DATI GENETICI E TUTELA DEI DIRITTI

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DATI GENETICI E TUTELA DEI DIRITTI
DATI GENETICI E TUTELA DEI DIRITTI
CARLA FARALLI
È ricorrente nella riflessione di Norberto Bobbio la considerazione che i diritti umani «sono diritti storici,
cioè nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri,
gradualmente, non tutti in una volta e non una volta per sempre». Ad esempio, la libertà religiosa è un effetto
delle guerre di religione, le libertà civili delle lotte dei parlamenti contro i sovrani assoluti, la libertà politica
e quella sociale della nascita, crescita e maturità del movimento dei lavoratori salariati e così via. Certe
richieste nascono, infatti, solo quando nascono certi bisogni e nuovi bisogni nascono in corrispondenza del
mutamento delle condizioni della società1.
Seguendo questa linea interpretativa, sono state individuate, come è noto, varie generazioni di diritti: la
prima generazione è quella dei diritti di libertà (libertà di pensiero, di coscienza, di religione ecc.), diritti di
ispirazione liberale e individualista, che pongono dei limiti all’attività dello Stato e all’ingerenza dei pubblici
poteri nella sfera privata: essi si sono venuti affermando nel pensiero moderno sei-settecentesco e, attraverso
le rivoluzioni liberal-borghesi, hanno trovato riconoscimento nelle solenni dichiarazioni di fine Settecento.
La seconda generazione è quella dei diritti sociali, di ispirazione democratica e socialista (diritto al lavoro,
all’istruzione, all’assistenza ecc.), che richiedono una politica attiva dei pubblici poteri attraverso
l’erogazione di prestazioni e di servizi: tali diritti, contemplati nella maggior parte delle Costituzioni
contemporanee, sono l’esito delle lotte della classe operaia tra Otto e Novecento.
Mentre su queste due generazioni di diritti la dottrina è concorde, non altrettanto concorde è
sull’individuazione di una terza e/o una quarta generazione di diritti.
Per lo più si identificano come diritti di terza generazione quelli che riguardano i cosiddetti «soggetti
deboli», vale a dire quegli individui che si trovano in stati di difficoltà (ad esempio, malati, anziani,
handicappati, ecc.) o siano stati vittime di discriminazione sociale per ragioni di ordine storico (ad esempio,
neri, donne, ecc.). Tali diritti sono in linea di continuità rispetto a quelli delle generazioni precedenti, di cui
costituiscono una specificazione con riferimento a particolari categorie di soggetti; per questo parte della
dottrina non li considera una generazione a sé stante.
Infine i diritti di quarta generazione - se si considerano quelli precedenti appartenenti alla terza generazione sono i diritti dell’età tecnologica: si tratta di un catalogo aperto, dai confini non facilmente delineabili,
includente pretese eterogenee che vanno dal diritto alla pace, allo sviluppo, all’ambiente, alla riservatezza
contro le intrusioni dell’informatizzazione, al diritto di morire con dignità contro ogni accanimento
terapeutico, all’integrità del patrimonio genetico e così via.
Con riferimento a questa generazione di diritti, va rilevata, da un lato, l’ampiezza dei fenomeni cui si
riferiscono, dall’altro il problema della titolarità, riferita non solo a soggetti individuali, ma a gruppi, popoli,
nazioni, a soggetti sempre più vasti, fino alle «generazioni future», ma anche soggetti non umani come gli
animali. In alcuni casi, come osserva sempre Bobbio, è improprio parlare di diritti, ma l’uso di tale
definizione è un espediente per attribuire un titolo di nobiltà e maggiore forza ad alcuni aspirazioni ideali in
vista di una loro regolamentazione.
Tra i diritti di quarta generazione proporrò alcune riflessioni sui diritti legati ai nuovi sviluppi della genetica,
sviluppi che permettono possibilità ogni giorno crescenti di migliorare la salute delle persone affette da una
patologia genetica e di identificare, prima o dopo la nascita, anomalie genetiche responsabili di malattie in
atto o di possibile insorgenza futura. Di qui un vero e proprio boom dei test genetici che, in rapporto alla loro
finalità, possono essere variamente classificati in «test diagnostici», finalizzati a identificare e, se possibile,
curare una malattia genetica; «test presintomatici», che consentono di identificare il gene di malattie
genetiche non presenti alla nascita, ma che potrebbero comparire nel corso della vita; «test predittivi», che
consentono di identificare genotipi che, da soli, non causano in genere una malattia, ma aumentano il rischio
di svilupparla; «test di screening genetico», condotti per una popolazione nel suo complesso, con finalità di
ricerca.
Ma, da un punto di vista teorico, quali caratteristiche hanno i dati genetici che si ricavano da tali test? Come
possono essere classificati? La risposta a tali domande è preliminare per poi considerare i diritti che entrano
in gioco: che natura abbiano e chi ne sia titolare.
1
Cfr., in particolare, N. BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 1990.
In ambito giuridico la definizione di dati genetici risale ad una Raccomandazione del 1997 (R/97/5) del
Consiglio d’Europa, in cui si dice che dati genetici sono «quei dati, indipendentemente dalla tipologia, che
riguardano i caratteri ereditari di un individuo o le modalità di trasmissione di tali caratteri nell’ambito di un
gruppo di individui legati da vincoli di parentela». Si tratta quindi di dati che si collocano nell’ambito dei
dati personali o, più in particolare, dei dati sanitari, ma con alcune peculiarità estremamente rilevanti. Come
ha sottolineato Stefano Rodotà, autorità indiscussa in materia2, «la particolare rilevanza delle informazioni
genetiche deriva dal loro carattere strutturale e permanente. Più precisamente, il patrimonio genetico è
definito e inalterabile per l’intero arco della vita biologica di un individuo: coglie il soggetto nella sua unicità
e lo pone in relazione inequivoca con altri soggetti: è il tramite biologico diretto tra le generazioni e, come
tale, immortale, mentre tutti gli altri caratteri biologici, appartenendo alla linea somatica, muoiono con
l’individuo. Ciò spiega – conclude Rodotà – il carattere centrale da essi assunto nel quadro delle
informazioni personali».
Il punto principale che viene messo in luce è che i dati genetici, a differenza degli altri dati personali, sono
strutturalmente condivisi, sono cioè permanenti e trasmissibili, il che comporta alcune conseguenze
importanti relative ad almeno tre questioni.
La prima questione è relativa al fatto che i dati genetici fanno riferimento non a un soggetto singolo, ma a un
gruppo di riferimento.
Strettamente legata alla prima, è la seconda questione, vale a dire: il gruppo di riferimento è la famiglia
biologica, che non coincide con la famiglia giuridica (non vi appartengono, ad esempio, il coniuge o i
genitori adottivi, ma ne fanno parte i donatori di gameti nel caso di fecondazione assistita o la donna che
chiede di rimanere anonima dopo il parto). Qualche teorico si spinge ad ipotizzare come parte di questo
gruppo di riferimento anche le generazioni future, categoria che crea parecchie perplessità dal punto di vista
teorico-giuridico, data la difficoltà di considerare titolari di diritti esseri che non esistono neppure in potenza
e che non si sa neppure se e come esisteranno.
La terza questione è quella concernente i diritti dei diversi soggetti appartenenti al gruppo di riferimento, sia
esso più o meno allargato, come si è detto sopra. Si tratta, a titolo esemplificativo, del diritto di accedere alle
informazioni di altri appartenenti al gruppo, del diritto alla privacy (che in questo caso comprende anche il
diritto di non sapere), delle modalità di esercizio di tali diritti, dei poteri di utilizzazione e circolazione dei
dati del gruppo.
Come è chiaro, si tratta, in parte, di problemi di sempre, come la tutela dei diritti individuali, il rapporto tra
interessi individuali e sociali, tra sfera privata e pubblica, ma anche di problemi nuovi derivanti dalle
innovazioni scientifiche e tecnologiche che hanno rivoluzionato il mondo delle comunicazioni e hanno reso
possibile agire su fenomeni vitali in modi fino a qualche decennio fa ritenuti impensabili (procreazione
assistita, trapianti, ingegneria genetica e così via).
Le prime testimonianze di forme di regolamentazione giuridica di questa materia a tutela dei diritti
fondamentali si rinvengono nel diritto internazionale3.
Il primo documento è considerato il codice di Norimberga, derivato dalla sentenza di condanna dei crimini
nazisti emanata nel 1947 dal Tribunale Internazionale, a conclusione del processo di Norimberga, a cui sono
seguite altre importantissime dichiarazioni fino alla fondamentale «Convenzione giuridica sui diritti
dell’uomo e la biomedicina» del 1995 e alla «Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea» del 2000.
La «Convenzione giuridica sui diritti dell’uomo e la biomedicina», frutto di un lungo e faticoso percorso
cominciato nel 1991 e sottoscritta da numerosi paesi, tra i quali l’Italia, nel 1997 ad Oviedo, codifica
pronunce preesistenti ma frammentarie - si pensi, ad esempio, alle Raccomandazioni rivolte dal Consiglio
d’Europa agli Stati membri fino dal 1970 con l’intento di realizzare una cooperazione internazionale
nell’ambito dell’etica medica (al 1982 risalgono le prime pronunce in tema di genetica con la
Raccomandazione n. 934 sull’ingegneria genetica).
In essa sono esposti una lunga serie di princìpi fondamentali e di norme che gli Stati firmatari, al momento
della ratifica (in Italia è avvenuta nel 2001), si impegnano ad includere nei loro ordinamenti.
Sul tema in oggetto, la genetica, la Convenzione vieta qualsiasi forma di discriminazione dell’individuo a
causa della sua costituzione genetica; consente i test genetici solo per fini medici e di ricerca e solo previo
ricorso ad una consulenza genetica appropriata, ammette gli interventi sul genoma solo per fini preventivi,
diagnostici, terapeutici o di ricerca medica e solo nel caso in cui non abbiano lo scopo di provocare alcuna
2
Cfr. S. RODOTÀ, Tecnologie e diritti, Bologna, 1995 e il recentissimo La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006.
Per un quadro ampio ed articolato della normativa internazionale e nazionale rinvio a G. SANTANIELLO-G. FILIPPI, Dati genetici,
genoma e privacy, in Trattato di diritto amministrativo a cura di G. SANTANIELLO, vol. XXIII, Padova, 2000.
3
modificazione del genoma della discendenza; proibisce l’uso di tecniche di procreazione medicalmente
assistita finalizzate alla scelta del sesso o di altri caratteri, salvo il caso in cui tale ricorso sia necessario al
fine di evitare la nascita di un bambino affetto da grave malattia ereditaria legata, ad esempio, al sesso. Si
tratta quindi di una serie di disposizioni che affermano un diritto alla propria identità genetica quale
corollario, per così dire, dei diritti alla vita e alla salute.
La «Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea», firmata a Nizza nel 2000 e poi entrata a costituire la
Parte II della futura Costituzione Europea, conferma all’art. 21 il divieto di «qualsiasi discriminazione
fondata, in particolare, … sulle caratteristiche genetiche».
In Italia la normativa di riferimento per i dati genetici è quella sui dati sanitari: già la legge 675 del 1996 sui
dati sensibili aveva dedicato al trattamento dei dati sanitari, considerati parte del più ampio genus dei dati
sensibili, disposizioni particolari, finalizzate a bilanciare il necessario trattamento di tali dati con l’esigenza
di tutela delle persone; nel 1997, all’atto dell’emanazione della prima autorizzazione generale al trattamento
di tali dati, prevista dalla legge in oggetto, il Garante aveva affrontato il tema dei dati genetici, considerati
come dati sanitari particolarmente sensibili. In tale documento si autorizzava il trattamento dei dati genetici
«limitatamente alle informazioni e alle operazioni indispensabili per tutelare l’incolumità fisica e la salute
dell’interessato, di un terzo o della collettività», dietro consenso scritto dell’interessato. In mancanza di tale
consenso era prevista apposita autorizzazione del Garante, nel caso in cui il trattamento non fosse finalizzato
alla tutela della salute di un terzo e della collettività. La normativa oggi in vigore è rappresentata dal Codice
in materia di protezione dei dati personali del 2003, che dedica l’intero titolo V (articoli dal 75 al 94) al
trattamento dei dati personali in ambito sanitario (l’art. 90 commi 1 e 2 disciplina in particolare i dati
genetici)4.
È inoltre unanimemente riconosciuto che è stato il Garante per la protezione dei dati personali a svolgere un
ruolo di battistrada e a tracciare, di fatto, le linee guida per inquadrare giuridicamente il tema e sensibilizzare
l’opinione pubblica. Particolarmente significativa è da ritenersi la pronuncia del 22 maggio 1999 che, in un
caso concreto, mette in luce la molteplicità e la problematicità dei profili concernenti la tutela dei diritti in
materia di test genetici.
Il caso in oggetto è quello di una donna affetta da malattia congenita che, volendo avere un figlio, si era
sottoposta ad indagini genetiche. I sanitari, per poter formulare il loro giudizio sul rischio che la donna
potesse trasmettere la sua malattia, avevano necessità di acquisire alcuni dati sanitari riportati nella cartella
clinica del padre della donna, depositata presso una struttura ospedaliera. A tale acquisizione il padre aveva
negato il consenso e i medici dell’ospedale, presso il quale la cartella era conservata, avevano opposto il
segreto professionale, sostenendo che la legge 675/1996 consente di acquisire dati sanitari senza consenso
solo nel caso in cui l’interessato sia incapace di intendere e di volere.
La donna si era pertanto rivolta al Garante, chiedendo di autorizzare l’acquisizione della cartella clinica del
padre, anche in presenza del suo dissenso. Esaminando il caso, il Garante ha innanzitutto osservato che la
conoscenza (prima del concepimento o durante la gravidanza) del rischio di insorgenza di patologie, anche di
tipo genetico, può certamente contribuire a migliorare le condizioni di benessere psico-fisico della gestante,
nel quadro di una piena tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo (art. 32 della
Costituzione). Nel caso specifico, l’accesso ad alcuni dati sanitari del padre della paziente rappresentava un
presupposto essenziale per l’accertamento delle modalità di trasmissione della malattia e soltanto la
disponibilità di questi dati poteva consentire una scelta riproduttiva consapevole ed informata.
Il Garante ha ritenuto, pertanto, che, pur in presenza del rifiuto del padre, l’ospedale poteva acquisire i suoi
dati sanitari presso la struttura sanitaria dove erano custoditi. Gli organismi sanitari pubblici, infatti, possono
trattare i dati senza il consenso dell’interessato qualora si debba tutelare la salute o l’incolumità fisica di terzi
o della collettività. L’esigenza di tutelare il benessere della gestante, nella circostanza in esame, poteva
comportare un ragionevole sacrificio del diritto alla riservatezza dell’interessato.
Si osserva inoltre che, anche dal punto di vista del segreto professionale, la tutela dell’incolumità psico-fisica
di un terzo viene considerata «giusta causa» dall’art. 622 del codice penale che legittima la rivelazione di
informazioni eventualmente coperte da segreto professionale. Lo stesso codice di deontologia medica indica
espressamente quale «giusta causa di rivelazione» sia l’urgenza di salvaguardare la vita o la salute
dell’interessato o di terzi, nel caso in cui l’interessato non sia in grado di prestare il proprio consenso, sia
l’urgenza di salvaguardare la vita e la salute di terzi, anche nel caso di rifiuto dell’interessato, ma previa
4
Si veda J. MONDUCCI-G. SARTOR (a cura di), Il Codice in materia di protezione dei dati personali - Commentario sistematico al
D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, Padova, 2004 e in particolare il contributo di J. MONDUCCI-G. PASETTI, Il trattamento di dati
sanitari e genetici, pagg. 255-282.
autorizzazione del Garante. In conclusione, a parere del Garante, l’ospedale non incontra ostacoli né nella
legge n. 675 del 1996, né nelle norme sul segreto professionale e può legittimamente acquisire i dati sulla
base della citata autorizzazione.
L’Autorità ha, comunque, richiamato l’organismo sanitario ad adottare precise cautele a tutela della
riservatezza: ha indicato espressamente che i dati sanitari da acquisire siano trasmessi con plico sigillato, in
modo da assicurare la segretezza della cartella clinica nei confronti di persone estranee; che il personale
dell’ospedale riferisca personalmente alla sola richiedente il risultato dell’indagine genetica con informazioni
chiare ed esaustive, senza però comunicarle i dati sanitari relativi al padre, e di non comunicare a
quest’ultimo informazioni relative agli accertamenti eseguiti, fuori dei casi di diritto di accesso ai dati che lo
riguardano o di necessità di acquisizione di informazioni necessarie per la tutela della sua salute o incolumità
fisica.
Questa pronuncia, come ho detto, è molto significativa perché mette in luce in un caso reale molti dei
problemi cui accennavo all’inizio in una dimensione teorica:
- i dati genetici hanno la particolare caratteristica – che li differenzia da tutti gli altri dati personali – di essere
condivisi e trasmissibili, quindi il diritto alla privacy, che tutela i dati personali e che la teoria ascrive, come
tutti i diritti della personalità, tra i diritti assoluti, presenta, con riferimento ai dati genetici, caratteri di
relatività;
- in alcuni casi – come quello in questione – il diritto alla privacy (del padre) cede in presenza di un altro
diritto di pari rango (quello alla salute psico-fisica della madre). Ovviamente il bilanciamento di interessi può
essere fatto in presenza di interessi di pari valore: va sottolineato che lo schema adottato nel caso in oggetto
non potrebbe essere adoperato in casi in cui gli interessi in conflitto fossero di natura o di rango
costituzionale diverso. Si prenda il caso della richiesta di informazioni genetiche da parte di società di
assicurazioni, di istituti di credito o di datori di lavoro: in questi casi la comunicazione può determinare
situazioni di discriminazione ai danni di coloro che risultano portatori di malattia genetiche e quindi è in tutti
i casi vietata;
- deve essere garantito, come fa l’autorizzazione citata del Garante, con riferimento al padre, il diritto di non
sapere. È chiaro che la conoscenza del proprio destino genetico rivelato da test predittivi (la cui attitudine è
peraltro assai variabile, perché pochissime sono le malattie genetiche monofattoriali, mentre gran parte di
esse sono polifattoriali, quindi senza nessuna previsione certa di insorgenza) può avere implicazioni
profonde sulla personalità del singolo: può indurre a strategie tendenti ad evitare o ridurre i rischi
conseguenti, ma anche generare ansia, depressione o scelte tragiche (il caso più spesso citato è quella della
Corea di Huntington, malattia a insorgenza tardiva). Di qui l’esigenza di rispettare il diritto di ciascuno di
decidere di essere informato o meno dei risultati di un esame genetico e delle sue conseguenze. Sul piano
filosofico il diritto a non sapere confligge con il principio di responsabilità, ma è certamente un aspetto del
diritto alla libera autodeterminazione nelle proprie scelte di vita.
Commenta a questo proposito Stefano Rodotà che la possibilità di predire vicende riguardanti il futuro
biologico apre la strada ad interventi che fanno passare alcune situazioni dal caso alla libertà, consentendo
libere scelte dove prima esistevano situazioni necessitate. Si creano così situazioni propizie ad una deliberata
costruzione del proprio avvenire biologico, nella prospettiva di un ‘antidestino’, di un passaggio cioè da
situazioni che l’uomo subisce a situazioni che l’uomo governa.
Ma proprio Rodotà ha puntato l’indice contro la tendenza in atto di considerare le informazioni derivanti dai
test genetici – la cui attitudine predittiva, come si è detto, è assai variabile – come dati socialmente certi, tali
da poter trasformare la dimensione clinica di eventuali patologie in dimensione sociale, attraverso
discriminazioni ed abusi operati sulla base della conoscenza delle informazioni genetiche.
Ed è questo il rischio che deve assolutamente essere evitato a tutela dei diritti individuali.