VOGLIO FARLO CON TE “Voglio farlo con te” mi dice, seria

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VOGLIO FARLO CON TE “Voglio farlo con te” mi dice, seria
VOGLIO FARLO CON TE
“Voglio farlo con te” mi dice, seria, fissando il cucchiaino che rimesta meccanicamente nella tazza
senza caffè. Io tento un sorriso. Vorrei prenderle la mano. Mi guarda negli occhi. La guardo negli
occhi.
La conosco solo da un’ora. E’ arrivata a Venezia con il treno delle venti.
Ho aspettato il tramonto fuori dalla stazione, seduto sui gradini in fronte al Canal Grande, tra cento
persone e cento storie. Compresa questa.
Poi mi sono alzato e sono andato al binario.
Ed eccola.
Brunetta, piccolina, sorridente, ultima.
“Anna è un bel nome” le dico.
“Michele significa “Che sta a destra di Dio”” lo sapeva già.
Non dimostra i suoi quarant’anni. Appena al collo e agli occhi qualche ruga, le mani.
Ha una bella voce, sottovoce. Un po’ bambina.
Mi dice di Venezia della musica dei libri, ed intanto la imparo mentre camminiamo nella sera verso
le Zattere.
Mi sembrava una cosa curiosa, strana. Un vicolo nel buio verso l’ignoto. Per il mio istinto di
esploratore.
Partire verso mete sconosciute, quelle vere, come faccio spesso nella mia vita.
Ma ora è qui, seduta ad un tavolino in riva al mare. Non è parole, o un concetto astratto, è una
donna vera, che sa di pulito, di libri, di cassetti chiusi.
Ne sento l’anima. La sento. E questo fa la differenza.
Un mese fa nemmeno sapevo esistesse questa donna. Mi è arrivata con tre righe in messaggeria,
“Ciao mi chiamo Anna”. E poi molte lettere, “email” come si dice. Fino a quella che diceva
incontriamoci, ho un progetto. Eccoci.
“Oggi è il giorno giusto” mi ha detto al telefono prima di partire.
Ma ora, qui, le parole si sono dilatate, riempite di dettagli, e quel che sembra facile nei sogni
acquista la fatica dell’amanuense, carattere per carattere, per far veri i sogni.
Non mi sembra più una cosa curiosa, e nemmeno divertente.
Lei mi ha spiazzato. Non mi vengono le battute che alleggeriscono le situazioni, non mi vengono le
parole giuste. E’ il silenzio tra le parole, quello che non ci diciamo, a parlare.
Saliamo le scale di casa mia.
Le finestre sono aperte all’estate. Nella camera semibuia due candele di citronella aiutano la luna.
Anna, a sopresa, si spoglia veloce e si stende sul letto.
Non così, avevo immaginato. Sono imbarazzato, e silenzioso.
Mi siedo sul letto vicino a lei, la guardo. Molto nella testa, troppo, e niente a che fare con il sesso.
“Vieni” sussurra “non farti problemi, voglio solo un figlio, e voglio farlo con te”.
Lì nel letto, nuda, con i segni chiari del costume, sembra una ragazzina.
E’ indifesa nel corpo, nella mente, nei sogni. Mi commuove, una piccola scintilla.
Alla fine mi spoglio anch’io. Mi stendo a fianco ad Anna. Le prendo una mano, e poggio il capo a
fianco al suo sullo stesso cuscino.
Siamo puri ed indifesi, ora, tutti e due, così, pelle a pelle, a guardare le travi al soffitto e due
gabbiani di carta che si muovono appena.
Non vi è musica, solo voci lontane nelle calli, forse una fisarmonica che intona “dicinticello vuie..”
da qualche gondola turistica, ancor più lontana.
Le parlo sottovoce. Cominciando piano. Cominciando da quel giorno che avevo sette anni e stavo
per annegare.
E lei risponde del suo primo giorno di scuola, stringendomi la mano, con una piccola lacrima che
scende, per questo lungo viaggio, questo lunghissimo viaggio che l’ha portata fino a qui, in questa
notte, in questo tempo, con questo uomo.
Questo lunghissimo viaggio durato una vita, e la mia vita, in una piccola lacrima che rotola
controluce, mentre la bianca nave del letto muove dalla camera lasciando gli ormeggi, galleggiando
nella luce azzurra, verso il mattino.