POSTFAZIONE di Massimo Ciaravolo
Transcript
POSTFAZIONE di Massimo Ciaravolo
POSTFAZIONE di Massimo Ciaravolo Il calcio rubato appare contemporaneamente in Italia, nella presente edizione, e in Svezia, con il titolo originale Den stulna fotbollen. Il nucleo centrale del nuovo libro ripropone pressoché intatti i dieci racconti che Ulf Peter Hallberg pubblicò nel 1990 all’interno di Fotbollskarnevalen. Italiensk resa (Il carnevale del calcio. Viaggio italiano), scritto con Fredrik Ekelund per raccontare i giorni euforici e surriscaldati di «Italia Novanta». Questa parte originaria ricompare però all’interno di una nuova cornice narrativa, con cui forma un nuovo insieme; le vecchie storie sul calcio e il mondo che rappresentano restano la parte quantitativamente centrale del testo, ma sono collocate in un altro orizzonte storico, sociale e culturale, in un altro universo di esperienze personali e, anche, in un diverso stato d’animo, e dunque portate a noi con un segno parzialmente mutato. Il racconto sui due svedesi Anders Ranke e Mikael de Neergaard, che diventano rispettivamente l’autore e l’editore delle storie sul calcio – attori protagonisti di un’ennesima variante del «manoscritto ritrovato» – ci porta a riflettere sul senso di tale recupero di una memoria passata, tanto nella forma del racconto quanto nei suoi contenuti. Quale tipo di amalgama ottiene il nuovo testo? E perché ritornare con la memoria a «Italia Novanta»? Parlando di calcio si deve fare un passo indietro a Fotbollskarnevalen. In quel libro, vissuto e scritto a quattro mani e corredato da numerose fotografie, le posizioni dei 149 due autori di Malmö si invertono poco a poco, in modo singolare. Ekelund – appassionato da sempre e, come spesso capita, ex giocatore con le scarpe appese al chiodo – corona con quel viaggio verso il Mondiale un sogno della sua vita. Lo fa portandosi dietro uno scettico outsider del pallone, il quale intende descrivere il fenomeno dalla sua più distaccata prospettiva. Verso la fine del soggiorno italiano Ekelund deve tuttavia confessare la sua delusione e la fine di un sogno: il calcio odierno, diventato industria dello spettacolo e grande evento televisivo, provoca una crisi di rigetto e gli fa perdere la voglia; e addirittura Ekelund lascia l’Italia prima della finale, rifugiandosi con la propria compagna nei paesi baschi. A Roma, per la finale tra Germania e Argentina, rimane però Hallberg, ormai coinvolto nel bene e nel male in questa nuova esperienza che ha mutato il suo sguardo, portandolo definitivamente tra la gente e comunicandogli emozioni nuove e forse decisive. Se questa genesi e questo sviluppo del progetto sono raccontati in termini espliciti nel diario di Ekelund, Hallberg preferisce una modalità di rappresentazione più allusiva, meno documentaristica e per questo, forse, anche meno immediata e più difficile. Il racconto ambientato a Bari «La tribuna d’onore del deserto», ad esempio, traveste da racconto poliziesco la genesi, lo sviluppo e le complicazioni del viaggio italiano. Dal punto di vista tecnico, il calcio di «Italia Novanta» delude Ekelund. Il 5 luglio, qualche giorno prima della finale da cui fuggirà, egli annota: “Il mio grande entusiasmo è svanito alla vista delle massicce muraglie difensive. Quello di Peter è nato sul serio questa estate, ed è ormai soltanto un ricordo il suo sguardo scettico le volte che si parlava di calcio. Roger Milla ha sedotto il suo intelletto di scuola tedesca e ha trascinato anche lui nel calcio come dramma e spettacolo. Questa estate il calcio ha perduto molti amanti in tutto il mondo, ma ne ha conquistato almeno uno: Ulf Peter Hallberg.” 150 Un altro scrittore che in anni recenti si è occupato di calcio con un misto di passione e disincanto, entusiasmo e sguardo critico, è l’uruguayano Eduardo Galeano. Il suo Splendori e miserie del gioco del calcio, del 1995, è un saggio piuttosto importante per chi vuole riflettere in modo non banale su questo sport; il libro fornisce anche alcuni elementi utili per comprendere la situazione in cui i colleghi svedesi Ekelund e Hallberg si trovano nel 1990. Galeano esordisce infatti con una constatazione avvilente ma realistica: “La storia del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere. A mano a mano che lo sport si è fatto industria, è andato perdendo la bellezza che nasce dall’allegria di giocare per giocare. In questo mondo di fine secolo, il calcio professionistico condanna ciò che è inutile, ed è inutile ciò che non rende. E a nessuno porta guadagno quella follia che rende l’uomo bambino per un attimo [...].” Passando in rassegna la storia calcistica scandita ogni quattro anni dai campionati del mondo, Galeano ricorda così «Italia Novanta»: “Questo campionato dal calcio noioso, senza audacia e senza bellezza, registrò la media gol più bassa della storia dei Mondiali.” Sembrerebbe dunque che Hallberg abbia scelto il momento peggiore per avvicinarsi al football e leggere le sue tracce. Il suo smarrimento, espresso in diversi punti del libro, si può spiegare anche con questa circostanza. Sempre Galeano offre tuttavia uno spiraglio, che ci permette di riconoscere uno dei moventi profondi dei racconti di Hallberg e di capire come l’entusiasmo della partita abbia potuto contagiare chi, fino a quel momento, ne è rimasto piuttosto lontano: “Una follia degna di miglior causa? Un affare volgare e selvaggio? Una fabbrica di inganni guidata dai suoi padroni? Io sono tra coloro che credono che il calcio può essere tutto questo, ma è anche molto di più di questo, come festa degli occhi che lo guardano e come allegria del corpo che lo gioca. [...] Il calcio professionistico fa tutto il possibile per castrare questa energia di 151 felicità, ma lei sopravvive malgrado tutto. E forse per questo capita che il calcio non riesca a smettere di essere meraviglioso.” Ekelund e Hallberg non sono stati i primi scrittori scandinavi a cercare di raccontare i Mondiali di calcio, e nemmeno i primi a farlo con un misto di passione ludica e prospettiva critica. Hanno anzi potuto ispirarsi ad altri affermati modelli contemporanei, a partire dal rodato duo norvegese Dag Solstad e Jon Michelet, i quali scrivono un libro ogni Mondiale a partire ormai da quello del 1982 in Spagna. E anche lo svedese Per Olov Enquist ha dedicato al Mondiale del Messico del 1986 una parte del suo Två reportage om idrott (Due reportage sullo sport). Dove però Solstad, Michelet ed Enquist sviluppano la loro analisi (vuoi più sportiva vuoi più sociale e culturale) piuttosto in solitudine, distaccati e con un contatto solo sporadico con l’evento collettivo e reale, la novità del tentativo di Hallberg ed Ekelund del 1990 sta nel vivere l’evento come viaggiatori e tifosi comuni, evitando per lo più la prospettiva asettica e professionale del giornalista o scrittore in «tribuna stampa». In particolare Hallberg, l’inesperto di calcio, si rende conto che l’unico modo per rappresentare questo sport e fenomeno sociale è mischiarsi agli altri, incontrare il crogiuolo di genti che per un mese fanno del Mondiale il centro del mondo, dare spazio alle emozioni e all’empatia (e infine all’entusiasmo scatenato) senza per questo tradire l’obiettivo iniziale di uno sguardo critico, laterale, intento a soffermarsi sul dettaglio lontano dalle luci dei telereporter. È uno sguardo che attraverso l’umorismo e l’autoironia smonta la retorica enfatica da «grande evento mediatico», e che semmai raffigura criticamente la tribuna stampa (le volte che l’autore riesce a entrarvi di straforo). Ma è anche una disposizione analitica seria, capace di vedere nel dramma dei novanta minuti (e dei supplementari, e magari dei rigori) un concentrato della nostra vita con tutti i suoi momenti decisivi, le vittorie, le sconfitte e le scelte senza 152 appello. Si trovano ne Il calcio rubato, sia nei racconti originari del 1990 sia nel nuovo racconto cornice, alcuni riferimenti all’opera e alla vita del filosofo ebreo tedesco Walter Benjamin. I racconti sul calcio di Hallberg ci mostrano una volontà di esserci con lo sguardo; di cercare di conoscere gli altri uomini e le nuove città durante il viaggio; di camminare e contaminarsi senza tuttavia perdere la necessaria distanza critica dell’outsider. Queste sono anche le prerogative del flâneur, il passeggiatore urbano di origine ottocentesca e parigina, figura familiare a Ulf Peter Hallberg per essere stato, proprio tra gli anni Ottanta e Novanta, il maggiore studioso e traduttore svedese dell’opera di Benjamin, che al flâneur ha dedicato pagine memorabili. I racconti inclusi in Fotbollskarnevalen e ripresi ne Il calcio rubato hanno rappresentato così per il suo autore la prima importante prova di uno stile saggistico, narrativo e autobiografico ispirato al maestro Benjamin ma anche molto personale. Questo tipo di scrittura ha avuto una conferma importante con Flanörens blick (in due versioni, 1993 e 1996), uscito per Iperborea come Lo sguardo del flâneur (2002) – un viaggio europeo e newyorkese che ha il suo fulcro nella Berlino prima e dopo la caduta del muro, cioè nella città dove Hallberg vive dal 1983. Con un più spiccato carattere autobiografico, lo sguardo del flâneur prosegue nel recente Grand Tour (2005), accolto con molto favore dalla critica svedese. Se il viaggio rappresenta una costante nella scrittura di Hallberg, l’archetipo del viaggio di un nordico in Italia, assente ne Lo sguardo del flâneur, è importante sia ne Il calcio rubato sia in Grand Tour. Viaggiare in Italia nel carnevale del calcio vuol dire però anche incontrare il mondo; l’evento mediatico del Mondiale del 1990 costituisce un punto focale del villaggio globale e un tale calderone di umanità varia da rendere possibile all’autore l’incontro ottimale con il mondo di fine Novecento. Se dunque il calcio tecnicamente espresso da «Italia Novan153 ta» può non giustificare l’interesse del neofita Hallberg, la nuova manifestazione a livello planetario di questo sport, tipica dell’era televisiva postmoderna, pone all’autore le domande e le sfide cui desidera criticamente rispondere. Il cosmopolita Hallberg comincia misurandosi con il proprio amor patrio di svedese. I primi tre racconti «Il tempo breve del carnevale», «La notte trionfale dell’uomo di Granito» e «La città della peste e del dolore» fanno rivivere la fallimentare spedizione della Svezia di Strömberg e Brolin nel girone di qualificazione di Torino e Genova. Umorismo, autoironia e sincera sofferenza caratterizzano qui lo sguardo. I diversi codici culturali dei tifosi svedesi e brasiliani a Torino; l’incontro dell’io narrante con un gruppo di tifosi scozzesi; il sovvertimento dell’ordine mentre svedesi e scozzesi fraternizzano per le strade di Genova; il dolore di un tifoso svedese, un arbitro, dopo il decisivo 2-0 della Scozia: sono solo alcuni esempi di episodi comunemente marginali, che nessuna telecamera o giornalista sportivo ha potuto né voluto registrare, e che invece i racconti di Hallberg collocano al centro, portandoci alcuni frammenti diversi e insoliti di una memoria collettiva che chiamiamo «Italia Novanta». La consolazione a posteriori è che la Svezia sarebbe stata ottima terza al Mondiale successivo, negli Stati Uniti. L’incontro tra nazioni e nazionalità può manifestarsi come commistione semiseria, come sfottò, come rivalità e tesa contrapposizione nel momento decisivo della partita; può anche tradursi in scontro fisico tra tifosi, specialmente nel calcio. I racconti di Hallberg, in modo particolare il racconto ambientato a Bologna «Avec les diables», ci riportano alla memoria quei giorni italiani, quando i mezzi di informazione alimentarono in noi – con qualche fondamento di realtà e molta costruzione artificiosa – la fobia dell’hooligan inglese. Tutto doveva funzionare; non potevamo permetterci di fare brutta figura davanti al mondo; i teppisti andavano isolati e trattati con il pugno 154 di ferro. E così facemmo, esagerando un poco. Ad alimentare la nostra paura c’era anche stata la tragedia dello stadio di Bruxelles di qualche anno prima, è vero; così però sperimentammo, assieme all’esaltazione per il bel gioco degli azzurri, anche lo stato di polizia – un’occasionale ma periodica ricorrenza della società italiana contemporanea, prima e dopo quei Mondiali. Per la verità Hallberg cerca anche di penetrare attraverso la scrittura in quella che definisce “l’estetica dell’orrido della cultura hooligan”. Il racconto «Troppo casino» si caratterizza appunto per l’assunzione del punto di vista del teppista inglese, dove una sorta di monologo interiore rispecchia quell’offuscamento mentale, quel malessere e quel nichilismo della cultura giovanile, che pure sono diventati parte integrante dell’odierno mondo del calcio. Esserci con lo sguardo e con le suole delle scarpe – da flâneur – vuol dire osservare le città. Le descrizioni di Torino, Genova, Bologna, Firenze, Napoli e Bari, più o meno articolate, colpiscono per un’attitudine che fonde empatia e osservazione critica, e per la capacità – non così ovvia in un osservatore nordico – di andare oltre il cliché italiano da cartolina. Le osservazioni di Hallberg, magari per semplice intuito, leggono abbastanza in profondità nella nostra «italianità», e a volte ci fanno sentire un po’ nudi – come quando a Bari il perfetto ordine dei Mondiali impone, improvvisamente, di buttare nel cestino ogni pezzo di carta, anche quello che lo straniero sta ancora utilizzando per i fatti suoi (ne «La tribuna d’onore nel deserto»). Un simile smascheramento comico delle nostre nevrosi può solo venire da uno straniero capace di uno sguardo profondo, affettuoso e al tempo stesso critico. Tra gli scenari italiani, tre risultano particolarmente importanti: Torino, Bari e Napoli. A Torino e a Bari furono costruiti per «Italia Novanta» due nuovi stadi pretenziosi – appunto perché si dovevano fare le cose in grande. Agli occhi di molti italiani si trattava e si tratta invece di 155 cattedrali nel deserto e di spreco di denaro pubblico. In particolare Bari, come ci ricorda Hallberg, diventò un centro organizzativo dei Mondiali, probabilmente perché il presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio di allora era barese. Questi racconti sul calcio riproposti quindici anni dopo attivano così la nostra memoria storica. Ricordiamo ad esempio che anche la rivelazione di alcuni abusi affaristici di «Italia Novanta» contribuì, poco dopo il 1990, allo sgretolamento del corrotto sistema politico e partitico vigente nel nostro paese, provocando la fine della cosiddetta Prima Repubblica e la nascita della cosiddetta Seconda Repubblica. L’immagine sarcastica che Hallberg dà dei “rappresentanti scelti della borghesia italiana” stipati nella tribuna d’onore del nuovo tempio barese, di coloro che fiutavano i nuovi affari, suggerisce tuttavia al nostro sguardo retrospettivo non tanto la fine di una prima repubblica, quanto l’embrione di qualcosa che in quel periodo prendeva forma nella società italiana dopo i fasti degli anni Ottanta, un mutamento di costume sociale che avrebbe fornito il trampolino di lancio a un audace progetto italiano di ascesa politica. Proprio dalla passione popolare italiana per il calcio quel progetto traeva la sua forza, la sua capacità di creare egemonia culturale e politica e di governare il consenso. Contestualmente stava mutando il gioco del calcio in sé e per sé: verso l’industria dello spettacolo, il professionismo spinto allo spasimo, la sottomissione di questo sport ai linguaggi e ai tempi della televisione. Di questa rapida trasformazione avvenuta proprio tra gli anni Ottanta e Novanta – che il sociologo Pippo Russo ha recentemente analizzato nel saggio L’invasione dell’Ultracalcio – si sono accorti gli scrittori menzionati: Enquist, Solstad, Michelet, Hallberg, Ekelund e Galeano. Solo Galeano (1995) e Hallberg ne Il calcio rubato (2006) hanno però potuto avere la più distinta percezione che, se l’ultracalcio 156 cominciava a essere in tutto il mondo, in Italia e non altrove si realizzava uno spregiudicato uso culturale, sociale e politico del calcio, evidentemente reso possibile dal nostro modo di vivere questo sport. In tal senso Napoli appare il luogo italiano più importante de Il calcio rubato, il nodo dove si intrecciano diversi fili del racconto calcistico e, anche, il punto di congiunzione con il racconto cornice che crea la nuova struttura narrativa. È infatti allo stadio San Paolo di Napoli, durante Inghilterra-Camerun, una delle partite più belle di quel Mondiale, che il personaggio e narratore del racconto «Il caos» vive un’esperienza rivelatrice per la sua ricerca del calcio. Assistendo al gioco dei danzanti «leoni» del Camerun, alla possibile e inaudita vittoria africana contro gli inglesi (i quali poi vinceranno grazie alla loro tenacia ed esperienza), il distaccato outsider è coinvolto nel tifo senza riserve, nell’ebbrezza degli spalti, annullando per un’unica volta lo sguardo al margine e le riserve della sua ragione. Questa specie di mal d’Africa ha a che fare con l’incontro-scontro con Napoli, una città al di fuori delle normali coordinate che turba ed emoziona il protagonista. Napoli rappresenta infatti anch’essa un’epifania nel racconto, qualcosa di affascinante e crudo che scatena un affetto istintivo verso le persone e la vita del nostro paese, ma che allerta anche il senso critico verso il caos individualistico, l’esibizionismo fragile, la paura di perdere e l’aggressivo vittimismo che proprio non quadrano con il cliché (se mai sopravvive, anche tra gli stranieri) dell’italiano solare e felice. Perché ancora a Napoli – e sempre nel bel racconto «Il caos» – si svolge lo psicodramma collettivo dell’eliminazione in semifinale dell’Italia da parte dell’Argentina di Maradona, stella del Napoli nel nostro campionato nazionale, rivale odiato come non mai da noi italiani proprio in quel Mondiale. E del nostro modo di vivere il calcio e il rito sociale e nazionale dei Mondiali, osservato 157 nella fatale semifinale del San Paolo, Hallberg dà una lettura che colpisce al cuore e mette a nudo. Non c’era nulla da fare: gli azzurri, così esaltanti fino a quel momento, trascinati dal goleador siciliano Schillaci dallo sguardo spiritato, dovevano vincere il Mondiale. Come si ricorderà, l’Italia del pallone (e nel pallone) pensò bene di attribuire assurdamente a Napoli la colpa della sconfitta, rea di essere stata troppo affezionata a Maradona, di avere sventolato troppo poco il tricolore! Siamo piuttosto bravi ad accampare scuse. La lezione morale ed esistenziale che invece Hallberg trae da quella partita è che i nostri hanno avuto paura di vincere e di giocarsela fino in fondo: un imperdonabile peccato di viltà, di istinto sparagnino, di terrore del confronto a viso aperto: volere portare a casa la vittoria con il minimo sforzo ha voluto dire essere battuti. Può darsi che questa lettura simbolica ed esistenziale sia carente dal punto di vista tecnico e tattico di chi conosce meglio il calcio, e magari la fatica concreta della partita. Tuttavia l’analisi di Hallberg coglie una potente corrente emotiva che effettivamente attraversò buona parte del paese durante quella sera. A Napoli, infine, giocava e viveva Maradona, vedere il quale ha dato all’autore del libro l’emozione più forte del Mondiale, nonostante tutto. Il ritratto di Maradona e del suo ammaliante genio calcistico, tanto più folgorante perché si espresse solo in alcuni, rari sprazzi, è pieno di devozione e ammirazione da parte dell’outsider del calcio, ma risulta originale e lontano dal cliché e ci dice ancora qualcosa sul calcio come possibile mito popolare moderno. Nell’ultimo racconto «Il calcio della morte» lo sguardo si sofferma in due occasioni su Maradona: prima, durante un momento di magia collettiva tra chi assiste al suo allenamento in vista della finale; poi, davanti alle sue lacrime incontenibili dopo la sconfitta contro la Germania e dopo i calci, gli insulti e fischi che quel Mondiale gli aveva abbondantemente riservato. Vedendo Maradona 158 piangere come un bambino, il narratore osserva in conclusione: “Piccolo amico, tutto sarà triturato in polvere da questa infernale macchina di informazioni, pseudo-eventi e indifferenza. Forse il mondo del calcio è solo uno specchio dell’ingiusto, imprevedibile e fiabesco labirinto della vita. Tu però volevi vincere. Asciugati le lacrime, piccolo principe! E grazie.” Quando scriveva queste parole nel 1990, Hallberg non poteva sapere del destino seguente di Maradona, della sua cacciata durante il Mondiale del 1994 per uso di cocaina; del suo precipitare nel baratro fino quasi alla morte; e, ora, della sua risalita faticosa verso una vita migliore. Arriviamo così all’oggi, a ciò che noi e il nostro paese siamo diventati, e anche a ciò che l’autore del libro è diventato quindici anni dopo la calda estate italiana scandita dall’inno della Nannini e di Bennato. Quanto e come siamo cambiati tutti nel frattempo, Hallberg, l’Italia e il mondo intero? Possiamo considerare la cosa, per come viene trattata nel testo, dal punto di vista autobiografico, intellettuale e politico-sociale. Dal punto di vista autobiografico traspare, attraverso il racconto su Anders Ranke e Mikael de Neergaard, un’esperienza della vita che contempla la malattia, la precarietà e il lutto. Si tratta di una consapevolezza seria che dà al racconto un tono più cupo e riflessivo rispetto al gioco scanzonato del carnevale del calcio. In fondo però il nostro terrore della morte è direttamente proporzionale alla gioia che la vita può dare. Quando amiamo qualcuno diventiamo in un certo senso più fragili e più dipendenti; stabilire legami forti ci espone al dolore lacerante, o al timore paralizzante, della perdita. Ma che cosa rimane a chi non ha corso affatto il rischio del legame? I diversi destini di Ranke e de Neergaard si possono forse riassumere così. Questo orizzonte esistenziale e personale avvicina il racconto cornice a temi ed episodi contenuti in Grand Tour, il libro immediatamente precedente di Hallberg. 159 Il problema emotivo e affettivo del racconto si intreccia a quello intellettuale, riflettendosi in due scrittori svedesi che vivono in Italia da diversi anni, e che hanno optato per strategie diverse di fronte a una realtà contemporanea difficile da afferrare e rappresentare: da una parte «sporcarsi le mani», rischiando anche lo smarrimento e il fallimento definitivi; dall’altra rivivere il mito nordico dell’Italia giardino, isolandosi a Capri e non rischiando nulla. L’ambientazione tra Capri e Napoli rimette così mano al problematico e irrisolto nodo napoletano emerso nei racconti sul calcio. È in qualche modo incomprensibile come il braccio di mare del Golfo di Napoli possa separare due universi così antitetici; e il racconto sfrutta questa circostanza. Ranke e de Neergaard appaiono come possibili alter ego dell’autore, vicini e simili tra loro, ma separati in un punto decisivo: in ciò che il filosofo danese e grande scrittore Søren Kierkegaard (1813-55) distingue come «stadio estetico» e «stadio etico» della vita. Anche nel suo gioco metanarrativo tra manoscritto, autore ed editore del manoscritto stesso, Il calcio rubato ricorda un poco Enten-Eller (Aut-Aut) del 1843, il capolavoro kierkegaardiano che pone in un serrato confronto dialettico l’istanza estetica e l’istanza etica che l’autore sentiva di avere dentro di sé. Che cosa giustifica infatti la scrittura, il gioco estetico, il bisogno di concentrarsi sulla forma e la bellezza? Ha bisogno tale occupazione di un fondamento etico, di una preoccupazione verso gli altri e il mondo? de Neergaard, colui che con indubbia devozione verso l’autore ci consegna i frammenti di «Italia Novanta» scritti da Ranke, ha in qualche modo tradito le premesse del loro comune umanesimo. L’Italia di questo svedese colto e amante delle farfalle è diventata la tentazione dell’esilio caprese, il mito di Tiberio che si ritira dalle cure dell’impero, o dell’antecedente svedese, il medico Axel Munthe, autore del bestseller mondiale, scritto in inglese, The 160 Story of San Michele (1929). de Neergaard soffre di una sordità più voluta che reale; è in fuga dal proprio passato e dalla relazione coinvolgente e rischiosa con il mondo. Non vivendo, evita il rischio di fallire e perdere. La stasi umana e intellettuale di de Neergaard procede infine parallela al tradimento dell’Italia verso se stessa in questi quindici anni. La rievocazione del giudice Giovanni Falcone, del sacrificio suo e di sua moglie nel 1992, cala la riflessione etica del racconto cornice nella dimensione sociale e politica del nostro paese. E non è un caso che il ricordo del siciliano Falcone emerga a Napoli, il nodo irrisolto del libro. Come scrive Giorgio Bocca nella sua ultima inchiesta Napoli siamo noi, il degrado della città campana è speculare a quello dell’Italia, solo più drammatico; la napoletanità è solo una italianità potenziata. E perché ci dobbiamo ricordare di Giovanni Falcone? Ce lo dice uno svedese, che nel frattempo sta imparando a conoscerci bene. Perché per una profonda insicurezza in noi stessi ci siamo trasformati, ci siamo dati all’illusione della bella facciata, all’arroganza del successo a tutti i costi, alla spettacolarizzazione dello sport e della vita intera, dimentichi delle virtù civili del nostro paese. Che spazio ha Falcone nella nostra memoria e nel nostro immaginario collettivo? Il ricordo di Falcone equivale a una messa a fuoco delle nostre occasioni perdute, del nostro autolesionismo travestito da allegria posticcia, del nostro preferire l’oblio e la rimozione vivendo di fantasie e speranze di miracoli. La responsabilità è sempre di qualcun altro. Così, in conclusione, Il calcio rubato di Ulf Peter Hallberg riesce sia a salvare nostalgicamente i frammenti di «Italia Novanta» tratti da Fotbollskarnevalen, sia a creare una nuova unità narrativa, per rappresentare, come dice il buon de Neergaard nella parte introduttiva, “un processo di rivolgimento in cui i destini del calcio sono solo una piccola parte di una più vasta successione di 161 eventi.” FONTI CITATE Giorgio Bocca, Napoli siamo noi. Il dramma di una città nell’indifferenza dell’Italia, Milano, Feltrinelli, 2006 Fredrik Ekelund & Ulf Peter Hallberg, Fotbollskarnevalen. Italiensk resa, Stockholm / Stehag, Symposion, 1990 Per Olov Enquist, “Mexico 86”, in Två reportage om idrott, Stockholm, Norstedts, 1986, pp. 175-308 Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio, Milano, Sperling & Kupfer, 1997 (titolo originale El fútbol a sol y ombra, 1995) Ulf Peter Hallberg, Flanörens blick, Stockholm / Stehag, Symposion, 1993 Flanörens blick. En europeisk färglära, Stockholm, Norstedts, 1996 Lo sguardo del flâneur, Milano, Iperborea, 2002 Grand Tour, Stockholm / Stehag, Symposion, 2005 Søren Kierkegaard, Enten-Eller, I-II, in Søren Kierkegaards Skrifter, 2-3, København, Gads, 1997 Jon Michelet & Dag Solstad, VM i fotball 1990, Oslo, Oktober, 1990 Axel Munthe, The Story of San Michele, London, Grafton, 1975 (I ed. 1929) Pippo Russo, L’invasione dell’Ultracalcio. Anatomia di uno sport mutante, Verona, Ombre Corte, 2005 162