2 - M.G.L. Valentini

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2 - M.G.L. Valentini
Monica M.G.L. Valentini
Principe delle tenebre
DELLA STESSA AUTRICE:
Cristalli
La spada bianca
Il condottiero
Il richiamo del silenzio
Principe delle tenebre
Agemina
L’ombra della ginestra
Come convivere con uno sport sconosciuto
Roma vista da me
E il mondo non fu più lo stesso…
ISBN 978-1-4457-0498-2
© 2000 MGL VALENTINI
Tutti i diritti riservati
Copertina: MGL Valentini
Grafica: Marco Licio Fabi
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www.monicavalentini.net
Io mi volsi ver' lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l'un
de’ cigli un colpo avea diviso.
......
Poi sorridendo disse: "Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice..."
Divina Commedia - Purgatorio
Prefazione
Sullo scorcio del XIII secolo la lotta tra impero e papato era
ormai di atavica memoria e la nostra penisola era nettamente
divisa in due, tra guelfi, i sostenitori della supremazia papale,
e ghibellini, i sostenitori dell’impero tedesco. Oltre ad essere
un braccio di ferro per la lotta alle investiture, la diatriba si
fondava anche sul terrore che aveva la Chiesa di vedersi
circondata dalle terre appartenenti all’impero: la Germania al
nord e tutta l’Italia del sud che la medesima Germania aveva
inglobato quando il Barbarossa, lungimirante, aveva fatto
sposare suo figlio Enrico VI all’unica erede normanna,
Costanza d’Altavilla. Le due corone, quella imperiale tedesca
e quella reale italiana, avevano cinto la testa di Federico II di
Svevia, non senza grossi problemi per il nipote del
Barbarossa, che si vide costretto una intera esistenza a
combattere per far valere i propri diritti dinanzi a una Chiesa
che era rimasta ancorata alle tradizioni medievali e che di
emancipazione non voleva sentir parlare. La lotta per il
potere era agli sgoccioli, ma i protagonisti di questa biografia
non potevano saperlo e uno in particolare cercò
disperatamente di barcamenarsi nel tentativo di mantenere il
regno italico incorporato alle terre di Germania.
In questa biografia tutti i personaggi sono realmente esistiti,
al pari di tutte le situazioni narrate; l’autrice ha
semplicemente tramutato in forma romanzata gli eventi
storici cercando il più possibile di mantenere fede ai
documenti.
MGL Valentini
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Libro Primo
L’illegittimo
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Cremona, ottobre 1238
I bambini ascoltavano in silenzio, attenti a non perdere una sola
parola, seduti disordinatamente sui cuscini di fronte all'uomo che leggeva,
completamente assorti, con gli occhi e la bocca sgranati.
La stanza era illuminata da lampadari colmi di candele accese e da
uno scoppiettante fuoco che ardeva nel camino e che faceva guizzare le
fiamme come sinuose ballerine. Ma, nonostante tutto quel calore, niente
avrebbe potuto scaldare il gelo delle pareti spoglie, prive di qualsiasi
ornamento che avrebbe dilettato lo sguardo e reso più caldo il cuore. Gli
scuri erano stati chiusi per lasciare fuori il freddo vento autunnale, pur
tuttavia, a dispetto della precauzione, Eolo riusciva a penetrare dalle
fessure e, fischiando, si irradiava nella stanza con il suo carico di gelo.
L'uomo, seduto su una semplice sedia, alzò per un attimo gli occhi
dalla fine pergamena che teneva in mano e fissò i figli con quel suo
sguardo chiaro e profondo, unica caratteristica degna di nota in tutto il
suo aspetto. Non era alto e il suo fisico, anche se robusto, conservava
un’incredibile agilità, impensata in un uomo di quarantaquattro anni.
Ma lui non era un comune mortale.
Il leopardo spalancò le fauci per sbadigliare e il saraceno addetto alla
sua custodia lo sbirciò con indifferenza, ben sapendo che la bestia era
docile.
Altri saraceni erano di guardia alla porta, armati fino ai denti,
indossando le loro sgargianti e vaporose divise e ogni tanto giravano lo
sguardo verso il loro signore, che continuava a declamare con voce
profonda le proprie poesie.
Questo Hohenstaufen, che amava più l'Italia dell'originaria Germania,
aveva nelle vene sangue esplosivo: teutonico, normanno e italico. Lui,
erede del Sacro Romano Impero e figlio del crudele Enrico VI e della
misteriosa Costanza d'Altavilla, la principessa che aveva portato in dote il
ricco e potente feudo normanno della Sicilia, era nato e vissuto in Italia
eppure, nonostante il suo trono fosse in Germania, non riusciva a trovarsi
a suo agio nelle fredde terre di suo nonno, il Barbarossa. Solo in due
occasioni si era recato nel paese dei suoi avi: a diciassette anni, per farsi
incoronare imperatore dai principi elettori, e tre anni prima, nel 1235, per
detronizzare Enrico VII, suo primogenito avuto dalla prima moglie
Costanza d'Aragona, che aveva dissennatamente brigato contro di lui.
Lui, che aveva riposto grandissime speranze in quel figlio tanto amato,
nominandolo reggente del Sacro Romano Impero mentre lui cercava di
incamerare l'Italia intera all'impero, aveva reagito con estrema, algida
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crudeltà, anteponendo le ragioni di stato ai sentimentalismi. Al posto di
Enrico VII, accecato e imprigionato per il suo tradimento, aveva messo
Corrado IV, che all’epoca contava solo sette anni, il suo secondogenito
avuto dalla seconda moglie Isabella di Brienne, affiancandogli un uomo di
fiducia, Sigfrido, arcivescovo di Magonza.
Alzò nuovamente lo sguardo dal foglio e studiò gli occhi attenti e rapiti
dei suoi figli illegittimi presenti nella stanza, il più grande dei quali, di sei
anni, gli era stato dato nel 1232 dall'amatissima contessa Bianca Lancia.
Il bambino ricambiò lo sguardo senza timore e il grande Federico II di
Svevia rivide in lui tutta la bellezza e la grazia della madre.
-Vi è piaciuta?- domandò sbirciandoli uno a uno.
-Sì. La leggi ancora?- chiese Violante, una delle bimbe con aria
affascinata.
Federico II sorrise e il volto gli si addolcì. Quest'uomo duro, spietato,
impavido, in famiglia mutava radicalmente, mostrando l'unico lato gentile
del suo coriaceo carattere. Amava trascorrere le serate con i figli,
leggendo i versi che lui stesso componeva, indirizzandoli verso quella
cultura che avrebbe tracciato le basi per la futura lingua italiana.
-Vieni qui, Manfred.- ordinò con un cenno della mano, chiamandolo in
tedesco.
Il figlio di Bianca Lancia si alzò e si avvicinò al padre, senza timore.
Federico II gli mostrò il foglio e chiese:
-Sai leggere?-Sì.-Bene. Allora leggi ai tuoi fratelli.Manfredi prese la pergamena, la scorse con gli occhi diafani e un
attimo dopo rilesse la poesia.
-Sapresti tradurla in latino?Manfredi si interruppe, esitò un attimo sbirciando il padre, quindi
riprese la lettura volgendola in latino.
-In germanico?Il bambino alzò gli occhi sul genitore con aria perplessa e annuì
lentamente.
-In arabo?-Anche.Federico II batté le mani sulle ginocchia e scoppiò a ridere, sotto lo
sguardo silenzioso e discreto delle guardie. Manfredi rimase immobile,
temendo di aver detto o fatto qualcosa di male, ma il padre lo prese per
un braccio e lo costrinse a sedere su una sua gamba.
-Bravo, Manfred. Devo ricordarmi di elogiare il tuo mentore.- disse
scompigliandogli affettuosamente i capelli. -Dammi un bacio, tesoro mio.Il bambino rise e posò le sue labbra morbide sulla guancia irsuta del
padre, facendolo sorridere. A quel punto tutti gli altri si alzarono e con un
cinguettio felice circondarono l'imperatore per coccolarlo e per ricevere
coccole.
Il leopardo parve scuotersi dal torpore a quello scoppio improvviso di
allegria e si alzò, stiracchiandosi e sbadigliando. Parve chiaro, al
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saraceno, che volesse avvicinarsi incuriosito dal frastuono e, tenendolo al
guinzaglio con una catena, lo assecondò. Federico II se ne accorse e
sussurrò qualcosa ai figli. Questi si girarono verso il felide e senza timore
gli andarono incontro per accarezzarlo. La bestia si lasciò coccolare e
vezzeggiare da quelle manine delicate e paffute e quando riconobbe
l'odore di Manfredi gli leccò la mano, facendolo ridere per il solletico.
Lo Staufen guardò la scena senza apprensione, perché sapeva che
gli animali del suo serraglio erano stati perfettamente addestrati a
convivere con l'intera corte, che lui si portava dietro ovunque andasse,
come un'ombra fedele.
Alcuni colpi alla porta fecero scattare le sentinelle, le quali portarono
istintivamente le mani sulle else delle micidiali e letali scimitarre che
portavano inserite dentro l’alta cinta legata in vita e, dopo essersi
accertate sull'identità del visitatore, lo lasciarono entrare. Manfredi
osservò attento, incuriosito, per nulla intimorito dalla reazione dei
saraceni, e sorrise quando riconobbe il ragazzo che accedé.
Enzo, il diciottenne re di Sardegna, salutò l’imperatore e osservò
divertito i fratellastri che circondavano il leopardo, posando gli occhi su
Manfredi, che lui adorava. Quel bambino era di una bellezza e di una rara
bontà d'animo che era impossibile volergli male e spesso se lo portava
dietro quando andava a giostrare, mostrandogli come fare per tenere la
lancia in resta, come piegare lo scudo, come schivare l'avversario e lui lo
ascoltava rapito, ricambiando l'adorazione che il fratellastro più grande
nutriva per lui.
-Vieni, Heinz.- lo invitò il padre con affabilità. -Vuoi unirti alla nostra
spensierata comitiva?-Niente mi farebbe più piacere.Federico II gli fece un cenno lezioso con la mano, notando quanto gli
somigliasse fisicamente. Come lui, era di media statura, robusto, con
lunghi capelli rossi, occhi chiari, guance rubiconde, evidente segno della
discendenza teutonica. Lo studiò attentamente, mentre col pensiero
volgeva a problemi incombenti.
La lotta all'ultimo sangue che si trascinava tra lui e Gregorio IX, tra
impero e papato, tra Weiblingen, i duchi originari della Svevia, chiamati
ghibellini e i Welfen, i duchi originari della Baviera, chiamati guelfi, stava
raggiungendo vette altissime. L'ultima sfida proprio quel mese: era
riuscito a fidanzare Enzo, suo primogenito illegittimo, alla vedova
Adelasia di Torres, la quale portava in dote l'intera Sardegna,
nominandolo in tal modo re di Sardegna, feudo indiscutibilmente
ecclesiastico. Ora attendeva la veemente replica del papa che non si
sarebbe fatta attendere troppo a lungo e tuttavia questo non gli impediva
di deliziarsi negli ozi della famiglia che tanto amava.
Il sogno di Federico II era di poter unire il regno di Sicilia, portato in
dote dalla sua amatissima madre Costanza d'Altavilla, all'impero
d'occidente che era appartenuto a suo padre e, se possibile, sottomettere
il resto dell'Italia che era governato da vari potentati. Ma di questo suo
sogno grandioso la Chiesa aveva vanificato le speranze. Il battagliero
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Gregorio IX non gradiva vedere ampliare la potenza dell'Hohenstaufen;
soprattutto non voleva che lo stato della Chiesa si venisse a trovare tra
l'impero germanico da una parte e il regno d’Italia dall'altra. La battaglia
personale che da anni conduceva contro l'imperatore si stava inasprendo
fino ai limiti della sopportazione e, se già in occasione della crociata per
la liberazione di Gerusalemme non aveva esitato a lanciare l'anatema
contro Federico II, ora che era stato sfidato dall'imminente matrimonio di
Enzo, stava per lanciare la seconda scomunica, accusando
l'Hohenstaufen di essere l'Anticristo.
Tuttavia, se Gregorio IX da una parte scalpitava e sbraitava, il suo
acerrimo nemico dall’altra si stava godendo la fama e il potere che, in
quel periodo, erano al culmine della loro ascesa.
-Sei pronto per la partenza?Enzo annuì, celando a malapena un certo disappunto.
-Preoccupato?Il giovane re fissò i fratelli più piccoli che accarezzavano il leopardo,
incerto se rivelare le sue paure o meno, quindi si volse verso il padre,
ancora seduto sulla sedia e sospirando scrollò le spalle.
-Non capita tutti i giorni di sposarsi.- ammise con un sorriso forzato.
Federico II si stupì, senza riuscire a trattenere una cristallina risata
che indispettì il giovane.
-Heinz, Heinz!- mormorò comprensivo. -Il matrimonio è solo un contratto
politico, nient'altro. Guarda me: ho appena impalmato la terza moglie e
tutte e tre mi sono scivolate addosso senza lasciare segni. Le mogli
servono solo per assicurare la discendenza legittima. Non angustiarti per
così poco. Non ne vale la pena.-Questo non toglie che mi senta un po'... teso. Per me è la prima volta.lo contraddisse fissandolo attentamente.
Federico II ripensò a quando anche lui, giovinetto, per il suo primo
matrimonio con Costanza d'Aragona era stato teso e nervoso e
all’improvviso si rese conto che per suo figlio non doveva essere diverso:
lasciare di punto in bianco la famiglia per andare a unirsi in matrimonio in
terra sconosciuta. Del resto, come biasimarlo, visto che non conosceva
neppure la sposa?
-Bene.- disse per allentare la tensione. -Ho qui alcune poesie che ho
scritto proprio ieri. Vuoi ascoltarle?Enzo aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi ci ripensò quando si
accorse dello sguardo dolce di Violante. Le scarmigliò affettuosamente i
capelli e rispose:
-Sì, volentieri.Cercando di relegare l'imminente viaggio per la Sardegna in un
angolino remoto della mente, si sedette su una sedia e subito dopo i
fratelli fecero cerchio intorno a lui, sorridenti e cicaleccianti come sanno
essere i bambini sereni. Enzo sorrise e rimase a guardare i verdazzurri
occhi di Manfredi che lo scrutavano in silenzio.
-Vieni, siedi.- lo invitò gioviale, battendo la mano su una gamba.
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Manfredi non se lo fece ripetere: saltò sulla gamba del fratello e felice
si apprestò ad ascoltare nuovamente il padre, perdendosi in un mondo di
fantasie che solo lui conosceva.
Padova, convento di S. Giustina, 20 marzo 1239
Per tutto l'inverno e per la seguente primavera, il convento venne
letteralmente assediato dall'immensa corte di Federico II, con grande
disperazione dell'abate Arnoldo. Consiglieri, funzionari, servitù, uomini
della sua eccellente cancelleria, si erano asserragliati nel cenobio,
portando caos e andirivieni di messaggeri, soldati, ambasciatori e corrieri
come mai si era visto.
Il gran serraglio, dove spiccavano animali esotici di inestimabile valore
e dove viveva il magnifico elefante che il sultano Malik Al Kamil aveva
regalato a Federico II durante la crociata in terra santa, seguiva sempre
la corte. Strana e singolare crociata, quella dello Staufen. La sua
renitenza alla partenza, i continui rinvii, il costante nicchiare, avevano
costretto Gregorio IX a scomunicarlo e lui, con l'anatema sulla testa, si
era infine imbarcato per andare a salvare la città sacra alle tre grandi
religioni monoteiste. Era stato l'unico sovrano a ricevere le chiavi della
città di Gerusalemme direttamente dal sultano, conquistato non con le
armi bensì con la sua cultura e con la sua benevolenza verso l'Islam.
Federico II era riuscito, senza spargimento di sangue, dove tutti, pure suo
nonno Federico I Barbarossa, avevano fallito. E lo aveva fatto da
scomunicato, facendo imbestialire oltremodo Gregorio IX, che si era visto
costretto ad annullare l'anatema per poter accettare le chiavi della città
santa. E lui, con sorprendente naturalezza, si era nominato re di
Gerusalemme, facendo vomitare bile al vecchio papa.
Quest'uomo eccezionale, questo stupor mundi, stava vivendo il suo
momento migliore, imponendosi come sovrano illuminato e precursore
nel campo delle arti. Nel regno, grazie a lui, docenti delle varie città
avevano dato impulso alla letteratura, creando la famosa scuola siciliana
che anche Dante avrebbe apprezzato. Aveva contribuito alla costruzione
di castelli in tutta la Puglia da lui adorata e fondato Lucera, dove aveva
trapiantato gli esuli saraceni, lasciandoli vivere secondo i loro usi e
costumi, ricevendo in cambio cieca fedeltà da quegli uomini che
eccellevano nelle armi, tanto da divenire la guardia personale dell'intera
corte. Quella medesima corte che meravigliava il mondo intero, dove
occidente e oriente si fondevano e amalgamavano con una facilità
impressionante, dando vita a quel miscuglio esplosivo che scorreva
anche nel sangue del loro imperatore. Quest'uomo straordinario, che
lasciava libertà di culto e intratteneva rapporti di amicizia e lealtà con gli
infedeli, che teneva sotto la sua ala protettrice ebrei e musulmani, che
puniva chiunque maltrattasse uomini di culto non cristiano, era invece
spietato contro gli eretici, lui che dalla Chiesa veniva tacciato di essere
l'Anticristo. In lui viveva serenamente questo coacervo di culture che
l'avrebbe reso l'uomo migliore fino all'avvento di Napoleone.
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Quel giorno era la domenica delle Palme e l'Hohenstaufen, sull’onda
del fortunato momento che viveva, aveva fatto allestire una festa come
non si ricordava a memoria d'uomo.
Ezzelino III da Romano, che l'anno precedente aveva impalmato
Selvaggia, una delle tante figlie illegittime di Federico II, si era stabilito
nel convento con la sua corte insieme al suocero e con lui si apprestava
a trascorrere quella lieta giornata.
Sui campi intorno al convento si ergevano, mescolate, le tende dei
saraceni e dei tedeschi, mentre all'interno gli animali esotici andavano e
venivano ovunque e non era difficile vedere qualche buon frate che
urlava dietro a un dromedario o ad uno struzzo perché aveva calpestato
le aiuole. Odalische, saraceni ed eunuchi si aggiravano nei loro sfavillanti
abiti orientali, indifferenti alle occhiate disgustate dei frati, mentre i figli più
piccoli dell'imperatore giocavano a rincorrersi, riempiendo l'aria con le
loro cristalline risate.
Manfredi fece un cenno ai suoi fratelli e tutti si appostarono vicino
all'entrata del convento, per vedere uscire giocolieri, danzatori, acrobati e
animali addestrati avviati alla festa che si teneva a Padova e dove, nel
pomeriggio, l'imperatore e la corte si sarebbero diretti per intrattenersi
con il popolo in festa.
-Guarda!- esclamò uno dei più piccoli puntando l'indice. -Quell'uomo
mangia il fuoco!-Si brucerà!- inorridì una delle bambine, portando le manine sulle guance.
Manfredi osservò con attenzione attraverso il polverone che alzavano
gli animali che scorrazzavano intorno a loro e si rese conto che l'uomo in
questione sapeva benissimo il fatto suo e che riusciva a giocare con le
fiamme senza procurarsi ustioni e si domandò come riuscisse a vincere il
fuoco.
-Non brucerà, sta' tranquilla.- rispose alla sorella con noncuranza.
In quel momento transitò davanti a loro un nano deforme, orrendo,
bicefalo, che trottava dietro ai giocolieri, incapace di tenere il loro passo e
Manfredi corrugò le sopracciglia di fronte a quella mostruosità,
domandandosi da dove fosse saltata fuori. Un secondo dopo Violante si
girò verso di lui soffocando un gridolino, nascondendo il suo viso paffuto
sul suo petto, inorridita a quella vista. Manfredi l'abbracciò istintivamente
e mormorò:
-Non guardare, è meglio.Solo quando il mostro si dileguò e iniziarono a transitare i musici
Manfredi scostò la sorellastra e l'esortò a continuare a mirare la
variopinta colonna che si dirigeva in città.
La giornata marzolina era tiepida e i raggi del sole riflettevano sui volti
gioiosi delle genti, rendendo l'atmosfera vivace, libera dalle feroci lotte
guelfe e ghibelline. Federico II era sereno e aveva concordato col suo
segretario, Pier delle Vigne, il discorso che avrebbe rivolto al popolo, un
discorso amorevole ed elogiante la giustizia.
Niente lasciava presagire che, nello stesso giorno, due terribili
disgrazie si sarebbero abbattute sul capo dello Staufen: la seconda
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scomunica lanciata da Gregorio IX contro di lui e la morte a Barletta di
Ermanno di Salza, il gran maestro teutonico che aveva sempre
intermediato tra papa e imperatore con la sua diplomazia fine e
lungimirante. La sua morte avrebbe lasciato Federico II solo contro il
papa, privandolo dell'insostituibile e ineguagliabile ingegno del tedesco.
In una sola giornata, mentre a Padova proseguivano i festeggiamenti per
la Pasqua, il destino colpì violentemente Federico II, in quel momento
ignaro della sterzata che avrebbe subito la sua vita.
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Manfredi si girò verso Enzo, che stava entrando con tutto il codazzo
dei suoi uomini al seguito e i suoi occhi si illuminarono. Si allontanò da
sua madre e dalle altre dame e si diresse verso il fratello maggiore,
sorridente e pieno di aspettative. Come lo vide, re Enzo gli sorrise e
questo bastò per mettere le ali ai piedi del bambino, che gli volò tra le
braccia.
-Ehi, Manfred! Sei cresciuto!- esclamò il giovane studiandolo
attentamente.
-Sì, vero?- si pavoneggiò passando una mano tra i lunghi boccoli biondi. Nostro padre ha deciso di mandarmi a studiare a Parigi, appena sarà il
momento.-Be’, questa è una buonissima idea: la cultura non è mai abbastanza.commentò, licenziando gli uomini al seguito con un semplice gesto della
mano. -Ma dimmi: come procedono le cose qui?- chiese volgendo lo
sguardo nel chiostro del monastero.
Con una sola occhiata prese nota degli armigeri saraceni, dei cavalieri
e dei soldati al seguito del terribile Ezzelino III da Romano, delle dame
sotto un pergolato, dei servi, degli animali e dei frati che camminavano
impettiti nei loro sai. Intorno al pozzo giocavano i bambini, mentre i
piccioni tubavano tra i rami delle mimose in fiore.
-È venuta pure Selvaggia, sai?- disse Manfredi ammiccando agli uomini
che sfoggiavano le cotte in maglia con le insegne di Ezzelino III.
Enzo gli fece l'occhiolino e si chinò vicino al suo orecchio, chiedendo:
-È sempre bella la nostra sorellina?-Oh, sì, sempre.-E tu? Cosa mi dici di te?- chiese rialzandosi e portando le mani sui
fianchi.
Manfredi prese un'aria seria e si girò a guardare alcune sorelle che
giocavano sotto il porticato. I suoi occhi indugiarono sul volto candido e le
guance rosee di Violante, sul suo sorriso luminoso, sul suo abitino bianco
e d'oro e rispose:
-Io ho superato l'età dei giochi. Adesso accompagno nostro padre nelle
battute di caccia con un cavallo tutto mio. Non immaginavo che fosse
così esaltante rincorrere cinghiali, cervi, quaglie... E nostro padre è
bravissimo.- aggiunse girandosi a fissarlo. -Un falconiere sta addestrando
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un piccolo falco femmina per me e quando sarà pronta, caccerò anch'io
con il mio falcone e ritornerò con tanta selvaggina.Enzo rimase piacevolmente sorpreso dal cambiamento del fratello e
annuì sorridendo.
-Ne sono sicuro. La caccia è un'esperienza inebriante, della quale non si
può fare a meno. Ma gli studi?-Studio ogni giorno. Il mio mentore è molto esigente, però a me non
dispiace. Ora anch'io compongo brevi poesie, che però non sono certo al
livello delle tue o di quelle di nostro padre.-Non ho mai dubitato che possedessi il nostro filone poetico. Sei proprio
un Hohenstaufen fin nel midollo!- rispose ridendo.
Manfredi sbirciò il fratello celato nell'usbergo e rimase incantato a
guardare il mantello fregiato dell'emblema imperiale. Con la fantasia volò
al momento in cui anche lui, nominato cavaliere, avrebbe indossato una
rilucente cotta in maglia sotto una cotta d'arme con le insegne imperiali,
la spada al fianco e il palvese sul braccio per ripararsi dai colpi avversari.
Sarebbe trascorso ancora molto tempo, ma intanto imparava l'arte del
combattimento e le regole del codice cavalleresco per non trovarsi
impreparato, così come gli aveva sempre raccomandato il fratello più
grande, meravigliando scudieri e cavalieri che lo vedevano apprendere
rapidamente e con entusiasmo.
-Com'è il matrimonio?Enzo si sorprese a quella domanda e studiò il volto dolce e luminoso
di quel bambino di appena sette anni che sapeva benissimo quello che
diceva.
-Be’,- rispose con un cenno vago della mano, -scoprirai che il matrimonio
non è poi così catastrofico. Ci si abitua. Se lo vedi dal punto di vista
politico è sopportabile. Tu, però, non dovresti fare queste domande, sei
ancora giovane.- concluse scarmigliandogli i capelli affettuosamente.
Manfredi rise e d'istinto gli buttò le braccia intorno alla vita e si strinse
a quel fratello che lui vedeva perfetto e che sperava di emulare.
Re Enzo lo lasciò fare, sotto lo sguardo perplesso dei suoi cavalieri e
Manfredi si rannicchiò contro di lui come un cucciolo spaurito.
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Grottaferrata, agosto 1241
Nella sua semplice veste vermiglia, arricchita da una cinta dorata
legata in vita, le gambe fasciate nelle calzebrache, il volto sereno e lo
sguardo luminoso, Manfredi sedeva su un cuscino vicino allo scanno del
padre e accarezzava distrattamente il leopardo accucciato al suo fianco.
Aveva ascoltato con interesse il colloquio tra Federico II e il cardinale
Giovanni Colonna, il quale, poggiato il breviario e impugnata la spada,
aveva occupato Palestrina e altre terre dei dintorni per donarle
all'imperatore, schierandosi apertamente contro Gregorio IX.
L'accanita lotta tra i due uomini più potenti della terra, papa Gregorio
IX e Federico II, era sfociata in veri e propri libelli e manifesti a distanza.
L'agguato e la cattura delle galere papali per opera di re Enzo, che
portavano a Roma i cardinali e i vescovi per un concilio nel quale il papa
si prometteva di deporre l'imperatore, aveva avuto violente ripercussioni
nel mondo politico. Alcuni cardinali, vescovi e prelati caduti
nell’imboscata erano stati fatti oggetto di scambio con altrettanti ghibellini
tenuti prigionieri; altri erano stati spediti in Puglia per trovare posto in
tetre celle dalle quali non sarebbero più usciti.
Solo l'intervento accorato di Luigi IX di Francia aveva convinto
Federico II a rilasciare i prelati francesi; gli altri sarebbero restati in
catene.
Ora, forte delle recenti conquiste, compreso il voltafaccia del cardinale
Colonna ai danni della Chiesa, l'Hohenstaufen aveva deciso di porre fine
alla lotta contro il papa andando ad accerchiare la capitale della
cristianità, in modo da mettere un punto fermo dal quale poter
ricominciare un dialogo meno bellicoso.
L'ultra novantenne Gregorio IX non aveva alzato un dito per liberare
cardinali e vescovi dalle terribili prigioni pugliesi e scalpitava e sbuffava e
schiumava bile alle notizie che gli venivano comunicate, nelle quali
Federico II appariva come probabile vincitore di quella estenuante
battaglia che durava da decenni.
Manfredi si girò e allungò una mano per accarezzare il leopardo,
ripensando con orgoglio al coraggio dimostrato dal fratello nella cattura
delle galere francesi. Aveva ascoltato più volte il resoconto degli eventi
dal padre e in cuor suo sperò di poterlo emulare un giorno non troppo
lontano, facendo sognare altri bambini come lui e facendo sospirare i
cuori delle giovinette.
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Il felide si stiracchiò sotto le carezze, fece le fusa come un grosso
gattone e gli leccò la mano, chiudendo i magnifici occhi ambrati sotto
l'oblio delle moine e Manfredi gli sorrise dolcemente.
Taddeo di Suessa e Pier delle Vigne, che avevano assistito al
colloquio con il cardinale Colonna, parlavano con l'imperatore degli ultimi
eventi, entrambi concordi nel riconoscere una strepitosa vittoria il
voltafaccia del porporato ai danni della Chiesa e altrettanto concordi nel
riconoscere la disgrazia della perdita del grande Ermanno di Salza, il più
sagace mediatore tra papa e imperatore, l’unico che in quegli anni era
riuscito ad essere abilmente l’ago della bilancia tra guelfi e ghibellini.
Manfredi ascoltava in silenzio, recependo il clima cordiale che univa i tre
amici di vecchia data e che rilassava persino i saraceni messi a guardia
con le loro scintillanti scimitarre.
-La defezione del Colonna ci porterà solo buone occasioni.- commentò
Pier delle Vigne. -Peccato che Ermanno non sia qui a gioire della nostra
vittoria.L’imperatore si accarezzò la barba e annuì appena, avvertendo fin
nelle ossa l’assenza dell’amico che in quel frangente, andando oltre le
apparenze, avrebbe fatto il passo giusto per la riconciliazione.
-Stasera pregherò affinché lui, dall’alto dei cieli, ci guidi con la sua
diplomazia in questo momento delicato.- rispose.
-A proposito… Il papa ha avuto un attacco di bile quando ha saputo che
dal pulpito del duomo di Pisa avevi predicato ai fedeli.- disse Taddeo di
Suessa cercando di nascondere l'ilarità.
Federico II sorrise compiaciuto ripensando all’episodio e si girò a
guardare Manfredi, intento a coccolare il felide.
-Non è da tutti venire scomunicati e predicare dentro un duomo!continuò il segretario impossibilitato a trattenere il riso.
-E ha dato in escandescenze quando il cardinale Colonna ha preferito
votarsi al partito ghibellino!- rincarò Pier delle Vigne.
Manfredi si rese conto che il padre e i suoi più stretti e fidati consiglieri
avevano voglia di scherzare per allentare la tensione del momento e la
cosa lo divertiva. La sua giovane età non era in grado di intendere
appieno, ma l'intero esercito imperiale era appostato alle porte di Roma e
si apprestava a violare l'Urbe. Federico II era pienamente consapevole di
ciò che avrebbe comportato una simile mossa: mai nessuno aveva osato
tanto dai tempi dei barbari; tuttavia lui non intendeva profanare la città
santa: voleva solo far capire al mondo cristiano che non era nemico della
Chiesa, bensì di Gregorio IX, che lo tacciava di essere la Bestia e
l'Anticristo.
Per quanto lo riguardava, lui, Manfredi, non aveva problemi a vivere
da scomunicato, problemi che, invece, si faceva suo padre. Per lui,
bambino di soli nove anni, la vita non era cambiata: andava a messa ogni
mattina, si comunicava, giocava con i suoi fratellastri e sorellastre, e si
dedicava anima e corpo alla caccia e agli studi. Ben presto si sarebbe
recato a Parigi per seguire corsi di matematica, teologia, filosofia e lingue,
tra le quali l'arabo e il greco. Da lì, su pianificazione paterna, avrebbe
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raggiunto la guelfa Bologna per completare gli studi, quindi un breve
periodo a Palermo per concludere il tutto.
Federico II aveva già programmato la sua vita e voleva prepararlo alle
avversità del mondo, qualora fosse stato chiamato in causa per reggere
le sorti del regno. Non pochi si erano accorti che l’imperatore aveva un
debole per quel cucciolo dalla chioma bionda come la madre, l’unica
donna insieme alla prima moglie che era entrata nel suo cuore.
Riconosceva in Manfredi un carattere versatile, dalle molte sfaccettature,
così simile al suo da lasciarlo ogni giorno che passava sempre più
sbalordito, e che gli sarebbe tornato utile in futuro per ingoiare tutte le
umiliazioni alle quali lo avrebbero sottoposto il suo fratellastro Corrado IV
e il papa. Come lui, amava la bellezza, le arti, le scienze, la poesia,
laddove il mondo ancora avvolto dalle tenebre non si sarebbe risvegliato
alla luce per altri due secoli. Ma, a differenza di lui, Manfredi aveva
un'indole docile, eredità della bellissima Bianca Lancia, una bontà di
carattere irragionevole per quel periodo di barbarie e crudeltà, e tendeva
a fidarsi troppo dei suoi simili, caratteristica, questa, che gli sarebbe
costata cara.
Per Manfredi, Federico II aveva in mente grandi progetti; per questo lo
teneva costantemente al fianco, in modo che imparasse quanto prima
l'arte difficile della diplomazia e che vedesse, con i propri occhi, quanto
potessero essere traditori gli uomini. E il giovane Lancia osservava con
quegli occhi che sapevano cambiare colore come l'acqua del mare, dal
blu al verde, e imparava. Imparava silenziosamente l'arte del comando
subordinata alla giustizia e nel breve arco della sua vita sarebbe stato un
sovrano illuminato, amato e potente.
~
Il corriere, scortato da due saraceni armati, fu fatto entrare nella tenda
da campo dell'imperatore e qui attese, sbirciando il lusso stravagante di
una corte mista. Come in Federico II, tutto ciò che lo circondava era
sodalizio tra oriente e occidente, tra sacro e profano e nessuno riusciva a
rimanere indifferente al tramestio di cristiani e di arabi, di dame e di
odalische, di cavalieri teutonici e di mori, in una continua danza di colori
sgargianti e mesti, di risate gaudenti e di sussurri dolcemente insinuanti.
Ed era quella promiscuità pacifica che mandava in bestia la Chiesa, che
cercava ogni protesto per deporlo e additarlo come miscredente agli
occhi del mondo cristiano.
Il primo a entrare nella tenda fu il leopardo, seguito da Manfredi, che
lasciò vagare lo sguardo glauco intorno a sé con evidente indifferenza.
Subito dopo di lui entrò Federico II, scortato da quattro mori di
corporatura imponente.
Il corriere si distrasse da due odalische seminude che intrattenevano
colloqui in una lingua a lui sconosciuta con alcuni saraceni e si lasciò
cadere sulle ginocchia, chinando la testa fino a terra per rendere
omaggio allo stupor mundi e rimase immobile fino a quando lo Staufen
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prese posto sullo scanno. Le odalische fecero un inchino aggraziato,
mentre i saraceni gonfiavano il petto e serravano le armi, circondando
immediatamente il loro imperatore.
-Rialzatevi, messere.- ordinò perentorio, senza nascondere l’insofferenza.
-Supponiamo portiate notizie straordinarie per averci fatto scomodare.-Sì, Vostra Maestà.- rispose non riuscendo a trattenere un moto di
orgoglio. -Il Santo Padre, Gregorio IX, si è ricongiunto al Creatore.Per un lungo istante Federico II trattenne il fiato, come se avesse
capito male e Manfredi lasciò vagare lo sguardo dal padre al corriere,
comprendendo che qualcosa di grandioso era accaduto.
-Ah!- esclamò infine l’imperatore, balzando in piedi come una molla, gli
occhi improvvisamente splendenti e il sorriso radioso. -Dunque è morto!-Sì, Vostra Maestà.I saraceni, che allo scatto improvviso dell’imperatore avevano stretto
le else delle scimitarre, si rilassarono quando si accorsero dello sguardo
ridente del loro signore e tornarono a sbirciare le due odalische che
sussurravano tra loro con fare ammiccante.
L'imperatore non riuscì a dissimulare la gioia che quella notizia gli
dava: dopo quattordici anni di aspre lotte, finalmente la guerra era finita.
Manfredi rimase in silenzio ad osservare il padre, comprendendo la
sua euforia. Non poteva condividerla appieno, ma capiva la portata di un
simile evento, che avrebbe visto capovolgere la situazione. In quel
momento di trionfo dei ghibellini, gli sfuggiva un'amara verità: che la lotta
tra papa e imperatore era stata una lotta personale che Gregorio IX
aveva esasperato con il suo odio feroce e che, chiunque fosse stato il
successore di Pietro, non si sarebbe potuto esimere dal tenerne conto. In
quel momento Manfredi vide solo l'euforia sul volto del padre e sorrise a
sua volta, con quel suo sorriso accattivante al quale tutto si perdonava e
niente si negava.
-È morto, infine.- commentò Federico II rimettendosi seduto e ritrovando
il contegno. -Com'è avvenuto?- volle sapere.
Il messo chinò appena la testa e rispose:
-Sua Santità avrebbe desiderato recarsi a Viterbo per beneficiare dei
bagni che gli allietavano i dolori alle reni, ma, essendo circondata la città,
non ha osato allontanarsi per timore di essere catturato. La malattia ha
fatto il suo corso e oggi è spirato.L'imperatore annuì, quindi, con un gesto della mano, licenziò l'uomo e,
una volta soli, si girò verso il figlio, rimasto accanto al felino, circondato
dalle odalische che lo accarezzavano dolcemente per attrarre la sua
attenzione.
-Hai sentito?- esordì con voce giubilante. -La guerra è finita, finalmente.
Forse, ora, riusciremo a vivere un po' in pace.Manfredi lo studiò a lungo, fissando i propri occhi in quelli del padre,
facendo un cenno alle donne per scansarle e chiese con candore:
-E la scomunica?Federico II si accarezzò la barba corta, pensieroso e Manfredi rimase
in attesa, senza staccare lo sguardo, accorgendosi di quanto il genitore
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fosse invecchiato e dell'ombra di stanchezza apparsa all'improvviso sulla
sua faccia ancor bella. Come se, con la dipartita del pontefice, anche
l’animosità dell’imperatore fosse deceduta, mostrandolo per l’uomo
maturo e stanco che era.
-Il nuovo pontefice revocherà l'anatema.- rispose con tono sicuro e
pacato. -Io non sono mai stato contro Madre Chiesa e tutto il mondo può
testimoniarlo. Io ero contro l'odio che Gregorio nutriva nei miei confronti e
per questa inutile guerra durata così a lungo. Il nuovo papa non sarà
come questo.-E se lo fosse?- insinuò.
Federico II sorrise alle paure del figlio e, dopo essersi alzato dalla
sedia di velluto e fatto un gesto alle donne, gli si avvicinò e allungò la
mano per accarezzare la testa del leopardo.
-Hai paura di lei?- domandò.
Manfredi abbassò lo sguardo sul felide e lo vide ricevere le carezze
con aria sorniona. Sorrise e i suoi occhi traboccarono di amore per il
leopardo, una figura costante nella sua vita.
-Lei è buona. Mi ha sempre protetto, come se io fossi stato un suo
cucciolo.-Però gli uomini la temono, a buon motivo. Il nuovo papa sarà come lei:
occorrerà ammansirlo e ammaestrarlo affinché non si rivolti contro di noi.Manfredi rialzò gli occhi sul volto sereno del padre e rimase a
contemplarlo a lungo, incerto se ribattere o accettare un simile
ragionamento. In fondo, chi era lui per contraddire il grande imperatore?
Probabilmente aveva ragione, ma solo il tempo avrebbe potuto dirlo.
-Bene.- concluse Federico II raddrizzando la schiena e mettendo i pollici
all'interno della cinta legata in vita. -A questo punto l'assedio non serve
più. Cosa ne diresti di una battuta di caccia prima di annunciare al mondo
la dipartita del pontefice?Il ragazzino si illuminò e in un solo secondo i problemi li rilegò in un
angolino remoto del cervello e tutto elettrizzato si preparò a seguire il
padre nell’esercizio che più amava fare.
~
Violante abbassò lo sguardo sulle mani chiuse di Manfredi e attese
con sguardo adamantino. Lui gettò un’occhiata intorno con aria birichina,
per accertarsi che nessuno nel loggiato li vedesse e gonfiando il petto le
ordinò:
-Allunga le mani se vuoi il regalo.Lei esitò, non riuscendo a immaginare cosa potesse essere e ubbidì
fiduciosa, il sorriso che le illuminava il volto, ricordando i doni che lui le
portava sempre. Il fratellastro piegò le labbra in un ghigno e lasciò cadere
una lucertola, scoppiando poi a ridere quando la sentì strillare di paura.
Violante, con le lacrime agli occhi, lo fissò oltraggiata e d’istinto gli
assestò un ceffone sul volto, facendolo rimanere di sasso.
-Così impari!- gli disse alzando fieramente il mento.
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Girò su se stessa e con tutta la dignità che le consentivano i suoi otto
anni si allontanò, le lacrime che le pungevano gli occhi nonostante l’aria
impettita che voleva ostentare. Fece solo pochi passi, perché Manfredi la
raggiunse e la prese per un braccio, costringendola a fermarsi e
guardarlo.
-Perdonami, era solo uno scherzo.-Pessimo.-Pessimo, tuttavia non era quello il regalo.Violante rimase in silenzio, fissandolo in quegli occhi dolci che
adorava e si accorse che sulla guancia gli erano rimaste le dita della sua
mano e per una frazione di secondo fu tentata di accarezzarlo, per fargli
capire che, nonostante lo scherzo di cattivo gusto, restava il suo fratello
preferito.
-Ecco,- continuò lui tirando fuori del farsetto una pergamena, -questo è il
vero regalo.Lei la prese e vide che sopra c’era vergata una poesia. Riconobbe la
grafia di Manfredi e iniziò a leggerla, mentre lui la guardava attentamente,
perdendosi in quella bellezza che gli aveva rapito il cuore. Si accorse che
man mano che scorreva le parole gli occhi le si riempivano di lacrime,
stavolta di commozione e quando infine li alzò su di lui, sorrise
compiaciuto.
-È bellissima.- sussurrò lei.
Manfredi le accarezzò il volto e si chinò per posarle un bacio sulla
guancia, prima di rispondere:
-Bellissima, eppure indegna di te.Lei sorrise e portò la pergamena sul cuore, felice e dimentica
dell’arrabbiatura precedente.
-La serberò come il più prezioso dei doni.-Te ne farò altri.-Sì, lo so, ma questo sarà unico, perché qui, su questo foglio, batte il tuo
cuore.- rispose alzando la mano per accarezzargli la guancia colpita.
Lui abbozzò un sorriso e un attimo dopo la vide sparire lungo il
loggiato, inghiottita dai raggi di sole che dolcemente calavano
all’orizzonte.
Bologna, estate 1244
Studente modello, il dodicenne Manfredi Lancia aveva prima stupito i
docenti parigini, quindi quelli di Bologna, unanimi nel complessivo
giudizio positivo. Ma come avrebbe potuto essere altrimenti, quando la
corte di suo padre vantava nomi altisonanti quali Jacopo Mostacci,
Ruggero de Amicis, Rinaldo d'Aquino, Folco Ruffo e tanti altri poeti che
avevano fondato, sotto istituzione di Federico II, la scuola poetica
siciliana? Una scuola nella quale Manfredi era nato e vissuto e che aveva
assorbito totalmente, divenendo egli stesso poeta di una certa fama. Così
come i suoi fratellastri, da Enzo a Corrado IV, da Federico d'Antiochia a
Riccardo di Teate e, come tutti gli altri Hohenstaufen, egli amava
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comporre versi e operette, dolci melodie accompagnate dalle viole
suonate da scudieri e cavalieri. Dal padre, il giovane Lancia aveva
ereditato la ricerca della bellezza, il rifuggire dalla violenza, il piacere
della penna più che della spada, l'amore per la giustizia, e la sua corte,
così come quella di Federico II, avrebbe brulicato di cavalieri intenti a
sciorinare versi malinconici a donne dalla mirabile bellezza, il più delle
volte creature astratte che non avrebbero arrecato offese a mariti gelosi.
Manfredi era, e sarebbe rimasto, un sognatore, un uomo amante degli
ideali, di duplice bellezza, sia interiore che esteriore e questa sua
peculiarità lo avrebbe costretto a ingoiare tanti bocconi amari da parte dei
suoi nemici.
Nonostante lo zelo nello studio e l’evidente lontananza, non aveva
mancato di seguire gli eventi che gravitavano intorno al padre e aveva
scambiato con lui una fitta corrispondenza.
Per due anni la cattedra di Pietro era rimasta vacante e quando, nel
giugno del 1243 era stato eletto Innocenzo IV, Federico II si era lasciato
scappare con un gemito che aveva perso un cardinale amico per
acquisire un papa nemico.
Durante la sede vacante, Federico II aveva perso la terza moglie
Isabella d’Inghilterra e il figlio Enrico VII, rinchiuso in una segreta
pugliese fin dal 1235, dopo aver complottato contro la vita del padre.
Nonostante la tempra coriacea dell'imperatore, la morte del primogenito
aveva lasciato un segno profondo in quell'uomo ormai in là negli anni,
stanco di una vita di lotte e desideroso di pace e tranquillità.
L'elezione di Innocenzo IV aveva lasciato sperare in qualcosa di
buono e lo Staufen era riuscito a ottenere l'annullamento dell'anatema
almeno su Pier delle Vigne, Taddeo di Suessa e l'arcivescovo Berardo da
Palermo, suoi consiglieri e amici. Ma su di lui e la sua famiglia l'interdetto
restava: il papa non cedeva sulla questione lombarda. Del resto, la Santa
Sede non poteva permettere all'imperatore di annettersi l'Italia
settentrionale, così da ritrovarsi circondata a nord e a sud dalla potenza
imperiale. Il sogno di Federico II, così come quello di suo nonno il
Barbarossa, era proprio quello di unire il resto dell'Italia al regno di Sicilia,
in modo tale da possedere un impero che dalla Germania scendesse
lungo la penisola per giungere fino a Gerusalemme, da lui conquistata
senza colpo ferire.
A dispetto del carattere irascibile di Federico II, ultimamente era
risaltata la sua indole docile, tendente a qualsiasi espiazione pur di
sciogliere l'anatema e riconciliarsi con il pontefice. Forse, qualcosa
nell’animo dello stupor mundi urlava a gran voce che non aveva ancora
molto tempo e che quel poco che gli restava avrebbe dovuto convogliarlo
nella riappacificazione con la Chiesa. Tuttavia, nonostante i suoi buoni
propositi, Innocenzo IV non aveva nessuna intenzione di lasciarsi
abbindolare.
Dopo l'ennesima guerra, a spese di Viterbo, sia Federico II che
Innocenzo IV si erano detti disposti a riprendere le trattative di pace,
convocandosi a Narni per discutere sul da farsi. L'imperatore, malgrado
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avesse schiumato di rabbia per la sconfitta subita a Viterbo, si era
mostrato arrendevole fino all'inverosimile, umiliandosi dinanzi all’intero
mondo cristiano, e lo stesso Manfredi, venutone a conoscenza, ne era
rimasto stupito.
Nell'estate di quell'anno aveva saputo che sua sorella Costanza, figlia
anch'essa di Bianca Lancia, l'unica vera sorella in un mare di fratellastri e
sorellastre, era andata sposa all'imperatore Giovanni Vatatzes di Nicea,
in modo da rafforzare i legami con l'impero romano d'oriente.
Ed ora qualcosa che aveva dell'incredibile gli era stato comunicato:
Gerusalemme era stata conquistata dai soldati egiziani e suo padre, pur
di giungere a una pace con Innocenzo IV, si era offerto di partire per una
crociata che riportasse la città santa sotto il dominio dei cristiani.
Manfredi rilesse l’epistola e piegò le labbra in un sorriso, leggendo tra
le righe che il papa non poteva esimersi dall'accettare l'offerta e, di
conseguenza, avrebbe dovuto assolvere l'imperatore e tutta la sua
famiglia dalla scomunica. Suo padre, senza muovere guerra, aveva vinto,
costringendo il papa a scioglierlo dalla scomunica se desiderava che
partisse per la crociata.
Si alzò dalla scrivania e si avvicinò alla finestra, rimanendo in
contemplazione della città riscaldata dai raggi dorati del sole estivo.
Quell'anno suo padre avrebbe compiuto cinquant'anni e lui sperava con
tutto il cuore che da quel momento in poi solo la pace disturbasse la vita
del potente genitore.
~
Teobaldo degli Annibaldi rimase a fissarlo a bocca aperta, mentre gli
raccontava dell’ultima lettera ricevuta dal padre dove lo informava che
presto si sarebbe recato in terra santa per liberarla dagli infedeli egiziani
e ridarla alla luce della cristianità. Accanto a lui, Giordano d’Anglano,
cugino di Manfredi, ascoltava in silenzio quella notizia che avrebbe
elettrizzato le monotone giornate trascorse a studiare e allenarsi per
divenire cavalieri.
-Tuo padre… l’imperatore andrà a Gerusalemme?- ripeté Teobaldo
incredulo.
-Così dice.Giordano si accorse di alcuni ragazzi che facevano capannello vicino
a loro e afferrò Manfredi per un braccio per allontanarlo. Questi stava per
protestare, quando il cugino l’ammonì ammiccando al gruppo di studenti:
-Stai attento quando parli: ci sono troppe orecchie in giro.Il giovane Lancia si morse le labbra e subito dopo sorrise, felice della
vicinanza dei suoi due più fidati amici che lo proteggevano da ogni insidia
e pericolo. Lui e Giordano erano cresciuti insieme e insieme si erano
recati a Parigi prima e a Bologna ora per studiare, mentre nel capoluogo
emiliano avevano fatto amicizia con il rampollo di una delle più potenti
famiglie romane, gli Annibaldi. Si erano presi subito e tutti e tre erano
diventati inseparabili, tanto che Teobaldo aveva comunicato alla propria
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famiglia che avrebbe seguito Manfredi anche a Palermo per terminare gli
studi insieme e nessuno si era sognato di contraddire quella fiorente
amicizia.
-Perdonami,- insistette Teobaldo in un sussurro, -ma con una scomunica
pendente sulla testa, si può andare a Gerusalemme?Giordano aggrottò le sopracciglia, mentre Manfredi rispondeva:
-Credo proprio di no. Il papa sarà costretto a scioglierla se rivuole
Gerusalemme.-Ritieni che l’imperatore sia così stupido da avanzare una simile proposta
se non avesse qualcosa da guadagnarci?- bofonchiò Giordano.
Teobaldo scosse appena la testa e subito dopo si illuminò in volto,
riuscendo a mala pena a contenere l’eccitazione.
-Potremmo partire anche noi?Manfredi rimase perplesso, mentre il cugino soffocava una sonora
risata all’espressione ingenua di Teobaldo. Gli assestò una pacca sulla
spalla e schioccò la lingua prima di dire:
-Tra qualche anno, magari.-Ritieni che siamo troppo giovani?-Voi due di sicuro.- rispose gonfiando il petto.
Manfredi gli assestò una gomitata nel fianco e sorridendo disse:
-Hai solo due anni più di noi, non vantarti troppo!Giordano rise e gli altri due gli fecero eco, attirando con la loro
giovialità l’attenzione dei ragazzi nel cortile dell’università.
Grosseto, marzo 1246
Tutto era pronto per la grande festa voluta da Federico II in onore
della santa Pasqua. L'intero castello era in ebollizione e presto sarebbero
giunti tutti gli ospiti d'onore per festeggiare la resurrezione del Cristo. A
corte era già arrivato re Enzo e presto sarebbe giunto Ezzelino III da
Romano, mentre l'altro figlio dell'imperatore, Federico d'Antiochia, stava
dando buona prova di sé nel resto della Toscana, tenendo a bada i guelfi,
e non avrebbe potuto partecipare, con grande dispiacere del padre.
Da qualche tempo, sotto insistenza di Manfredi, l'imperatore aveva
iniziato a scrivere un trattato di venagione con il falcone, dimostrandosi
un eccellente ornitologo e un appassionato cacciatore. Insieme a
Manfredi trascorreva le giornate nei boschi, entrambi provetti bracconieri,
per poi tornare a corte con un'infinità di selvaggina. Quello che era
accaduto dopo la sua offerta di partire per una crociata, era stato relegato
in un angolino recondito della testa, come se avesse voluto dimenticare il
pericolo corso e godersi ogni giorno come un dono di Dio.
Le speranze di pace nutrite da Manfredi erano andate in fumo, perché,
passando attraverso Viterbo per raggiungere il papa ed essere sciolto
dalla scomunica, Federico II si era voluto vendicare della sconfitta subita
l'anno precedente dalla cittadina etrusca, dando libero sfogo al suo
carattere collerico, mettendola a ferro e fuoco.
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Era il pretesto in cui Innocenzo IV aveva sperato. Senza perdere
tempo, aveva indetto un concilio a Lione per deporre l'imperatore e il 28
giugno del 1245 era stato dato il là a procedere. Taddeo di Suessa e
Berardo da Palermo, spediti solertemente nella città francese, avevano
difeso come meglio avevano potuto l'imperatore, eppure nessuno aveva
prestato orecchio alle loro appassionate arringhe. Così, con le lacrime
agli occhi, Innocenzo IV, vecchio amico di Federico II che non aveva
potuto esimersi dal proseguire la politica del suo predecessore, aveva
accusato lo Staufen di essere eretico, di aver fondato la città di Lucera
per insediarvi i saraceni infedeli, di essere amico di principi miscredenti,
di aver sposato la figlia Costanza all'imperatore scismatico di Nicea, di
aver violato giuramenti, infranto patti, occupato terre pontificie e altro
ancora. Tutte accuse che il logoteta Taddeo di Suessa aveva confutato
una ad una, con la sua invidiabile eloquenza; eppure la sua era risultata
una fatica inutile, perché il papa aveva ormai deciso e nulla e nessuno gli
avrebbe fatto cambiare idea.
Innocenzo IV aveva proclamato la deposizione di Federico II, la
perdita dei suoi onori e della dignità imperiale e aveva sciolto tutti i suoi
sudditi dall'obbligo di fedeltà, dichiarando che occorreva trovargli subito
un successore.
Federico II aveva ascoltato la notizia con sguardo cupo, esplodendo
poi in uno dei suoi soliti scatti di collera. Quella scomunica avrebbe
causato la rivolta in Germania dei principi elettori, i quali avrebbero
cercato subito un successore all’imperatore, costringendo re Corrado IV
a intervenire militarmente per mantenere il potere del padre in territorio
tedesco, mentre nel regno di Napoli avrebbe dominato il caos. Intuendo
questi rovesci, Federico II si era sfogato con un impeto inusuale, facendo
venire a galla il suo esplosivo sangue misto; ma dopo, sbollita l'ira, aveva
ricominciato con le ambascerie di pace inviate a tutti i regnanti,
confutando giustamente ogni accusa, ricusando a sua volta la Curia di
eresia e scostumatezza e che Dio gli era testimone della sua buona fede.
Innocenzo IV, con buona pace dell’antica amicizia, aveva reagito con
maggior crudeltà dei suoi predecessori: aveva indetto una vera e propria
crociata contro l'imperatore e i suoi figli, inviando monaci e predicatori in
ogni parte del mondo per fare proseliti, in modo tale da sobillare i territori
imperiali. L’amicizia che li aveva un tempo tenuti uniti era morta con il
cappello cardinalizio.
Così, la guerra che padre e figlio avevano creduto finita, era rinvigorita
più che mai, giungendo a tali bassezze da entrambe le parti che il san
Luigi IX di Francia ne aveva arrossito di disgusto e vergogna.
Ora, per la Pasqua, l'Hohenstaufen aveva voluto una festa
memorabile, a testimonianza del buonumore che la città toscana gli
aveva ridato dopo tante tribolazioni.
Manfredi uscì dalla sua camera, circondato da una coorte di saraceni
dai muscoli d'acciaio e armati di scimitarra e si affacciò dal loggiato,
sbirciando il cortile interno. Non era ancora l'alba e le torce accese
guizzavano infrangendo le tenebre che presto il sole avrebbe provveduto
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a rischiarare. Accanto al pozzo, già pronto per la passeggiata mattutina,
Teobaldo degli Annibaldi attendeva il suo compagno di giochi e di studi,
l'aria ancora imbambolata di chi si è appena svegliato.
Al rumore dei passi alzò la testa e si illuminò alla vista del suo migliore
amico, pregustando già la cavalcata. Manfredi lo raggiunse e Teobaldo
gli consegnò le redini del cavallo, ammiccando ai saraceni.
-Come fanno a essere freschi e lucidi prima ancora dell'alba?- borbottò
indispettito.
Manfredi sorrise scuotendo la testa, pensando ai pericoli che gli Svevi
correvano in quei giorni e ringraziò mentalmente la presenza di quei
soldati fedeli fino alla morte che suo padre gli aveva messo alle costole
per proteggerlo. Salì a cavallo e altrettanto fece Teobaldo.
-Sei pronto?- s’informò.
-Sì, possiamo andare.- rispose il giovane rampollo romano soffocando
uno sbadiglio.
Accompagnati dai saraceni muniti di torce, lasciarono il castello per
una passeggiata campestre, in attesa di scorgere l'alba e il bellissimo
spettacolo che li avrebbe ripagati dell'alzataccia.
-Non sei preoccupato?- domandò all’improvviso Teobaldo, cavalcandogli
accanto. -Il papa ha deposto tuo padre e non fa altro che mandare
monaci a predicare contro la tua famiglia.Manfredi piegò le labbra in un sorriso dolce e si girò a guardare
l’amico.
-Non mi preoccupo affatto.Teobaldo sbirciò appena sopra la propria spalla per accertarsi che gli
accompagnatori non ascoltassero e mormorò:
-Dovresti. Sai meglio di me che le parole sono più letali di un colpo di
spada.-I monaci non predicano nulla di diverso da quello che sempre si è detto
di male sulla mia famiglia e tu lo sai benissimo.-Sì, lo so, eppure… questa volta ho paura. Dovresti averne anche tu.aggiunse rabbrividendo involontariamente. -Tuo fratello in Germania non
è riuscito a evitare che gli elettori nominassero un nuovo re e nel
napoletano la gente scalpita perché non vuole vivere da scomunicata.Manfredi fece un gesto vago con la mano prima di poggiarla sul pomo
della sella e rispose dolcemente:
-Eppure siamo ancora tutti qui, allegri e felici per l’arrivo della santa
Pasqua. Al banchetto di dopodomani leggerò una poesia che ho scritto e
mi dirai se ti piace.Teobaldo aprì la bocca per ribattere, la richiuse di scatto, quindi
scosse la testa e sbirciò nuovamente i saraceni che li seguivano in
silenzio. Nonostante fossero una presenza costante, non riusciva a
considerarli semplici uomini, ma giganti erculei che incutevano paura con
la sola presenza e i loro occhi nerissimi sembravano sondare l’animo di
chi avevano davanti.
-Ma è vero?- sussurrò all’improvviso.
-Vero cosa?- ripeté Manfredi.
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-Che… Be’, tra un anno diventeremo maggiorenni ed ho sentito dire che
tuo padre ha in mente di farti sposare la vedova del marchese di Saluzzo,
Beatrice di Savoia.L'altro si girò a fissarlo, ma le tenebre e la bruma nascondevano il
volto glabro e bello di Teobaldo.
-Come fai a saperlo?-È vero?- ribatté.
Manfredi volse lo sguardo alla criniera del suo cavallo e dopo un
lungo attimo rispose:
-Sì, è vero.Teobaldo si morse le labbra e chinò appena la bionda testa. Non gli
piaceva l'idea di perdere il suo migliore amico e compagno di studi per
colpa di una donna.
-E… a te sta bene?- mormorò in un sussurro.
-Perché non dovrebbe?- rispose sorpreso. -È la scelta di mio padre ed io
non sono nessuno per confutarla.Teobaldo non comprendeva il motivo di tanta fretta da parte
dell'imperatore e non condivideva la remissività di Manfredi, che lui
vedeva ancora come un adolescente intento solo al divertimento.
-Non siamo ancora stati addobbati cavalieri… - iniziò con tono puerile.
Manfredi si girò di nuovo a guardarlo e scoppiò a ridere.
-E allora? Cosa pensi possa cambiare?Teobaldo scosse la testa e passò una mano sul farsetto che
indossava, comprendendo di apparire quasi idiota.
-Cosa ne diresti di fare uno scherzo alle guardie?- propose cambiando
discorso.
Manfredi si illuminò all’idea e annuì. Bastò un solo sguardo tra loro,
una scintilla negli occhi ed entrambi partirono al galoppo, lasciando
sorpresi i saraceni. Li distanziarono sorridendo come solo due
adolescenti sanno fare, fin quando la scorta li raggiunse di nuovo e il
comandante redarguì duramente il figlio di Bianca Lancia, sciorinando
parole in arabo che solo lui comprese, ma che gli scivolarono addosso
senza sfiorarlo.
~
La corte era in subbuglio e tutti si davano da fare per rendere il giorno
di Pasqua lieto e piacevole, come le giornate primaverili che si
susseguivano soleggiate e tiepidi dopo il rigido inverno appena trascorso.
L'atmosfera gaia contagiava tutti, compreso il crudele Ezzelino III, che si
ritrovò a ridere e scherzare con il potente suocero.
Il giorno prima di Pasqua, quando l'eccitazione generale era alle stelle,
una galera gettò l'ancora nel porto di Grosseto e l'inviato del conte
Riccardo Sanseverino di Caserta, anch'esso genero dell'imperatore,
avendo da poco impalmato la tredicenne Violante, si fece condurre senza
indugi alla presenza di Federico II, saltando di pari passo il cerimoniale.
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L'improvvisa urgenza fece accorrere lo Staufen, seguito dai figli, da
Ezzelino III, da Pier delle Vigne e subito dopo da Taddeo di Suessa e
dall'arcivescovo Berardo da Palermo.
Il corriere consegnò la missiva del conte, senza perdersi in
salamelecchi e Federico II, con sguardo cupo, ruppe il sigillo e si accinse
a leggerla. Impallidì visibilmente e la sua prima reazione fu un violento
scoppio d'ira, che allarmò i presenti.
Enzo cercò di rabbonirlo, mentre Manfredi prendeva l'epistola e la
leggeva ad alta voce per farne partecipi tutti i presenti. Il conte di Caserta
informava che il giorno di Pasqua, quando tutti sarebbero stati al
banchetto per festeggiare, i cospiratori avrebbero ucciso l'imperatore,
Enzo ed Ezzelino III, per poi passare all'occupazione del regno, ponendo
così fine alla dinastia sveva. I cospiratori, informava il conte, erano molto
vicini al papa e ne forniva un elenco dettagliato che aveva inorridito
Federico II: si trattava di persone che aveva creduto fidate e che aveva
posto ai massimi livelli della gerarchia imperiale di stretti collaboratori. I
documenti che comprovavano le parole del genero erano allegati alla
missiva.
Dopo il primo momento di incredulità, Pier delle Vigne diede ordine di
far riunire immediatamente il gran tribunale, di raddoppiare la
sorveglianza, bloccare le strade e i porti, in modo tale da non lasciar
fuggire i cospiratori. In un solo attimo l'intera corte cambiò volto e dove
prima si festeggiava allegramente l'imminente Pasqua, un secondo dopo
tutti erano allertati e già con le armi in pugno.
Passato il momento di rabbia furibonda, Federico II si rese
immediatamente conto della situazione e, dopo aver consultato Pier delle
Vigne, fece sospendere i preparativi della festa e diede ordine all'intera
corte di levare le tende per andare ad affrontare il nemico.
Manfredi lasciò cadere la pergamena, comprendendo che era giunto il
momento della resa dei conti e che da quel giorno sarebbe stata battaglia
aperta. Scambiò un’occhiata con Teobaldo e questi scosse appena la
testa.
In mezzo al trambusto causato dalla scoperta del complotto, si
accorse di una delle sue sorelline che sbirciava con occhi sgranati da
dietro lo stipite della porta. Le si avvicinò con un sorriso sulle labbra e la
guardò con dolcezza.
-Cosa succede?- le domandò premuroso.
-Ho paura. Cosa sta accadendo?- rispose lei con voce querula.
-Niente di cui preoccuparsi. Vieni, andiamo a mangiare qualche dolce.Le offrì la mano e lei la prese, fiduciosa come possono esserlo i
bambini, ignara della bufera che si sarebbe abbattuta sulle loro teste.
31
3
Parma, febbraio 1248
La rivolta era stata domata e l'Hohenstaufen poteva dirsi tranquillo su
quasi tutto il territorio italiano: in Sicilia governavano due dei suoi generi,
in Toscana il figlio Federico d'Antiochia, a Viterbo il piccolo Enrico
Carlotto, avuto da Isabella prima di morire, a Spoleto, nelle Marche e
nelle Romagne il figlio Riccardo di Teate; in Lombardia meridionale re
Enzo, a Verona e nella Lombardia orientale Ezzelino III da Romano.
Libero da potenziali rivolte, Federico II si era apprestato a marciare
contro Lione per affrontare il concilio, quando, improvviso, era giunto un
messaggio urgente di Enzo: Parma si era alleata con il nemico e lui lo
pregava di congiungersi alle sue truppe per riconquistarla. Ancora una
volta il destino si era rivoltato contro lo Staufen che, con tutta la corte e
l'esercito, aveva deviato dalla strada per Lione per puntare su Parma.
A Cremona si era ricongiunto con Enzo e insieme avevano marciato
verso la ribelle per metterla sotto assedio. La tendopoli che Federico II
aveva fatto innalzare di fronte a Parma, l'aveva nominata Victoria,
talmente era sicuro di vincere.
Era certo che l'espugnazione sarebbe stata rapida e che presto
avrebbe potuto riprendere la marcia verso Lione, dove era rintanato
Innocenzo IV già da tre anni: aveva deciso di giocarsi il tutto per tutto,
andando incontro al papa per avere un faccia a faccia con lui.
Nel frattempo, le giornate si susseguivano monotone e Manfredi si
teneva in allenamento con Teobaldo, torneando e tirando di spada, sotto
l’occhio scrutatore di Giordano d’Anglano, che spesso elargiva consigli su
come evitare un fendente o portarne uno.
L'anno precedente il giovane Lancia aveva impalmato Beatrice di
Savoia, una donna più grande di lui, divenendo marchese grazie alla dote
portata dalla moglie e che ora si apprestava a dargli un figlio, con grande
gioia di Federico II. Tuttavia, se anche il giovane si mostrava gentile
verso la moglie, a nessuno era sfuggito come cercasse in ogni modo di
eludere la sua presenza. Il matrimonio era stato imposto e lui l’aveva
accettato, ma nessuno avrebbe potuto ordinargli di amare la donna che
era diventata sua consorte. Gli stava dando un figlio: solo questo contava.
In piedi sotto un albero, con la pioggia che scendeva fitta a bagnargli
le vesti e i capelli, gli stivali sporchi di fango, Manfredi scrutava l’orizzonte
plumbeo, domandandosi quanto sarebbe durato l’assedio. Al suo fianco,
silenzioso e meditabondo, se ne stava Teobaldo, in mano la spada che
rigirava come se fosse stata un giocattolo. Più in là sostava l’intera corte
con tutto l’esercito, dentro le tende da campo che, vista la mobilità di
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Federico II, tutti avevano imparato a considerare come casa propria.
Anche Beatrice di Savoia aveva imparato e se ne stava nella sua tenda
ad attendere il ritorno di Manfredi.
Il freddo, che si insinuava nelle ossa e faceva rabbrividire, indusse
infine Teobaldo a schiarirsi la gola e dire:
-Non credi sarebbe il caso di rientrare?L’interpellato inspirò a fondo e chiuse un attimo gli occhi, offrendo il
volto alle intemperie.
-La pioggia non mi disturba.-Non intendevo questo.Manfredi sospirò e passò una mano sul viso per asciugarlo dalla
pioggia prima di osservare il suo amico. Erano entrambi bagnati fradici, i
capelli gocciolavano impietosamente e i vestiti erano attaccati al corpo
come una seconda pelle, mentre gli stivali erano talmente bagnati e
infangati che i piedi erano ormai congelati.
-Hai ragione.- mormorò. -Ma preferisco stare qui con te.Teobaldo si morse le labbra, cogliendo il tono malinconico nell’amico.
Non era un segreto che la morte di sua madre, la contessa Bianca Lancia,
avesse lasciato un segno profondo sia nel figlio che nell’imperatore e che
quel vuoto difficilmente si sarebbe colmato, e avvicinandosi mormorò:
-Io ti starò sempre vicino, lo sai.Manfredi annuì e d’istinto lo abbracciò, dicendo:
-Sei un vero amico.Teobaldo chiuse gli occhi e abbracciò a sua volta il suo signore,
pregando affinché il tempo si fermasse in quell’istante, lasciandoli così
perennemente. Non poteva saperlo, eppure lui avrebbe infangato il suo
onore, rinnegato gli Annibaldi e donato la sua vita per lui, pur di saperlo
felice e protetto.
-Tu tremi per il freddo.- constatò Manfredi staccandosi e guardandolo
negli occhi.
Teobaldo trattenne il respiro, avvertendo il gelo nelle ossa e sostenne
il suo sguardo indagatore, ammettendo:
-Sì, fa freddo.-Allora rientriamo.In silenzio, come due anime in pena, ritornarono verso
l’accampamento e solo davanti all’entrata della tenda da campo dove
stava Beatrice di Savoia si lasciarono, ripromettendosi di vedersi il giorno
dopo per allenarsi con la spada.
Parma, 18 febbraio 1248
La giornata tiepida, illuminata da un bel sole invernale, fece sì che
Federico II, insieme a Manfredi, a Teobaldo, a Giordano e ad alcuni amici,
disertasse la neonata città di Victoria per una battuta di caccia. Lo
Staufen sperava di fare della tendopoli di Victoria una città come aveva in
precedenza fatto con Lucera e L'Aquila, dopo aver espugnato Parma e
cacciato tutti i suoi rivoltosi cittadini guelfi.
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Di prima mattina gli scudieri ricevettero l'ordine di preparare i cavalli e
l'imperatore uscì per andare a caccia. I falconieri erano stati dispensati e
lo stesso Federico II teneva il falcone sul braccio, così come Manfredi,
mentre i battitori si erano già avviati verso il bosco.
-Stiamo per lasciarci l'inverno alle spalle.- commentò l’imperatore
spronando il cavallo e scrutando il cielo terso.
Manfredi annuì, incitò il destriero e mormorò parole dolci al falco
incappucciato.
-Come procede il trattato?- chiese affiancando il padre.
-Sta andando avanti. Lo scrivano è abile nel ricopiare gli uccelli. Ne verrà
fuori qualcosa di buono.- rispose questi sbirciando il sentiero che si
inoltrava nel bosco.
-Tu conosci molto bene gli uccelli, li hai studiati per anni ed io sono certo
che il trattato sarà molto più che qualcosa di buono.Federico II si girò verso il figlio e ammise:
-Se tu non avessi insistito, non mi sarei mai deciso.-Ho insistito perché riconosco la tua valenza in questa disciplina.-E tu? Quando nascerà il bambino?Quella domanda lo colse impreparato e l’imperatore lo fissò a lungo,
studiando il suo volto sereno che riuscì a mascherare l’attimo di
incertezza.
-Tra non molto.- rispose vago, lo sguardo fisso davanti a sé.
-La marchesa è di tuo gradimento?Manfredi sbatté gli occhi, modellando per un attimo nella mente
l’immagine della moglie, quindi si girò a fissare il padre con aria incredula.
-È stato un matrimonio politico, niente di più.- rispose con
condiscendenza, memore di quanto gli aveva un giorno raccontato il
fratello Enzo.
All'imperatore non sfuggì il pizzico di insofferenza nella sua voce e
comprese che il figlio non aveva molto a cuore la moglie. Ciò nonostante
non avrebbe mai ammesso di esserne insoddisfatto, per non deludere il
genitore che l'aveva scelta solo perché i Savoia controllavano l'Italia
occidentale ed erano filoimperiali.
-Bene. Non è saggio mischiare la politica con i sentimenti.Manfredi rise, ritrovando subito il buonumore e il sole parve
risplendere esclusivamente su di lui, come se fosse stato una calamita e
il padre lo guardò con evidente orgoglio.
In quel momento, mentre loro si dilettavano nella caccia, i parmensi,
con una sortita audace, invadevano la quasi disarmata tendopoli di
Victoria, devastando e depredando con furia animale, uccidendo e dando
alle fiamme tutto quello che incontravano. Cinquecento imperiali, tra
soldati, donne e bambini, furono massacrati, compreso il gran giustiziere
di corte Taddeo di Suessa, il tesoro trafugato e presi un'infinità di
prigionieri.
Solo le truppe dei vicari imperiali in Italia e quelle di re Enzo si
salvarono perché non presenti e quando le campane a stormo arrivarono
alle orecchie dei cacciatori, Federico II e il suo seguito si precipitarono
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alla difesa. Arrivarono troppo tardi, giusto per constatare la disfatta e
ritirarsi scornati.
La più terribile sconfitta subita dall'imperatore in tutta la sua vita gliela
inflisse Parma, una città minuta al confronto della sua grandezza e lui,
che si era sempre ritenuto invincibile, ingoiò amaramente il rospo.
Tuttavia non si diede per vinto e dopo i primi momenti di incredulità, tornò
battagliero come sempre, anche se il destino, ormai, gli era
irrimediabilmente avverso.
Foggia, 1250
Dopo aver soggiornato per tutta l'estate e l'autunno del 1249 a Melfi,
Federico II tornò a Foggia per trascorrerci un mite inverno, nel tentativo di
corroborarsi dagli ultimi disastrosi avvenimenti che lo avevano sconvolto.
Dopo la sconfitta di Victoria era rimasto per un anno a Cremona, dove,
nel febbraio del 1249, aveva sventato un tentativo di avvelenamento ed
era stato costretto, suo malgrado, a incolpare il consigliere, l'amico, il
legislatore, il logoteta Pier delle Vigne di tradimento. L'accusa era seria:
si era arricchito con i soldi dell'impero. E questo, per un uomo votato alla
giustizia come Federico II, equivaleva ad alto tradimento. Mentre veniva
condotto in prigione, Pier delle Vigne aveva preferito uccidersi andando a
sbattere violentemente la testa contro la colonna alla quale era
incatenato, onde evitare le future torture.
Ma se la perdita di Taddeo di Suessa prima e quella di Pier delle
Vigne poi avevano incrinato il forte Hohenstaufen, la cattura dell'amato
Enzo alla Fossalta da parte dei Bolognesi, l'aveva schiantato. Il 26
maggio del 1249, mentre il giovane re era sulla via di Modena per andare
a soccorrerla dall'assalto dei bolognesi, era stato catturato e condotto in
una cella comoda e confortevole, dalla quale sarebbe uscito solo nel
tardo 1272 per una degna sepoltura. Anche l'altro figlio, il ventiquattrenne
Riccardo di Teate era morto in quel periodo e Federico II ne aveva pianto
la dipartita, così come aveva mandato preghiere, minacce e lusinghe ai
bolognesi affinché liberassero Enzo. Ma del coraggioso, impavido
cavaliere svevo, a volte amabile, altre terribile, non sarebbero rimaste
che le sue dolci poesie scritte in cattività, ultimo testimone della fine della
casa degli Staufen. A lui sarebbe toccato il compito di piangere il padre
prima, Corrado IV poi, infine Manfredi e il nipote Corradino per mano del
crudele Carlo I d'Angiò.
Manfredi aveva fatto causa comune con il padre per cercare di
liberare il fratellastro che per lui aveva sempre avuto un posto nel cuore,
scoprendo con dolore che i bolognesi erano sordi a ogni supplica e ad
ogni sottile minaccia.
Ora, dopo aver trascorso l'ultimo periodo dell'anno a Melfi per cercare
di ritemprare lo spirito così duramente colpito, Federico II si apprestava a
superare l'inverno per poi tornare a combattere aspramente il papa. Non
era la prima volta che cadeva e ogni volta era sempre risorto dalle
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proprie ceneri più forte di prima ed era certo che anche questa volta
avrebbe ripreso saldamente in mano le redini dell’impero.
Nel frattempo coccolava Costanza, la figlia di Manfredi e di Beatrice di
Savoia e accarezzava l'idea di riprendere moglie, la quarta, per dare
un'imperatrice all'impero e già si guardava intorno per scegliere il miglior
partito.
La vita familiare gli giovava, benché l'età avesse portato numerosi
acciacchi e trascorreva le giornate con i figli più piccoli rimastigli e con i
nipoti dei più grandi, mentre con l'aiuto prezioso di Manfredi continuava a
lavorare al trattato sulla caccia, e i castelli ordinati negli anni precedenti
erano in via di essere terminati.
Dalla Germania gli giungevano notizie buone: suo figlio Corrado IV
riusciva a tenere testa a tutti gli anti-re che gli oppositori eleggevano per
deporlo e la valenza di questo giovane re sul campo di battaglia gli dava
buone ragioni per stare tranquillo.
Dalla Francia giungeva la notizia che il suo mediatore con il papa,
Luigi IX, era stato catturato durante la crociata in Egitto e subito aveva
scritto al sultano, intercedendo a favore del suo amico prigioniero,
offrendo prontamente denaro per la sua liberazione.
Il papa, nel frattempo, cercava di accattivarsi principi inglesi e francesi
per indurli a scendere in Italia per distruggere "la Bestia", come chiamava
l'imperatore, invitandoli senza mezzi termini a prendere possesso del
regno. Ciò nonostante, nessuno dei coronati gli prestava orecchio, in
quanto ritenevano legittimo il potere di Federico II tanto quanto il proprio
e mal vedevano l’intromissione del pontefice nella sfera temporale; primo
sintomo, quello, di una vicina decadenza del papato.
In quello scorcio del 1250 sembrava che il destino si fosse
nuovamente ricordato di Federico II e tornava a baciargli la fronte come
aveva fatto quando era adolescente. E lui, sentendosi più forte che mai,
era in procinto di riprendere la lotta, con la baldanza e la fiducia di
quando, giovinetto, aveva intrapreso la strada per la conquista del regno
lasciatogli in eredità dai potenti genitori.
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4
Castel Fiorentino, novembre 1250
-Forse è un orso, a giudicare dalle impronte.- annunciò un servo.
Federico II e Manfredi si chinarono appena dai cavalli per osservare le
orme e annuirono compiaciuti.
-Faremo buona caccia.- notò Manfredi facendo cenno al falconiere.
Questi si avvicinò e il giovane marchese prese sul proprio braccio il
rapace dalle piume lucide, mormorandogli parole dolci e confortevoli.
-Anche un cervo è passato di qui.- aggiunse Federico II indicando altre
impronte. -Bene. Che sia dato ordine ai battitori.Il servo s'inchinò e si avviò verso la retrovia per far avanzare i battitori.
La giornata novembrina conservava ancora un po' di tepore, dopo alcuni
giorni di pioggia, e la temperatura mite della Sila invogliava a lunghe
cacce prima del rigido inverno. La comitiva era serena, piena di
aspettative e già molte bestie erano state uccise nei giorni precedenti e
ognuno sperava di impinguare il bottino da riportare al castello.
Dal canto suo, Manfredi immaginava già la faccia gioiosa della piccola
Costanza quando le avrebbe mostrato l'orso che aveva ucciso e pensò di
farle confezionare un mantello caldo con la pelliccia per ripararla dal
freddo e dall’umidità che stagnavano nelle stanze del castello. Sua figlia
era la sua gioia più grande e si scopriva pieno d’amore per lei, tanto che
la coccolava e vezzeggiava in continuazione e spesso scriveva versi in
suo onore, accompagnati dal timbro melodico e struggente delle viole
che i suoi scudieri suonavano. Teobaldo e Giordano erano piuttosto critici
nei suoi confronti, eppure anche loro erano rimasti abbagliati dalla
bellezza della bambina, dalle sue guance paffute e rosee, dai boccoli
biondi e dagli occhioni azzurri come il cielo estivo e spesso le portavano
doni in una sorta di silente gara per accaparrarsi il suo interesse.
Manfredi sorrideva dei loro sforzi ed era certo che anche quel giorno i
suoi più intimi amici avrebbero dato fondo a tutta la loro fantasia per
cercare qualcosa di nuovo da regalare a Costanza. Istintivamente si girò
indietro per osservarli e li vide parlottare tra loro, con i falconi appollaiati
sul braccio, pronti a spiccare il volo, e stava per tirare le redini del cavallo
e attenderli, quando uno strano movimento del padre lo costrinse a
rigirarsi e ad aggrottare le sopracciglia alla vista del suo volto pallido e
teso.
-Ti senti bene?- domandò preoccupato.
Federico II non rispose, ma lo sguardo gli si incupì maggiormente.
Portò le mani all'addome e si chinò in avanti, trattenendo una smorfia di
dolore, riuscendo a mala pena a rimanere in sella.
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-Padre!- esclamò Manfredi con gli occhi sgranati, scendendo di volata dal
cavallo.
Riconsegnò il rapace al falconiere e con l'aiuto di due saraceni fece
adagiare il padre a terra, mentre l’intero gruppo di cacciatori si bloccava
all’istante. Giordano e Teobaldo lo raggiunsero con aria preoccupata,
ricordando il malessere accusato dall’imperatore alcuni giorni prima e
scrutarono il suo volto, in genere gioviale, ora cinereo, con gli occhi
sbarrati, le labbra tremanti piegate in un ghigno di sofferenza e si resero
conto che non era un malessere passeggero. Guardarono Manfredi,
pallido a sua volta e per un lungo attimo, che parve un’eternità, nessuno
seppe cosa fare. I saraceni, guardia d’onore e sudditi fedelissimi,
circondarono il loro signore, mentre alcuni cavalieri tedeschi iniziavano a
dare ordini ai battitori di rientrare.
-Padre…- chiamò Manfredi con un tremito nella voce che denunciava la
paura.
Teobaldo gli posò una mano sulla spalla e ricambiò il suo sguardo
quando il giovane Lancia alzò gli occhi sgranati su di lui. Lo stormire delle
foglie al lieve vento autunnale accompagnò un gemito dell’imperatore e
un soldato tedesco si fece avanti, suggerendo:
-Lo riportiamo a Foggia?A quelle parole Manfredi esitò, mentre sosteneva la testa del padre
con una mano e con l’altra gli allontanava i capelli accarezzandogli il
volto; quindi sbirciò il sole che scendeva dolcemente all’orizzonte e dopo
aver scambiato un’occhiata con Teobaldo e Giordano ordinò con tono
risoluto:
-No, troppo lontana. In questa località c'è una rocca: lo porteremo lì.Nel volgere di poco tempo, Federico II fu condotto in quella che
doveva essere la sua ultima dimora terrena.
~
Nei primi giorni dicembrini l'infiammazione intestinale parve migliorare,
ma lo stesso Federico II aveva riconosciuto i sintomi del medesimo male
che aveva stroncato suo padre Enrico VI nel fiore degli anni. Mandò a
chiamare il gran giustiziere Riccardo di Montenero e il suo più antico
amico, l'arcivescovo Berardo da Palermo. C'erano solo loro nel maniero,
oltre ai pochi intimi che erano stati a caccia con lui.
Manfredi non si dava pace e, quando non era al capezzale del padre
morente, era costantemente al fianco di Teobaldo e Giordano, cercando
negli amici più cari un conforto che non sarebbe giunto tanto presto, e
quando la febbre tornò ad aggredire il padre, capì che era alla fine. Lo
stesso imperatore volle dettare il testamento e dinanzi a Riccardo di
Montenero, Berardo da Palermo, Manfredi, il margravio Bertoldo di
Vohburg-Hohenburg, il genero Riccardo di Caserta, il gran maestro di
scuderia Pietro Ruffo di Calabria e suo nipote Folco Ruffo, il medico
Giovanni da Procida e alcuni giudici e notai, iniziò a dettare:
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-Poiché transitoria è la natura umana, noi, Federico, per grazia di Dio
imperatore dei romani, re di Gerusalemme e di Sicilia, in pieno possesso
della favella e delle facoltà mentali, malato nel corpo ma lucidamente
responsabile, intendiamo provvedere al bene della nostra anima e
disporre del regno e delle terre e di ciò su cui ancora regniamo, anche se
già siamo usciti dalla terrena esistenza.Il figlio Corrado IV re di Germania fu nominato erede dell'impero e re
di Sicilia. Qualora fosse morto senza eredi, il suo posto sarebbe stato
preso dall'altro suo figlio legittimo Enrico Carlotto e, in mancanza di
questi, da Manfredi.
Da quel momento, come un fulmine a ciel sereno, Federico II legittimò
Manfredi, il quale non avrebbe più portato il nome Lancia bensì quello di
Hohenstaufen, inserendolo nella lista dei successori dell'impero.
Il giovane marchese rimase impietrito, mentre avvertiva su di sé gli
sguardi di tutti i presenti, chiedendosi cosa avesse fatto per meritarsi
tanto. Nessun altro dei figli illegittimi di Federico II sarebbe entrato nella
lista dei successori e per un breve attimo assaporò la remota possibilità
di divenire imperatore; ma subito dopo si dipinse la costernazione sul suo
viso dolce: suo padre stava ancora dettando il testamento e lo metteva in
una situazione per niente invidiabile.
Durante l'assenza di Corrado IV, Manfredi avrebbe dovuto regnare
come vicario sull'Italia imperiale e sul regno di Sicilia, riversando su di lui,
in tal modo, tutta la responsabilità di un regno che non era suo e che,
probabilmente, non lo sarebbe mai diventato, vincolandolo a un onore
che lui vedeva solo come onere. A lui stesso lasciò il principato di
Taranto, le contee di Gravina, Tricarico e Monte Cavo, con diritti feudali
su Monte Sant'Angelo.
A Enzo, sebbene ancora imprigionato, sarebbe rimasta la Sardegna;
al giovanissimo Enrico Carlotto il regno di Gerusalemme, mentre il ducato
d'Austria e Stiria sarebbe andato al nipote Federico, figlio del primogenito
Enrico che lui aveva deposto e che era morto in prigionia.
Inoltre, come ultimo desiderio, volle che tutte le chiese distrutte
fossero ricostruite e che i sudditi fossero liberati da imposte generali.
La sera del 12 dicembre Federico II sembrò migliorare e il medico,
Giovanni da Procida, per cercare di ridargli un po' di forze, gli fece
mangiare delle pere cotte nello zucchero.
Per il resto della serata l’imperatore rimase a parlare con Manfredi,
suggerendogli i vari passi da compiere per cercare di contenere le
previste rivolte che sarebbero scoppiate alla sua morte, esortandolo a
compiere il suo dovere come si conveniva a un Hohenstaufen e
lasciando disposizione affinché le sue spoglie mortali transitassero lungo
le Puglie da lui tanto amate e fossero traslate nel duomo di Palermo,
accanto alla prima moglie, Costanza d’Aragona.
Manfredi ascoltava e diniegava, continuando a ripetergli che sarebbe
guarito e che avrebbe continuato a vivere a lungo, ma il giorno dopo, alla
vigilia dei cinquantasei anni, a dispetto delle amorevoli parole di conforto
del figlio prediletto, peggiorò. Volle indossare il saio cistercense e chiese
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all'amico Berardo da Palermo di scioglierlo dall'anatema e di riaccoglierlo
nelle braccia della Chiesa, sperando, in tal modo, di rendere legittimo il
testamento. Quindi il vecchio compagno di una vita intera gli somministrò
l'estrema unzione e insieme attesero la fine, sotto gli occhi di un affranto
Manfredi. Questi gli tenne la mano fino all'ultimo e quando l’imperatore
fece un’ultima smorfia prima di restituire l’anima al Creatore, con
dolcezza gli chiuse gli occhi, non riuscendo a trattenere le lacrime.
~
"Tramontato è il sole del mondo che illuminava le genti. Tramontato è il
sole della giustizia. Tramontato è il fondatore della pace. Ma anche se
quell'astro è tramontato, i suoi ordinamenti gli assicurano continuità e
nuova vita in voi. Nessuno crede che il padre sia assente, perché si
spera che nel figlio viva."
Questo scrisse Manfredi al fratello Corrado IV, mettendolo al corrente
della morte del padre. Aggiunse che era deceduto da "perfetto cristiano",
così che la Chiesa riconoscesse le sue ultime volontà.
Teobaldo, in piedi dinanzi alla finestra del maniero, distolse lo sguardo
dal panorama e si girò a studiare l’amico intento a scrivere, il volto solare
che era diventato cupo e teso, nonché addolorato e tormentato da
quando l’imperatore aveva redatto il testamento, facendolo diventare uno
svevo a tutti gli effetti. Con un sospiro si mise dinanzi alla scrivania,
portando le mani nella cinta legata in vita e dalla quale pendeva la spada
e portò il peso del corpo su una gamba, preoccupato per la piega che
avevano preso gli eventi. Era vero che Corrado IV fosse l’erede e che
Enrico Carlotto lo seguisse immediatamente nella linea di successione
poiché unici figli legittimi di Federico II, ma aver di colpo legittimato
Manfredi, ponendolo al terzo posto come candidato al trono dell’impero,
gli avrebbe procurato più noie che altro. Innanzitutto l’invidia di tutti gli
altri figli illegittimi, nonché il sospetto in Corrado IV che ancora non aveva
un suo erede personale e che, probabilmente, non vedeva di buon occhio
questo fratellastro che lui neppure conosceva. Infine, ma non per ultima,
la pretesa di Federico II che lui si occupasse di un regno non suo e che lo
conservasse per l’erede legittimo.
Tutto questo senza tener conto del problema principale: la Chiesa
avrebbe fortemente avversato e inficiato il testamento di un uomo
scomunicato. Manfredi si sarebbe ritrovato a combattere su due fronti,
niente affatto in posizione invidiabile.
-Tu sai che la Chiesa non riconoscerà mai le volontà di un sovrano
deposto e scomunicato, sebbene l’arcivescovo lo abbia sciolto
arbitrariamente dall’anatema.- disse infine, girando il dito nella piaga.
Manfredi alzò appena gli occhi dal foglio, rigirò la piuma d’oca tra le
dita e subito dopo sospirò, annuendo.
-Lo so bene, purtroppo. Fosse solo questo il guaio…-Tuo fratello?40
-Già- rispose pieno di sconforto. -La Chiesa non l’ha mai riconosciuto
come re dei romani, né riconoscerà mai me come vicario su terre sulle
quali essa rivendicava i diritti.Teobaldo passò una mano tra i capelli e si grattò la nuca, non
prevedendo nulla di buono da quel testamento: il dissidio non si sarebbe
mai potuto sanare e gli occhi di Manfredi gli rivelavano che ne era
pienamente cosciente. Le difficoltà alle quali sarebbe andato incontro
avrebbero intimorito un uomo dello stampo di Federico II; il giovane
principe si sentiva morire al solo pensiero di quell'eredità che gli pesava
come un macigno e che, se non fosse stato più che allerta, l’avrebbe
schiacciato.
-Di una cosa sono certo,- mormorò Teobaldo puntando l’indice sulla
scrivania, -io non ti lascerò da solo.Manfredi piegò le labbra in un sorriso amaro e con rassegnazione si
apprestò a prendere il posto del padre, lui, appena diciottenne, che
amava la tranquillità e sognava una vita di divertimenti e di battute di
caccia. Ma era anche un cavaliere, un uomo d'onore e avrebbe affrontato
il destino senza tirarsi indietro, come si conveniva a un Hohenstaufen.
Foggia, gennaio 1251
Per tutto il mese di gennaio, ogni ordine che partiva dalla cancelleria
imperiale portava la firma di Federico II affiancata a quella di Manfredi,
così come l'imperatore aveva stabilito con il figlio, in modo da dargli il
tempo di fortificarsi prima delle previste rivolte.
Eppure Andria, Foggia e Barletta iniziavano ad affilare le lame, mentre
Capua e Napoli si erano manifestamente ribellate.
Manfredi si difese mandando lo zio, Galvano Lancia, in Toscana a
rafforzare con truppe fresche i territori fedeli, mentre in Sicilia aveva
mandato il piccolo Enrico Carlotto affiancato da Pietro Ruffo di Calabria,
uomo che, apparentemente, sembrava fidato.
Lui rimase a Foggia, privo di esercito, tuttavia circondato dalla
numerosa e fedele famiglia Lancia, dai suoi intimi amici, nonché da
Bertoldo di Vohburg-Hohenburg, il leale consigliere di Federico II.
Ezzelino III da Romano riusciva con le sue truppe e la sua efferata
crudeltà a tenere a bada le terre da lui amministrate nel nord Italia,
mentre in Piemonte vigilava suo suocero, Amedeo di Savoia.
In quei giorni gli giunse notizia che le truppe tedesche al comando di
Hegano stavano marciando contro Foggia, esasperate da mesi di
mancato salario. Comprese immediatamente che la mancata retribuzione
era una scusa per una probabile sedizione, eppure fece finta di niente,
spedendo una lettera a Hegano, nella quale gli ingiungeva di non
perseverare in quell'atteggiamento rivoltoso, perché il figlio
dell'imperatore, qualora fosse stato necessario, avrebbe mostrato la sua
forza. Aggiungeva pure che, se il problema erano i salari, avrebbe
acconsentito a ricevere quattro rappresentanti e a consegnare a loro i
mesi di arretrati.
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I soldati tedeschi, che vedevano in Manfredi un principe indolente e
refrattario alle armi, dovettero ricredersi e compresero di avere davanti un
uomo che, anche se amante delle arti, non si lasciava spaventare
facilmente e che si sarebbe piegato solo dopo estenuante lotta, in questo
copia singolare del carattere paterno.
Nonostante Manfredi non avesse difese, difettando di un esercito,
Hegano capitolò e mandò i quattro rappresentanti, così come aveva
ordinato il principe, consegnandogli la prima, importante vittoria.
In quel modo, senza ricorrere alla violenza, Manfredi si assicurò la
fedeltà delle milizie e poté dedicarsi alle altre ribellioni.
~
I messi mandati nelle terre del regno per ricevere i giuramenti di
fedeltà, tornarono con notizie poco rassicuranti: fatta eccezione per le
terre tenacemente fedeli agli svevi, le altre avevano risposto che erano
stanche di aver vissuto per tanti anni interdette e scomunicate e che non
avevano alcuna intenzione di giurare fedeltà a Corrado IV, colui che il
papa non aveva riconosciuto come successore legittimo.
Ottimista per natura, Manfredi scrisse al fratello in Germania che le
terre si mantenevano fedeli e che solo su alcune occorreva insistere un
po' per ridurle all'obbedienza. Lui, in quanto reggente, avrebbe impiegato
tutto lo zelo necessario per consegnargli, al suo arrivo, il regno nella sua
integrità.
Ma, nonostante le rosee previsioni di Manfredi, le Puglie fedelissime
davano cenni di rivolta. Alla sollevazione di Andria, il giovane principe
racimolò le poche forze di cui disponeva e decise di mettersi in marcia
verso la ribelle.
~
Beatrice si morse le labbra e gli si avvicinò lentamente. Suo marito, il
suo bellissimo marito, era quasi irriconoscibile: da quando era stato
legittimato e sobbarcato di una eredità pesantissima, pareva che non
pensasse ad altro che al lavoro. Come se, all'improvviso, si fosse
dimenticato della sua vita passata e si fosse gettato a capofitto in un'altra
che non gli apparteneva. Non che prima le dedicasse maggior tempo, ma
adesso era addirittura inavvicinabile e persino Costanza risentiva della
mancanza di attenzioni da parte del padre.
Con un cenno della mano licenziò le sue dame di compagnia e si
avvicinò alla scrivania dove Manfredi era seduto, sommerso dalle carte.
-Perché non ti riposi un po'?- suggerì con dolcezza.
Lui alzò lo sguardo e alla tremolante luce delle candele la guardò
sorridendo. Comprendeva la sua preoccupazione, condividendola,
eppure, nonostante non fossero mai stati molto uniti, non voleva che si
facesse carico dei suoi problemi. Licenziò i segretari con un semplice
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gesto della mano e questi se ne andarono in silenzio, lasciando i coniugi
da soli.
-Lo farò, ma non ora.- rispose. -Ora ci sono questioni della massima
urgenza da risolvere.-È da un mese che non ti risparmi. Tua figlia non si ricorda più neppure
come sei fatto.A quell'affermazione volutamente esagerata scoppiò a ridere e si alzò,
raggiungendola. Le mise le mani sulle spalle e la fissò a lungo,
perdendosi nei suoi occhi grandi e preoccupati. Con il tempo aveva
imparato a volerle bene, a rispettarla e le era infinitamente grato per
avergli dato una figlia bellissima che adorava e che, in quei due anni, non
aveva fatto altro che viziare.
-Mia dolce Beatrice, la tua sola presenza mi scalda il cuore e mi riempie
l’anima.- mormorò prima di chinarsi e baciarla.
Istintivamente lei lo abbracciò, come se avesse temuto di perderlo e
Manfredi la strinse a sé, accarezzandole la schiena dolcemente.
-Prenditi cura della nostra Costanza mentre starò via.-Cosa sarà di noi?- domandò con le lacrime agli occhi.
Lui sorrise e la staccò da sé, trattenendola per le spalle.
-Abbi fiducia in me, tutto si sistemerà.Beatrice esitò, quindi annuì e Manfredi tornò alla scrivania,
perdendosi nuovamente in problemi più grandi di lui.
~
Teobaldo sbirciò il volto incupito del suo signore e maledisse la sorte
avversa. Da quando l’imperatore era morto e aveva riconosciuto Manfredi
come figlio legittimo, questi si era chiuso a riccio, gravato dalle tante,
troppe responsabilità piovutegli sulla testa tra capo e collo. La presenza e
i suggerimenti di Bertoldo di Vohburg-Hohenburg erano un sollievo,
tuttavia ben poca cosa dinanzi all’immenso territorio da tenere pacificato
fino all’arrivo di Corrado IV.
Con noncuranza si avvicinò allo sgabello da campo dove era seduto
Manfredi e gli poggiò le mani sulle spalle, costringendolo a distogliere
l’attenzione dalla cartina topografica che aveva spiegata sul tavolino.
Questi tirò su la testa, circondata dal camaglio, e chiuse gli occhi, stanco
per l’eccessiva mancanza di riposo in quegli ultimi frenetici giorni e
Teobaldo suggerì con tono estremamente ragionevole:
-Faresti meglio a dormire.Manfredi sospirò, ripensando a Beatrice e alla sua preoccupazione e
rispose:
-Sì, dovrei, tuttavia l’urgenza non consente rilassamenti.-Se arrivi stremato ad Andria, puoi dire addio ai sogni di gloria. Tuo padre,
pace all’anima sua, non avrebbe gradito vederti ridotto così.-No, probabilmente no. Non l’ho voluto io quest’onere.Teobaldo strinse le mani sulle spalle dell’amico e ribatté:
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-Quest’onere lo devi ritenere un onore. Ora sei un Hohenstaufen a tutti gli
effetti.Manfredi scrollò le spalle e si alzò, facendo tintinnare la lorica che
indossava. La fiammella delle candele accese sulla scrivania si mosse e
giocò con le loro ombre proiettate sulla parete della tenda da campo.
-Una sola cosa ti chiedo.- disse Teobaldo. -Stai sempre attento. La
vittoria su Hegano non deve offuscarti la vista.Manfredi sorrise e fissò l’amico con condiscendenza, comprendendo
la sua preoccupazione.
-Non sono così presuntuoso.-No, ma sei un animo nobile, come non ne esistono più da tempo.Il principe sospirò e sbirciò i saraceni della sua coorte, rigidi e fieri del
loro incarico, nelle loro vesti orientali e con le micidiali scimitarre al fianco,
pronte a essere usate.
-Sono ben protetto.- rispose con un sorriso dolce.
Teobaldo annuì appena e Manfredi gli si avvicinò, sorprendendolo con
un abbraccio che il romano non si aspettava.
-Cosa sarei io senza di te?- sussurrò.
-Un principe imperiale?- scherzò Teobaldo per nascondere la forte
emozione.
Manfredi si scansò per accarezzargli il volto con una dolcezza infinita
e l’amico trattenne il respiro per timore di rovinare quel momento.
-Credo che seguirò il tuo saggio consiglio: mi riposerò.- accettò.
Teobaldo deglutì, passò una mano tra gli spioventi capelli biondi e
s’inchinò deferente, prima di girarsi e lasciarlo da solo.
Andria, 1251
Entrò nella città con una magnificenza di soldati di scorta da
impressionare il popolo presente, formato esclusivamente da donne e
bambini. Lo guardarono a occhi spalancati, rapiti dalla sua pelle nivea,
dalla sua bellezza muliebre e dalla sua regalità, incapaci tuttavia di
nascondere il terrore per la sua possibile reazione. Andria si era sollevata
e la rappresaglia del potentato di turno avrebbe potuto essere
sanguinosa.
Manfredi scrutò quei volti intimoriti e affascinati al contempo, i bambini
che correvano a nascondersi dietro le gonne materne e fece un cenno a
uno dei suoi soldati. Questi si avvicinò al suo cavallo e il principe
domandò:
-Dove sono gli uomini?Il soldato fissò le donne, girò lo sguardo intorno, accorgendosi di non
saper rispondere e con un gesto stizzito smontò di sella e si avvicinò al
gruppo terrorizzato di contadine e serve. Le scrutò una a una, con
lentezza, facendo scorrere lo sguardo con sprezzante superbia, prima di
intimare:
-Dove si nascondono i vostri uomini?44
Attese una risposta e, vedendo che questa non veniva, sfoderò il
pugnale, agguantò una ragazza per il colletto del vestito, la strattonò
tenendola sotto la minaccia della lama e sibilò:
-Se non parli giuro che ti passerò a fil di spada.-No, non così.Si voltarono tutti verso Manfredi, che aveva parlato con autorità e il
soldato, trafitto dal suo sguardo gelido, lasciò la presa e rimase in attesa
di istruzioni. La giovane contadina trattenne il respiro e corse a rifugiarsi
dietro la mole di una donna robusta come un uomo e dal fiero cipiglio.
Un silenzio insolito serpeggiò tra i soldati e la folla, tutti con gli occhi
puntati sul loro signore, incapaci di capire cosa gli passasse per la testa.
Manfredi rimase a lungo con il pensiero rivolto al padre, continuando a
ripetersi che non avrebbe voluto quella responsabilità enorme, piovutagli
all'improvviso ancora in giovane età. Lui non amava combattere:
privilegiava verseggiare anziché incrociare la spada, preferiva circondarsi
dalla bellezza delle arti e della natura anziché dall'orrore degli scempi
fatti sui campi di battaglia e si domandò per l'ennesima volta cosa
avrebbe dovuto fare per evitare che la situazione degenerasse. Avrebbe
desiderato trovarsi nel suo principato, che Innocenzo IV aveva donato
con eccessiva leggerezza a un Frangipane, e continuare a vivere
tranquillo come aveva fatto fino ad allora, componendo poesie e poemi,
circondato dagli uomini più eruditi della scuola siciliana e dedicarsi con
amore a sua figlia Costanza.
Con lentezza si girò verso il sole e i raggi di Helio gli accarezzarono i
lunghi capelli biondi che gli circondavano il volto che tradiva l’animo
poetico più che bellicoso.
Con un lieve sospiro abbassò gli occhi fino a posarli sulla ragazza
maltrattata dal soldato e con tono affabile disse:
-Immaginiamo che gli uomini siano fuggiti nei boschi per evitare la
rappresaglia, nevvero?La giovane donna lo fissò a occhi sgranati da dietro la spalla del
donnone e inconsapevolmente si ritrovò ad annuire.
-Hanno lasciato voi qui, pensando e sperando che non ci saremmo
scagliati contro gli indifesi, vero?- continuò Manfredi tranquillo.
All'ennesimo cenno affermativo della testa, lo Staufen si guardò
intorno e posò lo sguardo su Hegano.
-Comandante, cercate gli uomini e dite loro che possono tornare
tranquillamente. Non abbiamo intenzioni ostili.Il soldato, così come gli altri al seguito, rimase un attimo interdetto,
pensando di aver udito male e provò a replicare:
-Mio signore, queste persone si sono ribellate...-Ebbene, anziché uccidere e incendiare, faremo loro pagare un tributo in
moneta. Quanto, saremo noi a stabilirlo, ma sarà una cifra considerevole
visto l’affronto. E ora andate, conduceteci i ribelli e noi gli parleremo.Scuotendo la testa, niente affatto persuaso, il comandante diede
istruzioni ad alcuni soldati e con loro si diresse verso i boschi, mentre
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Manfredi si apprestava a prendere alloggio nella rocca, in attesa di
parlare con gli uomini della città.
Intimamente soddisfatto, pensò alle casse vuote del regno che presto
sarebbero state riempite, perché i cittadini di Andria avrebbero pagato
quanto voleva pur di non essere passati per le armi. E con un sorriso
pago si lasciò alle spalle l'espressione attonita e trasecolata delle donne,
ancora incapaci di credere di essere ancora vive.
~
Giordano e Teobaldo irruppero nel salone della rocca dove
l'Hohenstaufen si intratteneva con una delegazione della città e tutti si
voltarono a quell'improvvisa intrusione.
Teobaldo, con la cotta in maglia che riproduceva un suono metallico a
ogni passo, si fece largo tra la folla e una volta davanti a Manfredi si
arrestò, togliendosi il camaglio per lasciare liberi i capelli, cadendo in
ginocchio di fronte a lui.
-Cosa succede?- domandò il principe, indispettito suo malgrado per
l'inattesa intrusione.
-Mio signore, i frati predicatori sguinzagliati dal papa stanno facendo
proseliti in tutto il regno.-Sì, lo sappiamo.Teobaldo serrò la mano sull'elsa della spada legata in vita e si
avvicinò maggiormente per non farsi udire dai presenti. I saraceni di
guardia a Manfredi si irrigidirono, pronti a difendere il loro signore, ma
Teobaldo si limitò a dire:
-Alcuni messaggeri sono appena giunti da Foggia: le campane suonano
a stormo, invitando la gente alla rivolta. Hanno iniziato alcuni lavori di
fortificazione per respingerti.Manfredi lo guardò attentamente, come se stentasse a credere a
quelle parole, quindi lasciò scorrere lo sguardo sulla piccola folla di
persone presenti per posarlo sul cugino, rimasto vicino alla porta, e dalla
sua espressione si rassegnò all'evidenza. Si alzò, diede alcuni ordini ai
saraceni, quindi si rivolse al capo della delegazione, dicendo:
-Ci dispiace interrompere la discussione, ma sapete bene come
comportarvi. Pronuncerete il voto di fedeltà ai nostri uomini e
consegnerete a loro il denaro pattuito.Quindi, senza prestare più attenzione a nessuno, seguito da Teobaldo
e da Giordano lasciò il salone a passo sostenuto.
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Foggia, inverno 1251
Era l'alba e Manfredi e il suo esercito non si erano concessi riposo pur
di giungere in fretta verso la ribellione, in modo da poterla stroncare sul
nascere. I dispacci informavano che i cittadini di Foggia erano determinati
a non farsi sottomettere e che stavano approntando le difese necessarie
per combattere aspramente il reggente del regno, sobillati dai sacerdoti
che predicavano con veemenza contro gli svevi.
Giunto dinanzi alle mura della città, Manfredi si arrestò e da lontano
prese nota del fossato iniziato a scavare e non ancora terminato e con un
semplice gesto della mano diede ordine di accerchiare la città.
Teobaldo, in groppa al proprio destriero, gli si avvicinò, stanco e
sporco di polvere e fango per la lunga e forzata marcia e Manfredi si girò
a guardarlo. Poco oltre Giordano stava dando gli ordini per approntare
l’accerchiamento con la sua voce baritonale che si udiva anche a
distanza e Teobaldo sogghignò:
-La discrezione non è certo il suo forte.Manfredi piegò le labbra in un sorriso stanco e tornò a concentrarsi
sulla città che ancora sonnecchiava. Su un torrione sventolava un
vessillo guelfo, segno evidente della ribellione.
-Infine, è giunto il momento.- mormorò Teobaldo posando la mano
sull’elsa della spada che pendeva al fianco.
Il principe annuì, inalando l’aria pungente che gli freddava i polmoni e
rimanendo in contemplazione del proprio alito che si condensava disse:
-Forse combatteremo, o forse no. Comunque vada, io sono pronto.L’altro lo fissò a lungo annuendo appena, prima di dire:
-Ti coprirò le spalle.Manfredi ricambiò lo sguardo e sorrise.
-Ed io le tue.Stringendo le redini del destriero, il romano tornò dai propri uomini e si
apprestò a dare battaglia, rivolgendo una silente preghiera al Signore.
I primi raggi del sole risplendettero sugli usberghi dei cavalieri che si
preparavano alla battaglia e Manfredi si affiancò a Giordano, controllando
di persona che tutto procedesse come stabilito. Un'occhiata alla città gli
fece capire che nessuno si era atteso un suo arrivo così fulmineo e stava
per procedere con l’ordine di attaccare, quando le porte girarono sui
cardini per aprirsi lentamente e vide le donne di Foggia farsi avanti
piangendo e implorando il suo perdono.
Nella fredda alba invernale, i soldati si scambiarono occhiate
eloquenti, certi che questa volta l'offeso principe si sarebbe vendicato,
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come era nel suo pieno diritto, e già pregustavano le ore di sollazzi
seguite alla distruzione della città ribelle.
Giordano si girò verso il cugino, immobile sul cavallo, stretto in un
caldo mantello di lana, gli occhi fissi sulla colonna di innocenti che gli
andava incontro, mentre gli giungevano alle orecchie i commenti salaci
dei soldati alle proprie spalle.
Anche in quella occasione Manfredi deluse le loro aspettative: si
mostrò indulgente e dopo aver superato il muro di cinta, convocò gli
uomini e impose anche a loro un pesante tributo da versare nelle casse
del regno, ottenendo anche dai foggiani il giuramento di fedeltà a
Corrado IV. Ordinò inoltre che il fossato fosse ricoperto e una volta
pacificata la ribelle, si decise a riposarsi e a far riposare i suoi uomini.
~
-Stai tirando troppo la corda.- bofonchiò Giordano camminando
nervosamente per la stanza del castello. -Gli uomini si aspettano di
sfogare i loro istinti e tu non puoi permetterti di farteli nemici. Non ora, in
questo frangente.Manfredi scrollò le spalle, niente affatto convinto, prese la brocca dal
tavolo e rovesciò il vino nel calice prima di gustarlo. Teobaldo stava in
silenzio, occupando un posto sulla seduta ai lati della bifora e osservava
la città avvolta dalle tenebre, dove solo piccole fiammelle indicavano che
c’era ancora vita. Sul torrione era tornato a sventolare il vessillo imperiale
che lui stesso aveva provveduto a far innalzare, a testimonianza
dell’appartenenza di Foggia al partito ghibellino, e ora ascoltava in
silenzio il battibecco che si svolgeva alle proprie spalle.
Bertoldo di Vohburg-Hohenburg, vecchio amico e consigliere di
Federico II, annuì, concorde con Giordano, mentre si scaldava le mani al
fuoco scoppiettante del camino. Sospirando diede le spalle al calore e si
avvicinò a Manfredi con aria paterna.
-Il vostro gesto è lodevole, la popolazione ve ne sarà grata, ma i
soldati...- e inarcò le sopracciglia con condiscendenza. -I soldati sono
esseri strani e poco inclini alla saggezza ed è indispensabile, ora che il
regno di vostro padre sta vacillando, che voi li teniate buoni e sottomessi.
Negare il saccheggio è come privarli di un atto dovuto che...-No.- l’interruppe il principe posando il calice sul tavolo e alzandosi dalla
sedia, calamitando l’attenzione generale. -Fintanto che le decisioni
spettano a me, nessuno dei sudditi di mio fratello subirà violenze o
soprusi.-In questo modo ti inimicherai i soldati.- ribatté Giordano con un gesto
esasperato delle mani. -E noi ne abbiamo assoluto bisogno per sedare le
ribellioni.-In questo modo,- ribatté a denti stretti, -mi farò amare dal popolo ed io
ne ho altrettanto bisogno per mantenere la pace.-
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Giordano passò una mano tra i capelli lunghi e si girò a guardare
Teobaldo che se ne stava seduto in silenzio, appoggiato al muro della
seduta, quasi estraneo alla discussione.
Manfredi scosse di nuovo la testa e si avvicinò al camino dove
scoppiettava il fuoco, allungando le mani per scaldarle.
-Bertoldo, date ordine di raddoppiare la paga ai militi.Il vecchio consigliere scambiò un’occhiata con Teobaldo e Giordano e
domandò con sussiego:
-Con quali soldi?Per un lungo istante il silenzio dominò nella camera e solo il crepitare
delle fiamme nel camino fece eco alle parole di Bertoldo, che attese con
ansia la risposta del suo signore.
-Quelli che ci pagherà la città.- commentò infine Manfredi. -Saranno
sufficienti a rimpinguare le casse e ad ammansire gli animi bellicosi.-Ma…-Fate come ho detto.- ripeté lanciandogli un’occhiata che non ammetteva
repliche.
L’uomo esitò solo un attimo, quindi s’inchinò e se ne andò con modi
impettiti. Manfredi attese che la porta si fosse richiusa alle spalle del
vecchio consigliere, quindi sbirciò il cugino, come se si aspettasse una
sua obiezione, ma questi annuì appena e lo rassicurò:
-Qualsiasi decisione tu possa prendere, anche se la ritenessi sbagliata,
sai bene che ti rimarrò sempre al fianco.Il principe chinò la testa di lato e sorrise, strofinando le mani al calore
del fuoco.
-Bene. Allora, la mia decisione, ora, è che tu riempia i calici e che
beviamo insieme a questa giornata che ci ha visto riprendere Foggia
senza sprecare una sola goccia di sangue.Giordano acconsentì e tutti e tre brindarono a quella vittoria inusuale.
Bari, 1251
Era la città più grande e importante delle Puglie e se fosse riuscita a
svicolare al giogo imperiale, l'intero regno avrebbe innalzato il vessillo
guelfo. Gli ambasciatori avevano sempre portato i loro omaggi al principe
reggente, accompagnati sempre da vaghe promesse di fedeltà che
nessuno si sognava di mantenere. I baresi speravano che, dovendo
sedare altre insurrezioni, Manfredi si allontanasse con il suo esercito,
così da potersi dichiarare apertamente a favore del papato senza
incorrere nell’ira imperiale. La paura della dannazione eterna era più forte
della fedeltà a un imperatore di cui non conoscevano neppure il volto,
anche se questo imperatore era il figlio di Federico II.
Il giovane Staufen, che doveva ricevere il giuramento in vece del
fratellastro, aveva subodorato qualcosa di poco chiaro. Gli erano state
fatte promesse vacue sine die, quando avrebbe desiderato qualcosa di
più sostanzioso dalla città più grande del regno, una sicurezza che gli
avrebbe consentito di dormire sonni più tranquilli. Fintanto che non
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avesse ricevuto tutti i giuramenti di fedeltà a Corrado IV, la sua opera era
incompleta e non poteva permettersi recriminazioni da parte del fratello.
Giordano e Teobaldo erano inquieti e Manfredi non aveva mancato di
notarlo. Anche loro, da uomini d'arme quali erano, avevano fiutato il
pericolo, e tuttavia non sapevano come affrontarlo, perché,
apparentemente, Bari non si era ribellata e, pertanto, rimaneva
intoccabile.
Senza porre tempo prezioso in mezzo, il principe aveva ordinato di
marciare sulla città, in modo da mettere i nicchiosi dinanzi al fatto
compiuto e indurli a pronunciare il giuramento di fedeltà direttamente a lui.
Non era certo di cosa si sarebbe dovuto attendere da quella città; le
parole vaghe dei delegati lo avevano messo sul chi va là ed era meglio
porre la potenziale ribelle alle strette prima che fosse troppo tardi.
Ora, accampato a pochi chilometri da Bari, ricevette nuovamente gli
ambasciatori che, con la loro magniloquenza, continuarono a offrirgli solo
parole e lui li lasciò parlare, ripensando ai colloqui ai quali aveva assistito
all’ombra del padre, imparando a gestire la sottile arte della diplomazia e
i gesti che sottolineavano il potere.
-Noi siamo certi,- li interruppe dolcemente ma con fermezza, -che la
vostra città possa più delle promesse. Questo temporeggiare ci porta a
pensare che nascondiate mire diverse dal giuramento di fedeltà. Pertanto,
considerato il nostro dovere di reggente, ci vediamo costretti a chiedervi
maggiori sicurezze per poter rassicurare il re sulla vostra fedeltà. In caso
contrario, non ci lasciate altra scelta se non quella di marciare contro di
voi.-Eccellentissimo signor principe, la nostra città vi ha sempre portato le
sue simpatie e le...-E le vacue promesse.- concluse con tono sferzante. -Vi concediamo un
giorno di tempo per venirci a porgere il vostro giuramento. In caso
contrario, ci vedremo costretti a venire a farvi visita.Il tono affettato non lasciò dubbi negli ambasciatori, che si guardarono
ammutoliti, incapaci di prendere tempo.
Con ostentata superiorità, Manfredi si alzò dalla sedia da campo e
scortato dai saraceni uscì dalla tenda, ritenendo chiuso il discorso.
~
Teobaldo entrò nella tenda da campo di Manfredi e lo vide steso sui
cuscini, alla maniera orientale, intento ad accarezzare distrattamente il
leopardo che sonnecchiava accanto a lui. Con lo sguardo percorse il
perimetro della tenda e ad un angolo vide un paggio che provvedeva a
tenere acceso un piccolo fuoco per scaldare l‘ambiente altrimenti gelido e
inospitale, e il calore delle fiamme aveva reso rubiconde le sue gote
paffute. All’altro angolo lo scudiero del principe si affannava nell’oliare e
lucidare la cotta in maglia del suo signore, mentre distesi a terra dinanzi a
sé aveva il pugnale e la spada di Manfredi che attendevano di essere
arrotati.
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-Bertoldo è riuscito a ridurre all'obbedienza Avellino e fino a quella città il
regno è fedele.- annunciò Teobaldo tornando a concentrarsi sul principe.
Manfredi annuì soddisfatto, senza smettere di accarezzare il leopardo
e l’Annibaldi rimase suo malgrado immobile a fissarlo, così
dannatamente bello e così seducente in quella posa rilassata, con il
farsetto blu ricamato con fili argentati e agemine che riproducevano
l'aquila imperiale, con le calze nere che gli modellavano le gambe lunghe
e muscolose, e dovette deglutire per continuare il suo resoconto.
-Napoli, Capua e Nola hanno innalzato il vessillo guelfo, mentre ad
Aversa è in corso una guerra civile tra fazioni guelfe e ghibelline.-Quale delle due fazioni è in grado di sopraffare l'altra?Il ragazzo fece una smorfia accompagnata da un gesto vago della
mano e rispose:
-Si equivalgono.Manfredi sorrise all'aria sorniona del felide e Teobaldo si avvicinò,
curioso e timoroso all'unisono.
-Vorrei accarezzarlo.-Fallo.- lo invitò il principe.
Il ragazzo esitò, spostando lo sguardo da uno all'altro. Sebbene
fossero anni che viveva accanto al principe, non era mai riuscito ad
abituarsi al serraglio di cui amava circondarsi, soprattutto ai grossi felini.
-Mi lacera ammetterlo, ma ho paura.- bofonchiò contrito.
-Non ti farà niente. È stato bene addestrato e con me vicino non si
ribellerà.-Vorrei avere la tua sicurezza.Manfredi rise e con un sospiro Teobaldo si inginocchiò sopra un
cuscino di velluto blu, facendo tintinnare la lorica. Trattenne il respiro e
allungò la mano tremante verso il leopardo, steso accanto al suo padrone.
Esitò ancora e alla sua titubanza il principe gli prese il polso con
delicatezza, facendogli posare la mano sulla testa del felino. Questi
sbatté la coda, lo guardò sornione con i suoi occhioni color dell’ambra e il
ragazzo ritirò di scatto la mano, terrorizzato. Manfredi riprese a ridere e
Teobaldo borbottò stizzito:
-Non so come fai a fidarti così.-È mansueto e ha pure la pancia piena.Il ragazzo esitò, quindi si mise seduto sui talloni e senza staccare lo
sguardo dal felide mormorò:
-Prima o poi ti sbranerà.-Non è lui che mi sbranerà,- corresse, -bensì questi ribelli che ascoltano
incantati i frati predicatori. È Innocenzo che vuole dilaniarmi con i suoi
artigli, non il mio leopardo.Teobaldo chinò appena la testa annuendo, accettando il suo punto di
vista e, tornando in piedi per mettere maggior distanza tra sé e il felino,
chiese:
-Cosa intendi fare con Bari?-
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Manfredi si alzò agilmente e con aria meditabonda si avvicinò allo
scudiero che aveva terminato di arrotare le lame e legò in vita il pugnale
e la spada, prima di dire con tono grave:
-Questa situazione è insostenibile. Innocenzo, che non ha mai
riconosciuto il testamento di mio padre, ha investito del principato di
Taranto, il mio principato, un altro nobile, così da rendermelo nemico.
Questo Frangipane farà di tutto per entrare in possesso delle mie terre e
cercherà appoggi in suo favore, anche tra gente devota all'impero, pur di
sbalzarmi da ciò che mi appartiene. E intanto Innocenzo non fa altro che
predicare contro tutta la casata degli Hohenstaufen e ogni giorno fa
sempre più proseliti. Corrado è ancora in Germania e non ho idea di
quando verrà a prendere possesso del regno.- ammise in un sussurro. Le ribellioni sono giornaliere e non so per quanto tempo ancora riuscirò a
mantenere intatto il territorio.Quindi, con gesto sconsolato della testa, concluse passando una
mano sulla fronte:
-La gente non mi ama, questo è un dato di fatto.-Ma cosa dici?- esclamò Teobaldo attonito, prendendolo per un braccio e
costringendolo a guardarlo negli occhi. -La gente non può non amarti. Sei
un principe buono, colto, giusto, illuminato, munifico… Solo guardandoti
si è pronti a dare la vita per te…- aggiunse deglutendo.
Manfredi allungò improvvisamente la mano per accarezzargli una
guancia e lo guardò con condiscendenza, mormorando:
-Anch’io ti amo, Teo.Il ragazzo esitò e gli lasciò il braccio, abbassando gli occhi e il principe
continuò mormorando:
-Devo riuscire a raggiungere un accordo con il papa. Solo in questo
modo porrò fine alle predicazioni contro gli svevi e alle rivolte.A quelle parole, Teobaldo tornò con i piedi per terra e con aria grave
ripeté:
-Un accordo con il… papa?-Già.-Stai attento: scendere a patti con il Vaticano può essere frainteso da
orecchie che non vogliono ascoltare.Manfredi comprese cosa intendesse dire e abbozzò un pallido sorriso,
girando per la tenda.
-È l'unica via che ho per mantenere intatto il territorio. Non ho un esercito,
le casse sono quasi vuote e la gente non vuole più vivere scomunicata.
Le tasse che sono costretto a pretendere servono solo per continuare
questa rovinosa lotta contro il papato. Devo accordarmi con il papa per
riuscire a consegnare il regno nella sua integrità e nella sua prosperità a
mio fratello.-Corrado lo capirà? Lui è lontano e non ha idea di quello che sta
accadendo qui.Manfredi fece qualche altro passo, meditabondo, quindi si fermò e
posò lo sguardo glauco sul suo amico.
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-Deve capirlo. Questo stato di cose non può durare, tanto più che non ho
mai desiderato questa responsabilità.Teobaldo rimase in silenzio, provando a immaginare quello che
passava nell'animo del figlio di Federico II e con un sospiro gli mise una
mano sulla spalla.
-Pensiamo a Bari.- propose.
Manfredi si erse in tutta la sua statura e annuì, girandosi verso la sua
cotta in maglia posata su un forziere dallo scudiero.
-Sì, è scoccata l'ora di Bari.~
Giordano digrignò i denti e alzando un braccio grugnì:
-Avevi ragione, guarda.Manfredi restrinse gli occhi alla vista delle mura della città fatte
fortificare negli ultimi giorni e dalle porte chiuse: il suo intuito non aveva
sbagliato. A quanto pareva, i messi erano serviti solo per prendere
tempo: Bari aveva deciso di ribellarsi e di combattere aspramente.
Fece cenno ai suoi uomini di porre l'assedio e nel frattempo mandò
alcuni rappresentanti latori dell'ordine di aprire le porte per lasciare
entrare pacificamente il reggente, nell'ultima speranza di evitare uno
scontro.
-Sei certo sia la mossa migliore?- bofonchiò Giordano seguendo con
occhio critico il manipolo di soldati che si avviava verso le mura.
-Siamo cavalieri e come tali dobbiamo comportarci.- rispose Manfredi con
tono deciso. -Sempre, anche se dinanzi ci si presentano bifolchi.-Tu ti fidi troppo. Le intenzioni dei baresi mi sembrano sufficientemente
ovvie.-Anche quelle dei foggiani e poi si sono pacificamente arresi. Non intendo
uccidere i sudditi di mio fratello, se Dio mi aiuterà.Giordano digrignò i denti, tirò le redini per far girare la cavalcatura e
gli si affiancò per guardarlo dritto negli occhi, prima di sussurrare:
-E sia. Sai bene che asseconderò ogni tuo capriccio, ma se devi rischiare
la vita per…Urla improvvise costrinsero tutti a girarsi verso la porta della città,
dove i messi furono ricevuti da una fitta coltre di frecce proveniente dalle
bertesche. I soldati che li accompagnavano indietreggiarono, impreparati
a quell'attacco che per i baresi rappresentava l'estrema difesa e il loro
capitano, Hegano, spronò il cavallo, gridando:
-Dobbiamo ritirarci!-Che diavolo sta succedendo?- borbottò Giordano serrando le redini del
cavallo, vedendo i soldati arretrare disordinatamente accompagnati da
urla concitate.
Per un attimo nel campo regnò sovrano il caos, i soldati tedeschi che
si preparavano alla fuga, i saraceni che circondavano Manfredi per
proteggerlo, mentre i delegati cadevano ai piedi delle mura della città,
trafitti dalle frecce. Manfredi fece in tempo ad alzare lo scudo per
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proteggersi da un dardo e in un solo istante vide il pericolo nitidamente:
se fossero fuggiti, lasciando la vittoria ai baresi, le altre città, che
guardavano a Bari come a un faro, si sarebbero sollevate nuovamente e
l'opera di suo padre sarebbe andata persa.
-No, non ci pensare neppure!- esclamò Giordano immaginando cosa gli
passasse per la testa.
Non lo ascoltò: in un baleno scese da cavallo, eludendo la
sorveglianza dei saraceni, urlando con tutto il fiato che aveva in corpo
agli uomini di non indietreggiare, sottrasse l'ascia a un soldato e, sotto le
frecce che venivano scoccate dalle mura, si diresse impavido verso una
porta. Con la forza della disperazione iniziò a colpire il legno massiccio
che lo divideva dalla città, senza pensare al pericolo di morte che correva,
mentre rimbombavano nelle sue orecchie le grida eccitate degli uomini
sui bastioni che incitavano gli arcieri a ucciderlo. Corso al suo fianco,
Teobaldo cercava in qualche modo di proteggerlo con il proprio corpo,
mentre con lo scudo provava a deviare il corso dei dardi, urlando a
Manfredi di ritirarsi. Anche Giordano li raggiunse, addossandosi con la
schiena al portone per poter coprire Manfredi con il palvese, mentre si
univa alle urla disperate di Teobaldo.
Vedere il loro giovane principe ergersi a campione contro i nemici,
impavido e sprezzante del pericolo, scortato solo da Teobaldo e da
Giordano, rianimò i cavalieri e i soldati che si erano già dati per vinti e
urlando il loro grido di vittoria si precipitarono al suo fianco per aiutarlo a
scardinare le porte.
Sotto nugoli di frecce, sdegnosi della morte, i suoi uomini gli fecero
scudo con i loro corpi e in breve la porta cedette, sotto le urla di
acclamazione dei ghibellini e quelle di rabbia dei guelfi.
Con occhi adamantini, corroborato dall’incredibile quanto inaspettata
vittoria, Manfredi scambiò un’occhiata con Teobaldo e Giordano, quindi si
avvicinò all'alfiere e, preso il gonfalone con le insegne imperiali, entrò
nella città seguito dai suoi uomini. I ribelli si diedero alla fuga, mentre il
resto della popolazione si arrese, temendo una rappresaglia.
Teobaldo si fece largo tra la folla e riportò il cavallo a Manfredi, che vi
montò soddisfatto ma con l'usbergo macchiato di sangue.
-Mio Dio, cosa ti hanno fatto? Sei ferito?- chiese preoccupato Giordano,
arrivando al suo fianco.
-Non è il mio sangue, bensì quello dei miei valorosi cavalieri che
giacciono privi di vita dinanzi a questa porta. Da’ ordine di demolire le
difese della città e fa' che tutti sappiano della nostra vittoria. Bari deve
essere da esempio.-Sarà fatto!- esclamò e si allontanò di corsa, sparendo tra la folla.
Teobaldo comprese il monito insito in quelle parole: se Bari, la più
forte città, era stata conquistata, le altre, se mai si fossero ribellate, non
avrebbero avuto nessuna possibilità di successo. Con un sorriso di
trionfo esclamò:
-Che vittoria!54
Manfredi abbassò lo sguardo per guardarlo, in piedi accanto al suo
cavallo, quindi ordinò:
-Dai disposizioni affinché nessuno importuni la popolazione. Poi fai
condurre una delegazione da me.Il ragazzo ubbidì e Manfredi, preso il mantello imperiale che gli
porgeva un paggio, lo indossò e si avviò verso la rocca, circondato dalla
sua coorte di saraceni.
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6
Napoli, 1251
Nella tenda da campo, circondato dai suoi più stretti collaboratori,
Manfredi studiava assorto il punto della situazione.
Si era ricongiunto al grosso dell'esercito di Bertoldo di VohburgHohenburg sul versante tirrenico del regno e nel giro di poco tempo era
entrato ad Aversa, aveva eliminato i ribelli e pacificato la città. Quindi era
stata la volta di Nola, presa d'assalto e ridotta all'obbedienza in maniera
categorica. Dopo aver lasciato presidi in queste città, l'esercito si era
diretto alla volta di Napoli, dalla quale era partita la rivolta. A Capua,
Manfredi aveva lasciato parte delle milizie per tenerla in assedio e lui, col
restante esercito, si era incamminato verso Napoli. Cinta d'assedio, il
principe si era installato nelle gole di Pozzuoli, dirigendo in prima persona
le operazioni, sfidando i pericoli di quella località malsana, priva di acqua
e dall'aria irrespirabile per le forti esalazioni solforose.
Qui aveva eretto il suo quartier generale, raggiunto dai suoi più fidati
amici e parenti e ora si rendeva conto di essere arrivato a un punto
decisivo del cammino. Erano presenti Giovanni da Procida, suo
cancelliere, Teobaldo degli Annibaldi, Giordano d'Anglano, Galvano
Lancia, Bertoldo di Vohburg-Hohenburg, Marino e Corrado Capece,
Goffredo di Cosenza, Gualtieri d'Ocra e il cognato, Riccardo di Acerra.
Tutti con la cotta in maglia sporca di terra, la cotta d’arme con le
agemine imperiali impolverata, la cinta legata in vita con la spada al
fianco, la testa libera dalla cuffia in maglia o dal camaglio, gli elmi posati
su un tavolo e l'aria seria e grave di chi sta per affrontare un duro
compito.
-Tutti coloro che si sono ribellati,- iniziò il conte di Acerra con tono
sconsolato, -erano uomini che l'imperatore aveva largamente beneficiato.
Anche costoro che sono chiusi dentro Napoli erano un tempo fedeli
all'imperatore.-Le prediche papali ci stanno dilaniando.- convenne Corrado Capece.
-Non solo le prediche, ma anche le promesse di terre e denari, con
l'aggiunta della sicura entrata in paradiso se diventano nostri nemici.aggiunse il conte digrignando i denti. -Occorre porre un freno a tutto ciò,
prima che sia troppo tardi.Rimasero un attimo in silenzio, spostando lo sguardo su un
pensieroso Manfredi, il quale studiava la mappa distesa sul tavolo. I
giochi d’ombra delle candele accese rendevano ancor più tetra
l’atmosfera e tutti avvertivano la gravità del momento.
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-Per quanto riguarda il nord,- intervenne Galvano Lancia con tono
squillante, -la situazione è sotto controllo. Almeno da quella parte non
dovremmo ricevere sorprese.-Sfido, io!- rise Marino Capece grattandosi distrattamente il collo dove
una zanzara l’aveva punto. -Ezzelino sa come farsi rispettare!Il commento fece sorridere tutti, che ben conoscevano la crudeltà e
l’efferatezza del genero dell’imperatore e per un lasso di tempo la
tensione accumulatasi in quei giorni incerti parve sciogliersi. Ma fu solo
un attimo, perché la situazione non era delle più rosee e tutti tornarono a
concentrarsi sul modo di porre termine alle sollevazioni rovinose.
-L'unico problema è qui.- riprese Gualtieri d'Ocra allargando le braccia
esasperato. -Se non riusciamo a mantenere l'ordine al sud, la rivolta
arriverà pure al nord.-Tutte le nostre forze sono concentrate qui, nella Terra del Lavoro.intervenne Goffredo di Cosenza. -Se dovessero scoppiare altre
insurrezioni, il nostro esercito si assottiglierebbe oltremodo, visto che
dobbiamo lasciare presidi in ogni città ribelle.-E allora? Cosa proponi?- chiese Corrado Capece fissandolo con aria di
sfida.
Goffredo di Cosenza mise le mani nella cinta legata in vita e inspirò
profondamente, prima di rispondere con tono tetro:
-Quello che proporrei, è un trattato di pace… con il papa.Teobaldo trattenne il fiato, ricordando una discussione avuta con
Manfredi a tale proposito, mentre un silenzio mortale seguiva le parole
del cavaliere. Ognuno era pienamente cosciente di cosa significasse un
accordo con il pontefice e nessuno osò aprire bocca, limitandosi a
spostare lo sguardo sul principe, intento a fissare la mappa.
Manfredi, silenzioso e intimamente preoccupato, sapeva che quella
era l'unica via di uscita per conservare integro il regno per suo fratello;
d’altro canto, questi avrebbe capito la situazione disperata in cui
versava?
-Sono pienamente cosciente di ciò che ho proposto,- riprese Goffredo,
indispettito dal silenzio seguito alle sue parole, -eppure ribadisco che non
c'è altra soluzione. Sono disposto a morire, se lo vuoi, ma dovevo
dirtelo.- concluse rivolgendosi direttamente a Manfredi.
-Sì, meriteresti di morire, da quel traditore che sei!- urlò Galvano Lancia
con occhi che mandavano scintille, picchiando i pugni sul tavolo.
-Come puoi proporre una soluzione simile?- esclamò Corrado Capece
puntandogli l’indice contro, il volto rosso dalla rabbia.
In un attimo nella tenda i toni raggiunsero livelli tali di pericolo che
qualcuno giunse persino ad accarezzare l’elsa della spada, mentre i
saraceni si irrigidivano, pronti a sfoderare le scimitarre.
-Signori,- s'intromise Manfredi con tono pacato, alzando gli occhi dal
tavolo, -non vi è dubbio che per il tradimento esista un’unica soluzione e
io sarei il primo ad accusare Goffredo e a condannarlo. Tuttavia,aggiunse posando lo sguardo su ogni presente, per dar maggior enfasi
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alle proprie parole, -prima di risolvermi a tale dovere, vi chiedo se
qualcuno di voi ha proposte migliori da suggerire.Il borbottio continuò ancora per un po’, facendo sbollire gli animi,
quindi Riccardo di Acerra sentenziò:
-Combattere.-Con cosa, santo Iddio?- sbottò Giovanni da Procida, intervenendo con
un gesto esasperato. -Io sono stato al capezzale dell'imperatore, l'ho
seguito per anni e mi rendo conto, come Goffredo, che la situazione si
sta mettendo al brutto. Ogni giorno, uomini fidati di ieri, passano
tranquillamente al nemico e se ogni volta siamo costretti a lasciare un
presidio nelle città ribelli per mantenerle mansuete, il nostro esercito
svanirà, tanto è vasto il regno.-Ma non diciamo stupidaggini!- esclamò Giordano con stizza. -Potrebbero
non esserci più rivolte. In fondo, siamo sempre riusciti a vincere...-Qui a Napoli gli insorti hanno ricevuto rinforzi dai papalini.- ricordò
Corrado Capece con una certa asprezza.
-E, nel frattempo, Innocenzo regala le nostre terre, quelle che ora stiamo
pacificando, ad altri nobili, così da accrescere i nostri già pingui nemici.rincarò Teobaldo a denti stretti.
Per un po' continuarono a discutere e quando gli animi stavano per
scaldarsi nuovamente, Bertoldo di Vohburg-Hohenburg intervenne
cercando di sedare i più alterati.
-Io sono stato affiancato al reggente direttamente dall'imperatore e mai e
poi mai farei qualcosa per danneggiare il nostro signore re Corrado. Io
sono stato incaricato di supervisionare l'opera del principe Manfredi ed
ho visto con i miei stessi occhi che questo giovane ha fatto di tutto per
mantenere intatto il regno, addirittura emarginando il problema del suo
personale feudo. Lui sa che un Frangipane sta urlando e sbraitando per
accaparrarsi Taranto, eppure Manfredi è qui, sul campo di battaglia altrui
e non sul proprio, per mantener fede al volere del padre. Quest'uomo
impavido e leale ha tutta la mia fiducia e tutta la mia stima e se dovesse
risolversi a un simile passo, io lo capirei. E lo appoggerei.- aggiunse
lasciando vagare lo sguardo su tutti i presenti.
Il silenzio che seguì avvolse Manfredi nelle sue spire, rimbombandogli
furiosamente nelle orecchie. Sapeva che attendevano un suo responso,
eppure il solo pronunciare quelle parole lo faceva morire. Del resto, in
quei giorni aveva vagliato ogni possibile mossa per mettere a tacere il
papa, senza trovarne nessuna. Era assurdo, ma per conservare il regno
all'impero, si vedeva costretto a separarlo.
Ergendosi in tutta la sua altezza, inspirò a fondo e cominciò:
-Ho ponderato molto attentamente la situazione in cui ci troviamo e sono
giunto a una sola conclusione: la pace con il pontefice. Sì, so che questo
potrebbe apparire come tradimento, tuttavia non ho alternative.-Corrado non capirà.- borbottò Giordano.
-Corrado è un problema mio.- tagliò corto Manfredi. -Io so che mio padre,
nei suoi ultimi anni, ha ingoiato tanti bocconi amari pur di giungere alla
pace. Dal canto mio, io desidero vivere serenamente, senza guerre. Per
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questo vi chiedo: siete disposti ad accordarmi la vostra fiducia anche in
questo momento delicato?I presenti si scambiarono occhiate significative, consapevoli che si
chiedeva loro di tradire e, fidando nella più tarda venuta di Corrado IV,
accettarono di rimanere al fianco del reggente. Manfredi, che nel suo
intimo aveva temuto di dover uccidere coloro che non avrebbero
acconsentito, piegò le labbra nel suo bel sorriso e spiegò:
-Questo è quanto mi propongo: parlare con il papa, chiedere la pace per
evitare spargimenti di sangue sui campi di battaglia, quindi, appena
Corrado sarà qui, rimettere nelle sue mani il regno nella sua integrità.Quelle parole lasciarono gli astanti a bocca aperta, i quali si
rianimarono non poco a quella inattesa soluzione.
-Ma... Se l'intenzione è comunque quella di consegnare il regno al re,
allora non si tratterebbe di tradimento.- notò Marino Capece sorpreso.
-Già, è vero.- convenne il fratello corrugando le sopracciglia.
-Sì, ma Corrado lo crederà?- domandò Riccardo di Acerra scettico.
-Lo crederà.- rispose Manfredi, come sempre ottimista e sicuro di sé. -Io
devo conservare il regno e in qualsiasi modo lo faccia, l'importante è che
lo conservi.-Be’, allora speriamo bene.- mormorò Gualtieri d'Ocra.
-Dio è con noi.- ribatté lo Staufen. -Io e Bertoldo chiederemo un incontro
con il pontefice e vedremo cosa riusciremo a ricavarne.-Eccellenza,- chiese Giovanni da Procida, -devo trascrivere questa
seduta?Il principe rifletté, ma ritenne più saggio tenere la cosa nascosta e
quando congedò gli uomini, si dedicò alla cura del suo leopardo, rimasto
tranquillo in un angolo della tenda per tutto il tempo.
~
-È un suicidio e lo sai.-Sì, lo so, ma non posso fare altrimenti.Teobaldo scosse la testa e passò una mano tra i capelli biondi,
sospirando tetramente. Manfredi lo guardò e sorrise, dicendo:
-Non devi preoccuparti. L’accordo con il papa non si farà tanto presto e,
forse, nel frattempo Corrado sarà arrivato ed io gli rimetterò il regno, in
modo da dedicarmi ai miei personali poderi.-Lo sai per certo che verrà?-Gli scriverò.Il disappunto sul volto di Teobaldo era evidente e il principe si avvicinò,
posandogli un braccio intorno alle spalle.
-Cosa farai se Corrado non scende in Italia? Lascerai che il suo regno
venga fagocitato dai preti?-No, mai. Mio padre ha combattuto una vita contro di loro ed io non sarò
da meno. Mi vedo costretto a temporeggiare e tu devi smettere di
preoccuparti.-Non conosco Corrado, non so come potrebbe reagire a un tradimento.59
Manfredi piegò le labbra in un sorriso e posò la fronte contro quella
dell’amico.
-Io non sto tradendo nessuno. Sto solo prendendo tempo, per
sopravvivere e tenere il regno unito.-Io questo lo so. E lo sanno anche Gualtieri, Giordano, Riccardo e gli altri,
ma non lo sa Corrado. Ed è lui il re.L’implicito monito nelle sue parole fece scuotere la testa a Manfredi, il
quale si allontanò di un passo, avvicinandosi al camino dove
scoppiettava un fuoco allegro che riscaldava la tenda da campo.
Il felino alzò la testa pigramente e Teobaldo si irrigidì a quel
movimento inaspettato. Aveva paura, una dannata paura di quelle fauci e
di quegli artigli e non sarebbe mai riuscito a capire la tranquillità
dell’amico verso il leopardo.
Manfredi rimase assorto a lungo, le fiamme che illuminavano il volto
bello, dai lineamenti gentili, e solo dopo un po’ si rigirò verso l’amico, con
l’aria tranquilla di chi ha già preso una decisione.
-Vieni, andiamo a caccia. Ho promesso a Costanza di riportarle uno
scoiattolo.Teobaldo aprì la bocca per ribattere, ma la richiuse di scatto e in
silenzio seguì il suo signore fuori della tenda.
~
Dopo l'incontro segreto tra Manfredi, Bertoldo di Vohburg-Hohenburg
e un delegato pontificio, il papa, il 24 luglio del 1251, fece sapere al
principe reggente che, se lui e Bertoldo fossero tornati in seno alla
Chiesa, la Santa Sede avrebbe provveduto a riconoscere il feudo di
Taranto al primo e avrebbe donato Andria al secondo.
Manfredi prese tempo, consapevole di dover giungere a una tregua se
voleva mantenere il regno in pace, non volendo che la terra
faticosamente assoggettata dal padre tornasse nelle mani della Curia.
Nicchiò più che poté, nella vana speranza che Corrado IV giungesse
in Italia per farsi incoronare imperatore e per prendere possesso del
regno, così da eclissarsi dalla vita politica e ritirarsi nel suo principato.
Quella presa di tempo diede i suoi insperati frutti: il re gli fece sapere
che si apprestava finalmente a scendere in Italia.
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