N°13 – 1 Luglio - Rivista Rocca
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N°13 – 1 Luglio - Rivista Rocca
Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi Balcani: Effetto domino Rapporto Istat: Le tante Italie Società: Cipputi si espande Teologia: Il pluralismo convergente $# ANNO NUMERO 13 periodico quindicinale Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post. dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Perugia e 2,00 Referendum costituzionale: Perché no Rivivere dopo il lutto Privacy: I rischi della Banca genetica Papa Ratzinger: I silenzi di Dio, i silenzi dell’uomo etica pubblica e libertà di coscienza TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE 1 luglio 2006 ISSN 0391 – 108X Rocca cosa troverai R occa? sommario sulla prossima 4 6 10 11 13 14 clicca 17 18 www.rocca.cittadella.org 20 23 24 27 e lo saprai 15 giorni prima 28 1 luglio 2006 32 35 38 che ti arrivi la rivista 13 41 42 Ci scrivono i lettori 45 Anna Portoghese Primi Piani Attualità Valentina Balit Notizie dalla scienza 47 Vignette Il meglio della quindicina 48 Raniero La Valle Resistenza e pace L’ipotesi peggiore 52 Maurizio Salvi Balcani Effetto domino 54 Romolo Menighetti Oltre la cronaca Quali tasche 56 Filippo Gentiloni Referendum costituzionale Perché no 57 Fiorella Farinelli Rapporti Censis e Demos-Coop Cipputi si espande Romolo Menighetti Parole chiave Privacy 58 58 Pietro Greco Privacy Rischi della Banca genetica 59 Carlo Timio Unesco Libertà di comunicazione 59 Aldo Eduardo Carra Rapporto Istat Le tante Italie 60 Giannino Piana Questioni eticamente sensibili Politica, libertà di coscienza, etica pubblica 60 Sabrina Magnani Esperienze Rivivere dopo il lutto Rosella De Leonibus Cose da grandi Voglie sconfinate Vincenzo Andraous Sbarre e dintorni Grazia in offerta speciale Marco Gallizioli Culture e religioni raccontate Nel folto del bosco 61 62 63 Giuseppe Moscati Maestri del nostro tempo Sofia Vanni Rovighi Dalla contemplazione teologica all’azione etica Stefano Cazzato Lezione spezzata Forza Lecce Giancarlo Zizola Papa Ratzinger dopo Auschwitz I silenzi di Dio, i silenzi dell’uomo Carlo Molari Teologia Il pluralismo convergente Rosanna Virgili La voce del dissenso L’uva acerba della giustizia Adriana Zarri Controcorrente Pentecoste Giacomo Gambetti Cimena Artusi dixit Il Codice da Vinci Roberto Carusi Teatro La nevrosi quotidiana Renzo Salvi RF&TV Wrestling Mariano Apa Arte Trento Giuliano Della Pergola Mostre Stefano Levi Della Torre Alberto Pellegrino Musica Canzone d’autore e poesia Giovanni Ruggeri Siti Internet Digital generation Libri Carlo Timio Rocca schede Paesi in primo piano Kazakistan Nello Giostra Fraternità quindicinale della Pro Civitate Christiana Numero 13 – 1 luglio 2006 $# ANNO Gruppo di redazione GINO BULLA CLAUDIA MAZZETTI ANNA PORTOGHESE il gruppo di redazione è collegialmente responsabile della direzione e gestione della rivista Progetto grafico CLAUDIO RONCHETTI Fotografie Andreozzi B., Ansa, Associated Press, Ballarini, Berengo Gardin P., Berti, Bulla, Carmagnini, Cantone, Caruso, Cascio, Ciol E., Cleto, Contrasto, D’Achille G.B., D’Amico, Dal Gal, De Toma, Di Ianni, Felici, Foto Express, Funaro, Garrubba, Giacomelli, Giannini G., Giordani, Grieco, Keystone, La Piccirella, Lucas, Luchetti, Martino, Merisio P., Migliorati, Oikoumene, Pino G., Riccardi, Raffini, Robino, Rocca, Rossi-Mori, Turillazzi, Samaritani, Sansone, Santo Piano, Scafidi, Scarpelloni, Scianna, Zizola F. Redazione-Amministrazione casella postale 94 - 06081 ASSISI tel. 075.813.641 e-mail redazione: [email protected] e-mail ufficio abbonamenti: [email protected] www.rocca.cittadella.org - www.cittadella.org http://procivitate.assisi.museum Telefax 075.812.855 conto corrente postale 15157068 Bonifico bancario: Banca Pop. di Spoleto – Assisi Cin: T – ccb n. 2250 – Abi 5704 – Cab 38270 IBAN: IT59T05704382700 0000 000 2250 BIC: BPSPIT3SXXX Quote abbonamento Annuale: Italia e 45,00 Annuale estero e 70,00 Sostenitore: e 100,00 Semestrale: per l’Italia e 26,00 una copia e 2,00 - numeri arretrati e 3,00 spese per spedizione in contrassegno e 5,00 Spedizione in abbonamento postale 50% Fotocomposizione e stampa: Futura s.n.c. Selci-Lama Sangiustino (Pg) Responsabile per la legge: Gesuino Bulla Registrazione del Tribunale di Spoleto n. 3 del 3/12/1948 Codice fiscale e P. Iva: 00164990541 Editore: Pro Civitate Christiana ROCCA 1 LUGLIO 2006 Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono Questo numero è stato chiuso il 13/06/2006 e spedito da Città di Castello il 16/06/2006 4 Spinello a go’ go’ Gli interventi qui pubblicati esprimono libere opinioni ed esperienze dei lettori. La redazione non si rende garante della verità dei fatti riportati né fa sue le tesi sostenute In merito all’articolo di Andraous (Rocca n. 12). Per quelle sostanze chiamate droghe, le varie civiltà hanno elaborato rituali che attualmente chiamiamo culture. Ne veniva così regolamentato l’uso ed erano sottolineati i pericoli, fornite eventuali avvertenze e modalità per evitarli, spesso creando tabù. Venivano usate nei più svariati modi, dalla ricreazione (molto poco, era preferito l’alcool) alle pozioni magiche, dai rituali religiosi al combattimento. e lo sono tutt’ora. È solo in questo tipo di società moderna basata sul modello occidentale, quella nostra, che la droga ha assunto il connotato di piaga sociale, diffondendosi a macchia d’olio tra i giovani, diventando fenomeno di massa, generando così una nuova cultura, anzi una controcultura. È noto che l’alcool ogni anno uccide una cifra spaventosa di persone, altrettanto le nostre strade. Dico adesso che le strade sono pericolose! Ragazzi, evitate la strada, anche se voi siete prudenti, perché quello che vi schiaccia, prima o poi, lo trovate! Ragazzi la strada mai! Suona ridicolo no? Eppure è la verità. Perché allora esistono persone come te, caro Andraous, che demonizzi la droga, che ti scandalizzi quando un giovane che tu definisci senza la saggezza e la coscienza di un adulto, ti dice che ha provato la droga? Cosa gli puoi dire adesso che lui ne sa più di te che probabilmente non ti sei mai fatto uno spinello? Cosa pensi di ricavarci facendogli l’esempio del ragazzo tossico a bestia o facendogli conoscere i travagli di quello che è riuscito ad uscire dalla morsa soffocante della droga? Pensi di spaventarlo? Te lo dico io, non fai niente, né male né bene, niente. Perché riceverà solamente un ammonimento, un «fidati di me che te lo dico io» che può essere ignorato in meno di mezzo secondo, senza nessun problema o rimorso di coscienza. Perché la pericolosità insita nella droga, nell’alcool, nell’andare per strada in macchina, è il frutto proibito di questa società, non c’è male in queste cose, e il tuo modo di combatterle è lo stesso modo della stradale che ha l’autovelox come deterrente per far andare più piano gli incoscienti. Così, per colmo delle cose, mi sembra che pure tu sia un mero frutto della società, all’antitesi di chi di droga si fa, colui che è messo lì a «combatterla». L’unico intelligente tra tutti mi sembra il ragazzo, l’unico, tra i sicuramente molti suoi compagni che lo spinello se lo fanno ma non lo dicono, che ha agito sul piano della realtà, che mettendovi di fronte la sua verità vi ha messo tutti a tacere. Vi siete scandalizzati, tu ti sei scandalizzato e lo vieni a scrivere perfino in giro, lo gridi quasi, tu che appartieni alla classe di chi la droga la dovrebbe combattere. Hai scritto di lui come una specie di demonio che insinua con parole allettanti la voglia di droga nei più deboli, mettendolo a paragone di chi «trasmette la vita con servizio», come se nelle sue parole ci fosse solo una lusinga della morte e tu fossi portatore di verità. Hai torto a parlare di tolleranza: ancora una volta dalle tue righe ho visto che l’hai confusa con l’indifferenza, con il silenzio, l’hai messa in una luce negativa; la «tolleranza» è una parola buona! È una virtù e non le si dovrebbero attribuire conno- tati dispregiativi. Hai ragione a parlare di fallimento degli educatori e di società che sta a guardare. Antonio Nardi Milano Il lettore afferma che l’unico vero intelligente gli è sembrato quel ragazzo, il quale ha saputo metterci a tacere e anche scandalizzarci… Davvero quel ragazzo ha mostrato gli attributi con quello slogan? A tal punto da interpretarlo come pass per la conquista di una identità? Di un ruolo? In uno spinello «quotidiano» vi è l’impegno e la fatica per raggiungere una crescita personale accettabile? Oppure in questo atteggiamento vi è una considerevole instabilità emotiva che maschera un disagio con l’avvicinamento ai rischi estremi? Fallimento degli educatori, di una società che sta a guardare? Forse questo è il risultato che scaturisce da una sorta di nichilismo congenito a qualche generazione… fortunatamente passata, perché educare non sta più solo per trasmissione di nozioni-conoscenze, ma come formazione alla complessità, come insieme di comportamenti, quanto meno per colmare con il tempo certe carenze, e bisogna riuscirci in tempo affinché non diventino lucide follie. Perché esistono persone come me che demonizzano la droga (io direi tutte le droghe)? Quel ragazzo ne sa più di me? Probabilmente perché io non mi sono mai fatto? Cosa penso di ricavarci facendogli l’esempio del ragazzo devastato dalla roba e del suo difficile recupero (quando ciò è possibile aggiungo ancora io)? Personalmente diffido sempre delle esemplificazioni, non mi accontento della dicitura: «si tratta di banale reazione a un modello culturale, di accettabile indisciplina adolescenziale». Diffido molto, perché io ci sono passato per queste doppie e triple corsie preferenziali, potrei raccontare molto di me in proposito, e la mia non è una bella storia, anzi è una gran brutta storia; come a un certo punto della mia vita l’incontro con me stesso. Ho scontato trent’anni di carcere e sono ancora detenuto, come ho già scritto nei miei libri; il mio è un viaggio lento e sottocarico, senza scorciatoie, privo di comodi rifugi, ma finalmente con il presente davanti e non più dietro. La mia è stata una vita di tragedie, di doppie tragedie, non solo aver tolto la vita a qualcuno, ma aver creduto per molto tempo di essere stato nel giusto. Potrei davvero dilungarmi, ma evito nuovamente di annoiare il mio prossimo, di certo c’è che la mia storia, ciò che è stato, ciò che ora è, mi consente di raccontare ciò che vedo e sento, senza essere maestro di niente, ma raccontare la mia esperienza (come somma dei miei tanti errori), sebbene non salverà alcuno dal proprio destino, quanto meno metterà a vista il baratro che lo attende, indipendentemente dalla tomba che ognuno si scava per propria scelta... ma ciò può accadere solamente quando si è in possesso di capacità, strumenti, risorse sufficienti per poter effettuare delle scelte. Checché se ne dica o peggio non se ne dica, l’uso di roba è prevalentemente una via di fuga senza progettualità, è la rappresentazione dell’impossibilità di trovare una uscita di emergenza, per cui non si può parlare di «prevenzione del danno», ciò che si deve e si può prevenire è il coinvolgimento nell’uso, soprattutto quello precoce, fornendo ai giovani l’opportunità di trovare risposte più valide ai loro problemi-compiti di sviluppo. Comunque a quel lettore mi viene da dire che, sì, le sue argomentazioni meritano attenzione, ma io ho imparato a sfuggire le visioni ed i percorsi unidimensionali, e proprio accogliendo e accompagnando giovani e adulti nella comunità «Casa del giovane» di Pavia dove da qualche anno lavoro come tutor, sono diventato estremamente attento al disagio che circonda le persone affaticate, al loro bisogno di essere aiutate a entrare un po’ in se stessi, per comprendere che ci si deve impegnare strenuamente per difendere la propria dignità personale. Qui non si tratta di esprimere giudizi sulle persone, bensì sui comportamenti, partendo dai miei naturalmente, appunto perché andare incontro agli altri, portare fuori ciò che si ha di buono, attraverso un adattamento interpersonale e intrapersonale, sottende capacità di iniziativa: non sicuramente fine a se stesso ma fine a se stessi. Il lettore parla di fallimento degli educatori e di una società che sta a guardare? Personalmente in questa comunità Casa del Giovane mi è stato insegnato che fare prevenzione è un intervento che costringe a farne altri, fare prevenzione è lavoro insieme, fare davvero prevenzione è un bisogno reciproco. ROCCA 1 LUGLIO 2006 Rocca ci scrivono i lettori CI SCRIVONO I LETTORI Vincenzo Andraous Pavia 5 6 Il Comitato centrale della Conferenza delle Chiese europee (Kek) si è riunito per la prima volta in Irlanda del Nord. L’incontro si è svolto a Londonderry dal 25 al 31 maggio, in un momento in cui il processo di pace sperimenta un consolidamento, e si alleggeriscono le tensioni, i sospetti e i timori per le divisioni politiche, sociali, culturali oltre che religiose. Numerose iniziative sono state intraprese dalle Chiese e dai gruppi di cristiani, in particolare dalla Scuola irlandese di Scienze ecumeniche e dalla Rete di mediazione. Nel corso della riunione del Comitato si è evidenziata la consapevolezza che a porre termine definitivamente alla lotta – impropriamente detta tra protestanti e cattolici – non basta l’assenza di conflitti. Poiché le cause sono molteplici, si è espressa la volontà di continuare a sostenere gli sforzi delle Chiese per promuovere la riconciliazione nei vari ambiti. A cominciare da quello economico. L’Irlanda sperimenta attualmente una crescita economica senza precedenti e ciò offre nuove opportunità, ma l’esclusione sociale e la povertà persistono. Occorre raccogliere questa sfida, insieme a un’altra derivante dall’arrivo massiccio degli immigrati. Intanto, dopo un vuoto di oltre due anni, l’Assemblea parlamentare del Nord Irlanda è stata ricostituita e i politici lavorano di nuovo insieme. Ricevendo in Vaticano il primo ministro britannico Tony Blair (protestante), anche Benedetto XVI si è rallegrato per i progressi che sta facendo l’Irlanda del Nord sulla via della pace. L’incontro nazionale di Terni (5-7 giugno), pensato come spazio in cui tutte le confessioni cristiane potessero essere capite e ascoltate in preparazione della terza assemblea ecumenica europea di Sibiu (Romania 2007), ha visto la partecipazione di oltre duecento delegati delle diocesi italiane e rappresentanti delle Chiese, comunità e associazioni protestanti e ortodosse. Un confronto asimmetrico, data la chiara prevalenza della parte cattolica rispetto alle altre confessioni, ma va riconosciuto a tutti, partecipanti, relatori e organizzatori, una costante ed eloquente volontà di mantenere e sviluppare ulteriormente la comunione già in parte raggiunta, una collaborazione per l’evento «Sibiu» mediante una ricchezza di apporti concreti. Non è una stagione facile per l’ecumenismo questa. Il tema del convegno: «I cristiani e l’Europa» capita in un momento in cui, notava mons. Paglia, presidente della Commissione Cei per l’ecumenismo e il dialogo, «si rischia di vedere un’Europa autoreferenziale, che perde la sua dimensione di universalità insita nei suoi stessi cromosomi». Filo conduttore dell’incontro è stato la «Carta Ecumenica», già firmata a Strasburgo nell’aprile 2001, «linee guida» commentate dal pastore Luca Negro, segretario per le comunicazioni della Kek (ortodossi e protestanti d’Europa) e da mons. Aldo Giordano del Ccee (episcopato cattolico), riprese poi come agenda nei gruppi di lavoro. La Charta oecumenica è un patto, o una profezia condivisa? Vari livelli di lettura le si sono dati. Comunque, resta un testo da meditare, uscendo da ogni strettoia confessionale e da ogni paura, come raccomandava il pastore De Clermont, presidente della Kek, per prendere il largo, dandoci appuntamento a Sibiu. Bolivia le terre ai campesinos Il 4 giugno a Santa Cruz il presidente indio della Bolivia Evo Morales ha consegnato i primi titoli di proprietà a campesinos poveri e senza terra. Dopo la nazionalizzazione degli idrocarburi, Morales è deciso a spezzare il fronte compatto della politica liberista, delle multinazionali e dei latifondisti, affrontando i problemi interni dal punto di vista della popolazione più indigente, in larga prevalenza india. (La Bolivia è al 47° al mondo posto per indice di povertà). Dopo il gas, è ora la volta delle terre, quella «rivoluzione agraria» promessa nel corso della campagna elettorale dal Presidente. Si è impegnato a distribuire subito 2,5 milioni di ettari di terra a indios e campesinos, nonostante la ferma opposizione delle associazioni di agricoltori. Ha già firmato 7 decreti di riforma agraria, anticipando che partirà subito un censimento delle terre improduttive e dei latifondi. Anna Portoghese Terni darsi appuntamento a Sibiu a cura di Irlanda Nord il processo di pace e i cristiani primipiani ATTUALITÀ Movimenti in 350mila al raduno di Pentecoste Germania donne come schiave Filippine abolita la pena di morte Oltre trecentocinquantamila sono stati i partecipanti al secondo raduno delle nuove comunità ecclesiali, convenuti a Roma dal 3 al 5 giugno. Si ricorderà come Giovanni Paolo II, ricevendoli nel 1998, aveva parlato di loro come «strumenti della nuova evangelizzazione». Benedetto XVI li ha esortato a essere «scuole di libertà in un mondo pieno di false libertà». Nella Chiesa italiana i movimenti più conosciuti sono la Comunità di Sant’Egidio, i Focolari, Comunione e Liberazione, il Rinnovamento nello Spirito, i Neocatecumenali, l’Arche, per citarne solo alcuni. Papa Benedetto li ha invitati a guardare il pianeta. «Un massiccio strato di sporco copre la creazione di Dio – ha detto fra l’altro – Non bisogna abusare del mondo. Dobbiamo considerare la creazione come un dono affidatoci non per la distruzione ma perché diventi giardino di Dio e così giardino dell’uomo» (...) «La vera libertà è responsabilità. È dono della vita». La prostituzione è legale in Germania. Per questo, in occasione dei mondiali di calcio per la Coppa del mondo, apertisi il 9 giugno a Monaco e che si concluderanno tra un mese a Berlino, c’è chi ha pensato di organizzare un giro di prostitute. Si parla di migliaia di donne, favorite da un permesso di soggiorno di 40 giorni, adescate, reclutate tra le sacche più povere dei Paesi dell’Est europeo e smistate nelle 12 città che ospitano gli avvenimenti sportivi. I commentatori tacciono o sono tacciati di moralismo. L’agenzia Eni di Ginevra però ribatte: «Oltre 800.000 persone sono vendute ogni anno per essere ingaggiate nella schiavitù sessuale» e ancora: «Molte donne sono forzate a prostituirsi da parte di criminali». Da parte cristiana, suore polacche hanno preparato cartellini in varie lingue con numeri telefonici dove le donne possono trovare aiuto e riparare in caso di necessità e uno slogan: «cartellino rosso alla prostituzione forzata». Il Parlamento delle Filippine ha approvato il 5 giugno l’abolizione della pena di morte. La legge è stata votata all’unanimità al Senato e sarà presto controfirmata dalla presidente Gloria Arroyo. Con tale provvedimento viene commutata in carcere a vita la condanna a morte di ben 1.200 detenuti. Nel 2000 era stata decisa una moratoria, anche per le pressioni sul governo di Manila da parte della Chiesa cattolica, oltre che per l’impegno degli attivisti per i diritti umani. In Italia la notizia è stata accolta con soddisfazione dal governo, da numerose associazioni tra le quali «Nessuno tocchi Caino» che ha auspicato una moratoria universale da parte dell’Assemblea generale dell’Onu, da «Sant’Egidio», «Amnesty international», molto attive nelle campagne per l’abolizione della pena capitale. Tutte sperano in un’estensione di questo provvedimento nell’area asiatica. Attualmente, gli Stati che praticano la pena di morte sono 54. Parma la scuola rivive il Medioevo «Parma, la Cattedrale e lo spazio del Medioevo» è il tema del progetto didattico per la scuola realizzato dal Comitato per il IX centenario della Cattedrale e coordinato dal professor Mario Calidoni, esperto di didattica dei beni culturali. Lo scopo «partire dalla Cattedrale per imparare e capire il Medioevo e il territorio». Per le scuole dell’infanzia, elementare e media è stato lanciato il concorso «Racconta la tua chiesa» che ha portato ad una bella mostra nel palazzo vescovile. A latere della grande mostra «Il medioevo delle cattedrali» si sono organizzati i «Cantieri della Cattedrale» con laboratori di pittura, architettura, scultura e miniatura. Un prezioso lavoro, che resterà anche per il futuro, è stato poi la realizzazione, per gli insegnanti, di due quaderni operativi con schede di lavoro e documentazione. Uno dedicato alle vie dei pellegrini e l’altro al cantiere medioevale per costruire le cattedrali. Per ulteriori informazioni visitare il sito www.cattedrale.parma.it. (fr.fe.) ROCCA 1 LUGLIO 2006 ROCCA 1 LUGLIO 2006 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 7 8 ATTUALITÀ Somalia «la nostra guerra non importa a nessuno» Kwait alle urne anche le donne La battaglia su Mogadiscio è terminata il 6 giugno. Ma una calma molto precaria regna nella capitale dell’ex colonia italiana, ora che la vittoria è andata alle «Corti islamiche», gruppo di milizie e tribunali sommari che si rifanno alla legge islamica (Sharia) e che gli americani accusano di terrorismo in riferimento a Bin Laden. La Somalia è un paese senza Stato, senza legge e senza diritto e questo da quando Syad Barre, ex presidente ed ex dittatore, nel 1991 imboccò la strada della fuga. Il «governo di transizione» proposto dall’Onu è in contrasto sia con le Corti islamiche sia con l’Alleanza contro il terrorismo e non ha alcuna influenza effettiva sulla situazione di guerra interna. La stampa internazionale quasi sempre tace. Igiaba Scego, una ragazza somala, ha gridato in un articolo (Il Manifesto, 7 giugno): «La nostra guerra orribile non importa a nessuno». Dal 2004 invece, i tribunali islamici hanno rafforzato la loro presenza e soprattutto, a motivo della situazione di anarchia e di disfacimento delle istituzioni, sono passati dallo status di giustizia tradizionale a un’efficiente organizzazione armata. Fondamentalisti, pensano di costituire una repubblica islamica. Nessuno è in grado però di fare previsioni, sia su come evolverà la coalizione( visto che i tribunali islamici raggruppano diverse tendenze), sia su come reagirà l’opposizione che ha avuto finora come alleati nientemeno che gli Stati Uniti. Bush ha ritenuto che tra le «Corti» si aggirasse lo spettro del terrorismo fondamentalista e pertanto la sua amministrazione ha sostenuto all’Alleanza per la restaurazione della pace. Ma questa non ha dato i frutti sperati e non si può escludere che Washington cambi strategia. Alle prossime elezioni legislative anticipate in Kwait al 29 giugno sono candidate anche cinque donne. È la prima volta nella storia del ricco emirato del Golfo e si prevede una forte affluenza alle urne dell’elettorato femminile. Accadde l’anno scorso, precisamente il 16 maggio, che il Parlamento, dopo una grande manifestazione di donne ad al-Kwait, si decise a varare una nuova legge che attribuisce anche alle donne il diritto di votare ed essere votate. In un paese islamico ciò non è consuetudine e non mancarono gli oppositori, ma il terreno era stato predisposto dal lavoro di movimenti e scambi culturali che valorizzavano il confronto con l’alterità e – superando pregiudizi ancestrali – già una donna, Massouma al Mubarak, entrò a far parte del Governo come ministro della Pianificazione. Indipendente dal 1981 (già protettorato britannico dal 1899), il Kwait è una monarchia ereditaria ed è stato il primo paese ad avere un Parlamento eletto che, a differenza di altri, esercita una reale influenza sull’attività legislativa. Ma al momento della costituzione parlamentare, la popolazione femminile non godeva di diritti politici. La creatività come capacità di elaborare, accanto alla ricchezza petrolifera del Paese, anche una ricchezza culturale e sociale, ha coinvolto vivacemente il settore pubblico maschile e femminile. Naturalmente qualcosa bisognava pur concedere alla tradizione: così, al momento di votare, le urne e gli ambienti del voto femminile saranno rigorosamente separati da quelli maschili. Ue-Giappone negoziati in area tecno-scientifica In una società globalizzata, collaborare anche nell’ambito della conoscenza è vitale. L’Ue è fortemente interessata a farlo. Così si è espresso il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, in un discorso tenuto all’università della città giapponese di Kolbe (nella foto). Ha delineato quattro principi per l’istituzione di una «cooperazione nel settore della conoscenza» congiunta col Giappone. In sintesi sono: cooperazione politica accresciuta; cooperazione transfrontaliera; legami bilaterali più forti; istituzione di reti. Concludere negoziati in materia di scienza e tecnologia costituirebbe un grande passo nel rafforzamento dei legami bilaterali, ha anche affermato Barroso, e le reti congiunte aiuterebbero entrambe le parti a convertire in pratiche e prodotti i risultati dell’accresciuta cooperazione. Per due partner quali l’Ue e il Giappone, la tecnologia è la chiave verso il futuro. (Cordis focus n. 266/06). notizie seminari & convegni Lussemburgo. La Royal Society britannica e l’Académie des Sciences francese hanno istituito un premio destinato ai ricercatori europei che hanno contribuito in modo significativo al progresso delle scienze biologiche attraverso l’uso dell’informatica. Informazioni: Cordis focus, fax 352 2929 44090, e-mail: [email protected]. Bologna. La Provincia italiana della Compagnia di Gesù e la Facoltà teologica dell’Emilia Romagna hanno programmato un «Master in comunicazione del Vangelo» allo scopo di approfondire le tematiche che ruotano attorno al primo e fondamentale annuncio della fede cristiana. Informazioni: prof. Marco Tibaldi tel. 051 320915; 340 86 13926; [email protected]. Assisi. Sono aperte le iscrizioni al Corso Triennale di Counselling presso la Cittadella. Il Counsellor, nuova professione con apertura occupazionale, è un «esperto della comunicazone interpersonale e dei processi relazionali». Il Corso – inserito nella programmazione del Cresc Onlus – è accreditato presso il Miur e la Regione Umbria, diventando oggetto di riconoscimento da parte delle istituzioni scolastiche e regionali. Informazioni: Corso Counselling, Pro civitate Christiana, tel. 075813231; e-mail: [email protected]. 3 luglio-26 agosto. Magnano (Bi). Al Monastero di Bose corsi biblici e di spiritualità in sequenza: 3-8 luglio, «Evangelo secondo Luca» (Sabino Chialà); 10-15 luglio «Esodo» (Danel Attinger); 17-22 luglio «Gli Evangeli dell’infanzia di Gesù» (Giancarlo Bruni); 24-29 luglio «Gli incontri di Gesù attraverso i Vangeli» (Luciano Manicardi); 7-12 agosto «Gli addii di Gesù nel IV Vangelo» (Enzo Bianchi); 14-19 agosto «Lettere di Giovanni» (Enzo Bianchi); 21-26 agosto (per giovani) «La speranza di un mondo salvato: conversione e azione quotidiana» (Luciano Manicardi, Roberto Mancini). Informazioni: Monastero di Bose, 13887 Magnano Bi, tel. 015 679 185, fax 015 679 294; e-mail: [email protected]. 11-18 luglio. Megara (Grecia). Presso la «Casa Damaris» dei pp. Domenicani Corso di iconografia teorico-pratico, diretto da p. Rosario Scognamiglio, Emanuele Guerrino, Antonio Calisi. Informazioni: Segreteria Istituto ecumenico Bari, tel/ fax 080 5235 252; e-mail: [email protected]. 16-21 luglio. Santulussurgiu (Or). Settimana biblica, organizzata dall’Associazione biblica italiana, sul tema «Il Vangelo di Giovanni, al culmine delle sacre Scritture». Informazioni tel. 06 698 611 89, fax 06 698 986 1198; [email protected], www.associazione biblica.it. 16-22 luglio. Montanino di Camaldoli (Ar). Esercizi spirituali con don Carlo Molari e fratel Arturo Paoli sul tema: «La missione dei discepoli di Gesù nel mondo di oggi». Informazioni: Ore Undici via Ottaviano 105- 00192 Roma tel. 06 398 874 28; e-mail [email protected]. 16-23 luglio. Firenze. Campo di lavoro per giovani a Tavarnuzze sul tema «Antica come le montagne: esperienza di nonviolenza in Ghandi». Informazioni: Pax Christi, Segreteria Nazionale, via Quintole per le rose 131, Tavarnuzze Fi, tel.055 2020 375, [email protected], www.paxchristi.it. 17-22 luglio. Decollatura (Cz). All’Eremo San Benedetto Labre, Lectio divina su alcune figure dell’Antico e del nuovo Testamento chiamate «in tarda età» al servizio di Dio. Incontro riservato a persone al di sopra dei 35 anni. Informazioni: tel. 0968 61021. 17-21 luglio S. Cesarea Terme (Le). 29 luglio-2 agosto. Passo della Mendola (Tn). Corsi residenziali di orientamento universitario per gli studenti degli ultimi anni della scuola superiore scanditi in: test attitudinali, esame dei percorsi formativi, processo decisionale, confronti con i testimonial delle facoltà, workshop di approfondimento delle aree disciplinari. Sono organizzati dall’Istituto Giuseppe Toniolo e dalla Pastorale universitaria della Cei. Informazioni: Associazione Amici Università Cattolica, via S. Valeria 1, 20123 Milano, fax 02/7234 54 94. 23-29 luglio. Chianciano Terme (Si). La XLIII sessione di formazione ecumenica del Sae ha allo studio il tema «Chiamati alle fede, nei giorni della storia. Chiese, identità, laicità». L’importante appuntamento dell’ecumenismo italiano prevede meditazioni, relazioni, gruppi di studio, liturgie. Vi partecipano eminenti personalità del mondo cattolico, ortodosso, protestante, ebraico con una «cattedra» e uno «spazio» di giovani cristiani, ebrei e musulmani. Tra i relatori: Mario Gnocchi, Simone Morandini, Gioacchino Pistone, Giuseppe Ruggieri, Fulvio Ferrario, Piero Stefani, Vladimir Zelinsky, Roberto Della Rocca, Carlo Prandi, Michel Freychet, Giannino Piana, Paolo Naso, Trajan Valdman, Luca Negro, Serena Noceti, Eliana Briante, Ulrik Ekert, Elena Ben Ricco, Alberto Monticone, Gian Enrico Rusconi, Maria Bonafede, Carlo Molari, Domenico Maselli, Amos Luzzatto, Adel Jabbar, arciv. Valentinetti di Pescara, Paolo Ricca. Informazioni: Sae, Piazza sant’Eufemia 2, 20122 Milano, tel. 02 878 569; fax 02 864 65294. 25-31 luglio. Santa Cesarea Terme (Le). Vacanza/studio organizzata dai Volontari della Pro Civitate Christiana sul tema: «La fatica e la gioia di sperare». Tempi di preghiera e di studio, guidati da p. Egidio Monzani, spazi per la condivisione fraterna, mare/pineta, serate d’arte, visite ai dintorni. Informazioni: Galatina: 0836 562 357, cell. 347 183 3408, e-mail: [email protected]; Assisi: 075813231; ospitalita @cittadella.org. 1-13 agosto. Selva di Valgardena (Bz). Due proposte per giovani: 1) «Meglio la bussola del navigatore satellitare! Un viaggio low cost per volare sulle rotte del Signore». Corso sulla vocazione guidato da p. Paolo Bizzetti S.J., 2) Lettura del Vangelo di Marco (cc. 1316), guidata dai PP. Filippo Clerici e Silvano Fausti S.J. Informazioni: Villa Capriolo, Plan da Tieja, 72 -39048 Selva di Valgardena (Bz) tel. 0471 7933 67; www.gesuiti.it/ selva. ROCCA 1 LUGLIO 2006 ROCCA 1 LUGLIO 2006 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 9 ATTUALITÀ Valentina Balit 10 della quindicina il meglio Una ricerca condotta da un team internazionale di scienziati, coordinati dall’Università dell’Alabama, ha rintracciato l’origine del virus Hiv in una specie selvatica di scimpanzé del Camerun. La correlazione tra l’Aids e una forma simile di infezione che colpisce i primati, di cui è responsabile il virus SIVcpz (Simian Immunodeficiency Virus from chimps), era già nota. Tuttavia di questo agente patogeno si erano finora trovate delle tracce solo in pochi esemplari in cattività, lasciando pensare che il serbatoio naturale del virus potesse nascondersi in altre specie. Lo studio ora pubblicato su Science presenta i risultati di una campagna condotta nelle più remote regioni del Camerun, dove sono stati raccolti campioni organici provenienti da scimpanzé selvatici. L’analisi dei campioni ha rilevato la presenza del virus in una buona percentuale (il 35%) delle scimmie, che tuttavia a differenza di quanto accade nel caso degli esseri umani, non presentano i sintomi della malattia. L’analisi del genoma ha quindi confermato la stretta relazione tra il virus e quello che causa l’Aids nell’uomo. «I risultati ottenuti», spiega uno dei ricercatori, «ci permetteranno di indagare meglio la storia e il comportamento di questo virus nel suo ambiente naturale e quindi di capire come e perché esso sia passato dalle scimmie all’uomo». vignette L’acido ribonucleico (Rna), la macromolecola interna alla cellula fondamentale soprattutto nella produzione delle proteine, sembrerebbe avere una parte importante anche nel trasferimento delle informazioni genetiche da una generazione all’altra, contrariamente a quanto finora si riteneva. Esperimenti effettuati sui topi da un gruppo di studiosi dell’Istituto francese per la salute e la ricerca medica e dell’Università di Nizza, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature, hanno rivelato infatti che alle nuove generazioni potevano essere trasferite specifiche informazioni genetiche anche in assenza del corrispondente Dna. I test effettuati dai ricercatori hanno previsto l’impiego di topi con o senza chiazze sulla coda e sulle zampe. La presenza delle macchie dipende dall’espressione del gene chiamato «Kit» nella versione «mutante» (con variazione nella struttura del Dna rispetto al gene «normale»). I figli ereditano due geni Kit, uno da ciascun genitore. Le combinazioni che ne derivano, secondo le classiche leggi di Mendel, sono tre: due geni mutanti, topolini chiazzati; un gene mutante e uno normale, topolini ancora chiazzati (il gene mutante è «dominante»); due geni normali, topolini non chiazzati. Dopo l’accoppiamento, i ricercatori hanno tuttavia scoperto che la progenie con due geni normali – che non avrebbe dovuto avere chiazze – mostrava comunque la presenza di chiazze, in contrasto quindi con le leggi della genetica. L’unica spiegazione che i ricercatori sono stati in grado di trovare risiede quindi nell’Rna che, cosa nota già in precedenza, viene prodotto in grandi quantità dal gene mutante. Nella sperimentazione successiva, il gruppo ha iniettato parte dell’Rna contenente il Kit mutante negli embrioni di topo non chiazzati. Dopo l’intervento, la prole è risultata chiazzata, confermando il ruolo genetico dell’Rna. Il coordinatore dello studio, Minoo Rassoulzadegan si dichiara convinto che quanto scoperto corrisponda a un fenomeno più generale: «secondo noi il risultato contribuisce in qualche modo a spiegare recenti scoperte, nell’ambito delle quali il patrimonio era passato ai figli in assenza di geni rilevanti». Il gruppo prevede adesso di studiare altri modi in cui l’Rna potrebbe trasferire caratteristiche ereditarie e se tali processi si applicano agli esseri umani. «Ciò offre preziose informazioni sulle mutazioni del nostro genoma», ha concluso Rassoulzadegan, «e forse questa ricerca potrebbe aiutarci, alla fine, a capire perché siamo così diversi gli uni dagli altri». Confermata la provenienza dell’Hiv dagli scimpanzé da IL CORRIERE DELLA SERA, 26 maggio da IL CORRIERE DELLA SERA, 30 maggio Tropici in espansione La fascia tropicale della Terra si sta espandendo. Lo afferma uno studio pubblicato su Science condotto da ricercatori dell’Università dello Utah e dell’Università di Washington. Secondo i dati appena usciti, negli ultimi 26 anni le zone tropicali si sono ampliate in direzione nord e sud rispetto all’equatore di 2 gradi di latitudine, una distanza pari a circa 220 km. A questa conclusione gli scienziati sono arrivati analizzando l’andamento delle temperature atmosferiche registrate da satellite nel lungo periodo, durante il quale l’aumento della temperatura nella fascia tropicale è stato pari a 1,5 gradi Fahrenheit (poco meno di 1° C). Ciò significa, spiegano gli scienziati, che le correnti subtropicali, veri e propri «fiumi» di aria che muovendosi da ovest verso est marcano in ciascuno dei due emisferi la transizione tra la fascia climatica tropicale e quella subtropicale, si sono spostate, ognuna di 1 grado verso i rispettivi poli. «L’espansione dei tropici potrebbe rappresentare un aspetto del tutto nuovo del cambiamento climatico», spiega uno dei ricercatori, «ma non sappiamo ancora da cosa dipende e stiamo cercando di scoprirlo; in particolare vorremmo capire se il fenomeno è collegato al riscaldamento globale e in che modo». da IL CORRIERE DELLA SERA, 31 maggio da IL CORRIERE DELLA SERA, 4 giugno da L’UNITÀ, 6 giugno da LA REPUBBLICA, 6 giugno da IL MANIFESTO, 7 giugno da IL MANIFESTO, 9 giugno ROCCA 1 LUGLIO 2006 ROCCA 1 LUGLIO 2006 notizie dalla scienza Nuove scoperte mettono in discussione le leggi della genetica ATTUALITÀ 11 Romolo Menighetti LE IDEE CHE DIVENTANO POLITICA linee di storia dalla polis alla democrazia partecipativa La polis L’umanità come comunità Lo stato nazionale Il liberalismo Marxismo e comunismo Nazionalsocialismo e fascismo La democrazia: delusione e speranze La democrazia partecipativa pagg. 112 – • 13,00 2. Pietro Greco BIOTECNOLOGIE scienza e nuove tecniche biomediche verso quale umanità? Ritorna Frankestein? Potenzialità e rischi della genetica Piante e cibi transgenici Terapie geniche La nuova frontiera della biomedicina Clonazione terapeutica Fecondazione assistita Il dibattito all’Onu Chi è l’embrione? Armi biologiche e genetiche Bioetica e bioetiche Tecnologia scienza e sviluppo umano Dibattito tra scienziati, teologi, filosofi e politici pagg. 128 – • 15,00 3. Marco Gallizioli LA RELIGIONE FAI DA TE ROCCA 1 LUGLIO 2006 il senso religioso nel postmoderno IL FASCINO DELL’ORIENTE L’Oriente come metafora Paramahansa Yogananda: la vita come abbandono mistico Krishnamurti, un profeta del nostro tempo Gandhi: il sentiero dell’azione ESPLORANDO LA GALASSIA NEW AGE New Age: un caleidoscopio religioso L’etica della New Age L’emozione religiosa di Paulo Coelho e James Redfield ALCUNE SUGGESTIONI DAI MONDI RELIGIOSI CONTEMPORANEI La reincarnazione nel mondo delle religioni Carlos Castaneda: il fascino dello sciamanesimo Il Candomblé: la trance come festa Apocalisse: un’idea perduta? New global: una provocazione anche religiosa pagg. 112 – • 13,00 SPECIALE PER I LETTORI DI ROCCA 12 Rosella De Leonibus PSICOLOGIA DEL QUOTIDIANO AMORE E DINTORNI Vorrei che fosse amore Coppia, il catalogo è questo L’amore gay Il romanzo della coppia tra parole e silenzi L’altro/a: un mistero da riscoprire Uno più uno uguale tre Il nido vuoto Padri cercansi, disperatamente Figlie di madri Adulti ed adolescenti: cinque parole per dirlo PSICHE E DINTORNI E se l’io diventasse meno ingombrante? Sulle tracce dei cambiamenti Convivere col caos Malati immaginari? Fuggire col fumo Mi gioco tutto Magra per rabbia, magra per amore Desiderare il futuro Siamo rete-dipendenti? CONVIVENZA SOCIALE E DINTORNI Appunti per un io postmoderno Dietro le quinte della persuasione Il marketing delle idee Tempo per vivere Del Più e del Meno Le scorciatoie del pensiero Fare la differenza Le sfide dell’intercultura I frutti della paura Fiducia o buon senso? La cura della relazione Desiderio di “noi” pagg. 168 – E 20,00 5. Giannino Piana ETICA SCIENZA SOCIETÀ i nodi critici emergenti LE CATEGORIE ANTROPOLOGICHE L’uomo e il suo corpo Che cos’è la natura La vita mistero e dono La morte e il morire Salute e cura nel contesto del limite umano I CRITERI DEL GIUDIZIO ETICO Non uccidere La responsabilità morale oggi L’etica del rischio La gerarchia dei beni Quattro principi-base della bioetica I Comitati di bioetica Bioetica e biodiritto I cattolici, la bioetica e la legge LA MANIPOLAZIONE DELLA VITA UMANA L’embrione è persona? La fecondazione assistita e l’inizio della vita personale Referendum procreazione assistita: perché sì perché no i volumi 1-2-3 a soli 10 E ciascuno i volumi 4-5-6 a soli 15 E ciascuno spese di spedizione comprese Vita e qualità della vita La clonazione terapeutica Diritto a morire? Il testamento di vita Tra eutanasia passiva e accanimento terapeutico LA CURA DELLA SALUTE Il diritto alla salute Il rapporto medico-paziente La verità al malato Il consenso informato: come, perché, chi Non esistono malati incurabili Salute e risorse: a chi la precedenza? ETICA AMBIENTALE E ANIMALISTA Il rapporto uomo-natura Gli animali soggetto di diritti OGM: risorsa o rischio? pagg. 152 – E 18,00 6. Carlo Molari CREDENTI LAICAMENTE NEL MONDO RILEVANZA SOCIALE DELLA FEDE IN DIO La speranza nei tempi della disperazione Decadenza della fede, relativismo, religione civile La fede in Dio nella pratica politica Politica e profezia Guai a voi! Secolarizzazione e dialogo interreligioso La nuova Europa: radici e identità Le Chiese in difesa dell’ambiente FEDE E CULTURA Le tracce di Dio nella cultura umana Scienza e trascendenza L’azione di Dio in un contesto evolutivo Creazionisti e neodarwinisti Il contributo di Teilhard de Chardin al problema del Male NEL VORTICE DELLA STORIA La crisi della Chiesa Come e perché cambiare Le componenti della conversione Transizioni traumatiche Letture divergenti del Concilio La missione della Chiesa nel mondo attuale Ritrovare l’essenziale I laici nella Chiesa I laici nel mondo Il primato della coscienza Funzioni e limiti del Magistero UOMINI NUOVI L’esperienza religiosa Le emozioni nell’esperienza di fede Cammini di libertà Spiritualità del gratuito Leggi umane e fedeltà alla vita Spiritualità della liberazione pagg. 168 – E 20,00 RICHIEDERE A ROCCA cas. postale 94-06081 Assisi e-mail: [email protected] conto corrente postale 15157068 RESISTENZA E PACE l’ipotesi peggiore Raniero La Valle F acciamo l’ipotesi peggiore: che il 25 giugno l’elettorato, distratto da altre cose, sviato da una falsa ed ambigua informazione e tradito da una classe dirigente che non lo ha avvertito del pericolo, finisca per far vincere i «sì» nel referendum sul ribaltamento della Costituzione del ’48. L’ipotesi è da brivido, ma è bene farla per vedere le conseguenze. Ciò che certamente in questo caso non accadrà è che subito dopo si apra un cortese dialogo tra i due Poli per riformare insieme la Costituzione riformata: eppure è proprio questo l’inganno proposto ai cittadini dal sistema mediatico e dai maggiori leaders dei due schieramenti nella campagna elettorale referendaria. Quello che invece accadrebbe è che subito si riaccenderebbe la virulenza del centro-destra per dimostrare che il popolo è dalla sua parte e per abbattere il governo Prodi. Il quale certamente cadrebbe, perché non potrebbe sopravvivere un governo cui venisse meno il fondamento della Costituzione da cui è nato, quando questa fosse sostituita da una Costituzione che esso ha deprecato e combattuto. Inoltre ci sarebbe un argomento assai forte per promuovere una fine immediata della legislatura. Infatti secondo le norme transitorie connesse alla riforma, gli articoli sulla «devolution» bossiana, cioè sulla nuova ripartizione delle competenze tra Stato e regioni, entrerebbero immediatamente in vigore, cioè già il 27 giugno, mentre l’ordinamento in cui esse sono inquadrate entrerebbe in funzione nella legislatura successiva a quella in cui la nuova Costituzione viene promulgata, e perciò nella prossima. Ma se l’attuale legislatura facesse tutto il suo corso, fino al 2011 non ci sarebbero gli strumenti per l’esercizio delle nuove competenze già entrate in vigore: non il Senato federale, non il nuovo rapporto tra le funzioni legislative delle due Camere e delle Camere con il governo, non gli istituti destinati a risolvere gli inevitabili conflitti di competenza; perciò la legislazione stessa sarebbe impossibile. Dunque non si può aspettare il 2011. Perciò si andrebbe a nuove elezioni, e Berlusconi potrebbe vincerle. Il centro-sinistra, stroncato sul nascere, non potrebbe esibire alcun risultato, mentre il berlusconismo risulterebbe ormai costituzionalizzato, e non più anche formalmente eversivo. Così Berlusconi tornerebbe a palazzo Chigi non più come presidente del Consiglio, ma come Primo Ministro, che «determina» la politica del governo e di ogni dicastero. Non dovrebbe chiedere la fiducia alla Camera, ma solo comunicarle il suo programma; se al Senato avesse una piccola o nessuna maggioranza, ciò sarebbe del tutto irrilevante perché il Senato federale non avrebbe più alcun potere politico nei confronti del governo, e anzi il Primo Ministro potrebbe sempre avocare a sé e alla Camera le leggi su cui il Senato non si piegasse alla sua volontà; a sua volta la Camera non potrebbe fare nulla per correggere, limitare o condizionare il suo potere, che si tratti della guerra o delle pensioni, perché se essa perde la fiducia del Primo Ministro, questi, cioè Berlusconi, la può sciogliere come e quando vuole, senza che il povero Napolitano, presidente della Repubblica ormai solo simbolico, ci possa fare niente. Se poi un gran numero di deputati della sua stessa coalizione non ne potessero più di Berlusconi e volessero sostituirlo, lo potrebbero fare solo se raggiungessero da soli il quorum della maggioranza assoluta della Camera, senza il concorso di nessuno dei deputati dell’opposizione, i cui voti in questa circostanza non verrebbero nemmeno contati, sicché tanto varrebbe che se ne andassero sull’Aventino; basterebbe che 25 dei 340 deputati berlusconiani restassero a lui fedeli, per renderlo inamovibile, mentre a essere mandata a casa sarebbe la Camera tutta intera. In ciò consistono le geniali misure antiribaltone, che tanto piacciono anche a qualcuno della sinistra. Così sarebbe instaurato il regime del Primo Ministro. La sovranità popolare, che si realizza attraverso la rappresentanza parlamentare, sarebbe perduta, e l’unico sovrano che in sé ricapitolerebbe tutti i poteri delle istituzioni e del popolo, a cui sempre si appellerebbe come fonte della sua investitura, sarebbe lui, Berlusconi, e chiunque altro dopo di lui. Corte Costituzionale, Consiglio della Magistratura e ordine giudiziario sarebbero nelle sue mani; e così anche i diritti fondamentali dei cittadini e i valori sanciti nella prima parte della Costituzione, a cominciare da quelli della pace, della solidarietà, dell’eguaglianza e dell’unità nazionale sarebbero privi di ogni garanzia e vanificati nel potere incondizionato di una sola persona. Viene considerato indelicato chiamare ciò fascismo, ma è appunto da un regime tutto Primo Ministro e niente Parlamento e garanzie di libertà, detto anche fascismo, che l’attuale Costituzione aveva voluto trarci e metterci al riparo per il futuro. ❑ 13 ROCCA 1 LUGLIO 2006 Li br i 1. 4. BALCANI 14 M appunto dal risultato del Montenegro. Ed il Cremlino ha di recente avvertito che se l’Occidente avallasse l’indipendenza della Repubblica kosovara, non esiterebbe ad incorporare due repubbliche secessioniste georgiane: l’Abkhazia e la Ossezia del sud. dai prolegomena all’azione Come è facilmente rilevabile da queste prime righe, basta un niente per infiammare nuovamente regioni che a fatica hanno ritrovato negli ultimi anni calma ed equilibrio. Ed è anche per questo che l’Unione europea (Ue) ha seguito con grande prudenza e, possiamo dirlo, con entusiasmo zero il processo che ha portato il Montenegro a riacquistare una indipendenza che aveva perduto all’indomani della Prima Guerra Mondiale. Dopo il sì espresso dal 55,5% dei montenegrini al distacco dalla Serbia (la Repubblica federale di Jugoslavia fra i due paesi era stata formata il 27 aprile 1992), i vertici comunitari hanno fatto buon viso a cattivo gioco e l’Alto rappresentante della Ue per la politica estera, Javier Solana, ha lanciato un appello affinché Serbia e Montenegro stabiliscano ora «relazioni costruttive», offrendo anche i buoni uffici di Bruxelles. Un aiuto che, va detto, il premier serbo Vojislav Kostunica, favorevole al mantenimento dell’Unione, ha gentilmente ma decisamente respinto al mittente. Lo stesso Kostunica è convinto che i paesi europei non hanno fatto abbastanza per scoraggiare i progetti del Montenegro, anche se in ogni caso è condivisa da gran parte degli osservatori l’opinione che i ‘Venticinque’ hanno seguito senza entusiasmo il processo indipendentista, considerando molto incerto il cammino di questo piccolo e povero paese (13.612 kmq per 650.000 abitanti) verso l’Europa. il nodo Kosovo Per quanto si voglia far uso di pragmatismo, è un fatto che l’indipendenza del Montenegro avrà influenza in generale sui Balcani. E proprio quando sta cominciando il negoziato sullo statuto finale del Kosovo, provincia serba popolata al 90% da albanofoni, il precedente montenegrino rischia di far riesplodere un dibattito etnico faticosamente sopito e fornisce su un piatto d’argento magnifici argomenti ai kosovari che non sono disposti ad accettare nulla di meno che l’indipendenza totale. E se dopo aver conosciuto il risultato del referendum la Slovenia ha invitato le parti alla prudenza e la Croazia si è felicitata con l’ex nemico che dieci anni fa ne ostacolò il distacco dalla Federazione jugoslava, la musica fra i leader nazionalisti kosovari e nel governo albanese è stata molto diversa. «La separazione del Montenegro dall’unione con la 15 ROCCA 1 LUGLIO 2006 ROCCA 1 LUGLIO 2006 Maurizio Salvi ontenegro docet. Quando ancora il referendum sull’indipendenza della repubblica ex jugoslava dalla Serbia è lungi dall’aver esaurito tutti i suoi elementi di riflessione – il processo sarà concluso solo in settembre od ottobre – altre simili aspirazioni si profilano già all’orizzonte, guidate da leader nazionalisti dei Paesi Baschi, del Kosovo balcanico, e perfino della ben poco conosciuta Transnistria russa, staccatasi nel 1992 dalla Moldavia dopo una breve ma sanguinosa guerra. Qui il leader locale Igor Smirnov ha annunciato a fine maggio che «al massimo a settembre sarà organizzato un referendum» per «consultare la popolazione sull’ulteriore sviluppo della repubblica e sui rapporti con la Comunità degli stati indipendenti (Csi)», formata nel 1991 da una dozzina di nazioni un tempo gravitanti nell’area della ex Urss, e guidata oggi dalla Russia. Le ambizioni della Transnistria sono appoggiate dal governo di Mosca (gli abitanti della piccola regione sono russofoni, ndr.) che ha dispiegato là 2.000 uomini ma che si è finora ben guardato dal riconoscerne l’indipendenza nel timore di scoperchiare un pericoloso vaso di Pandora. La diplomazia del presidente Vladimir Putin è infatti sul chi va là ed osserva attentamente il processo in corso in Kosovo, dove le spinte indipendentiste sono di nuovo fortissime, alimentate effetto domino lo stato dell’ex Federazione ROCCA 1 LUGLIO 2006 Tenuto conto di queste premesse, e per poter intuire la sorte che può toccare al Montenegro, vediamo lo stato di salute dei diversi paesi nati dalla dissoluzione della Federazione che fu guidata del maresciallo Tito: Slovenia, Croazia, Macedonia e Bosnia-Erzegovina. – Slovenia: collocata all’estremo nord della defunta Jugoslavia e ancorata da secoli a tradizioni mitteleuropee, questa piccola e benestante repubblica alpina fu la prima a proclamarsi indipendente, sulla scia di un referendum – coronato dall’88% di sì – celebrato il 23 dicembre 1990. Un passo che aprì le porte a una sorta di effetto domino, ma che fu ingoiato a tutta prima dal regime jugoslavo di Belgrado, allora dominato dal serbo Slobodan Milosevic. Ciò avvenne in modo sostanzialmente pacifico malgrado l’iniziale intervento delle truppe federali, conclusosi, peraltro come una scaramuccia, in 10 giorni nell’estate 1991, per lasciare spazio già nel gennaio 1992 al pieno riconoscimento internazionale di Lubiana. – Croazia: seconda repubblica ex jugoslavia per dimensioni dopo la Serbia, la Croazia fu seconda – ma dopo la Slovenia – anche nella corsa alla secessione. Uno sbocco preparato dall’ascesa al potere a Zagabria dell’ex generale e ideologo nazionalista Franjo Tudjman (maggio 1990) e da una serie di modifiche legislative contestate come discriminatorie dalla minoranza dei serbi di Croazia (allora pari a oltre il 12% della popolazione locale). Ma suggellato soltanto nel maggio del 1991 da un altro referendum, boicottato dai serbi, nel quale i sì all’indipendenza furono il 92%. Un risultato avallato anch’esso dai Paesi occiden16 tali, ma destinato a scatenare scontri ben più sanguinosi di quelli della vicina Slovenia. Sino all’avvio di una guerra aperta durata fino al 1995, con iniziale prevalenza delle forze serbo-jugoslave e riscossa finale del nuovo esercito croato grazie alla cosiddetta operazione Tempesta, condotta nell’estate ’95 sotto tutela statunitense. – Bosnia-Erzegovina: vero fulcro della tragedia jugoslava, questo Paese etnicamente composito – 40% di bosniaco-musulmani, 35% di serbo-ortodossi, 20% di croato-cattolici – fu il terzo a dichiararsi sovrano. Lo fece con voto parlamentare il 15 ottobre 1991. Un passaggio seguito dalla cantonalizzazione etnica strappata a Lisbona dalla comunità internazionale al presidente Alija Izetbegovic (musulmano), ma da questi poi denunciata a favore di un referendum indipendentista svoltosi il 29 febbraio 1992 nonostante il boicottaggio della comunità serba locale. Referendum approvato dal 62,8% dei votanti e riconosciuto in aprile ancora una volta da Usa e Paesi dell’Ue, ma annientato immediatamente dallo scatenarsi di un conflitto atroce innescato dalle milizie serbobosniache di Radovan Karadzic e Ratko Mladic – armate e finanziate dal regime di Belgrado – con l’assedio di Sarajevo. Un accerchiamento destinato a durare tre anni, in un panorama punteggiato da eccidi, devastazioni, lager e stupri etnici, fra vaghi tentativi negoziali europei e trame di ipotetiche spartizioni della Bosnia attribuite sotto banco agli arcirivali Milosevic e Tudjman. Fino ai raid Nato contro le forze serbo-bosniache e agli accordi imposti dagli Usa a Dayton nel novembre 1995 – tuttora in vigore – sanciti dal riconoscimento dell’indipendenza di Sarajevo anche da parte di Belgrado: accordi precari, ma tali da mettere almeno fine a una mattanza pagata da 200.000 morti (8.000 solo nel famigerato massacro di civili di Srebrenica) e da moltitudini di profughi. – Macedonia: altro mosaico etnico (macedoni, bulgari, serbi, albanesi), ma confinato alla frontiera sud dell’ex Jugoslavia, la Macedonia fu quella che giunse all’indipendenza sotto la guida della meno nazionalista delle leadership balcaniche degli anni ’90. Presieduta dall’astuto Kiro Gligorov, veterano della nomenklatura tardo-titina, si proclamò a sua volta sovrana – quasi per forza d’inerzia – nel settembre ’91. Con un plebiscito pilotato (95% di sì), ma senza versare – in quel frangente drammatico – neppure una goccia di sangue. Maurizio Salvi OLTRE LA CRONACA quali tasche Romolo Menighetti ormalmente sono i delinquenti che mettono le mani nelle tasche dei cittadini e dello Stato. Ma Francesco Greco, magistrato già del pool di Mani pulite, ha proposto, al recente Festival dell’economia di Trento, di invertire i ruoli. Sia invece lo Stato a mettere le mani nelle tasche dei delinquenti, per contribuire a coprire il buco nei conti pubblici, lasciato dal precedente, creativo governo di centrodestra. In concreto, Greco ha sostenuto che, applicando seriamente le sanzioni amministrative previste dalle leggi, è possibile contribuire al risanamento del bilancio e alla ripresa economica. Egli ha spiegato che nelle «casse della magistratura», parcheggiati in un conto della Banca Nazionale del Lavoro, ci sono 200300 milioni di euro provenienti dai soli sequestri realizzati nell’ambito dell’inchiesta Antonveneta. Il magistrato ha poi segnalato altre fonti di entrate, connesse ad azioni della magistratura, praticamente trascurate. Si tratta dei conti esteri, sequestrati e congelati, senza che lo Stato ne entri in possesso. Si tratta, ancora, dei recuperi fiscali ed amministrativi connessi ai fatti di Mani pulite, corrispondenti a 1500 miliardi di vecchie lire, solo in minima parte riscossi. Se lo Stato, ha osservato Greco, non è in grado di curarne in prima persona la riscossione, perché non affidare ad un’agenzia il recupero dei crediti giudiziari, magari cartolarizzandoli, in modo da avere subito una parte di queste somme? Analoghe riflessioni si possono fare riguardo ai patrimoni illeciti della criminalità mafiosa. In proposito ne ha parlato, tra gli altri, il Presidente della Corte d’Appello di Palermo, Carlo Rotolo, all’inaugurazione dell’Anno giudiziario 2006. I tribunali del distretto di Palermo, ha detto, nel periodo considerato, hanno definito 68 misure di prevenzione patrimoniali, riguardanti considerevoli patrimoni confiscati. Dal canto suo la Corte d’Appello ha definito 41 misure patrimoniali. Una per tutte, quella a carico dell’imprenditore Vincenzo Piazza e di una trentina di prestanome, del valore, secondo le stime del- N l’amministrazione giudiziaria, di circa un miliardo di euro (2000 miliardi di vecchie lire). Cos’è che rende ora difficile per lo Stato entrare in possesso di questa ingente quantità di denaro per metterla al servizio della collettività? Tra gli ostacoli principali c’è la legge delega del 19 ottobre 2004 «per il riordino della disciplina in materia di gestione e destinazione delle attività e dei beni sequestrati o confiscati ad organizzazioni criminali». Tale norma ha attribuito il coordinamento dei sequestri e delle confische, originariamente assegnato ad un Commissario straordinario rivelatosi efficientissimo, alla più lenta e burocratica Agenzia del Demanio. La conseguenza – sconfortante e inquietante, sempre secondo Rotolo – è che nell’ottobre 2005, su un totale di 6556 beni confiscati, soltanto 2962 sono destinati (e le aziende destinate solo 227 su un totale di 671, di cui solo 54 ancora attive). Il fatto di stemperare i poteri di intervento e controllo dell’Autorità Giudiziaria su un’Autorità Amministrativa non adeguatamente rinforzata, ha reso più difficili gli interventi che il magistrato Greco ha auspicato a Trento, a causa anche delle sempre più raffinate tecniche di mimetizzazione progressivamente elaborate dalla criminalità organizzata. Tale orientamento della politica è stato, senza peli sulla lingua, evidenziato da Greco con l’affermazione che «da Tangentopoli in poi la politica è parsa più preoccupata di depotenziare la magistratura, che di lottare contro la criminalità economica», e che «sono state introdotte oltre 600 modifiche al Codice di Procedura Penale per rendere più difficile l’attività dei magistrati». A questo punto non ci resta che sperare in una radicale inversione di tendenza del nuovo governo di centrosinistra. In particolare ci attendiamo una maggiore attenzione e determinazione nei confronti della criminalità economica, anche per i possibili ritorni positivi in campo finanziario per la comunità tutta. Un impegno che dovrà svilupparsi non tanto con proclami, ma prima di tutto con un’attenta e scrupolosa applicazione delle norme già esistenti, nonché ripristinando quegli organismi che in passato hanno già dato prova di efficienza ed efficacia. ❑ 17 ROCCA 1 LUGLIO 2006 BALCANI Serbia – ha avuto modo di dichiarare il premier albanese Sali Berisha – insieme alla futura indipendenza del Kosovo faranno definitivamente archiviare una lunga storia di guerre nella regione». Una teoria che però, lo abbiamo visto, non convince affatto la Russia, disposta a radicali azioni preventive. I sensori della comunità internazionale sono comunque al massimo per cercare di bloccare sul nascere possibili spinte centrifughe. È in questo ambito che lo stesso Solana ha respinto categoricamente paralleli fra il referendum sull’indipendenza del Montenegro e il dibattito in corso in Spagna sull’autodeterminazione dei Paesi Baschi. Ogni raffronto su questo punto, ha risposto categoricamente l’alto responsabile comunitario ad alcuni giornalisti, «sfiora il delirium tremens». REFERENDUM COSTITUZIONALE perché no U ROCCA 1 LUGLIO 2006 non è vero In primo piano, per così dire, la fine del berlusconismo. Una fine che in realtà non è in attesa di ulteriori decisioni: è già stata decretata dalle elezioni politiche e ancora più chiaramente da quelle amministrative. Non è vero, dunque, che se vincessero i 18 «sì» Berlusconi resusciterebbe, anche se a quella eventuale vittoria la destra collega, più o meno sinceramente, la possibilità di un inizio di trattative. Chi non desidera un ritorno della destra deve votare «no» senza esitazioni. Non è vero neppure quello che la destra va promettendo in campagna elettorale, che, cioè, la vittoria del «sì» aprirebbe le porte alla possibilità di una revisione della Costituzione. Non è vero: le porte si aprirebbero, senza incertezze, a quelle sciagure che le novità comporterebbero, senza possibilità di ritorni indietro. La fine dell’unità nazionale, il predominio del nord sul sud, la pluralità delle Italie nella scuola, nella sanità, nella sicurezza. Il trionfo del ricco Nordest e della Lega che lo sostiene. scegliere no per migliorare Non che la vittoria del «no» escluda qualche correzione necessaria, qualche miglioramento, ma in un quadro conosciuto e già provato, se non addirittura garantito. Non abbiamo bisogno né della «devolution» né di quel forte premierato che sconvolgerebbe l’armonia così delicata fra esecutivo, legislativo, giudiziario. Armonia delicata, certamente non perfetta, ma che è molto pericoloso intaccare: soprattutto se a favore di qualche potere «forte» che cerca di prevalere e di soffocare. Al di là delle formule più o meno edulcorate, è in gioco addirittura la democrazia. Se ne sono accorti molti, anche al di là del centrosinistra che si è dichiarato decisamente per il no. Perfino l’arcivescovo di Milano Tettamanzi, una presa di posizione tanto più significativa perché pronunciata in un momento nel quale le autorità ecclesiastiche cattoliche fanno di tutto per mantenere l’imparzialità. Scrive il settimanale della diocesi di Milano: «La riforma nata come devolution appare troppo contrassegnata da una volontà di parte, tanto che essa si presenta a tratti come la giustapposizione e sistematizzazione delle richieste delle singole forze politiche che componevano la ex maggioranza». Ogni voto, dunque, è importante: speriamo che siano soprattutto i fautori del «sì» ad «andare al mare», come si suol dire, nei giorni fatali. Enrico De Nicola firma il testo della Costituzione approvata dall’Assemblea Costituente il 27 dicembre 1947 ROCCA 1 LUGLIO 2006 Filippo Gentiloni n referendum difficile quello che affrontiamo il 25 e 26 giugno: difficile perché carico di ambiguità, più o meno nascoste dietro la semplicità di quel «sì» e di quel «no». In gioco non soltanto la riforma costituzionale, ma la scelta fra due Italie. Una scelta fra diversi piani, fra i quali è bene fare chiarezza. Filippo Gentiloni 19 RAPPORTI CENSIS E DEMOS-COOP Cipputi si espande ben il 40% degli italiani si percepisce come appartenente al ceto popolare/classe operaia 20 C po trapela in tante manifestazioni del vivere individuale e sociale del nostro paese parlasse un’altra lingua, e che fosse necessario ascoltarla. O era solo tetraggine, malinconia, pervicace sordità? Non sembra. un balzo all’indietro Dai due rapporti sulla popolazione italiana pubblicati in questi giorni – uno sulla percezione delle appartenenze sociali, curato dalla Demos-Coop; l’altro sulla mobilità sociale, condotto dal Censis – scappa fuori un’Italia stagnante, depressa, pessimista. Non è solo per la malignità del ceto politico che, da un’elezione all’altra, si vedono più o meno le stesse facce. Non c’è ricambio, o è in quantità omeopatiche, anche nelle imprese e nel mondo dell’economia; anche nelle università e nel mondo scientifico; anche nelle amministrazioni e nei grandi servizi. I giovani restano fuori, le donne sgomitano ma stentano, sembra dominare l’immobilità. E se qual- cosa si muove, è un movimento che va sopratutto verso il basso. Lo studio del Censis che analizza i percorsi dei figli rispetto ai padri fotografa un paese in cui le dinamiche di mobilità sociale, così diffuse e frequenti negli anni sessanta-settanta del secolo scorso, sono diventate rarissime. Negli ultimi anni più del 40% degli occupati non ha migliorato la sua condizione lavorativa e sociale rispetto a quella dei padri. Una stasi che non riguarda solo i figli dei ceti operai, in cui solo l’8% approda a titoli di studio alti e da quelli al mondo delle professioni. Anche nei ceti medio-alti composti da liberi professionisti, dirigenti, piccoli imprenditori non c’è da stare allegri: solo il 40% dei figli ha mantenuto le posizioni della famiglia di origine, gli altri sono scivolati in basso, la maggior parte di poco, ma quasi il 10% ha fatto un vero e proprio balzo all’indietro, finendo tra i ranghi dei ceti popolari/operai. Ancora peggio è andata per i figli di quelli che una volta si chiamavano piccolo-borghesi, commercianti, tecnici, operai specializzati, lavoratori in proprio. Nonostante negli ultimi venti anni si sia sostanzialmente generalizzato l’investimento delle famiglie nell’istruzione secondaria superiore (oggi si iscrive agli istituti superiori il 98% dei licenziati della scuola media), lo sforzo non ha avuto risultati brillanti: nel 63% dei casi non c’è stato un neppur piccolo miglioramento, una parte ha peggiorato la propria condizione rispetto ai padri, solo il 13% ha fatto dei passi in avanti. Spiega Luciano Gallino, su Repubblica, che è proprio a questo tipo di fenomeni che si deve «la stagnazione delle idee, delle forme di pensiero, nella maggior parte dei campi della nostra cultura, perché le idee circolano e si innovano quando una quota elevata di persone circola sulla scala sociale, molti scendendo ma molti anche salendo dal basso ad occupare posizioni ben superiori a quelle di partenze». Sen- ROCCA 1 LUGLIO 2006 ROCCA 1 LUGLIO 2006 Fiorella Farinelli ipputi sembrava scomparso per sempre, travolto dalle magnifiche sorti e progressive della società postmoderna e postfordista. E con lui le vecchie amate/odiate classi sociali, quelle che davano identità collettive, quelle che producevano culture e – parola ormai vietata – ideologie. Tutto era destinato a rimescolarsi, e profondamente, in un mondo globalizzato, pervaso da tecnologie, innovazioni, meticciati, prossimità capaci di rompere ogni confine, di aprire ciò che era chiuso, di spazzare via antichi modi di essere e di pensare. La società aperta, finalmente. Le nuove opportunità. La libertà di andare, cambiare posto, crescere, contro il destino dell’immobilità e delle appartenenze. Il merito contro i vincoli dell’origine sociale, l’inventività contro la ripetitività, il nuovo – immancabilmente vincente – contro la conservazione. C’era chi sospettava, in verità, che non fosse proprio così e che quel sentimento di negatività, di insoddisfazione, di crisi che da tem- 21 perché la stasi? Ma che cosa, in Italia, produce questa tendenza alla stasi, questa difficoltà a introdurre meccanismi che producano mobilità? Ci sono indubbie responsabilità del sistema educativo – la scuola e l’università – che troppo spesso riproducono le differenze sociali e culturali originarie, senza promuovere e coltivare né il merito individuale né l’eccellenza delle strutture. Ci sono ritardi enormi nella formazione continua e permanente degli adulti, cui accedono prevalentemente le persone che hanno già livelli medio-alti di istruzione e che sono collocate in postazioni professionali medio-alte e che, in genere, privilegia l’aggiornamento addestrativo invece che lo sviluppo culturale e professionale. Ma c’è anche il peso, mai adeguatamente contrastato né da destra né da sinistra perché ne deriverebbero perdite di consensi, delle corporazioni che temono la concorrenza dei nuovi ingressi e che la contrastano in ogni modo: nelle imprese, nelle professioni, nella vita amministrativa. italiano = operaio? ROCCA 1 LUGLIO 2006 C’è del resto il segno di antichi conservatorismi, ma anche di nuove chiusure e paure, nello stesso modo di percepire la propria appartenenza sociale da parte degli italiani. Cipputi sarà anche dimagrito, in termini di addetti all’industria manifatturiera, ma è un fatto che dall’indagine di Demos-Coop viene fuori che ben il 40% degli intervistati si definisce appartenente alla «classe popolare-operaia». Mentre è il 50% che si definisce «ceto medio», e neppure il 10% si considera dirigente o borghese. In questo gran corpo del 40% non ci sono solo operai e disoccupati, ma anche casalinghe, una parte importante dei pensionati e degli impiegati, un terzo dei funzionari, il 25% degli imprenditori: tutta gente accomunata dalla percezione di stare nel gradino più basso della scala sociale, ma forse sopratutto dall’idea che è impossibile migliorare, e da esperienze non gratificanti nel lavoro e probabilmente anche nell’istruzione. È curioso, comunque, che anche tra commercianti, liberi professionisti, artigiani, insegnanti, quote non marginali si percepiscano come appartenenti al ceto popolareoperaio, mentre nel ceto medio convivono posizioni economiche e sociali diversissi22 me. Ma è di nuovo la mobilità sociale che definisce le linee di separazione: se nella classe che si definisce borghese-dirigente è una quota importante, pari al 39%, quella che ritiene di avere migliorato la sua posizione rispetto a 5 anni fa, nell’area dei ceti medi la percentuale scende al 28% e in quella popolare-operaia al 13,7%. privacy PAROLE CHIAVE paura del futuro In questo ultimo comparto sociale, del resto, se il 42% si sente stabile, il 44% si sente in declino. Non sono dunque molti, nella popolazione italiana, quelli che ritengono di essere forti, e in possibile ascesa; la maggioranza, appartenente al ceto sociale più modesto ma anche al ceto medio, è contrassegnata piuttosto da sentimenti negativi o preoccupati, teme di non riuscire ad andare avanti e perfino di andare indietro, ha paura per i propri figli, risparmia o investe nell’acquisto di immobili per tutelarsi da possibili future difficoltà, guarda con la massima inquietudine alle difficoltà di inserimento professionale stabile dei giovani, pensa che il sistema pensionistico e quello sanitario non li tutelino abbastanza, è ossessionata dalle tasse e dalla possibilità che un loro ulteriore incremento destabilizzi e peggiori le posizioni attuali. Il 51,8% dei ceti medi, per esempio, pensa che i giovani avranno una condizione inferiore rispetto a quella dei genitori; e il 26,1% che tra cinque anni la situazione economica personale sarà peggiore. una società chiusa Sarà anche – come sottolineano alcuni commentatori – l’effetto di una tradizionale sindrome di vittimismo e di pessimismo. Ma è indubbio che la grande diffusione di sentimenti così negativi scoraggia l’imprenditorialità, l’innovazione, il rischio, che hanno bisogno di fiducia nel futuro, di sguardi «lunghi» e di strategie individuali o collettive di ampio respiro. E favorisce invece – come sottolinea Ilvo Diamanti – la costruzione di cerchie corporative, di lobbies, di autotutele. È in questo quadro che la famiglia, la rendita, l’eredità – e non l’intelligenza, il merito, l’innovazione – vengono individuati come i principali meccanismi di promozione sociale ed economica. Una situazione difficile, in cui la percezione dell’instabilità individuale si impasta di conservatorismi e di rigidità sociali. Una società vischiosa e ripiegata su di sé, lontana mille miglia dai miti della società aperta. Romolo Menighetti a privacy delimita la sfera privata della vita di ogni individuo. Essa dà luogo al diritto, da parte di individui e gruppi, di autodeterminare in che misura l’informazione su se stessi sia comunicabili ad altri. La privacy normalmente riguarda i dati cosiddetti sensibili, cioè quelli che possono rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati e associazioni, nonché i dati personali in grado di rivelare lo stato di salute e la vita sessuale. Essendo però la vita dell’uomo caratterizzata da un sempre maggiore numero di scambi, necessariamente alcune informazioni devono uscire dalla sfera della riservatezza. Tale sfera non può perciò essere né fissa né immutabile. La privacy non è un diritto di recente acquisizione. Già nella Costituzione italiana, all’articolo 13, è compreso anche il diritto alla riservatezza. Vi si legge, infatti, che «la libertà personale è inviolabile», e che «è punita ogni violenza fisica e morale». Se di privacy si parla oggi con maggiore frequenza è perché la diffusione di sempre più tecnologicamente sofisticati strumenti di controllo, offre la possibilità di violarla più che in passato. Anche il notevole aumento dello scambio di informazioni attraverso l’intermediazione tecnologica (telefono, carte di credito, card al consumo, Internet, posta elettronica) rende più vulnerabile la privacy. L’utente, infatti, per accedere a questi servizi, deve acconsentire che una parte delle informazioni su di sé siano schedate e poste in banche dati. Da qualche tempo poi ha preso corpo una sempre più determinata volontà di interferenza da parte del potere politico, giudiziario ed economico nell’ambito privato degli individui. I primi due poteri con il pretesto della lotta al terrorismo si autolegittimano circa l’uso, spesso illegale, di strumenti come le intercettazioni telefoniche e su Internet. Il terzo per esercitare intrusive pressioni per orientare bisogni e consumi. Già si può parlare di una «società della sorveglianza», entro la quale la vita non è più L l’ambito della multiforme libertà, ma semplice entità da tenere continuamente sotto controllo per ricondurla entro binari decisi dai potenti. Perciò si estendono le forme di controllo sociale, non solo per la lotta al terrorismo, ma anche per ragioni di efficienza economica. Inquietante, ad esempio, è la decisione, presa nel dicembre 2005 dal Parlamento europeo, di riconoscere agli Stati il diritto di raccogliere e conservare i dati riguardanti tutte le comunicazioni elettroniche: telefonate, e-mail, accessi ad Internet. Ciò significa che al di sopra degli europei si consoliderà una gigantesca bancadati con migliaia di miliardi di informazioni e collegamenti, che permetterà di ricostruire l’intera rete delle relazioni personali, sociali, economiche, nonché gli spostamenti di ogni persona. Comunità di persone libere saranno così trasformate in nazioni di sospetti e di consumatori teleguidabili. E il futuro ci riserva intrusioni ancora più profonde. Si stanno, infatti, sviluppando, tra le altre, ricerche sulle impronte cerebrali, per mettere a nudo la memoria individuale onde individuare tracce che rivelino il ricordo di episodi passati, da assumersi come prova di partecipazione a certi fatti. E poi si prospettano chip elettronici sotto la pelle, etichette intelligenti, braccialetti elettronici per un controllo permanente. Questa grande trasformazione tecnologica muta profondamente il quadro dei diritti civili e politici, conferisce oscuri poteri alle istituzioni, modifica i rapporti personali e sociali, e incide sull’antropologia stessa delle persone. In Italia la tutela della privacy è prevista con la legge del 3 giugno 2003, che raggruppa il cammino legislativo effettuato in materia a partire dalla legge 675/1996. Però tale tutela non può limitarsi ad impedire la circolazione di qualche informazione personale. La tutela dei dati individuali è ormai questione di libertà e di democrazia. Va perciò affrontata non solo in chiave di chiusura nel privato, ma avendo come obiettivo il miglior positivo sviluppo delle nuove tecnologie, a vantaggio sia dei rapporti interpersonali, che del rapporto dei cittadini con la sfera pubblica. ❑ Fiorella Farinelli 23 ROCCA 1 LUGLIO 2006 RAPPORTI CENSIS E DEMOSCOOP za movimento non c’è vita, insomma, e tanto meno innovazione, che ha sempre bisogno del ricambio, sociale e generazionale. ROCCA 1 LUGLIO 2006 Pietro Greco 24 rischi della Banca genetica L o ha denunciato, con un esposto al garante della Privacy, un avvocato di Bolzano: anche in Italia ci sarebbe una banca dati, contenente tracce di Dna, raccolte dai carabinieri durante normali attività investigative. Una banca simile a quella realizzata in Gran Bretagna all’indomani degli attentati alle Torri Gemelle di New York nel 2001 e venuta alla luce, tra le polemiche, nei mesi successivi perché del tutto illegale. Non sappiamo se la denuncia dell’avvocato di Bolzano sia fondata. Se anche in Italia è stata allestita una banca che raccoglie e conserva dati genetici. E se, eventualmente, questa banca sia entro o oltre i confini della legalità. Sarà il garante o, eventualmente, la magistratura a chiarirlo. Tuttavia il problema esiste. E riguarda noi tutti. Perché in ogni momento qualcuno, fosse anche un’autorità di polizia, potrebbe violare uno dei diritti nuovi e già inalienabili dell’era biotecnologica, il diritto alla «privacy genetica». Il più preoccupato sulla possibilità di violare e quindi sulla necessità di garantire questa particolare forma di segretezza è certo Sir Alec John Jeffreys, il genetista inglese che per primo ha sviluppato le tecniche del «Dna fingerprint», letteralmente l’impronta digitale a Dna. L’idea e, soprattutto, la pratica di acquisire e conservare in una grande banca dati il profilo genetico di persone sospette da parte del- la polizia, sostiene Sir Alec John, è molto pericolosa: perché può essere fonte di gravi discriminazioni nei riguardi di singoli individui e di interi gruppi sociali. Meglio sarebbe acquisire e conservare il profilo del Dna dell’intera popolazione: almeno così saremmo tutti sulla medesima barca e nessuno potrebbe essere discriminato in partenza. Sir Alec John Jeffreys propose la sua provocazione l’11 settembre 2002, un anno dopo l’attacco terroristico alla Torri Gemelle di New York, quando si venne a sapere che la polizia di Sua Maestà Britannica aveva allestito una banca dati del Dna dove venivano conservati i profili genetici di 1,5 milioni di persone, non solo criminali, ma anche semplici sospetti. Il tema è tornato di attualità in Italia, quando un quotidiano nazionale (L’Unità) nelle scorse settimane ha dato notizia che un qualcosa di analogo sarebbe avvenuto nel nostro paese a opera dei carabinieri del Ris. Inevitabile la domanda: è lecito violare la privacy genetica e conservare il profilo del Dna di criminali conclamati e/o di criminali solo presunti? Il diritto alla riservatezza genetica di ogni singolo individuo ha la priorità anche nei confronti del diritto di tutti alla sicurezza? le indicazioni dell’Unione Europea A queste domande è già stata fornita una risposta in sede europea dal Gruppo per la tutela dei dati personali, nominato dalla Commissione di Bruxelles e diretto da Stefano Rodotà, che il 1 agosto 2003 ha adottato un documento molto chiaro: la raccolta dei dati biometrici che consentono l’identificazione e l’autenticazione/ verifica automatica di ogni individuo è una faccenda molto delicata e, quindi, deve avvenire con estrema cura. I dati biometrici sono molti. Alcuni di tipo comportamentale: la firma, la calligrafia, il modo di battere su una macchina da scrivere. Altri, ritenuti più affidabili, di tipo fisiologico: le impronte digitali, il riconoscimento dell’iride, l’analisi della retina, la geometria della mano, la struttura del Dna. Per tutti questi dati, sostiene il documento dell’Unione europea, la raccolta può avvenire, purché venga seguita una rigorosa procedura. Che prevede la lealtà (i dati non devono essere conseguiti all’insaputa della persona che ne è proprietaria), la giusta finalità (il fine deve essere determinato, esplicito e legittimo) e la proporzionalità (i dati raccolti devono essere pertinenti e non eccedenti rispetto ai fini). È bene, infine, che i dati biometrici non vengano conservati in una banca dati centralizzata, ma conservati in memorie localizzate, magari in possesso della persona interessata. Per evitare che, in maniera più o meno intenzionale, possano essere integrati con altri dati e/o finire in mani non disinteressate. Queste indicazioni – che dovrebbero va25 ROCCA 1 LUGLIO 2006 PRIVACY di chi sono figlio? Può, dunque, in materia di dati biometrici lo stato derogare ai principi di lealtà, giusta finalità e proporzionalità indicati dalla Commissione europea? Lasciamo ad altri la risposta in punta di diritto. Conviene, qui, rilevare che una specifica tecnica biometrica, quella che consente la determinazione della struttura del Dna di ciascuno di noi, apre problemi nuovi e diversi rispetto alle tecniche di raccolta delle impronte digitali o della geometria della mano. Il Dna, infatti, non contiene solo i caratteri utili per l’identificazione univoca e l’autenticazione/verifica di ciascuno di noi. Contiene molto di più. Contiene la nostra storia passata. E la storia passata della nostra famiglia: nel nostro Dna c’è scritto, per esempio, di chi siamo figli e di chi siamo fratelli. Un dato che, spesso, è sconosciuto persino al proprietario del Dna e la cui diffusione può sconvolgere la vita di un insieme, piuttosto ampio, di persone. a quali malattie vado incontro? Ma il Dna contiene, anche e soprattutto, il nostro possibile futuro. Certo, per la gran parte in termini probabilistici. Dall’analisi del nostro materiale genetico si ricava la propensione verso alcune malattie (si parla di una nuova medicina, predittiva) e, nei prossimi anni, si potrà forse misurare la nostra propensione verso alcuni compor- ROCCA 1 LUGLIO 2006 dello stesso Autore BIOTECNOLOGIE scienza e nuove tecnologie biomediche verso quale umanità? (vedi pag. 12) tamenti. Queste propensioni hanno un tasso di determinazione variabile: la certezza nel caso di malattie genetiche monofattoriali, solo una possibilità, più o meno labile, nel caso di malattie o comportamenti multifattoriali. E, tuttavia, la diffusione (intenzionale o non intenzionale) di queste informazioni può avere effetti enormi. Io stesso potrei non voler mai sapere, per esempio, se ho una propensione piuttosto alta a contrarre un certo tipo di tumore o anche solo il diabete. Potrei non volere che i miei familiari sappiano e si angoscino prima del tempo. Certo non voglio che conoscano la mie propensioni genetiche la mia assicurazione e/o il mio datore di lavoro: potrei perdere – come è successo negli Stati Uniti – la mia occupazione attuale e/o la mia futura copertura previdenziale. E già penso con orrore ai futuri «call center» delle industrie farmaceutiche che nell’era della medicina predittiva ti chiamano a ogni ora del giorno (e spesso della notte) per chiederti se, sulla base del tuo profilo genetico in loro possesso, vuoi comprare questo nuovo farmaco o essere aiutato a sviluppare quel particolare stile di vita. Certo, sotto accusa è il fatto che i carabinieri in Italia – così come la polizia inglese – raccoglie per fini di identificazione personale tracce di Dna e non informazioni genetiche. Ma da quelle tracce di Dna, raccolte peraltro all’insaputa del «legittimo proprietario», è facile ricavare le informazioni genetiche (di chi sono figlio, se ho una propensione a contrarre una certa malattia). Cosicché raccogliere l’impronta genetica non è esattamente come raccogliere un’impronta digitale o la geometria della mano. No, quella genetica è una privacy molto più delicata delle altre. E va più attentamente tutelata. Non solo rispettando nella maniera più rigorosa possibile le indicazione del Gruppo europeo diretto da Stefano Rodotà. Ma forse prevedendo qualcosa che in Italia ancora non c’è. Nel nostro paese la privacy biometrica è tutelata dal Garante, che è un’autorità amministrativa. È sufficiente? Non c’è forse bisogno di una legge organica, che tenga conto della specificità del Dna e della privacy genetica e contribuisca a farci entrare con maggiore fiducia, per coglierne le opportunità e minimizzarne i rischi, in quella particolare era della conoscenza che è l’era della medicina predittiva? UNESCO libertà di comunicazione Carlo Timio al 1993, nel quadro del riconoscimento del ruolo sempre più centrale che la libertà di stampa sta assumendo per la democrazia e lo sviluppo, l’Unesco si batte in prima persona per la libera divulgazione delle informazioni, in modo particolare nei paesi in via di sviluppo. I connotati di una società democratica vengono sviliti laddove mancano i media liberi ed indipendenti. La libertà di stampa costituisce, a tal fine, un formidabile strumento per la circolazione di informazioni volte alla formazione di una coscienza civile, al riconoscimento e al rafforzamento dei diritti umani fondamentali, a uno sviluppo economico sostenibile e al miglioramento della comunicazione tra i detentori del potere politico e i differenti livelli della società. La sfida dei media deve essere quindi quella di mettere a punto il potenziale di cui essi sono dotati nella promozione dello sviluppo umano. A tal riguardo, la comunicazione sociale rappresenta uno straordinario strumento per aprire un dialogo maggiore tra i vari settori della società civile, dal momento che l’informazione circola in due direzioni, dalla gente alle istituzioni e dai governi alla popolazione. Per sostenere riforme di governo, una maggiore trasparenza delle istituzioni pubbliche, unitamente a una buona governance, occorre che a tutti i cittadini sia fornita quel- D la pluralità di informazioni che li sappia mettere nelle condizioni di assumere decisioni responsabili. È indispensabile cioè sviluppare una stretta relazione tra una popolazione informata, attiva e critica e una classe dirigente responsabile. In un teatro di guerra o in uno stato dittatoriale in cui questo legame non si realizza, il ruolo della stampa non libera può risultare deleterio. La propaganda dello stato che ostacola la stampa libera ed indipendente è estremamente pericolosa, divenendo strumento di un progetto politico che appoggia le nefaste decisioni del governo. In Corea del Nord per esempio, dove vige una ferrea dittatura, la stampa locale è costretta a fare il gioco del governo, omettendo di documentare la tragica realtà economica e sociale nella quale versa l’intera popolazione. Un’altra testimonianza lampante è rappresentata dal governo cinese, che da un lato finanzia importanti investimenti per la diffusione del mezzo informatico e dall’altro crea un numero sempre più crescente di mezzi tecnologici volti a filtrare informazioni scomode. È importante sottolineare come la società dei mass-media può privare l’individuo della capacità di ragionamento. Una stampa è veramente libera, infatti, se riesce a criticare il potere costituito senza incappare nelle maglie della censura. Nei paesi in via di sviluppo, una stampa libera e indipendente può svolgere un ruolo di primissimo piano nell’edificazione di una nuova cultura dello sviluppo e nella diffusione di valori di riferimento. Il silenzio, al contrario, è il migliore alleato dell’ignoranza, intesa come incapacità di uscire dalla condizione di schiavitù mentale e fisica della povertà. Con il rapido affermarsi della globalizzazione, le condizioni di vita dei paesi occidentali sono sempre più condizionate dai problemi dei paesi del sud del mondo. Se non si tende a raggiungere un equilibrio tra le oasi di ricchezza e la diffusa indigenza, il pianeta piomberà inevitabilmente in una condizione di insostenibilità. In tutto ciò, il ruolo dei media può risultare determinante nell’ottica di formare, deformare e trasformare la realtà. Pietro Greco 26 27 ROCCA 1 LUGLIO 2006 PRIVACY lere per tutti i paesi europei, Italia inclusa – non fanno altro che riprendere le preoccupazione di Sir Alec John Jeffreys e organizzarle secondo la prudenza e la logica giuridica. Una banca centralizzata di dati biometrici, raccolti peraltro all’insaputa degli interessati, non è, in linea del tutto generale, auspicabile. Tuttavia, si dirà, la polizia di tutto il mondo da decenni conserva in banche date centrali alcuni dati biometrici, come le impronte digitali. Perché, si ritiene, che la sicurezza di tutti viene prima della privacy dei singoli. to principale è guadagnato da una donna. Ma il dato italiano è la risultante di situazioni territoriali fortemente divaricate. All’interno delle tante Italie, emerge sia il divario Nord Sud, sia quello interno alle diverse aree. La tavola riporta la distribuzione delle famiglie nei quinti di reddito equivalente (cioè riportando tutte le famiglie ad una composizione omogenea per eliminare gli effetti dovuti alla diversa numerosità dei nuclei familiari). In una situazione ipotetica di perfetta uguaglianza ogni quinto dovrebbe avere una quota pari al 20% del totale. Come si vede, invece, i divari sono clamorosi. Nel quintile più basso al Nord si trova il 10,5% delle famiglie, al sud il 38,8%; nei due quintili più alti al Nord il 50,3% delle famiglie, al sud solo il 20,6%. Nel Mezzogiorno non solo c’è la più alta sperequazione dei redditi, ma esiste un numero consistente di famiglie con un solo reddito e ben mezzo milione di esse sono addirittura senza occupati. Il contrasto Nord-Sud appare particolarmente drammatico se si guarda alle famiglie tenendo conto del numero di componenti: nelle coppie con un figlio il reddito medio al sud è di 24.491 euro, al nord di 35.852; in quelle con due figli al sud 24.666 al nord 38.262 e così via. Si potrebbe pensare che la divaricazione territoriale sia legata anche ai diversi livelli di scolarità presenti nelle diverse regioni. Ma non c’è RAPPORTO ISTAT le tante Italie C disuguaglianza profonda Vediamo alcune delle principali tessere del 28 mosaico dando priorità a quella più importante sui redditi perché per la prima volta l’Istat ha realizzato una indagine sui redditi familiari ed individuali (finora questo fenomeno era rilevato solo dalla Banca d’Italia, ma con una rilevazione meno estesa). Dall’indagine emerge l’esistenza di una disuguaglianza profonda. La disuguaglianza è maggiore che nei principali paesi europei ed inferiore solo a quella di Stati Uniti e Gran Bretagna (la qualcosa non è certo consolante se si pensa alle selvagge politiche di deregulation e di distruzione dei servizi e delle politiche sociali condotte in questi paesi). Misurando questo fenomeno con l’indice di concentrazione dei redditi, l’Italia si colloca nel gruppo di paesi con la più alta disuguaglianza accanto a Portogallo e Grecia, estremità geografiche e non solo, del continente europeo. Mediamente risultano più svantaggiate le famiglie con almeno un figlio minore, quelle dei giovani single, quelle in cui il reddi- redditi da lavoro All’interno di questo scenario generale si colloca la questione dei redditi dei lavoratori. Ad incidere molto sulla diseguale distribuzione dei redditi influisce particolarmente la fonte di reddito da lavoro. Tra i lavoratori dipendenti le differenze ci sono, ma sono relative (reddito familiare medio 27.111, al nord 29.238, al Centro 28.486, al Sud 23.036). Ma nelle famiglie Distribuzione delle famiglie per quintili di reddito 1° Nord Centro Sud Italia 2° 10,5 12,4 38,8 20 Quintili di reddito 3° 4° 17 19,3 24,9 20 di lavoratori autonomi il reddito medio è ben più alto ed i divari territoriali più marcati (reddito familiare medio 35.777, al nord 40.394, al Centro 36.915, al Sud 27.265). Ci sono 4 milioni di lavoratori a basso reddito (al di sotto dei 700 euro mensili pur lavorando per oltre il 60% più di 30 ore settimanali) di cui 1,5 vive in famiglie in condizioni di disagio economico. Questo fenomeno di bassi redditi da lavoro è for- 22,2 21,6 15,7 20 5° 24,8 22,4 11,4 20 Totale 25,5 24,3 9,2 20 100 100 100 100 te tra i giovani con lavoro autonomo (tra questi rientrano i co.co.co o i lavoratori a progetto) tra le donne, tra i lavoratori che non hanno raggiunto la licenza media. Nel primo quinto della distribuzione l’incidenza dei redditi bassi è del 17,2 al Nord, del 24,0% al Centro, del 57,2% al Sud. La profonda disuguaglianza che emerge da questi dati è un fattore notevole di vulnerabilità per l’intero tessuto sociale del paese. ROCCA 1 LUGLIO 2006 ROCCA 1 LUGLIO 2006 Aldo Eduardo Carra he in Italia si stessero accumulando diversi fattori di fragilità è stato evidenziato, in questi anni, da diverse parti sociali e da svariate ricerche. Si è trattato, però, sempre di analisi e denunce specifiche su categorie sociali o singoli fenomeni: sui pensionati o sugli anziani, sui giovani o sul precariato, sui redditi o sulle ricchezze. Tanti tasselli mai, però, assemblati e ricomposti in un mosaico. Il pregio maggiore del recente Rapporto annuale 2005 dell’Istat sulla situazione del paese è proprio questo: avere scattato diverse foto (del lavoro, dei redditi, delle condizioni di vita) ed avere con esse composto una grande foto di gruppo del nostro paese. Quello che ne emerge è identificabile con una parola chiave «vulnerabilità», una sorta di filo rosso che lega le diverse foto. solo questo: la divaricazione sussiste anche a parità di titolo di studio. Se, ad es. si guardano le famiglie secondo il titolo di studio emerge che in quelle senza titolo o con licenza elementare il reddito medio è 14.639 al sud e 18.760 al nord, in quelle con licenza media inferiore il reddito medio è 19.379 al sud e 27.476 al nord, in quelle con laurea il reddito medio è 38.078 al sud e 42.553 al nord. Scorrendo le singole regioni emerge che in tutte le regioni meridionali ed insulari il reddito netto familiare è inferiore a quello medio nazionale, in tutte quelle settentrionali, tranne solo la Liguria, superiore. Volendo fare un bilancio, per i poveri del sud c’è un doppio disagio: non solo il reddito medio delle famiglie del sud è pari a tre quarti di quello delle famiglie del nord, ma il divario tra poveri e ricchi all’interno del sud è più alto di quello che si registra all’interno del centro e del nord. 29 RAPPORTO ISTAT i più poveri e i più ricchi Una risposta a questa domanda la fornisce una ulteriore analisi della distribuzione delle famiglie in quintili di reddito. Nel primo quintile, cioè con il livello di reddito più basso rispetto alle altre famiglie della stessa tipologia si trovano, nelle coppie con persona di riferimento (donna della coppia) inferiore a 35 anni, l’11,4% delle famiglie e nelle coppie con persona di riferimento da 35 a 64 anni il 12,1% delle famiglie. Ma se si va alle coppie con almeno un figlio minore vi si trovano il 27,7% delle famiglie e se si va alle famiglie monogenitore con almeno un figlio minore vi si trovano il 37,2% delle famiglie. All’estremo opposto con il più alto livello di benessere si trovano le famiglie con due o più lavoratori autonomi. È in questo scenario che si collocano i dati sulla povertà. Nel 2004 risultano essere relativamente povere due milioni e mezzo di famiglie nelle quali vivono sette milioni e mezzo di persone. Ci sono, secondo l’Istat, quattro gruppi di famiglie povere: le coppie anziane (33%), le donne anziane sole (20%), le famiglie con lavoratori a basso profilo professionale(39%), le famiglie con persone in cerca di occupazione nel Sud (8%). un pasto ogni due giorni ROCCA 1 LUGLIO 2006 In alcuni casi il disagio economico che trapela da questi dati si traduce in situazioni di vera e propria deprivazione materiale e di insicurezza. Il 7,5% di famiglie ha difficoltà a consumare un pasto adeguato ogni due giorni, il 30% delle famiglie ha grande difficoltà ad arrivare a fine mese con il reddito conseguito, il 27,5% delle famiglie non riesce a far fronte ad una spesa imprevista di mille euro. Nell’ultimo anno una famiglia italiana su 20 almeno una volta non ha avuto le risorse per acquistare il cibo, una su dieci ha 30 avuto difficoltà ad affrontare le cure mediche o a pagare le bollette. Queste difficoltà sono più forti nelle famiglie monogenitore con figli minori: il 20% di queste ha avuto periodi in cui non aveva soldi sufficienti per comprare il cibo, il 17% per affrontare le malattie, il 20% per il pagamento delle bollette. Si tratta di fatti oggettivi che incidono anche sulla percezione che le persone hanno del loro status. Il 49,1% delle famiglie giudica pesante il carico delle spese per la casa (nel sud il 56%), il 54% quelle per l’affitto, il 55% quelle per il mutuo. sottoinquadramento e mobilità sociale Ad accrescere la sensazione di una società vulnerabile che emerge dai dati finora analizzati si aggiungono due ulteriori tessere del mosaico. La prima riguarda il sottoinquadramento. Quasi 4 milioni di occupati risultano sottoinquadrati. Si tratta da un lato di giovani: un sottoinquadramento legato alle difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro ed alla breve durata dell’esperienza lavorativa è quasi sempre associato al lavoro a termine. Ma si tratta anche, per un terzo, di lavoratori adulti. Questo fenomeno di utilizzo della flessibilità per non valorizzare il capitale umano sembra più diffuso nelle imprese tradizionali che così riescono a comprimere il costo del lavoro ed a restare competitive senza innovare. Fino a quando queste imprese riescono a restare competitive comprimendo i salari esse non avranno stimolo ad innovare ed a rischiare. Così a bassi salari finiscono per corrispondere imprese arretrate con bassa produttività e scarso futuro. L’altra ed ultima tessera del mosaico riguarda la «mobilità sociale». La mobilità sociale è il processo che consente alle famiglie nel tempo di muoversi tra posizioni sociali diverse. Essa costituisce un indicatore importante del carattere di una società perché ne misura la sua fluidità. La mobilità intergenerazionale è quella tra genitori e figli, quelle intragenerazionale è quella che si sviluppa nel corso della vita. Confrontando la classe di origine di un intervistato con la classe di destinazione si misura il tasso di mobilità assoluta. Ebbene il Rapporto Istat ricordandoci le elevate possibilità di mobilità in paesi come la Danimarca, la Finlandia ed il Canada, superiori a quelle di Stati Uniti e Gran Bretagna, dà dell’Italia un panorama molto lontano da queste realtà. Un paese caratterizzato da disuguaglianze forti nelle possibilità di mobilità sociale che in parte sono il portato di eredità del passato, ma in parte sono anche il prodotto di trasformazioni delle strutture familiari e del mercato del lavoro che non favoriscono la mobilità sociale. Il regime di mobilità appare in Italia molto rigido e la classe di origine delle persone influisce fortemente sulle possibilità di movimento nello spazio sociale. Su 100 figli di genitori che appartenevano alla borghesia il 40% appartiene anche esso alla borghesia, il 24% alla classe impiegatizia, il 20 alla piccola borghesia urbana e solo il 16% alla classe operaia urbana. Su 100 figli di genitori che appartenevano alla classe operaia urbana il 50% appartiene anche esso alla stessa classe operaia e solo il 9% alla borghesia. La collocazione delle persone nelle diverse categorie sociali è, quindi, ancora fortemente influenzata dalla collocazione sociale della famiglia di origine. Non siamo certo al medioevo, ma nel nuovo millennio è giusto attendersi qualcosa di più. È chiaro da tutto quello che abbiamo visto che non siamo tanto un paese economicamente povero, ma un paese con pezzi di popolazione agiata e pezzi di vera e propria povertà. vulnerabilità da disagio sociale Ciò significa forti contrasti e forti livelli di disagio sociale. Un disagio che, sempre secondo l’Istat, rende particolarmente vulnerabili specifici soggetti come i giovani con bassi livelli di istruzione, i lavoratori a basso reddito, e gli anziani. In conclusione, quindi, quello che il nuovo governo prende in mano è un paese «vulnerabile» per le troppe incrostazioni e le troppe situazioni di disagio sociale. Una vulnerabilità-fragilità certamente accentuata dalle politiche del governo di centro destra, ma non attribuibile solamente e tutta ad esso. un nuovo metodo di governo È certamente solo un caso che un Rapporto con questi contenuti esca in questi giorni, ma nella amarezza di scoprire quanta fragilità c’è nella società italiana c’è anche una occasione per chi si accinge a governare: sapere bene quali sono le priorità da affrontare. Prenderne atto per il nuovo governo significa sapere subito quale realtà si eredita e da dove si parte. Speriamo che queste conoscenze servano a suggerire anche un nuovo metodo di governo. Innanzitutto occorre esplicitare quali soggetti sociali si vogliono favorire per attenuare le loro situazioni di disagio cioè scegliere con chiarezza e trasparenza a chi si dovrà dare e perché (il Rapporto fornisce abbastanza elementi per individuare le situazioni ed i soggetti). In secondo luogo occorre fare su questo comunicazione e costruire, quindi, un ampio consenso, cioè coinvolgere i cittadini tutti in un disegno di maggiore giustizia sociale. Da qui dovrebbe discendere la necessità di reperire le risorse necessarie per dare più sicurezza e più speranza a quelli che non ne hanno e di conseguenza a tutta la collettività. Come dire cercare innanzitutto il consenso di chi deve avere e di chi è sensibile alle domande di giustizia. Il dissenso di chi dovrà dare potrà anche esserci dopo, ma sarà certamente meno forte. Un approccio, questo, diverso da quello che c’è stato nel corso della campagna elettorale e che speriamo lo diventi nella gestione delle politiche di governo. ROCCA 1 LUGLIO 2006 Quando questa vulnerabilità si trasforma in vera e propria povertà? Aldo Eduardo Carra 31 QUESTIONI ETICAMENTE SENSIBILI politica libertà di coscienza etica pubblica 32 L (oggi sempre più numerosi e complessi) relativi all’area della bioetica (e, più in generale, a tutto ciò che ha a che fare con scelte che coinvolgono più direttamente la coscienza). la questione di metodo Sul terreno del metodo (e della sua valenza politica) è difficile dare torto a chi asserisce che si è trattato di un intervento troppo precipitoso e inopportuno. Il fatto che il governo si fosse appena insediato e non avesse ancora potuto elaborare una posizione collegiale – lo stesso comportamento si è peraltro verificato anche in altri casi con esternazioni di singoli ministri a dir poco imprudenti –, ma soprattutto la scarsa distanza temporale dal referendum sulla procreazione medicalmente assistita, con il quale è stata confermata di fatto la legge 40, che aveva assunto una posizione di netto rifiuto nei confronti della sperimentazione sulle cellule staminali embrionali, avrebbero (forse) dovuto sconsigliare il ministro dal prendere, almeno immediatamente, tale decisione. D’altra parte, si deve ricordare a chi ha condannato (altrettanto precipitosamente) l’intervento di Mussi facendo leva in modo particolare sull’esito del referendum, che la stragrande maggioranza degli italiani ha scelto l’astensione, mentre chi ha votato si è, in larghissima misura, pronunciato a favore dell’abrogazione degli aspetti più restrittivi della legge. È vero che l’astensione è stata motivata (in percentuale peraltro piuttosto ristretta, stando agli esiti delle analisi) dalla volontà di impedire che si addivenisse al quorum – tale è stata la strategia (tutta politica) adottata dalla Cei, e in particolare dal Card. Ruini che ha, fin dall’inizio, intuito che era questa l’unica via per evitare l’abrogazione della legge –; ma non si può negare che il quoziente di gran lunga più consistente degli astenuti non lo ha fatto per simpatia verso la legge, ma per ragioni che spaziano dal qualunquismo (purtroppo largamente diffuso) al disinteresse personale nei confronti del tema, fino all’imbarazzo (per molti aspetti giustificato) nel dover rispondere a quesiti che si riferivano a questioni tecnicamente difficili e sulle quali non era semplice pervenire a valutazioni univoche. Questi dati non giustificano, ovviamente, in modo pieno il comportamento del ministro Mussi, ma evidenziano la pretestuosità di alcuni interventi scandalistici, in cui si è addirittura parlato di blitz, facendo leva su un’interpretazione unilaterale, e perciò deviante, del responso delle urne. il significato dell’intervento e i nuovi dilemmi Ma più che le questioni di metodo (per quanto importanti) grande attenzione esigono le questioni di merito riguardanti il significato dell’intervento e, più in generale, il ruolo della politica di fronte ai temi «eticamente sensibili», che hanno assunto (e assumeranno ancor più in futuro) un peso sempre maggiore, anche in ragione della rapidissima evoluzione del progresso tecnologico in campo biomedico. Va detto intanto, per circoscrivere la portata della decisione di Mussi, che – come egli stesso ha del resto ripetutamente ribadito – il ritiro della firma da parte dell’Italia al documento ricordato non comporta alcuna modificazione alla normativa attualmente in vigore nel nostro Paese – quella stabilita dalla legge 40 e che il re- ROCCA 1 LUGLIO 2006 ROCCA 1 LUGLIO 2006 Giannino Piana a decisione, autonomamente assunta dal Ministro per l’Università e la Ricerca scientifica del governo Prodi onorevole Mussi, di ritirare la firma dell’Italia (data dal precedente governo) ad una «dichiarazione etica» con la quale alcuni Paesi europei intendevano impedire che l’Europa finanziasse la ricerca sulle cellule staminali embrionali, anche in quegli Stati che hanno legislazioni meno restrittive della nostra in questo campo, ha suscitato (e non poteva che suscitare) reazioni discordanti e forti perplessità. A giocare un ruolo decisivo sulle posizioni prese da ambedue i fronti è stata l’emotività, con il rischio di valutazioni affrettate e l’assunzione di atteggiamenti di diffidenza e di contrapposizione. La possibilità di uscire da questa pericolosa «distretta» e di affrontare con serenità ed oggettività tale questione è dunque strettamente legata alla capacità di distinguere con chiarezza il livello del metodo adottato da quello del merito (cioè del reale contenuto dell’intervento) e di non eludere (soprattutto) il problema di fondo che concerne il compito proprio della politica nei confronti di temi 33 ROCCA 1 LUGLIO 2006 dello stesso Autore ETICA SCIENZA E SOCIETÀ i nodi critici emergenti (vedi pag. 12) te, vanno razionate secondo criteri di equità rispettando la scala oggettiva dei bisogni (o dei diritti). l’urgenza di una soluzione politica Ma come intervenire? Secondo quali modalità e in base a quali parametri? Anche a questo livello (che è poi quello più strettamente politico) il ricorso alla semplice libertà di coscienza, cioè il lasciare all’interno dei partiti e dei poli presenti sullo scenario politico che ciascun individuo decida singolarmente, facendo semplicemente appello al proprio sentire etico ispirato a valori religiosi o laici non è sufficiente e rischia di non essere neppure corretto. E questo non solo perché si finirebbe per acutizzare la contrapposizione, spingendo ciascuno a ribadire il proprio convincimento e impedendo di dare vita, mediante il dialogo, a una forma di mediazione capace di interpretare in modo più globale la realtà (e non solo una parte di essa); ma anche (e soprattutto) perché, stante la gravità delle questioni sul tappeto, la via del confronto è la più idonea a trovare convergenze, che oltre a rendere possibile il superamento della mera proceduralità, sappiano interpretare correttamente l’ethos vissuto ed essere per questo accette alla maggioranza della gente. L’etica pubblica, alla quale occorre che lo Stato ispiri la propria condotta sul terreno legislativo, non può coincidere con l’una o con l’altra concezione morale presente nel tessuto sociale – si incorrerebbe altrimenti nel rischio di universalizzare un’etica particolare imponendola dall’alto e trasformandola in ideologia –; deve essere invece frutto di un dibattito pubblico in cui confluiscano, interagendo tra loro, i contributi delle varie tradizioni etiche presenti nella società. Partiti politici e aree di governo e di opposizione non possono rinunciare ad assumere una posizione precisa su tematiche tanto importanti e incandescenti. Se si intendono affrontare infatti seriamente le controversie presenti, a tale riguardo, anche nel nostro contesto sociale occorre restituire centralità alla politica, cui spetta l’incombenza di fare sintesi delle molteplici posizioni affioranti nella società e di giungere, responsabilmente e in modo partecipato, all’assunzione di decisioni, che siano realmente in grado di perseguire, per quanto possibile, il bene di ogni uomo e dell’intera collettività umana. Giannino Piana 34 ESPERIENZE rivivere dopo il lutto Sabrina Magnani olitudine, abbandono, rabbia, impotenza, frustrazione, sensi di colpa: sono queste alcune, le più evidenti, sensazioni che prova chiunque abbia dovuto, almeno una volta nella sua vita, affrontare la perdita di una persona cara. Non solo. Le relazioni sociali improvvisamente si interrompono, perché è difficile, quasi impossibile, stare accanto a chi ha subito una ferita così grande. Il lavoro deve subito riprendere, visto che per legge sono previsti solo tre giorni di permesso retribuito. Le cose pratiche da sistemare sono tantissime e non si sa da che parte iniziare, con uno spirito ferito che certo non aiuta a essere lucidi e vigili sulle decisioni da prendere in merito. Anche in famiglia un supporto non è facile da trovare perché ogni suo membro vive questo evento così singolare alla sua maniera, e spesso ciò porta a dividersi invece che a unirsi. Ma soprattutto, il lutto è uno di quegli eventi che la società contemporanea, fondata sull’efficientismo e sull’individualismo, non vuole vedere. Negando la morte e tutto ciò che ad essa può condurre e può dar luogo, essa tende a nascondere un evento luttuoso. Per chi lo vive non rimane altro che attraversarlo da solo, o continuando la vita di sempre nascondendo nel privato le sue sofferenze, per non essere del tutto isolato, o isolandosi maggiormente per cercare risposte e soluzioni parziali al proprio disagio che però possono essere trovate anche dopo molto tempo. L’esito è, nella maggior parte dei casi, un lutto bloccato, non espresso, e che, come tale, può dar luogo in futuro a depressioni o disagi di vario tipo che possono rimanere latenti ed esplodere quando meno ci si aspetta, anche a distanza di anni, o, al contrario, esprimersi ma in maniera da non creare un nuovo equilibrio, tale da permettere di continuare a vivere con serenità. «Lo diceva già ai suoi tempi Dilthey, un sociologo dell’800, che l’unica cultura che S lascia solo l’uomo con la morte è quella contemporanea, con la crisi della fede nell’aldilà. Ancora oggi siamo dentro a questa logica. Si pensa che il lutto sia un evento privato e che non sia possibile nessun tipo di aiuto. Niente di più sbagliato». A parlare è Francesco Campione, psicologo e docente universitario presso la facoltà di Psicologia di Bologna, un interesse e un impegno ventennale nello studio del lutto e dell’assistenza a persone che ne sono colpite. «Essendo la nostra una società efficientista ed individualista, che nasconde la morte, uno dei primi effetti del lutto è la crisi delle relazioni sociali – conferma il docente –. Se muore il coniuge o il compagno nessuno ti cerca più perché non sei più una coppia, se muore un figlio nessuno ti cerca più perché non sa cosa dirti. Si tende a dire «dimentica, vai avanti» in maniera molto superficiale, ci si può anche adeguare ma così il lutto rimane bloccato, spesso per anni, dando luogo ad altri inconvenienti gravi, come le depressioni». Eventi, per altro, sottolinea Campione, con costi sociali ed anche economici altissimi per la società. un vuoto sociale che può essere colmato Un vuoto, dunque, che il prof. Campione ha, a un certo punto della sua attività di docente, voluto affrontare. Anni di studio e di ricerca gli hanno permesso di avere i mezzi culturali per creare un servizio in grado di essere di sostegno alle persone colpite da un lutto. Autore dell’unico testo ancora oggi esistente adottato in ambito universitario sul tema – è stato l’antesignano di un progetto che ha preso avvio agli inizi degli anni 90 a partire dall’esperienza condotta con le famiglie e i parenti dei malati terminali presenti presso l’Hospice di Bentivoglio, in provincia di Bologna, una delle poche strutture previste per legge sul territorio nazionale per queste per35 ROCCA 1 LUGLIO 2006 QUESTIONI ETICAMENTE SENSIBILI ferendum non ha cancellato – a proposito dell’uso delle cellule staminali embrionali. La presa di posizione di Mussi aveva infatti come unico scopo quello di evitare che l’Italia assumesse un atteggiamento preclusivo nei confronti di quei Paesi europei, che hanno fatto sul terreno legislativo scelte diverse dalle nostre. Ciò che, in altre parole, si intendeva con tale decisione rispettare era la libertà di Paesi in cui la ricerca sulle staminali embrionali è ammessa, non impedendo loro di fruire di fondi europei per poterla attivare o proseguire. Il che, tutto sommato, risponde a un criterio di tolleranza, che è la base dell’esercizio della democrazia. Ma la questione più radicale sollevata dall’intervento di Mussi riguarda – riteniamo – il ruolo che la politica è oggi chiamata ad assumere nei confronti di questioni delicate come quelle «eticamente sensibili», nel contesto di una società caratterizzata da un grande pluralismo, non solo culturale e ideologico ma anche etico. Il problema che è qui, in ultima analisi, in causa e che costituisce uno dei nodi critici più scottanti della situazione attuale nell’ambito della bioetica, concerne lo statuto umano dell’embrione e rinvia alla diversa concezione che di esso affiora nell’odierno dibattito culturale in cui si scontrano spesso posizioni inconciliabili. Il rilievo assunto da questa (come d’altronde da altre tematiche) rende del tutto insufficiente il ricorso alla semplice libertà individuale, e perciò il rimando alla coscienza soggettiva quale unica istanza sulla quale basare le proprie scelte. Lo Stato non può rimanere «neutrale», limitandosi a rispettare la volontà dei singoli; deve intervenire direttamente, quando in gioco vi è il bene umano (non solo del singolo ma della collettività e, in senso più allargato, della stessa specie). Non si possono infatti lasciare nelle mani del singolo individuo questioni (come quella dell’embrione e della fissazione dei limiti alla sua manipolabilità) contrassegnate da una forte valenza sociale anche in termini di allocazione delle risorse, che, in ragione del loro limi- 36 di essere legittimate a esprimere le proprie emozioni, piangere, essere arrabbiati, e di essere ascoltate – continua il docente –. Ma anche di poter essere aiutati nelle cose concrete, da sbrigare alla morte di una persona cara, come svuotare gli armadi, togliere le sue cose, tutti gesti molto difficili da compiere». dalle cose pratiche al counseling Fondamentali sono i primi due mesi che seguono la morte di una persona cara. È in questo periodo che si concentra l’aiuto che l’associazione Rivivere può offrire, sottoforma sia di aiuti per adempiere a necessità pratiche che di counseling. «Si comincia insieme, per esempio due genitori, ma poi quasi sempre si continua separatamente, perché l’elaborazione del lutto avviene per ognuno di noi in maniera diversa. C’è chi si sente di andare al cimitero tutti giorni e chi non ci vuole nemmeno entrare, chi si arrabbia e chi non reagisce. Le reazioni sono personali e se non si agisce su questo si rischiano di incrinare anche i legami relazionali tra i ‘superstiti’». È proprio questo il momento in cui molte coppie vanno in crisi e si separano, o che aumentano le incomprensioni tra membri della stessa famiglia: dunque, aiutare nell’elaborazione di un lutto ha anche un significato di prevenzione sociale e relazionale. Nella maggior parte dei casi due-tre mesi sono sufficienti per affrontare questo passaggio, ma non mancano casi, in percentuale tra il 10 e il 15, che occorre una psicoterapia più approfondita. «Si tratta di casi – spiega Campione – in cui erano latenti altri tipi di disagi, magari altri lutti lontani nel tempo ma non elaborati che emergono in occasione di un altro lutto, di un’altra crisi. Queste persone le mandiamo al servizio di psicologia dove hanno la possibilità di poter avere un altro tipo di aiuto, mirato». Nei dieci anni di presenza dell’associazione Rivivere – che da qualche mese gode anche di una bella sede nel centro di Bologna donata da una fondazione privata – circa 2000 sono state le persone incontrate e che hanno ricevuto assistenza, un numero consistente grazie anche alla collaborazione con varie realtà cittadine. «Abbiamo cercato di farci conoscere presso tutte quelle realtà che hanno a che fare con famiglie in crisi, come gli operatori sanitari, le realtà di pronto soccorso e pronto intervento, re- altà come la Caritas, con il comune stesso, affinché il nostro servizio fosse il più possibile conosciuto e ci inviassero persone bisognose». Il servizio si è differenziato nel tipo di interventi: Niobe è l’aiuto dato a persone colpite da lutto per morte naturale, Apollodoro per quelle persone il cui lutto è stato causato da morte improvvisa e violenta (per esempio un incidente autostradale), mentre in via di allestimento è anche un servizio on line per i bambini. «C’è differenza, e non poca, tra una morte naturale, per esempio da malattia, e una morte improvvisa, per esempio, da incidente stradale – evidenzia il prof. Campione –. Abbiamo anche creato un corso di formazione adeguata per chi interviene professionalmente in questi casi, come vigili del fuoco, poliziotti, ecc.». La formazione è un altro punto fondante dell’associazione, l’aspetto su cui si concentra il contributo dell’università al progetto. Nel corso degli anni presso il dipartimento di Psicologia sono stati allestiti un paio di master, uno in tanatologia e in cure palliative, cui possono accedere gli studenti e anche chi proviene da altri ambiti e vuole approfondire la sua conoscenza su questo ambito. Una formazione adeguata ricevono sia i dieci psicologi che attualmente svolgono attività di semivolontariato presso l’associazione, sia i volontari, un’altra decina circa, che si rendono disponibili per questo servizio. un servizio anche per i bambini Importante è anche l’aspetto che riguarda l’assistenza dei bambini di famiglie colpite da lutti. «Su come affrontare il tema della morte con i bambini c’è una polemica fra chi dice che bisogna educarli a pensarla come un fatto naturale e chi come fatto personale. Secondo me manca qualcosa. Visto che sono vere entrambe le cose ciò che è più importante è dire cose che poi possano essere aperte alle loro domande. Se uno dice ai bambini che il nonno va in cielo e lui ti chiede com’è fatto il cielo bisogna cercare di rispondergli, in qualche maniera, facendo leva anche su quel po’ di magico che ancora esiste nella visione del mondo dei bambini. La cosa peggiore è interrompere la comunicazione, dirgli qualsiasi cosa che poi non ha possibilità di essere sottoposto alle sue domande. Il servizio on line che vogliamo creare avrà anche questa funzione, di esser capaci di parlare con un linguaggio adatto a loro». Un approccio personale è dunque ciò che caratterizza maggiormente l’aiuto dato da Rivivere. Anche per gli adulti. «L’importante è non dare risposte standardizzate – continua Campione –. Anche persone di fede che si rivolgono ai gruppi di preghiera, e ne ho avuto esperienza, ciò che rifiutano non è tanto questo tipo di aiuto, quanto il fatto che si dice, per esempio, che quando uno muore è felice perché incontra Dio. Ho avuto esperienza di una mamma che aveva perso un figlio ventenne che mi ha detto che lei ci crede che suo figlio continua a esserci nell’aldilà, ma, conoscendolo, mi diceva, sarà certamente arrabbiato per essere morto così giovane, lui che era un ragazzo molto dinamico e vitale. Prima di ogni tipo di risposta, anche religiosa, che è pure legittima e valida, occorre prima di tutto ascoltare, un atteggiamento di empatia, fondato sulla comunicazione». Il risultato principale di questo aiuto è la capacità di trasformare il rapporto. «Ogni distacco – conclude Campione – può essere elaborato trasformando quella relazione in qualcosa altro. La madre che perde un figlio può farlo vivere in sé così come lei lo ha conosciuto o vivere per lui, ma deve saper trasformare il rapporto, non più fondato sulla possibilità di vederlo o di toccarlo. E questo indipendentemente dalla fede religiosa. Riuscire a farlo significa, in definitiva, crescere». Per il futuro il prof. Campione ha le idee chiare. «Il nostro è un intento prima di tutto culturale. Il lutto non è riconosciuto nella nostra società, non si vuol vedere. Da qui dipende anche il fatto che di fronte a un lutto non si sa cosa fare. Sono venuti a mancare anche quei gesti rituali che un tempo un po’ tutti sapevano quando muore una persona – delucida il docente –. Chi ha un lutto oggi è totalmente abbandonato a sé, nel momento più difficoltoso. Il nostro intento è continuare ad assistere più persone possibile, facendoci conoscere. Già molti oggi ci chiamano da tutt’Italia, e siamo in procinto di aprire delle sedi in altre città. Soprattutto vogliamo creare una cultura intorno a questo evento, togliendolo dallo stato di nascondimento in cui è tenuto, rompere questo tabù. Abbiamo in procinto anche eventi culturali come un premio di disegno, per l’autunno, e altri che vorremmo allestire proprio a questo scopo. Ciò che vogliamo affermare è il diritto al lutto per tutte le persone, così come c’è quello alla salute. Un diritto da tutelare e perseguire». ROCCA 1 LUGLIO 2006 ROCCA 1 LUGLIO 2006 ESPERIENZE sone. «Quando abbiamo iniziato non c’era nessun tipo di assistenza del genere, tranne il servizio a pagamento presso l’università che però non tutti potevano permettersi – ricorda il docente –. L’esperienza dell’hospice ci ha fatto capire che invece era molto richiesto: il 30-40% delle persone a cui proponevamo un’assistenza ci rispondeva positivamente e a da lì siamo partititi». È lì che nasce l’idea anche di un’associazione, significativamente chiamata «Rivivere», che cerca di far fronte a una grande lacuna. «Lavorare con i malati terminali mi aveva fatto capire che questo tipo di assistenza non poteva essere delegata a servizi sanitari, come quelli oncologici, ma che occorreva qualcosa di specifico, mirato, alle famiglie, a chi continua a vivere e deve, appunto, rivivere, trovare il coraggio e il motivo per farlo». L’idea iniziale è quella di un’associazione di associazioni tra tutte quelle realtà di volontariato che a Bologna si occupavano di famiglia e di vari ambiti della cura sociale, dai malati di Aids agli anziani, per verificare e far fruttare le cose in comune e creare una rete di assistenza sul territorio, il che ha permesso di incontrare situazioni di crisi di vario genere. Ma, come spesso accade, a prevalere è stata la logica delle appartenenze: ogni realtà tendeva a far emergere le sue esigenze e la sua identità. Si è così passati a una seconda fase, quella di creare una realtà specifica che si occupasse esclusivamente dell’elaborazione del lutto. «Ci siamo resi conto che per tante altre realtà c’erano una o più associazioni che se ne occupavano, ma per chi è colpito dal lutto non c’era nulla, era un aiuto totalmente trascurato – spiega Campione che ricorda come ancora oggi non esiste una realtà simile ed esistano solo gruppi di mutuo aiuto dall’approccio limitato –. Allora è nata la seconda fase di vita dell’associazione Rivivere, grazie a un accordo con il servizio per i malati terminali di Bentivoglio». Un luogo preciso, un intervento mirato, un’utenza con alta probabilità di avere necessità di un simile aiuto: ha così avvio un’esperienza, unica in Italia, che permette anche di capire come e che tipo di aiuto dare a chi è colpito dal lutto e che verrà ulteriormente sviluppata in seguito. «Tra il 30 e il 50% delle famiglie con cui entravamo in contatto si dicevano desiderosi di avere un aiuto subito dopo la morte del proprio caro. Ci siamo resi conto, sul campo, che nell’80% dei casi queste famiglie, di queste persone, avevano bisogno di un aiuto psicosociale di base, Sabrina Magnani 37 COSE DA GRANDI 38 l contorno è quanto mai vario, la pietanza resta tristemente sempre quella. L’ultimissima novità viene da Praga, si entra in un palazzo molto particolare, e là per pochissimi euro (undici, sembra, per l’esattezza), si entra per un tot di ore in una specie di grande fratello, ma stavolta è tematico. E il tema è il sesso. I clienti infatti diventano attori, attori delle performances sessuali che realizzano con le ragazze che lavorano dentro il palazzo, e poi il tutto finisce in internet. O in un dvd personalizzato, dove vengono riportati i «provini» più interessanti. Sembra che spesso capiti che gli «attori» stessi, impiegati, manager, studenti in gita, bancari, professori – queste esperienze sono molto democratiche, attraversano trasversalmente tutti i ceti sociali – invitino poi a casa i propri amici a vedere questo filmino delle vacanze, o a connettersi al sito, per ricevere un parere esterno, neutrale, sulla qualità della propria prestazione. A Torino è un po’ più caro, si sa, ma l’attrattiva è destinata a crescere, perché vicino all’aeroporto si sta allestendo una specie di Disneyland tematica, un vero e proprio villaggio dell’eros, due ettari e mezzo delle attrattive più «in», tra letti circolari, specchi, piscine, alcove open space come negli uffici più moderni, così tutti vedono quanto sono bravo. Anche qui la clientela è molto democraticamente varia, anche parecchie coppie in cerca di diversivi. E per chi vuole un pizzico di brivido, c’è anche il giro in mongolfiera o in aliante sopra la zona proibita, si vede tutto perché tanto è tutto all’aria aperta, sotto alla luce del sole, pardon, dei lampioni. Poi ci sono le situazioni ormai classiche, la semplice prostituzione di strada, gli appartamenti di certi quartieri, il turismo sessuale ormai pienamente globalizzato, i club privé, i locali per scambi- sti, i night club, i bar con la lap dance, i sex shop, gli innumerevoli siti internet «dedicati», gli annunci sui giornali e nelle stazioni, ma, dicono gli esperti, non bisogna fare di ogni erba un fascio, ognuna di queste situazioni ha sfumature di pubblico e di abitudini e di esiti molto differenti. Dalla semplice curiosità, al desiderio di trasgressione, al bisogno di compagnia, fino alla voglia di esplorare i confini delle proprie pulsioni, fino alle parafilie vere e proprie, così si chiamano, in un continuum di esperienze che vede una delle strategie di marketing più pressanti ed efficaci mai realizzate sulla faccia della terra. E uno dei business più potenti e lucrosi dell’intero pianeta. Fino a qui siamo in un territorio che merita più di una analisi, da quella economica a quella di angolatura sociologica a quella storica, per finire con la psicologia dei clienti e delle/dei prestatori di servizi sessuali. Ma cominciamo con l’ anello più estremo di questo girone. una dipendenza come le altre La faccia più oscura di queste vicende è una vera e propria sindrome da dipendenza, una vera ossessione che ormai col sesso non ha praticamente quasi più nulla a che fare, che si chiama sexual addiction. Il bisogno di fare sesso diventa il tema centrale della giornata, della settimana, della vita. È il motore delle mie azioni, è la altalena delle mie emozioni, dal sottile pensiero che si insinua nelle faccende quotidiane fino alla frenesia della ricerca immediata e irrinunciabile di una soddisfazione fisica, fino al senso di distensione immediato seguito poi da vuoto e anche da sensi di colpa. Anche questa forma di dipendenza è trasversale alle età e alle classi sociali, ai generi, agli orientamenti sessuali. Tro- viamo lo studente inesperto che ha trovato nelle prostitute le amiche e l’affettività che altrove non ha conquistato, il marito e padre che usa il suo tempo libero e il suo denaro per provare tutte le ultimissime novità, l’impiegato che si svena al night club per quella ragazza ucraina tanto dolce che è l’unica che lo ha fatto sentire di nuovo uomo, e se non c’è lei anche le sue amiche vanno bene, conoscono tutte quante il suo vizietto; c’è oggi anche la signora bene che anche lei ha scoperto quanto è facile il turismo sessuale, e quanto è ancor più facile rispondere agli annunci degli «accompagnatori» presenti anche sui giornali femminili. C’è il marito che costringe la moglie a prestazioni continue, e integra con l’autoerotismo i momenti di vuoto, c’è anche la persona etero che, da quando ha provato il brivido dell’incontro con un trans, lo cerca tutti i giorni come il pane, ha scoperto che non riesce più a farne a meno. C’è la persona, uomo o donna, giovane o anziana, che ha scovato in internet un paradiso artificiale senza confini di tempo e di spazio, dove per di più si viaggia quasi gratis, e dove di giorno – o di notte, molti «viaggiano» in ufficio, lontano dagli occhi indiscreti del/ della propria partner – posso riannodarmi la cravatta e con essa l’immagine della persona veramente ok. Sembra che in Italia si tratti di più di diecimila persone, e la cifra è sicuramente sottovalutata, di cui più di metà sono persone che vivono la propria dipendenza mediante internet. In quasi l’80% dei casi si tratta di uomini, e l’età media è tra i 30 e i 50 anni, con tendenze di tipo aggressivo e presenza forte di parafilie. Le donne invece preferiscono le chat, e mostrano di più comportamenti seduttivi o voyeuristici, fantasie erotiche non più controllabili, e una notevole disponibilità ad incontrare partner sessuali occasionali e sconosciuti (la ricerca è del CeDis di Roma di un paio di anni fa). un dramma dell’anima Il sesso è per queste persone il surrogato delle emozioni, e da qualche parte c’è senz’altro all’origine una problematica familiare, dove sono mancati quegli affetti che danno coesione al sé, dove le emozioni hanno avuto spazi inesistenti, o magari sono stati anche perpetrati vari gradi di confusione di ruoli, di molestie e di abusi. Al punto tale che quel bambino, quella bambina, ha percepito se stesso/a come «difettoso», ha fatto sua la confusione e la colpa del suo aggressore, e così si trova a dover mescolare per sempre il linguaggio – e il bisogno – della tenerezza e il linguaggio – e il bisogno – della passione, e tratta come oggetti gli altri da cui ottiene la sua soddisfazione, esattamente come da oggetto inanimato è stato trattato lui/lei. Cercasi sesso in luogo di amore, perché l’amore non so che roba è. Poi la spinta, la ricerca compulsiva della soddisfazione, ha anche una componente chimica, e c’entra ancora una volta la serotonina, l’ormone cerebrale che regola l’umore. L’incontro sessuale ne stimola la produzione, e l’assenza della soddisfazione genera una vera e propria crisi di astinenza. E da qui il bisogno di fare una bella abbuffata, esattamente come per tutte le altre dipendenze. È come se la persona fosse dipendente non tanto dal sesso, ma dalle endorfine. E dal suo scollamento interiore tra affettività e sessualità. La triste vicenda dei partner di queste persone è da sola una storia da raccontare Prima viene lo shock della scoperta, il bisogno di negare, di pensare che sia solo questa volta, solo la prossima vol- ROCCA 1 LUGLIO 2006 ROCCA 1 LUGLIO 2006 Rosella De Leonibus voglie sconfinate I 39 una sessualità nata male Ma che differenza c’è tra chi ha una sana attrazione verso il sesso, lo vive con vitalità ed intensità, e chi ne è dipendente? Il crinale sta tutto nella compulsività, nella impossibilità di arrestare o differire la soddisfazione dell’impulso. Il circolo vizioso della dipendenza sessuale è quello che conosciamo per le al- ROCCA 1 LUGLIO 2006 dello stesso Autore PSICOLOGIA DEL QUOTIDIANO tre droghe, per quelle socialmente consentite. Si comincia con la preoccupazione di ricercare stimoli sessuali, si continua con il mettere in scena (anche virtuale va bene, anche nell’immaginario, in mancanza di altro) la situazione desiderata, poi l’eccitazione aumenta e la persona non riesce a fare a meno di arrivare alla ricerca molto attiva della soddisfazione. In molti casi queste persone riferiscono che si sono trovate a mettere in atto i comportamenti di dipendenza anche contro la propria volontà. dove sta il vero nucleo del dramma? Non è nella sua faccia più visibile, nell’insaziabilità di questo appetito. Come nelle altre dipendenze, il nocciolo duro del dramma è nella condizione di spegnimento della dimensione affettiva, non sta nei genitali, e nemmeno nei neurotrasmettitori, il punto di origine di questa situazione tragica, sta nelle emozioni del cuore. Sta in una relazione di fondo con la propria sessualità che è nata male, e allora la persona allevia nel sesso il suo stress, affoga nel sesso i suoi sentimenti negativi, il suo dolore, la sua tremenda paura delle emozioni vere, la sua profonda incapacità di gestire le relazioni intime. Il sesso diventa il moloch a cui tutto viene sacrificato, il dio crudele davanti al quale mi annullo come essere umano. E poi, per un istante solo, la distensione che provo appena ho scaricato le mie tensioni la posso scambiare per la liberazione dalla tensione delle mie angosce più profonde, le quali, inesorabili, mi aspettano dietro l’angolo appena esco da quel letto, da quel video. La soddisfazione dell’impulso spegne tutto, la nera e vuota sensazione di azzeramento di se stessi che accompagna la soddisfazione, anche perseguita nelle sue forme più fantasiose e folkloristiche, è il perfido trofeo del sex addicted, che, al di là di quanto mostra e al di là dei vanti esibiti, guarda a se stesso con dolore e pena infinita. Recitare ancora la pantomima del buon padre, della buona madre di famiglia spesso è l’ultimo fragile appiglio alla vita, ma anche l’ultima barriera dell’illusione di normalità, e talvolta anche l’ostacolo al riconoscimento di questa patologia e al riconoscimento del bisogno di cura. (vedi pag. 12) SBARRE E DINTORNI grazia in offerta speciale Vincenzo Andraous onostante tante cose siano cambiate, siamo ancora al punto di partenza. Sta di fatto che ora il fardello è rimpallato alla sinistra, senza alcun gioco di sponda né di buca, ma in maniera diretta e frontale. Penso che nessuno abbia ragione da solo e nessuno si salvi da solo, occorreva ieri, e a maggior ragione occorre oggi, più coraggio per ciò in cui si crede, e avere più coscienza di sé, come consapevolezza dei propri limiti, delle proprie capacità, delle proprie emozioni-sentimenti, e soprattutto percepire sulle proprie spalle la responsabilità del comunicare a chi ci osserva, in particolar modo quando costui è più giovane o in una situazione di sofferenza. Grazia, amnistia, indultino e pena certa che per molti detenuti ormai dura da trent’anni, ma mai come in questo momento vale il detto: smuovo tutto, chiedo tutto, per non spostare né concedere niente. Grazia, per gli uomini che cambiano (colpevoli e innocenti), perché l’uomo della pena non è più l’uomo della condanna: ciò, nonostante il carcere mantenga perversamente il suo meccanismo di deresponsabilizzazione e infantilizzazione, di maggior riproduttore di sottocultura. In questa condanna alla condanna, ci sono attimi che attraversano l’esistenza dell’uomo detenuto, e proprio nel sapere, nella ricerca della propria dignità, nasce l’esigenza di un’autoliberazione possibile e non più prorogabile. Anche all’interno di una prigione, la vita può riservare incontri con se stesso e con gli altri, che disotturano le intercapedini dell’anima: le visioni unidimensionali, gli assoluti, i vicoli ciechi si sgretolano, nei disvalori che sono sempre stati. Allora l’uomo che convive con la propria pena, coglie il senso di ciò che si porta dentro, il peso del dramma, quel bagaglio personale maledetto come non è possibile immaginare. Può un uomo redimersi? Potrà il crimine essere cancellato attraverso la pena espia- N ta? E qual’è la pena che può rendere giustizia agli innocenti umiliati? Sono domande che non consentono risposte certe, ma dieci, venti, trent’anni di carcere demoliscono certezze e ideologie, rendono l’uomo invisibile a tal punto da risultare difficile dialogare con un’identità scomposta, che occorre ritrovare e ricostruire, insieme agli altri. Chi sbaglia e paga il proprio debito con decenni di carcere, attraversa davvero tempi e contesti di un lungo viaggio di ritorno, lento e sottocarico, fino a far scomparire l’uomo sconosciuto a se stesso, in uomini nuovi che tentano di riparare al male fatto, con una dignità ritrovata, accorciando le distanze tra una giusta e doverosa esigenza di giustizia per chi è stato offeso, e quella società che è tale perché offre, a chi è protagonista della propria rinascita, opportunità di riscatto e di riparazione. Si parla oggi come si è parlato ieri dei casi Sofri e Bompressi: ritengo che la grazia sia un atto coraggioso, anche e soprattutto per la ricerca di una Giustizia giusta ed equa, una Giustizia che è anche perdono, come ebbe a sottolineare il Papa, e che comprenda un granello di pietà, perché la pietà non è un atto di debolezza per i tanti uomini che in un carcere sopravvivono a se stessi, inchiodati alle loro storie anonime, blindate, dimenticate. Sono convinto che non esiste amnistia, indulto, sanatoria d’accatto, per il detenuto, non esistono slanci in avanti utopisti, esistono solamente uomini sconfitti, perché in un carcere non sopravvivono miti vincenti, ma esistenze sconfitte dal tempo e dalle miserie che ci portiamo addosso. Mi chiedo se è possibile perdonare, nella difficoltà di affrontare la lettura evangelica del sentimento del perdono, per non parlare della necessità di salvaguardare la collettività, ormai improntata alla sola risposta penale, al solo deterrente carcerario. Ma occorre riconoscere il bisogno di un tragitto umano (non solo cristiano) nella condivisione e nella reciprocità, quindi nella accettazione di una possibile trasformazione e cambiamento di mentalità. Rosella De Leonibus 40 41 ROCCA 1 LUGLIO 2006 COSE DA GRANDI ta, che sia un episodio, una voglia che passerà. Poi la cruda realtà si impone, e arriva una rabbia furibonda, accompagnata da una profonda frustrazione, l’impotenza che si prova davanti a tutte le dipendenze, aggravata dal fatto che ora, qui, si mescola fortemente con la relazione di coppia e gli affetti. Spesso le donne si pongono davanti ai propri partner nella posizione di salvatrici, di eroiche crocerossine che partono alla crociata della liberazione del proprio uomo, e non valutano con sufficiente attenzione la situazione della dipendenza, preferendo pensare a problemi di coppia e di noia. La separazione spesso è l’ultima chance, anche perché, come quasi tutte le persone dipendenti, i sex addicted tendono a negare la propria situazione, e meno che mai la raccontano al coniuge. Pensano infatti di riuscire a controllarsi, di poter uscire da questo tremendo gorgo che parte da una sensazione molto forte, alimentata dalla fantasia e dalle immagini, e scivola verso un vuoto anonimo e spento, verso la più banale delle coazioni, dove il desiderio che è incontrollabilmente cresciuto «deve» essere soddisfatto. Incapaci di sentire un bisogno e differirne o modularne la soddisfazione, queste persone mostrano veri sintomi di astinenza fisica, e possono diventare aggressive e incontrollate, fino a mettere in atto molestie sul lavoro, cercare prostitute, perfino arrivare alla pedofilia e all’incesto. Oppure si «fermano» ad altri livelli di soddisfazione patologica, come il voyeurismo, il sadismo, il feticismo, il frotteurismo. CULTURE E RELIGIONI RACCONTATE Marco Gallizioli È giocando con i toni della favola e dell’apologo che Amos Oz (1) ha confezionato il suo ultimo intonatissimo romanzo. D’un tratto nel folto del bosco (2). Infatti, narra una vicenda semplice e insieme intensa, avvincente e nel contempo ricca di spunti di riflessione, che ha per protagonisti dei bambini curiosi, Mati e Maya. È bene anticipare subito che il tono favolistico permette la lettura del testo a più livelli, anche se risulta chiaro quanto l’intento ultimo dell’autore sia quello di spingere a riflettere sui condizionamenti che ciascuna cultura proietta, più o meno consapevolmente, sull’individuo. L’idea di fondo di Oz è che risulta imperativo attraversare il buio di ogni narrazione mitologica se ci si vuole interrogare senza ipocrisia sulla verità relativa a noi stessi e agli altri. nel mitico villaggio ROCCA 1 LUGLIO 2006 Il libro si apre con la descrizione di un villaggio mitico, chiuso fra le montagne e circondato da un bosco descritto dagli adulti come luogo fatato e pericoloso. Gli abitanti del paese temono il buio, perché anni prima, in una notte strana e nebbiosa, sono scomparsi dal villaggio tutti gli animali, lasciando il paese immerso in un silenzio irreale, denso e funereo. Nessuno, però, vuole spiegare ai bambini cosa sia realmente accaduto; si preferisce raccontare loro che un terribile demone dei monti, Nehi, ha stregato gli animali e li ha condotti via. Nehi – dicono i grandi – abita la notte e talvolta scende ancora in paese, lasciando delle tracce che ne testimoniano la presenza. Per questo, vige il divieto di uscire dopo il tramonto: le tenebre sono il regno della presenza oscura e minacciosa, e ciascuno deve difendersi trincerandosi dietro la porta della propria abitazione. I bambini vengono allevati in questa cultura mitica e tenuti lontani dalla verità su quanto sia realmente accaduto, verità conosciuta dal mondo degli adulti, ma da loro stessi taciuta come 42 un tabù. Gli animali perduti vengono a costituire il grande «rimosso» del mondo consapevole; sono una realtà di cui non si deve parlare e chi lo fa viene deriso o pubblicamente smentito. La maestra Emanuela, ad esempio, durante le sue lezioni disegna degli animali alla lavagna, descrivendone ai suoi studenti la bellezza, la ricchezza dei loro versi, l’importanza della loro funzione, ma i suoi tentativi vengono minati dal giudizio negativo della collettività. Gli adulti non si fanno scrupolo di avvertire i bambini che gli animali, in realtà, non sono mai esistiti e che Emanuela, sola e nevrotica, cerca di compensare la sua solitudine con delle storie inventate. La maestra viene dunque presentata come una povera illusa, una donna frustrata per la mancanza di un marito, un soggetto per certi versi pericoloso, perché non è come gli altri. La sua diversità consiste nel non volersi adeguare alle opinioni comuni, nel non volersi piegare al parere della maggioranza, nell’essere fermamente convinta che non si debba avere paura dei propri ricordi. Anzi, al contrario, la maestra è convinta che occorra ricordare, far emergere i vissuti e, in qualche modo, sapere onorare la verità, alla quale nessuno si può sottrarre. Ma la proterva cultura della maggioranza è troppo immediata e forte per poter essere messa in discussione, rispecchiandosi, così, negli atteggiamenti dei bambini che, al pari degli adulti, prendono in giro la maestra e quanti caparbiamente continuano a parlare degli animali. L’abito educativo del paese genera anche dei comportamenti verbalmente violenti verso il piccolo Nimi, un bambino dai denti sporgenti e dal perenne moccio al naso, che, dal canto suo, farebbe di tutto pur di essere accettato. Il destino di Nimi, però, diviene irreversibile quando, dopo essere fuggito nel bosco, ricompare alcuni giorni dopo veramente diverso: Nimi non parla più il linguaggio degli uomini, ma nitrisce. Gli adulti sostengono che il piccolo ha contratto l’immaginario morbo del «nitrillo», un virus conta- gioso che rende dimentichi della propria umanità. Il piccolo, così, è bandito dal paese e costretto a vivere da solo nel bosco. la scoperta e l’avventura È in questa cornice che si sviluppa la vicenda di Mati e Maya, due bambini come tanti e insieme destinati a differenziarsi dal gruppo per via di un segreto da loro soli conosciuto. Un pomeriggio, infatti, mentre vicino al fiume stavano raccogliendo delle pietruzze, vedono in un piccola pozza l’ombra fugace e inconfondibile di un pesce. È la prova che gli animali sono davvero esistiti e che gli adulti hanno sempre mentito. Si rendono conto, quindi, che c’è una verità capace di scardinare il conosciuto e il condiviso, una verità in sé ancora oscura, ma in grado di porsi come obiettivo, come traguardo. A questo punto, il segreto potrebbe essere dimenticato: Mati e Maya potrebbero far finta di niente, aderendo al rimosso collettivo dei grandi, oppure procedere nella conoscenza, scardinando le regole dell’omertà e infrangendo i divieti angusti proposti dalla mitologia oscurantista nella quale sono stati allevati. È la bambina, Maya, a prendere in mano la situazione e a decidere per entrambi: il segreto li obbliga ad inoltrarsi nel bosco e ad indagare per scoprire se esistano altri animali. Così, dopo aver lungamente riflettuto, una mattina i due bambini decidono di marinare la scuola e di intraprendere la loro avventura nella foresta. L’intrico dei rami e degli arbusti è così fitto che l’esplorazione non è affatto semplice. In più, il bosco sembra via via popolarsi di presenze invisibili, di segni non decifrabili attraverso i codici conosciuti dai ragazzi. La fatica diviene allegoria della rinuncia: perché darsi tanto da fare, quando si potrebbe più facilmente essere come tutti, accontentarsi come gli altri, abbracciare la logica della maggioranza e dimenticare ciò che non quadra, o, per dirla con Montale, «l’anello che non tiene» (3)? Tanto più che il sentiero nel bosco tende a salire lun- go le pendici della montagna abitata dal demone Nehi. Ma, proprio quando gli interrogativi si fanno più pressanti, i due bambini scoprono, in una grotta, il rifugio di Nimi, il reietto, il bambino afflitto dal «nitrillo». Dentro la caverna, un Nimi sorridente li accoglie, li rifocilla e spiega loro che è stata una sua libera scelta quella di fingersi pazzo, un modo per sfuggire alla logica integralista degli altri, per non essere più vittima delle derisioni. Tuttavia, Mati e Maya non sono ancora pronti a gettare via del tutto la zavorra del consueto e sottopongono Nimi a un fuoco incrociato di domande sciocche. Nimi, allora, ribadisce il suo gesto di libertà e, cominciando a nitrire come un puledro selvaggio, li abbandona al loro destino. Ai due bambini non rimane che riprendere il cammino nel bosco, sconsolati. A un certo punto, come nella migliore tradizione della favola, i due si perdono di vista e il narratore concentra la sua attenzione sul piccolo Mati, il più pauroso dei due. Non vedendo più la compagna, Mati si accovaccia a terra e si rifiuta di proseguire fino a quando, dopo un tempo imprecisato, gli pare di avvertire la voce di Maya che, dalla vetta della montagna, lo invita a salire. La voce dell’amica sembra incorporea, più frutto di una suggestione che dato sensoriale vero e proprio. Ancora una volta Mati è tentato di tornare indietro e cerca di razionalizzare la sua paura dicendosi che la voce è frutto della sua immaginazione e che forse l’amica si trova in pericoli talmente seri da rendersi indispensabile il ritorno al paese e l’intervento degli adulti. Poi, però, prevale il coraggio e Mati, fra mille dubbi, riprende a salire. Giunto sulla vetta della montagna, il bambino trova la compagna in una sorta di giardino dell’Eden, circondata da animali di ogni specie. Il giardino è custodito da Nehi, che non è affatto un demone, ma un anziano abitante del villaggio, fuggito molti anni prima dal paese perché vittima di continue angherie. L’allora bambino Nehi, rifiutato da tutti, aveva stabilito relazioni di amicizia solo con gli ani- ROCCA 1 LUGLIO 2006 nel folto del bosco 43 l’Eden rovesciato Nella trama semplice e immediata della fiaba, Oz realizza un piccolo miracolo letterario, sia per lo stile, ispirato e insieme ricco di finezze, sia per gli intrecci continui, anche se non dichiarati, con la tradizione biblica. È evidente che il giardino scoperto dai ragazzi è una sorta di Eden rovesciato, un orizzonte di perfezione e concordia che non si pone ai protagonisti come riferimento mitico dell’inizio, ma come traguardo storico, da raggiungere attraverso un cammino lungo e faticoso. Il giardino è una «terra promessa» che si fa raggiungere a fatica e che costringe i bambini a vagare nel deserto del bosco, nell’intrico dei segni e dei linguaggi autoreferenziali. È una meta che si lascia intravedere solo se si è disposti ad attraversare paure e pregiudizi, a osare la ricerca e a porre interrogativi di conoscenza forti. E Oz sembra quasi voler dire che il paradiso perduto della creazione biblica non si pone come cominciamento, ma come ROCCA 1 LUGLIO 2006 dello stesso Autore LA RELIGIONE FAI DA TE il fascino del sacro nel postmoderno (vedi pag. 12) 44 obiettivo, come traguardo, come utopia possibile, ma in cui occorre innanzi tutto credere fermamente. Si tratta, quindi, di un paradiso ritrovato, o, meglio, riedificato dall’uomo, non di un mondo redento da un dio. È una realtà resa vivibile dall’uomo, costruita in una sorta di creazione rovesciata. Un mondo salvato dalla violenza umana e naturale, in cui le tigri e i lupi condividono i giacigli con le loro antiche vittime (4), spogliate di ogni ferinità e innovate da un’etica costruita insieme. Contro la soffocante chiusura del villaggio, al di là di un silenzio amaro e privo di comunicazione di un paese abbandonato dagli animali, il giardino si manifesta ai bambini come sinfonia di suoni, come melodia intonata di messaggi, come luogo della comunicazione possibile. La polemica di Oz contro la pervicace quanto errata enfatizzazione del mandato di possesso del creato che traluce dai primi due capitoli della Genesi risulta evidente nel recupero della funzione di custode amorevole esercitata da Nehi. Il vecchio, infatti, sembra essere sia una proiezione del Signore che passeggia nell’Eden sia il prototipo dell’uomo che si rende simile a Dio continuando o ricostruendo la sua perfetta opera creatrice. Un dio desacralizzato, umanissimo e a tratti anche malinconico, quando confessa ai ragazzi che di tanto in tanto sente nostalgia del suo passato al villaggio, e, insieme, un uomo divinizzato, capace di rendersi divino proprio nel progetto salvifico, nell’essere caparbiamente convinto che la Gerusalemme celeste vada costruita già sulla terra e non solo sognata come realtà di un tempo ultimo, oltre la storia. Ma, soprattutto, Nehi è il prototipo di un’umanità convinta che occorra abbandonare ogni antropocentrismo di maniera fino a trovare il coraggio di sentirsi, in quanto essere umani, esseri naturali e viventi, parte integrante di un meraviglioso e pervasivo senso vitale. Marco Gallizioli Note 1 Amos Oz, nato a Gerusalemme nel 1939, è docente di Letteratura all’università Ben Gurion del Negev e autore di numerosi romanzi e saggi, tra cui si ricordano: In terra d’Israele, Marietti, Genova 1992; Lo stesso mare, Feltrinelli, Milano 2000; Contro il fanatismo, Feltrinelli, Milano 2004. 2 A. OZ, D’un tratto nel folto del bosco, trad. it. di E. Loeventahl, Feltrinelli, Milano 2005. 3 Cfr. E. Montale, I limoni, in Ossi di seppia, in Tutte le opere, a cura di L. De Maria, Mondadori, Milano 1984, p. 11. 4 Riecheggiano in queste pagine le suggestioni del profeta Isaia; cfr. Is., 11, 6-8. MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO Sofia Vanni Rovighi dalla contemplazione teologica all’azione etica Giuseppe Moscati na delle personalità più vivaci del panorama filosofico di area cattolica del Novecento italiano è senza dubbio Sofia Vanni Rovighi (San Lazzaro di Savena 1908 Bologna 1990). Nota studiosa della filosofia medievale, appartiene a grandi linee al pensiero neoscolastico e si è formata pienamente nell’ambito accademico dell’Università Cattolica di Milano, eppure fuoriesce con la forza dei suoi dubbi e con la tenacia della sua ricerca libera e appassionata dagli schemi che la vorrebbero ingabbiata in tutto e per tutto all’interno della sua tradizione di riferimento principale. Le sue stesse espressioni – che ritroviamo via via, con estrema chiarezza espositiva e con accenti diversi e ogni volta originali, nei manuali e negli studi specifici sui maestri francescani, su sant’Anselmo d’Aosta e la filosofia del sec. XI, sull’antropologia filosofica di san Tommaso e su san Bonaventura, sulla teoria della conoscenza galileiana, sulla gnoseologia kantiana e sulla filosofia della storia hegeliana, ma anche U su fondamentali categorie del pensiero contemporaneo – ci dicono di come questa brillante autrice non abbia mai difettato di coraggio interpretativo. Il che, naturalmente, costituisce un imprescindibile elemento di fondo per «filosofare» in libertà e autonomia ed è quindi garanzia di immunità rispetto ai dettami di un’auctoritas asfissiante e totalizzante, che più o meno esplicitamente voglia imporsi come limite invalicabile, o di un vero e proprio pensiero dominante che non accetti alcuna «lettura ereticale» o comunque, come si dice, non «allineata e coperta». per una conoscenza a servizio dell’etica In verità dovremmo parlare, a proposito del pensiero di Sofia Vanni Rovighi, di una filosofia della conoscenza che, sostanzialmente attraverso considerazioni metafisiche e attribuendo un ruolo di primo piano all’elemento della contemplazione, si apre alla dimensione teologica per affrontare in profondità il problema di Dio e, al tempo stesso, per ricercare un’adeguata interpre45 ROCCA 1 LUGLIO 2006 CULTURE E RELIGIONI RACCONTATE mali, di cui era riuscito a comprendere il linguaggio. Così, quando decise di andarsene, stanco dei soprusi, gli animali avevano deciso di seguirlo, abbandonando gli uomini del villaggio, malvagi non solo nei confronti di Nehi e dei più deboli, ma anche verso di loro. Nel corso degli anni – spiega ai bambini il vecchio – nel suo giardino segreto, lontano dagli uomini, Nehi ha creato una sorta di società perfetta, basata sulla piena concordia e sull’armonia, insegnando alle bestie selvatiche la convivenza pacifica e sostituendo le regole ferree e spietate della lotta per la vita con un’alimentazione a base di una bacca dal sapore di carne. I bambini rimangono estasiati davanti al mondo sconosciuto e perfetto che si manifesta al loro sguardo e decidono di tornare al paese per far comprendere agli uomini la verità che hanno appreso. Sanno che la loro missione sarà al limite dell’impossibile; sono consapevoli che verranno presi per pazzi e accusati di aver contratto il morbo del «nitrillo»; ma rimangono convinti che la verità vada annunciata e, con questo fermo convincimento, si chiude il racconto. le la logica all’etica, la metafisica alla filosofia morale. Non ne esce per questo un Aristotele stravolto o strattonato verso questo o quello scopo contingente, anzi: proprio lo spirito dell’Etica nicomachea e in particolare le virtù dianoetiche dello Stagirita vengono ad essere letti autenticamente come elementi basilari di un pensiero per l’oggi che possa dirsi veramente disinteressato, indipendente e, appunto, al servizio dell’etica. E così Aristotele finisce per accostarsi felicemente, con la sua parola e con i suoi stimoli, ai nostri giorni e ai nostri dibattiti. Poi, come è ovvio, proprio in quanto intenta a ricondurre la teologia all’etica e proiettata a calare la filosofia in quello che possiamo chiamare l’‘agone dell’alterità’ del nostro tempo, l’autrice interpreta l’etica aristotelica in relazione alle proprie riflessioni su alcuni filosofi contemporanei con il cui pensiero ritiene imprescindibile confrontarsi: per citarne due, Edmund Husserl e Martin Heidegger, ai quali la Vanni Rovighi ha dedicato un importante periodo di studio tra la fine degli anni Trenta e la prima metà degli anni Quaranta. A muovere da qui, cioè riflettendo su questo arricchente dialogo tra filosofia antica e suggestioni del pensiero contemporaneo mi pare che, all’interno della visione del mondo della Vanni Rovighi, si distingua in modo particolare un determinato concetto di società. Quest’ultima, per lei, risiede sostanzialmente in un’unità di relazione tra persone, vale a dire corrisponde in definitiva a un complesso di relazioni fra gli individui che la compongono e che concretamente la animano, facendone cosa viva prima ancora che disquisendone. nell’agone dell’alterità Edmund Husserl, Vita e Pensiero, Milano 1939; Heidegger, La Scuola, Brescia 1945; Elementi di filosofia, La Scuola, Brescia 1963 (varie ediz., 1982, 1995); Introduzione allo studio di Kant, La Scuola, Brescia 1968 (Laterza, Roma-Bari 1999); Introduzione, logica e teoria della conoscenza, La Scuola, Brescia 1972; L’antropologia di S. Tommaso, Vita e Pensiero, Milano 1974; Storia della filosofia moderna e contemporanea. Dalla rivoluzione scientifica a Hegel, La Scuola, Brescia 1976; Il problema teologico come filosofia, Vita e Pensiero, Milano 1980 (2a ediz.); Istituzioni di filosofia, La Scuola, Brescia 1982; La filosofia e il problema di Dio, Vita e Pensiero, Milano 1988. ROCCA 1 LUGLIO 2006 C’è insomma da tenere presente tutta una serie di implicazioni in chiave di possibile ri-attualizzazione dell’opera di Sofia Vanni Rovighi, proprio a partire dalle sue letture della storia e delle dinamiche caratteristiche del pensiero filosofico contemporaneo. In realtà la studiosa prende le mosse da Aristotele, ma lo fa soprattutto per scardinare l’idea di una presunta necessità di ossequiare le auctoritates del pensiero e per avvicinare fino al massimo livello possibi46 Giuseppe Moscati Tra le opere di S. Vanni Rovighi: LEZIONE SPEZZATA forza Lecce Stefano Cazzato L ’autoambulanza schizza via dal cortile del «Gilberto Contacchi». I ragazzi la seguono fino al cancello e fanno ciao con la mano. «Dio mio, che c’è di nuovo oggi?! «professò, c’è de nuovo che nu se fa lezione… non ciabbiamo l’animo giusto mica se po’ spiegà psicologia in queste condizioni... «sì, ma che succede, chi sta male? «se ricorda il ragazzo con l’handicap del 4°F, eh quello lì, che stà sempre con la Corvini, l’insegnante de sostegno… oggi è cascato ro..vi..no..so sulla pancia de Mancusi del 5°A che sè sentita male… lo sa... no... che stà al sesto mese de gravidanza? «Sì lo so. Ma adesso torniamo in classe e aspettiamo notizie. Speriamo bene! «In classe? Ce ritrovamo tutti in palestra, professò, è troppo importante stà storia… Tutti in palestra dunque. L’atmosfera è confusa più che triste, tra telefonini che suonano e gente che si rincorre nel corridoio. L’insegnante di sostegno rincuora il ragazzo del 4°F che siede corrucciato in un angolo. Il collega Valeriani rincuora l’insegnante di sostegno. Il collega Scodella, cinico come sempre, ironizza sul comportamento seduttivo di Valeriani nei confronti dell’insegnante di sostegno. Il collega Fischetti, detto il politicamente corretto, esorta Scodella a risparmiarsi almeno in quest’occasione le sue battute al veleno. Il padre di Mancusi vuole sapere come sono andate «esattamente» le cose. Chiede della preside che oggi non c’è (un concorso di poesia in Toscana, si dice) e tocca alla vice rispondere che sono cose che succedono, signor Mancusi. La scuola comunque farà tutto il possibile. Francescotti la prende alla lontana e litiga con Settini sulla contraccezione. C’è chi come Marucci si è talmente immedesimata nella situazione da cadere svenuta su una panca. Un gruppo di irriducibili atarassici, complici calciopoli e i mondiali, discute invece di pallone. «Professò, ha visto la Juve, lo dicevamo noi «Sì, sì «Speramo che l’anno prossimo fa il campionato de serie B. Và a fà compagnia al Lecce! Che fiji de na... ciavète pure fatto perde no scudetto na vorta Mi sto per sottrarre al grido di forza Lecce dagli irriducibili, voglio dare anch’io il mio contributo di consolazione a tutti gli animi affranti del Contacchi quando arriva trafelato il bidello con una comunicazione ufficiale: «ì bimbo tà bene, pue aagazza tà bene, tà bene, i pomeiggio tonna casa, tonna casa, opedale, pomeiggio, campaella, fetta. (Il bimbo sta bene, anche la ragazza sta bene, il pomeriggio torna a casa dall’ospedale. Che ne dite se suono la campanella per festeggiare?) Fozza Lecce! 47 ROCCA 1 LUGLIO 2006 MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO tazione della natura e dell’uomo. Ma il passaggio che la porta da un ambito più squisitamente logico a una dimensione che in un certo senso potremmo definire ‘eticoesistenziale’, per come si va sviluppando e per come si caratterizza, ci obbliga a ripensare la produzione della filosofa italiana quale vero e proprio attraversamento delle suddette questioni di Dio, uomo e mondo a partire da una teoria della conoscenza in direzione di un approdo filosofico-morale. E allora se, come credo, nella filosofia della Vanni Rovighi è più opportuno parlare di un passaggio dalla conoscenza all’etica, va segnalato come la prima rimanga sempre nella sua essenza finalizzata a «servire» la seconda, a promuoverla cioè come primo e ultimo problema dell’uomo. In questa accezione, se vogliamo anche un po’ paradossale, l’etica si pone come etica delle relazioni tra gli uomini nel mentre si concentra sul rapporto uomo-Dio; anzi, l’uomo rinviene proprio nella ricerca di carattere teorico-teologico la via pratica privilegiata per aprirsi agli altri. Tale percorso di ricerca che da una conoscenza ‘logica’ di Dio giunge finalmente a una conoscenza pratica del mondo e delle «cose degli uomini», in ultima analisi, segna una conquista del pensiero contemporaneo (o forse sarebbe meglio dire postmoderno) ormai divenuta irrinunciabile. Si pensi alla ‘teologia sofferta’ di un Bonhoeffer o alle considerazioni ‘militanti’ di quegli altri teologi a noi vicini per motivi cronologici, ma direi soprattutto per sensibilità, i quali hanno riflettuto su una divinità il più possibile prossima all’uomo, ai suoi interrogativi e anche alle sue tragedie esistenziali – due per tutte: la guerra e il genocidio –, o per esempio sul Cristo vissuto come «essere-per-gli-altri», come appunto esemplarmente ritroviamo nell’esperienza bonhoefferiana (vedi Rocca n. 8/ 2004). PAPA RATZINGER DOPO AUSCHWITZ 48 silenzi della Chiesa sull’Olocausto inseguono il papa tedesco, il primo sceso nel ventre dell’inferno ad Auschwitz per interpellare con le bestemmie di Giobbe i silenzi di Dio. Silenzi evidentemente contagiosi, se hanno trainato il nuovo silenzio del papa che ha messo a disagio le relazioni ebraico-cristiane sulle responsabilità storiche della Chiesa nella produzione dell’antisemitismo virale e in modo specifico nella scelta di Pio XII di astenersi dalla denuncia dei crimini genocidi del III Reich. Una questione che fa riemergere, al di là del dibattito storiografico, la lezione del cardinale Von Galen, di recente proclamato beato, dinanzi alla politica prudenziale del Vaticano: non solo aveva osato, malgrado i moniti del nunzio Orsenigo, accusare la Gestapo e le autorità del regime per i soprusi perpetrati sui malati mentali e contro i conventi e gli istituti religiosi, il clero e i fedeli cattolici. Aveva posto per primo la stessa questione teologica che oggi sta a cuore al papa, dicendo a Pio XI: «Noi abbiamo a che fare con un avversario che non conosce verità e fedeltà. Ciò che essi chiamano Dio non è il nostro Dio: è qualcosa di diabolico». Ma la premura di radicalizzare teologicamente l’interpretazione dell’antigenesi nazista non restava astratta nel «leone di Münster». Essa si saldava infatti alla sua capacità intrepida di denunciare l’incessante violazione di «quei diritti fondamentali della personalità umana che sono imprescrittibili». «Se noi possiamo accettare queste cose senza una pubblica protesta – scriveva al vescovo di Osnabrück Berning – dove è mai dunque il punto nel quale diviene per noi un dovere di scendere in campo pubblicamente per la libertà della Chiesa e di mettere eventualmente in gioco la nostra libertà e la nostra vita?(...) Non riesco più a mettere in pace la mia coscienza con questi argomenti ‘ex auctoritate’. Penso spesso a san Tommaso Moro e al suo comportamento riguardo all’argomento ‘ex auctoritate’.» E aveva aggiunto un avviso biblico che, rivolto ai pastori ciechi di allora, non tocca di meno anche quelli tre- pidanti di oggi: «mi vengono in mente i ‘canes muti, non valentes latrare’ di cui parla Isaia, che aggiunge subito dopo: ‘Ipsi pastores ignoraverunt intelligentiam’. Questo era possibile solo nel Vecchio Testamento?» (1). Questioni in parte già dipanate sul piano storiografico, secondo alcuni, questioni per il resto ormai superate, secondo altri, per le audaci scelte giubilari di Giovanni Paolo II sull’autocritica pubblica, in San Pietro, per la parte giocata dagli ecclesiastici nella giustificazione teologica della violenza antisemita, fino al suo pellegrinaggio al Muro del Pianto. Ricordiamo che lo stesso Benedetto XVI aveva tenuto un forte discorso a Colonia nell’incontro con gli esponenti della comunità ebraica, il 19 agosto 2005. Aveva ricordato la cacciata degli ebrei da Colonia nel 1424. Quanto alla Shoah, definita «un crimine inaudito», aveva detto: «Nel XX secolo, nel tempo più buio della storia tedesca ed europea, una folle ideologia razzista di matrice neopagana fu all’origine del tentativo, progettato e sistematicamente messo in atto dal regime, di sterminare l’ebraismo europeo». Aveva poi evocato la liberazione dei campi di concentramento nazisti nel 60° anniversario e ricordato con preoccupazione l’emergere di nuovi segni di antisemitismo e di «varie forme di ostilità generalizzata verso gli stranieri». E aveva sottolineato, accanto ai progressi compiuti dopo il Concilio nei rapporti tra ebrei e cristiani, il molto che resta da fare per approfondire il loro dialogo. un’occasione mancata Ma appunto perché già delibato, anche se tutt’altro che consolidato e pacifico nella Chiesa cattolica attuale – obietta un’altra corrente di opinioni – il processo di rielaborazione interna della «valle oscura» di Auschwitz aspettava dal papa tedesco, perché papa e perché tedesco, un segnale di convalida, in una circostanza di così elevato contenuto simbolico: un segnale rimasto implicito, affidato alle analisi letterarie su un testo complesso, problema- tico, nel quale i contenuti teologici prevalgono sulle esigenze storiografiche, per ridefinire al suo massimo grado di drammaticità l’immenso punto di interrogazione forgiato dalla Shoah sull’intero destino e sul senso dell’umanità. Papa Ratzinger ha portato ad Auschwitz la coscienza inquieta di figlio del popolo tedesco, spinto nel luogo dell’orrore, così lo ha chiamato, da un dovere di fronte alla verità, dinanzi alle vittime della Shoah e dinanzi a Dio. È sulla teologia che egli ha fatto leva nella convinzione che essa possa essere sufficiente a sconfiggere l’ondata restauratrice che nella stessa Polonia si carica di segnali xenofobi e antisemiti, anche di matrice cattolica, a significare la riproduzione di codici cognitivi arcaici sepolti nelle pieghe e nelle piaghe profonde del mondo cattolico europeo e non scalfiti né dal Concilio Vaticano II, con la dichiarazione Nostra Aetate, né dalle aperture di Wojtyla agli ebrei. Sono quegli stessi stereotipi che hanno incollato il cattolicesimo tedesco all’ideologia anticristiana del nazionalsocialismo, intercettando e isolando le volontà di contrasto e di denuncia portate avanti anche da alcuni ed emarginati esponenti dell’alta gerarchia ecclesiastica tedesca, non meno che dai nuclei eroici della resistenza civile e della minoritaria «Chiesa confessante». Purtroppo si deve constatare che non si tratta di questioni consegnate agli archivi e inattuali. In realtà si tratta di rischi in agguato contemporanei: gli stessi paradigmi infatti sono ripresi e rilanciati attualmente dalle correnti tradizionaliste cattoliche di matrice maurrassiana (Action Française) facenti capo, tra l’altro, allo scisma – che si vorrebbe recuperare – di monsignor Marcel Lefebvre, non a caso fra i più pugnaci avversari della dichiarazione conciliare sugli Ebrei. Posizioni analoghe sono ancora, dopo oltre 40 anni dalla fine del Concilio, rilanciate dai pulpiti di certo clero «tridentino» in alcuni villaggi della Calabria «moderna». Per tutto questo contesto regressivo, resta di enorme valore il fatto, prima ancora che il discorso: un papa tedesco ha voluto con- cludere fra i reticolati dello sterminio, dove Wojtyla si era genuflesso in silenzio nel 1979, la sua visita in Polonia, cercando di ricavare dal simbolo del male assoluto una lezione di contrasto della spirale di violenza e di distruzioni che torna a rovesciare sul mondo nuove sventure. Papa teologo, egli ha fatto propria la domanda del Novecento teologico e filosofico sul Dio che ha taciuto dinanzi all’olocausto del popolo che per primo aveva scelto un Dio unico: la domanda rimasta senza risposta, da Giobbe a Hans Jonas, da Emmanuel Lévinas a Elie Wiesel. Anch’egli ha chiamato in causa Dio, gli ha chiesto di «svegliarsi» dinanzi alla tragedia dell’umanità. E ha criticato con forza i soprassalti delle forze oscure, che abusano, ha detto, del nome di Dio per giustificare una violenza cieca contro gli innocenti oppure scherniscono cinicamente la fede in lui. Sarebbe stato difficile istituire una critica più radicale dei semi dell’antisemitismo di quella formulata da Benedetto XVI quando ha detto: «I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall’elenco dei popoli della terra (...). In fondo, quei criminali violenti, con l’annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno. Se questo popolo, semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all’uomo e lo prende in carico, allora quel Dio doveva finalmente essere morto e il dominio appartenere soltanto all’uomo – a loro stessi che si ritenevano i forti che avevano saputo impadronirsi del mondo. Con la distruzione di Israele volevano, in fin dei conti, strappare anche la radice, su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo, del forte». ROCCA 1 LUGLIO 2006 ROCCA 1 LUGLIO 2006 Giancarlo Zizola i silenzi di Dio i silenzi dell’uomo S una cricca di criminali nazisti ma un popolo innocente? Questa sua protesta è stata talmente dura, 49 50 l’Unione Sovietica: un fondo ideologico oscuro e complesso che saldava le masse all’élite al potere. Infine, essendosi limitato ad evocare soltanto i nomi di Massimiliano Kolbe e di Edith Stein, entrambi uccisi ad Auschwitz e canonizzati da Wojtyla, il papa tedesco avrebbe dimostrato, secondo alcuni, di non essere del tutto immune dalla logica dell’annessionismo cristiano della Shoah, nutrito da una teologia della salvezza un poco sospetta, che farebbe volentieri del cristianesimo il Nuovo Israele: una critica che raggiunse l’apice nel 1979 quando Auschwitz fu definito da papa Wojtyla «il Golgota del mondo contemporaneo» e poi nel 1984 con la vicenda del Carmelo aperto ad Auschwitz, risoltasi dopo vari anni di tensioni con la decisione del papa di trasferire le carmelitane fuori da un campo della morte in cui nessun gruppo, nessuna religione, nessun simbolo avrebbe potuto insediarsi senza diminuire il senso unico e universale di quel Vuoto, di quell’assenza di Dio. Fra le opinioni critiche, ci limiteremo a menzionarne due, che riteniamo di maggiore autorità: quella di un filosofo amico di Ratzinger, il suo interlocutore di molto dialogo Jürgen Habermas, secondo il quale «proprio la nostra generazione deve porsi la domanda, come sia stato possibile che un regime criminale fin dai suoi primi giorni si appoggiasse su un così ampio consenso della popolazione». È di questa «apologetica menzognera» che si nutre la retorica pubblica nel nostro paese, ha dichiarato Habermas evocando l’insidia sempre attiva del revisionionismo (La Repubblica, 30 maggio 2006). L’altro commento è del rabbino David Rosen, responsabile per le relazioni inter-religiose dell’American Jewish Committee a Gerusalemme e noto per la sua cordiale collaborazione con i circoli cattolici del dialogo inter-religioso. Secondo Rosen, la visita del papa ad Auschwitz è stata «positiva per noi ebrei, positiva dinanzi al negazionismo», tuttavia «il Papa ha perduto un’occasione d’oro per essere esplicito sul tema dell’antisemitismo. C’era bisogno di un messaggio netto in questa fase storica segnata da un rigurgito antiebraico che ha pochi precedenti». Ed ha dichiarato che «è probabile che possa emergere presto un fatto problematico per i rapporti fra ebrei e cattolici: la beatificazione di Pio XII» (Il Sole24 Ore, 30 maggio 2006). L’appello finale, mentre un arcobaleno fioriva tra le nubi fosche sui forni cremato- ri, ha incoraggiato alla resistenza contro il male, nel nome di quei testimoni che avevano pagato con la vita la loro obiezione al nazismo, luci in una notte buia. Un appello a non scaricare su Dio la responsabilità di crimini che restano a carico dell’uomo, una proposta di liberarsi dall’odio mediante processi di perdono e di riconciliazione. bilancio della visita La quattro giorni di Papa Benedetto in Polonia era l’occasione migliore per i polacchi di risvegliarsi dall’ipnosi di Wojtyla, anche se il suo successore ha dovuto subire pressioni affettuose, cui ha resistito, per un’immediata dichiarazione della sua santità. Ha impressionato il gesto dell’ex segretario cardinale Stanislao Dziwisz che ha preso per un braccio il nuovo papa, come fosse ancora l’altro, trascinandolo al microfono e intimandogli di fare anche in italiano l’ennesima dichiarazione pubblica circa l’aureola del servo di Dio, cosa cui il papa si è sottratto con prudenza e evidente imbarazzo. Dall’analisi degli interventi principali, sembra potersi ricavare l’impressione che Benedetto XVI abbia ritenuto necessario richiamare un cattolicesimo mitologizzato dal fascino mondiale del papa polacco alla realtà della storia: è lo stesso Pietro, ma la sua figura storica, il papa, è cambiato. E si deve voltare pagina: la Chiesa polacca aveva vissuto per oltre un quarto di secolo sulla delega delle proprie responsabilità decisionali al papa. Ora la supplenza è cessata e il viaggio di Ratzinger segna il ritorno della Chiesa polacca alla normalità, ad una ripresa di propria responsabilità nella guida dei 36 milioni di polacchi. Come ha detto l’ex segretario dell’episcopato polacco Tadeusz Pieronek, «bisogna sfatare i miti, anche in campo religioso. Abbiamo una mentalità vecchia, tradizionalista, le nomine episcopali (fatte da Wojtyla) hanno creato questa situazione». Su questa chiesa Ratzinger ha calato i suoi avvertimenti a non ritagliarsi una fede cristiana «fai da te», a non cedere al relativismo. Un invito a professare una fede senza incertezze. A rinnovare i fasti della Polonia «fedele». A tornare ai fondamenti del cristianesimo. il monito al clero polacco maccarthista Si è notata inoltre la cautela politica del papa: quasi ignorata la tensione prodotta dalla radicalizzazione della destra populista al potere, fomentata da un’ala di cattolicesimo reazionario, sostenuto dall’emittente radiotelevisiva Radio Marija, diretta dal frate redentorista Tadeusz Rydzyk, portavoce di grossolani stereotipi antisemiti e xenofobi. Un bombardamento mediatico che dà la caccia ai preti e religiosi che collaboravano con i comunisti e ha gettato sulla Polonia una cappa inquisitoriale, per cui Benedetto XVI ha dovuto raccomandare a Varsavia ai suoi preti di «guardarsi dalla pretesa di impancarsi con arroganza a giudici delle generazioni precedenti, vissute in altri tempi e in altre circostanze», e ha loro raccomandato di «non indulgere a facili accuse in assenza di prove reali o ignorando le differenti pre-comprensioni di allora». È noto che i tentativi di convincimento fatti per riportare tale radio al rispetto delle linee di fondo della dottrina sociale cattolica sono stati a lungo frustrati, fino a che un ordine della Santa Sede ha imposto il commissariamento dell’emittente, minacciandola di chiusura. Anche per questo la visita del primo papa tedesco al lager di Auschwitz resta comunque, per quanto attiene alla situazione attuale del mondo cattolico in Polonia, come un evento orientatore per la formazione di una cultura del dialogo fra cristiani ed ebrei, tanto più urgente oggi dopo la dimostrazione di quanto rimanga superficiale e fondamentalmente rimossa sotto strati di mitologia trionfalista e nazionalista la lezione di Wojtyla nella sua stessa patria. Probabilmente il papa sperava di contribuire con la sua testimonianza sobria e la sua riflessione ad Auschwitz a smussare le asperità sopravvenute nei rapporti fra tedeschi e polacchi, in una fase travagliata dai manifesti xenofobi presenti nel governo polacco, per la questione del monumento che i tedeschi vogliono erigere alla memoria dei loro concittadini cacciati a Ovest e per il progetto del gasdotto russo-tedesco sotto il Baltico, che taglierebbe la Polonia dai benefici. Giancarlo Zizola ROCCA 1 LUGLIO 2006 ROCCA 1 LUGLIO 2006 PAPA RATZINGER DOPO AUSCHWITZ per quanto trattenuta dentro una visione teologica più che storica della Shoah, da mettere in secondo piano alcune varianti di un discorso altrimenti lucidissimo: il velo steso sulle responsabilità della Chiesa nella tragedia dell’antisemitismo, e il tentativo di differenziare il popolo tedesco dal sistema nazista la cui perversione criminale è stata valutata, secondo lo stereotipo dell’apologetica cattolica, in chiave di rivolta ateistica e anticristiana. Quel giudizio, secondo cui «un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di recupero dell’onore della nazione… cosicché il nostro popolo poté essere usato e abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio», ha suscitato sconcerto: si poteva concedere l’attenuante della ferita psicologica subita dal giovane Ratzinger vissuto nel periodo nazista in ambiente di cattolicesimo bavarese e avviato a forza nell’apprendistato della gioventù hitleriana anche se per un periodo limitato. Ma all’intellettuale, al fine filosofo, oggi responsabile supremo di una grande Chiesa, che pure aveva condiviso i mea culpa del papa polacco per l’antisemitismo e l’antigiudaismo albergati in essa, non sarebbe ammissibile concedersi all’autobiografia, e meno che mai ad un patriottismo intellettuale tanto romantico quanto unilaterale. Né sarebbe pensabile che l’obiettivo della riconciliazione, che il papa dichiarava come motivo principale della sua decisione di visitare Auschwitz, potesse giustificare il sacrificio del rigore storiografico della memoria degli eventi. E infatti è stata quasi corale l’obiezione rivoltagli di aver preferito riprodurre un facile alibi per esonerare il suo popolo da ogni responsabilità ad una rigorosa e coraggiosa presa in carico dei suoi torti collettivi: un approccio che nessuno storico potrebbe più tollerare, pur rifiutando l’altra facilità ermeneutica di una colpevolizzazione indiscriminata. Quella cricca di criminali era stata eletta democraticamente, godeva il consenso collettivo, aveva l’appoggio concordatario di un grande sistema religioso come la Chiesa cattolica oltre che dalla maggior parte delle Chiese protestanti. Soprattutto si appellava al messianismo della nazione tedesca, «Über Alles», con le sue radici antiebraiche, per giustificare il suo allucinante disegno razzista e mobilitava il popolo sull’obiettivo supremo di debellare il comunismo e colpire al cuore Nota: (1) Ludwig Volk, Akten deutscher Bischofe über die Lage der Kirche 1933-1945, V, 1940-1942, Vkzg, Reihe A: Quellen, Bd. 34, Mainz 1983, p. 365. 51 il pluralismo convergente ROCCA 1 LUGLIO 2006 Carlo Molari 52 N ell’attuale ambito cristiano l’opinione teologica più promettente in ordine al dialogo interreligioso sembra quella che, senza cedere al relativismo, considera il pluralismo delle religioni non solo come dato di fatto e quindi come possibilità, bensì anche come condizione di diritto e quindi opportunità. La ragione sta nella sovrabbondante ricchezza del dono divino e nella limitatezza delle simbologie umane che la esprimono e la trasmettono. I teologi difensori di questo pluralismo non relativista affermano che unica è la Parola rivelatrice e salvifica di Dio, ma numerosi ne sono i mediatori nella storia umana, tra cui le varie strutture religiose, pur riconoscendo che fra di esse vi sono notevoli differenze e che non tutte svolgono lo stesso ruolo in ordine alla salvezza. I termini utilizzati per designare questa opinione teologica sono diversi e già la molteplicità delle formule indica l’attenzione posta dai teologi per evitare ogni ambiguità. Secondo il gesuita Jacques Dupuis: «il termine più appropriato... sembra quello di pluralismo inclusivo oppure di inclusivismo pluralistico», formula che vorrebbe affermare nello stesso tempo, «il carattere costitutivo universale dell’evento-Cristo nell’ordine della salvezza e il significato salvifico delle tradizioni religiose in una pluralità di principio delle tradizioni religiose stesse al di dentro dell’unico, multiforme piano di Dio per l’umanità» (Verso un modello di pluralismo inclusivo in Il Cristianesimo e le religioni, GdT 283 p. 188). Anche Cl. Geffré parla di pluralismo inclusivo (Verso una nuova teologia delle religioni, in Gibellini R. (Ed.) Prospettive teologiche per il XXI secolo, Queriniana, Brescia 2003 p. 359). Da parte mia penso sia più utile parlare di pluralismo convergente o relazionale, per in- interrogativi La prima domanda alla quale la teologia cristiana ha cercato di rispondere è se il pluralismo delle religioni sia semplicemente un dato di fatto o un valore da favorire. Mentre la maggioranza dei teologi ha sostenuto che il pluralismo è la conseguenza dei molti rifiuti opposti a Dio da parte degli uomini, condensati negli errori delle culture e nelle false strutture religiose, per cui l’ideale da perseguire sarebbe la convergenza nell’unica vera religione, altri negli ultimi decenni, hanno visto nel pluralismo religioso un valore da salvaguardare e da favorire perché necessario per lo sviluppo armonico della storia salvifica. Esso attesterebbe «allo stesso tempo la soverchia generosità con cui Dio ha manifestato se stesso in molti modi all’umanità e la risposta pluriforme che gli esseri umani hanno dato nelle diverse culture all’autorivelazione divina» (Dupuis J., Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, o. c. pp. 518 ss.). Egli cita Eduard Schillebeeckx (Umanità. La storia di Dio, Queriniana, Brescia 1992 (originale olandese 1989) p. 217, 221) e Cl. Geffré (La singolarità del cristianesimo nell’età del pluralismo religioso, in Filosofia e teologia 6 (1992) pp. 38-58). Il secondo interrogativo sorto nel nuovo contesto ha riguardato la piattaforma o il punto di riferimento comune a tutte le religioni che consenta un dialogo paritario e un cammino solidale. La soluzione più semplice scelta da alcuni è stata quella di considerare ogni religione autosufficiente e compiuta e quindi con lo stesso valore effettivo in ordine alla salvezza. È la via del pluralismo relativista. Ma questa prospettiva è apparsa senza sufficienti ragioni teologiche e sterile in ordine al dialogo interreligioso. Le altre soluzioni hanno implicato passi diversi che hanno costituito tappe verso il pluralismo. verso la teologia del pluralismo 1. Il primo passo da parte dei teologi plura- listi è stato la rinuncia a considerare la Chiesa (cattolica) quale riferimento esclusivo della salvezza (ecclesiocentrismo). Essi infatti hanno riconosciuto il suo limite e la sua particolarità. Già il concilio Vaticano II ha affermato che la Chiesa ha bisogno di mettersi in ascolto del linguaggio degli uomini del proprio tempo «perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta» e ha riconosciuto che essa «sente con gratitudine di ricevere, nella sua comunità, non meno che nei figli singoli, vari aiuti dagli uomini di qualsiasi grado e condizione» (Costituzione pastorale (Gaudium et spes) n. 44 EV 1, 1461). Riconoscendosi bisognosa dell’apporto altrui per svolgere adeguatamente la propria missione nel mondo, la Chiesa ha posto il dialogo interreligioso come dato essenziale della propria missione (Redemptoris missio, 1990; Dialogo e missione, 1991). In questa luce la base comune delle religioni resta la fede in Dio che in Cristo offre salvezza a tutti. 2. Il secondo passo della teologia pluralista è stato il riconoscimento della particolarità storica di Gesù e il conseguente superamento del cristocentrismo inclusivista. È innegabile che la proposta di Gesù si muove in prospettiva universale, non riguarda solo gli ebrei e neppure solo i seguaci della sua via, bensì tutti. Per questo le Beatitudini costituiscono «la Magna Charta del Regno di Dio, aperto a tutti indipendentemente dalla propria obbedienza religiosa, e di cui tutti possono diventare membri a pieno titolo attraverso la fede e la conversione a Dio» (Dupuis J., Il cristianesimo e le religioni, o. c., p. 94). Ma è pure innegabile che la attività di Gesù ha avuto dei limiti culturali e storici. Si è espresso in una lingua particolare e assunto i modelli culturali di un popolo particolare. Anche i primi discepoli di Gesù hanno avuto difficoltà ad allargare gli orizzonti dell’azione apostolica e a comprendere l’universalità della azione salvifica di Dio espressa in Gesù. Essi attendevano infatti il ritorno glorioso di Cristo per avviare la nuova fase della storia salvifica. Poi passo dopo passo, attraverso esperienze anche sconvolgenti, gli apostoli sono giunti alla convinzione che la fase universale fosse già iniziata. La convinzione nasceva da una duplice esperienza espressa da Pietro: la prima nel giorno della Pentecoste con la citazione del profeta Gioele: «chiunque invocava il nome del Signore era salvo» (cfr. At. 2, 21; Gl. 3,5); e la seconda dopo l’incontro con il romano Cornelio: «sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone» (At. 10, 34). La stessa convinzione era conservata anche nella formula della tradizione paolina: «Dio, nostro salvatore... vuole che tutti gli uomi- ni siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tim.2, 4). Paolo per questo ricordava al discepolo: «abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente, che è salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono. Questo tu devi proclamare e insegnare» (1 Tim. 4,10). La portata universale dell’azione di Gesù dipende quindi dal fatto che in Lui si è espresso il Dio salvatore di tutti gli uomini. Per la sua fedeltà nell’accogliere la Parola divina è stato reso «icona di Dio» (Col. 1,15); «principio di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb. 5, 9). La ragione di questa condizione sta nella reale distinzione di natura tra Gesù, «uomo accreditato da Dio per mezzo di miracoli, prodigi e segni» (At. 2,22) e il Verbo o Parola eterna del Padre. Gesù è il nome della creatura, di natura umana, nata in un determinato tempo e luogo, mentre il Verbo è il nome del Figlio eterno di Dio, di natura divina. Il Concilio di Calcedonia (451) ha precisato che questa reale distinzione tra le nature resta anche dopo l’incarnazione e la risurrezione quando Gesù è «costituito Signore e Cristo» (At 2, 36). Il rapporto infatti, tra il Verbo eterno e Gesù si stabilisce «senza mutazione e senza confusione»: Dio resta Dio e l’uomo resta uomo. La distinzione di natura tra Gesù e il Verbo (che non è «separazione o divisione») consente ai cristiani di riconoscere da una parte, che, dopo l’avventura di Gesù, l’azione salvifica di Dio nella storia umana coinvolge sempre la realtà di Cristo glorioso; ma dall’altra i cristiani sanno riconoscere gli altri spazi di azione della Parola eterna e dello Spirito nel tempo e nello spazio e di superare quindi l’esclusivismo salvifico delle strutture sorte in riferimento a Gesù Cristo. Il fatto che dopo Cristo l’azione salvifica è segnata dalla sua fedeltà a Dio non richiede a coloro che vogliono accogliere l’azione divina espliciti e consapevoli atti di fede in Lui. In questa luce la base comune delle religioni resta la fede in Dio che offre a tutti salvezza. (continua) Carlo Molari dello stesso Autore ROCCA 1 LUGLIO 2006 TEOLOGIA dicare che nessuna forma storica di religione può avere la presunzione di contenere tutte le ricchezze spirituali fiorite nella storia e che tutte le religioni sono chiamate a relazionarsi per scambiarsi doni spirituali e convergere verso traguardi comuni dove ciascuna, conservando e anzi, accentuando le proprie caratteristiche, possa vivere in profonda comunione con le altre (Molari C., La fede cristiana in tensione tra lo specifico e l’universale, introduzione a (ed. Hick-Knitter) L’unicità cristiana: un mito? Cittadella, Assisi 1984 pp. 11-48 soprattutto pp. 37-40). CREDENTI LAICAMENTE NEL MONDO (vedi pag. 12) 53 Rosanna Virgili l’uva acerba della giustizia C ertamente i profeti si occupano di giustizia e diritto in maniera speciale. Il loro continuo richiamare a questo compito dell’uomo e di Israele, nasce da un aspetto fondamentale del loro statuto, che è quello di essere custodi della Torah, tanto che il binomio mishpath/tsedaqah («diritto e giustizia») viene tradizionalmente chiamato: la Torah dei profeti. È una sintesi, insomma, di tutta la Torah, cioè della Sapienza divina. Il contenuto di questa Sapienza, secondo la declinazione dei testi profetici, è il seguente: Dio è il Giusto per eccellenza, non per ragioni primariamente canoniche od etiche, ma perché è sceso dal cielo a liberare dalla schiavitù un popolo oppresso, poi si è legato a doppio filo con esso, gratuitamente, senza nulla guadagnarci, semplicemente perché lo amava (cf. Dt 7,8) A ragione di ciò gli ha promesso una terra in usufrutto e una secolare discendenza. A questo strano tipo di giustizia, che si potrebbe meglio definire atto libero di amore, l’uomo risponde, a sua volta, con un atto libero di corrispondenza nell’amore: e questo è quanto farà di lui un uomo «giusto». Ecco perché giustizia significa fedeltà ad un legame, lealtà in una alleanza, da cui dipendono il presente e il futuro, tutta la vita di Israele. ce, mentre Israele è l’imputato. Si inscena una specie di lite in famiglia - poiché Dio si presenta in veste di padre o marito di Israele, che è figlio o moglie – ma è un atto che formalizza e rende pubblica una situazione oggettiva di violazione del diritto. Da questi testi si evince chiaramente una distinzione fondamentale che è quella tra giustizia e diritto. Le due istanze, anche se inscindibili, non sono assolutamente uguali: mentre la giustizia – come è stato già detto – è la fedeltà ad un legame di Alleanza, quindi sempre in movimento, in mutamento, in trasformazione; il diritto è una sorta di testimonianza formale, di scrittura, di riprova della autentica volontà di un popolo di anelare alla giustizia. Per questo nei testi vedremo cambiare il volto, la forma, le parole della giustizia, nella sua tensione sempre anche critica di poter allacciare il cielo con la terra e gli uomini tra di loro; ma sempre verrà riproposto un conseguente diritto che ne renderà positiva l’anima. Capiterà col profeta Osea quando, ad una rinnovata giustizia di Dio, ricreata dopo il tradimento e il perdono, ancora si dirà: «Ti farò mia sposa per sempre (...) nella giustizia e nel diritto» (Os. 2,21). le pubbliche accuse dei profeti Sul tema della giustizia si gioca gran parte della pedagogia ed anche della poesia dei profeti. Per ricordare al popolo l’urgenza sempre attuale della stessa, essi inventano splendide parabole. Si pensi a quella di Ezechiele 16, dove Gerusalemme viene paragonata ad una trovatella che il Signore, infine, porterà a nozze. Questo matrimonio, però sarà molto sfortunato a causa della defezione di lei. Un’altra metafora bellissima, sempre su questo tema, è quella raccontata da Isaia 5,1-7. Lì il Signore è un viticoltore avveduto e perito che aveva una vigna su un ferti- ROCCA 1 LUGLIO 2006 Tra i tanti modi che la letteratura profetica esprime per parlare di giustizia e diritto, un genere risulta emblematico: quello giudiziario. Succede, infatti, che i più bei discorsi sulla giustizia, pronunciati dai profeti, siano formulati sotto le spoglie di una procedura giudiziaria, in cui Israele viene accusato dei crimini più gravi. Si tratta di un tipo di testo che presenta elementi fissi e stereotipi, definito «lite bilaterale» (ryb). In questa specie di processo Dio si propone come parte lesa, ma anche come giudi54 «il mio amato aveva una vigna» «ne farò un luogo spento» Il processo contro la vigna si deve concludere con una condanna: non avendo dato frutto, senza una ragionevole causa, essa sarà bruciata, la sua siepe divelta, le sue piante sterili date in pascolo agli animali selvatici. Lo stesso verdetto per Israele e Giuda che sono la «vigna» del Signore: egli l’aveva vangata con la sua Fedeltà, piantata del vitigno rosso della Sua Parola in cui era scritta la Vita come Giustizia e Diritto, ma essa ha avvelenato quella Parola, snaturandone l’anima, abusandone per fare del diritto il luogo dell’arbitrio e della giustizia l’occasione per legittimare la violenza e l’assassinio. Ecco perché: «Ne farò un luogo spento – dice Isaia – non sarà più potata né sarchiata. Non cresceranno in lei che spine e sterpi. Ordine do alle nubi, la pioggia su di lei non cadrà più» (v. 6, per la traduzione di G. Cernetti). La morte ricadrà su di lei come una nemesi immanente, come luce che si spegne, come linfa che si sperde. La luce della Parola che unisce – la Giustizia – la linfa che articola ed edifica – il Diritto. giustizia e diritto frutti della Sapienza Nel poema della vigna Dio si presenta come un lavoratore; similmente ad un contadino lo vediamo vangare, togliere i sassi, piantare, costruire, scavare, tanto che potremmo immaginarlo perfino sudare. Nonostante tutto questo impegno, la vigna non produce frutti. Allora chi ha speso tante energie si domanda come mai. È una domanda che riveste un ruolo centrale nel testo di Isaia, segno di un’ulteriore «ope- rosità» di Dio, il quale non soltanto agisce con le mani e con le braccia, ma anche riflette, si interroga, fa dei bilanci. Ci appare un Dio che, come un uomo saggio e intelligente, dopo una cattiva esperienza, prima di puntare il dito sull’altro, interpella se stesso, esaminando la possibilità di azioni ed eventuali, fatali, omissioni, magari inconsciamente compiute. Questo viticoltore ci è di grande esempio. Capita anche a molti di noi di lavorare a vuoto, senza ottenere i risultati sperati. Nonostante la perizia e la passione impiegate. L’atteggiamento di Dio, in casi simili, ci deve spingere alla emulazione: come Lui non si è avvilito ed ha invece, avuto il coraggio di andare a cercare dove avesse potuto sbagliare, così faremo anche noi. Una sana operazione di autocritica è la prima cosa cui ricorrere, dopo un fallimento. La seconda operazione sarà, poi, quella di prendere atto della verità di ciò che è accaduto, quindi di decidere per dei provvedimenti. Altre volte, capita, invece, che ci si comporti come la vigna di Israele. Di essere sterili, di essere portatori di morte e non di vita, intorno a noi. Di ubriacare gli altri e anche noi stessi di un vino malato. Di far avvizzire il frutto odoroso del colle dell’Amato. Di fronte a ciò dobbiamo avere il coraggio di celebrare un giudizio netto, chiaro e formale, come quello che gli stessi Israeliti pronunciarono su loro stessi. Solo questa dovuta onesta potrà liberare «l’ululato» di chi ha subito l’oppressione, di chi si è visto espropriare il diritto. Questo sarà l’inizio di un futuro diverso, matrice di speranza. Infine, il terzo tipo di esperienza, che qualcuno di noi potrebbe fare, è simile a quella del profeta. Egli è lì ad esaltare la bellezza di quella storia, sulle corde armoniose della sua voce e, allo stesso tempo a soffrire, insieme al suo amato, per quanto gli è successo. Egli è lì come l’amico dello Sposo, come colui che di quel tradimento e di quel legame fallito si dà pena. Sarà lui a non risparmiare parole di condanna a chi ha trasformato il diritto in delitto, ma anche a stupire ancora quando farà rifiorire quel legame, riannodandolo, con parole nuove, un domani, quando ancora il Signore dirà: «La vigna deliziosa, cantate di lei! Io, il Signore ne sono il guardiano» (Is 27,2) Anche la nostra voce sia davvero profetica, sia questo flauto di speranza e per il destino della vigna ed anche per coloro che l’hanno devastata. ROCCA 1 LUGLIO 2006 LA VOCE DEL DISSENSO le colle e non fece altro che vangarla, liberarla dai sassi e mettervi a dimora un vitigno d.o.c.. Dopo avervi costruito anche una torre e scavato nella pietra un tino, non credette di far altro che rimanere ad aspettare il tempo del raccolto. Ma questa vigna, pur tanto curata ed amata, non fece affatto uva buona, ma raspi fetidi e avvizziti. L’inatteso risultato mette in angustia il cuore del contadino. Allora decide di rendere pubblica la sua situazione e chiama degli uomini affinché giudichino fra lui e la sua vigna: «Perché mentre aspettavo grappoli essa non ha fatto che raspi?». Ma a questa domanda il viticoltore non trova risposta, come Dio non riesce a capire perché Gerusalemme trasformi il diritto in delitto e la giustizia in grido di oppressi (cf. v. 7). Rosanna Virgili 55 CONTROCORRENTE CINEMA S pentecoste ROCCA 1 LUGLIO 2006 Adriana Zarri 56 n episodio. Un anno la solennità di Pentecoste veniva a cadere lo stesso giorno della festività di santa Rita. Io camminavo verso la chiesa per partecipare alla messa festiva che sarebbe stata più... festiva e solenne del solito per via della celebrazione pentecostale. E, vedendo per strada tante persone con in mano grandi mazzi di rose, mi rallegravo di tanta devozione, peraltro ben giustificata per una delle feste più importanti dell’anno. Ma, in chiesa la mia allegrezza si tramutò in tristezza, quando mi accorsi che quelle rose non erano per lo Spirito Santo ma per santa Rita: la cosiddetta santa degli impossibili, vale a dire più potente di Dio. Perché, se impossibile è ciò che non può essere fatto, nemmeno Dio può farlo. Dio no, ma santa Rita sì. Ho ricordato questo piccolo episodio per dar conto della nostra approssimata religiosità. E ben altri episodi potrebbero venire annoverati per dimostrare che il nostro povero popolo cristiano (e non so fino a che punto tale) sovente mette i santi davanti a Dio (basti ricordare le tante candele che illuminano l’immagine del santo (o santa) preferito mentre l’Eucarestia se ne sta al buio, disadorna, quasi dimenticata). E questa dimenticanza si rivela, in modo particolare, per quanto riguarda la terza persona trinitaria. Del Padre infatti ci ricordiamo di più, non foss’altro che per la dizione «Padreterno» che è quasi sinonimo di Dio, come se riassumesse in sé la tre Persone. Del Figlio ci ricordiamo, in quanto incarnato in Gesù Cristo (se non fosse disceso dal cielo in terra ce ne ricorderemo molto meno). Ma lo Spirito – che non sembra potente come il Padre («Dio Padre onnipotente» recita la liturgia) e che non si è incarnato come il Figlio – resta in pe- U nombra. Teologicamente e storicamente noto per via del Filioque, è quasi ignorato dalla religiosità popolare che, della faccenda del Filioque, non sa nulla. (Pazienza. Forse non è necessario che sappia tutto ma che si ricordi che lo Spirito è la terza Persona di Dio, questo, sì, è necessario, anche se non necessita nemmeno che sappia o che ricordi l’ambiguità del termine Persona, riferita alla divina Trinità). Per celebrare la Pentecoste e per parlare dello Spirito forse basta ricordare la splendida sequenza che siamo chiamati a recitare (ma meglio sarebbe cantarla perché anche la musica è assai bella) durante la celebrazione eucaristica. Vi si legge (e lo citiamo per intero per comodità di chi non frequenti la chiesa e non abbia voglia di andarselo a cercare): «consolatore perfetto, dolce ospite dell’anima, dolcissimo sollievo; riposo nella fatica, riparo nella calura, conforto nel pianto. Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido raddrizza ciò che è deviato. Dona ai fedeli che confidano soltanto in te, i tuoi santi doni. Dona virtù e premio, dona santa morte, dona gioia eterna». L’abbiamo citato in italiano, benché l’originale latino sia più bello; ma la comprensibilità ha i suoi costi, e bisogna pur pagarli. Il Paraclito è spirito di consolazione e di unità. La prima lettura della liturgia eucaristica è presa dalla Genesi e narra il mito di Babele dove le lingue si divisero: è la faccia oscura e negativa rispetto a quanto accade a Pentecoste, dove le varie lingue si resero a tutti comprensibili, pur rimanendo nel loro idioma originario: probabilmente un simbolo che dice come unità e pluralità possano stare insieme, come nella divina Trinità. ❑ ignor polpettone, venite avanti, non vi peritate: voglio presentare anche voi ai miei lettori»: così Pellegrino Artusi, nel suo «Manuale pratico per le famiglie» intitolato La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene introduce la ricetta del polpettone, partendo dal concetto che si tratti di un piatto «modesto ed umile», tuttavia dichiarandogli «con qualche parola detta in vostro favore, troverete qualcuno che vorrà assaggiarvi e che vi farà forse anche buon viso». Nelle espressioni gergali del mondo dello spettacolo il termine «polpettone» è da tempo sinonimo di un impasto misto in cui immettere di tutto un po’ – più con generosità che in un ordine logico – per facilitarne il maggior gradimento possibile: avventura, commedia, tragedia, amore, morte, eccetera eccetera. E c’è stato un tempo, anche nel cinema italiano, in cui i polpettoni hanno avuto particolare fortuna. Costando molto denaro, la realizzazione di un polpettone ha necessità di una campagna pubblicitaria ampia e spesso spregiudicata e, come quasi sempre succede, deve fingere di offrire un prodotto di qualità artistica. È curioso come una grande produzione industriale – la questione va oltre il film di oggi – non si accontenti mai o quasi mai di essere quello che è (e non ci sarebbe nulla di male), ma tenti di apparire... arte, nella quale via è sempre o quasi sempre perdente. Però è così. Ed è dunque così anche per questo Codice Da Vinci di Ron Howard, sulla produzione del quale sono stati spesi circa centocinquanta milioni di dollari: così che non è difficile comprendere quale sia stato e Artusi dixit Il Codice Da Vinci quale sia l’impegno pubblicitario, un impegno che non indietreggia di fronte a nulla, mescolando sacro e profano, realtà storiche e fantasie, puntando anche sull’enorme successo del romanzo d’origine. Leonardo (anche se «da Vinci», quindi toscano) è, con la Gioconda, attrazione turistica parigina, francese; il Festival del cinema di Cannes – mai restio di fronte ai successi superficiali e mondani – si è facilmente offerto a ospitare in apertura il film. E non è certo un caso che, in Italia, la grancassa sia stata battuta soprattutto da una rivista che sembra essere di informazione e di critica cinematografica, ma che è essenzialmente un veicolo pubblicitario, pubblicato per di più dal medesimo editore che ha pubblicato l’edizione italiana del libro suddetto. Ne Il Codice Da Vinci gli ingredienti del polpettone cinematografico ci sono tutti, come da tempo non accadeva. E, ovviamente, sono aggiornati al digitale, alla elettronica, agli effetti speciali e virtuali visivi, sonori, di ripresa, di montaggio e così via. Aggiungiamo pure una edizione italiana, almeno nelle sale pubbliche, con un so- vrapporsi continuo – cólto ma disordinato – di lingue (inglese, spagnolo, francese, latino, italiano), utile forse a stupire ma sicuramente esibizionistico e barocco. Non occorre dunque parlare né di religione, né di istituzioni e gerarchie, bensì di cinema. Del resto lo stesso Howard ha avuto occasione di dichiarare: «il mio è solo un film, un thriller, non un trattato di teologia». Ed è proprio sul piano del cinema che il film è assai modesto, perfino, in qualche passaggio, noioso, ripetitivo, addirittura ridicolo. È sul piano narrativo che si va avanti a balzelloni e che gli ingredienti sono affastellati e confusi, rimessi continuamente in discussione, su un filo conduttore, d’altronde, estremamente esile, dopo un avvio lungo e spesso caotico che vorrebbe essere estremamente schoccante. Viene chiamato in causa uno studioso di simbologie, sul quale poi si innesta una avventura giallo-poliziesca, fino a citare il Cenacolo di Leonardo da Vinci per discutere sulla reale natura della figura che vi è rappresentata alla destra di Gesù. Qualora si tratti, come sostiene il film (sulla scia del libro) di una figura femminile, libro e film sostengono trattarsi di Maria Maddalena «consorte» di Gesù, con discendenza perpetuatasi in via femminile, in territorio di Francia, fino al tempo delle Crociate. Il dipinto di Leonardo dovrebbe quindi essere la conferma di una teoria ben precedente... che però trascurerebbe un elemento non di secondo piano: e il dodicesimo apostolo? Se la grande macchina industrial-pubblicitaria di Hollywood non si fosse impegnata a uno dei massimi livelli degli ultimi tempi per lanciare il film, si parlerebbe assai meno di film-scandalo, la stessa Chiesa di Roma non avrebbe probabilmente perso tempo a discutere, e Il Codice Da Vinci sarebbe stato affrontato soltanto – e giustamente – secondo la sua prospettiva naturale, quella di un comune spettacolo cinematografico. Si è invece chiaramente contribuito a dar fiato alle trombe della pubblicità che non chiedono altro che di essere alimentate da ulteriori clamori. Ancora una volta si è caduti in un gioco che il cosiddetto «libero mercato» alimenta con infinita spregiudicatezza. Anche il Comune di Parigi, attraverso la messa a disposizione dei locali e dei simboli del Louvre, ha incassato milioni di dollari e altri ne incasserà, giovandosi – se ce ne fosse bisogno – di un ulteriore rilancio reclamistico. Tom Hanks e Audrey Tautou sono due attori cinematografici (lui è – anche qui – di gran lunga più bravo), e così Jean Reno, Paul Bettany, Ian McKellen, Alfred Molina, e i loro nomi non avrebbero assunto significati troppo superiori alle loro stesse forze. ❑ 57 ROCCA 1 LUGLIO 2006 Giacomo Gambetti RF&TV ARTE Roberto Carusi Renzo Salvi Mariano Apa Wrestling La nevrosi quotidiana ROCCA 1 LUGLIO 2006 I l dialogo – comunque si svolga – tra due personaggi è spesso una sorta di specchio capace di suscitare oppure placare vivaci contrasti. Così è nel teatro. Vien da pensare a questa modalità espressiva di fronte al testo La porta, scritto da Tommaso Urselli, che ne è anche interprete con Pino Polimeri (il fratello gemello) e Francesca Perilli (la madre dei due). La donna li ha abbandonati: quando non è dato sapere giacché i due – uomini fatti – sono abbigliati e agiscono come bambini piccoli. E, ad accentuare la propria intollerabile specularità, registrano e riascoltano ossessivamente reciproche domande: talora di straordinaria gravità, talaltra di infantile banalità. In questi loro frammenti di perduta e ritrovata umanità s’inserisce di quando in quando la figura materna che racconta di sé. Chiusa, inesorabilmente, la porta della stanza in cui si svolge l’azione che azione non è. Nella regìa – ben cadenzata – di Antonia Pingitore i riflettori s’accendono e si spengono su quella porta che ad ogni cambio di luci muta emblematicamente di posizione rispetto ai personaggi. La coppia, di sapore beckettiano, si scompone e ricompone tra vezzeggiamenti e sbranamenti di fronte all’ostacolo ricorrente che non consente loro una vera comunicazione. Nell’andamento drammaturgico (assimilabile a quello di una sequenza cinematografica) si colgono pennellate che richiamano per un verso un mitico Sud, per l’altro la perenne infanzia del portatore di 58 handicap. Analoga modalità teatrale di analisi esistenziale, ma sprizzante umorismo da ogni battuta, è quella che propone Woody Allen Cafè, messo in scena dalla Compagnia stabile del milanese Teatro Filodrammatici. Come il titolo dice, si tratta di un montaggio (nato da un progetto drammaturgico di Emilio Russo) del meglio della produzione di Allen. Esso accosta una gamma di mille sfumature dei più stereotipati personsggi (la coppia, l’amicizia, il lavoro) con la concatenazione seriale delle vignette di una strip a fumetti. Le battute – tratte dal repertorio teatrale, cinematografico, autobiografico dell’autore – ne mantengono intatta, grazie alla lineare regìa di Marco Balbi, l’asciutta brevità e la fulminante secchezza. Alle quali ben s’adegua il ritmo della recitazione sopra il rigo di quattro bravi attori: Milvia Marigliano, Stefania Pepe, Gianni Quillico, Nicola Stravalaci. Sicché si ride – amaro – dei tic, dei blocchi, degli insoliti conflitti interiori. Nella scenografia volutamente scarna si introducono di quando in quando, a sottolineare la multiforme espressività di Woody Allen, da un lato spezzoni sapientemente filmati in bianco e nero, in cui altri quattro attori parlano dello stesso Allen, dall’altro gli altrettanto consoni intermezzi di un quartetto jazz di qualità (pianoforte, clarinetto, batteria e contrabbasso) che dialogano tra loro ora facendo eco l’uno all’altro, ora non ascoltandosi neppure. ❑ U na baraonda a suon di botte e di tifo in grandi palasport. Un carnevale di abbigliamenti e di corpi in mostra, gli uni e gli altri sovente al di là dei confini estremi del kitsch. Un gran atteggiarsi ringhioso – bicipiti, posture, sputacchi ed urlacci: al pubblico piace così – prima e durante quel darsele «di santa ragione» (che qui davvero è un modo di dire) molto per finta: quando i campioni/ attori si fan male davvero, in genere, accade per sbaglio. Il Wrestling è una messa in scena che il gusto americano del Gran Circo sommato al rodeo ha costruito come spettacolo-businnes e di cui la televisione ha incrementato l’impatto, sia riproponendolo e moltiplicandolo attraverso gli schermi domestici (da noi è su ItaliaUno, nella notte del sabato, iniziando alle 23 circa), sia esaltandone scene e situazioni all’interno delle stesse grandi arene ululanti di pubblico, su megaschermi che ripropongono scene specifiche, atti «cruenti» e cattiverie tra avversari, facendo ricorso a ralenty e replay. Su grandi e piccoli schermi passano, con ogni supporto dell’effettistica di post-produzione video, tutte o quasi le forme della lotta a due cumulatesi nella storia umana: percosse di mano e di piede, spinte, strappi, torcimenti, strette, costrizioni… Ma anche randellate, martellate e sfasciamenti di sedie sull’avversario… Queste azioni, come il contorno degli ingressi al palco-ring, con fiammate e fumi ai portali, portano al protagonismo lottatori/cascatori corpulenti, con barbe vichinghe o kilt scozzesi, costumi da Capitan America o da pirata della Tortuga, capigliature e pelurie trecciolinate o tenute alla Lawrence d’Ara- bia, sino ad un Bokassalook (da supposto imperatore nero: con corona/ manto porpora/ermellino/ scettro/trono e… signora d’accompagnamento). Tra gli spettatori di quelle riprese tv – made in Usa anche quelle in onda da noi – non mancano donne e bambini; e anche tra gli spettatori della trasmissione italiana, ad ora tarda, i bambini da scuola elementare son molti. A loro, d’altro canto, sono dedicate linee di prodotto che hanno fatto perno sull’importazione del Wrestling in Tv: figurine dei protagonisti con il dettaglio descrittivo – peso, misure, costume, abilità, «alleanze» – di ciascun lottatore; pupazzi in plasticone, multisnodabili; costumi carnevaleschi e, come riproduzione di immagine, facce, sigle, scritte, riprodotte o attaccabili su zaini, astucci, quaderni. Sarebbe facile dire che per questa via cortocircuitano le due educazioni: quella alla convivenza, scolastica, e quella al gioco del massacro, da ring/&/show. Ma sarebbe una imprecisione perché non si dà un insediamento sociale del wrestling nell’età infantile come cultura diffusa e come affetto; piuttosto per questo tramite, ora – ma ricordiamo i Pokemon, oggi demodè – si rinforzano e trovano modo di svilupparsi, tra i piccoli, comportamenti ipercinetici, di irrequietudine e di forzata baldanza, portati a rifare modi di atteggiarsi e di relazionarsi tra pari, che (poi) possono coagulare in modelli di relazione generale, di società a quel punto, tributari del culto del più forte e di gradimento del cattivo. A quel punto la situazione dovrà far problema. Ma pensandoci da oggi. ❑ MOSTRE Giuliano Della Pergola Trevi N ella continuità di un coerente progetto culturale, – ben testimoniato dalla rivista della Galleria: «Work.Art in Progress», benissimo diretta da Fabio Cavallucci – la Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento afferma con «Il potere delle donne», – per la cura di Luca Beatrice, Caroline Bourgeois e Francesca Pasini –, la capacità di essere protagonista di un dibattito sulla qualificazione della cultura della postavanguardia, tra Concettualismo e Body Art. In questo dibattito convergono, in questi mesi, oltre alla Galleria Civica di Trento, anche la vicina Venezia a Palazzo Grassi – con la raccolta di François Pinault, con i Mac Carthy e i Cattelan e gli Hirst e i numerosi altri di: «Where are we going» curata da Alison M. Gingeras (catalogo Skira) – la un po’ lontana Rivoli, al Museo di Arte Contemporanea – «Concetto, Corpo, Sogno», a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, con gli artisti Lawrence Weiner, Susan Hiller, Dan Graham, Joseph Kosuth e Joan Jonas – e, ancor più lontana, la Berlino della quarta Biennale d’Arte, – per la cura di Cattelan, Gioni e Subotnik, lungo la Auguststrasse con la serie infinita degli artisti benissimo documentati –. Ma la lontananza geografica si annulla al cospetto degli argomenti che si esprimono. Si tratta infatti, da Trento a Berlino, da Rivoli a Venezia, di cogliere una necessità sottintesa e sempre più dichiarata. Che, ovvero, il decorativismo del postconcettuale – fino alle insincerità dei mutanti e delle protesi della post Body Art – deve lasciar decantare un ritorno alle origini della elaborazione concettuale (e le mostre di Rivoli e Venezia aiutano in questo senso) per affermare ancor nella militanza della attualità – e qui le mostre di Trento e Berlino diventano assai significative – la radicalità dell’argomento artistico in quanto argomento della radicalità esistenziale. Alla mostra del «Potere delle Donne» si affianca una rassegna interessantissima di documentazione da parte della Franklin Fornace Archive, di New York, per la cura di Martha Wilson. Nella Galleria passano in rassegna le storiche presenze di Valie Export (Linz, 1940) e Joan Jonas (New York, 1936) e dunque la Bee, Currin e Galliano, Kern, Meyer, Helmut Newton, Richardson, Rickett, Waters – le cui opere sono presentate da Luca Beatrice, insistendo sul dato seduttivo ai bordi dell’edonismo e sul precipizio del consumismo –; ed ecco Francesca Pasini presentare le opere di Vanessa Beecroft, Di Maggio, Hesse, Morgantin, Morcellin e Pellegrini, Liliana Moro e Nesht e Kiki Smith. La Pasini mette in evidenza il valore etico della configurazione degli incontri nella realtà della globalizzazione, evidenzia con queste opere il valore delle domande e degli ascolti tra linguaggi e antropologie che fanno piccolo e ricco questo mondo. Infine Caroline Bourgeois mette in mostra le opere di Birnbaum, Boudier, Galindo, Klein, Messager, Rosler, Trockel e le citate stoiche presenze delle Export e Jonas; tentando di esprimere il valore ideologico della femminilità che si converte al femminismo come tradizione di un impegno politico nella pratica artistica. ❑ Stefano Levi Della Torre L à dove un tempo la Richard Ginori aveva i suoi capannoni, ora, diventato quel quartiere una delle molte aree dismesse urbane milanesi, è cresciuto un nuovo polo culturale che ingloba la Galleria Corrispondenze. È qui che espone Stefano Levi Della Torre, pittore che appartiene ad un filone espressionista dal coté figurativo. È una pittura, la sua, che allude e stupisce per il realismo, ma allo stesso tempo che non concede nulla al figurativismo. Siamo infatti nell’ambito dell’interpretazione più che della fotografia. Anche nel caso del ritratto della madre Irma, il volto è quello tratto da un pennello che pesca in un suo corredo tecnico e interpretativo facendo del soggetto apparente qualcosa di diverso da quello reale. Ed è soprattutto nel comportamento di certi animali, dipinti per lo più in gruppo, che meglio possiamo entrare nel merito della pittura di quest’artista. Successivi a certi quadri in cui Levi Della Torre dipingeva, nell’arca di Noè, una zoologia pigiata e depressa, sospinta in massa verso la morte (come gli ebrei nei carri che li portavano verso i campi di sterminio) ora, queste galline nel pollaio (Titanic, 199195), o le pecore che titubano tra il riparo ombroso dello stallo ed il prato esterno illuminato dal sole (Soglia 2005), si direbbero tutti animali sofferenti di un dolore intimo e sottaciuto, così privi di guida, così recalcitranti a vivere come a morire, senza orientamento, senza futuro. Questo è dunque il vero soggetto della pittura di Levi Della Torre: egli dipinge il senza, ohone. Si resta stupiti di fronte ai suoi quadri perché egli ci addita sì un soggetto, ma solo per parlarci d’altro: i suoi animali alludono ad una sofferenza che aleggia senza nome, anonima ma onnipresente, senza volto eppure densamente frammista alla realtà fenomenica. Acciughe morte e gettate per la salagione su una tela (Cassetta, 1998), alludono a quei tragici mucchi di ossa dei poveri cadaveri di Auschwitz. Allora il mondo interiore del pittore diventa la sua vera tavolozza ed i colori gli strumenti per dipingere un mondo morale intenso e sofferente, indipendente dal soggetto che appare poi sulla tela. Si dice che il pittore altro non possa fare che continuare a dipingere se stesso, per alludere al fatto che sempre esiste un’inevitabile relazione tra l’io che vive quale nascosto abitatore nel corpo (il dasein, l’anima, lo spirito…), e l’io che ci appare quando l’incontriamo. Certamente tale affermazione presenta una sua verità, ma nel caso di Levi Della Torre quest’imprescindibile processo pittorico risulta qualcosa di palpabile e l’emozione che suscitano i suoi dipinti deriva dal mondo morale che egli sa offrire, con discrezione ma molto precisamente. Ecco uno scheletro di pappagallo che predica (Il pappagallo, 2001), professore universitario che nulla ha da dire, ad uccelli che fanno finta d’ascoltare. Presenza assente, per una predica inutile. Ecco due scimmie (Prigioniere 1999) che rifanno il verso a chi le sta ad osservare, richiamando lo spettatore ad eco allusive sui progenitori, a quella sua zoologia che resta parte della sua antropologia. Ecco dei sassi che parlano della terra, ma fors’anche della luna (Muro 1, 1996), perché non il pianeta ma il cosmo intero è ciò che ci circonda, seppure le nostre cure più prossime siano rivolte a «quest’aiuola che ci fa tanto feroci». La mostra è stata curata da Veronica Pecorini, con semplice ma intenso allestimento. ❑ 59 ROCCA 1 LUGLIO 2006 TEATRO SITI INTERNET MUSICA Alberto Pellegrino ROCCA 1 LUGLIO 2006 L 60 («Noi avevano un sogno/ che non era solo vivere/ giorno per giorno, ed era/ la gioia di dividerlo con gli altri,/con le nostre compagne e compagni») e la poesia universale come liberazione dell’uomo. A questi versi fa da controcanto Claudio Lolli con canzoni che parlano di amori e di ricordi (La fine del cinema muto, Angoscia metropolitana, Anna di Francia) unite a canzoni di chiaro impegno politico come L’amore ai tempi del fascismo ancora presente in questa società consumistica e alienata, Canzone di bassa lega su «un’Italia ristrutturata dalle banche», Primo maggio di festa, Quelli lì (Compagno Gramsci), un individuo scomodo per i benpensanti e che ebbe il buon gusto di togliersi di mezzo, morendo di malattia in una galera fascista. Una raccolta di brani poetici e canzoni non inediti, ma non per questo meno validi, perché si rafforzano e si attualizzano dal loro concatenarsi, proprio perché, come dice D’Elia, «la poesia deve stare dentro la storia. Si tratta di un lavoro che trae la sua bellezza dal fatto che non nasconde interessi di discografici, ma «nasce dalla spontaneità e dall’affetto, – afferma Lolli – senza strategie di marketing o piani prefissati». G Digital generation U n colpo d’occhio sui nostri contesti di vita quotidiana poteva darci già un’idea orientativa del fenomeno, ma ora un’indagine commissionata dall’Osservatorio Associazione Italiana Editori ci informa con dati e numeri precisi: sta crescendo in Italia una vera e propria «Digital generation», costituita da quel 91% di giovani e giovanissimi italiani, dai 10 ai 24 anni, che si dichiarano utenti abituali di Internet e delle tecnologie informatiche, impiegati sia per scopi formativi che per finalità ludiche e comunicative. Studio e interazione sono i due ambiti d’interesse della stragrande maggioranza dei giovani internauti. Tra chi naviga in modo per lo più abituale, l’87% usa la rete tutti i giorni o quasi per reperire contenuti, mentre un cospicuo 69% mostra di trovare grande interesse nella pratica della comunicazione via Internet: un ragazzo su quattro si dedica infatti, almeno settimanalmente, a chat e forum, al punto che per molti la conversazione via Internet risulta preferibile – e in realtà è già in gran parte preferita – alla classica telefonata pomeridiana con l’amico, complice anche il fatto che sono ormai in circolazione programmi gratuiti che permettono di condividere voce e video a costo zero e con risultati tecnici di alta qualità (come anche noi recentemente abbiamo segnalato, cfr. la nostra rubrica su Rocca 9/ 2006). Un terzo del tempo che gli studenti impiegano per studiare e fare i compiti, inoltre, prevede l’utilizzo del pc e di Internet, il cui impiego occupa mediamente il 28% delle ore complessive dedicate allo studio individuale. Interessante è quanto osserva Renato Mannheimer, curatore dell’indagine: «I gio- vani non si percepiscono come soggetti passivi del mondo informatico, ma come protagonisti attivi della produzione dei contenuti da scambiare e condividere: partecipazione e condivisione diventano le nuove regole di utilizzo della rete». La riprova è data dal rapporto che i giovani hanno con i prodotti editoriali tradizionali e con le nuove modalità tecniche di condivisione. Ad esempio il 52% dei giovani italiani legge riviste e quotidiani tanto su Internet quanto in forma cartacea (il 27% lo fa solo in modo tradizionale), e sempre il 52% ascolta radio e musica nelle forme tradizionali mentre il 29% usa a questo scopo anche le nuove tecnologie (il 53% dei giovani possiede iPod o lettore mp3); più alto il numero di quanti seguono la Tv sullo schermo classico (72%), anche se 1 giovane su 5 dichiara di iniziare a seguirla anche su Internet. Quanto alla comunicazione, oltre a chat ed email, prende sempre più piede tra i giovani il blog, una sorta di diario personale realizzato su Internet, e accessibile a tutti, dove ciascuno inserisce le sue considerazioni, foto e altri materiali audiovideo: è già a quota 9% il numero dei ragazzi che affidano alla rete le proprie fantasie, sogni, angustie mediante il blog. Non meno praticato il file sharing, ossia la condivisione gratuita prevalentemente di musica e film via Internet: il 42% degli intervistati dichiara di aver scaricato, senza pagarlo, nell’ultimo anno (2005), almeno un brano musicale o un film da Internet, con buona pace del diritto d’autore... Partecipazione e condivisione: se il buongiorno si vede dal mattino, benvenuta in rete digital generation! ❑ Ferdinando Montuschi e Gabriella Persico (a cura di) Scoprire la vita nella Terza età Gli anziani si raccontano Ed. Cittadella, Assisi 2006, pp. 295 Di libri sulla «Terza età» ne sono stati scritti parecchi. Quasi tutti da parte di «esperti» che propinavano le loro precise indicazioni per invecchiare bene. Questo libro è diverso, è davvero originale perché a parlare della «Terza età» sono coloro che attualmente la sperimentano e la raccontano appunto, come recita il sottotitolo. Infatti il libro raccoglie circa venticinque testimonianze di persone che scrivono come dei miniromanzi autobiografici su tutta o una parte della loro vita. Non sono fantasie ma storie di vita vissuta avvincenti: tengono inchiodato il lettore allo scritto fino all’ultima pagina. Da tutti i racconti – qualcuno molto sofferto – emerge la modalità o la strategia con cui le persone ce l’hanno fatta a superare le immancabili e imprevedibili prove, a ricominciare, a ideare nuovi progetti, a fronteggiare continui cambiamenti e come sono approdate, fino a novanta anni, a una vita attiva, serena, gioiosa, nonostante tutto. L’ultima età della vita rimane un mistero per tutti. In questi racconti ciascuna persona rivela, più o meno velatamente, il suo segreto, la forza che l’ha spinta sempre avanti. Situazioni differenti a cui corrispondono soluzioni differenti. Il segreto non è uguale per tutti, le esperienze concrete non sono esportabili perché dipendono da innumerevoli fattori: personali e familiari, innanzitutto, ma anche sociali, ambientali, ecc. Ma il metodo di adattamento, di riflessione, di superamento della prova, di ricerca può presentare elementi di validità per tutti. Un cenno particolare merita la «premessa educativa» – situata all’inizio del libro – del prof. Ferdinando Montuschi, che potrebbe essere molto opportunamente letta da coloro che sono ancora negli anni della produttività, della visibilità sociale e del successo. La riflessione su queste pagine potrebbe aiutare a elaborare progetti sempre nuovi, capaci di rendere significativa anche l’esistenza con minori forze fisiche e mentali. Insomma – dice Montuschi – si può evitare di vivere nella terza età una edizione “ridotta” della propria esistenza. Infine, non si può non riconoscere a Gabriella Persico nel suo «Dialogando con gli autori» una bella testimonianza di come vive lei – non vedente e a 83 anni – la sua vita attuale densa di impegni e di interessi. Un bel libro, dunque, da leggere, rileggere, regalare. E non solo alle persone della terza età. Maria Giovanna Galli Augusto Cavadi Strappare una generazione alla mafia DG Editore, Trapani, 2005, pp. 191 Un libro contro i luoghi comuni. Pregio principale del volume di Augusto Cavadi, insegnante di filosofia a Palermo e presidente del comitato promotore dell’Università etica per la condivisione della conoscenza, è proprio questo: sottrarsi alla retorica sulla mafia e tracciare, invece, i lineamenti base di una pedagogia alternativa, in grado di strappare i più giovani alla criminalità organizzata. Meditato, pesato, talvolta sofferto, il libro spiega gli intrecci tra fenomeno mafioso e vissuto sociale, evita saggiamente la strada repressiva legata all’uso della forza per imboccare la via dell’educazione più profonda, intesa quale «riforma intellettuale e morale». La sfida è avvincente e dimostra, soprattutto, come il processo formativo sia in grado di scardinare, a lungo termine, il blocco culturale che su cui si impianta la mafia. Le pagine si susseguono in sei principali sezioni, che interrogano e chiamano in causa diversi ambiti formativi (scuola, chiesa, associazionismo), fino a scavare nella stessa mafia attraverso le parole di testimoni che hanno vissuto sulla propria pelle l’appartenenza, diretta o indiretta, a un clan. L’autore non eccede mai ad un ottimismo ingiustificato, ma coltiva pagina dopo pagina una lucidità di analisi dell’approccio pedagogico proposto, che lo porta a scommettere sul futuro, sulla difficoltà stessa di una vittoria culturale appesa a un filo, eppure possibile. Ed è la razionalità, in questa scommessa, a tenere banco più dell’emotività e delle passioni. Scrive infatti Cavadi: «Almeno nella mia vita, la lezione più efficace e duratura di Costa, Chinnici, Falcone e Borsellino è stata che ci sono battaglie per le quali il cuore non basta: ci vuole anche cervello». Pasquale Martinelli Peter Antes L’Islam. Una guida Palomar, Bari 2006 pp. 176 Tradotto e curato da Leo Lestingi, questo testo non li dimostra, ma ha 26 anni, almeno nel suo nucleo fondamentale, poi rivisto, integrato, ridiscusso da un autore che associa rigore scientifico e ‘passione culturale’. Antes, che possiamo definire «scienziato delle religioni» oltre che esperto islamista, mette a fuoco la delicata e cruciale questione di come viene percepito l’Islam, tra generalizzazioni figlie di una conoscenza (comoda e) superficiale e commistioni tra rapporti con l’altro e paure dell’altro. E allora l’obiettivo è approfondire e farlo con urgenza – significativo in tal senso il capitolo dedicato all’etica dell’Islam –, al di là dei preconcetti, delle prevenzioni ideologiche e delle facili associazioni (Islam = fondamentalismo = guerra = terrorismo…) che l’opinione pubblica assorbe troppo spesso per complicità dei mass media. In realtà la maggioranza dei musulmani non vive il Corano «come un libro dogmatico che offra spiegazioni precise intorno a Dio e al mondo: esso costituisce, soprattutto, una cornice di orientamento» (p. 71). Nell’ambito di questo orientamento non è vero che non vi sia spazio per la ricerca personale, per i dubbi e le ansie e le fragilità che si sente addosso ogni uomo e dunque, naturalmente, anche l’uomo dell’Islam. La proposta di Antes, allora, è quella di indagare – attraverso il confronto con la laicità, la sottolineatura degli aspetti politici della religione, la rilettura e la rielaborazione di elementi della tradizione (per esempio Platone e Zoroastro, pensiero greco e pensiero persiano) e degli antichi costumi arabi preislamici – la soluzione in chiave islamica, cioè la ricerca islamico-religiosa di un’alternativa. Ma depurandola del vizio di ricaduta nella logica oppositiva e arricchendola del portato di evoluzioni storiche e trasformazioni culturali. Giuseppe Moscati 61 ROCCA 1 LUGLIO 2006 Giovanni Ruggeri Canzone d’autore e poesia a via del mare è un disco che è stato distribuito dall’Unità (per informazioni www.liocorno.net) e che è nato dall’incontro del poeta Gianni D’Elia con il cantautore Claudio Lolli, accompagnato dal chitarrista Paolo Capodacqua, poesie e canzoni dense di pensieri e cariche d’impegno secondo un’antica tradizione della sinistra che risale ad alcuni anni fa quando grandi attori riproponevano i versi «politici» di Brecht, Quasimodo, Gianni Rodari, dei poeti spagnoli repubblicani e le case discografiche pubblicavo canzoni dalla forte carature politica. Gianni D’Elia, uno dei maggiori esponenti della poesia italiana divisa fra sentimenti e impegno politico, propone alcune sue composizioni tratte dalle raccolte Sulla riva dell’epoca (Einaudi, 2000) e Bassa stagione (Einaudi, 2003), che parlano di sentimenti, della bellezza della natura, di ricordi familiari, dell’esistenza quotidiana, ma anche delle lotte operaie (la Benelli della sua Pesaro) e del neofascismo, di Togliatti e Allende, di Tien an men e la libertà, di guerra e terrorismo, la volontà di avvelenare il mondo in nome del profitto, ma anche della politica petulante, noiosa e «stolida» di Forza Italia e del suo «padrone», a cui si contrappone un sogno antico da far rivivere LIBRI Kazakistan ROCCA 1 LUGLIO 2006 S tato dell’Asia centrale, per superficie nono nel mondo, il Kazakistan è delimitato a nord dalla Russia, a est dalla Cina, a sud da Kirghizistan, Uzbekistan e Turkmenistan e a ovest dal Mar Caspio. Il popolo dei kazaki, costituitosi in seguito alla frammentazione dell’impero mongolo, avvenuta subito dopo la morte di Gengis Khan, comparve per la prima volta verso la fine del XIV secolo. Dopo essere stati brutalmente sconfitti dagli Oirat, un bellicoso popolo mongolo dalle ambiziose mire espansionistiche, l’idea di autodeterminazione dei kazaki, che scaturì in seguito alla liberazione dei popoli dell’Asia centrale ad opera dei bolscevichi, venne infranta dalle frequenti e feroci repressioni intraprese dai sovietici. Tuttavia, nel 1920, la regione kazaka divenne una repubblica autonoma russa e a partire dal 1936 entrò a far parte dell’Unione Sovietica. La linea politica che il governo centrale russo adottò in quella regione si incentrò su un intenso programma di industrializzazione, sulla trasformazione della steppa in una grande piantagione di cotone e sull’utilizzo delle zone meno popolate per le sperimentazioni nucleari e per la messa a punto del programma spaziale. Con il crollo dell’Urss nel 1991, il Kazakistan proclamò la propria indipendenza. Sempre nello stesso anno, insieme ad altri undici stati che costituivano l’Unione Sovietica, nacque la Comunità degli Stati Indipendenti (Csi). Il primo 62 presidente eletto dal Parlamento della neonata Repubblica kazaka fu l’ex comunista, Nursultan Nazarbayev. Nel 1992 il Paese entrò a far parte delle Nazioni Unite. Grazie ai risultati favorevoli di due referendum, al presidente venne prolungato il mandato e gli vennero assegnati nuovi poteri. Nel frattempo nel Paese le tensioni interetniche continuavano a creare subbuglio, soprattutto a causa della scelta del Parlamento di non accordare alla lingua russa pari dignità rispetto a quella kazaka e al rifiuto di concedere alla popolazione russa la doppia cittadinanza. La risultante fu che circa un milione di russi lasciarono il Paese. Nel tentativo di attenuare le divisioni etniche e di contrastare le tendenze secessionistiche comparse a nord, la capitale venne trasferita ad Astana. Alla fine degli anni Novanta, un nuovo periodo di turbolenza politica spinse Nazarbayev ad anticipare le elezioni presidenziali, che, svoltesi in un clima di scarsissima trasparenza, confermarono con un ampia maggioranza la carica del Presidente. Transparency International valuta il Kazakistan come uno dei paesi più corrotti del mondo. Sono stati rivolti contro i media indipendenti e l’opposizione soprusi quali l’arresto, il terrore, l’intimidazione e la censura. Nel 2000, rafforzati gli accordi di cooperazione con la Russia nel campo della sicurezza, Nazarbayev ha avviato un dialogo con le vicine repubbliche per contrastare il traffico di droga e le attività terroristiche di ispirazione islamica. Popolazione: la composizione etnica del Paese risulta piuttosto anomala, dal momento che su una popolazione di poco superiore ai quindici milioni di abitanti, i kazaki, pur costituendo il gruppo etnico più cospicuo, rappresentano solo il 39% della popolazione, seguiti dai russi (37,8%), tedeschi (5,8%), ucraini (5,4%), uzbeki (2%) e tatari (2%). Verso la prima metà del XX secolo, la massiccia immigrazione russa nella regione, finalizzata a cancellare le divisioni etniche e tribali e a unificare la popolazione centroasiatica sotto l’insegna di Mosca, aveva notevolmente ridotto il gruppo etnico kazako, che solo di recente si è accresciuto grazie a un elevato tasso di natalità. Religione: la confessione prevalente è quella musulmana di rito sunnita, ma sono presenti anche numerosi ortodossi (circa il 40% della popolazione), protestanti e cattolici. Nel febbraio 2005, per combattere il terrorismo, è stata approvata una legge che limita in modo grave la libertà religiosa, bandendo le associazioni religiose che infrangono la legge della Repubblica. Nel luglio 2005 l’Unione del musulmani kazaki ha fondato il Comitato musulmano per i diritti umani in Asia centrale, finalizzata a proteggere i diritti civili senza distinzione di nazionalità, religione o appartenenza politica. Economia: dagli inizi del XXI secolo, grazie alla scoperta di ingenti giacimenti di petrolio nel Mar Caspio, l’economia del Kazakistan sta vivendo un periodo di FRATERNITÀ Nello Giostra forte crescita economica. Il vice ministro dell’economia ha dichiarato che il Pil del Paese potrebbe crescere annualmente dell’8,8% fino al 2009. Oltre al petrolio, il Kazakistan è ricco di materie prime e di importanti minerali quali lo zinco, il manganese, l’uranio, l’oro e l’argento. Per quanto riguarda il comparto industriale, i settori di maggior rilievo sono quelli metallurgico, chimico, tessile e della raffinazione del petrolio. L’inquinamento e l’attività petrolifera, insieme agli esperimenti nucleari effettuati negli anni Cinquanta, hanno gravemente danneggiato l’ambiente, creando nubi di polvere cha avvolgono numerose città. Situazione politica e relazioni internazionali: il vento di rivoluzione che in meno di un anno ha rovesciato i vecchi regimi in quattro delle ex repubbliche sovietiche, sembra non attecchire in Kazakistan. Nel dicembre 2005 infatti, il presidente Nazarbayev è stato riconfermato per la terza volta, malgrado l’Osce abbia denunciato gravi brogli elettorali. Dopo gli attentati dell’11 Settembre 2001, il Kazakistan si è schierato decisamente con gli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo islamico internazionale, nonostante i musulmani rappresentino quasi la metà della popolazione. Nel maggio 2006, il vicepresidente Usa, Dick Cheney, ha discusso con il Presidente kazako della possibilità di creare un via per gas e petrolio che però non passi per la Russia. Anche le diplomazie cinese e indiana si stanno muovendo con l’intento di stringere importanti accordi per la fornitura del petrolio kazako, dal momento che la regione è ormai diventata il centro nevralgico per la sicurezza energetica. ❑ Una famiglia normale fino a cinque anni fa Rispondo volentieri alla vostra richiesta di informazioni riguardanti la famiglia di Luciano. Devo ringraziarvi perché in questo modo ho potuto avvicinare nella persona di Luciano un amico che mi darà una mano per il progetto Oratorio 2006 che sto cercando di avviare insieme alla Protezione Civile. Lui ha tutto un trascorso di uomo appassionato di sport e in modo particolare di calcio e calcetto. Ha formato tanti giovani allo sport, allontanandoli da pericoli vari, pur vivendo del suo lavoro di muratore e con l’impegno della famiglia composta dalla moglie e due figli di 16 e 15 anni. Era una famiglia normale, non ricca, ma che riusciva ad andare avanti con dignità fino a cinque anni fa quando è iniziato il calvario della malattia della moglie: tumore al seno. Ho dato un’occhiata alle cartelle cliniche e ho preferito accludere solo due fotocopie in un solo foglio dove potete vedere le terapie continue cui è sottoposta. Le spese sono tante! Cara Fraternità, ci sono periodi in cui sembra che aumentino in maniera forte i casi a cui bisognerebbe far fronte e ci si ritrova nell’impossibilità di farlo. Diamo qualche cosa, ma non basta... Qualsiasi offerta è utile. Vorrei non ricorrere ai vostri generosi amici, ma conoscendo la loro grande comprensione trovo il coraggio per scrivere. Grazie per tutto. Don V.S. Per fare il venditore ambulante Vi chiedo scusa se oso nuovamente disurbarvi chiedendo aiuto per la famiglia «Ogni volta che avete fatto qualcosa a uno dei più piccoli di questi miei fratelli lo avete fatto a me» Matteo 25, 40 di Calogero che versa ancora in situazioni economiche molto disastrate, aggravate dalla cagionevole salute della moglie. Un anno fa, a proposito di questa famiglia, ci è pervenuto dai Rocchigiani un contributo economico e un’offerta da parte di una lettrice per l’acquisto di un «Ape» che doveva servire a lui per riprendere il lavoro di venditore ambulante. Non abbiamo dato seguito alla vostra proposta perché pensavamo di risolvere, anzi di aver risolto il problema. Lo abbiamo fronteggiato con responsabile attenzione, ma per una serie di conseguenze non prevedibili, è rimasto ancora insoluto. Purtroppo, a causa di altri carichi pendenti che man mano si sono conclusi, la misura restrittiva attuata dalla Giustizia nei confronti di Calogero è stata maggiorata con gli arresti domiciliari, per cui sarebbe stato inutile procedere con l’acquisto del mezzo. La «pena» da scontare finirà ora; si riprensenta quindi il problema del lavoro. Non siamo riusciti a trovare un datore di lavoro disponibile ad accoglierlo e perciò resta da ripercorrere la strada di prima: acquistargli un «Ape» per riprendere il suo lavoro di venditore ambulante. Il costo di un seminuovo, compreso il passaggio di proprietà, è di euro 1600,00. Chissà che la lettrice di allora non sia ancora disposta ad aiutare questa giovane famiglia provata da tante avverse situazioni, ma che sogna e conserva nel cuore tanta voglia di integrarsi nella comunità con onesta e laboriosa dignità. Hanno due figli di 8 e 1 anno. Vi ringrazio per avermi ascoltato e sono sicuro di un favorevole riscontro. Auguro ogni bene dal Signora a Fraternità e a tutti i lettori di «Rocca». Don M.G.A. Piena di stenti e privazioni Nel mio apostolato e nel mio costante e assiduo lavoro in campo missionario per il bene dei poveri, degli ammalati e orfani indiani, il mio pensiero si rivolge a voi che con me cooperate e sostenete quanto sto facendo per colui che soffre. Mi sento privilegiato per questa mia vocazione e mi sento felice quando posso dare un aiuto a chi si trova in miseria. Ho avuto due mesi di intenso apostolato nei 24 villaggi della missione. Ho visitato le varie comunità entrando in tutte le capanne, cosa non facile, perché siamo in alta montagna e lontane una dall’altra. Quanta miseria, quanta povertà ho visto! Ho toccato con mano la dura e difficile vita del villaggio, piena di stenti e privazioni. Il nostro pronto soccorso consiste in un po’ di medicinali e un sacco di riso... Così è la situazione della missione alla periferia di Shillong. In questo periodo aumentano molto gli ammalati di malaria e di dissenteria. Scrivo questo non per rattristarvi, ma per farvi conoscere la verità e capire quanto sia necessario un aiuto. Nel febbraio scorso è iniziato l’anno scolastico con 2160 alunni, 92 insegnanti e 18 scuole elemen- tari. Bisogna lavorare intensamente per seguire questo colossale apostolato per il bene dei bambini poveri. Do volentieri il mio sostegno perché vedo il futuro della tribù Khasi. Con la parte materiale così disastrosa ne risente molto anche la parte spirituale e come pastore non posso chiudere gli occhi... Padre P.S. *** La gara di generosità dei nostri lettori ci commuove sempre. Riusciamo a confortare alcuni tra i più bisognosi e siamo felice. Ecco come alcuni ringraziano: ... dal profondo del mio essere vi dico «grazie» perché ancora una volta con l’aiuto di 300 euro avete voluto essere umani verso mio fratello che davvero ha tanto bisogno di aiuto. Voglia il buon Dio coprirvi di ogni bene. Nella mia pochezza ho solo la possibilità di pregare per «Fraternità». La vostra offerta è stata una rugiada feconda in un mare di arsura! S.R. A.T. «Da offerte libere» ... grazie per le vostre preghiere per la mia salute. Ne ho veramente bisogno. Se il cielo vorrà quest’anno avrò il trapianto di rene. Grazie per l’aiuto di 500 euro perché potremo adottare altri sedici bimbi e bimbe senza nessuno al mondo in questa zona del Cile. Ogni giorno nella mia S. Messa ricordo i Rocchigiani e Fraternità. Don S.T. «Mai si ama abbastanza Si possono inviare offerte con assegni bancari, vaglia postali o tramite c.c.p. n. 10635068 intestato a «Fraternità» – Cittadella Cristiana – 06081 Assisi. 63 ROCCA 1 LUGLIO 2006 paesi in primo piano Carlo Timio rocca schede cittadella convegni 64° Corso internazionale di Studi cristiani Cittadella di Assisi, 20-25 agosto senza i sandali dell’identità? “… non c’è giudeo né greco; né schiavo né libero; né uomo, o donna…” (Gal 3, 28-29) Il Corso è proposto dalla Cittadella con la collaborazione della Comunità di Bose e dell’Editrice Queriniana domenica 20 chi sono io? percorso in prosa e in versi tra identità di popoli e persone - a cura di ore 21,15 Roberto CARUSI, regista; Carlo MATTI al pianoforte lunedì 21 ore 9 ore 16,30 ore 21,15 martedì 22 ore 9 ore 16,30 esplorare l’identità Eugenio BORGNA, psichiatra; Sergio GIVONE, filosofo se l’identita’ cammina con la storia Raniero LA VALLE, giornalista e scrittore quando sei nato non puoi più nasconderti film di Marco Tullio GIORDANA culture e religioni: il meticciato, una sfida ineludibile? Nacera BENALI, giornalista algerina; Kossi KOMLA-EBRI, chirurgo togolese, scrittore migrante; Rosino GIBELLINI, teologo – coordina Franca CICORIA, della Cittadella crescere con le differenze incontro con Marco PIAZZA, maestro di musica classica dell’India; intervista TV esclusiva a Raimòn PANIKKAR, indiano, filosofo delle religioni a cura di Renzo SALVI, capo-progetto Rai Educational mercoledì 23 nelle derive integraliste… vivere la laicità Corrado AUGIAS, scrittore; Giannino ore 9 PIANA, teologo morale – coordina Catiuscia MARINI, sociologa, sindaco di Todi ore 16,30 cos’è di Cesare? cos’è di Dio? Enzo BIANCHI, priore della Comunità monastica ecumenica di Bose chi non si mette la maschera?: Il ‘Miserere’ di Georges Rouault; presentazione di Tony BERNARDINI, della Cittadella ore 21,15 ri-trovarsi nell’Eucaristia – celebrazione presieduta da mons. Domenico SORRENTINO, vescovo di Assisi, Nocera, Gualdo Tadino giovedì 24 ore 9 l’identità feriale Lilia SEBASTIANI, teologa le identità negate interpellano la politica personalità del mondo politico coordina Tonio DELL’OLIO, di ‘Libera International’ ore 17 “...chiunque io sia, tu mi conosci “ Rosanna VIRGILI, biblista a piedi nudi… consegnarsi all’uomo, consegnarsi a Dio Enzo BIANCHI ogni giorno ore 8,30 preghiera del mattino informazioni - iscrizioni: Cittadella Cristiana – sezione Convegni – via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG – internet: ospitassisi.cittadella.org – tel. 075813231; fax 075812445 – e-mail: [email protected]