesso dall’autore sotto le condizioni della Creative Commons «attribution - share alike» (vedi http://www.creativecommons.it/Licenze/LegalCode/by-sa) e a condizione che venga sempre
citata la Rivista come fonte originaria. Per altri utilizzi occorre il permesso
espresso dell’editore della Rivista, o in alternativa operare secondo le condizioni previste dalla dichiarazione inerente il diritto d’autore della stessa.
(3) Volutamente ci si limita a una prospettiva interna della qualificazione, per evidenti ragioni di focalizzazione dell’attenzione agli aspetti contrattuali. Ciò non toglie che l’utilizzo di una legge diversa da quella interna, anche mediante una clausola contrattuale, comporta che l’analisi
debba essere effettuata alla luce dell’applicazione di quella legge, ai sensi
dell’art. 8 della Convenzione di Roma. Tale scelta della legge applicabile
viene effettuata ad esempio nelle licenze Creative Commons, mentre
non viene effettuata nella GNU GPL. Si parte dunque dal postulato che
le norme di diritto internazionale privato conducano all’applicazione della legge italiana.
(4) In dottrina l’intervento più rilevante - in tema di licenze di software
libero o open source - si deve a V. Zeno-Zencovich - P. Sammarco, Sistema e archetipi delle licenze open source, AIDA, 2004, 234 ss. a cui facciamo riferimento per un’ampia bibliografia e un’esauriente inquadramento dottrinale. Nella stessa opera, da notare di M. Saverio Spolidoro Open
source e violazione delle sue regole, ibidem, 92 ss., in particolare 99, dove
parla della GPL come «regola giuridica [...] che trascende gli effetti (pur essi in un certo senso «generali») della contrattazione di massa e tende a manifestare caratteri e valore di «di diritto obiettivo», garantita dall’ampia accettazione da parte della comunità di hackers e dalla sua innegabile rilevanza economico sociale». Da cui sorge la domanda se la GPL non abbia generato
un uso normativo, domanda cui preliminarmente mi sembra di dover
dare risposta positiva. Ne ha trattato ancora recentemente M. Bertani,
Profili giuridici delle licenze di software libero / open source nell’ordinamento
italiano, in I quaderni di dirittodautore.it, Anno III, n. 24, all’URL
http://www.dirittodautore.it/quaderni.asp?mode=3&IDQ=82, senza però
offrire una propria posizione. In un risalente scritto, lo stesso autore sembra dare per probabile la qualificazione propriamente contrattuale, in
Guida alle licenze di software libero e open source, Nyberg Edizioni, 74 ss.
(5) C. Piana, Millenium Bug e Diritto Civile, intervento al convegno Millennium bug e la legge, Treviso, 1999, pubblicato su http://www.studiocelentano.it/editorial/ed020100i.htm (in particolare, cap. «Qualificazione dei
contratti costitutivi di diritti di utilizzo del software»).
ARGOMENTI•DIRITTO D’AUTORE
conoscere nella copia a un tempo la facoltà di circolazione dei contenuti e i limiti alla riproducibilità (consistenti sostanzialmente nei cosiddetti «usi legittimi»),
per lo più imposti o consentiti per legge. Pertanto solitamente ci si rifà al contratto di vendita, e il discorso lì
cade, il diritto è sostanzialmente «incorporato» nell’oggetto.
Per altre opere, intrinsecamente, non è così. Si pensi alle
opere cinematografiche, in cui la fruibilità non è condizionata tanto dal diritto di copia, e dunque dall’oggetto materiale acquistato, quanto dal tipo di diritti di riproduzione acquisiti. Lo stesso atto da un punto di vista
fenomenologico (l’acquisto o la locazione di una pellicola cinematografica) viene vestito dal contratto di caratteristiche tutt’affatto differenti. In un caso, ad esempio,
viene concesso il diritto di visionare privatamente l’opera, in un altro viene assicurato il diritto di farne una
pubblica proiezione in una sala cinematografica. Tuttavia, anche qui il diritto è legato a un’opera materialmente individuabile, in cui vi è un tutt’uno tra l’opera e
il mezzo. Non v’è dubbio, infine, che tra le parti (casa di
produzione/distribuzione, gestore del cinema e utenti finali) vi siano relazioni contrattuali.
Per altri casi non appare essere più così. Col mezzo radiofonico, e poi con il mezzo televisivo, la relazione tra il
titolare del diritto di riproduzione e i fruitori del servizio
non ha tradizionalmente una natura contrattuale, perché il servizio viene erogato a una massa indistinta di
persone senza la possibilità di tenere traccia di chi abbia
usufruito dell’opera e chi no, e senza la possibilità per chi
non ha usufruito dell’opera - nonostante ne avesse il
«diritto» - di reclamare alcunché (ad esempio per interruzione del servizio in una particolare zona).
Si tratta di una fruizione pubblica nel vero senso della
parola. È per effetto della diffusione pubblica che l’utente riceve la possibilità e il «diritto» di assistere dunque di fruirne - all’opera, incluso quello di farne una
copia per uso personale al fine di visionare la stessa in un
tempo diverso («timeshifting»).
Si ha nel caso appena esaminato l’assenza di una catena
contrattuale nella trasmissione dei contenuti, i quali lasciano il supporto fisico e si astraggono definitivamente
(6). L’utente finale, per l’avvenuta diffusione, acquisisce
una legittimazione all’uso in assenza di un vero e proprio
rapporto diretto con il titolare del diritto. Ma ciò
avviene solo nei limiti previsti dalla legge, ovvero l’uso
personale e i diritti cosiddetti di «fair use». Il titolare dei
diritti di sfruttamento economico potrà sempre contestare all’utente usi estranei a quelli previsti per legge,
ma allo stesso tempo l’utente potrà invocare la legittimità dell’uso contro pretese illegittime del titolare. La pubblicazione, dunque, determina un assetto di diritti reciproci.
Il software segue una strada per certi versi simile, ma per
altri diversa. Una via che porta dalla stretta correlazione
fisica tra il sostrato materiale e il contenuto intellettuale
degli algoritmi computazionali, a una situazione di as-
trazione in cui la stessa sequenza o insieme di sequenze di
istruzioni possono passare da un computer all’altro più o
meno indifferentemente da un qualsivoglia trasferimento fisico.
All’inizio al software veniva data poca importanza di per
sé, ed era semplicemente un accessorio indispensabile di
macchinari dalla cui vendita il produttore traeva le proprie utilità. L’incompatibilità del software concepito e realizzato per una determinata piattaforma rispetto alle altre piattaforme hardware faceva sì che il problema principale del diritto d’autore fosse quello di evitare il reverse
engineering, ovvero il processo di portare un programma
da una piattaforma all’altra tramite la «decompilazione».
A partire dagli anni settanta del secolo scorso cominciarono a nascere piccole - e poi sempre più grandi - realtà
che realizzavano software senza produrre il relativo hardware. La distribuzione avviene inizialmente come per i
libri: si acquista una scatola da uno scaffale (o dentro una
scatola più grande che contiene computer e programmi), nella quale è inserito un contratto di licenza, il
quale pretende di regolare i rapporti tra utilizzatore e
titolare dei diritti di sfruttamento economico. Tante
copie stampate e vendute, tanti contratti conclusi. Le
analisi giuridiche sulla natura del contratto di software si
concentrano, anche per la rilevanza economica, su
questi tipi di prodotti e di contratti.
Ma non è così semplice. In realtà molto del software nei
personal computer (che prendiamo come caso paradigmatico di un problema più complesso) viene fornito all’utilizzatore mediante l’installazione del produttore del
computer al momento della vendita. I contratti dei produttori di software con i produttori di computer (contratti OEM) prevedono ormai una «smaterializzazione»
dell’opera: il rispetto dei diritti del produttore del software non viene più testimoniato dall’acclusione di una
«scatola», ma dall’apposizione di un’etichetta da apporre al computer o da un certificato che testimonia che
l’OEM ha registrato la copia installata e pagato il corrispettivo al produttore del software.
Non tutto il software però viene venduto. Nemmeno
tutti i contenuti vengono venduti. Internet e la distribuzione in via telematica del software che la stessa ha reso
quasi banale, hanno consentito la fioritura di una sterminata congerie di sistemi di protezione legale del
software, o addirittura anche di non protezione (messa in
pubblico dominio, abandonware). Molto di questo
software viene dato in licenza a un pubblico indistinto,
senza richiesta di un corrispettivo, addirittura senza la richiesta di accettazione espressa delle condizioni proposte. Licenze, dunque, «pubbliche».
Nota:
(6) Individua argutamente (e autorevolmente) il fenomeno M. Ricolfi,
Software e limitazioni delle utilizzazioni del licenziatario, in Annuari AIDA,
2004, 365-6, dando una corretta indicazione del rapporto tra il bene immateriale e l’esemplare, quantomeno per il cosiddetto software «consumer».
I CONTRATTI N. 7/2006
721
ARGOMENTI•DIRITTO D’AUTORE
Nel diritto italiano abbiamo molte accezioni dell’attributo «pubblico» connesso a un diritto: dal concetto amministrativistico di «servizio pubblico» o «utilità pubblica», che non ci è di interesse alcuno, all’offerta al pubblico, alla sollecitazione al pubblico risparmio, al «pubblico locale» o a quello «avente contatto con il pubblico», e, in diritto civile, la servitù pubblica («dicatio ad patriam»). Recentemente si è fatto largo, soprattutto nella
giurisprudenza penale, il concetto di diffusione pubblica
di contenuti destinati ad un pubblico familiare con riferimento alla pay tv. Gli ultimi esempi testimoniano dell’esistenza di un concetto di pubblico nel senso «chiunque intenda usufruirne» che possiamo mutuare ai nostri
fini.
Prendiamo ad esempio un parcheggio pubblico per automobili. Un parcheggio pubblico, nell’accezione comune, può essere un parcheggio di proprietà pubblica
offerto al pubblico senza necessità di pagamento, un
parcheggio di proprietà pubblica offerto al pubblico con
obbligo di pagamento, un parcheggio privato offerto al
pubblico con obbligo di pagamento e un parcheggio di
proprietà privata offerto al pubblico senza necessità di
pagamento. In quest’ultima categoria abbiamo non solo
i parcheggi destinati ad uso pubblico per asservimento
convenzionale (ad esempio, in sostituzione di oneri di
urbanizzazione), ma anche per unilaterale volontà del
proprietario (pensiamo ad esempio al parcheggio di un
supermercato, ove chiunque può accedere senza particolari formalità). In questi casi il proprietario mette a
disposizione un bene in modo che chiunque possa usufruirne, senza pretendere un corrispettivo, né per questo
opera una liberalità. Esattamente come l’operatore televisivo trasmette contenuti pubblicamente, senza pretendere un canone o un abbonamento - e lo fa per fini
egoistici, non per liberalità - un titolare di diritti economici di sfruttamento pone a disposizione per un determinato uso la propria opera, senza per questo rinunciare totalmente ai propri diritti su quell’opera e senza spogliarsi di ogni diritto in tal senso, senza dunque porre
l’opera in pubblico dominio.
Le licenze pubbliche, loro struttura e scopo:
l’esempio del software libero
Prenderemo a paradigma la licenza GNU (7) GPL (8)
(di seguito semplicemente GPL), perché è stata la prima
vera licenza pubblica di software propriamente detta.
Concepita da Richard M. Stallmann, fondatore della
Free Software Foundation, è una licenza del tutto particolare in quanto non restringe il diritto di copia o di utilizzo del software (copyright), ma punta a far sì che qualunque opera includa codice soggetto a licenza GPL debba a sua volta essere licenziato sotto tale licenza (9),
avendo per così dire un effetto «virale». Ma la viralità
non è il punto fondamentale che ci interessa, anche perché la stessa Free Software Foundation ha concepito una
licenza pubblica senza la caratteristica di viralità, ovvero
la GNU LGPL (10), ed esistono altre licenze pubbliche
722
I CONTRATTI N. 7/2006
che non hanno tale caratteristiche, per le quali la presente analisi si applica pari-pari (11).
Sull’esempio e a seguito della fortuna che le licenze di
software libero hanno avuto, sono state concepite licenze simili anche nel settore dei contenuti autorali diversi
dal software, l’esempio più famoso delle quali sono le
«Creative Commons», concepite da Lawrence Lessing,
professore di diritto alla Stanford University.
Queste licenze hanno tutte in comune la caratteristica
di essere generali e pubbliche, di non richiedere necessariamente un’accettazione espressa delle proprie condizioni, ma ciò nonostante - ed è questo l’aspetto più importante per noi - di imporre condizioni agli utilizzatori. Esse concedono non soltanto il diritto di riproduzione o
fruizione personale dell’opera, ma anche quello di riprodurla e - sicuramente per la GNU GPL e LGPL, ma anche per molte delle licenze Creative Commons e per le
altre licenze di software libero, di trarne opere derivate.
Non soltanto il pubblico ha il diritto consentito all’utente finale, viene trasferita una volta per tutte una parte del diritto in sé, che comprende fondamentali aspetti
del bene giuridico, alcuni diritti di sfruttamento economico. Tale diritto viene acquisito in forza della pubblicazione dell’opera sotto la rispettiva licenza, almeno ciò è
quanto ci proponiamo di dimostrare. Ma il titolare non
concede tale diritto in toto, lo fa solo ad alcune condizioni. Tizio acquista il diritto, ma per esercitarlo deve sottoporsi al volere, riguardo a tale diritto, imposto da chi
glielo conferisce.
Ciò desta scandalo. Nella nostra tradizione giuridica, la
possibilità di imporre obblighi o condizioni a un altro
soggetto in occasione del trasferimento di un diritto, viene realizzata per mezzo di un’obbligazione di tipo contrattuale. Non sempre è però così. Saltuariamente si ricorre invece a fattispecie minori, quale il modo, che non
è un’obbligazione, ma può consentire la revoca della doNote:
(7) GNU è acronimo ricorsivo di Gnu’s Not Unix («Gnu non è Unix»).
Unix è un sistema operativo nato negli anni sessanta in ambito universitario, che ha dato origine a una serie di versioni del medesimo reciprocamente incompatibili e licenziate sotto condizioni «proprietarie». GNU è
dunque il progetto per ricreare un sistema operativo Unix concesso in licenza di software libero, appunto la GNU GPL. La combinazione di
GNU e Linux - che, contrariamente a quanto si pensa, è soltanto il «kernel» («nocciolo»), il nucleo centrale del sistema operativo - ha dato origine a GNU/Linux, il sistema operativo più diffuso dopo Microsoft Windows.
(8) General Public License.
(9) Da qui la definizione di «copyleft», che è un gioco di parole con copyright, in quanto «left» («sinistra») è l’opposto di «right» («destra»), ma le
parole significano in concreto «diritto» («right») e lasciato («left»). Copyleft significa che una volta un’opera è rilasciata in maniera liberamente
fruibile, rimanga fruibile chiunque la usi e la commercializzi in forme ulteriori o derivate, rimanga perciò «pubblica».
(10) Lesser General Public License.
(11) Un esempio rilevante è la cosiddetta licenza BSD, famosa in campo
informatico perché regola l’uso dei sistemi operativi derivati da quello
omonimo, fra cui anche il MacOSX di Apple.
ARGOMENTI•DIRITTO D’AUTORE
nazione. Anche la costituzione di diritti limitati, nel
tempo, nello spazio e nell’estensione del diritto, viene
solitamente effettuata contrattualmente. Si pensi alla
costituzione di un usufrutto o di una servitù non coattiva (12). Si tende a pensare che per realizzare una mediazione tra piena e incondizionata proprietà (o titolarità di
un diritto) e completo abbandono occorra un contratto
che regoli tra le parti i diritti relativi.
L’esempio del parcheggio del supermercato può essere illustrativo: il proprietario concede a suo piacimento la
possibilità di utilizzo del bene, ma si riserva la possibilità
di regolamentarlo successivamente (ad esempio, richiedendo che l’utilizzatore effettui un minimo di spesa).
Un’opera di carità può ospitare i bisognosi, ma si riserva
il diritto di decidere chi sia il bisognoso e di allontanare
chi non si confà ai regolamenti interni. Una chiesa viene aperta al pubblico dei fedeli per un determinato periodo, ma non necessariamente chiunque può entrarvi, e
non desta scandalo che i preposti rifiutino l’accesso a chi
non è abbigliato convenientemente. Si tratta di esempi
marginali, è vero, ma pur sempre eccezioni a una regola
che appare semplicemente d’esperienza, e non giuridica.
Chi entra in chiesa, infatti, non si obbliga a permanervi,
ma per permanervi deve attenersi a un comportamento
conoscono. Chi si avvale di un rifugio per la notte non si
obbliga a nulla, ma per il tempo in cui usufruisce dell’ospitalità gratuita è giustificato a permanere nel centro di
ospitalità, ma nel contempo deve attenersi alle regole
imposte.
La stessa Corte di Cassazione, in materia del tutto differente (13), ritiene che vi siano fattispecie che ingenerino obbligazioni (art. 1173 Codice civile) anche al di fuori di una specifica previsione legislativa, anzi che «trascendono le singole disposizioni legislative», in virtù di
principi generali. Obbligazioni senza contratto, dunque,
anche se non direttamente imposte dalla legge o derivanti da fatto illecito. Nel caso che ci occupa, tuttavia,
non occorre arrivare a tanto, come vedremo innanzi.
La licenza pubblica è un contratto?
Sinora ci siamo dedicati alla part destruens, confutando la
necessità che ogni tipo di restrizione all’uso di una cosa
che rimane di proprietà altrui debba essere effettuata con
un contratto, o che addirittura possano nascere obbligazioni senza contratto. Resta da definire la pars construens,
ovvero, qual è la natura giuridica dei vincoli che impediscono all’opera pubblicamente accessibile di essere utilizzata per ogni e ciascuno scopo quasi come fosse res nullius. Abbiamo dato, per quanto possibile, dimostrazione
che non è necessario passare per il contratto per giustificare tali vincoli. Aver falsificato il sillogismo «tutte le
volte che si concede un uso regolamentato occorre un
contratto, per cui la licenza è un contratto» non vuol dire necessariamente affermare il sillogismo contrario.
Ipotizzando che si tratti di contratto, sarebbe un contratto ad adesione, e traslativo. L’oggetto del contratto sarebbe un diritto inerente il software o il contenuto arti-
stico, nel caso delle licenze di software libero e di alcune
delle Creative Commons esso sarebbero a un tempo l’esemplare e il bene immateriale (14).
Stiamo operando una qualificazione in senso generale,
dunque occorre riferirsi a una definizione, per quanto generica essa possa essere. Pare ovvio dunque citare l’art.
1321 Codice civile, per cui un contratto è l’accordo tra
due o più parti per costituire, regolare o estinguere una situazione giuridica patrimoniale. Se per la seconda parte
dell’articolo non sorgono problemi, mi si permetta di dubitare che una licenza pubblica sia «accordo». Per quanto lassa la ricostruzione di un accordo possa essere, tanto
da comprendere il contratto di fatto (15), o il contratto
con obbligazioni del solo proponente, dunque un contratto senza dichiarazioni e uno con dichiarazioni di una
sola delle parti, la sostituzione dei comportamenti alle
dichiarazioni deve pur sempre avvenire tramite un comportamento che ingerisca la sfera altrui, e dunque manifestare un’interrelazione tra le parti contrattuali, sia pure
attraverso atti di esecuzione non preceduti da dichiarazioni (16). Nella licenza pubblica di software, invece, tale interrelazione non esiste, o se esiste avviene su un medio che è al di fuori della pretesa controparte contrattuale. Non esiste, dunque ingerenza nella sfera altrui, né da
parte del «licenziante», né da parte del «licenziatario»,
Note:
(12) Ma non sempre: la costituzione di una servitù pubblica (dicatio ad publicum) può ad esempio essere effettuata anche senza un atto di asservimento, ma attraverso un comportamento (cfr. da ultimo, ex multis, Cass.,
sez. II, 12 agosto 2002, n. 12167, in Mass. Giust. civ., 2002, 1531).
(13) Cass. 22 gennaio 1999, n. 589 (pubblicata in questa Rivista, 1999,
999 ss.), in tema di responsabilità da «contatto sociale», afferma ad esempio che «Suggerita dall’ipotesi legislativamente prevista di efficacia di taluni contratti nulli (art. 2126, primo comma, 2332, secondo e terzo comma, Codice civile, art. 3, secondo comma, Legge n. 756/1964), ma allargata altresì a comprendere i casi di rapporti che nella previsione legale sono di origine contrattuale e tuttavia in concreto vengono costituiti senza
una base negoziale e talvolta grazie al semplice «contatto sociale» (secondo un’espressione che risale agli scrittori tedeschi), si fa riferimento,
in questi casi al «rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale».
Con questa espressione si riassume una duplice veduta del fenomeno, riguardato sia in ragione della fonte (il fatto idoneo a produrre l’obbligazione in conformità dell’ordinamento - art. 1173 Codice civile) sia in ragione del rapporto che ne scaturisce (e diviene allora assorbente la considerazione del rapporto, che si atteggia ed è disciplinato secondo lo schema dell’obbligazione da contratto). La categoria mette in luce una possibile dissociazione tra la fonte - individuata secondo lo schema dell’art.
1173 - e l’obbligazione che ne scaturisce. Quest’ultima può essere sottoposta alle regole proprie dell’obbligazione contrattuale, pur se il fatto generatore non è il contratto».
(14) Secondo la classificazione operata da M. Ricolfi, cit. in nota.
(15) Per una trattazione critica, si veda R. Sacco - G. De Nova, Il contratto, in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, X, 1995, 54 ss.
(16) Nei casi tipici del contratto di fatto: l’intermediazione prevede la definizione dell’affare conoscendo l’opera del mediatore che ha messo in contatto le parti, le quali ne hanno approfittato; nelle prestazioni di lavoro, appunto la preposizione e la resa delle prestazioni di lavoro subordinato; nel
contratto d’acquisto di un bene al supermercato, la presentazione del bene stesso alle casse e il suo pagamento; nella società di fatto l’intuitus societatis e la comune organizzazione d’impresa.
I CONTRATTI N. 7/2006
723
ARGOMENTI•DIRITTO D’AUTORE
che non vengono mai a contatto, essendo la licenza destinata a «chiunque».
Non mi pare dunque applicarsi al caso di specie la categoria dottrinale del contratto di fatto. Se anche questa si
applicasse, tuttavia, il risultato sarebbe meramente qualificatorio, e non si estenderebbe alla disciplina. Il contratto di fatto praticamente non ha altra disciplina se
non quella immediatamente riconducibile a quella legale o, tutt’al più, a quella sociale degli usi normativi e contrattuali, ma non è legata alla dichiarazione fatta da una
delle parti, perché non ve n’è. Ci si potrebbe, è vero, rifare alle condizioni generali di contratto, ma anche per
questa via non è possibile, a mio parere, ricostruire una
seria vincolatività della disciplina imposta dall’autore, e
comunque ciò non risolve il caso in cui il software o il
contenuto autorale venga privato della dichiarazione di
copyright, dunque le condizioni non siano conoscibili
dall’oblato.
Limiti nell’approccio contrattualistico:
la patologia
È nella patologia che rinveniamo i limiti più forti di una
teoria esclusivamente contrattuale. Poniamo il caso che
Tizio rilasci del software sotto licenza GPL, e che Caio,
violando tale licenza, elimini i riferimenti alla stessa e distribuisca il prodotto pari-pari sotto licenza «proprietaria». Sempronio trova tale prodotto interessante per la
sua azienda e lo utilizza violando la licenza proprietaria,
ma senza rivenderlo e senza compiere atti contrari alla licenza originaria. Si può dire che Sempronio abbia un
rapporto contrattuale con un titolare che neppure conosce, per un programma software che crede di stare utilizzando illecitamente? Se è il contratto la fonte del conferimento del diritto di utilizzo (che originariamente appartiene al titolare dei diritti esclusivi, art. 64 bis ss. Legge sul Diritto d’Autore), allora l’utilizzo è illegittimo. Un
ipotetico Mevio, invece, che abbia iniziato a utilizzare lo
stesso prodotto, sapendo che il programma era stato originariamente trafugato, ma che esternamente si è comportato esattamente nello stesso modo, ha pieno diritto
di usare lo stesso programma, ottenuto con le stesse modalità.
Un altro caso può essere altrettanto, se non più, illuminante. Tizio produce e distribuisce un prodotto software
sotto licenza GPL. Caio inizia a utilizzare tale prodotto
quando viene licenziato sotto GPL, e lo consegna anche
a Sempronio. Successivamente Tizio decide di non distribuire più il codice sotto GPL, ma di imporre una licenza proprietaria. Mevio riceve da Caio lo stesso programma, successivamente al cambio di licenza (17). Secondo la tesi contrattuale Mevio non potrebbe utilizzare
il programma perché non può concludere un contratto
con chi nel frattempo ha revocato la propria proposta
contrattuale. Però Caio ha il diritto contrattualmente riconosciuto, di redistribuire il codice, e di modificarlo.
Per risolvere tale antinomia si dovrebbe riconoscere che
la licenza di Mevio deriva non da Tizio, ma da Caio, per
724
I CONTRATTI N. 7/2006
cui se riceve lo stesso programma da un quisque de populo,
diverso da Caio non può utilizzarlo e redistribuirlo. Ma
come fa Mevio a sapere se Caio ha ricevuto una valida licenza, ovvero, quando ha concluso il contratto? E qual è
il fatto o l’atto con il quale il contratto è stato concluso?
Come si esterna la volontà di concludere il contratto?
Come fa Tizio a sapere se Mevio ha ricevuto il software
da Caio o da Sempronio?
Altre ipotesi: l’atto unilaterale
V’è chi si rifà all’offerta pubblica (18), la quale vincola
l’autore sino a che non sia revocata con mezzi idonei, e
se revocata con gli stessi mezzi con cui è stata effettuata,
la revoca è efficace anche per chi non l’ha conosciuta.
Tale teoria mi convince assai meno della tesi del contratto di fatto. Innanzitutto si tratta appunto di un’offerta che richiede una qualche forma di accettazione, anche implicita, ma pur sempre in modo recettizio, a meno
che non si tratti di un contratto con prestazioni del solo
proponente (19), cosa che qui è esclusa. Ma soprattutto
per la revocabilità e per il meccanismo di attribuzione
del diritto. Se l’offerta è revocabile, l’autore che ha pubblicato l’opera potrebbe sempre controllare l’ulteriore redistribuzione dell’opera, mentre invece ha attribuito tale
redistribuzione alla sua prima controparte contrattuale.
Anche qui si avrebbe l’assurdo che l’offerta revocata non
consentirebbe di acquistare il diritto dall’autore, ma l’avrebbe da chiunque l’abbia già utilizzata in una delle forme previste dalla licenza stessa, come in forma privata.
Ritorniamo al punto di prima.
Residua dunque un atto unilaterale dispositivo (in senso
autorizzativo) di natura non (necessariamente) contrattuale. I test legali applicabili mi sembrano positivi. Un
atto unilaterale trova la sua disciplina generale nelle
norme generali sul contratto, in quanto compatibili (art.
1324 Codice civile), il che evita molte delle antinomie
Note:
(17) In realtà questo ragionamento risente di una visione arcaica e legata al concetto letterale di «copyright». L’oggetto della protezione è infatti il contenuto o il software di per sé, non la copia, ed è irrilevante la fonte di approvvigionamento dello stesso, e dunque dovrebbe essere ininfluente anche la modalità di consegna (o non consegna) per l’attribuzione del diritto di utilizzo. Se posso ottenere il software contenuto nel programma X da Tizio e legalmente utilizzarlo, senza che questi proferisca parola, lo stesso software può essere utilizzato se viene ottenuto da Caio, perché quello che conta, anche fenomenologicamente, è il trasferimento del
diritto, non della copia. Se dunque almeno una persona ha il diritto di trasferirmi tale diritto, il titolare originale non può ritirare tale diritto, e per
ottenere quel diritto io devo - in ipotesi - semplicemente utilizzare il programma senza nulla chiedere o dire al cessionario, chiunque ha quel diritto, e ogni diversa determinazione del titolare è velleitaria. Esattamente come una volta che il segreto è rivelato a un terzo non obbligato al segreto, esso cessa di essere un segreto.
(18) La quale dà comunque spunti interessanti quanto alla possibilità che
una dichiarazione pubblica possa concedere ipso facto diritti potestativi
alla generalità dei terzi, anche se limitati alla possibilità di concludere un
contratto alle condizioni proposte.
(19) In tale ultima accezione vedi R. Sacco, Il contratto, cit. 31, in nota.
ARGOMENTI•DIRITTO D’AUTORE
che ci si aspetterebbe. Inoltre, per saggiare la vincolatività dell’atto non si può sfuggire alla previsione dell’articolo 1322 Codice civile, e anche qui mi pare che il risultato non possa essere che positivo. Una licenza pubblica
persegue infatti un fine legittimo e meritevole di tutela,
in quanto persegue la libera manifestazione e diffusione
del pensiero, che è costituzionalmente tutelata, per le
opere artistiche e letterarie, e finalità di progresso tecnico e scientifico della collettività, nonché dell’economia
generale, sicuramente protetti dai principi costituzionali
di solidarietà e mutualità. Inoltre, la diffusione di materiale con licenze pubbliche gratuite tutela un modello
imprenditoriale che prevede la remunerazione in utilità
diverse dal corrispettivo monetario, sicuramente rientrante nella libertà di intrapresa prevista dall’art. 41 Cost. Tale remuneratività può consistere ad esempio nella
maggiore notorietà di un produttore di software, nell’offerta di servizi connessi, nel dare maggiore valore a un
bene fisico che incorpora del software, nello scambio
non corrispettivo della messa a disposizione di codice e
di contenuti con il ricevimento di contributi che migliorano e completano l’opera (come ad esempio nei sistemi
«wiki» (20)). Quanto alla causa (che deve pur sempre
reggere gli atti di sacrificio patrimoniale, e le obbligazioni), essa non discrimina tra una e l’altra ipotesi.
Zeno-Zencovich e Sammarco (21) esaminano effettivamente la possibilità che si tratti, come detto, di un atto
unilaterale dispositivo, un «atto di rinuncia» (22), ma lo
escludono in quanto - secondo gli autori - difetterebbe
«un’effettiva ed immanente perdita patrimoniale in capo al soggetto che compie l’atto di disposizione». Se pure si concorda con la premessa maggiore (per avere rinuncia occorre la perdita patrimoniale), il ragionamento mi pare inficiato dalla premessa minore. A me pare
che rilasciando un contenuto o del software con una licenza pubblica, sicuramente il titolare dei diritti di sfruttamento non si spossessa della titolarità del bene, ma sicuramente si spoglia in maniera definitiva di una parte
non irrilevante del proprio diritto, che è il bene, trattandosi di un bene prettamente giuridico. Il titolare rinuncia in via definitiva a una parte dei diritti riconosciutigli,
primo fra tutti quello di controllare le ulteriori copie. Si
obietterà che non è vero che il titolare rinunci a tale diritto, in quanto pretende comunque di controllare la distribuzione del codice qualora avvenga in difformità alla
licenza scelta. Ma una rinuncia parziale (ripeto: in senso
autorizzativo) a me sembra possibile anche in tal senso,
dovendosi far riferimento all’irretrattabilità di tale rinuncia piuttosto che alla totalità della stessa. Sta di fatto che chiunque si veda negare dal titolare del diritto la
possibilità di un uso conforme alla licenza prescelta, ora
e in futuro potrà sempre opporre la licenza stessa, anche
in caso di ripensamento.
Il titolare del diritto d’autore si spoglia di una parte, non
di tutto il suo diritto. Per quanto residua egli ha tutti i diritti, compreso quello di vietare l’uso e la riproduzione
della propria opera. Non desta scandalo ritenere che, an-
che senza ricorrere alla condizione, la disposizione del
proprio diritto nasca e termini nei limiti entro i quali
l’autore ha rinunciato tale diritto. Nessuno impone l’uso
del software, ma se l’uso avviene, esso può avvenire solo
entro i limiti posti e conoscibili, risultanti dall’intersezione tra la licenza pubblica e la disciplina legale del diritto d’autore.
Facciamo il parallelo con il diritto di proprietà dei beni
fisici. Il proprietario che consente l’uso della propria cosa con atti di tolleranza non si vincola ad accettare atti di
uso ulteriori una volta che la tolleranza cessa. Non si dubita tuttavia che durante la tolleranza il tollerato possa
usare la cosa secondo quanto manifestato unilateralmente dal proprietario. La mera tolleranza però, secondo
un approccio da analisi economica del diritto, non è una
qualificazione accettabile per un atto dispositivo che ha
per oggetto l’uso di un bene immateriale, che espressamente si atteggia come irrevocabile, e anzi ha nell’irrevocabilità del permesso d’uso una funzione economica
essenziale. Ciò vale soprattutto per le licenze di software
libero o le licenze di contenuti che consentono di trarre
opere derivate. Consentire la revoca del consenso per
un’opera che viene incorporata legittimamente in un’altra, significherebbe sfruttare l’opera incorporante. Ma
anche per l’opera non ancora pubblicata che si basa sul
lavoro reso disponibile vi sarebbe lo stesso problema, e
altrettanto varrebbe per chi ha adottato un programma
sulla base della sua disponibilità, anche senza voler trarre opere derivate. Nessuno si azzarderebbe ad iniziare
un’opera derivata, e addirittura nemmeno a usare in una
forma seria programmi e contenuti artistici in presenza
di tale labilità. L’irrevocabilità è perciò connaturata al
negozio stesso.
Più calzante appare l’esempio della dicatio ad cultum, in
cui il proprietario di un bene accetta una particolare destinazione del fondo, che viene usato unicamente per gli
scopi sacri e compatibili con ciò. L’impegno è unilaterale, ma il proprietario, e in sua vece chi amministra il fondo per l’uso destinato, può rifiutare e impugnare ogni atto contrario agli scopi del vincolo. La mancata completa autospoliazione del diritto di proprietà fa sì che il proprietario conservi diritti pretensivi nei confronti dell’amministratore, inclusi provvedimenti inibitori di
Note:
(20) I sistemi «wiki» sono risorse formate collaborativamente da una comunità di utenti che forniscono contenuti organizzati su base paritaria, in
cui gli utenti fungono sia da redattori che da revisori. Un esempio è Wikipedia, un progetto per la creazione di un’enciclopedia universale
(http://www.wikipedia.org), ma sono diffuse anche altre modalità, ad
esempio per la creazione di manualistica specialistica nata dall’esperienza
degli utilizzatori, come ad esempio il sito di documentazione di Mozilla
Firefox (http://kb.mozillazine.org/Category:Firefox), il browser Internet libero più diffuso.
(21) Op. cit. 248, in nota.
(22) In senso favorevole alla configurazione della licenza di software come atto dispositivo appare anche L. Chimenti, La tutela del software nel
diritto d’autore, Milano, II ed., 96 ss.
I CONTRATTI N. 7/2006
725
ARGOMENTI•DIRITTO D’AUTORE
comportamenti contrari allo scopo della dicatio ex art.
949 Codice civile.
Purtroppo l’analogia con i beni fisici non va molto al di
là di ciò, ma non si tratta di una debolezza della teoria,
anzi, la rafforza, in quanto nel caso che ci occupa stiamo
parlando di un bene giuridico, un diritto non consumabile, ma semmai solo diluibile. La fruibilità - giuridica e
di fatto - contemporanea dello stesso diritto da parte di
una moltitudine indifferenziata di individui fa un’indubbia differenza. Su uno stesso terreno possono passare, poniamo, cento persone al minuto, la centounesima deve
venire esclusa. Lo stesso pascolo può essere utilizzato da
cento mucche, la centounesima «ruba» l’erba alle altre.
Uno stesso programma può essere diffuso potenzialmente a tutta l’umanità nel giro di pochi minuti, ed essere
utilizzato da ciascuno dei componenti dell’umanità in
decine di istanze diverse contemporaneamente. Così un
contenuto artistico.
La dottrina più illuminata ha da tempo rinvenuto come
la cosiddetta «tragedia dei commons» (23) non valga per
i beni immateriali come il software e i contenuti artistici.
In molte istanze, più un bene viene utilizzato, più vale
per chi lo utilizza, molte volte anche per chi l’ha creato
(24). In tali casi ciò comporta anche che l’autore sia interessato, indirettamente, alla massima - non alla minima - diffusione senza il proprio controllo. Di tale interesse il diritto deve farsi carico, e dunque anche l’interprete.
Forme dell’atto dispositivo
Resta da definire in qual modo l’autore possa effettuare
la disposizione del proprio diritto, sottoponendo il codice alla licenza preferita. L’atto in questione è, per opinione comune, il cosiddetto rilascio, che coincide sostanzialmente con il concetto di pubblicazione. La pubblicazione comporta a un tempo gli effetti riconosciuti a tale
atto dalla Legge sul Diritto d’Autore e la sottoposizione
dell’opera alla relativa licenza. D’altronde è solo con la
pubblicazione che vi è un affidamento di terzi circa i termini entro i quali avviene il rilascio e che l’opera comincia a circolare. La mera volontà dell’autore di sottoporre la propria opera a una determinata licenza non
sembra invece idonea a vincolare questi (ad esempio nel
caso in cui la pubblicazione avvenga contro il volere dell’autore), nemmeno se venga annunciata in forme credibili, almeno stando agli usi invalsi nel settore, cui in difetto di una compiuta normativa ci si deve comunque rifare. Allo stesso modo non pare dubitabile che possa avvenire la «ripubblicazione» dell’opera, ovvero il suo rilascio sotto condizioni diverse da quelle originali, anche
senza variazioni sostanziali, dimodoché per la stessa opera vi possano essere due licenze coesistenti (per alcuni
prodotti, anzi, tale doppio regime viene previsto sin dall’iniziale pubblicazione) (25).
Riprendendo la teoria del «contatto sociale», direi che
la pubblicazione è quell’evento che crea l’affidamento
del pubblico nella possibilità di utilizzare il software o i
726
I CONTRATTI N. 7/2006
contenuti autorali secondo la licenza cui l’autore, con atto volontario, ma non recettizio, ha deciso di attribuirne
alla collettività indistinta i diritti e le libertà prescelte.
Tale affidamento, unito al principio generale della tutela del diritto d’autore, anche in difetto di una espressa disciplina normativa sulle licenze (che al momento non
mi sembra necessaria) è ciò che ingenera da un lato il diritto di utilizzare il materiale rilasciato, dall’altro impone
obblighi all’utilizzatore ai quali lo stesso deve sottoporsi
come condizione giuridica legittimante, a valenza immediatamente generale, di un uso altrimenti illecito
(26).
Una vera e propria licenza, senza virgolette (27).
La soluzione mi pare molto più elegante di quelle esaminate. Con il rilascio accompagnato da una dichiarazione
pubblica l’autore concede immediatamente e a chiunque l’uso dei programmi o dei contenuti, sicché ciascuno, in ragione dell’affidamento ingenerato, può utilizzare l’opera secondo le dichiarazioni pubblicizzate. Il meccanismo è tutt’altro che sconosciuto, anzi, per molti versi è simile al rilascio in pubblico dominio, che avviene
secondo uno schema che dal punto di vista civilistico è
identico. La differenza però non è di poco conto: con il
rilascio in pubblico dominio l’opera viene sottratta a una
certa disciplina giuridica, con il rilascio sotto una licenza pubblica, invece, l’opera viene sottoposta a un regime
giuridico di formazione «privata». La «privatezza» di tale regime è visto da alcuni come un limite, non essendo
consentito al privato formare una «legge» a valenza generale (al di là della «legge privata» consentita dal contratto, che «ha forza di legge»). In realtà tale obiezione è
Note:
(23) Come dice L. Lessig: «The «tragedy of the commons» is the familiar notion that widespread public use of a commons leads to its inevitable depletion. But
some resources, once created, cannot be depleted. In the words of Thomas Jefferson, «He who receives an idea from me, receives instruction himself without
lessening mine; as he who lights his taper at mine receives light without darkening
me.» An idea is not diminished when more people use it». (Trad: «La «tragedia
dei commons è il noto concetto che il diffuso uso pubblico di un bene comune, lo conduce a un’inevitabile esaurimento. Ma alcune risorse, una
volta create, non possono essere esaurite. Con le parole di Thomas Jefferson: «colui che riceve un’idea da me, riceve egli stesso istruzione senza diminuire la mia; come colui che accende la propria candela alla mia riceve
luce senza ridurmi al buio». Un’idea non è sminuita quando più persone la
usano»). Citato da http://creativecommons.org/about/legal/.
(24) Tale fenomeno si chiama «effetto rete» ed è noto nella analisi economica del mercato del software. Vedi ad esempio l’Ordine del Presidente del Tribunale di Prima Istanza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee del 22/12/2004, causa T-201/04 Microsoft c/ Commissione, par. 15.
(25) Un esempio sovente citato è quello di MySQL, un best seller
nel settore dei data base relazionali, che viene rilasciato sia sotto licenza proprietaria che sotto licenza GNU GPL, come discusso in
http://www.mysql.com/company/legal/licensing/.
(26) È la tesi di E. Moglen, in www.gnu.org/philosophy/enforcing-gpl.html.
E. Moglen, professore di diritto alla Columbia Law School, è il legale della Free Software Foundation, dell’Open Source Development Laboratory
e del Software Freedom Law Centre, nonché uno degli autori principali
della GNU GPL
(27) Per riprendere l’artifizio retorico di M. Ricolfi, op. cit. 382, in nota.
ARGOMENTI•DIRITTO D’AUTORE
frutto di un errato approccio metodologico, in quanto
l’autore non restringe la libertà altrui, non genera un regime nuovo, ma consente alcuni usi che sarebbero altrimenti vietati per legge generale in difetto di un atto autorizzativo, ritenendo l’opera sotto il regime generale del
diritto d’autore. La licenza pubblica, dunque, opera di
per sé, senza alcuna accettazione, in quanto e per quanto ha forza espansiva dei diritti di utilizzazione economica rispetto a un divieto generale. Non crea un regime di
diritto d’autore nuovo, mantiene il regime giuridico vecchio, consente eccezionalmente alcuni usi a favore di
chiunque se ne voglia e se ne possa giovare (28), (cosa
che consente il dual licensing, che altrimenti avrebbe problemi di causa).
D’altronde, non è nemmeno vero che la licenza imponga determinati comportamenti. Altro sarebbe imporre
una clausola del tipo «chiunque usi questo programma
deve recarsi in pellegrinaggio alla Mecca due volte nella vita», altro è limitare gli utilizzi propri e intrinseci del
programma o del contenuto autorale. La stessa clausola
di «copyleft», che impone la propria viralità ai contenuti derivati, deve essere vista come parte della condizione di liceità, non certo un’obbligazione (29), in quanto
non vincola nessuno, ma semmai conferisce una libertà
(30). Chi decide di utilizzare opere di altri per trarne di
derivate può farlo soltanto se a ciò sia autorizzato dall’autore o dalla legge. Qui l’autore lo consente, ma a
condizione che la distribuzione avvenga con la stessa licenza del prodotto incorporato. Se al secondo autore
ciò non sta bene, semplicemente rinuncia ad avvalersi
dell’opera altrui, o semplicemente non distribuisce il risultato di tale incorporazione. Sempre in tema di «viralità», se Tizio usa parte del software di Caio, soggetto alla GNU GPL, per fare un programma, non per questo il
secondo programma derivato viene ipso facto sottoposto
a tale licenza, semplicemente, come qualsiasi altro autore di opere derivate Tizio ha usato illecitamente il
software di Caio per trarne delle opere derivate. Allo
stesso modo chi usa il software della società Alfa, non
vede il proprio prodotto divenire «per accessione» di
proprietà di Alfa, semplicemente Alfa potrà intimare a
Beta di smettere la produzione e la distribuzione del
software derivato, se non dietro previo accordo di licenza. Chi afferma caratteristiche «predatorie» alle licenze
di copyleft, dunque, non afferma il vero, perché anzi il
funzionamento di tali licenze si basa sul rispetto del diritto d’autore, e sulla sua non calpestabilità. L’obbligo e
il diritto mutualmente si tengono, simul stabunt, simul
cadent, nulla più, cessando l’uso del diritto, cessa l’obbligo, e viceversa.
Conclusioni
Riteniamo di aver dimostrato che non è necessario ricorrere alla qualificazione di «contratto» per riconoscere
vincolatività delle licenze pubbliche. Ciò significa che le
licenze pubbliche non siano anche contratti? Sicuramente no. Se il titolare dei diritti di utilizzazione riesce a «far-
si firmare» una licenza d’uso dall’utilizzatore, tale contratto potrà essere vincolante.
Ciò che sostengo è che non è necessario passare per la
teoria contrattuale per avere una vincolatività della licenza pubblica. Essa è dunque vincolante per forza stessa del diritto d’autore, per la natura del tutto peculiare
dell’oggetto di essa, e in virtù di un affidamento sociale.
Per cui può rimanere vincolante non solo in tutti i casi
in cui un contratto sarebbe nullo (ad esempio, per questioni di forma) o annullabile (ad esempio, per errore,
violenza o dolo), quantomeno nel suo nucleo fondamentale, o ancora in quanto parte del contenuto contrattuale della licenza sia nullo (ad esempio nel caso di
clausola limitativa della responsabilità contraria alla
norma imperativa dell’art. 1229 Codice civile), anche
nel caso in cui non si passi il test dell’art. 1419 Codice civile in tema di nullità parziale, addirittura in caso di una
esplicita volontà di una delle parti di non volersi vincolare o, da ultimo, in caso di soppressione delle condizioni di licenza dal contenuto o dal software (caso quest’ultimo molto più realistico) così come nel caso di riuso
fraudolento del codice o dei contenuti.
Note:
(28) Tralasciamo di dimostrare, per la parziale estraneità al tema e per la
non necessità di ricorrere ad esso, l’enunciato secondo cui la GNU GPL
e le Creative Commons abbiano raggiunto la condizione di «uso normativo».
(29) Non è pertanto condivisibile, a mio parere, la posizione di N. Boschiero, Le licenze F/OSS nel diritto internazionale privato: il problema delle
qualificazioni, in Annali AIDA 2004, 219 secondo cui «Resta comunque
la considerazione per la quale il meccanismo contrattuale è l’unico a poter validamente vincolare l’autore del lavoro derivato a ridistribuire secondo i termini della GPL», mentre l’Autrice svolge peraltro un’analisi
molto approfondita, e per lunghi tratti condivisibile, sulla molteplicità
delle qualificazioni possibili, in un certo senso coerente con la premessa
che abbiamo utilizzato in esordio a questo articolo.
(30) Si tratta pertanto al massimo di un’obbligazione negativa, non positiva. Obbligazione negativa la cui forza proviene immediatamente dalla
stessa legge, che riserva all’autore e ai suoi aventi causa il diritto di vietare gli usi confliggenti con il diritto di sfruttamento economico dell’opera.
Per cui preferirei parlare di obbligo, non di obbligazione.
I CONTRATTI N. 7/2006
727
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ASSICURAZIONE
Il contratto di assicurazione
europeo: tra modello opzionale
ed e-insurance
di NICOLA BRUTTI
Le legislazioni degli Stati membri in materia di contratto di assicurazione sono attualmente oggetto
di un rilevante processo di armonizzazione a livello europeo, che coinvolge l’offerta di prodotti assicurativi attraverso le nuove tecnologie di comunicazione. Tra le proposte in discussione, risalta il progetto alquanto ambizioso di una disciplina uniforme sul contratto di assicurazione.
Le iniziative sino ad oggi intraprese in sede europea, tuttavia, evidenziando notevoli discordanze di
fondo sulle priorità da assegnare e soffrendo una serie di impedimenti di carattere sistematico, stentano a tradursi in provvedimenti vincolanti. Per questi motivi sembra opportuno interrogarsi sui principali nodi critici e sulle rigidità del processo, riflettendo su aspetti quali la frammentarietà della legislazione speciale e la notevole complessità di varianti che caratterizzano la macrotipologia del contratto di assicurazione.
Unificazione del diritto contrattuale
delle assicurazioni: alle origini di un progetto
L
a materia del contratto di assicurazione è attualmente oggetto di una disciplina, in continua evoluzione, che trova il suo nucleo fondamentale nel
codice civile, segnatamente nelle norme che riguardano il contratto in generale e nel capo XX, dedicato al
contratto di assicurazione, nonché in alcune leggi speciali (1).
Le divergenze legislative esistenti tra i diversi Stati membri, tuttavia, restringono la possibilità di scelta tra le polizze, impedendo i vantaggi delle economie di scala e di
un meccanismo concorrenziale più efficiente (2).
Il tentativo di costruire una tipizzazione uniforme del
contratto di assicurazione ha dapprima investito una
proposta di direttiva (3), subito abbandonata, per poi essere riabilitato dal parere di iniziativa dello European
Consumer Law Group avente ad oggetto l’esigenza di una
certa armonizzazione della legislazione relativa ai contratti di assicurazione dei consumatori in seno alla Comunità (4).
Il fallimento della «Proposta di direttiva del Consiglio
per il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti il contratto di as-
Note:
(1) Tra i più interessanti contributi sul riassetto normativo interno, con
particolare riferimento al recente D.Lgs n. 209 del 7 settembre 2005,
G.U. n. 239 del 13 ottobre 2005 («Nuovo codice delle assicurazioni private»), S. Sica, Polizze più chiare per l’assicurato, in Guida dir., 2005, 11, 70
ss.; A. Gambino, Note critiche sulla bozza del codice delle assicurazioni private, (Relazione in occasione della presentazione della bozza del Codice delle assicurazioni Private presso il Ministero delle Attività Produttive in data 10 dicembre 2003), pubblicata in Giur. comm., 2004, 31.5, 1035 ss.; F.
Carbonetti, A che cosa serve e come si è arrivati al Codice delle assicurazioni
728
I CONTRATTI N. 7/2006
private, in Milano Finanza, 17 settembre 2005; Consiglio di Stato, «Parere
14 febbraio 2005, n. 11603 sul nuovo codice delle assicurazioni», in Giustizia-Amministrativa.it; G. Gabrielli, Obbligo di contrarre e libertà di determinazione delle condizioni contrattuali in capo alle imprese esercenti l’assicurazione della responsabilità civile da circolazione di mezzi di trasporto: una convivenza difficile, in Studi in onore di P. Schlesinger, Milano, 2004, IV, 25172543.
(2) «Se il diritto applicabile a una polizza varia a seconda del luogo in cui
essa è venduta, il diverso contesto giuridico di ciascun paese influirà sul
calcolo del rischio, incidendo così anche sul funzionamento della legge
dei grandi numeri su cui il mercato assicurativo si basa». Così «Parere del
Comitato economico e sociale europeo sul tema il contratto di assicurazione europeo» (G.U. n. C 157 del 28 giugno 2005, 7).
(3) Cfr. COM(79) 355 def., G.U. C 190 del 28 luglio 1979, modificata da
COM(80) 854 def., G.U. C 355 del 31 dicembre 1980. Per un’introduzione al tema trattato, che ha destato, in epoca recente, rinnovato interesse: J. Basedow, Insurance Contract Law as Part of an Optional European
Contract Act, in «ERA-Forum (Scripta Iuris Europaei)», 56-65 (2003);
Id. e T. Fock (ed.), Europäisches Versicherungsvertragsrecht, Tübingen, I e II
2002, III 2003; F. Reichert-Facilides (ed.), «Insurance Contracts», in International Encyclopaedia of Comparative Law, XI, VI; M. Hernández Arranz, El seguro de responsabilidad civil ante la armonización del derecho europeo de contratos, in Bases de un derecho contractual europeo (S. Espiau
Espiau, A. Vaquer Aloy), Editorial Tirant Lo Blanch, Valencia (2003)
521-532; M.A. Clarke, The Law of Insurance Contracts, London, 2004;
Id., Loss Prevention and Aggravation of Risk: The Prospects of Reform, October 2003, in www.hull.ac.uk/law/docs/maritimelecture03.pdf; A. Antonucci, L’armonizzazione in tema di contratti assicurativi, Intervento al seminario
svoltosi a Roma il 21 novembre 2003 su «La giurisprudenza sulle discipline di attuazione delle direttive comunitarie», Nuova giur. civ. comm.,
2004, n. 1; M. Florian, Verso l’unificazione del diritto nel contratto di assicurazione in Europa. Il «Restatement of European Insurance Contract Law», in
Dir. econ. ass., 2002, 2, 315-321; D. Cerini, Prodotti e servizi assicurativi :
distribuzione e intermediazione, Milano, 2003; M. Frigessi Di Rattalma
(ed.), The Implementation Provisions of the E.C. Choice of Law Rules for Insurance Contracts. A Commentary. Belgium, France, Germany, Italy, The
Netherlands, Spain, United Kingdom, The Hague: Kluwer Law International, 2003; Id., Luci e ombre del nuovo diritto internazionale privato sul contratto di assicurazione, in Dir. econ. ass., 1996, 329 ss.
(4) Cfr. «ECLG-Consumer Insurance», in Journal of Consumer Policy
(1986), 205-228.
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ASSICURAZIONE
sicurazione» del lontano 1979, fu causato soprattutto dal
prevalere della posizione, caldeggiata dal governo britannico, che giudicò più urgente occuparsi dei controlli
amministrativi sulle compagnie assicurative e sui premi
e le condizioni economiche da esse praticate, che dedicarsi all’armonizzazione della norma contrattuale (5).
Tuttavia, si può affermare che il progetto, pur non diventando operativo, non è mai stato definitivamente
abbandonato, dando luogo in questi ultimi anni all’elaborazione di documenti a carattere prevalentemente
programmatico. La costruzione di un modello unitario
del contratto europeo di assicurazione è attualmente allo studio del gruppo di lavoro sul «Restatement del contratto europeo di assicurazione» (6).
Un quadro comune di riferimento prevede, accanto ai
principi fondamentali di diritto contrattuale- quali regole sulla conclusione, validità e interpretazione dei contratti, nonché sull’adempimento ed inadempimento, inclusi i possibili rimedi- modelli di regole specifiche sul
contratto di assicurazione, con particolare attenzione a
due tipologie di contratto: i contratti di assicurazione ed
i contratti dei consumatori.
Le leggi in tema di contratti di assicurazione - quanto
meno le norme semivincolanti - puntano a proteggere la
parte più debole e da un punto di vista funzionale possono quindi essere denominate «leggi di protezione del
consumatore» (7). Tradizionalmente, però, la tutela dell’assicurato va ben al di là del diritto generale dei consumatori: oltre ai privati, infatti, anche i piccoli imprenditori sono protetti al momento di stipulare un’assicurazione (8).
Il «Parere del Comitato economico e sociale europeo sul
tema il contratto di assicurazione europeo», costituendo
un prezioso riepilogo delle principali proposte maturate, in
questi anni di riflessione, in seno al Gruppo di lavoro sul
Restatement of European Insurance Contract, riveste un notevole interesse. Secondo il Gruppo di Lavoro, l’implementazione di soluzioni uniformi, quindi l’elaborazione di
una disciplina minimale in grado di coprire le problematiche più ricorrenti nei rapporti tra assicuratore ed assicurato (nei contratti di massa), richiede preventivamente l’elaborazione di una terminologia uniforme, collegata anche al processo di unificazione del diritto dei contratti ed
alla formazione di un codice civile europeo (9).
Le difficoltà della ricomposizione
Le norme comunitarie susseguitesi negli ultimi decenni,
aventi ad oggetto specificamente il campo assicurativo,
hanno sensibilmente contribuito ad innovare, pur nel
solco di una finalità di armonizzazione minima avente ad
oggetto in prevalenza l’organizzazione dell’attività assicurativa, rilevanti profili del tessuto normativo contrattuale.
Ad una prima analisi, è ravvisabile una politica di delimitazione minima dei margini di discrezionalità dei singoli Stati membri nella elaborazione delle norme riguardanti il contratto di assicurazione.
Il legislatore comunitario ha, infatti, perseguito, da un
lato, una graduale liberalizzazione del settore in vista della realizzazione della libertà di prestazione dei servizi assicurativi, erodendo ad esempio le spinte protezionistiche e dirigistiche che giungevano ad avocare allo Stato
la predisposizione di tariffe e contenuti contrattuali, dall’altro, ha ridisegnato, in modo ancora incompleto, la
mappa delle protezioni e delle tutele a favore dei soggetti più deboli, i consumatori, nella metamorfosi complessiva delle dinamiche di contrattazione che l’avvento
delle nuove tecnologie e l’apertura di nuovi mercati
hanno comportato.
Le proposte degli anni settanta sull’unificazione della disciplina in materia di contratto di assicurazione hanno,
invece, incontrato ostacoli insormontabili come l’inconcilabilità delle norme imperative presenti nella legislazione dei singoli Stati membri, riguardanti i contratti
di assicurazione vita, di assicurazione non vita per rischi
di massa e di assicurazione obbligatoria, nonché l’eterogeneità dei regimi della responsabilità civile per la circoNote:
(5) Soluzione suggerita dalla Corte di Giustizia CE nella sentenza del 4
dicembre 1986, in Racc., 1986, 3755 (Commissione contro Germania).
(6) Project Group: Restatement of European Insurance Contract Law (Gruppo di progetto: Nuova formulazione della normativa europea in materia
di contratti di assicurazione) diretto e coordinato dal Prof. Dr. Fritz Reichert Facilides LL.M. dell’Università di Innsbruck e composto di eminenti giuristi e specialisti di diritto assicurativo provenienti da 15 paesi
europei.
(7) Cfr. «Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema il
contratto di assicurazione europeo» (G.U. n. C 157 del 28 giugno 2005,
1-15); Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al
Consiglio «Diritto contrattuale europeo e revisione dell’acquis: prospettive per il futuro», 11/10/2004, COM(2004) 651 def., 13. Cfr. anche Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio
«Maggiore coerenza nel diritto contrattuale europeo. Un piano d’azione», 12/2/2003, COM(2003) 68 def. Per un’analisi generale su questi temi, si veda G. Alpa, I progressi del diritto contrattuale europeo, Sintesi della
relazione presentata alla giornata di studio organizzata da CNF, Accademia Virgiliana e Gruppo Italiano dell’Associazione Henri Capitant a
Mantova il 23 aprile 2005.
(8) Cfr. il «Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema il
contratto di assicurazione europeo», cit., 6.2.1. che osserva come «Nel
quadro di un’armonizzazione del diritto europeo dei consumatori, la CE è
tenuta a fornire a questi ultimi un livello di tutela elevato (cfr., ad esempio, l’art. 95, par. 3, del Trattato CE). Questa impostazione vale anche per
gli atti legislativi basati su altri articoli del Trattato che attribuiscono alla
CE una competenza legislativa (nel settore delle assicurazioni, si tratta di
solito dell’art. 47, par. 2, in collegamento con l’art. 55 del Trattato CE).
Di conseguenza, un’iniziativa volta ad armonizzare la normativa in materia di contratto di assicurazione dovrebbe prevedere un elevato livello di
protezione per il contraente».
(9) In questo senso si vedano le importanti iniziative dirette all’adozione
di una normativa uniforme su base volontaria contenute nel testo elaborato dal Comité Européen des Assurances sulla European Good Practice
Guide for Insurance Business on the Internet, 2001, 1-8 che può essere considerato un primo decalogo del contratto di assicurazione in Internet cui
le imprese possono dichiarare di aderire volontariamente, dove si afferma: «Insurance undertakings individually declare their decision to comply with the criteria laid down in this Guide and indicate this commitment on the home page of their site by displaying a common label referring to the Guide»; cfr. anche International Association of Insurance Supervisors (IAIS), Insurance Core Principles, October 2000.
I CONTRATTI N. 7/2006
729
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ASSICURAZIONE
lazione dei veicoli che avrebbero, comunque, determinato un innalzamento dei premi assicurativi.
Sotto un profilo di diritto internazionale privato, le clausole sulla scelta del diritto applicabile sono adottabili solamente riguardo al settore non vita dei grandi rischi
(10), mentre nell’assicurazione dei rischi di massa l’assicuratore deve normalmente calibrare il prodotto sul
contesto giuridico del luogo di residenza abituale del sottoscrittore della polizza (11). Ciò conferma una rilevante frammentazione del quadro giuridico, che, non solo
determina costi assicurativi più elevati, ma può portare a
distorsioni del regime concorrenziale.
Nonostante ciò, l’armonizzazione europea risulta pressoché completa in materia di controlli amministrativi sulle compagnie di assicurazione, grazie a tre generazioni di
direttive in materia assicurativa (12), mentre, per quanto attiene al diritto contrattuale l’armonizzazione è più
limitata, concentrandosi soprattutto su questioni di diritto internazionale privato e diritto internazionale di
procedura. Tutto ciò non ha impedito una proliferazione
delle normative nazionali, riguardante la grande maggioranza delle norme su aspetti di diritto sostanziale, cui fa
eccezione una discreta armonizzazione nella materia dell’assicurazione RC Auto.
Le maggiori esigenze di armonizzazione delle norme contrattuali- in vista della realizzazione di condizioni non discriminatorie per la libera prestazione dei servizi nell’ambito del mercato interno- si pongono in relazione alle assicurazioni obbligatorie sulla responsabilità civile (13).
Le professioni regolamentate e le attività pericolose sono
ad esempio oggetto di obbligo assicurativo, mentre più
rare appaiono le assicurazioni obbligatorie su beni (in
Francia è ad esempio attiva dal 1982 l’assicurazione obbligatoria sulle catastrofi naturali) (14). Le assicurazioni
obbligatorie garantiscono una protezione rafforzata dell’assicurato e del terzo danneggiato, attraverso la fissazione autoritativa della durata e dell’entità dell’estensione
della garanzia, delle franchigie, più raramente del premio
(15), ovvero attraverso un regime limitativo delle eccezioni opponibili da parte della compagnia assicuratrice e
Note:
(10) Non va peraltro dimenticato che «il diritto delle parti alla libera scelta della legge applicabile al contratto di assicurazione, assoluto per i grandi
rischi (art. 27), può essere comunque temperato dall’esigenza di rispettare i
limiti di interesse generale del paese in cui il rischio è situato (art. 28), secondo i criteri più volte fissati dalla Corte di giustizia e ripetuti nel preambolo della direttiva (considerando n. 19)». Così, a proposito della cd. terza
direttiva non vita (92/49/CEE), R.A. Capotosti, La disciplina definitiva delle
assicurazioni private contro i danni, in Assicurazioni, 1992, II, 141; cfr., inoltre, di recente N. De Luca, F. Di Fonzo, L’assicurazione dei grandi rischi, in
Dir. econ. Ass., 2004, II, 446, secondo il quale «rispetto alla copertura dei
rischi di massa, relativamente alla quale si pongono problemi di tutela della parte più debole, quella dei grandi rischi si connota per l’effettiva e consapevole comunione di interessi tra i soggetti coinvolti, coincidente nella
finalità di neutralizzare il rischio nel modo più efficace».
(11) Tali clausole non sono ammissibili, ad esempio, nel trasporto effettuato in uno Stato membro da un vettore avente sede in un altro Stato
membro. La Choice of Law Rule, introdotta con le direttive di seconda e
terza generazione (art. 7 Direttiva del Consiglio 88/357/CE, art. 4 Diret-
730
I CONTRATTI N. 7/2006
tiva del Consiglio 90/619/CE), sembra quasi un palliativo in luogo del fallimento della proposta avente ad oggetto l’armonizzazione del contratto
di assicurazione, ad avviso di J. Basedow, Insurance Contract Law, cit., 2 ss.
che osserva: «Under these rules an agreement of the parties on the applicable law is valid as far as large risks of the non-life insurance sector are
concerned. With regard to small risks and life insurance, however, it is generally the law of the insured’s habitual residence wich will be applied.».
Anche potendo scegliere di radicare convenzionalmente la giurisdizione
nello Stato dove hanno sede, le compagnie si troverebbero di fronte al
problema della necessaria applicazione, in caso di polizze transfrontaliere,
delle norme inderogabili del paese dove risiede il sottoscrittore. Ad esempio laddove uno Stato imponga l’obbligo di assicurazione, il contratto dovrebbe rispettare i requisiti dettati dalla legge di quello Stato. Cfr. artt. 913 del Regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre
2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale G.U. n. L012
del 16 gennaio 2001, 1-23.
(12) Queste ultime possono essere sintetizzate come segue: «seconda direttiva 88/357/CEE del Consiglio, del 22 giugno 1988, recante coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’assicurazione diretta del ramo non vita, che fissa le disposizioni destinate a facilitare l’esercizio effettivo della libera prestazione dei servizi e
che modifica la direttiva 73/239/CEE» (G.U. L 172 del 4 luglio 1988, 1,
ultima modifica: G.U. L 228 dell’11 agosto 1992, 1), in particolare art. 2,
lettere c) e d), artt. 3, 5, 7 e 8; «direttiva 92/49/CEE del Consiglio, del 18
giugno 1992, recante coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’assicurazione diretta diversa dall’assicurazione sulla vita e che modifica le direttive 73/239/CEE e 88/357/CEE
(terza direttiva «assicurazione non vita»)» (G.U. L 228 dell’11 agosto
1992, 1, ultima modifica: G.U. L 35 dell’11 febbraio 2003, 1), in particolare art. 1, lettere a) e b), artt. 27, 28, 30 e 31; «direttiva 2002/83/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 novembre 2002, relativa all’assicurazione diretta sulla vita (G.U. L 345 del 19 dicembre 2002, 1), in particolare artt. 32 e 33; «direttiva 2005/14/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio dell’11 maggio 2005 che modifica le direttive del Consiglio
72/166/CEE, 84/5/CEE e 90/232/CEE e la direttiva 2000/26/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sull’assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli». Per un esame del quadro
normativo contraddistinto dalla suddivisione tra assicurazione contro i
danni e assicurazione sulla vita, si rinvia ad A. Donati, G. Volpe Putzolu,
Manuale di diritto delle assicurazioni, Milano, 2002, 107 ss.
(13) Tale è l’obiettivo anche alla luce delle considerazioni espresse nel parere del Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE) sul contratto di
assicurazione europeo (p. 3): «Per promuovere in modo concreto la creazione di un mercato interno delle assicurazioni, è necessario armonizzare
o unificare le limitazioni alla libertà di contratto assicurativo: di conseguenza, i contratti (standard) rispettosi di tali norme uniformi potrebbero
essere offerti, in un quadro competitivo, in tutti i paesi europei, il che farebbe emergere a sua volta un mercato indiviso.»
(14) Cfr. J. Kullmann, Solidarité et assurance, Relazione tenuta a Tegucigalpa, Honduras, 12-13 Mars, 2001, www.proventionconsortium.org/files/honduras_031101/Kullmann-French.pdf.
(15) La Corte di Giustizia ha riconosciuto il principio della libertà tariffaria (causa C-59/01, del 25 febbraio 2003, Commissione delle Comunità
europee contro Repubblica italiana), stabilendo che «Avendo istituito e
mantenuto in vigore un sistema di blocco delle tariffe applicabile a tutti i
contratti di assicurazione della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, relativi a un rischio situato sul territorio italiano, senza distinzione fra le compagnie di assicurazione che hanno sede in
Italia e quelle che ivi svolgono le proprie attività tramite succursali o in regime di libera prestazione dei servizi, in violazione del principio della libertà tariffaria di cui agli artt. 6, 29, e 39 della direttiva del Consiglio 18
giugno 1992, 92/49/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti l’assicurazione diretta diversa dall’assicurazione sulla vita e che modifica le direttive 73/239/CEE e 88/357/CEE
(terza direttiva assicurazione non vita), la Repubblica italiana è venuta
meno agli obblighi che ad essa incombono in forza della direttiva». Cfr. M.
Frigessi Di Rattalma, Blocco delle tariffe assicurative e responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunutario: riflessioni a margine di Corte di giustizia 25 febbraio 2003 C-59/01, in Dir. econ. ass., 2003, 4, 629 ss.
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ASSICURAZIONE
il riconoscimento al terzo dell’azione diretta verso di essa (16).
Il rischio che un regime obbligatorio possa conculcare di
per sé la libertà contrattuale risponde, come osservano
alcuni, ad una preoccupazione più teorica che pratica,
dal momento che, potendo gli operatori proporre garanzie complementari a quelle legali di base, nulla impedisce che gli effetti positivi della concorrenza si esplichino
in presenza di una struttura contrattuale minima (17).
Contratto di assicurazione europeo come optional
Un’armonizzazione delle normative in materia di contratti di assicurazione comporta, comunque, la necessità
di presidiare le norme obbligatorie o semi obbligatorieprevisioni nelle quali eventuali deroghe sono ammesse
solamente a favore dell’assicurato- tracciando limiti
omogenei alla libertà contrattuale al fine di tutelare l’ordine pubblico ed il titolare della polizza, o i terzi per conto dei quali viene sottoscritta (18).
Ciò contribuirebbe a rendere più certe, e quindi ad agevolare, le operazioni transfrontaliere di assicurazione a
vantaggio dei consumatori, della concorrenza tra gli assicuratori e degli intermediari assicurativi, che potrebbero
prestare, con maggiori garanzie, i propri servizi anche attraverso Internet.
Tali prospettive, portando, per definizione, in primo piano la questione del rapporto tra regole locali e regole
transnazionali, paiono utili proprio per sondare eventuali implicazioni e conseguenze sul processo di unificazione
contrattuale (19).
Nella pratica una maggior omogeneità negli schemi
contrattuali sembra raggiungibile con l’adozione di una
serie di clausole standard, soprattutto a carattere semiobbligatorio, incorporate in un modello di contratto avente valore facoltativo, fermo restando che, dal momento
in cui è adottato, diventerà vincolante in tutti i suoi termini ed elementi per le parti contraenti (20).
Il parere del «Comitato Economico e Sociale sul Contratto di assicurazione europeo», concentrandosi, in questa prima fase, sulle norme imperative e sulla parte generale della normativa in materia di contratto di assicurazione, enumera gli aspetti da armonizzare in via prioritaria (21). Questi ultimi sono costituiti da: a) gli obblighi
precontrattuali, soprattutto l’informazione precontrattuale minima; b) la formulazione del contratto (22); c)
la natura, gli effetti e i requisiti formali della polizza assicurativa (23); d) la durata del contratto, il rinnovo e la
cessazione; e) gli intermediari assicurativi; f) l’aggravaNote:
(16) La diversa natura giuridica dei due contratti (assicurazione obbligatoria ovvero volontaria), basata sul divario esistente tra gli interessi che si
intende proteggere, rende necessario il mantenimento di regimi giuridici
distinti, circostanza che risulta eccezionalmente disattesa nell’ordinamento spagnolo, dove si stabilisce un regime giuridico praticamente unico quanto ai presupposti ed agli effetti (artt. 73 e seguenti della Ley de
Contrato de Seguro). Cfr. M. Hernández Arranz, El seguro de responsabilidad civil ante la armonización del derecho europeo de contratos, in Bases de un
derecho contractual europeo, cit., 522 ss. In altri ordinamenti come l’italiano ed il francese, incluso quello comunitario, non vi è sovrapposizione tra
le due discipline.
(17) Lo sottolinea J. Kullmann, Solidarité et assurance, Relazione tenuta a
Tegucigalpa, Honduras, 12-13 Mars, 2001, cit., 3-4. Un’apertura di credito alla capacità del mercato di autoregolarsi, prescindendo dall’imposizione di obblighi legali a contrarre, sul modello anglosassone, è ravvisabile in
G. Gabrielli, op. cit., 2518 per il quale il fondamento del predetto obbligo
non può essere ravvisato soltanto in ragione dell’onere di contrarre a propria volta imposto a chi metta in circolazione determinati mezzi di trasporto, in un sistema nel quale alle imprese è riconosciuta piena libertà di
determinazione delle tariffe; la circolazione degli autoveicoli farebbe eccezione per la straordinaria rilevanza dell’impiego di mezzi di trasporto,
quale strumento di realizzazione della stessa libertà dell’individuo. A conferma dell’assunto, l’A. cita i numerosi casi di assicurazione obbligatoria
per gli utenti, ma non per le imprese. Sulla portata del divieto di abbinamento contenuto nell’art. 170 del «Nuovo codice delle assicurazioni private», come aspetto dell’obbligo legale a contrarre, si veda, S. Sica, Polizze più chiare per l’assicurato, cit., per il quale «Salvo il divieto di confezionare tiying contracts a presidio dell’obbligo legale a contrarre, in ragione
del quale la compagnia è tenuta ad offrire forme di copertura rca obbligatoria in via autonoma, senza prestazioni aggiuntive, la norma, nel complesso parrebbe legittimare le garanzie «a pacchetto» considerati i possibili vantaggi per il consumatore e per l’opportunità di differenziazione dell’offerta che essa comporta, garantendo la libertà d’inziativa del mercato
sui rami non obbligatori».
(18) Il nesso tra norme sui contratti in generale e norme sul contratto di
assicurazione va considerato attentamente prima di tentare un’opera di
unificazione. Si pensi alla diversa rilevanza che assume la regola dell’ammissibilità di contratti a favore di terzi, a seconda che in un paese sia presente sotto forma di deroga alle norme sui contratti (es. negli ordinamenti di common law dove il principio della privity of contract subisce deroga relativamente al contratto di assicurazione), ovvero sia contemplata all’interno di esse in via ordinaria. Cfr. J. Basedow, Insurance Contract Law, cit.,
III; G.H. Treitel, The Law of Contract, London, 2000, 582-588.
(19) Cfr., in tal senso, L. Vacca, Cultura giuridica ed armonizzazione del diritto europeo, in Eur. dir. priv., 2004, 1, 59; sul processo di creazione di un
diritto uniforme dei contratti a livello europeo, si veda altresì, M.J. Bonell, Verso un Codice Europeo dei Contratti?, Ib., 1998, 171 ss.
(20) Così si esprime il Parere Cese, cit., 5, che privilegia, quale strumento comunitario per l’adozione di tale modello, il regolamento. Ciò non
potrebbe pregiudicare le «esigenze imperative dell’ordinamento comunitario», categoria aperta nella quale «la Corte di Giustizia ha inserito ad
esempio la tutela dei consumatori, dei lavoratori, dell’ambiente, della
coerenza fiscale». Così L. S. Rossi, L’incidenza dei principi del diritto comunitario sul diritto internazionale privato: dalla «comunitarizzazione» alla «costituzionalizzazione», in Riv. dir. intern. priv. process., 2004, n. 1, 82.
(21) In particolare, si sottolinea come l’azione più urgente sia quella di armonizzare le norme generali della normativa in materia di contratti di assicurazione, sempre che abbiano valore imperativo. Tale armonizzazione
avrebbe come risultato immediato la creazione di un mercato interno dell’assicurazione per tutti i rami non soggetti a norme giuridiche specifiche
e imperative. Una volta portato a termine questo compito, tuttavia, bisognerebbe procedere ad armonizzare anche i rami assicurativi regolamentati, ad esempio quello vita e quello malattia.
(22) Il requisito è agevolmente riferibile all’obbligo di rendere le polizze
leggibili e comprensibili e di fare in modo che le rispettive condizioni generali e specifiche siano rese note nella fase precontrattuale e prima della
sottoscrizione, nonché all’individuazione di alcune clausole inique od
abusive usualmente rinvenibili nelle polizze. Su questi aspetti si vedano il
parere di iniziativa del Cese sul tema «I consumatori nel mercato delle assicurazioni» (Cese 116/98 del 29 gennaio 1998) e lo studio commissionato dalla Commissione e coordinato dal Centro di diritto dei consumatori
dell’Università di Montpellier (contratto AO-2600/93/009263) sulle
clausole abusive presenti in alcuni contratti di assicurazione, oltre che le
recenti proposte della Commissione in materia di credito al consumo
(COM (2002) 443 def.).
(23) Questi aspetti attengono alla parte generale del diritto dei contratti
di assicurazione.
I CONTRATTI N. 7/2006
731
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ASSICURAZIONE
mento dei rischi; g) il premio assicurativo (24); h) l’evento assicurato; i) le assicurazioni in conto terzi.
La descrizione delle priorità non dovrebbe indurre a trascurare quelle zone grigie, che rischiano di celare incomprensioni e visioni riduttive della problematica contrattuale.
Si fa riferimento alle interferenze tra profilo dell’atto, inteso come accordo che scaturisce dall’espressione esteriorizzata della volontà, ed il piano del rapporto giuridico da esso scaturente, di particolare rilevanza in un classico contratto di durata, come quello di assicurazione.
Non a caso, accanto alle clausole abusive, è stato correttamente citato le silence abusif, quale fattispecie interstiziale tra la disciplina degli obblighi di informazione precontrattuali e quella sulla formulazione del contratto,
che richiama, nel nostro ordinamento, l’interpretazione
secondo buona fede (25). Secondo quanto emerso nell’esperienza francese delle clausole di esclusione della garanzia, ad esempio, la sanzione di abusività potrebbe essere esclusa per la necessità di evitare l’assenza di alea cui
è preordinata la clausola medesima. Tuttavia, l’assicurato potrà ricorrere ad altri mezzi, quali ad esempio il dolo
previsto dall’art. 1116 del Code Civil, qualora la compagnia intenda applicare la clausola al di là di quella specifica esigenza (26).
Certe polizze d’assicurazione, inoltre, restano imprecise o
tacciono riguardo agli obblighi di pagamento del premio, comportando per i sottoscrittori l’ignoranza delle
modalità di esecuzione dei loro obblighi (27).
Altre perplessità potrebbero destare i principi fondamentali che disciplinano la conclusione e la validità di
un contratto di assicurazione, i quali differiscono profondamente a seconda degli ordinamenti giuridici degli Stati membri dell’Unione. In alcuni paesi, ad esempio, il
perfezionamento dell’accordo avviene semplicemente
con l’adesione dell’assicurato ad uno schema pubblicizzato dall’assicuratore, che assume la qualifica di un’offerta vincolante e non già di un mero invito ad offrire. Se la
polizza recapitata al sottoscrittore conterrà modifiche o
novità, rispetto a quanto oggetto di adesione, ciò equivarrà ad un dissenso, a meno che alcune norme speciali
consentano all’assicuratore di modificare unilateralmente il contenuto dei moduli. In altri ordinamenti, che
aderiscono ad un grado più elevato di formalismo, l’assicuratore dovrà comunque sottoporre la polizza definitiva
all’assicurato antecedentemente alla sottoscrizione,
escludendosi la presenza di alcuna regola speciale che
spieghi l’incorporazione di modifiche unilaterali al testo
del contratto (28).
La formula del contratto opzionale, al di là delle fisiologiche difficoltà terminologico-definitorie, potrebbe risultare praticabile solo a patto di recepire al suo interno
il massimo grado di tutela per l’assicurato, scaturente da
un confronto tra i diversi ordinamenti degli Stati membri, confronto che, a monte, presupporrebbe risolta la
medesima questione sul piano interno a ciascun ordinamento interessato (29).
732
I CONTRATTI N. 7/2006
Osservazioni su e-insurance ed obblighi
di informazione
Con l’avvento della società dell’informazione, l’increNote:
(24) In particolare, l’obbligo di corrispondenza tra premi e valore del rischio, soprattutto mediante il deprezzamento automatico degli oggetti assicurati a causa della loro età e corrispondente diminuzione dei premi.
(25) Si pensi al cliente che sottoscrive una polizza assicurativa per garantirsi
contro i danni alla propria abitazione derivanti da «trombe, tempeste ed uragani». I danni gli provengono invece da una improvvisa e pesante nevicata.
Sorta controversia con la società di assicurazioni sul significato della clausola,
il giudice ritiene che essa sia operante e il cliente abbia diritto all’indennizzo;
la decisione si fonda sugli artt. 1366 e 1370 Codice civile (Pret. Novara 8 febbraio 1989, in Assic., 1990, 11, 90). La clausola di buona fede è stata applicata anche in una fattispecie in cui il cliente non aveva dato alla società assicuratrice avviso del sinistro secondo le modalità specificate in polizza; la buona
fede richiede di valutare se diverse modalità di avviso possano o meno considerarsi equipollenti a quelle fissate dal contratto (Pret. Taranto 13 novembre
1987, in Arch. giur. circol. e sinistri, 1988, 233). Sulla giurisprudenza citata, G.
Alpa, Fonti del diritto, clausola generale di buona fede, diritto giurisprudenziale, in
M. Bessone (a cura di), Diritto giurisprudenziale, Torino, 1996.
(26) Secondo Cour d’Appel de Paris: «Considérant , sur le fond des choses,
que s’il est vrai que le dol doit être prouvé et ce notamment dans son caractère intentionnel, il n’en demeure pas moins que, de jurisprudence
constante, le silence que l’un des contractants garde sur les éléments déterminants du contrat peut être constitutif d’un dol au sens de l’article
1116 du Code civil et que cette règle s’applique de plus bel lorsque le contractant traitant est un professionnel qui fait souscrire à un profane un
contrat d’adhésion, ce qui est précisément le cas en l’espèce ....» (CA Paris, 7 ème Ch.A, 4 décembre 2001, Dalloz 2002, n. 7, Resp. civ. et assur.,
mars 2002, Comm. 120, note L Grynbaum); L. Bruguier-Crespy, Essai de
distinction entre le clauses définissant l’objet de la garantie et les clauses d’exclusion de garantie dans le contrat d’assurance, in www.glose.org, 32; J. Kullmann, Clauses abusives et contrat d’assurance, (1996) R.G.D.A. 11.
(27) Cfr. anche Commissione CE, Bruxelles, 27 aprile 2000 COM(2000)
248 def., Relazione della Commissione sull’Applicazione della Direttiva
93/13/CEE del Consiglio del 5 aprile 1993 concernente le clausole abusive nei
contratti stipulati con i consumatori, 25, nota 52: «secondo uno studio condotto nel 1995 dal Centro di diritto del consumo dell’Università di Montpellier, certe polizze d’assicurazione facoltative passano sotto silenzio elementi riguardanti, ad esempio, l’obbligo di risposta dell’assicuratore alla dichiarazione di sinistro, la nomina di un perito, i versamenti di acconti e così via, cosa che può determinare «silenzi» abusivi. La base CLAB fornisce
numerosi esempi nel settore delle assicurazioni di imprecisioni o silenzi abusivi. In materia di clausole contrattuali imprecise, la Corte di Cassazione
belga ha considerato abusiva una clausola che escludeva la garanzia di certi
danni per il fatto che una clausola di esclusione poteva essere validamente
invocata contro l’assicurato solo se le esclusioni in questione sono «chiare,
esplicite e limitate»… (Clab BE 000447). Riguardo ai silenzi abusivi, la corte d’appello di Lione, con sentenza del 23 maggio 1996, ha dichiarato una
clausola abusiva poiché non subordina gli aumenti dei premi ad alcuna condizione sancita dal contratto e poiché conferisce alla compagnia di assicurazioni un vantaggio eccessivo in quanto questa non è tenuta a giustificare
gli aumenti dei premi da essa decisi… (Clab FR 000324). Analogamente,
una giurisdizione di primo grado di Atene ha considerato abusiva una clausola… perché l’aumento di prezzo dei premi assicurativi non è definito da
criteri specifici e precisati nel contratto…(Clab GR 000189)».
(28) La diversità di impostazione è sottolineata da J. Basedow, Insurance
Contract Law, cit., 4.
(29) Sul punto cfr. S. Sica, Polizze più chiare per l’assicurato, cit. e le critiche alla tecnica della decodificazione, attraverso la recente proliferazione
di codici, nella materia contrattuale tipicamente regolata dal codice civile (A. Gambino, Note critiche sulla bozza del codice delle assicurazioni private, cit., 1037) secondo un apparente ossimoro, caratterizzato dal fatto che
i nuovi codici non sono altro che testi unici con velleità di discipline di
settore. Sul fenomeno della «decodificazione», N. Irti, L’età della decodificazione, Milano, 1992.
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ASSICURAZIONE
mento esponenziale delle transazioni transfrontaliere
potrebbe risentire dell’assenza di omogeneità nelle politiche contrattuali, riguardanti soprattutto le parti deboli
della contrattazione. A dispetto di questi timori, proprio
l’adozione di uno strumento facoltativo potrebbe aumentare la concorrenza tra gli operatori per il dischiudersi di una nuova «finestra di opportunità» nella vendita di polizze via Internet (30).
Occorre avvertire che il mercato transfrontaliero delle
assicurazioni on-line stenta a decollare, per un insieme di
ragioni, quali l’esigenza per le compagnie di mantenere,
specie per certe tipologie di assicurazione, una vicinanza
fisica ai clienti, valutando così i rischi rilevanti ed apprestando adeguati servizi di post-vendita (es. uffici reclami). Tali difficoltà si riducono per i grandi gruppi europei
che tradizionalmente «esportano» il loro business anche
grazie alle sedi distaccate presso altri Stati membri, utilizzabili anche nel caso dell’e-commerce.
Inoltre, la legislazione europea sulle assicurazioni assegna
un ruolo importante alle norme dei singoli Stati membri, con particolare riferimento ai requisiti di informazione ed alle regole contrattuali, permettendo il ricorso al
concetto di «interesse generale» da parte degli Stati
membri a supporto delle differenti applicazioni dei medesimi principi presenti nelle direttive europee (31).
In questa prospettiva, un particolare interesse dovrebbe
essere dedicato anche al processo di «elettronificazione»
del contratto di assicurazione (32).
Con quest’ultima espressione si intende quell’insieme di
norme specifiche, ed in gran parte a contenuto imperativo, riguardanti l’offerta, il perfezionamento e la successiva gestione del contratto di assicurazione in un ambiente elettronico (33).
Il mutamento «su scala globale» dei fenomeni che gli ordinamenti sono chiamati a disciplinare, costringerebbe
questi ultimi a modificare anche le regole applicabili, o
nella direzione di una maggiore libertà degli operatori di
scegliere la legislazione ad essi più confacente, o nel senso di un progressivo confronto tra le soluzioni, via via apprestate dai diversi sistemi giuridici, volto a ridurre le differenze tra esse esistenti.
La sitemazione della materia a livello europeo è caratterizzata da una notevole complessità.
Il rapporto tra disciplina europea del commercio elettronico e delle vendite a distanza di servizi finanziari ai consumatori si pone, non già in termini di specificazione,
bensì di concorrenza, dal momento che la prima direttiva descrive un quadro di principi e regole generali, solo
in parte applicabili alle attività di assicurazione, mentre
la seconda stabilisce un insieme particolareggiato di norme concepite per la protezione rafforzata dei consumatori in tutte le transazioni a distanza (34).
Note:
(30) Parere Cese, cit., 14.
(31) Cfr. art. 33 dir. 2002/83/CE e art. 28 dir. 92/49/CE ed European
Commission, Markt/2541/03–EN, Orig. 24 October 2003 Electronic Commerce and Insurance (Discussion Paper for the working group meeting on 2 December 2003), 6. Ai sensi dell’art. 28 della direttiva 92/49, che figura sotto il titolo III di quest’ultima, intitolato «Armonizzazione delle condizioni di esercizio»: «Lo Stato membro in cui il rischio è situato non può impedire al contraente di sottoscrivere un contratto concluso con un’impresa di assicurazione autorizzata alle condizioni di cui all’articolo 6 della direttiva 73/239/CEE, a condizione che il contratto non sia in contrasto
con le disposizioni legali d’interesse generale in vigore nello Stato membro in cui è situato il rischio». La Corte di Giustizia ha precisato in numerose sentenze la portata di questo principio, stabilendo che una norma
nazionale può restringere una libertà fondamentale, come la prestazione
di servizi, a patto che persegua un motivo di interesse generale riconosciuto nel diritto comunitario, fondamentalmente ravvisabile nell’esigenza di tutelare ordine pubblico, pubblica sicurezza, patrimonio archeologico e naturalistico. Per una più dettagliata analisi di quest’aspetto alla luce
della giurisprudenza, si può rinviare a L. S. Rossi, L’incidenza dei principi del
diritto comunitario sul diritto internazionale privato: dalla «comunitarizzazione» alla «costituzionalizzazione», cit., 83.
(32) L’espressione «electronificación del contrato de seguro» è utilizzata
correntemente nel contesto spagnolo, come evidenziato da R. Illescas Ortiz, El contrato de seguro y su oferta, perfección y prueba electrónicas tras la Ley
34/2003, in Revista de la Contractación electrónica, 2004, n. 51, 4 ss. In particolare, l’Autore analizza la Ley 34/2003 de 4 de noviembre de 2003, de modificación y adaptación a la normativa comunitaria de la legislación de seguros
privados, che ha adeguato la legislazione spagnola in materia di assicurazione ai recenti criteri di armonizzazione comunitari contenuti nella Direttiva 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 settembre 2002, relativa alla commercializzazione a distanza di servizi finanziari destinati ai consumatori. La direttiva si inscrive nel contesto delle cd.
«Terze direttive sulle assicurazioni» (92/96/CEE e 92/49/CEE) che stabiliscono il quadro normativo applicabile anche alle transazioni elettroniche nel mercato interno, come la procedura di notifica per operare in libera prestazione di servizi o il controllo sulle condizioni delle polizze. Dal
momento che il quadro giuridico disciplinante il mercato unico delle assicurazioni riguarda meccanismi che non prevedono l’uso di tecnologia
informatica per svolgere attività assicurativa nel mercato interno, si porrebbe la necessità di verificare se le disposizioni delle attuali direttive in
materia di assicurazioni, offrano un quadro normativo favorevole allo sviluppo del commercio elettronico nel settore assicurativo, assicurando nel
contempo la piena protezione degli interessi dei consumatori. Cfr. Commissione Europea, Markt/2522/02–IT Rev. 1, 3.
(33) La materia del commercio elettronico rinvia ad un tipo di transazione per la quale è difficile o addirittura impossibile procedere ad una localizzazione (in certi casi forse anche ad una precisa collocazione nel tempo
dell’accordo); essa realizza uno sganciamento del contratto dalle condizioni di luogo e di tempo. Questa nozione si avvicina alla definizione di
contratto che si cerca di dare in sede europea, basata sul dato della promessa e del vincolo, privi di un accordo, inteso quest’ultimo come l’insieme degli elementi formativi costitutivi del contratto secondo il nostro codice civile. Cfr. P. Rescigno, Categorie, metodo, sistema nel diritto del commercio elettronico, in S. Sica, P. Stanzione (a cura di), Commercio elettronico e categorie civilistiche, Milano, 2002, 22-23.
(34) Per «contratto a distanza», la direttiva intende qualunque contratto
avente per oggetto servizi finanziari, concluso tra un fornitore e un consumatore nell’ambito di un sistema di vendita o di prestazione di servizi a
distanza, organizzato dal fornitore che, per tale contratto, impieghi esclusivamente una o più tecniche di comunicazione a distanza fino alla conclusione del contratto, compresa la conclusione del contratto stesso (art.
2, «Definizioni», lett. a della direttiva 2002/65/CE). Nella locuzione «servizio finanziario» è incluso qualsiasi servizio di natura bancaria, creditizia,
assicurativa, servizi pensionistici individuali, di investimento o di pagamento (art. 2, lett. b). Per «tecnica di comunicazione a distanza» si intende qualunque mezzo che, senza la presenza fisica e simultanea del fornitore e del consumatore, possa impiegarsi per la commercializzazione a
distanza di un servizio tra le parti (art. 2, lett. e). La direttiva non riguarda solo le transazioni perfezionate ricorrendo al world wide web o alla posta elettronica (cfr. in questa prospettiva anche Circ. ISVAP 393/2000,
premessa), ma rimane aperta al canale telefonico, postale o ad altre tecniche di comunicazione a distanza emergenti in seguito al processo di innovazione tecnologica.
I CONTRATTI N. 7/2006
733
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ASSICURAZIONE
Per i canali alternativi di distribuzione, quali l’e-commerce, il principio di applicazione della legge del paese di origine- stabilito nella direttiva sul commercio elettronico
2000/31/CE- vale unicamente per i soggetti intermediari (35). La regola della libera prestazione dei servizi nell’ambito del mercato interno trova, infatti, una deroga
vistosa per le compagnie di assicurazione, che rimangono soggette alla legge del paese dove è ubicato il rischio
(direttiva sull’assicurazione contro i danni) o della residenza abituale dell’assicurato (direttiva sull’assicurazione sulla vita) (36) che è normalmente la legge del paese
dove risiede il destinatario del servizio.
La Commissione europea dovrebbe, secondo una certa
impostazione, operare per la rimozione di questo principio in modo tale da consentire, in generale, l’applicazione della regola del paese di origine. Tale soluzione esporrebbe, tuttavia, gli assicurati, ed in particolare i consumatori, ad un onere di preventiva informazione sulla sussistenza di adeguate tutele nella legislazione del paese di
origine, scoraggiando evidentemente la maggioranza di
questi ultimi dal concludere il contratto. Disposizioni
come quelle sugli obblighi di informazione precontrattuale degli intermediari, in caso di vendite a distanza
(37), assicurano un minimo di coordinamento delle
informazioni che devono essere fornite agli assicurati
prima della stipula del contratto. Altre direttive sulle assicurazioni contengono disposizioni specifiche in materia di informazioni precontrattuali da fornire agli assicurati (38).
Occorre, inoltre, tenere conto che lo Stato membro
ospitante può imporre requisiti supplementari a condizione che siano indispensabili per una corretta comprensione del contratto di assicurazione (39).
La Corte di Giustizia ha stabilito, ad esempio, che la terza direttiva di assicurazione sulla vita osta ad una normativa nazionale ai sensi della quale la proposta di un contratto - ovvero, in mancanza della proposta, la polizza deve informare il contraente del fatto che la risoluzione,
la riduzione o il riscatto di un contratto in corso, effettuati in vista della sottoscrizione di un nuovo contratto,
sono generalmente pregiudizievoli per l’assicurato. Infatti, le informazioni supplementari che gli Stati membri
possono chiedere di fornire devono essere chiare, precise e necessarie alla comprensione effettiva delle caratteristiche essenziali dei prodotti assicurativi proposti al
contraente (40).
Occorre tenere conto che tutte le più rilevanti direttive
in tema di contratti a distanza introducono tutele contrattuali rafforzate per i consumatori, prospettiva che aumenta anziché diminuire il grado di eterogeneità delle
norme sul contratto di assicurazione, concepito nella
prospettiva europea (41).
Nell’ordinamento tedesco, il recepimento della direttiva
2002/65/CE è avvenuto attraverso la puntuale modifica
di una pluralità di testi normativi, quali BGB, VVG
(Versicherungsvertragsgesetz), VAG (Versicherungsaufsichtsgesetz), prevedendo tra l’altro che il consumatore ab-
734
I CONTRATTI N. 7/2006
bia diritto di ricevere le informazioni precontrattuali- ad
esempio la titolarità entro due settimane dalla conclusione del contratto del diritto di recesso incondizionatoin modo completo e attraverso modalità che gli consentano di visionare il testo su un supporto durevole. EvenNote:
(35) Cfr. G. Alpa, I diritti degli utenti nei contratti di assicurazione conclusi
mediante Internet, in questa Rivista, 2000, 12, 1168 ss. e, più in generale, F.
Wagner, G. Kock, Il commercio elettronico e l’industria assicurativa, in Diritto ed economia dell’assicurazione, 1998, 4, 807-829; S. Sica, E-business, modelli economici e regole: i temi giuridici in una prospettiva di comparazione, in
Rivista diritto ed economia dell’assicurazione, suppl. 2/2002, 157 ss.; Id., Recepita la direttiva sul commercio elettronico:commento al d.lgs. 70/03, in Corr.
Giur., 9, 2003; Id., Privacy o trasparenza? Un falso dilemma, in Corr. giur.,
4, 1999; Id., Privacy e società di assicurazione, in Il Trattamento dei dati personali, a cura di V. Cuffaro - V. Ricciuto, Torino, 1999, 71 ss.
(36) In particolare, la direttiva sull’E-commerce prevede una deroga all’art. 3 relativamente alle attività assicurative rientranti nell’art. 30 e nel
titolo IV della direttive 92/49/CEE, Titolo IV della direttiva 92/96/CEE,
artt. 7 e 8 della direttiva 88/357/CEE e art. 4 della direttiva 90/619/CEE.
(37) Cfr. art. 19, dir. 2002/92/CE; art. 121 D.Lgs. 209/2005. In base a questa norma l’Isvap dovrebbe emanare un regolamento per determinare le
informazioni sull’intermediario e sulle caratteristiche del contratto che in caso di vendite a distanza - dovranno essere comunicate al contraente
«in modo chiaro e comprensibile» nel rispetto delle seguenti informazioni minime: identità dell’intermediario e della persona in contatto con il
contraente e natura del suo rapporto con l’intermediario; il fine della
chiamata; descrizione delle principali caratteristiche del servizio o del
prodotto offerto; prezzo totale che il contraente dovrà corrispondere. Cfr.
M. Gagliardi, Intermediari, pronto il Registro unico, in Il Sole 24 ore, Guida
al dir., n. 11 del 1 dicembre 2005.
(38) Cfr. artt. 31 della direttiva 92/49/CEE (non-vita) e 31 e allegato II
della direttiva 92/96/CEE (vita).
(39) Tuttavia, il controllo esercitabile sulle condizioni di contratto è a carattere successivo e non include le tariffe, essendo finalizzato unicamente
alla verifica della compatibilità con le previsioni nazionali concernenti i
contratti di assicurazione (art. 45 direttiva 2002/83/EC e art. 39 direttiva
92/49/EEC); con le eccezioni delle assicurazioni obbligatorie e delle assicurazioni sanitarie sostitutive del servizio pubblico, European Commission, Markt/2541/03–EN, Orig. 24 October 2003, cit., 8.
(40) Cfr. causa C-386/00, Axa Royale Belge SA v. Georges Ochoa and
Stratégie Finance SPRL, sentenza del 5 marzo 2002 in riferimento all’art.
31, n. 3, della direttiva 92/96, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative riguardanti l’assicurazione diretta sulla vita e che modifica le direttive 79/267 e 90/619. Il ragionamento della Corte ha, quindi, evidenziato l’inconciliabilità tra normativa comunitaria e
normativa nazionale. Dal momento che la direttiva non si limitava a bilanciare protezione dei consumatori e mercato, ponendo specifici requisiti in tema di informazioni precontrattuali, il giudice chiamato ad applicare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della
direttiva, sarebbe stato costretto ad un’interpretazione contra legem. Per
un’analisi dei precedenti, cfr. D. Simon, Le système juridique communautaire, Puf, Paris, 1998, nota 17; P. V. Figueroa Regueiro, Invocability of Substitution and Invocability of Exclusion: Bringing Legal Realism to the Current
Developments of the Case-Law of «Horizontal» Direct Effect of Directives,
Jean Monnet Working Paper, 7, 2002, 24 ss.
(41) Ad esempio, la legislazione francese sui contratti a distanza prevede
che se le parti desiderino optare convenzionalmente per la legislazione di
uno stato terzo, il giudice è tenuto ad applicare la legge maggiormente
protettiva dello Stato membro dove risiede abitualmente il consumatore
Ordonnance du 23 août 2001 (JO 25 aout 2001 p. 13642) transposant la directive «contrats à distance» du 20 mai 1997. I due strumenti giuridici attraverso cui viene realizzata la protezione del consumatore che conclude
un contratto avente ad oggetto servizi finanziari avvalendosi di tecniche
di comunicazione a distanza sono l’informativa, da un lato, e il recesso
dall’altro. Cfr. D. Cerini, op. cit., 119.
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ASSICURAZIONE
tuali violazioni comportano, quale sanzione, il perpetuarsi del diritto stesso a tempo indefinito (42).
In tal senso, potrebbe affermarsi che la contrattazione a
distanza, lungi dal costituire semplicemente un mezzo
alternativo di trasmissione-ricezione delle dichiarazioni di volontà dei contraenti, perciò estraneo alla disciplina dei contenuti, incide su questi ultimi, laddove il
procedimento di formazione del consenso e la gestione
successiva del rapporto divengono particolarmente
complessi proprio per le particolari modalità informative (43).
Nel recepire la direttiva 2002/65/CE (44), relativa a tutte le tipologie di contratti di assicurazione a distanza, il d.
lgs. 19 agosto 2005 n. 190 (45) prevede un’interessante
nullità di protezione, che sembra riguardare proprio talune fattispecie di «silenzi abusivi», nel caso il fornitore
ostacoli il diritto di recesso, ovvero non rimborsi le somme eventualmente pagate dal contraente, o, infine, violi gli obblighi di informativa precontrattuale in modo tale da alterare significativamente la rappresentazione delle caratteristiche contrattuali (art. 16 «Sanzioni» comma 4).
Il D.Lgs. n. 190 comporta, inoltre, un notevole ampliamento delle tutele disegnate dalla Circolare ISVAP
393/D che contemplava solamente la contrattazione
tramite Internet (del 17 gennaio 2000 sul «collocamento di prodotti assicurativi tramite Internet») (46).
Segue
Nella materia dei contratti di assicurazione, la necessità
di raccogliere la sottoscrizione autografa, cui in ambiente elettronico deve corrispondere la firma digitale, investe principalmente la forma ad probationem (47). Quest’ultima, d’altra parte, si riferisce esclusivamente alla
funzione probatoria del documento in generale e non già
alla sua validità (48), ragion per cui l’onere formale potrebbe ritenersi soddisfatto, almeno in teoria, con la registrazione su supporto durevole, equiparabile al domicilio dichiarato dallo stesso contraente (49).
Un’ulteriore soluzione per l’acquisizione telematica del
consenso consisterebbe, dunque, nell’inclusione, all’interno della norma contrattuale opzionale, della possibilità di scegliere l’equivalenza funzionale tra sottoscrizioNote:
(42) Cfr. T. Hören, Internetrecht, Münster, 2005, 280 ss.; H. Hermann,
Online-Versicherungsverträge nach europäischem Fernabsatzrecht, in: Schachtschneider u.a. (Hrsg.), Gedächtnisschrift Helm, 2001, 717-741; per
un’analisi molto dettagliata dei regimi differenziati riguardanti lo ius poenitendi nelle direttive comunitarie e delle metodologie di recepimento da
parte dell’ordinamento tedesco, che opta decisamente per una soluzione
di uniformazione verso l’alto, estendendo il massimo livello di tutela a
tutte le tipologie contrattuali interessate dallo specifico strumento, P.
Mankowski, Beseitigungsrechte, Tübingen, 2003, 803 ss..
(43) Cfr. le critiche di M. Ebers, Information and Advising Requirements in
the Financial Services Sector: Principles and Peculiarities in EC Law, in Electr. J. Comp. Law, 8.2, june 2004, 7: «the Financial Services Distance
Marketing Directive causes frictions. Although this Directive only ap-
plies to distance marketing, Art. 3(2) imposes not only information duties
specifically in relation to media suitable for distance marketing, but also
more comprehensive general information duties: e.g. the duty to describe
the main characteristics of the financial service and the total price, including all related fees, charges and expenses, and all taxes paid via the supplier».
(44) Dir. 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 settembre 2002, concernente la commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori e che modifica la direttiva 90/619/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE e 98/27/CE. La direttiva si applica all’attività
assicurativa in genere, salvo alcune eccezioni, quali le polizze di assicurazione viaggio e bagagli o analoghe polizze assicurative a breve termine di
durata inferiore ad un mese. In tali ipotesi, per il tipo di rischio assicurato
e la breve durata della polizza l’applicazione del diritto di recesso risulterebbe svuotata di significato. Cfr. M.T. Paracampo, cit., 52.
(45) Per esteso, D.Lgs. 19 agosto, n. 190, recante «Attuazione della direttiva 2002/65/CE relativa alla commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori sulla commercializzazione a distanza dei servizi finanziari».
(46) Si pensi alle tecniche di comunicazione considerate, al diverso ambito territoriale di incidenza delle nuove regole, esteso al mercato comune, nonché alla previsione generalizzata del diritto di recesso iniziale a tutti i contratti di assicurazione conclusi a distanza. Cfr. M.T. Paracampo,
L’attività in rete, in P. Cendon (a cura di), Il diritto privato nella giurisprudenza, I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale, XXI, Assicurazioni, I, Torino, 2004, 52; M. Chiarlo, Il commercio elettronico dei servizi assicurativi, in
Assicurazioni, 2002, 3-4, 381 ss.; F. Bravo, Revoca e recesso nel collocamento
di prodotti assicurativi tramite Internet, in questa Rivista, 2001, fasc. 10, 957960; P.M. Putti, G. Colaiacono, Circolare ISVAP 393/D del 17 gennaio
2000 sul collocamento di prodotti assicurativi tramite Internet, 2000, in Resp.
civ. prev., 2000, fasc. 1, 234-242; C. Russo, Attività assicurativa esercitata
tramite internet e circolare ISVAP n. 393/D del 17 gennaio 2000. Prime riflessioni, in Assicurazioni, 2000, fasc. 3, 278-294.
(47) Si pensi all’art. 1919, secondo comma, Codice civile che richiede la
prova scritta del consenso del terzo sulla cui vita è contratta l’assicurazione, ovvero la consegna di documentazione per fini di validità sostanziale
o probatoria ex art. 1888 Codice civile - tra cui anche la comunicazione
della modifica del contratto di assicurazione R.C. auto (condizioni di diritto e tariffarie), notoriamente ritenuta incompatibile con la sola messa a
disposizione delle nuove condizioni presso le filiali - la prassi attuale contempla la sottoscrizione da parte del cliente della documentazione cartacea inviata dalla compagnia e successiva restituzione della copia firmata.
Rivestono, invece, carattere di requisito formale ad sustantiam l’osservanza della disciplina prevista in tema di clausole vessatorie ex art. 1341 Codice civile, ovvero l’acquisizione del consenso scritto finalizzato al trattamento dei dati personali. Così D. Cerini, op. cit., 98. Sui problemi interpretativi sollevati dal recente D.Lgs 28 febbraio 2005, n. 42 «Codice dell’amministrazione digitale» in merito al valore probatorio della firma elettronica, intesa come firma digitale o elettronica avanzata, R. Clarizia, Il
documento informatico sottoscritto: alcune note a margine del codice dell’amministrazione digitale, in Diritto dell’Internet, 2005, fasc. 3, 221 ss.
(48) Per tutti, cfr. R. Sacco, G. De Nova, Il Contratto, tomo I, in Trattato
di Diritto Civile, diretto da Rodolfo Sacco, Torino, 1998, 571.
(49) Secondo D. Cerini (op. cit., 99), «un’alternativa consiste, pertanto,
nel prevedere soluzioni tecniche che consentano al contraente di immagazzinare la documentazione, già presente in forma integrale sul sito della
compagnia o dell’intermediario, su supporto duraturo oppure di procedere alla stampa dei testi»; M. Ricolfi, Autostrade informatiche: vincoli normativi e regolamentazione, in Cardozo Elecronic Law Bulletin, 1995, n. 1 osserva: «sembra che le norme sulla forma ad probationem siano derogabili e
quindi sia la polizza informatica che la transazione elettronica potrebbero
contenere una clausola di rinuncia dell'assicuratore a valersi di eccezioni
attinenti alla forma». In generale sulla presunzione di conoscenza ex art.
1337 Codice civile, S. Sica, Le nuove regole per l’offerta dei contratti r.c. auto: contenuto degli obblighi informativi, al Forum «Nuovo Codice delle assicurazioni D.Lgs n. 209 del 7 settembre 2005, G.U. n. 239 del 13 ottobre
2005, Trasparenza e informazione nel nuovo codice delle assicurazioni,
Milano, 30 Novembre 2005». In giurisprudenza, Giudice di pace Rimini
31 maggio 2003, in Arch giur. circ., 2004, 302.
I CONTRATTI N. 7/2006
735
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•ASSICURAZIONE
ne manuale e firma elettronica (archiviabile su supporto
durevole) (50).
Riguardo all’identificazione del momento di conclusione del contratto di assicurazione on-line, giova segnalare
la sussistenza di una notevole anomalia nell’ordinamento spagnolo. La norma generale prevede che gli effetti
della dichiarazione negoziale di accettazione dell’offerta,
inviata elettronicamente, abbiano luogo nel momento
della sua emissione e non già della sua ricezione, come
avviene nel diritto comune della contrattazione elettronica di altri paesi, nonché nel diritto dei contratti spagnolo (51).
La norma speciale per i contratti di assicurazione (artt. 12, ley n. 34/2003 de 4 de noviembre de 2003, de modificación y adaptación a la normativa comunitaria de la legislación
de seguros privados) stabilisce, invece, che quando la volontà negoziale si trasmette attraverso un supporto elettronico, il suo effetto abbia luogo «dal giorno» della sua
emissione, ponendo evidenti dubbi interpretativi sul
momento in cui si perfeziona il contratto (52).
Quest’esempio conferma che lo studio dell’interazione
tra principi fondamentali sulla formazione del contratto
ed uso delle nuove tecnologie riveste, sotto un profilo
metodologico, notevole interesse per la creazione di un
gruppo di norme omogenee. Sebbene il progetto di redigere una normativa uniforme sul contratto di assicurazione non sia stato abbandonato in ambito comunitario,
la traduzione in misure concretamente applicabili sembra per il momento consegnata all’iniziativa volontaria
di soggetti privati, quali ad esempio le associazioni delle
compagnie assicurative, concentrate, in particolare, sulla costruzione di un contratto elettronico, diretto ad incentivare lo sviluppo del mercato transfrontaliero.
Nella prospettiva di una graduale armonizzazione, si
potrebbe riflettere sull’opportunità di potenziare anche
le policy di interscambio informativo sulle difformità
esistenti nello Stato ospitante rispetto alla disciplina
europea ad ogni servizio assicurativo che sia prestato al
di fuori dello Stato membro di origine (53). Tale strumento potrebbe facilitare l’attività di adeguamento dei
prestatori transfrontalieri di servizi assicurativi alle legislazioni locali disciplinanti i requisiti dei contratti di
assicurazione, soprattutto con riferimento alle informazioni precontrattuali ed alla disciplina di tutela dei
consumatori.
736
I CONTRATTI N. 7/2006
Note:
(50) In tal senso, una base di partenza è già delineata dall’European Good
Practice Guide for Insurance Business on the Internet, cit., che al punto 6
(Procedure for concluding the contract) recita: «Before transacting an on-line insurance contract, all insurance undertakings make available to the
consumer the following information, worded in a clear, understandable
and unambiguous manner: a) the different technical stages necessary for
validation of the contract; the consumer must have access to all the contractual clauses which make up his/her commitment, at each stage of the
procedure; b) the means of identifying and correcting any errors made in
data collection which must be accessible during the entire contract subscription procedure and before final conclusion of the contract. For this
purpose, the undertaking may, as an example, make available to its consumer a «double click» system to validate the contract: - 1st click = agreement on the content of the contract: the undertaking then makes available to its consumer a summary of the terms of the contract and price which should be capable of being reproduced and retained by the consumer.
- 2nd click = confirmation of the contract: the insurance undertaking must acknowledge receipt of the confirmation of the contract by the consumer and recapitulate all the parts of the agreement as they result from the
information given by him/her, without delay and by electronic means.
The insurance undertaking indicates whether it files the concluded contract, and if it maintains it at the disposal of the consumer, for consultation, for example, directly on screen. It takes all measures necessary for
the confidentiality of the terms of the transaction».
(51) Cfr. artt. 1257 e 54 del Codigo de Comercio (come modificati dalla ley
34/2002, de 11 Julio de 2002, de servicios de la sociedad de la información
y de comercio electrónico BOE n. 166 de 12 de julio de 2002). Cfr. R. Illescas Ortiz, El contrato de seguro y su oferta, perfección y prueba electrónicas
tras la Ley 34/2003, cit., 11.
(52) R. Illescas Ortiz (op.cit.) rileva altre incongruenze nella legislazione,
come una certa confusione tra requisiti di validità-perfezione del contratto e strumenti di prova dell’esistenza del documento, allorché sono stati
ascritti alla prima categoria elementi come l’integrità, l’autenticità, il limitato time stamping e la recuperabilità del documento elettronico. Per
una ricognizione della problematica armonizzazione della disciplina sul
contratto elettronico, M.A. O’Rourke, Progressing Towards a Uniform
Commercial Code for Electronic Commerce or Racing Towards Nonuniformity?, 14 Berkeley Technology Law Journal 635 (Spring 1999); R. Rosas Rodríguez, Estudio comparativo de la formación de contratos electrónicos en el derecho estadounitense con referencia al derecho internacional y al derecho mexicano, in Revista de derecho privado, 2004, 9, 111 ss.
(53) Nell’immediato, tale funzione, seppur di ambito applicativo limitato
alle attività prestate presso succursali, è ravvisabile nell’art. 40, par. 4, della direttiva 2002/83/CE. In base a questa norma, infatti «Prima che la succursale dell'impresa di assicurazione inizi le proprie attività, l'autorità
competente dello Stato membro della succursale dispone di un periodo di
due mesi a decorrere dalla data di ricevimento della comunicazione di cui
al paragrafo 3 per indicare all'autorità competente dello Stato membro di
origine, se del caso, le condizioni alle quali, per motivi d'interesse generale, tali attività devono essere esercitate nello Stato membro della succursale» (Direttiva 2002/83/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del
5 novembre 2002, relativa all’assicurazione sulla vita, G.U. n. L 345 del
19 dicembre 2002, 0001-0051).
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•SINTESI
Osservatorio comunitario
a cura di ELENA BIGI Studio Legale De Berti Jacchia Franchini Forlani - Bruxelles
Tutela dei consumatori
Etichette chiare e veritiere per i prodotti alimentari: approvato in via definitiva
dal Parlamento europeo un nuovo Regolamento comunitario
Risoluzione legislativa del Parlamento europeo relativa alla posizione comune del Consiglio in vista dell’adozione del
Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alle indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite sui
prodotti alimentari (1)
In data 16 maggio 2006 il Parlamento europeo, approvando a larghissima maggioranza gli emendamenti di
compromesso negoziati con il Consiglio dei Ministri (2), ha adottato in via definitiva un nuovo testo legislativo che intende armonizzare a livello comunitario la disciplina relativa alle indicazioni nutrizionali e sanitarie fornite sui prodotti alimentari. Il testo del Regolamento, proposto dalla Commissione (3) nel luglio 2003
per garantire una migliore tutela dei consumatori ed assicurare al contempo una libera circolazione degli alimenti nell’Unione, sarà a breve formalmente approvato dal Consiglio e dovrebbe entrare in vigore già entro
la fine del 2006 (4).
Tenuto conto della proliferazione nel numero e nel tipo di indicazioni figuranti sulle etichette dei prodotti
alimentari e in assenza di disposizioni specifiche a livello europeo, alcuni Stati membri hanno da tempo adottato norme e altri provvedimenti per regolamentarne l’utilizzo. Ciò ha dato luogo ad approcci diversi e a numerose discrepanze, sia per quanto riguarda la definizione dei termini utilizzati, sia relativamente alle condizioni a cui è consentito il ricorso alle indicazioni in questione. Dette discrepanze possono creare delle barriere al raggiungimento di un elevato livello di tutela dei consumatori e della sanità pubblica: per queste ragioni, già nel suo Libro bianco sulla sicurezza alimentare (5), la Commissione proponeva di introdurre norme
comunitarie specifiche e lanciava, dopo aver redatto un documento di lavoro per mettere in evidenza i temi
che necessitavano di una armonizzazione comunitaria (6), una consultazione con le parti interessate (associazioni di consumatori, industria, operatori nel settore alimentare) e con gli Stati membri per ricevere osservazioni nel merito. Tenendo conto dei numerosi contributi ricevuti in seguito a tali consultazioni (7), l’esecutivo comunitario ha elaborato, nel 2003, una prima proposta di Regolamento, volto a disciplinare le condizioni di impiego delle indicazioni nutrizionali sui prodotti alimentari e l’apposizione di indicazioni sulla salute, nel rispetto di condizioni severe e in base a una valutazione scientifica indipendente e ad un’autorizzazione rilasciata dalla Comunità. I principali obiettivi delineati dall’esecutivo, che tuttora si rinvengono nel
testo legislativo definitivo, erano segnatamente:
Note:
(1) P6-TA-PROV(2006)0198 del 16 maggio 2006, disponibile al sito web:
h t t p : / / w w w. e u r o p a r l . e u r o p a . e u / o m k / s i p a d e 3 ? P U B R E F = - / / E P / / T E X T + TA + P 6 - TA - 2 0 0 6 - 0 1 9 8 + 0 + D O C + X M L + V 0 / /
IT&L=IT&LEVEL=2&NAV=S&LSTDOC=Y&LSTDOC=N
(2) La posizione comune del Consiglio è stata definita l’8 dicembre 2005; in seguito il Parlamento ha negoziato, attraverso la relatrice italiana Adriana
Poli Bortone (UNI), posizioni di compromesso su diversi emendamenti apportati alla proposta originale della Commissione dal Consiglio stesso.
(3) COM(2003)424 def., del 17 luglio 2003.
(4) Va precisato come tale Regolamento sia stato adottato secondo la procedura di codecisione delineata nell’art. 251 CE; con il raggiungimento del
succitato compromesso tra Parlamento e Consiglio la procedura può chiudersi in seconda lettura del Parlamento, senza necessità di istituire un Comitato di Conciliazione. Il nuovo testo necessita quindi solo del placet formale del Consiglio. La base giuridica della proposta è l’art. 95 CE, che prevede
l’adozione di misure di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri che hanno per oggetto l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno e che, per quanto concerne la protezione dei consumatori, richiede che la Commissione, nell’elaborare le sue proposte, si basi su un livello di protezione elevato che tenga conto dei nuovi sviluppi fondati su riscontri scientifici.
(5) COM(1999)719 def., del 12 gennaio 2000.
(6) Documento redatto dai servizi della direzione generale consumatori, SANCO/1341/2001, del maggio 2001, visionabile al sito
http://ec.europa.eu/comm/food/food/labellingnutrition/claims/claims_discussion_paper.pdf.
(7) Oltre 90 parti interessate hanno inviato commenti alla Commissione, visionabili al sito http://ec.europa.eu/comm/food/food/labellingnutrition/claims/index_en. htm.
I C ONTRATTI N. 7/2006
737
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•SINTESI
- raggiungere un livello elevato di tutela dei consumatori mediante la fornitura volontaria di ulteriori informazioni che si aggiungano a quelle già obbligatoriamente previste dalla legislazione UE (8);
- migliorare la libera circolazione delle merci nell’ambito del mercato interno;
- aumentare la certezza giuridica per gli operatori economici;
- garantire una concorrenza leale nel settore dei prodotti alimentari;
- promuovere e tutelare l’innovazione nel settore dei prodotti alimentari.
Il testo definitivo del Regolamento, così come emerge in seguito al precitato compromesso raggiunto dalle
istituzioni comunitarie, premette anzitutto che una dieta variata e bilanciata costituisce un requisito fondamentale per una buona salute e che i prodotti presi separatamente hanno una importanza relativa rispetto all’insieme dell’alimentazione. Inoltre, per garantire un elevato livello di tutela dei consumatori e facilitare le
loro scelte, i prodotti commercializzati devono essere sicuri e adeguatamente etichettati (9). D’altra parte,
viene sottolineato come la dieta sia uno dei tanti fattori che influenzano l’insorgere di determinate malattie:
per tale motivo, l’apposizione di indicazioni riguardanti la riduzione di un rischio di malattia deve essere sottoposta a condizioni specifiche (10). Venendo al campo d’applicazione dell’adottanda normativa comunitaria, il compromesso precisa che essa si estende alle indicazioni nutrizionali e sulla salute figuranti in comunicazioni commerciali, sia nell’etichettatura, sia nella presentazione o pubblicità dei prodotti alimentari forniti al consumatore finale o destinati a ristoranti, ospedali, scuole, mense e servizi analoghi di ristorazione collettiva (11). Essa non si applicherà invece alle indicazioni che figurano in comunicazioni non commerciali,
quali gli orientamenti ed i consigli dietetici espressi da autorità ed organi della sanità pubblica, né a comunicazioni e informazioni non commerciali riportate nella stampa e in pubblicazioni scientifiche. Inoltre, su insistenza del Parlamento europeo, le disposizioni del Regolamento non si applicheranno in caso di prodotti
non imballati (12) venduti direttamente al consumatore finale o imballati nel punto vendita su richiesta dell’acquirente: per tali prodotti continueranno ad applicarsi le normative nazionali, se esistenti, fino all’eventuale introduzione di una normativa UE ad hoc. Inoltre, i marchi e le denominazioni commerciali o di fantasia riportati sull’etichetta, nella presentazione o nella pubblicità di un prodotto alimentare che possono essere interpretati come indicazioni nutrizionali o sanitarie possono essere utilizzati senza essere soggetti alle procedure di autorizzazione del Regolamento, purché riportino anche una corrispondente indicazione nutrizionale o sanitaria in conformità con lo stesso (13). D’altra parte, su richiesta delle imprese interessate, possono
derogare a questa disposizione le denominazioni generiche tradizionalmente impiegate per indicare una proprietà di una categoria di alimenti (i.e. «digestivo» o «pastiglie per la tosse»). La Commissione dovrà predisporre le norme cui attenersi per la presentazione di tali richieste, onde garantirne un trattamento celere ed
entro tempi ragionevoli (14). Il Regolamento precisa poi cosa debba intendersi per «indicazioni», ovvero
qualunque messaggio (o rappresentazione) non obbligatorio in base alla legislazione comunitaria o nazionale, comprese le rappresentazioni figurative, grafiche o simboliche in qualsiasi forma, «che affermi, suggerisca
o sottintenda che un alimento abbia particolari caratteristiche» (15). Con «indicazione nutrizionale», si fa
invece riferimento a qualunque indicazione «che affermi, suggerisca o sottintenda che un alimento abbia particolari proprietà nutrizionali benefiche», dovute all’energia (valore calorico) che apporta, apporta a tasso riNote:
(8) Nel dettaglio, la Comunità europea ha adottato norme specifiche sull’etichettatura (Direttiva 2000/13/CE sull’etichettatura e la presentazione dei
prodotti alimentari e relativa pubblicità, in GUCE L 109 del 6 maggio 2000, 29) e sull’etichettatura nutrizionale dei prodotti alimentari (Direttiva
90/496/CEE del Consiglio, relativa all’etichettatura nutrizionale dei prodotti alimentari, in GUCE L 276, del 6. ottobre 1990, 40). Relativamente alle
indicazioni sui prodotti alimentari vige una disposizione di base secondo cui tali indicazioni non possono indurre in errore il consumatore. Inoltre, l’articolo 2, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2000/13/CE vieta di attribuire ai prodotti alimentari proprietà atte a prevenire, curare o guarire. Una corretta attuazione di tali disposizioni generali sarebbe un notevole progresso verso la prevenzione degli abusi nel settore. Tuttavia, gli Stati membri e le
parti in causa del settore hanno indicato che tali principi generali si prestano a diverse interpretazioni e pertanto non risultano soddisfacenti quando si
tratta di determinate indicazioni specifiche. Di recente, inoltre, nella causa C-221/00, Austria/Commissione (sentenza del 23 gennaio 2003), la Corte di
giustizia europea ha interpretato la vigente direttiva sull’etichettatura nel senso di un divieto di tutte le indicazioni sulla salute riguardanti le malattie
umane. Alla luce delle innovazioni tecnologiche nel settore alimentare e delle richieste avanzate dai consumatori e dall’industria, si propone di istituire un nuovo quadro normativo sull’utilizzo delle indicazioni sui prodotti alimentari.
(9) Cfr. considerando 1 del Regolamento.
(10) Cfr. considerando 27.
(11) Cfr. art. 1 del Regolamento per il campo d’applicazione.
(12) Quali i prodotti freschi come verdura, frutta e pane.
(13) Cfr. art. 1, paragrafo 3.
(14) Cfr. art. 1, paragrafo 3 bis, introdotto dal Parlamento.
(15) Cfr. art. 2 per le definizioni.
738
I CO N T R ATTI N. 7/2006
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•SINTESI
dotto o accresciuto o, non apporta, e/o alle sostanze nutritive o di altro tipo che contiene, contiene in proporzioni ridotte o accresciute, o non contiene. L’allegato al Regolamento enumera tutte le indicazioni consentite e il loro significato (16). Infine, è considerata «indicazione sulla salute» qualunque indicazione «che
affermi, suggerisca o sottintenda l’esistenza di un rapporto tra un categoria di alimenti, un alimento o uno dei
suoi componenti e la salute». In linea generale, l’impiego delle indicazioni nutrizionali e sulla salute, consentite solo se conformi al Regolamento, non può essere falso, ambiguo o fuorviante, oppure dare adito a dubbi
sulla sicurezza e/o sull’adeguatezza nutrizionale di altri alimenti o ancora incoraggiare o tollerare il consumo
eccessivo di un elemento. Non può nemmeno affermare, suggerire o sottintendere che una dieta equilibrata
e varia non possa in generale fornire quantità adeguate di tutte le sostanze nutritive, né fare riferimento a
cambiamenti delle funzioni corporee che potrebbero suscitare o sfruttare timori nel consumatore, sia mediante il testo scritto sia mediante rappresentazioni figurative, grafiche o simboliche (17). Nel corso dei negoziati, uno dei punti più controversi del regolamento era l’opportunità o meno di imporre alle imprese di indicare il «profilo nutrizionale» del prodotto (tenore in grassi, zuccheri e sali), se intendono sfruttare il livello
di uno di questi componenti come argomento di vendita. Alla fine si è optato per la soluzione che ne prevede l’obbligo: spetterà quindi alla Commissione stabilire i profili nutrizionali specifici, comprese le esenzioni,
che devono essere rispettati dagli alimenti (o da talune loro categorie) per poter recare indicazioni nutrizionali o sulla salute nonché le condizioni per il loro uso riguardo ai profili nutrizionali (18). Nel determinare i
profili nutrizionali, l’esecutivo dovrà tenere conto, inter alia, delle quantità di determinate sostanze nutritive
e di altro tipo contenute nel prodotto alimentare (quali grassi, acidi grassi saturi, acidi grassi, zuccheri e sale/sodio), tenendo presente il ruolo e l’importanza dell’alimento (o delle categorie di alimenti) e il loro contributo alla dieta della popolazione in genere o, se del caso, di certi gruppi a rischio come i bambini. Infine,
andrà valutata la composizione nutrizionale globale dell’alimento nonché l’eventuale presenza di sostanze
nutritive il cui effetto sulla salute sia stato scientificamente riconosciuto. I profili nutrizionali devono essere
basati sulle conoscenze scientifiche in materia di dieta, nutrizione e sul rapporto di queste ultime con la salute. All’uopo, nel fissare tali criteri, la Commissione dovrà chiedere all’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) (19) di fornire, entro 12 mesi, un pertinente parere scientifico riguardante la necessità di
stabilire profili per gli alimenti in generale e/o per le loro categorie, la scelta e il dosaggio delle sostanze nutritive da prendere in considerazione, la scelta di quantitativi/basi di riferimento per i profili, il metodo di calcolo dei profili e, infine, la fattibilità e la prova scientifica del sistema proposto. Nel definire o aggiornare i
profili nutrizionali, la Commissione dovrà poi consultare gli operatori del settore interessato e le associazioni
di consumatori (20). Le istituzioni comunitarie hanno peraltro introdotto una disposizione specifica per le
bevande alcoliche contenenti più dell’1,2% in volume di alcool, che non possono recare indicazioni sulla salute; per quanto attiene le indicazioni nutrizionali, invece, sono ammesse unicamente quelle che si riferiscono a bassi tenori in alcol, alla riduzione del contenuto alcolico e energetico. Inoltre è precisato che, in mancanza di norme comunitarie specifiche sulle indicazioni nutrizionali riguardanti un basso tenore alcolico o la
riduzione o l’assenza di contenuto alcolico o energetico in bevande che di norma contengono alcol, possono
essere applicate norme nazionali pertinenti ai sensi delle disposizioni del Trattato (21). Venendo all’esame
delle indicazioni sulla salute, il dettato normativo prevede che esse siano inserite in un elenco comunitario
stilato dalla Commissione sulla base di una dettagliata procedura di autorizzazione (22), che vede il coinvolgimento delle autorità nazionali e dell’EFSA, la quale ha il compito precipuo di accertarsi che le indicazioni
Note:
(16) Ad esempio, cosa si debba intendere per basso contenuto calorico, senza calorie, senza grassi, senza zuccheri aggiunti, fonte di proteine, fonte di fibre, leggero (light), naturalmente naturale, ecc.
(17) Cfr. artt. 3 e 5 per i principi generali e art. 12 per le indicazioni sulla salute non consentite.
(18) Cfr. art. 4.
(19) L’Autorità, con sede a Parma, è stata istituita dal Regolamento (CE) n. 178/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2002,
che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel
campo della sicurezza alimentare, in GUCE L 31 del 1 febbraio 2002, 1.
(20) Il compromesso prevede inoltre che, in deroga alla regola generale, le indicazioni nutrizionali relative alla riduzione di grassi, grassi saturi, acidi grassi trans, zuccheri e sale/sodio siano consentite, senza fare riferimento a un profilo per una o più sostanze nutritive per cui viene data l’indicazione, purché risultino conformi alle condizioni del regolamento. Le indicazioni nutrizionali sono anche autorizzate qualora una singola sostanza nutritiva sia superiore al profilo nutrizionale, a condizione però che nelle immediate prossimità dell’indicazione figuri un’avvertenza di pari visibilità che informi il superamento della soglia specifica fissata nel profilo nutrizionale con la dicitura «Elevato contenuto di…»(cfr. art. 4, paragrafo 2, lett b), come emendato
dal Parlamento).
(21) Cfr. art. 4, paragrafo 4.
(22) Cfr. artt. 15-18 per una descrizione dettagliata della procedura.
I C ONTRATTI N. 7/2006
739
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA•SINTESI
sulla salute proposte siano basate su prove scientifiche generalmente riconosciute. Pertanto, solo in seguito
ad un’adeguata valutazione scientifica con conseguente autorizzazione comunitaria sarà possibile apporre sui
prodotti indicazioni sanitarie ai sensi de Regolamento. Nel complesso, la procedura di autorizzazione potrebbe richiedere un periodo di massimo sette mesi per ottenere il parere dall’Autorità e di altri due mesi per far
sì che l’esecutivo emani una decisione contenente gli elenchi delle indicazioni sulla salute consentite. Il compromesso ora raggiunto prevede che ogni inserimento nell’elenco di indicazioni basate su dati scientifici recenti e/o che includono una richiesta di protezione di dati riservati sia adottato secondo una procedura accelerata (23). Va precisato, infine, che, in linea generale, le indicazioni nutrizionali o sanitarie sono consentite
solo se ci può aspettare che il consumatore medio comprenda gli effetti benefici secondo la formulazione dell’indicazione (24).
Inoltre, accogliendo un’altra richiesta dei deputati, il compromesso prevede che la Commissione, in collaborazione con l’EFSA, elabori delle linee guida tecniche e degli strumenti per assistere le imprese, in particolare le PMI, nella preparazione delle loro domande (25), visto che queste ultime raramente dispongono delle
risorse finanziare adeguate per svolgere le attività di ricerca.
La Commissione dovrà anche istituire e tenere aggiornato un registro comunitario delle indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite sui prodotti alimentari, per evitare la presentazione di più domande concernenti indicazioni già valutate. Il registro, accessibile al pubblico, presenterà anche un elenco delle indicazioni sulla
salute respinte e il motivo del rigetto. Le indicazioni sulla salute autorizzate in base a dati protetti da proprietà
industriale sono registrate in un allegato separato del registro (26). Riguardo agli aspetti legati alla protezione dei dati, il nuovo Regolamento prevede che i dati scientifici e le altre informazioni contenuti nella domanda, di norma, non possono essere usati a beneficio di un richiedente successivo per un periodo di cinque
anni dalla data dell’autorizzazione. Inoltre, fino al termine del periodo di cinque anni, nessun richiedente successivo ha il diritto di far riferimento ai dati designati come protetti da proprietà industriale dal richiedente
precedente (27).
Ciascuno Stato membro, se ha motivi gravi per ritenere che un’indicazione impiegata a livello nazionale non
sia conforme con l’adottando Regolamento, potrà peraltro sospenderne temporaneamente l’impiego (c.d.
misure di salvaguardia), dandone rapida comunicazione agli altri Stati membri e alla Commissione, che provvederà ad adottare una decisione sul punto, dopo aver ottenuto il parere dell’Autorità (28).
Per quanto attiene infine alle disposizioni transitorie, va precisato che i prodotti immessi sul mercato o etichettati prima della data di applicazione del nuovo testo comunitario e non conformi allo stesso possono essere commercializzati fino alla loro data di scadenza, ma non otre 30 mesi dall’entrata in vigore del Regolamento. D’altra parte, i prodotti recanti denominazioni commerciali o marchi di fabbrica esistenti anteriormente al 1 gennaio 2005 e non conformi al Regolamento possono continuare ad essere commercializzati per
altri 15 anni dall’entrata in vigore dello stesso, dopo i quali si applicherà la nuova disciplina. Infine, le indicazioni nutrizionali che sono state utilizzate in uno Stato membro anteriormente al 1 gennaio 2006 ai sensi
delle disposizioni nazionali ad esse applicabili e non incluse nell’Allegato al Regolamento potranno essere
impiegate per 3 anni dall’entrata in vigore dello stesso, sotto la responsabilità degli operatori economici di settore e fatta salva l’introduzione di misure di salvaguardia da parte dello Stato membro interessato (29).
Note:
(23) Cfr. considerando 25 e art. 17 bis. La procedura accelerata lascia comunque all’EFSA un congruo periodo di 6 mesi per la valutazione dell’indicazione sanitaria.
(24) Il nuovo regolamento prende come parametro di riferimento il consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenuti presenti i fattori sociali, culturali e linguistici, secondo l’interpretazione datane dalla Corte di giustizia, ma prevede misure volte ad evitare
lo sfruttamento dei consumatori che per le loro caratteristiche risultano particolarmente vulnerabili alle indicazioni fuorvianti. Ove un’indicazione sia
specificatamente diretta a un determinato gruppo di consumatori, come ad esempio i bambini, è auspicabile che il suo impatto venga valutato nell’ottica del membro medio di quel gruppo. La nozione di consumatore medio non è statistica. Gli organi giurisdizionali e le autorità nazionali dovranno
esercitare la loro facoltà di giudizio tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia, per determinare la reazione tipica del consumatore medio nel caso specifico (cfr. considerando 15 e articolo 5).
(25) Cfr. considerando 31 e 31 bis.
(26) Cfr. art. 19.
(27) Cfr. art. 20.
(28) Cfr. art. 23.
(29) Cfr. art. 27.
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I CO N T R ATTI N. 7/2006
MODELLO•PATTO DI FAMIGLIA
Il patto di famiglia (1)
C
on la Legge 14 febbraio 2006, n. 55 il legislatore ha finalmente aderito ai suggerimenti contenuti nella Raccomandazione 94/1069/CE (pubblicata in G.U.C.E. del 31 dicembre 1994) che invitava l’Italia - e gli altri Paesi in cui è ancora prevista una disciplina preclusiva dei contratti successori - ad adottare delle «mitigazioni» normative del divieto di cui all’art. 458 Codice civile allo scopo di assicurare una
continuità gestionale post mortem dell’impresa caduta in successione, mediante assegnazione della stessa al discendente che presenti più spiccate attitudini manageriali.
Due i tradizionali ambiti su cui la dottrina più attenta allo studio dei fenomeni parasuccessori (il riferimento
corre al gruppo di lavoro inaugurato a metà degli anni ’90 da Antonio Masi e Pietro Rescigno) aveva sin da
subito focalizzato la sua attenzione: quella del c.d. patto di famiglia e del c.d. patto di impresa.
Quest’ultimo ha, tuttavia, perso di interesse con l’intervento della riforma societaria che, con i nuovi articoli 2355 bis e 2469 Codice civile, innovando la disciplina della circolazione di azioni e partecipazioni in S.r.l.,
consente un’ampia programmazione (che spazia dall’esclusione di qualsiasi forma di trasferimento mortis causa alla previsione di meccanismi di gradimento controbilanciati dal diritto di recesso del successore non gradito) delle sorti dell’impresa esercitata in forma collettiva, mediante la predisposizione di apposite clausole
successorie.
Dunque le partecipazioni societarie in quanto tali esulano dalla disciplina del patto di famiglia che ha per oggetto il trasferimento da parte dell’imprenditore di tutta o parte dell’azienda o della governance della stessa
(mediato dal trasferimento del pacchetto di controllo di una società esercente attività di impresa).
In sintesi, il patto di famiglia è un tipo contrattuale autonomo, formale, plurilaterale con effetti traslativi immediati (tanto che l’unica possibilità per il disponente di conservare una qualunque forma di controllo sull’azienda è la riserva di usufrutto), in più punti derogatorio sia della disciplina dei contratti in generale sia di
alcuni fondamentali istituti della successione dei legittimari quali la riduzione e la collazione.
Nonostante la formula di apertura dell’art. 768 bis manifesti la chiara vocazione eccezionale della disciplina
rispetto al divieto dei patti successori, è lecito dubitare che il patto di famiglia configuri un autentico patto
successorio perché oggetto dell’attribuzione è l’azienda o la partecipazione così come esistente all’atto della
stipulazione (e non al momento dell’apertura della successione) in favore di un discendente (figlio o nipote
ex filio) sin da subito designato.
Il risultato è identico a quello che si potrebbe conseguire con una donazione pro quota dell’azienda in favore
di coloro che sarebbero legittimari qualora alla data dell’assegnazione si aprisse la successione del disponente,
con contemporanea liquidazione dei legittimari non assegnatari dell’azienda secondo un meccanismo analogo a quello previsto dall’art. 720 Codice civile per gli immobili non divisibili.
Il vantaggio indubbio di questo schema negoziale - in primis rispetto alla donazione - consiste nel rendere inattaccabile l’attribuzione sottraendola sia al rischio di riduzione che alla collazione con ciò realizzando una contemporanea funzione divisoria (nel caso in cui alcuni dei legittimari non assegnatari vengano liquidati a norma dell’art. 768 quater, secondo comma) che dovrebbe ridurre la litigiosità legata al trapasso generazionale.
Inoltre il patto di famiglia può essere sì impugnato per errore, violenza e dolo, ma, in deroga all’art. 1442 Codice civile, nel breve termine di un anno e può essere modificato o sciolto per mutuo dissenso ove, però, il recesso sia espressamente previsto nel contratto (art. 768 septies).
Anche in punto di tutela dei legittimari eventualmente sopravvenuti (es. figli nati successivamente o successivamente riconosciuti) il legislatore compie una scelta che si discosta dai principi generali.
L’art. 768 sexies, infatti, prevede che il coniuge e i legittimari che non abbiano partecipato al contratto - evidentemente perché sopravvenuti, posto che deve dubitarsi della validità del contratto concluso in assenza di
alcuno dei legittimari preesistenti, che l’art. 768 quater parrebbe configurare quali contraenti necessari - possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma che avrebbero percepito se avessero partecipato al patto aumentata degli interessi legali.
Ciò in deroga al fondamentale principio per cui la determinazione dei diritti dei legittimari ai sensi dell’art.
536 Codice civile e dei coeredi tenuti alla collazione ai sensi degli artt. 747 ss. Codice civile deve compiersi
in base al valore dei beni oggetto delle disposizioni da ridurre o conferire alla data di apertura della successio-
Nota:
(1) Per un’ampia disanima della questione, cfr. G. De Nova, F. Delfini, S. Rampolla, A. Venditti (a cura di De Nova), Il patto di famiglia, Legge 14 febbraio 2006, n. 55, collana Prima Lettura, in corso di pubblicazione.
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741
MODELLO•PATTO DI FAMIGLIA
ne. Quindi nel patto di famiglia il valore da considerare ai fini della quota di legittima è cristallizzato al valore che i beni attribuiti avevano alla data dell’atto dispositivo.
Infine, merita particolare interesse la delimitazione del novero dei beneficiari del patto di famiglia, che l’art.
768 bis Codice civile individua in uno o più discendenti dell’imprenditore.
Dalla formulazione della norma discende un duplice ordine di conseguenze: il patto di famiglia non è utilizzabile per attribuire l’azienda al coniuge o a parenti non legittimari (es. fratelli del disponente), per i quali dovrà farsi ricorso ad altri schemi negoziali. La novella, invece, consente di trasferire l’azienda anche in favore
di discendenti che non siano legittimari (es. nipoti ex filio, qualora il genitore sia ancora in vita), in tal modo
«saltando» una generazione nel trasferimento della titolarità della medesima. La previsione non fa che assecondare quella che è l’autentica ratio dell’innovazione, ovvero preservare la produttività aziendale nel difficile momento del trapasso dell’imprenditore favorendo coloro che si siano distinti per capacità manageriali,
senza dimenticare la funzione sociale cui assolve l’impresa a carattere familiare.
Carmen Leo
Repertorio n…..
Raccolta n……
PATTO DI FAMIGLIA
Repubblica Italiana
Il giorno….del mese di……dell’anno……
In Roma, presso i locali del mio studio alla via Arenula n. 1, avanti a me dott. Romolo Romani, notaio residente in Roma, iscritto nel ruolo dei Distretti Notarili Riuniti di Roma, Velletri e Civitavecchia, alla presenza dei signori
(testimoni (2))
- si sono costituiti BIANCHI FEDERICO, nato a …il giorno….residente in….alla via…..codice fiscale……
e
ROSSI EMILIA, nata a ….il giorno….residente in…..alla via….codice fiscale………,
che dichiarano di essere coniugati in regime di separazione dei beni;
BIANCHI EZIO, nato a …..il giorno…residente in….alla via…..codice fiscale……, che dichiara di essere
di stato civile libero;
NERI ERMINIA, nata a….…..il giorno…..residente in….alla via…..che dichiara di intervenire al presente
atto nella sua qualità di genitore esercente la potestà in rappresentanza del figlio BIANCHI LUCA, nato a
…...il giorno….residente in….alla via…..codice fiscale…..., di stato civile libero
e di essere autorizzata alla stipulazione del presente atto in forza di decreto del Tribunale di ….che in copia
conforme all’originale si allega al presente atto sotto la lettera «A».
Comparenti della cui identità personale io notaio sono certo, i quali:
- premesso che a) i signori BIANCHI FEDERICO e ROSSI EMILIA sono genitori del signor BIANCHI EZIO e nonni del
minore BIANCHI LUCA, il cui padre BIANCHI LEO è premorto;
b) oltre ai signori ROSSI EMILIA, BIANCHI EZIO e BIANCHI LUCA non esistono altri successibili legittimari qualora in data odierna si aprisse la successione in morte del signor BIANCHI FEDERICO;
c) il signor BIANCHI FEDERICO è pieno proprietario di una quota di partecipazione di nominali euNota:
(2) La presenza dei testimoni appare opportuna, anche se non strettamente necessaria. Il patto di famiglia è, infatti, un contratto con causa tipica non
riconducibile allo schema della donazione in senso stretto, anche se non si può negare che esso sia riconducibile allo schema generale dei negozi familiari con scopo di liberalità per i quali la forma solenne con testimoni fornisce maggiori garanzie.
742
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MODELLO•PATTO DI FAMIGLIA
ro175.000,00 (pari al 70% del capitale sociale) nella società a responsabilità limitata «Z S.r.l.», con sede in
…iscritta nel registro delle Imprese di …con capitale sociale di euro 250.000,00, interamente versato, codice fiscale e partita iva n…..;
d) lo statuto della società «Z S.r.l.» non prevede alcuna limitazione alla trasferibilità delle partecipazioni sociali né per atto tra vivi né per causa di morte;
e) il signor BIANCHI FEDERICO è altresì pieno ed esclusivo proprietario di un immobile ad uso abitazione
sito in…alla via ….(segue descrizione catastale dell’immobile);
f) è intenzione del signor BIANCHI FEDERICO, con il consenso del coniuge ROSSI EMILIA, del figlio
BIANCHI EZIO e del nipote BIANCHI LUCA, come sopra rappresentato, attribuire ai sensi dell’art. 768
bis ss. Codice civile, riservandosi il diritto di usufrutto vitalizio, la nuda proprietà della partecipazione sociale
nella «Z S.r.l.» al figlio BIANCHI EZIO e contestualmente liquidare il nipote legittimario BIANCHI LUCA mediante attribuzione della piena proprietà dell’immobile descritto sopra sub e) e di una somma in titoli di stato a conguaglio;
g) è intenzione della signora ROSSI EMILIA acconsentire alle attribuzioni come sopra descritte, rinunciando a far valere qualsiasi diritto o pretesa in suo favore;
h) come risulta da perizie di stima redatte in data dall’ing. ….nominato di comune accordo dalle parti e allegate al presente atto rispettivamente sotto le lettere «B» e «C», il valore patrimoniale reale della nuda proprietà della partecipazione nella società «Z S.r.l.», determinata in base alle risultanze dell’ultimo bilancio di
esercizio approvato in data…, ammonta ad euro 200.000,00 …e il valore della piena proprietà dell’immobile sub e) ammonta ad euro 180.000,00.
Tutto ciò premesso e da considerarsi parte integrante e sostanziale del presente atto
- convengono e stipulano quanto segue Art. 1 - Attribuzione della nuda proprietà della partecipazione sociale al signor BIANCHI EZIO
Ai sensi degli artt. 768 bis ss. Codice civile, il signor BIANCHI FEDERICO, con il consenso della signora
ROSSI EMILIA e del signor BIANCHI LUCA, come sopra rappresentato, attribuisce, riservandosene il diritto di usufrutto vitalizio, al signor BIANCHI EZIO, che accetta, la nuda proprietà della quota di partecipazione nella società «Z S.r.l.», di cui alla lettera c).
Il valore della predetta attribuzione è concordemente fissato dalle parti comparenti in euro 200.000,00.
Il diritto di voto inerente alla partecipazione trasferita resta in capo al signor BIANCHI FEDERICO.
Il signor BIANCHI FEDERICO si impegna altresì a richiedere l’iscrizione del trasferimento nel libro soci ai
sensi dell’art. 2470 Codice civile.
Art. 2 - Liquidazione della quota di legittima del signor BIANCHI LUCA
Ai sensi dell’art. 768 quater Codice civile il signor BIANCHI FEDERICO, con il consenso della signora
ROSSI EMILIA e del signor BIANCHI EZIO, attribuisce al signor BIANCHI LUCA che, come sopra rappresentato, accetta e acquista la piena proprietà dell’immobile di cui alla lettera e).
Il valore della predetta attribuzione è concordemente fissato dalle parti comparenti in euro 180.000,00.
Allo scopo di eguagliare il valore delle attribuzioni effettuate a favore dei signori BIANCHI EZIO e BIANCHI LUCA, il signor BIANCHI FEDERICO, con il consenso della signora ROSSI EMILIA e del signor
BIANCHI EZIO, trasferisce al signor BIANCHI LUCA, che come sopra rappresentato accetta e acquista la
proprietà di n. …….titoli …….(descrizione dei titoli) del valore di euro 20.000,00.
Art. 3 - Rapporti con i terzi
I signori BIANCHI EZIO e BIANCHI LUCA, quest’ultimo come sopra rappresentato, dichiarano che
quanto ricevuto con la sottoscrizione del presente contratto soddisfa interamente i diritti loro spettanti in base alla legge e che le attribuzioni ricevute verranno imputate alle quote di legittima loro riservate all’atto dell’apertura della successione del signor BIANCHI FEDERICO ai sensi dell’art. 768 quater, terzo comma, Codice civile.
Essi si considerano altresì obbligati in solido per il pagamento delle somme previste al secondo comma dell’art. 768 quater a favore di coloro che, pur non partecipanti alla stipulazione del presente contratto, risultino
essere legittimari al tempo dell’apertura della successione del signor BIANCHI FEDERICO.
Art. 4 - Rinuncia della signora ROSSI EMILIA
Ai sensi dell’art. 768 quater Codice civile la signora ROSSI EMILIA acconsente alle attribuzioni come sopra
regolate e rinuncia a qualsiasi attribuzione in suo favore.
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MODELLO•PATTO DI FAMIGLIA
Art. 5 - Recesso (eventuale)
Ai sensi dell’art. 768 septies Codice civile ciascuno dei contraenti potrà recedere dal contratto al verificarsi di
una delle seguenti cause…
Il recesso dovrà essere esercitato entro il termine di ………mediante dichiarazione rilasciata per atto pubblico comunicata a mezzo di lettera raccomandata a.r. spedita al domicilio dichiarato da ciascun contraente nel
presente atto.
In caso di esercizio del diritto di recesso le parti intendo così regolamentare le loro reciproche pretese
……(pattuizioni relative alla retrocessione dei beni in seguito all’esercizio del diritto di recesso)
Art. 6 - Consegna e garanzie
La titolarità dei diritti alienati con il presente contratto si trasferisce da oggi in capo alle parti acquirenti; la
consegna si intende effettuata con la sottoscrizione del presente contratto.
Il signor BIANCHI FEDERICO garantisce che quanto oggetto di attribuzione è di sua esclusiva titolarità ed
è libero da oneri o diritti reali a favore i terzi.
(eventuali garanzie circa la provenienza dell’immobile e la libertà da ipoteche)
Art. 7 - Rinuncia all’ipoteca legale
Per quanto occorrer possa, il signor BIANCHI FEDERICO rinuncia ad ogni diritto di iscrizione di ipoteca
legale che possa derivare dal presente contratto.
Art. 8 - Dichiarazioni urbanistiche
(Menzioni ai sensi della Legge 47/1985 e del D.P.R. 380/2001, concernenti l’immobile sub e)
Art. 9 - Spese e imposte
Imposte e spese del presente atto sono a carico di….
Richiesto io notaio ho ricevuto il presente atto del quale, unitamente agli allegati, alla presenza dei testimoni ho dato lettura alle parti che da me interpellate espressamente lo approvano.
Scritto in parte da me e da persona di mia fiducia su ….facciate fin qui di …..fogli.
744
I CO N T R ATTI N. 7/2006
INDICI
INDICE DEGLI AUTORI
Nicola Brutti
Il contratto di assicurazione europeo: tra modello opzionale ed e-insurance.....................................................
Carmen Leo
Il patto di famiglia..........................................................
728
741
Viviana Mancinelli
Risoluzione del contratto per inadempimento e locazione immobiliare per uso non abitativo......................
645
Carlo Piana
Licenze pubbliche di software e contratto ....................
720
Valerio Sangiovanni
La responsabilità dell’intermediario nel caso Cirio e la
recente legge per la tutela del risparmio.......................
Monica Selvini
I diritti del conduttore alla partecipazione all’assemblea condominiale e all’uso del parcheggio..................
686
672
Laura Vagni
Collazione della donazione dissimulata e limiti probatori per il coerede legittimario.......................................
652
Pier Giovanni Traversa
Nullità della fideiussione a «scadenza anticipata» ......
663
Inadempimento
Risoluzione del contratto per inadempimento e locazione immobiliare per uso non abitativo (Cass., sez.
III, 18 novembre 2005, n. 24460), commento di Viviana Mancinelli...............................................................
645
Intermediazione finanziaria
La responsabilità dell’intermediario nel caso Cirio e la
recente legge per la tutela del risparmio (Trib. Trani
31 gennaio 2006), commento di Valerio Sangiovanni ..
686
Locazione
I diritti del conduttore alla partecipazione all’assemblea condominiale e all’uso del parcheggio (Cass., sez.
III, 3 ottobre 2005, n. 19308), commento di Monica
Selvini...............................................................................
672
Simulazione
Collazione della donazione dissimulata e limiti probatori per il coerede legittimario (Trib. Rimini 27 dicembre 2005), commento di Laura Vagni ....................
652
Successioni
Il patto di famiglia, di Carmen Leo................................
741
INDICE DELLA RASSEGNA
DI LEGITTIMITÀ
Contratti in generale
INDICE CRONOLOGICO
DEI PROVVEDIMENTI
Corte di Cassazione
Cass., sez. III, 18 novembre 2005, n. 24460.................
Cass., sez. I, 4 novembre 2005, n. 21396......................
Cass., sez. III, 3 ottobre 2005, n. 19308........................
Tribunale
Trib. Trani 31 gennaio 2006..........................................
Trib. Rimini 27 dicembre 2005.....................................
645
663
672
686
652
Formazione
12 dicembre 2005, n. 27338..........................................
659
Regolamento
7 dicembre 2005, n. 27000............................................
2 dicembre 2005, n. 26234............................................
2 dicembre 2005, n. 26233............................................
659
659
660
Invalidità e scioglimento
7 dicembre 2005, n. 26970............................................
2 dicembre 2005, n. 26232............................................
25 novembre 2005, n. 24899 ........................................
660
660
661
I singoli contratti
INDICE ANALITICO
Assicurazione
Il contratto di assicurazione europeo: tra modello opzionale ed e-insurance, di Nicola Brutti ..........................
Diritto d’autore
Licenze pubbliche di software e contratto, di Carlo
Piana................................................................................
Fideiussione
Nullità della fideiussione a «scadenza anticipata»
(Cass., sez. I, 4 novembre 2005, n. 21396), commento di Pier Giovanni Traversa ...........................................
728
720
663
Assicurazione
16 dicembre 2005, n. 27728..........................................
702
Azienda
7 dicembre 2005, n. 27011............................................
702
Contratti bancari
1 dicembre 2005, n. 26210............................................
703
Locazione
16 dicembre 2005, n. 27731..........................................
703
Mandato
16 dicembre 2005, n. 27716..........................................
703
Vendita
24 novembre 2005, n. 24782 ........................................
704
I C ONTRATTI N. 7/2006
745
INDICI
INDICE DELLA RASSEGNA
DI MERITO
Assicurazione
Giudice di pace Roma 28 febbraio 2005......................
Clausole vessatorie
Trib. Ancona 28 febbraio 2005.....................................
Contratti bancari
Trib. Modena 9 maggio 2005 n. 856 ............................
746
I CO N T R ATTI N. 7/2006
705
705
707
Contratti di utenza telefonica
Giudice di pace Torre Annunziata 14 novembre
2005...............................................................................
Contratto d’opera professionale
Trib. Roma 23 febbraio 2006 ........................................
Trib. Marsala 25 giugno 2005........................................
Contratti finanziari
Trib. Barcellona Pozzo di Gotto 17 novembre
2005 ........................................................................
709
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712
714