Approaches to Teaching Collodi`s «Pinocchio» and
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Approaches to Teaching Collodi`s «Pinocchio» and
«Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/> Federica Colleoni Rappresentazioni di lavoratori precari nel cinema europeo. Comencini, Cantet, Loach Sommario I. Cinema europeo e lavoro II. Risorse (dis)umane... III. (Non) Mi piace lavorare (se c'è) Mobbing IV. È un mondo... "gratis"! V. Conclusione VI Bibliografia On peut appartenir à un univers prestigieux, mais n'y occuper qu'une position obscure. Pierre Bourdieu, intervista, 1993 I. Cinema europeo e lavoro Il tema del lavoro, per un lungo periodo grande escluso, tranne rare eccezioni, dal cinema e dalla letteratura italiani e non solo, è ritornato di recente al centro dell'attenzione in particolare nella sua dimensione postfordista di lavoro precario, insicuro, flessibile. Il fenomeno è da collegarsi a una tendenza europea, che fa riflettere su quegli elementi problematici che accomunano la condizione socio-economica attuale dei vari paesi del continente. In questo breve articolo si prendono in esame tre film realizzati da registi "impegnati" e "di sinistra", che godono di una considerazione autoriale e che affrontano il tema con la consapevolezza che raccontare il lavoro (o l'incertezza di esso) significa, oggi più che mai, raccontare la contemporaneità. «Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/> Il film di Francesca Comencini Mi piace lavorare-Mobbing (2003), realizzato nel corso del secondo governo Berlusconi e nato da un documentario prodotto con il sostegno del sindacato CGIL, ha messo in luce la connessione tra precarietà e condizione femminile nonché il ruolo fondamentale del sindacato nel ricreare un tessuto di solidarietà fra lavoratrici per fronteggiare il potere smisurato delle multinazionali. Anche il film francese Ressources humaines (1999) di Laurent Cantet, come quello di Comencini, fa uso di attori non professionisti e si articola attorno al problema del rapporto tra individuo e società di capitali, in un momento storico nel quale la Francia, dopo anni di ascesa dell'ideologia neoliberista, era scossa dalla proposta della riduzione a 35 ore settimanali di lavoro da parte di una coalizione di sinistra. Il film britannico It's a free world (2007) di Ken Loach è il più recente dei tre. Esso si concentra sulla critica al concetto di libero mercato e si apre alla rappresentazione del fenomeno del reclutamento di manodopera straniera a basso costo, spesso assunta in modo illegale, come elemento costitutivo dell'economia europea attuale. Il film di Loach è quello fra i tre che mostra in modo più attento come il tema del lavoro, pur radicato nella dimensione locale, finisca per superare i confini dello stato-nazione, della sua storia e della sua cultura specifiche.1 In tal modo, alla luce dell'interdipendenza tra l'economia europea occidentale (globalizzata e delocalizzata) e quella dell'Europa orientale e di altri continenti, viene messo in discussione l'assunto nazionale in quanto corpo economico-sociale autonomo, veicolo di identificazione e di riconoscimento in contrapposizione all'alterità, rappresentata dallo straniero. Sfidando una rigida divisione storica in confini nazionali, la rappresentazione del lavoro postfordista, colto nei suoi risvolti traumatici, si rivolge ad un pubblico europeo, anzi mondiale. Il film di Loach, infatti, pur mostrando una specificità geografica, cessa anche di appartenere a una rigida categoria di film "nazionale" che rivendica una definita "identità «Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/> nazionale".2 Si apre piuttosto verso una dimensione nuova, di cinema "globale", che non ha nulla a che fare con l'internazionalismo o cosmopolitismo atto a imporre modelli di consumo, ma che riesce a entrare in dialogo con un pubblico transnazionale. Se nei film di Cantet e Comencini si respira ancora la convinzione che basti il coraggio del singolo, sorretto dal sindacato, a ritrovare la forza di agire ed esercitare un proprio potere sul mondo del lavoro, nel film di Loach, invece, si assiste allo sgretolarsi delle certezze di risolvere conflitti e problemi del lavoro attraverso tradizionali forme di lotta e di associazionismo. II. Risorse (dis)umane... Il film di Cantet racconta quella che oggi è l'anticamera, il limbo, del lavoro vero e proprio, ossia l'esperienza di stage, il sempre più diffuso apprendistato imposto ai giovani che hanno conseguito un titolo di studio ma non hanno ancora maturato una vera esperienza professionale. Il protagonista, Franck, che ha avuto "la fortuna" di lasciare la provincia e laurearsi nella metropoli parigina, ha deciso di svolgere il proprio stage nella sua città natale, precisamente nella fabbrica in cui il padre lavora da sempre come operaio. Qui affianca il responsabile delle risorse umane con l'intento di elaborare una strategia per l'introduzione delle 35 ore settimanali. Alla domanda postagli dal direttore del personale sul perché abbia scelto proprio quella fabbrica, Franck risponde che essa è «simbolicamente significativa» per lui. È sulla presenza di simboli significativi nell'esperienza del protagonista che mi concentrerò nella mia breve analisi. Franck rappresenta un tipo di lavoratore particolare non essendo veramente assunto ma che occupa uno spazio di confine tra l'inclusione e l'esclusione dal corpo dell'azienda. Egli lavora precisamente alla riduzione dell'orario settimanale, una pratica che, ideata con l'intento di ridurre le ore «Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/> di lavoro agli operai, in realtà finisce per giustificare dei tagli del personale che mettono in discussione un diritto al lavoro che sembrava, erroneamente, definitivamente acquisito. Il film mostra le difficoltà di dialogo tra la classe operaia, rappresentata sia dal padre del protagonista, sia dagli operai iscritti al sindacato, e la nuova classe dirigente, colta, cittadina, a cui Franck sembra ormai appartenere. La famiglia stessa di Franck è una metafora della società francese divisa e incapace di comunicare, in cui esistono divisioni e frizioni non solo tra città e provincia, ma pure tra classi. Cantet opta tuttavia per un finale positivo, non tanto per la risoluzione dei problemi lavorativi, quanto per la maturazione interiore del protagonista: Franck si ribellerà al modo in cui il suo progetto (ossia un sondaggio da lui ideato e proposto agli operai) è stato manipolato e strumentalizzato dai capi per giustificare il lincenziamento di alcuni lavoratori, tra cui suo padre, e reagirà partecipando alla lotta messa in atto dal sindacato e sostenuta dai lavoratori. Il film mostra l'evoluzione del personaggio di Franck dal ruolo di tecnocrate del lavoro che non osa prendere parte alla lotta preferendo osservarla, all'attivista che, invece, rischia ogni cosa per esprimere il suo appoggio agli operai. Se è vero che per Franck, "stagista" ergo "precario", il ritorno alla fabbrica del padre (che rappresenta il lavoro fordista) è simbolicamente significativo in quanto incontro/scontro fra due identità lavorative radicalmente diverse, è proprio attraverso la visualizzazione dei simboli della fabbrica prima e dei simboli della lotta sindacale poi che si evidenzia il passaggio dalla passività iniziale alla agency del finale. All'inizio Franck percorre l'interno della fabbrica subendo passivamente i segni di un ordine superiore, prestabilito (visivamente manifesto nei poster affissi sui muri che ordinano paternalisticamente agli operai come essere e come pensare). Alla fine, invece, egli uscirà all'esterno della fabbrica e ci verrà mostrato mentre produce nuovi segni, nuove frasi, scrivendo sugli striscioni slogan e rivendicazioni. Nelle scene iniziali il giovane si aggira «Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/> silenzioso per la fabbrica rumorosa in compagnia dei suoi nuovi superiori. Essi intendono presentarlo agli operai, ma quel voler stringere loro la mano si rivela un gesto che, tentando di illuderli dell'assenza di distinzioni gerarchiche, in realtà le ribadisce attraverso il paternalismo che comunica. Vediamo vari cartelli colorati appesi ai muri che portano immagini esplicite e didascaliche, come un topolino con del formaggio, e scritte all'imperativo: «Méfiez vous d'un mécanisme inconnu» (ossia «diffidate di un meccanismo sconosciuto») o «Toujours réflechir avant d'agir» (ossia «riflettere sempre prima di agire»). Si tratta di consigli che ironicamente preannunciano l'evolversi della vicenda nel resto del film, ossia la trappola in cui Franck cade elaborando il suo sondaggio e involontariamente fornendo alla direzione gli strumenti e la scusa per ridurre il personale. Al contrario, alla fine del film, Franck ci viene mostrato al di fuori della fabbrica mentre dipinge slogan insieme agli altri operai (per esempio si legge in grande: «no aux licenciements» ossia «no ai licenziamenti»). Non è più solo, ma fa ora parte di una comunità attiva e solidale. Paradossalmente, uscendo dalla fabbrica, Franck sperimenta finalmente l'inclusione, mentre nelle scene in cui lo si mostrava all'interno della fabbrica, la sua estraneità era continuamente ribadita (era stato persino allontanato da una riunione come intruso). Il film tuttavia non indaga i motivi profondi della crisi del lavoro che ne è oggetto, nel senso che essa è intesa come un fenomeno locale, non come il risultato di politiche che scavalcano i confini e gli interessi nazionali. Restano evase domande quali: perché la produzione è diminuita nel corso del tempo al punto da spingere il padrone a ritenere necessari i licenziamenti? In che modo la tendenza alla delocalizzazione produttiva ha stravolto l'economia francese al punto da rendere necessarie le 35 ore? Quali apparentemente astratti processi economici hanno concretamente mutato l'assetto sociale? Forse chiediamo troppo al film di Cantet, ma come si può ancora raccontare il problema del lavoro senza tenere conto di ciò che accade "fuori" dalla «Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/> fabbrica, altrove, lontano dalla provincia? Cantet non si spinge oltre, malgrado il suo film parli una lingua comprensibile ai lavoratori di mezza Europa.3 All'interno di un filone cinematografico nato nella metà degli anni Novanta in cui persistono elementi tipicamente francesi, soprannominato «cinéma de banlieue»,4 che si avvale spesso di attori non professionisti e che tende a proporre tematiche sociali, il film di Cantet da un lato reclama una specificità nazionale contro la tendenza post-nazionale di grandi produzioni internazionali rivolte a un consumo mondiale, dall'altro evita la dimensione globale dei temi che affronta.5 III. (Non) Mi piace lavorare (se c'è) Mobbing Tra gli elementi che accomunano il film di Cantet a quello di Comencini, vi è il fatto che entrambi raccontano le tematiche del lavoro inserendole in un contesto famigliare e "mélo", distanziandosi da un cinema prettamente di propaganda, per cogliere invece la dimensione politica di ogni scelta individuale. In particolare mostrano come il sindacato cerchi di mantenere viva nei lavoratori la consapevolezza di essere parte di un organismo più vasto, di avere un linguaggio comune attraverso il quale articolare le proprie rivendicazioni, i propri diritti. Realizzato con un budget ridotto, il film Mi piace lavorare-Mobbing è nato dall'incontro della regista con gli operatori dello sportello "anti-mobbing" del sindacato nazionale CGIL di Roma. Lo stile documentaristico e l'uso di attori non professionisti, come nel film di Cantet (ad eccezione del protagonista, interpretata qui da Nicoletta Braschi, là da Jalil Lespert), rendono questo film particolare nel panorama cinematografico italiano contemporaneo. Il film tratta del problema del mobbing, una forma di discriminazione operata su luoghi di lavoro precarizzati e dunque resi inutilmente competitivi non solo dai superiori ma anche dagli stessi colleghi. In Italia non esiste ancora una legge speciale del codice penale relativa al mobbing, a differenza di altri «Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/> paesi europei (Francia, Germania, Gran Bretagna...),6 quindi il film assume un valore di condanna di una situazione sociale che richiederebbe maggiore consapevolezza da parte dei legislatori. Nel film Anna, madre single e impiegata in una società, assiste inerme alla ristrutturazione delle risorse umane in seguito a una fusione. Tale processo di "ottimizzazione" delle risorse si manifesta cinicamente nell'esclusione di alcuni individui dall'organismo dell'azienda. In questi casi, attraverso tecniche subdole e sottili di umiliazione, il lavoratore viene spinto ad abbandonare volontariamente il proprio posto di lavoro. Anna infatti è progressivamente e pretestuosamente allontanata dalle sue funzioni e invitata a svolgerne altre di livello inferiore, inutili o umilianti; è mortificata e trattata diversamente da capi e colleghi al punto da essere spinta in un gorgo di disistima e di depressione. In altre parole, Anna è vittima di quella che, seguendo Pierre Bourdieu, potremmo chiamare "violenza simbolica", ossia una violenza subita dal soggetto che inconsciamente accetta le sofferenze imposte da un potere gerarchico arbitrario come se esso scaturisse da un'oggettiva autorevolezza. Grazie all'appoggio di altre donne impegnate nel sindacato e con il sostegno della figlia Morgana, Anna ritroverà la forza di reagire al sopruso comprendendo che una condizione lavorativa dignitosa non è una concessione, bensì un diritto. Il film predilige la descrizione delle ripercussioni personali e traumatiche del mobbing mostrando soprattutto le difficoltà della protagonista nei suoi rapporti familiari. L'intervento del sindacato, tuttavia, riuscirà a scuotere la protagonista e a spingerla a reagire. Anna "guarisce" nel momento in cui a una narrazione in termini puramente personali se ne sostituisce un'altra che invece stabilisce la dimensione collettiva del fenomeno. Questo è particolarmente evidente nella scena che mostra un'assemblea sindacale seguita alla notizia repentina del trasferimento di parte dei lavoratori in altra sede. La sindacalista che prende la parola descrive la durezza delle condizioni di vita che si prospettano per le lavoratrici. In un contesto di «Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/> "flessibilità totale" sono minacciate innanzitutto le relazioni interpersonali e famigliari di cui le donne storicamente si prendono cura. In altre parole, si fa leva sulla fragilità delle persone riducendo la dignità del loro lavoro, della loro esistenza. Nella quasi totale assenza di solidarietà fra lavoratori e lavoratrici, la presenza del sindacato attraverso le sue rappresentanti riesce a ristabilire un dialogo tra le donne e a far riemergere una consapevolezza dei propri diritti che sembrava perduta all'interno di un mondo in cui precarietà, flessibilità forzata sono diventate la cifra distintiva. È difficile non condividere l'affermazione di Francesca Comencini per cui «il mobbing ha una preferenza per [le donne]. Ho ascoltato la rabbia di donne costrette a lasciare i loro figli giornate intere per andare in uffici dove venivano insultate e prese in giro. Il paese più flessibile del mondo odia le madri».7 Nel film l'intervento del sindacato riesce a riattivare il senso di essere parte di una comunità più estesa, così che il "problema del lavoro" cessa di essere sentito unicamente come individuale, ma diventa plurale, cioè si inserisce in un discorso comune. Tale discorso fornisce alla vittima di mobbing un linguaggio condiviso attraverso il quale esprimere il proprio trauma, consentendo il passaggio da una forma di sottomissione e passività al dispiegamento di una propria agency, ossia consapevolezza. Il film si conclude mostrando Anna serena insieme alla figlia che le dice «smettila di avere paura!». È la paura, infatti, l'arma principale per destabilizzare l'individuo che lavora in condizioni di precarietà.8 Da questo punto di vista, Comencini ha colto molto bene come il mobbing sia precisamente la negazione della solidarietà, il ribaltamento dei valori promossi dal sindacato. Il mobbing, insomma, è una versione perversa dell'aggregazione. «Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/> IV. È un mondo... "gratis"! Anche nel film di Ken Loach la protagonista è una donna sola, vittima della precarietà lavorativa, ma in una realtà piuttosto diversa e con un carattere più cinico. Angie è una donna alla ricerca del riscatto economico e sociale, in lotta con le istituzioni per l'affidamento del figlio, dopo aver perso il lavoro per aver reagito agli atteggiamenti apertamente sessisti del suo datore di lavoro. Paradossalmente per ottenere i mezzi economici necessari ad assicurarsi il diritto di stare con il figlio, ricorre a mezzi illeciti, ossia il reclutamento di manodopera illegale proveniente dall'Europa orientale. Il fatto che il film abbia adottato il punto di vista di Angie è stato disapprovato da alcuni critici che hanno lamentato l'assenza di una vera assunzione della prospettiva dell'immigrato. In realtà, a mio avviso, il punto di vista del film rispecchia, criticamente, quello delle società occidentali. Lo sguardo del film (e di Angie) subisce una continua oscillazione tra una nozione degli immigrati da un lato in quanto concetto astratto, costrutto politico, e dall'altro in quanto identità individuali. Nel film assistiamo a un dialogo tra Angie e il padre in cui l'uomo critica aspramente l'attività della figlia. Il linguaggio a cui il padre fa ricorso (che riflette le ideologie sindacali e socialiste di una generazione precedente a quella della figlia) non trova riscontro nelle parole della ragazza. Alla domanda insistente se i suoi lavoratori percepiscano la minimum wage, cavallo di battaglia delle lotte sindacali, lei risponde spostando il perno della questione dall'antagonismo tra lavoratori/padroni alla dialettica consumatori/mercato, a mostrare come sia linguisticamente sia ideologicamente padre e figlia appartengano a due mondi diversi: Angie giustifica il proprio cinismo facendo notare che una riduzione delle spese produttive (ossia un contenimento dei salari) si traduce in una riduzione dei costi delle merci, dunque è un fattore socialmente positivo, come a dire democratizzante. «Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/> Angie è consapevole del fatto che i lavoratori stranieri che assume sono ricattabili a causa della loro condizione di illegalità. Essi non possono trovare nel sindacato un linguaggio, una ideologia o, in altre parole, una narrazione a cui riferirsi per esprimersi, e dunque un'arma, come avveniva nei film di Cantet e Comencini. Per ristabilire la "giustizia" si ribellano utilizzando metodi illegali. Per esempio, quando l'industriale che ha ingaggiato Angie non la paga e dunque lei non è in grado di retribuirli (in realtà potrebbe anticipare i loro stipendi, considerando i forti guadagni che si è assicurata in precedenza), le rapiscono il figlio e lanciano sassi alla sua finestra ferendola. La violenza, sembra implicare il messaggio del film, per quanto difficile da accettare, è l'ultima risorsa di chi non ha mezzi legali per difendersi. Mentre nei film di Comencini e di Cantet la conclusione mostra possibilità di soluzione nonché il riavvicinarsi tra le generazioni, in It's a free world non c'è una soluzione ottimistica. Il film si conclude ironicamente e amaramente con una scena che mostra Angie in trasferta impegnata ad "arruolare" lavoratori stranieri. La macchina da presa indugia sul viso di una speranzosa e ingenua signora ucraina, Ludmilla, che rivela a Angie di essere intenzionata a lasciare i propri figli per lavorare in Inghilterra. Si tratta della scena più potente del film, soprattutto laddove si alternano le inquadrature dei volti di Ludmilla e di Angie. Sul viso di Angie appare un'espressione di simpatia e di compassione mentre ascolta l'interprete tradurre le parole di Ludmilla, ma questo sentimento è subito bloccato dalla visione dei soldi. La presenza del denaro, ossia dell'equivalente monetario della vita di Ludmilla, la fa ritornare alla realtà, al suo cinismo, alla sua scelta di realizzarsi economicamente attraverso lo sfruttamento della condizione delle persone, che sono infatti valutate solo in base al corrispondente guadagno economico che possono assicurare. Questo alternarsi di primi piani riassume visivamente in modo esemplare l'attitudine che il personaggio di Angie ha mostrato in tutto il film, ossia «Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/> l'oscillare costante tra queste due posizioni, la pietà e il cinismo, l'immedesimazione con l'altro, lo straniero e la sua "oggettificazione". Angie aveva provato compassione per una famiglia di immigrati e aveva avuto una breve storia sentimentale con un ragazzo polacco, Karol. Questi due episodi avevano mostrato il suo coinvolgimento personale con gli stranieri, la sua capacità di percepirli singolarmente, come individui. In altri momenti invece, Angie riesce a mantenere un distacco, una freddezza totali, come quando denuncia alla polizia l'insediamento di famiglie di immigrati illegali sorto ai confini della città, un gesto che risulta odioso anche agli occhi della sua socia, Rose. In realtà queste oscillazioni rispecchiano la falsa illusione della nostra società globalizzata e postfordista di passare costantemente dal concreto all'astratto, dalla compassione alla freddezza delle statistiche, senza riuscire a valutare le conseguenze sugli individui che si celano dietro ai dati, ai numeri. V. Conclusione In Violence, Six Sideways reflections (2008), Slavoj Žižek nell'affrontare il rapporto tra violenza e potere9 analizza la violenza insita nella società contemporanea. Il filosofo propone una distinzione tra forme di violenza soggettiva, perpetrata da un soggetto ben preciso, e forme di violenza oggettiva, o sistemica, prive invece di un soggetto immediatamente riconoscibile, bensì inerenti al sistema stesso. La violenza sistemica, necessaria a che il sistema funzioni apparentemente fluidamente e pacificamente, si presenta sotto forma di una sorta di sfondo invisibile alle nostre esistenze. La violenza oggettiva o sistemica si basa esattamente su questo ridurre a un'astrazione ideologica la realtà sociale su cui la logica capitalista produce invece effetti molto concreti: «The notion of objective violence [...] took a new shape with capitalism. It is far too simplistic to claim that the spectre of this «Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/> self-engendering monster that pursues its path disregarding any human or environmental concern is an ideological abstraction and that behind this abstraction there are real people [...]. The problem is that this "abstraction" is not only in our financial speculators' misperception of social reality, but that it is "real" in the precise sense of determining the structure of the material social processes: the fate of whole strata of the population and sometimes of whole countries can be decided by the "solipsistic" speculative dance of capitals, which pursues its goal of profitability in blessed indifference to how its movement will affect social reality. [...] Therein resides the fundamental systemic violence of capitalism, much more uncanny than any direct precapitalist socio-ideological violence: this violence is no longer attributable to concrete individuals and their "evil" intentions, but is purely "objective", systemic, anonymous».10 Il film di Loach mostra esattamente questa scissione negli atteggiamenti di Angie, la quale vive un'esistenza costantemente fluttuante fra due poli: da una parte l'accettazione dei lavoratori immigrati in quanto "individui", il loro riconoscimento in quanto entità "concrete", e dall'altra il loro sfruttamento in quanto massa indifferenziata, nel momento in cui sono percepiti solo alla stregua di un'astrazione linguistica. Un atteggiamento che trova spiegazione nell'ideologia neocapitalista e neoliberista di cui Angie stessa è portavoce nel film, ideologia di cui infatti essa si serve per giustificare i propri comportamenti al padre, coscienza critica del film. Da questo punto di vista il film di Loach è più amaro ma, forse, più vicino alla realtà contemporanea di quanto non lo siano quelli di Comencini e di Cantet, che scelgono di relegare al di fuori dello schermo, ossia lontano dalla nostra visione, proprio quelle entità astratte, preferendo non parlarci di delocalizzazione della produzione come causa dei licenziamenti o di logiche globalistiche sottostanti alle fusioni aziendali. In ogni caso da tutti «Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/> e tre i film emerge come la realtà lavorativa europea sia oggi caratterizzata dal disorientamento, dall'incertezza e dalla instabilità causate dalla precarietà e, in ultima istanza, dalla globalizzazione.11 VI. Bibliografia Appadurai, Arjun - Disjuncture and difference in the global cultural economy, in M. Featherstone (a cura di), Global Culture: Nationalism, Globalization and Modernity, London, Sage, 1999, pp. 295-310. Balibar, Etienne - La crainte des masses, Paris, Galilée, 1997. Bonomi, Aldo - Il trionfo della moltitudine. Forme e conflitti della società che viene, Torino, Boringhieri, 1996. Bourdieu, Pierre - La misère du monde, Paris, Seuil, 1993. Danan, Martine - National and Postnational French Cinema, in Theorizing National Cinema, London, BFI, 2006, pp. 172-185. Henninger, Max - Post-Fordist Heterotopias: Regional, National, and Global Identities in Contemporary Italy, in «Annali d'Italianistica», n. 24, 2006, pp.179-197. Luciano, Bernadette - Mobbing: A Cinematic Indictment of Psychological Violence against Women in the Workplace, in S. MacDonald e S. Scarparo (a cura di), Violent Depictions: Representing Violences Across Cultures, Cambridge, Cambridge Scholars Press, 2006, pp. 90-104. O'Shaughnessy, Martin - The New face of Political Cinema. Commitment in French Film since 1995, New York, Berghahn, 2007. Wayne, Mike - The Politics of Contemporary European Cinema. Histories, Borders, Diasporas, Bristol, Intellect, 2002. Willemen, Paul - The National Revisited, in V. Vitali e P. Willemen (a cura di), Theorizing National Cinema, cit., pp. 29-43. Wood, Mary P. - Contemporary European Cinema, London, Hodder Arnold, 2007. Žižek, Slavoj - Violence. Six Sideways Reflections, New York, Picador, 2007. «Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/> Note: 1 Il cinema di Loach, in questo senso, fa proprie questioni quali la mondializzazione e deterritorializzazione che hanno messo in crisi simboli e riti di appartenenza del passato nella nostra società. Vedi: A. Bonomi. Il trionfo della moltitudine. Forme e conflitti della società che viene. Torino: Boringhieri, 1996. Citato in M. Henninger, Post-Fordist Heterotopias: Regional, National, and Global Identities in Contemporary Italy , in «Annali d’Italianistica», n. 24, 2006, p. 181. 2 Per la differenza tra i concetti di "nationalism" o "national identity" e quelli di "national specificity" o "specific cultural formation", si veda: P. Willemen, The National Revisited, in Theorising National Cinema, V. Vitali e P. Willemen (a cura di), London, BFI, 2006, pp. 29-43. 3 Un libro molto influente negli anni Novanta in Francia fu proprio La misère du monde (1993) del sociologo Pierre Bourdieu che raccoglieva testimonianze di problemi sociali e lavorativi. Il pensiero e l’impegno di Bourdieu avevano messo pure in luce i limiti del neoliberismo e dei discorsi che legittimano la "globalizzazione". Per le connessioni tra il cinema francese contemporaneo e il pensiero di Bourdieu si veda: M. Wayne, The Politics of Contemporary European Cinema. Histories, Borders, Diasporas, Bristol, Intellect, 2002, pp. 57 e segg.). 4 Come spiega Martine Danan, il cinema di banlieue, «with little-known or sometimes non- professional actors has revived a form of realism and social consciousness often neglected since the New Wave. Films [...] often aim at a harsh social commentary about characters beset with problems of unemployment, violence and racism in provincial settings or underprivileged environments, especially suburbs [...]». M. Danan, National and Postnational French Cinema, in Theorising, cit, p.179. 5 Il pregio di Ressources Humaines è di riportare «class conflict back into the public visibility» e «having underlined how corporeal struggle had become effectively detached from voice of collective resistance, it then works to bring the two back together [...] the struggle [...] takes on a collective, public and discursively mediated form». M. O’Shaughnessy, The New face of Political Cinema. Commitment in French Film since 1995, New York, Berghahn, 2007, pp. 125-126. 6 «La legislazione italiana vigente in tema di mobbing è variopinta nel senso che non esiste una lex specialis all’uopo stilata per combattere tale fenomeno, ma esistono delle norme introdotte per contrastare taluni specifici comportamenti che sono utilizzate anche per il Mobbing. Così si può trarre una fonte legislativa per stigmatizzare il Mobbing dalla normativa relativa ai doveri del pubblico dipendente, oppure dallo Statuto dei Lavoratori «Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/> ed in particolare quelle che sanzionano la discriminazione politica, religiosa, sessuale; oppure quella che punisce l’abuso di potere o che riconosce il principio del Neminem laedere (art. 2043 C.C.) o limita il Ius variandi del datore di lavoro (art. 2103 C.C.). Si tratta comunque di applicazioni teoretiche che la giurisprudenza sfrutta per fondare le proprie decisioni in contrasto al Mobbing. Da più parti si è levata, quindi, la protesta nei confronti del legislatore, affinché si adoperi per promulgare una legge specifica che definisca il Mobbing, le parti coinvolte nel fenomeno, le casistiche e soprattutto le modalità di contrasto, incluse le opportune sanzioni pecuniarie e, perché no, penali», <http:// www. uniroma1. it/ organizzazione/ comitati/ mobbing/ normativa.php> (20 giugno 2009). 7 Da «Rassegna sindacale», n. 6, 12-18 febbraio 2004, <http:// www. rassegna. it/ 2004/ lavoro/ articoli/ mobbing.htm> (20 giugno 2009). 8 B. Luciano ha fornito una dettagliata analisi del film di Comencini in Mobbing: A Cinematic Indictment of Psychological Violence Against Women in the Workplace , in S. MacDonald e S. Scarparo (a cura di), Violent Depictions: Representing Violences Across Cultures, Cambridge, Cambridge Scholars Press, 2006, pp. 90-104. Luciano considera il mobbing alla stregua di una forma di violenza contro la donna: « Mobbing is a call to arms to all women to find the strength to rise up and fight to liberate themselves from the position of victims of violence and to regain their subjectivity» (p. 102). 9 Tale analisi ovviamente si inserisce nel solco di una ricca tradizione filosofica. Tra gli altri si veda E. Balibar, La crainte des masses, Paris, Galilée, 1997. 10 «La nozione di violenza oggettiva assunse una nuova forma con il capitalismo. È troppo semplicistico proclamare che lo spettro di questo mostro autogenerantesi e che prosegue il suo cammino senza tenere in considerazione qualsivoglia preoccupazione umana o ambientale sia un’astrazione ideologica e che dietro a questa astrazione vi siano persone reali [...]. Il problema è che questa "astrazione" vige non solo nell’errata percezione della realtà sociale da parte dei nostri speculatori finanziari, ma essa è "reale" precisamente nel senso che determina la struttura dei processi sociali materiali: il destino di interi strati di popolazione, e a volte di interi paesi, può essere deciso dalla danza solipsistica delle speculazioni di capitali, la quale persegue il suo scopo di raggiungere il profitto totalmente indifferente rispetto a quanto il suo movimento sia in grado di influenzare la realtà sociale. [...] Qui risiede la fondamentale violenza sistemica del capitalismo, molto più perturbante di ogni violenza diretta precapitalistica di tipo socioideologico: questa violenza non si può più attribuire a individui concreti e alle loro "cattive" intenzioni, ma è puramente "oggettiva", sistemica, anonima». S. Žižek, Violence. Six Sideways Reflections, New York, Picador, 2007, pp. 12-13. «Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/> 11 Come scrive M.P. Wood, nell’Europa contemporanea «individuals’ conception of their identity are rendered more complex through experience of other gender, ethnic and racial identities either on their home territory or through the experience of deterritorialization and constant exposure to global institutions, events and movements». M.P. Wood, Contemporary European Cinema, London, Hodder Arnold, 2007, p. XVII. La deterritorializzazione tipica del mondo contemporaneo produce instabilità in quanto essa «brings laboring populations into lower-class sectors and spaces of relatively wealthy societies». A. Appadurai, Disjuncture and difference in the global cultural economy , in M. Featherstone (a cura di), Global Culture: Nationalism, Globalization and Modernity , London, Sage, 1999, pp. 295-310, citato da Wood, cit., p. XVII. Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2009 <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/Colleoni.html> Giugno-dicembre 2009, n. 1-2 Questo articolo può essere citato così: F. Colleoni, Rappresentazioni di lavoratori precari del cinema europeo. Comencini, Cantet, Loach, in «Bollettino '900», 2009, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2009-i/Bouchard.html>.