N°13 – 1 Luglio - Rivista Rocca

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N°13 – 1 Luglio - Rivista Rocca
Rivista
della
Pro Civitate Christiana
Assisi
Balcani: Effetto domino
Rapporto Istat: Le tante Italie Società: Cipputi si espande
Teologia: Il pluralismo convergente
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ANNO
NUMERO
13
periodico quindicinale
Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post.
dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1, comma 2, DCB Perugia
e 2,00
Referendum costituzionale: Perché no
Rivivere dopo il lutto Privacy: I rischi della Banca genetica
Papa Ratzinger: I silenzi di Dio, i silenzi dell’uomo
etica pubblica
e libertà di coscienza
TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
1 luglio 2006
ISSN 0391 – 108X
Rocca
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sommario
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che ti arrivi la rivista
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Ci scrivono i lettori
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Anna Portoghese
Primi Piani Attualità
Valentina Balit
Notizie dalla scienza
47
Vignette
Il meglio della quindicina
48
Raniero La Valle
Resistenza e pace
L’ipotesi peggiore
52
Maurizio Salvi
Balcani
Effetto domino
54
Romolo Menighetti
Oltre la cronaca
Quali tasche
56
Filippo Gentiloni
Referendum costituzionale
Perché no
57
Fiorella Farinelli
Rapporti Censis e Demos-Coop
Cipputi si espande
Romolo Menighetti
Parole chiave
Privacy
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58
Pietro Greco
Privacy
Rischi della Banca genetica
59
Carlo Timio
Unesco
Libertà di comunicazione
59
Aldo Eduardo Carra
Rapporto Istat
Le tante Italie
60
Giannino Piana
Questioni eticamente sensibili
Politica, libertà di coscienza, etica pubblica
60
Sabrina Magnani
Esperienze
Rivivere dopo il lutto
Rosella De Leonibus
Cose da grandi
Voglie sconfinate
Vincenzo Andraous
Sbarre e dintorni
Grazia in offerta speciale
Marco Gallizioli
Culture e religioni raccontate
Nel folto del bosco
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63
Giuseppe Moscati
Maestri del nostro tempo
Sofia Vanni Rovighi
Dalla contemplazione teologica all’azione etica
Stefano Cazzato
Lezione spezzata
Forza Lecce
Giancarlo Zizola
Papa Ratzinger dopo Auschwitz
I silenzi di Dio, i silenzi dell’uomo
Carlo Molari
Teologia
Il pluralismo convergente
Rosanna Virgili
La voce del dissenso
L’uva acerba della giustizia
Adriana Zarri
Controcorrente
Pentecoste
Giacomo Gambetti
Cimena
Artusi dixit
Il Codice da Vinci
Roberto Carusi
Teatro
La nevrosi quotidiana
Renzo Salvi
RF&TV
Wrestling
Mariano Apa
Arte
Trento
Giuliano Della Pergola
Mostre
Stefano Levi Della Torre
Alberto Pellegrino
Musica
Canzone d’autore e poesia
Giovanni Ruggeri
Siti Internet
Digital generation
Libri
Carlo Timio
Rocca schede
Paesi in primo piano
Kazakistan
Nello Giostra
Fraternità
quindicinale
della Pro Civitate Christiana
Numero 13 – 1 luglio 2006
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ANNO
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ROCCA 1 LUGLIO 2006
Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono
riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati
non si restituiscono
Questo numero
è stato chiuso il 13/06/2006 e spedito da
Città di Castello il 16/06/2006
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Spinello
a go’ go’
Gli interventi
qui pubblicati
esprimono
libere opinioni
ed esperienze dei lettori.
La redazione
non si rende garante
della verità
dei fatti riportati
né fa sue
le tesi sostenute
In merito all’articolo di
Andraous (Rocca n. 12).
Per quelle sostanze chiamate droghe, le varie civiltà hanno elaborato rituali
che attualmente chiamiamo culture. Ne veniva così
regolamentato l’uso ed erano sottolineati i pericoli,
fornite eventuali avvertenze e modalità per evitarli,
spesso creando tabù.
Venivano usate nei più svariati modi, dalla ricreazione (molto poco, era preferito l’alcool) alle pozioni
magiche, dai rituali religiosi al combattimento. e lo
sono tutt’ora.
È solo in questo tipo di società moderna basata sul
modello occidentale, quella nostra, che la droga ha
assunto il connotato di piaga sociale, diffondendosi a
macchia d’olio tra i giovani, diventando fenomeno
di massa, generando così
una nuova cultura, anzi
una controcultura.
È noto che l’alcool ogni
anno uccide una cifra spaventosa di persone, altrettanto le nostre strade.
Dico adesso che le strade
sono pericolose! Ragazzi,
evitate la strada, anche se
voi siete prudenti, perché
quello che vi schiaccia, prima o poi, lo trovate! Ragazzi la strada mai! Suona
ridicolo no? Eppure è la
verità. Perché allora esistono persone come te, caro
Andraous, che demonizzi
la droga, che ti scandalizzi
quando un giovane che tu
definisci senza la saggezza
e la coscienza di un adulto, ti dice che ha provato
la droga? Cosa gli puoi dire
adesso che lui ne sa più di
te che probabilmente non
ti sei mai fatto uno spinello?
Cosa pensi di ricavarci facendogli l’esempio del ragazzo tossico a bestia o facendogli conoscere i travagli di quello che è riuscito
ad uscire dalla morsa soffocante della droga? Pensi
di spaventarlo?
Te lo dico io, non fai niente, né male né bene, niente. Perché riceverà solamente un ammonimento,
un «fidati di me che te lo
dico io» che può essere
ignorato in meno di mezzo secondo, senza nessun
problema o rimorso di coscienza.
Perché la pericolosità insita nella droga, nell’alcool,
nell’andare per strada in
macchina, è il frutto proibito di questa società, non
c’è male in queste cose, e il
tuo modo di combatterle è
lo stesso modo della stradale che ha l’autovelox
come deterrente per far
andare più piano gli incoscienti.
Così, per colmo delle cose,
mi sembra che pure tu sia
un mero frutto della società, all’antitesi di chi di droga si fa, colui che è messo
lì a «combatterla».
L’unico intelligente tra tutti mi sembra il ragazzo,
l’unico, tra i sicuramente
molti suoi compagni che lo
spinello se lo fanno ma non
lo dicono, che ha agito sul
piano della realtà, che mettendovi di fronte la sua verità vi ha messo tutti a tacere. Vi siete scandalizzati, tu ti sei scandalizzato e
lo vieni a scrivere perfino
in giro, lo gridi quasi, tu
che appartieni alla classe di
chi la droga la dovrebbe
combattere.
Hai scritto di lui come una
specie di demonio che insinua con parole allettanti
la voglia di droga nei più
deboli, mettendolo a paragone di chi «trasmette la
vita con servizio», come se
nelle sue parole ci fosse
solo una lusinga della morte e tu fossi portatore di
verità.
Hai torto a parlare di tolleranza: ancora una volta
dalle tue righe ho visto che
l’hai confusa con l’indifferenza, con il silenzio, l’hai
messa in una luce negativa; la «tolleranza» è una
parola buona!
È una virtù e non le si dovrebbero attribuire conno-
tati dispregiativi.
Hai ragione a parlare di fallimento degli educatori e di
società che sta a guardare.
Antonio Nardi
Milano
Il lettore afferma che l’unico vero intelligente gli è
sembrato quel ragazzo, il
quale ha saputo metterci a
tacere e anche scandalizzarci…
Davvero quel ragazzo ha
mostrato gli attributi con
quello slogan? A tal punto
da interpretarlo come pass
per la conquista di una
identità? Di un ruolo? In
uno spinello «quotidiano»
vi è l’impegno e la fatica per
raggiungere una crescita
personale accettabile? Oppure in questo atteggiamento vi è una considerevole instabilità emotiva che
maschera un disagio con
l’avvicinamento ai rischi
estremi?
Fallimento degli educatori,
di una società che sta a
guardare? Forse questo è il
risultato che scaturisce da
una sorta di nichilismo
congenito a qualche generazione… fortunatamente
passata, perché educare
non sta più solo per trasmissione di nozioni-conoscenze, ma come formazione alla complessità, come
insieme di comportamenti,
quanto meno per colmare
con il tempo certe carenze,
e bisogna riuscirci in tempo affinché non diventino
lucide follie.
Perché esistono persone
come me che demonizzano
la droga (io direi tutte le
droghe)?
Quel ragazzo ne sa più di
me? Probabilmente perché
io non mi sono mai fatto?
Cosa penso di ricavarci facendogli l’esempio del ragazzo devastato dalla roba
e del suo difficile recupero
(quando ciò è possibile aggiungo ancora io)?
Personalmente diffido sempre delle esemplificazioni,
non mi accontento della dicitura: «si tratta di banale
reazione a un modello culturale, di accettabile indisciplina adolescenziale».
Diffido molto, perché io ci
sono passato per queste
doppie e triple corsie preferenziali, potrei raccontare
molto di me in proposito, e
la mia non è una bella storia, anzi è una gran brutta
storia; come a un certo
punto della mia vita l’incontro con me stesso.
Ho scontato trent’anni di
carcere e sono ancora detenuto, come ho già scritto
nei miei libri; il mio è un
viaggio lento e sottocarico,
senza scorciatoie, privo di
comodi rifugi, ma finalmente con il presente davanti e non più dietro.
La mia è stata una vita di
tragedie, di doppie tragedie,
non solo aver tolto la vita
a qualcuno, ma aver creduto per molto tempo di essere stato nel giusto.
Potrei davvero dilungarmi,
ma evito nuovamente di
annoiare il mio prossimo,
di certo c’è che la mia storia, ciò che è stato, ciò che
ora è, mi consente di raccontare ciò che vedo e sento, senza essere maestro di
niente, ma raccontare la
mia esperienza (come
somma dei miei tanti errori), sebbene non salverà alcuno dal proprio destino,
quanto meno metterà a vista il baratro che lo attende, indipendentemente dalla tomba che ognuno si
scava per propria scelta...
ma ciò può accadere solamente quando si è in possesso di capacità, strumenti, risorse sufficienti
per poter effettuare delle
scelte.
Checché se ne dica o peggio non se ne dica, l’uso di
roba è prevalentemente
una via di fuga senza progettualità, è la rappresentazione dell’impossibilità
di trovare una uscita di
emergenza, per cui non si
può parlare di «prevenzione del danno», ciò che si
deve e si può prevenire è il
coinvolgimento nell’uso,
soprattutto quello precoce, fornendo ai giovani
l’opportunità di trovare risposte più valide ai loro
problemi-compiti di sviluppo.
Comunque a quel lettore
mi viene da dire che, sì, le
sue argomentazioni meritano attenzione, ma io ho
imparato a sfuggire le visioni ed i percorsi unidimensionali, e proprio accogliendo e accompagnando giovani e adulti nella
comunità «Casa del giovane» di Pavia dove da qualche anno lavoro come tutor, sono diventato estremamente attento al disagio che circonda le persone affaticate, al loro bisogno di essere aiutate a entrare un po’ in se stessi, per
comprendere che ci si deve
impegnare strenuamente
per difendere la propria dignità personale.
Qui non si tratta di esprimere giudizi sulle persone,
bensì sui comportamenti,
partendo dai miei naturalmente, appunto perché andare incontro agli altri, portare fuori ciò che si ha di
buono, attraverso un adattamento interpersonale e
intrapersonale, sottende
capacità di iniziativa: non
sicuramente fine a se stesso ma fine a se stessi.
Il lettore parla di fallimento degli educatori e di una
società che sta a guardare?
Personalmente in questa
comunità Casa del Giovane mi è stato insegnato che
fare prevenzione è un intervento che costringe a farne
altri, fare prevenzione è lavoro insieme, fare davvero
prevenzione è un bisogno
reciproco.
ROCCA 1 LUGLIO 2006
Rocca
ci scrivono i lettori
CI SCRIVONO I LETTORI
Vincenzo Andraous
Pavia
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Il Comitato centrale della
Conferenza delle Chiese europee (Kek) si è riunito per la
prima volta in Irlanda del
Nord. L’incontro si è svolto a
Londonderry dal 25 al 31
maggio, in un momento in cui
il processo di pace sperimenta un consolidamento, e si alleggeriscono le tensioni, i sospetti e i timori per le divisioni politiche, sociali, culturali
oltre che religiose. Numerose
iniziative sono state intraprese dalle Chiese e dai gruppi di
cristiani, in particolare dalla
Scuola irlandese di Scienze
ecumeniche e dalla Rete di
mediazione. Nel corso della
riunione del Comitato si è evidenziata la consapevolezza
che a porre termine definitivamente alla lotta – impropriamente detta tra protestanti e cattolici – non basta l’assenza di conflitti. Poiché le
cause sono molteplici, si è
espressa la volontà di continuare a sostenere gli sforzi
delle Chiese per promuovere
la riconciliazione nei vari
ambiti. A cominciare da quello economico. L’Irlanda sperimenta attualmente una crescita economica senza precedenti e ciò offre nuove opportunità, ma l’esclusione sociale e la povertà persistono. Occorre raccogliere questa sfida,
insieme a un’altra derivante
dall’arrivo massiccio degli immigrati. Intanto, dopo un vuoto di oltre due anni, l’Assemblea parlamentare del Nord
Irlanda è stata ricostituita e i
politici lavorano di nuovo insieme.
Ricevendo in Vaticano il primo ministro britannico Tony
Blair (protestante), anche Benedetto XVI si è rallegrato per
i progressi che sta facendo
l’Irlanda del Nord sulla via
della pace.
L’incontro nazionale di Terni
(5-7 giugno), pensato come
spazio in cui tutte le confessioni cristiane potessero essere
capite e ascoltate in preparazione della terza assemblea
ecumenica europea di Sibiu
(Romania 2007), ha visto la
partecipazione di oltre duecento delegati delle diocesi italiane e rappresentanti delle Chiese, comunità e associazioni
protestanti e ortodosse. Un
confronto asimmetrico, data la
chiara prevalenza della parte
cattolica rispetto alle altre confessioni, ma va riconosciuto a
tutti, partecipanti, relatori e organizzatori, una costante ed
eloquente volontà di mantenere e sviluppare ulteriormente
la comunione già in parte raggiunta, una collaborazione per
l’evento «Sibiu» mediante una
ricchezza di apporti concreti.
Non è una stagione facile per
l’ecumenismo questa. Il tema
del convegno: «I cristiani e
l’Europa» capita in un momento in cui, notava mons.
Paglia, presidente della Commissione Cei per l’ecumenismo e il dialogo, «si rischia di
vedere un’Europa autoreferenziale, che perde la sua dimensione di universalità insita nei
suoi stessi cromosomi». Filo
conduttore dell’incontro è stato la «Carta Ecumenica», già
firmata a Strasburgo nell’aprile 2001, «linee guida» commentate dal pastore Luca Negro, segretario per le comunicazioni della Kek (ortodossi e
protestanti d’Europa) e da
mons. Aldo Giordano del Ccee
(episcopato cattolico), riprese
poi come agenda nei gruppi di
lavoro. La Charta oecumenica
è un patto, o una profezia condivisa? Vari livelli di lettura le
si sono dati. Comunque, resta
un testo da meditare, uscendo
da ogni strettoia confessionale e da ogni paura, come raccomandava il pastore De Clermont, presidente della Kek,
per prendere il largo, dandoci
appuntamento a Sibiu.
Bolivia
le terre
ai
campesinos
Il 4 giugno a Santa Cruz il presidente indio della Bolivia Evo
Morales ha consegnato i primi titoli di proprietà a campesinos poveri e senza terra.
Dopo la nazionalizzazione
degli idrocarburi, Morales è
deciso a spezzare il fronte
compatto della politica liberista, delle multinazionali e dei
latifondisti, affrontando i problemi interni dal punto di vista della popolazione più indigente, in larga prevalenza
india. (La Bolivia è al 47° al
mondo posto per indice di
povertà). Dopo il gas, è ora la
volta delle terre, quella «rivoluzione agraria» promessa nel
corso della campagna elettorale dal Presidente. Si è impegnato a distribuire subito 2,5
milioni di ettari di terra a indios e campesinos, nonostante la ferma opposizione delle
associazioni di agricoltori. Ha
già firmato 7 decreti di riforma agraria, anticipando che
partirà subito un censimento
delle terre improduttive e dei
latifondi.
Anna Portoghese
Terni
darsi
appuntamento
a Sibiu
a cura di
Irlanda Nord
il processo
di pace
e i cristiani
primipiani
ATTUALITÀ
Movimenti
in 350mila
al raduno
di Pentecoste
Germania
donne
come
schiave
Filippine
abolita
la pena
di morte
Oltre trecentocinquantamila
sono stati i partecipanti al secondo raduno delle nuove comunità ecclesiali, convenuti a
Roma dal 3 al 5 giugno. Si ricorderà come Giovanni Paolo II, ricevendoli nel 1998, aveva parlato di loro come «strumenti della nuova evangelizzazione». Benedetto XVI li ha
esortato a essere «scuole di libertà in un mondo pieno di
false libertà».
Nella Chiesa italiana i movimenti più conosciuti sono la
Comunità di Sant’Egidio, i
Focolari, Comunione e Liberazione, il Rinnovamento nello Spirito, i Neocatecumenali, l’Arche, per citarne solo alcuni. Papa Benedetto li ha invitati a guardare il pianeta.
«Un massiccio strato di sporco copre la creazione di Dio –
ha detto fra l’altro – Non bisogna abusare del mondo.
Dobbiamo considerare la creazione come un dono affidatoci non per la distruzione ma
perché diventi giardino di Dio
e così giardino dell’uomo» (...)
«La vera libertà è responsabilità. È dono della vita».
La prostituzione è legale in
Germania. Per questo, in occasione dei mondiali di calcio
per la Coppa del mondo, apertisi il 9 giugno a Monaco e che
si concluderanno tra un mese
a Berlino, c’è chi ha pensato
di organizzare un giro di prostitute. Si parla di migliaia di
donne, favorite da un permesso di soggiorno di 40 giorni,
adescate, reclutate tra le sacche più povere dei Paesi dell’Est europeo e smistate nelle
12 città che ospitano gli avvenimenti sportivi. I commentatori tacciono o sono tacciati
di moralismo. L’agenzia Eni di
Ginevra però ribatte: «Oltre
800.000 persone sono vendute ogni anno per essere ingaggiate nella schiavitù sessuale»
e ancora: «Molte donne sono
forzate a prostituirsi da parte
di criminali».
Da parte cristiana, suore polacche hanno preparato cartellini in varie lingue con numeri telefonici dove le donne
possono trovare aiuto e riparare in caso di necessità e uno
slogan: «cartellino rosso alla
prostituzione forzata».
Il Parlamento delle Filippine
ha approvato il 5 giugno l’abolizione della pena di morte. La
legge è stata votata all’unanimità al Senato e sarà presto
controfirmata dalla presidente Gloria Arroyo. Con tale
provvedimento viene commutata in carcere a vita la condanna a morte di ben 1.200
detenuti. Nel 2000 era stata
decisa una moratoria, anche
per le pressioni sul governo di
Manila da parte della Chiesa
cattolica, oltre che per l’impegno degli attivisti per i diritti
umani. In Italia la notizia è
stata accolta con soddisfazione dal governo, da numerose
associazioni tra le quali «Nessuno tocchi Caino» che ha
auspicato una moratoria universale da parte dell’Assemblea generale dell’Onu, da
«Sant’Egidio», «Amnesty international», molto attive nelle campagne per l’abolizione
della pena capitale. Tutte sperano in un’estensione di questo provvedimento nell’area
asiatica. Attualmente, gli Stati che praticano la pena di
morte sono 54.
Parma
la scuola rivive il Medioevo
«Parma, la Cattedrale e lo spazio del Medioevo» è il tema del
progetto didattico per la scuola realizzato dal Comitato per il IX
centenario della Cattedrale e coordinato dal professor Mario Calidoni, esperto di didattica dei beni culturali. Lo scopo «partire
dalla Cattedrale per imparare e capire il Medioevo e il territorio».
Per le scuole dell’infanzia, elementare e media è stato lanciato
il concorso «Racconta la tua chiesa» che ha portato ad una
bella mostra nel palazzo vescovile. A latere della grande mostra «Il medioevo delle cattedrali» si sono organizzati i «Cantieri della Cattedrale» con laboratori di pittura, architettura,
scultura e miniatura.
Un prezioso lavoro, che resterà anche per il futuro, è stato poi
la realizzazione, per gli insegnanti, di due quaderni operativi
con schede di lavoro e documentazione. Uno dedicato alle vie
dei pellegrini e l’altro al cantiere medioevale per costruire le
cattedrali.
Per ulteriori informazioni visitare il sito www.cattedrale.parma.it.
(fr.fe.)
ROCCA 1 LUGLIO 2006
ROCCA 1 LUGLIO 2006
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
7
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ATTUALITÀ
Somalia
«la nostra guerra
non importa
a nessuno»
Kwait
alle urne
anche
le donne
La battaglia su Mogadiscio è
terminata il 6 giugno. Ma una
calma molto precaria regna
nella capitale dell’ex colonia
italiana, ora che la vittoria è
andata alle «Corti islamiche»,
gruppo di milizie e tribunali
sommari che si rifanno alla
legge islamica (Sharia) e che
gli americani accusano di terrorismo in riferimento a Bin
Laden. La Somalia è un paese
senza Stato, senza legge e senza diritto e questo da quando
Syad Barre, ex presidente ed
ex dittatore, nel 1991 imboccò
la strada della fuga. Il «governo di transizione» proposto
dall’Onu è in contrasto sia con
le Corti islamiche sia con l’Alleanza contro il terrorismo e
non ha alcuna influenza effettiva sulla situazione di guerra
interna. La stampa internazionale quasi sempre tace. Igiaba
Scego, una ragazza somala, ha
gridato in un articolo (Il Manifesto, 7 giugno): «La nostra
guerra orribile non importa a
nessuno».
Dal 2004 invece, i tribunali
islamici hanno rafforzato la
loro presenza e soprattutto, a
motivo della situazione di
anarchia e di disfacimento delle istituzioni, sono passati dallo status di giustizia tradizionale a un’efficiente organizzazione armata. Fondamentalisti, pensano di costituire una
repubblica islamica. Nessuno
è in grado però di fare previsioni, sia su come evolverà la
coalizione( visto che i tribunali
islamici raggruppano diverse
tendenze), sia su come reagirà l’opposizione che ha avuto
finora come alleati nientemeno che gli Stati Uniti. Bush ha
ritenuto che tra le «Corti» si
aggirasse lo spettro del terrorismo fondamentalista e pertanto la sua amministrazione
ha sostenuto all’Alleanza per la
restaurazione della pace. Ma
questa non ha dato i frutti sperati e non si può escludere che
Washington cambi strategia.
Alle prossime elezioni legislative anticipate in Kwait al
29 giugno sono candidate
anche cinque donne. È la
prima volta nella storia del
ricco emirato del Golfo e si
prevede una forte affluenza
alle urne dell’elettorato femminile.
Accadde l’anno scorso, precisamente il 16 maggio, che il
Parlamento, dopo una grande manifestazione di donne
ad al-Kwait, si decise a varare una nuova legge che attribuisce anche alle donne il diritto di votare ed essere votate. In un paese islamico ciò
non è consuetudine e non
mancarono gli oppositori, ma
il terreno era stato predisposto dal lavoro di movimenti e
scambi culturali che valorizzavano il confronto con l’alterità e – superando pregiudizi ancestrali – già una donna, Massouma al Mubarak,
entrò a far parte del Governo
come ministro della Pianificazione.
Indipendente dal 1981 (già
protettorato britannico dal
1899), il Kwait è una monarchia ereditaria ed è stato il
primo paese ad avere un Parlamento eletto che, a differenza di altri, esercita una
reale influenza sull’attività
legislativa. Ma al momento
della costituzione parlamentare, la popolazione femminile non godeva di diritti
politici. La creatività come
capacità di elaborare, accanto alla ricchezza petrolifera
del Paese, anche una ricchezza culturale e sociale, ha
coinvolto vivacemente il settore pubblico maschile e
femminile. Naturalmente
qualcosa bisognava pur concedere alla tradizione: così,
al momento di votare, le
urne e gli ambienti del voto
femminile saranno rigorosamente separati da quelli maschili.
Ue-Giappone
negoziati
in area
tecno-scientifica
In una società globalizzata,
collaborare anche nell’ambito della conoscenza è vitale.
L’Ue è fortemente interessata
a farlo. Così si è espresso il
presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, in un discorso tenuto
all’università della città giapponese di Kolbe (nella foto).
Ha delineato quattro principi per l’istituzione di una «cooperazione nel settore della
conoscenza» congiunta col
Giappone. In sintesi sono:
cooperazione politica accresciuta; cooperazione transfrontaliera; legami bilaterali più forti; istituzione di reti.
Concludere negoziati in materia di scienza e tecnologia
costituirebbe un grande passo nel rafforzamento dei legami bilaterali, ha anche affermato Barroso, e le reti congiunte aiuterebbero entrambe le parti a convertire in pratiche e prodotti i risultati dell’accresciuta cooperazione.
Per due partner quali l’Ue e il
Giappone, la tecnologia è la
chiave verso il futuro. (Cordis
focus n. 266/06).
notizie
seminari
&
convegni
Lussemburgo. La Royal Society britannica e l’Académie des Sciences francese
hanno istituito un premio
destinato ai ricercatori europei che hanno contribuito in modo significativo al
progresso delle scienze biologiche attraverso l’uso dell’informatica. Informazioni:
Cordis focus, fax 352 2929
44090, e-mail: [email protected].
Bologna. La Provincia italiana della Compagnia di Gesù e
la Facoltà teologica dell’Emilia Romagna hanno programmato un «Master in comunicazione del Vangelo» allo scopo di approfondire le tematiche che ruotano attorno al
primo e fondamentale annuncio della fede cristiana. Informazioni: prof. Marco Tibaldi
tel. 051 320915; 340 86 13926;
[email protected].
Assisi. Sono aperte le iscrizioni al Corso Triennale di
Counselling presso la Cittadella. Il Counsellor, nuova
professione con apertura occupazionale, è un «esperto
della comunicazone interpersonale e dei processi relazionali». Il Corso – inserito nella programmazione del Cresc
Onlus – è accreditato presso
il Miur e la Regione Umbria,
diventando oggetto di riconoscimento da parte delle istituzioni scolastiche e regionali. Informazioni: Corso Counselling, Pro civitate Christiana, tel. 075813231; e-mail:
[email protected].
3 luglio-26 agosto. Magnano
(Bi). Al Monastero di Bose corsi biblici e di spiritualità in sequenza: 3-8 luglio, «Evangelo
secondo Luca» (Sabino Chialà); 10-15 luglio «Esodo» (Danel Attinger); 17-22 luglio «Gli
Evangeli dell’infanzia di Gesù»
(Giancarlo Bruni); 24-29 luglio
«Gli incontri di Gesù attraverso i Vangeli» (Luciano Manicardi); 7-12 agosto «Gli addii
di Gesù nel IV Vangelo» (Enzo
Bianchi); 14-19 agosto «Lettere di Giovanni» (Enzo Bianchi); 21-26 agosto (per giovani) «La speranza di un mondo
salvato: conversione e azione
quotidiana» (Luciano Manicardi, Roberto Mancini). Informazioni: Monastero di Bose,
13887 Magnano Bi, tel. 015 679
185, fax 015 679 294; e-mail:
[email protected].
11-18 luglio. Megara (Grecia).
Presso la «Casa Damaris» dei
pp. Domenicani Corso di iconografia teorico-pratico, diretto da
p. Rosario Scognamiglio,
Emanuele Guerrino, Antonio
Calisi. Informazioni: Segreteria Istituto ecumenico Bari, tel/
fax 080 5235 252; e-mail:
[email protected].
16-21 luglio. Santulussurgiu
(Or). Settimana biblica, organizzata dall’Associazione biblica italiana, sul tema «Il Vangelo di Giovanni, al culmine delle
sacre Scritture». Informazioni
tel. 06 698 611 89, fax 06 698
986 1198; [email protected],
www.associazione biblica.it.
16-22 luglio. Montanino di
Camaldoli (Ar). Esercizi spirituali con don Carlo Molari
e fratel Arturo Paoli sul tema:
«La missione dei discepoli di
Gesù nel mondo di oggi». Informazioni: Ore Undici via
Ottaviano 105- 00192 Roma
tel. 06 398 874 28; e-mail
[email protected].
16-23 luglio. Firenze. Campo
di lavoro per giovani a Tavarnuzze sul tema «Antica come le
montagne: esperienza di nonviolenza in Ghandi». Informazioni: Pax Christi, Segreteria
Nazionale, via Quintole per le
rose 131, Tavarnuzze Fi, tel.055
2020 375, [email protected],
www.paxchristi.it.
17-22 luglio. Decollatura (Cz).
All’Eremo San Benedetto Labre, Lectio divina su alcune figure dell’Antico e del nuovo
Testamento chiamate «in tarda
età» al servizio di Dio. Incontro riservato a persone al di sopra dei 35 anni. Informazioni:
tel. 0968 61021.
17-21 luglio S. Cesarea Terme
(Le). 29 luglio-2 agosto. Passo della Mendola (Tn). Corsi
residenziali di orientamento
universitario per gli studenti
degli ultimi anni della scuola
superiore scanditi in: test attitudinali, esame dei percorsi formativi, processo decisionale,
confronti con i testimonial delle facoltà, workshop di approfondimento delle aree disciplinari. Sono organizzati dall’Istituto Giuseppe Toniolo e dalla
Pastorale universitaria della
Cei. Informazioni: Associazione Amici Università Cattolica,
via S. Valeria 1, 20123 Milano,
fax 02/7234 54 94.
23-29 luglio. Chianciano Terme (Si). La XLIII sessione di
formazione ecumenica del Sae
ha allo studio il tema «Chiamati alle fede, nei giorni della storia. Chiese, identità, laicità».
L’importante appuntamento
dell’ecumenismo italiano prevede meditazioni, relazioni, gruppi di studio, liturgie. Vi partecipano eminenti personalità del
mondo cattolico, ortodosso,
protestante, ebraico con una
«cattedra» e uno «spazio» di
giovani cristiani, ebrei e musulmani. Tra i relatori: Mario
Gnocchi, Simone Morandini,
Gioacchino Pistone, Giuseppe
Ruggieri, Fulvio Ferrario, Piero Stefani, Vladimir Zelinsky,
Roberto Della Rocca, Carlo
Prandi, Michel Freychet, Giannino Piana, Paolo Naso, Trajan
Valdman, Luca Negro, Serena
Noceti, Eliana Briante, Ulrik
Ekert, Elena Ben Ricco, Alberto Monticone, Gian Enrico
Rusconi, Maria Bonafede, Carlo Molari, Domenico Maselli,
Amos Luzzatto, Adel Jabbar,
arciv. Valentinetti di Pescara,
Paolo Ricca. Informazioni:
Sae, Piazza sant’Eufemia 2,
20122 Milano, tel. 02 878 569;
fax 02 864 65294.
25-31 luglio. Santa Cesarea
Terme (Le). Vacanza/studio
organizzata dai Volontari della Pro Civitate Christiana sul
tema: «La fatica e la gioia di
sperare». Tempi di preghiera
e di studio, guidati da p. Egidio Monzani, spazi per la condivisione fraterna, mare/pineta, serate d’arte, visite ai dintorni. Informazioni: Galatina:
0836 562 357, cell. 347 183
3408, e-mail: [email protected];
Assisi: 075813231; ospitalita
@cittadella.org.
1-13 agosto. Selva di Valgardena (Bz). Due proposte per
giovani: 1) «Meglio la bussola
del navigatore satellitare! Un
viaggio low cost per volare sulle rotte del Signore». Corso
sulla vocazione guidato da p.
Paolo Bizzetti S.J., 2) Lettura
del Vangelo di Marco (cc. 1316), guidata dai PP. Filippo
Clerici e Silvano Fausti S.J.
Informazioni: Villa Capriolo,
Plan da Tieja, 72 -39048 Selva
di Valgardena (Bz) tel. 0471
7933 67; www.gesuiti.it/ selva.
ROCCA 1 LUGLIO 2006
ROCCA 1 LUGLIO 2006
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
9
ATTUALITÀ
Valentina
Balit
10
della quindicina
il meglio
Una ricerca condotta da un team internazionale di scienziati, coordinati dall’Università
dell’Alabama, ha rintracciato l’origine del virus Hiv in una specie selvatica di scimpanzé
del Camerun. La correlazione tra l’Aids e una
forma simile di infezione che colpisce i primati, di cui è responsabile il virus SIVcpz (Simian Immunodeficiency Virus from chimps), era già nota. Tuttavia di questo agente
patogeno si erano finora trovate delle tracce
solo in pochi esemplari in cattività, lasciando pensare che il serbatoio naturale del virus potesse nascondersi in altre specie.
Lo studio ora pubblicato su Science presenta
i risultati di una campagna condotta nelle più
remote regioni del Camerun, dove sono stati
raccolti campioni organici provenienti da
scimpanzé selvatici. L’analisi dei campioni ha
rilevato la presenza del virus in una buona
percentuale (il 35%) delle scimmie, che tuttavia a differenza di quanto accade nel caso degli esseri umani, non presentano i sintomi
della malattia. L’analisi del genoma ha quindi
confermato la stretta relazione tra il virus e
quello che causa l’Aids nell’uomo. «I risultati
ottenuti», spiega uno dei ricercatori, «ci permetteranno di indagare meglio la storia e il
comportamento di questo virus nel suo ambiente naturale e quindi di capire come e perché esso sia passato dalle scimmie all’uomo».
vignette
L’acido ribonucleico (Rna), la macromolecola interna alla cellula fondamentale soprattutto nella produzione delle proteine,
sembrerebbe avere una parte importante
anche nel trasferimento delle informazioni
genetiche da una generazione all’altra, contrariamente a quanto finora si riteneva.
Esperimenti effettuati sui topi da un gruppo di studiosi dell’Istituto francese per la
salute e la ricerca medica e dell’Università
di Nizza, i cui risultati sono stati pubblicati
sulla rivista Nature, hanno rivelato infatti
che alle nuove generazioni potevano essere
trasferite specifiche informazioni genetiche
anche in assenza del corrispondente Dna.
I test effettuati dai ricercatori hanno previsto l’impiego di topi con o senza chiazze
sulla coda e sulle zampe. La presenza delle
macchie dipende dall’espressione del gene
chiamato «Kit» nella versione «mutante»
(con variazione nella struttura del Dna rispetto al gene «normale»). I figli ereditano
due geni Kit, uno da ciascun genitore. Le
combinazioni che ne derivano, secondo le
classiche leggi di Mendel, sono tre: due geni
mutanti, topolini chiazzati; un gene mutante e uno normale, topolini ancora chiazzati (il gene mutante è «dominante»); due geni
normali, topolini non chiazzati. Dopo l’accoppiamento, i ricercatori hanno tuttavia
scoperto che la progenie con due geni normali – che non avrebbe dovuto avere chiazze – mostrava comunque la presenza di
chiazze, in contrasto quindi con le leggi
della genetica.
L’unica spiegazione che i ricercatori sono
stati in grado di trovare risiede quindi nell’Rna che, cosa nota già in precedenza, viene prodotto in grandi quantità dal gene mutante. Nella sperimentazione successiva, il
gruppo ha iniettato parte dell’Rna contenente il Kit mutante negli embrioni di topo non
chiazzati. Dopo l’intervento, la prole è risultata chiazzata, confermando il ruolo genetico dell’Rna.
Il coordinatore dello studio, Minoo Rassoulzadegan si dichiara convinto che quanto scoperto corrisponda a un fenomeno più generale: «secondo noi il risultato contribuisce
in qualche modo a spiegare recenti scoperte, nell’ambito delle quali il patrimonio era
passato ai figli in assenza di geni rilevanti».
Il gruppo prevede adesso di studiare altri
modi in cui l’Rna potrebbe trasferire caratteristiche ereditarie e se tali processi si applicano agli esseri umani. «Ciò offre preziose informazioni sulle mutazioni del nostro
genoma», ha concluso Rassoulzadegan, «e
forse questa ricerca potrebbe aiutarci, alla
fine, a capire perché siamo così diversi gli
uni dagli altri».
Confermata la provenienza
dell’Hiv dagli scimpanzé
da IL CORRIERE DELLA SERA, 26 maggio
da IL CORRIERE DELLA SERA, 30 maggio
Tropici in espansione
La fascia tropicale della Terra si sta espandendo. Lo afferma uno studio pubblicato su
Science condotto da ricercatori dell’Università dello Utah e dell’Università di Washington. Secondo i dati appena usciti, negli ultimi 26 anni le zone tropicali si sono ampliate in direzione nord e sud rispetto all’equatore di 2 gradi di latitudine, una distanza pari a circa 220 km. A questa conclusione gli scienziati sono arrivati analizzando l’andamento delle temperature atmosferiche registrate da satellite nel lungo periodo, durante il quale l’aumento della temperatura nella fascia tropicale è stato pari a
1,5 gradi Fahrenheit (poco meno di 1° C).
Ciò significa, spiegano gli scienziati, che le
correnti subtropicali, veri e propri «fiumi»
di aria che muovendosi da ovest verso est
marcano in ciascuno dei due emisferi la
transizione tra la fascia climatica tropicale
e quella subtropicale, si sono spostate, ognuna di 1 grado verso i rispettivi poli. «L’espansione dei tropici potrebbe rappresentare un
aspetto del tutto nuovo del cambiamento climatico», spiega uno dei ricercatori, «ma non
sappiamo ancora da cosa dipende e stiamo
cercando di scoprirlo; in particolare vorremmo capire se il fenomeno è collegato al riscaldamento globale e in che modo».
da IL CORRIERE DELLA SERA, 31 maggio
da IL CORRIERE DELLA SERA, 4 giugno
da L’UNITÀ, 6 giugno
da LA REPUBBLICA, 6 giugno
da IL MANIFESTO, 7 giugno
da IL MANIFESTO, 9 giugno
ROCCA 1 LUGLIO 2006
ROCCA 1 LUGLIO 2006
notizie
dalla
scienza
Nuove scoperte mettono
in discussione le leggi
della genetica
ATTUALITÀ
11
Romolo Menighetti
LE IDEE CHE DIVENTANO
POLITICA
linee di storia
dalla polis alla democrazia
partecipativa
La polis
L’umanità come comunità
Lo stato nazionale
Il liberalismo
Marxismo e comunismo
Nazionalsocialismo e fascismo
La democrazia: delusione e speranze
La democrazia partecipativa
pagg. 112 – • 13,00
2.
Pietro Greco
BIOTECNOLOGIE
scienza e nuove tecniche biomediche
verso quale umanità?
Ritorna Frankestein?
Potenzialità e rischi della genetica
Piante e cibi transgenici
Terapie geniche
La nuova frontiera della biomedicina
Clonazione terapeutica
Fecondazione assistita
Il dibattito all’Onu
Chi è l’embrione?
Armi biologiche e genetiche
Bioetica e bioetiche
Tecnologia scienza e sviluppo umano
Dibattito tra scienziati, teologi, filosofi e politici
pagg. 128 – • 15,00
3.
Marco Gallizioli
LA RELIGIONE FAI DA TE
ROCCA 1 LUGLIO 2006
il senso religioso nel postmoderno
IL FASCINO DELL’ORIENTE
L’Oriente come metafora
Paramahansa Yogananda: la vita come abbandono mistico
Krishnamurti, un profeta del nostro tempo
Gandhi: il sentiero dell’azione
ESPLORANDO LA GALASSIA NEW AGE
New Age: un caleidoscopio religioso
L’etica della New Age
L’emozione religiosa di Paulo Coelho e
James Redfield
ALCUNE SUGGESTIONI
DAI MONDI RELIGIOSI CONTEMPORANEI
La reincarnazione nel mondo delle religioni
Carlos Castaneda: il fascino dello sciamanesimo
Il Candomblé: la trance come festa
Apocalisse: un’idea perduta?
New global: una provocazione anche religiosa
pagg. 112 – • 13,00
SPECIALE
PER
I LETTORI DI ROCCA
12
Rosella De Leonibus
PSICOLOGIA DEL QUOTIDIANO
AMORE E DINTORNI
Vorrei che fosse amore
Coppia, il catalogo è questo
L’amore gay
Il romanzo della coppia tra parole e silenzi
L’altro/a: un mistero da riscoprire
Uno più uno uguale tre
Il nido vuoto
Padri cercansi, disperatamente
Figlie di madri
Adulti ed adolescenti: cinque parole per dirlo
PSICHE E DINTORNI
E se l’io diventasse meno ingombrante?
Sulle tracce dei cambiamenti
Convivere col caos
Malati immaginari?
Fuggire col fumo
Mi gioco tutto
Magra per rabbia, magra per amore
Desiderare il futuro
Siamo rete-dipendenti?
CONVIVENZA SOCIALE E DINTORNI
Appunti per un io postmoderno
Dietro le quinte della persuasione
Il marketing delle idee
Tempo per vivere
Del Più e del Meno
Le scorciatoie del pensiero
Fare la differenza
Le sfide dell’intercultura
I frutti della paura
Fiducia o buon senso?
La cura della relazione
Desiderio di “noi”
pagg. 168 – E 20,00
5. Giannino Piana
ETICA SCIENZA SOCIETÀ
i nodi critici emergenti
LE CATEGORIE ANTROPOLOGICHE
L’uomo e il suo corpo
Che cos’è la natura
La vita mistero e dono
La morte e il morire
Salute e cura nel contesto del limite umano
I CRITERI DEL GIUDIZIO ETICO
Non uccidere
La responsabilità morale oggi
L’etica del rischio
La gerarchia dei beni
Quattro principi-base della bioetica
I Comitati di bioetica
Bioetica e biodiritto
I cattolici, la bioetica e la legge
LA MANIPOLAZIONE DELLA VITA UMANA
L’embrione è persona?
La fecondazione assistita e l’inizio della vita personale
Referendum procreazione assistita: perché sì perché no
i volumi 1-2-3
a soli 10 E
ciascuno
i volumi 4-5-6
a soli 15 E
ciascuno
spese di spedizione comprese
Vita e qualità della vita
La clonazione terapeutica
Diritto a morire?
Il testamento di vita
Tra eutanasia passiva e accanimento
terapeutico
LA CURA DELLA SALUTE
Il diritto alla salute
Il rapporto medico-paziente
La verità al malato
Il consenso informato: come, perché, chi
Non esistono malati incurabili
Salute e risorse: a chi la precedenza?
ETICA AMBIENTALE E ANIMALISTA
Il rapporto uomo-natura
Gli animali soggetto di diritti
OGM: risorsa o rischio?
pagg. 152 – E 18,00
6. Carlo Molari
CREDENTI
LAICAMENTE
NEL MONDO
RILEVANZA SOCIALE DELLA FEDE IN DIO
La speranza nei tempi della disperazione
Decadenza della fede, relativismo, religione
civile
La fede in Dio nella pratica politica
Politica e profezia
Guai a voi!
Secolarizzazione e dialogo interreligioso
La nuova Europa: radici e identità
Le Chiese in difesa dell’ambiente
FEDE E CULTURA
Le tracce di Dio nella cultura umana
Scienza e trascendenza
L’azione di Dio in un contesto evolutivo
Creazionisti e neodarwinisti
Il contributo di Teilhard de Chardin al problema
del Male
NEL VORTICE DELLA STORIA
La crisi della Chiesa
Come e perché cambiare
Le componenti della conversione
Transizioni traumatiche
Letture divergenti del Concilio
La missione della Chiesa nel mondo attuale
Ritrovare l’essenziale
I laici nella Chiesa
I laici nel mondo
Il primato della coscienza
Funzioni e limiti del Magistero
UOMINI NUOVI
L’esperienza religiosa
Le emozioni nell’esperienza di fede
Cammini di libertà
Spiritualità del gratuito
Leggi umane e fedeltà alla vita
Spiritualità della liberazione
pagg. 168 – E 20,00
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RESISTENZA E PACE
l’ipotesi peggiore
Raniero
La Valle
F
acciamo l’ipotesi peggiore: che il 25 giugno l’elettorato, distratto da altre cose,
sviato da una falsa ed ambigua informazione e tradito da una classe dirigente che non lo ha avvertito del pericolo, finisca per far vincere i «sì» nel
referendum sul ribaltamento della Costituzione del ’48. L’ipotesi è da brivido, ma è bene farla per vedere le conseguenze.
Ciò che certamente in questo caso non accadrà
è che subito dopo si apra un cortese dialogo tra
i due Poli per riformare insieme la Costituzione
riformata: eppure è proprio questo l’inganno
proposto ai cittadini dal sistema mediatico e dai
maggiori leaders dei due schieramenti nella
campagna elettorale referendaria.
Quello che invece accadrebbe è che subito si
riaccenderebbe la virulenza del centro-destra
per dimostrare che il popolo è dalla sua parte
e per abbattere il governo Prodi. Il quale certamente cadrebbe, perché non potrebbe sopravvivere un governo cui venisse meno il fondamento della Costituzione da cui è nato, quando questa fosse sostituita da una Costituzione
che esso ha deprecato e combattuto.
Inoltre ci sarebbe un argomento assai forte per
promuovere una fine immediata della legislatura. Infatti secondo le norme transitorie connesse alla riforma, gli articoli sulla «devolution»
bossiana, cioè sulla nuova ripartizione delle
competenze tra Stato e regioni, entrerebbero
immediatamente in vigore, cioè già il 27 giugno, mentre l’ordinamento in cui esse sono inquadrate entrerebbe in funzione nella legislatura successiva a quella in cui la nuova Costituzione viene promulgata, e perciò nella prossima. Ma se l’attuale legislatura facesse tutto il
suo corso, fino al 2011 non ci sarebbero gli strumenti per l’esercizio delle nuove competenze
già entrate in vigore: non il Senato federale,
non il nuovo rapporto tra le funzioni legislative delle due Camere e delle Camere con il governo, non gli istituti destinati a risolvere gli
inevitabili conflitti di competenza; perciò la legislazione stessa sarebbe impossibile. Dunque
non si può aspettare il 2011.
Perciò si andrebbe a nuove elezioni, e Berlusconi potrebbe vincerle. Il centro-sinistra,
stroncato sul nascere, non potrebbe esibire alcun risultato, mentre il berlusconismo risulterebbe ormai costituzionalizzato, e non più anche formalmente eversivo. Così Berlusconi tornerebbe a palazzo Chigi non più come presidente del Consiglio, ma come Primo Ministro,
che «determina» la politica del governo e di
ogni dicastero. Non dovrebbe chiedere la fiducia alla Camera, ma solo comunicarle il suo
programma; se al Senato avesse una piccola o
nessuna maggioranza, ciò sarebbe del tutto irrilevante perché il Senato federale non avrebbe più alcun potere politico nei confronti del
governo, e anzi il Primo Ministro potrebbe sempre avocare a sé e alla Camera le leggi su cui il
Senato non si piegasse alla sua volontà; a sua
volta la Camera non potrebbe fare nulla per
correggere, limitare o condizionare il suo potere, che si tratti della guerra o delle pensioni,
perché se essa perde la fiducia del Primo Ministro, questi, cioè Berlusconi, la può sciogliere
come e quando vuole, senza che il povero Napolitano, presidente della Repubblica ormai
solo simbolico, ci possa fare niente. Se poi un
gran numero di deputati della sua stessa coalizione non ne potessero più di Berlusconi e volessero sostituirlo, lo potrebbero fare solo se
raggiungessero da soli il quorum della maggioranza assoluta della Camera, senza il concorso di nessuno dei deputati dell’opposizione, i cui voti in questa circostanza non verrebbero nemmeno contati, sicché tanto varrebbe
che se ne andassero sull’Aventino; basterebbe
che 25 dei 340 deputati berlusconiani restassero a lui fedeli, per renderlo inamovibile, mentre a essere mandata a casa sarebbe la Camera
tutta intera. In ciò consistono le geniali misure antiribaltone, che tanto piacciono anche a
qualcuno della sinistra.
Così sarebbe instaurato il regime del Primo
Ministro. La sovranità popolare, che si realizza attraverso la rappresentanza parlamentare,
sarebbe perduta, e l’unico sovrano che in sé
ricapitolerebbe tutti i poteri delle istituzioni e
del popolo, a cui sempre si appellerebbe come
fonte della sua investitura, sarebbe lui, Berlusconi, e chiunque altro dopo di lui. Corte Costituzionale, Consiglio della Magistratura e ordine giudiziario sarebbero nelle sue mani; e
così anche i diritti fondamentali dei cittadini e
i valori sanciti nella prima parte della Costituzione, a cominciare da quelli della pace, della
solidarietà, dell’eguaglianza e dell’unità nazionale sarebbero privi di ogni garanzia e vanificati nel potere incondizionato di una sola persona.
Viene considerato indelicato chiamare ciò fascismo, ma è appunto da un regime tutto Primo Ministro e niente Parlamento e garanzie
di libertà, detto anche fascismo, che l’attuale
Costituzione aveva voluto trarci e metterci al
riparo per il futuro.
❑
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ROCCA 1 LUGLIO 2006
Li
br
i
1.
4.
BALCANI
14
M
appunto dal risultato del Montenegro. Ed
il Cremlino ha di recente avvertito che se
l’Occidente avallasse l’indipendenza della
Repubblica kosovara, non esiterebbe ad
incorporare due repubbliche secessioniste
georgiane: l’Abkhazia e la Ossezia del sud.
dai prolegomena all’azione
Come è facilmente rilevabile da queste prime righe, basta un niente per infiammare
nuovamente regioni che a fatica hanno ritrovato negli ultimi anni calma ed equilibrio. Ed è anche per questo che l’Unione
europea (Ue) ha seguito con grande prudenza e, possiamo dirlo, con entusiasmo
zero il processo che ha portato il Montenegro a riacquistare una indipendenza che
aveva perduto all’indomani della Prima
Guerra Mondiale. Dopo il sì espresso dal
55,5% dei montenegrini al distacco dalla
Serbia (la Repubblica federale di Jugoslavia fra i due paesi era stata formata il 27
aprile 1992), i vertici comunitari hanno fatto buon viso a cattivo gioco e l’Alto rappresentante della Ue per la politica estera, Javier Solana, ha lanciato un appello affinché Serbia e Montenegro stabiliscano ora
«relazioni costruttive», offrendo anche i
buoni uffici di Bruxelles. Un aiuto che, va
detto, il premier serbo Vojislav Kostunica,
favorevole al mantenimento dell’Unione, ha
gentilmente ma decisamente respinto al
mittente. Lo stesso Kostunica è convinto che
i paesi europei non hanno fatto abbastanza
per scoraggiare i progetti del Montenegro,
anche se in ogni caso è condivisa da gran
parte degli osservatori l’opinione che i ‘Venticinque’ hanno seguito senza entusiasmo
il processo indipendentista, considerando
molto incerto il cammino di questo piccolo
e povero paese (13.612 kmq per 650.000
abitanti) verso l’Europa.
il nodo Kosovo
Per quanto si voglia far uso di pragmatismo,
è un fatto che l’indipendenza del Montenegro avrà influenza in generale sui Balcani.
E proprio quando sta cominciando il negoziato sullo statuto finale del Kosovo, provincia serba popolata al 90% da albanofoni, il precedente montenegrino rischia di far
riesplodere un dibattito etnico faticosamente sopito e fornisce su un piatto d’argento
magnifici argomenti ai kosovari che non
sono disposti ad accettare nulla di meno che
l’indipendenza totale. E se dopo aver conosciuto il risultato del referendum la Slovenia ha invitato le parti alla prudenza e la
Croazia si è felicitata con l’ex nemico che
dieci anni fa ne ostacolò il distacco dalla
Federazione jugoslava, la musica fra i leader nazionalisti kosovari e nel governo albanese è stata molto diversa. «La separazione del Montenegro dall’unione con la
15
ROCCA 1 LUGLIO 2006
ROCCA 1 LUGLIO 2006
Maurizio
Salvi
ontenegro docet. Quando ancora il referendum sull’indipendenza della repubblica ex jugoslava dalla Serbia è lungi dall’aver esaurito tutti i suoi elementi di riflessione – il processo sarà concluso solo in settembre od ottobre – altre simili aspirazioni si profilano già
all’orizzonte, guidate da leader nazionalisti
dei Paesi Baschi, del Kosovo balcanico, e
perfino della ben poco conosciuta Transnistria russa, staccatasi nel 1992 dalla Moldavia dopo una breve ma sanguinosa guerra.
Qui il leader locale Igor Smirnov ha annunciato a fine maggio che «al massimo a settembre sarà organizzato un referendum»
per «consultare la popolazione sull’ulteriore sviluppo della repubblica e sui rapporti
con la Comunità degli stati indipendenti
(Csi)», formata nel 1991 da una dozzina di
nazioni un tempo gravitanti nell’area della
ex Urss, e guidata oggi dalla Russia. Le
ambizioni della Transnistria sono appoggiate dal governo di Mosca (gli abitanti della
piccola regione sono russofoni, ndr.) che ha
dispiegato là 2.000 uomini ma che si è finora ben guardato dal riconoscerne l’indipendenza nel timore di scoperchiare un pericoloso vaso di Pandora. La diplomazia del
presidente Vladimir Putin è infatti sul chi
va là ed osserva attentamente il processo in
corso in Kosovo, dove le spinte indipendentiste sono di nuovo fortissime, alimentate
effetto domino
lo stato dell’ex Federazione
ROCCA 1 LUGLIO 2006
Tenuto conto di queste premesse, e per poter intuire la sorte che può toccare al Montenegro, vediamo lo stato di salute dei diversi paesi nati dalla dissoluzione della Federazione che fu guidata del maresciallo
Tito: Slovenia, Croazia, Macedonia e Bosnia-Erzegovina.
– Slovenia: collocata all’estremo nord della
defunta Jugoslavia e ancorata da secoli a
tradizioni mitteleuropee, questa piccola e
benestante repubblica alpina fu la prima a
proclamarsi indipendente, sulla scia di un
referendum – coronato dall’88% di sì – celebrato il 23 dicembre 1990. Un passo che
aprì le porte a una sorta di effetto domino,
ma che fu ingoiato a tutta prima dal regime jugoslavo di Belgrado, allora dominato
dal serbo Slobodan Milosevic. Ciò avvenne
in modo sostanzialmente pacifico malgrado l’iniziale intervento delle truppe federali, conclusosi, peraltro come una scaramuccia, in 10 giorni nell’estate 1991, per lasciare spazio già nel gennaio 1992 al pieno riconoscimento internazionale di Lubiana.
– Croazia: seconda repubblica ex jugoslavia per dimensioni dopo la Serbia, la Croazia fu seconda – ma dopo la Slovenia – anche nella corsa alla secessione. Uno sbocco
preparato dall’ascesa al potere a Zagabria
dell’ex generale e ideologo nazionalista
Franjo Tudjman (maggio 1990) e da una
serie di modifiche legislative contestate
come discriminatorie dalla minoranza dei
serbi di Croazia (allora pari a oltre il 12%
della popolazione locale). Ma suggellato
soltanto nel maggio del 1991 da un altro
referendum, boicottato dai serbi, nel quale
i sì all’indipendenza furono il 92%. Un risultato avallato anch’esso dai Paesi occiden16
tali, ma destinato a scatenare scontri ben
più sanguinosi di quelli della vicina Slovenia. Sino all’avvio di una guerra aperta durata fino al 1995, con iniziale prevalenza
delle forze serbo-jugoslave e riscossa finale
del nuovo esercito croato grazie alla cosiddetta operazione Tempesta, condotta nell’estate ’95 sotto tutela statunitense.
– Bosnia-Erzegovina: vero fulcro della tragedia jugoslava, questo Paese etnicamente
composito – 40% di bosniaco-musulmani,
35% di serbo-ortodossi, 20% di croato-cattolici – fu il terzo a dichiararsi sovrano. Lo
fece con voto parlamentare il 15 ottobre
1991. Un passaggio seguito dalla cantonalizzazione etnica strappata a Lisbona dalla
comunità internazionale al presidente Alija
Izetbegovic (musulmano), ma da questi poi
denunciata a favore di un referendum indipendentista svoltosi il 29 febbraio 1992 nonostante il boicottaggio della comunità serba locale.
Referendum approvato dal 62,8% dei votanti e riconosciuto in aprile ancora una
volta da Usa e Paesi dell’Ue, ma annientato
immediatamente dallo scatenarsi di un conflitto atroce innescato dalle milizie serbobosniache di Radovan Karadzic e Ratko
Mladic – armate e finanziate dal regime di
Belgrado – con l’assedio di Sarajevo. Un
accerchiamento destinato a durare tre anni,
in un panorama punteggiato da eccidi, devastazioni, lager e stupri etnici, fra vaghi
tentativi negoziali europei e trame di ipotetiche spartizioni della Bosnia attribuite sotto banco agli arcirivali Milosevic e Tudjman.
Fino ai raid Nato contro le forze serbo-bosniache e agli accordi imposti dagli Usa a
Dayton nel novembre 1995 – tuttora in vigore – sanciti dal riconoscimento dell’indipendenza di Sarajevo anche da parte di
Belgrado: accordi precari, ma tali da mettere almeno fine a una mattanza pagata da
200.000 morti (8.000 solo nel famigerato
massacro di civili di Srebrenica) e da moltitudini di profughi.
– Macedonia: altro mosaico etnico (macedoni, bulgari, serbi, albanesi), ma confinato alla frontiera sud dell’ex Jugoslavia, la
Macedonia fu quella che giunse all’indipendenza sotto la guida della meno nazionalista delle leadership balcaniche degli anni
’90. Presieduta dall’astuto Kiro Gligorov,
veterano della nomenklatura tardo-titina, si
proclamò a sua volta sovrana – quasi per
forza d’inerzia – nel settembre ’91. Con un
plebiscito pilotato (95% di sì), ma senza
versare – in quel frangente drammatico –
neppure una goccia di sangue.
Maurizio Salvi
OLTRE LA CRONACA
quali tasche
Romolo
Menighetti
ormalmente sono i delinquenti che
mettono le mani nelle tasche dei
cittadini e dello Stato. Ma Francesco Greco, magistrato già del pool
di Mani pulite, ha proposto, al recente Festival dell’economia di
Trento, di invertire i ruoli. Sia invece lo Stato a mettere le mani nelle tasche dei delinquenti, per contribuire a coprire il buco
nei conti pubblici, lasciato dal precedente, creativo governo di centrodestra.
In concreto, Greco ha sostenuto che, applicando seriamente le sanzioni amministrative previste dalle leggi, è possibile contribuire al risanamento del bilancio e alla
ripresa economica.
Egli ha spiegato che nelle «casse della magistratura», parcheggiati in un conto della
Banca Nazionale del Lavoro, ci sono 200300 milioni di euro provenienti dai soli sequestri realizzati nell’ambito dell’inchiesta
Antonveneta. Il magistrato ha poi segnalato altre fonti di entrate, connesse ad azioni della magistratura, praticamente trascurate. Si tratta dei conti esteri, sequestrati e
congelati, senza che lo Stato ne entri in
possesso. Si tratta, ancora, dei recuperi fiscali ed amministrativi connessi ai fatti di
Mani pulite, corrispondenti a 1500 miliardi di vecchie lire, solo in minima parte riscossi. Se lo Stato, ha osservato Greco, non
è in grado di curarne in prima persona la
riscossione, perché non affidare ad
un’agenzia il recupero dei crediti giudiziari, magari cartolarizzandoli, in modo da
avere subito una parte di queste somme?
Analoghe riflessioni si possono fare riguardo ai patrimoni illeciti della criminalità
mafiosa.
In proposito ne ha parlato, tra gli altri, il Presidente della Corte d’Appello di Palermo,
Carlo Rotolo, all’inaugurazione dell’Anno
giudiziario 2006. I tribunali del distretto di
Palermo, ha detto, nel periodo considerato,
hanno definito 68 misure di prevenzione
patrimoniali, riguardanti considerevoli patrimoni confiscati. Dal canto suo la Corte
d’Appello ha definito 41 misure patrimoniali. Una per tutte, quella a carico dell’imprenditore Vincenzo Piazza e di una trentina di
prestanome, del valore, secondo le stime del-
N
l’amministrazione giudiziaria, di circa un miliardo di euro (2000 miliardi di vecchie lire).
Cos’è che rende ora difficile per lo Stato
entrare in possesso di questa ingente quantità di denaro per metterla al servizio della
collettività?
Tra gli ostacoli principali c’è la legge delega
del 19 ottobre 2004 «per il riordino della disciplina in materia di gestione e destinazione
delle attività e dei beni sequestrati o confiscati ad organizzazioni criminali». Tale norma
ha attribuito il coordinamento dei sequestri
e delle confische, originariamente assegnato
ad un Commissario straordinario rivelatosi
efficientissimo, alla più lenta e burocratica
Agenzia del Demanio. La conseguenza – sconfortante e inquietante, sempre secondo Rotolo – è che nell’ottobre 2005, su un totale di
6556 beni confiscati, soltanto 2962 sono destinati (e le aziende destinate solo 227 su un
totale di 671, di cui solo 54 ancora attive). Il
fatto di stemperare i poteri di intervento e
controllo dell’Autorità Giudiziaria su un’Autorità Amministrativa non adeguatamente
rinforzata, ha reso più difficili gli interventi
che il magistrato Greco ha auspicato a Trento, a causa anche delle sempre più raffinate
tecniche di mimetizzazione progressivamente elaborate dalla criminalità organizzata.
Tale orientamento della politica è stato, senza peli sulla lingua, evidenziato da Greco
con l’affermazione che «da Tangentopoli in
poi la politica è parsa più preoccupata di
depotenziare la magistratura, che di lottare contro la criminalità economica», e che
«sono state introdotte oltre 600 modifiche
al Codice di Procedura Penale per rendere
più difficile l’attività dei magistrati».
A questo punto non ci resta che sperare in
una radicale inversione di tendenza del nuovo governo di centrosinistra. In particolare
ci attendiamo una maggiore attenzione e determinazione nei confronti della criminalità economica, anche per i possibili ritorni
positivi in campo finanziario per la comunità tutta. Un impegno che dovrà svilupparsi
non tanto con proclami, ma prima di tutto
con un’attenta e scrupolosa applicazione
delle norme già esistenti, nonché ripristinando quegli organismi che in passato hanno
già dato prova di efficienza ed efficacia. ❑
17
ROCCA 1 LUGLIO 2006
BALCANI
Serbia – ha avuto modo di dichiarare il premier albanese Sali Berisha – insieme alla
futura indipendenza del Kosovo faranno definitivamente archiviare una lunga storia di
guerre nella regione». Una teoria che però,
lo abbiamo visto, non convince affatto la
Russia, disposta a radicali azioni preventive. I sensori della comunità internazionale
sono comunque al massimo per cercare di
bloccare sul nascere possibili spinte centrifughe. È in questo ambito che lo stesso Solana ha respinto categoricamente paralleli
fra il referendum sull’indipendenza del
Montenegro e il dibattito in corso in Spagna sull’autodeterminazione dei Paesi Baschi. Ogni raffronto su questo punto, ha risposto categoricamente l’alto responsabile
comunitario ad alcuni giornalisti, «sfiora il
delirium tremens».
REFERENDUM COSTITUZIONALE
perché
no
U
ROCCA 1 LUGLIO 2006
non è vero
In primo piano, per così dire, la fine del
berlusconismo. Una fine che in realtà non
è in attesa di ulteriori decisioni: è già stata
decretata dalle elezioni politiche e ancora
più chiaramente da quelle amministrative. Non è vero, dunque, che se vincessero i
18
«sì» Berlusconi resusciterebbe, anche se a
quella eventuale vittoria la destra collega,
più o meno sinceramente, la possibilità di
un inizio di trattative. Chi non desidera un
ritorno della destra deve votare «no» senza esitazioni.
Non è vero neppure quello che la destra
va promettendo in campagna elettorale,
che, cioè, la vittoria del «sì» aprirebbe le
porte alla possibilità di una revisione della Costituzione. Non è vero: le porte si
aprirebbero, senza incertezze, a quelle
sciagure che le novità comporterebbero,
senza possibilità di ritorni indietro. La
fine dell’unità nazionale, il predominio
del nord sul sud, la pluralità delle Italie
nella scuola, nella sanità, nella sicurezza. Il trionfo del ricco Nordest e della
Lega che lo sostiene.
scegliere no per migliorare
Non che la vittoria del «no» escluda qualche correzione necessaria, qualche miglioramento, ma in un quadro conosciuto e
già provato, se non addirittura garantito.
Non abbiamo bisogno né della «devolution» né di quel forte premierato che sconvolgerebbe l’armonia così delicata fra esecutivo, legislativo, giudiziario. Armonia
delicata, certamente non perfetta, ma che
è molto pericoloso intaccare: soprattutto
se a favore di qualche potere «forte» che
cerca di prevalere e di soffocare. Al di là
delle formule più o meno edulcorate, è in
gioco addirittura la democrazia.
Se ne sono accorti molti, anche al di là del
centrosinistra che si è dichiarato decisamente per il no. Perfino l’arcivescovo di Milano
Tettamanzi, una presa di posizione tanto più
significativa perché pronunciata in un momento nel quale le autorità ecclesiastiche cattoliche fanno di tutto per mantenere l’imparzialità. Scrive il settimanale della diocesi di
Milano: «La riforma nata come devolution
appare troppo contrassegnata da una volontà di parte, tanto che essa si presenta a tratti
come la giustapposizione e sistematizzazione delle richieste delle singole forze politiche
che componevano la ex maggioranza».
Ogni voto, dunque, è importante: speriamo
che siano soprattutto i fautori del «sì» ad «andare al mare», come si suol dire, nei giorni
fatali.
Enrico De Nicola
firma il testo
della Costituzione
approvata
dall’Assemblea
Costituente
il 27 dicembre 1947
ROCCA 1 LUGLIO 2006
Filippo
Gentiloni
n referendum difficile quello che
affrontiamo il 25 e 26 giugno: difficile perché carico di ambiguità,
più o meno nascoste dietro la
semplicità di quel «sì» e di quel
«no». In gioco non soltanto la riforma costituzionale, ma la scelta fra due
Italie. Una scelta fra diversi piani, fra i quali
è bene fare chiarezza.
Filippo Gentiloni
19
RAPPORTI CENSIS E DEMOS-COOP
Cipputi
si espande
ben il 40% degli italiani
si percepisce come appartenente
al ceto
popolare/classe operaia
20
C
po trapela in tante manifestazioni del vivere
individuale e sociale del nostro paese parlasse un’altra lingua, e che fosse necessario
ascoltarla. O era solo tetraggine, malinconia, pervicace sordità? Non sembra.
un balzo all’indietro
Dai due rapporti sulla popolazione italiana pubblicati in questi giorni – uno sulla
percezione delle appartenenze sociali, curato dalla Demos-Coop; l’altro sulla mobilità sociale, condotto dal Censis – scappa
fuori un’Italia stagnante, depressa, pessimista. Non è solo per la malignità del ceto
politico che, da un’elezione all’altra, si vedono più o meno le stesse facce. Non c’è
ricambio, o è in quantità omeopatiche,
anche nelle imprese e nel mondo dell’economia; anche nelle università e nel mondo scientifico; anche nelle amministrazioni e nei grandi servizi. I giovani restano
fuori, le donne sgomitano ma stentano,
sembra dominare l’immobilità. E se qual-
cosa si muove, è un movimento che va sopratutto verso il basso.
Lo studio del Censis che analizza i percorsi dei figli rispetto ai padri fotografa un
paese in cui le dinamiche di mobilità sociale, così diffuse e frequenti negli anni sessanta-settanta del secolo scorso, sono diventate rarissime. Negli ultimi anni più del
40% degli occupati non ha migliorato la
sua condizione lavorativa e sociale rispetto a quella dei padri.
Una stasi che non riguarda solo i figli dei
ceti operai, in cui solo l’8% approda a titoli di studio alti e da quelli al mondo delle
professioni.
Anche nei ceti medio-alti composti da liberi professionisti, dirigenti, piccoli imprenditori non c’è da stare allegri: solo il
40% dei figli ha mantenuto le posizioni
della famiglia di origine, gli altri sono scivolati in basso, la maggior parte di poco,
ma quasi il 10% ha fatto un vero e proprio
balzo all’indietro, finendo tra i ranghi dei
ceti popolari/operai.
Ancora peggio è andata per i figli di quelli
che una volta si chiamavano piccolo-borghesi, commercianti, tecnici, operai specializzati, lavoratori in proprio. Nonostante negli ultimi venti anni si sia sostanzialmente generalizzato l’investimento delle
famiglie nell’istruzione secondaria superiore (oggi si iscrive agli istituti superiori il
98% dei licenziati della scuola media), lo
sforzo non ha avuto risultati brillanti: nel
63% dei casi non c’è stato un neppur piccolo miglioramento, una parte ha peggiorato la propria condizione rispetto ai padri, solo il 13% ha fatto dei passi in avanti.
Spiega Luciano Gallino, su Repubblica,
che è proprio a questo tipo di fenomeni
che si deve «la stagnazione delle idee, delle forme di pensiero, nella maggior parte
dei campi della nostra cultura, perché le
idee circolano e si innovano quando una
quota elevata di persone circola sulla scala sociale, molti scendendo ma molti anche salendo dal basso ad occupare posizioni ben superiori a quelle di partenze». Sen-
ROCCA 1 LUGLIO 2006
ROCCA 1 LUGLIO 2006
Fiorella
Farinelli
ipputi sembrava scomparso per
sempre, travolto dalle magnifiche
sorti e progressive della società
postmoderna e postfordista. E
con lui le vecchie amate/odiate
classi sociali, quelle che davano
identità collettive, quelle che producevano
culture e – parola ormai vietata – ideologie.
Tutto era destinato a rimescolarsi, e profondamente, in un mondo globalizzato, pervaso da tecnologie, innovazioni, meticciati,
prossimità capaci di rompere ogni confine,
di aprire ciò che era chiuso, di spazzare via
antichi modi di essere e di pensare. La società aperta, finalmente. Le nuove opportunità. La libertà di andare, cambiare posto,
crescere, contro il destino dell’immobilità e
delle appartenenze. Il merito contro i vincoli dell’origine sociale, l’inventività contro la
ripetitività, il nuovo – immancabilmente vincente – contro la conservazione.
C’era chi sospettava, in verità, che non fosse
proprio così e che quel sentimento di negatività, di insoddisfazione, di crisi che da tem-
21
perché la stasi?
Ma che cosa, in Italia, produce questa tendenza alla stasi, questa difficoltà a introdurre meccanismi che producano mobilità? Ci
sono indubbie responsabilità del sistema
educativo – la scuola e l’università – che
troppo spesso riproducono le differenze
sociali e culturali originarie, senza promuovere e coltivare né il merito individuale né
l’eccellenza delle strutture. Ci sono ritardi
enormi nella formazione continua e permanente degli adulti, cui accedono prevalentemente le persone che hanno già livelli
medio-alti di istruzione e che sono collocate in postazioni professionali medio-alte e
che, in genere, privilegia l’aggiornamento
addestrativo invece che lo sviluppo culturale e professionale.
Ma c’è anche il peso, mai adeguatamente
contrastato né da destra né da sinistra perché ne deriverebbero perdite di consensi,
delle corporazioni che temono la concorrenza dei nuovi ingressi e che la contrastano in ogni modo: nelle imprese, nelle professioni, nella vita amministrativa.
italiano = operaio?
ROCCA 1 LUGLIO 2006
C’è del resto il segno di antichi conservatorismi, ma anche di nuove chiusure e paure,
nello stesso modo di percepire la propria
appartenenza sociale da parte degli italiani. Cipputi sarà anche dimagrito, in termini di addetti all’industria manifatturiera, ma
è un fatto che dall’indagine di Demos-Coop
viene fuori che ben il 40% degli intervistati
si definisce appartenente alla «classe popolare-operaia». Mentre è il 50% che si definisce «ceto medio», e neppure il 10% si considera dirigente o borghese. In questo gran
corpo del 40% non ci sono solo operai e disoccupati, ma anche casalinghe, una parte
importante dei pensionati e degli impiegati, un terzo dei funzionari, il 25% degli imprenditori: tutta gente accomunata dalla
percezione di stare nel gradino più basso
della scala sociale, ma forse sopratutto dall’idea che è impossibile migliorare, e da
esperienze non gratificanti nel lavoro e probabilmente anche nell’istruzione.
È curioso, comunque, che anche tra commercianti, liberi professionisti, artigiani,
insegnanti, quote non marginali si percepiscano come appartenenti al ceto popolareoperaio, mentre nel ceto medio convivono
posizioni economiche e sociali diversissi22
me. Ma è di nuovo la mobilità sociale che
definisce le linee di separazione: se nella
classe che si definisce borghese-dirigente è
una quota importante, pari al 39%, quella
che ritiene di avere migliorato la sua posizione rispetto a 5 anni fa, nell’area dei ceti
medi la percentuale scende al 28% e in quella popolare-operaia al 13,7%.
privacy
PAROLE CHIAVE
paura del futuro
In questo ultimo comparto sociale, del resto, se il 42% si sente stabile, il 44% si sente
in declino. Non sono dunque molti, nella popolazione italiana, quelli che ritengono di
essere forti, e in possibile ascesa; la maggioranza, appartenente al ceto sociale più modesto ma anche al ceto medio, è contrassegnata piuttosto da sentimenti negativi o preoccupati, teme di non riuscire ad andare
avanti e perfino di andare indietro, ha paura
per i propri figli, risparmia o investe nell’acquisto di immobili per tutelarsi da possibili
future difficoltà, guarda con la massima inquietudine alle difficoltà di inserimento professionale stabile dei giovani, pensa che il
sistema pensionistico e quello sanitario non
li tutelino abbastanza, è ossessionata dalle
tasse e dalla possibilità che un loro ulteriore
incremento destabilizzi e peggiori le posizioni attuali. Il 51,8% dei ceti medi, per esempio, pensa che i giovani avranno una condizione inferiore rispetto a quella dei genitori;
e il 26,1% che tra cinque anni la situazione
economica personale sarà peggiore.
una società chiusa
Sarà anche – come sottolineano alcuni commentatori – l’effetto di una tradizionale sindrome di vittimismo e di pessimismo. Ma è
indubbio che la grande diffusione di sentimenti così negativi scoraggia l’imprenditorialità, l’innovazione, il rischio, che hanno
bisogno di fiducia nel futuro, di sguardi
«lunghi» e di strategie individuali o collettive di ampio respiro. E favorisce invece –
come sottolinea Ilvo Diamanti – la costruzione di cerchie corporative, di lobbies, di
autotutele. È in questo quadro che la famiglia, la rendita, l’eredità – e non l’intelligenza, il merito, l’innovazione – vengono individuati come i principali meccanismi di
promozione sociale ed economica. Una situazione difficile, in cui la percezione dell’instabilità individuale si impasta di conservatorismi e di rigidità sociali. Una società vischiosa e ripiegata su di sé, lontana
mille miglia dai miti della società aperta.
Romolo
Menighetti
a privacy delimita la sfera privata
della vita di ogni individuo. Essa
dà luogo al diritto, da parte di individui e gruppi, di autodeterminare in che misura l’informazione
su se stessi sia comunicabili ad altri. La privacy normalmente riguarda i dati
cosiddetti sensibili, cioè quelli che possono rivelare l’origine razziale ed etnica, le
convinzioni religiose, le opinioni politiche,
l’adesione a partiti, sindacati e associazioni, nonché i dati personali in grado di rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.
Essendo però la vita dell’uomo caratterizzata da un sempre maggiore numero di
scambi, necessariamente alcune informazioni devono uscire dalla sfera della riservatezza. Tale sfera non può perciò essere
né fissa né immutabile.
La privacy non è un diritto di recente acquisizione. Già nella Costituzione italiana,
all’articolo 13, è compreso anche il diritto
alla riservatezza. Vi si legge, infatti, che «la
libertà personale è inviolabile», e che «è
punita ogni violenza fisica e morale».
Se di privacy si parla oggi con maggiore
frequenza è perché la diffusione di sempre più tecnologicamente sofisticati strumenti di controllo, offre la possibilità di
violarla più che in passato.
Anche il notevole aumento dello scambio
di informazioni attraverso l’intermediazione tecnologica (telefono, carte di credito,
card al consumo, Internet, posta elettronica) rende più vulnerabile la privacy.
L’utente, infatti, per accedere a questi servizi, deve acconsentire che una parte delle
informazioni su di sé siano schedate e poste in banche dati.
Da qualche tempo poi ha preso corpo una
sempre più determinata volontà di interferenza da parte del potere politico, giudiziario ed economico nell’ambito privato degli
individui. I primi due poteri con il pretesto
della lotta al terrorismo si autolegittimano
circa l’uso, spesso illegale, di strumenti
come le intercettazioni telefoniche e su Internet. Il terzo per esercitare intrusive pressioni per orientare bisogni e consumi.
Già si può parlare di una «società della sorveglianza», entro la quale la vita non è più
L
l’ambito della multiforme libertà, ma semplice entità da tenere continuamente sotto
controllo per ricondurla entro binari decisi
dai potenti. Perciò si estendono le forme di
controllo sociale, non solo per la lotta al
terrorismo, ma anche per ragioni di efficienza economica. Inquietante, ad esempio, è
la decisione, presa nel dicembre 2005 dal
Parlamento europeo, di riconoscere agli
Stati il diritto di raccogliere e conservare i
dati riguardanti tutte le comunicazioni elettroniche: telefonate, e-mail, accessi ad Internet. Ciò significa che al di sopra degli europei si consoliderà una gigantesca bancadati con migliaia di miliardi di informazioni e collegamenti, che permetterà di ricostruire l’intera rete delle relazioni personali, sociali, economiche, nonché gli spostamenti
di ogni persona. Comunità di persone libere saranno così trasformate in nazioni di
sospetti e di consumatori teleguidabili.
E il futuro ci riserva intrusioni ancora più
profonde. Si stanno, infatti, sviluppando, tra
le altre, ricerche sulle impronte cerebrali,
per mettere a nudo la memoria individuale
onde individuare tracce che rivelino il ricordo di episodi passati, da assumersi come
prova di partecipazione a certi fatti. E poi
si prospettano chip elettronici sotto la pelle, etichette intelligenti, braccialetti elettronici per un controllo permanente.
Questa grande trasformazione tecnologica muta profondamente il quadro dei diritti civili e politici, conferisce oscuri poteri alle istituzioni, modifica i rapporti
personali e sociali, e incide sull’antropologia stessa delle persone.
In Italia la tutela della privacy è prevista
con la legge del 3 giugno 2003, che raggruppa il cammino legislativo effettuato in
materia a partire dalla legge 675/1996. Però
tale tutela non può limitarsi ad impedire
la circolazione di qualche informazione
personale. La tutela dei dati individuali è
ormai questione di libertà e di democrazia. Va perciò affrontata non solo in chiave di chiusura nel privato, ma avendo come
obiettivo il miglior positivo sviluppo delle
nuove tecnologie, a vantaggio sia dei rapporti interpersonali, che del rapporto dei
cittadini con la sfera pubblica.
❑
Fiorella Farinelli
23
ROCCA 1 LUGLIO 2006
RAPPORTI
CENSIS
E
DEMOSCOOP
za movimento non c’è vita, insomma, e tanto meno innovazione, che ha sempre bisogno del ricambio, sociale e generazionale.
ROCCA 1 LUGLIO 2006
Pietro
Greco
24
rischi
della Banca
genetica
L
o ha denunciato, con un esposto
al garante della Privacy, un avvocato di Bolzano: anche in Italia ci
sarebbe una banca dati, contenente tracce di Dna, raccolte dai carabinieri durante normali attività
investigative. Una banca simile a quella
realizzata in Gran Bretagna all’indomani
degli attentati alle Torri Gemelle di New
York nel 2001 e venuta alla luce, tra le
polemiche, nei mesi successivi perché del
tutto illegale.
Non sappiamo se la denuncia dell’avvocato di Bolzano sia fondata. Se anche in
Italia è stata allestita una banca che raccoglie e conserva dati genetici. E se, eventualmente, questa banca sia entro o oltre
i confini della legalità. Sarà il garante o,
eventualmente, la magistratura a chiarirlo.
Tuttavia il problema esiste. E riguarda noi
tutti. Perché in ogni momento qualcuno,
fosse anche un’autorità di polizia, potrebbe violare uno dei diritti nuovi e già inalienabili dell’era biotecnologica, il diritto
alla «privacy genetica».
Il più preoccupato sulla possibilità di violare e quindi sulla necessità di garantire
questa particolare forma di segretezza è
certo Sir Alec John Jeffreys, il genetista
inglese che per primo ha sviluppato le tecniche del «Dna fingerprint», letteralmente l’impronta digitale a Dna. L’idea e, soprattutto, la pratica di acquisire e conservare in una grande banca dati il profilo
genetico di persone sospette da parte del-
la polizia, sostiene Sir Alec John, è molto
pericolosa: perché può essere fonte di gravi discriminazioni nei riguardi di singoli
individui e di interi gruppi sociali. Meglio
sarebbe acquisire e conservare il profilo
del Dna dell’intera popolazione: almeno
così saremmo tutti sulla medesima barca
e nessuno potrebbe essere discriminato
in partenza.
Sir Alec John Jeffreys propose la sua provocazione l’11 settembre 2002, un anno
dopo l’attacco terroristico alla Torri Gemelle di New York, quando si venne a sapere che la polizia di Sua Maestà Britannica aveva allestito una banca dati del Dna
dove venivano conservati i profili genetici di 1,5 milioni di persone, non solo criminali, ma anche semplici sospetti.
Il tema è tornato di attualità in Italia,
quando un quotidiano nazionale (L’Unità) nelle scorse settimane ha dato notizia
che un qualcosa di analogo sarebbe avvenuto nel nostro paese a opera dei carabinieri del Ris. Inevitabile la domanda: è
lecito violare la privacy genetica e conservare il profilo del Dna di criminali conclamati e/o di criminali solo presunti? Il
diritto alla riservatezza genetica di ogni
singolo individuo ha la priorità anche nei
confronti del diritto di tutti alla sicurezza?
le indicazioni dell’Unione Europea
A queste domande è già stata fornita una
risposta in sede europea dal Gruppo per
la tutela dei dati personali, nominato dalla Commissione di Bruxelles e diretto da
Stefano Rodotà, che il 1 agosto 2003 ha
adottato un documento molto chiaro: la
raccolta dei dati biometrici che consentono l’identificazione e l’autenticazione/
verifica automatica di ogni individuo è
una faccenda molto delicata e, quindi,
deve avvenire con estrema cura. I dati biometrici sono molti. Alcuni di tipo comportamentale: la firma, la calligrafia, il
modo di battere su una macchina da scrivere. Altri, ritenuti più affidabili, di tipo
fisiologico: le impronte digitali, il riconoscimento dell’iride, l’analisi della retina,
la geometria della mano, la struttura del
Dna.
Per tutti questi dati, sostiene il documento dell’Unione europea, la raccolta può
avvenire, purché venga seguita una rigorosa procedura. Che prevede la lealtà (i
dati non devono essere conseguiti all’insaputa della persona che ne è proprietaria), la giusta finalità (il fine deve essere
determinato, esplicito e legittimo) e la
proporzionalità (i dati raccolti devono
essere pertinenti e non eccedenti rispetto
ai fini). È bene, infine, che i dati biometrici non vengano conservati in una banca dati centralizzata, ma conservati in
memorie localizzate, magari in possesso
della persona interessata. Per evitare che,
in maniera più o meno intenzionale, possano essere integrati con altri dati e/o finire in mani non disinteressate.
Queste indicazioni – che dovrebbero va25
ROCCA 1 LUGLIO 2006
PRIVACY
di chi sono figlio?
Può, dunque, in materia di dati biometrici
lo stato derogare ai principi di lealtà, giusta finalità e proporzionalità indicati dalla Commissione europea? Lasciamo ad altri la risposta in punta di diritto. Conviene, qui, rilevare che una specifica tecnica
biometrica, quella che consente la determinazione della struttura del Dna di ciascuno di noi, apre problemi nuovi e diversi rispetto alle tecniche di raccolta delle
impronte digitali o della geometria della
mano.
Il Dna, infatti, non contiene solo i caratteri utili per l’identificazione univoca e l’autenticazione/verifica di ciascuno di noi.
Contiene molto di più. Contiene la nostra
storia passata. E la storia passata della
nostra famiglia: nel nostro Dna c’è scritto,
per esempio, di chi siamo figli e di chi siamo fratelli. Un dato che, spesso, è sconosciuto persino al proprietario del Dna e la
cui diffusione può sconvolgere la vita di
un insieme, piuttosto ampio, di persone.
a quali malattie vado incontro?
Ma il Dna contiene, anche e soprattutto, il
nostro possibile futuro. Certo, per la gran
parte in termini probabilistici. Dall’analisi
del nostro materiale genetico si ricava la
propensione verso alcune malattie (si parla di una nuova medicina, predittiva) e, nei
prossimi anni, si potrà forse misurare la
nostra propensione verso alcuni compor-
ROCCA 1 LUGLIO 2006
dello stesso Autore
BIOTECNOLOGIE
scienza e nuove tecnologie biomediche
verso quale umanità?
(vedi pag. 12)
tamenti. Queste propensioni hanno un tasso di determinazione variabile: la certezza
nel caso di malattie genetiche monofattoriali, solo una possibilità, più o meno
labile, nel caso di malattie o comportamenti multifattoriali.
E, tuttavia, la diffusione (intenzionale o
non intenzionale) di queste informazioni può avere effetti enormi. Io stesso potrei non voler mai sapere, per esempio,
se ho una propensione piuttosto alta a
contrarre un certo tipo di tumore o anche solo il diabete. Potrei non volere che
i miei familiari sappiano e si angoscino
prima del tempo. Certo non voglio che
conoscano la mie propensioni genetiche
la mia assicurazione e/o il mio datore di
lavoro: potrei perdere – come è successo
negli Stati Uniti – la mia occupazione
attuale e/o la mia futura copertura previdenziale. E già penso con orrore ai futuri «call center» delle industrie farmaceutiche che nell’era della medicina predittiva ti chiamano a ogni ora del giorno
(e spesso della notte) per chiederti se,
sulla base del tuo profilo genetico in loro
possesso, vuoi comprare questo nuovo
farmaco o essere aiutato a sviluppare
quel particolare stile di vita.
Certo, sotto accusa è il fatto che i carabinieri in Italia – così come la polizia inglese – raccoglie per fini di identificazione personale tracce di Dna e non informazioni genetiche. Ma da quelle tracce
di Dna, raccolte peraltro all’insaputa del
«legittimo proprietario», è facile ricavare le informazioni genetiche (di chi sono
figlio, se ho una propensione a contrarre una certa malattia). Cosicché raccogliere l’impronta genetica non è esattamente come raccogliere un’impronta digitale o la geometria della mano.
No, quella genetica è una privacy molto
più delicata delle altre. E va più attentamente tutelata. Non solo rispettando nella maniera più rigorosa possibile le indicazione del Gruppo europeo diretto da
Stefano Rodotà. Ma forse prevedendo
qualcosa che in Italia ancora non c’è. Nel
nostro paese la privacy biometrica è tutelata dal Garante, che è un’autorità amministrativa. È sufficiente? Non c’è forse bisogno di una legge organica, che tenga conto della specificità del Dna e della
privacy genetica e contribuisca a farci entrare con maggiore fiducia, per coglierne le opportunità e minimizzarne i rischi,
in quella particolare era della conoscenza che è l’era della medicina predittiva?
UNESCO
libertà di comunicazione
Carlo
Timio
al 1993, nel quadro del riconoscimento del ruolo sempre più
centrale che la libertà di stampa
sta assumendo per la democrazia e lo sviluppo, l’Unesco si batte in prima persona per la libera
divulgazione delle informazioni, in modo
particolare nei paesi in via di sviluppo. I connotati di una società democratica vengono
sviliti laddove mancano i media liberi ed
indipendenti. La libertà di stampa costituisce, a tal fine, un formidabile strumento per
la circolazione di informazioni volte alla formazione di una coscienza civile, al riconoscimento e al rafforzamento dei diritti umani fondamentali, a uno sviluppo economico sostenibile e al miglioramento della comunicazione tra i detentori del potere politico e i differenti livelli della società.
La sfida dei media deve essere quindi quella di mettere a punto il potenziale di cui
essi sono dotati nella promozione dello sviluppo umano. A tal riguardo, la comunicazione sociale rappresenta uno straordinario strumento per aprire un dialogo maggiore tra i vari settori della società civile,
dal momento che l’informazione circola in
due direzioni, dalla gente alle istituzioni e
dai governi alla popolazione.
Per sostenere riforme di governo, una maggiore trasparenza delle istituzioni pubbliche, unitamente a una buona governance,
occorre che a tutti i cittadini sia fornita quel-
D
la pluralità di informazioni che li sappia
mettere nelle condizioni di assumere decisioni responsabili. È indispensabile cioè sviluppare una stretta relazione tra una popolazione informata, attiva e critica e una classe dirigente responsabile.
In un teatro di guerra o in uno stato dittatoriale in cui questo legame non si realizza,
il ruolo della stampa non libera può risultare deleterio. La propaganda dello stato che
ostacola la stampa libera ed indipendente è
estremamente pericolosa, divenendo strumento di un progetto politico che appoggia
le nefaste decisioni del governo.
In Corea del Nord per esempio, dove vige
una ferrea dittatura, la stampa locale è costretta a fare il gioco del governo, omettendo di documentare la tragica realtà economica e sociale nella quale versa l’intera popolazione.
Un’altra testimonianza lampante è rappresentata dal governo cinese, che da un lato
finanzia importanti investimenti per la diffusione del mezzo informatico e dall’altro
crea un numero sempre più crescente di
mezzi tecnologici volti a filtrare informazioni
scomode. È importante sottolineare come la
società dei mass-media può privare l’individuo della capacità di ragionamento. Una
stampa è veramente libera, infatti, se riesce
a criticare il potere costituito senza incappare nelle maglie della censura. Nei paesi in
via di sviluppo, una stampa libera e indipendente può svolgere un ruolo di primissimo
piano nell’edificazione di una nuova cultura
dello sviluppo e nella diffusione di valori di
riferimento. Il silenzio, al contrario, è il migliore alleato dell’ignoranza, intesa come incapacità di uscire dalla condizione di schiavitù mentale e fisica della povertà.
Con il rapido affermarsi della globalizzazione, le condizioni di vita dei paesi occidentali sono sempre più condizionate dai
problemi dei paesi del sud del mondo. Se
non si tende a raggiungere un equilibrio
tra le oasi di ricchezza e la diffusa indigenza, il pianeta piomberà inevitabilmente in una condizione di insostenibilità. In
tutto ciò, il ruolo dei media può risultare
determinante nell’ottica di formare, deformare e trasformare la realtà.
Pietro Greco
26
27
ROCCA 1 LUGLIO 2006
PRIVACY
lere per tutti i paesi europei, Italia inclusa – non fanno altro che riprendere le
preoccupazione di Sir Alec John Jeffreys e
organizzarle secondo la prudenza e la logica giuridica. Una banca centralizzata di
dati biometrici, raccolti peraltro all’insaputa degli interessati, non è, in linea del
tutto generale, auspicabile. Tuttavia, si
dirà, la polizia di tutto il mondo da decenni conserva in banche date centrali alcuni
dati biometrici, come le impronte digitali.
Perché, si ritiene, che la sicurezza di tutti
viene prima della privacy dei singoli.
to principale è guadagnato da una donna.
Ma il dato italiano è la risultante di situazioni territoriali fortemente divaricate.
All’interno delle tante Italie, emerge sia il
divario Nord Sud, sia quello interno alle
diverse aree.
La tavola riporta la distribuzione delle famiglie nei quinti di reddito equivalente
(cioè riportando tutte le famiglie ad una
composizione omogenea per eliminare gli
effetti dovuti alla diversa numerosità dei
nuclei familiari).
In una situazione ipotetica di perfetta
uguaglianza ogni quinto dovrebbe avere
una quota pari al 20% del totale. Come si
vede, invece, i divari sono clamorosi.
Nel quintile più basso al Nord si trova il
10,5% delle famiglie, al sud il 38,8%; nei
due quintili più alti al Nord il 50,3% delle
famiglie, al sud solo il 20,6%.
Nel Mezzogiorno non solo c’è la più alta
sperequazione dei redditi, ma esiste un
numero consistente di famiglie con un solo
reddito e ben mezzo milione di esse sono
addirittura senza occupati.
Il contrasto Nord-Sud appare particolarmente drammatico se si guarda alle famiglie tenendo conto del numero di componenti: nelle coppie con un figlio il reddito
medio al sud è di 24.491 euro, al nord di
35.852; in quelle con due figli al sud 24.666
al nord 38.262 e così via. Si potrebbe pensare che la divaricazione territoriale sia
legata anche ai diversi livelli di scolarità
presenti nelle diverse regioni. Ma non c’è
RAPPORTO ISTAT
le tante
Italie
C
disuguaglianza profonda
Vediamo alcune delle principali tessere del
28
mosaico dando priorità a quella più importante sui redditi perché per la prima
volta l’Istat ha realizzato una indagine sui
redditi familiari ed individuali (finora questo fenomeno era rilevato solo dalla Banca d’Italia, ma con una rilevazione meno
estesa).
Dall’indagine emerge l’esistenza di una disuguaglianza profonda. La disuguaglianza è maggiore che nei principali paesi europei ed inferiore solo a quella di Stati
Uniti e Gran Bretagna (la qualcosa non è
certo consolante se si pensa alle selvagge
politiche di deregulation e di distruzione
dei servizi e delle politiche sociali condotte in questi paesi).
Misurando questo fenomeno con l’indice
di concentrazione dei redditi, l’Italia si
colloca nel gruppo di paesi con la più alta
disuguaglianza accanto a Portogallo e Grecia, estremità geografiche e non solo, del
continente europeo.
Mediamente risultano più svantaggiate le
famiglie con almeno un figlio minore, quelle dei giovani single, quelle in cui il reddi-
redditi da lavoro
All’interno di questo scenario generale si
colloca la questione dei redditi dei lavoratori.
Ad incidere molto sulla diseguale distribuzione dei redditi influisce particolarmente la fonte di reddito da lavoro. Tra i
lavoratori dipendenti le differenze ci sono,
ma sono relative (reddito familiare medio 27.111, al nord 29.238, al Centro
28.486, al Sud 23.036). Ma nelle famiglie
Distribuzione delle famiglie per quintili di reddito
1°
Nord
Centro
Sud
Italia
2°
10,5
12,4
38,8
20
Quintili di reddito
3°
4°
17
19,3
24,9
20
di lavoratori autonomi il reddito medio è
ben più alto ed i divari territoriali più
marcati (reddito familiare medio 35.777,
al nord 40.394, al Centro 36.915, al Sud
27.265).
Ci sono 4 milioni di lavoratori a basso reddito (al di sotto dei 700 euro mensili pur
lavorando per oltre il 60% più di 30 ore
settimanali) di cui 1,5 vive in famiglie in
condizioni di disagio economico. Questo
fenomeno di bassi redditi da lavoro è for-
22,2
21,6
15,7
20
5°
24,8
22,4
11,4
20
Totale
25,5
24,3
9,2
20
100
100
100
100
te tra i giovani con lavoro autonomo (tra
questi rientrano i co.co.co o i lavoratori a
progetto) tra le donne, tra i lavoratori che
non hanno raggiunto la licenza media.
Nel primo quinto della distribuzione l’incidenza dei redditi bassi è del 17,2 al Nord,
del 24,0% al Centro, del 57,2% al Sud.
La profonda disuguaglianza che emerge da
questi dati è un fattore notevole di vulnerabilità per l’intero tessuto sociale del paese.
ROCCA 1 LUGLIO 2006
ROCCA 1 LUGLIO 2006
Aldo Eduardo
Carra
he in Italia si stessero accumulando diversi fattori di fragilità è stato evidenziato, in questi anni, da
diverse parti sociali e da svariate
ricerche. Si è trattato, però, sempre di analisi e denunce specifiche
su categorie sociali o singoli fenomeni: sui
pensionati o sugli anziani, sui giovani o sul
precariato, sui redditi o sulle ricchezze.
Tanti tasselli mai, però, assemblati e ricomposti in un mosaico.
Il pregio maggiore del recente Rapporto
annuale 2005 dell’Istat sulla situazione del
paese è proprio questo: avere scattato diverse foto (del lavoro, dei redditi, delle
condizioni di vita) ed avere con esse composto una grande foto di gruppo del nostro paese. Quello che ne emerge è identificabile con una parola chiave «vulnerabilità», una sorta di filo rosso che lega le diverse foto.
solo questo: la divaricazione sussiste anche a parità di titolo di studio.
Se, ad es. si guardano le famiglie secondo
il titolo di studio emerge che in quelle senza titolo o con licenza elementare il reddito medio è 14.639 al sud e 18.760 al nord,
in quelle con licenza media inferiore il reddito medio è 19.379 al sud e 27.476 al nord,
in quelle con laurea il reddito medio è
38.078 al sud e 42.553 al nord.
Scorrendo le singole regioni emerge che
in tutte le regioni meridionali ed insulari
il reddito netto familiare è inferiore a quello medio nazionale, in tutte quelle settentrionali, tranne solo la Liguria, superiore.
Volendo fare un bilancio, per i poveri del
sud c’è un doppio disagio: non solo il reddito medio delle famiglie del sud è pari a
tre quarti di quello delle famiglie del nord,
ma il divario tra poveri e ricchi all’interno
del sud è più alto di quello che si registra
all’interno del centro e del nord.
29
RAPPORTO ISTAT
i più poveri e i più ricchi
Una risposta a questa domanda la fornisce
una ulteriore analisi della distribuzione
delle famiglie in quintili di reddito. Nel primo quintile, cioè con il livello di reddito più
basso rispetto alle altre famiglie della stessa tipologia si trovano, nelle coppie con
persona di riferimento (donna della coppia)
inferiore a 35 anni, l’11,4% delle famiglie e
nelle coppie con persona di riferimento da
35 a 64 anni il 12,1% delle famiglie.
Ma se si va alle coppie con almeno un figlio minore vi si trovano il 27,7% delle famiglie e se si va alle famiglie monogenitore con almeno un figlio minore vi si trovano il 37,2% delle famiglie.
All’estremo opposto con il più alto livello
di benessere si trovano le famiglie con due
o più lavoratori autonomi.
È in questo scenario che si collocano i dati
sulla povertà. Nel 2004 risultano essere
relativamente povere due milioni e mezzo
di famiglie nelle quali vivono sette milioni
e mezzo di persone.
Ci sono, secondo l’Istat, quattro gruppi di
famiglie povere: le coppie anziane (33%),
le donne anziane sole (20%), le famiglie
con lavoratori a basso profilo professionale(39%), le famiglie con persone in cerca
di occupazione nel Sud (8%).
un pasto ogni due giorni
ROCCA 1 LUGLIO 2006
In alcuni casi il disagio economico che trapela da questi dati si traduce in situazioni
di vera e propria deprivazione materiale e
di insicurezza. Il 7,5% di famiglie ha difficoltà a consumare un pasto adeguato ogni
due giorni, il 30% delle famiglie ha grande
difficoltà ad arrivare a fine mese con il reddito conseguito, il 27,5% delle famiglie non
riesce a far fronte ad una spesa imprevista
di mille euro.
Nell’ultimo anno una famiglia italiana su
20 almeno una volta non ha avuto le risorse per acquistare il cibo, una su dieci ha
30
avuto difficoltà ad affrontare le cure mediche o a pagare le bollette.
Queste difficoltà sono più forti nelle famiglie monogenitore con figli minori: il 20%
di queste ha avuto periodi in cui non aveva soldi sufficienti per comprare il cibo, il
17% per affrontare le malattie, il 20% per
il pagamento delle bollette.
Si tratta di fatti oggettivi che incidono anche sulla percezione che le persone hanno
del loro status.
Il 49,1% delle famiglie giudica pesante il
carico delle spese per la casa (nel sud il
56%), il 54% quelle per l’affitto, il 55%
quelle per il mutuo.
sottoinquadramento e mobilità sociale
Ad accrescere la sensazione di una società
vulnerabile che emerge dai dati finora analizzati si aggiungono due ulteriori tessere
del mosaico.
La prima riguarda il sottoinquadramento.
Quasi 4 milioni di occupati risultano sottoinquadrati. Si tratta da un lato di giovani: un sottoinquadramento legato alle difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro
ed alla breve durata dell’esperienza lavorativa è quasi sempre associato al lavoro a
termine. Ma si tratta anche, per un terzo,
di lavoratori adulti.
Questo fenomeno di utilizzo della flessibilità per non valorizzare il capitale umano
sembra più diffuso nelle imprese tradizionali che così riescono a comprimere il costo del lavoro ed a restare competitive senza innovare.
Fino a quando queste imprese riescono a
restare competitive comprimendo i salari
esse non avranno stimolo ad innovare ed
a rischiare. Così a bassi salari finiscono per
corrispondere imprese arretrate con bassa produttività e scarso futuro.
L’altra ed ultima tessera del mosaico riguarda la «mobilità sociale». La mobilità sociale è il processo che consente alle famiglie nel tempo di muoversi tra posizioni
sociali diverse. Essa costituisce un indicatore importante del carattere di una società perché ne misura la sua fluidità. La
mobilità intergenerazionale è quella tra
genitori e figli, quelle intragenerazionale
è quella che si sviluppa nel corso della vita.
Confrontando la classe di origine di un
intervistato con la classe di destinazione
si misura il tasso di mobilità assoluta.
Ebbene il Rapporto Istat ricordandoci le elevate possibilità di mobilità in paesi come la
Danimarca, la Finlandia ed il Canada, superiori a quelle di Stati Uniti e Gran Bretagna,
dà dell’Italia un panorama molto lontano
da queste realtà. Un paese caratterizzato da
disuguaglianze forti nelle possibilità di mobilità sociale che in parte sono il portato di
eredità del passato, ma in parte sono anche il prodotto di trasformazioni delle strutture familiari e del mercato del lavoro che
non favoriscono la mobilità sociale.
Il regime di mobilità appare in Italia molto
rigido e la classe di origine delle persone influisce fortemente sulle possibilità di movimento nello spazio sociale. Su 100 figli di
genitori che appartenevano alla borghesia il
40% appartiene anche esso alla borghesia,
il 24% alla classe impiegatizia, il 20 alla piccola borghesia urbana e solo il 16% alla classe operaia urbana. Su 100 figli di genitori
che appartenevano alla classe operaia urbana il 50% appartiene anche esso alla stessa
classe operaia e solo il 9% alla borghesia.
La collocazione delle persone nelle diverse categorie sociali è, quindi, ancora fortemente influenzata dalla collocazione sociale della famiglia di origine. Non siamo
certo al medioevo, ma nel nuovo millennio è giusto attendersi qualcosa di più.
È chiaro da tutto quello che abbiamo visto che non siamo tanto un paese economicamente povero, ma un paese con pezzi di popolazione agiata e pezzi di vera e
propria povertà.
vulnerabilità da disagio sociale
Ciò significa forti contrasti e forti livelli di
disagio sociale. Un disagio che, sempre
secondo l’Istat, rende particolarmente vulnerabili specifici soggetti come i giovani
con bassi livelli di istruzione, i lavoratori
a basso reddito, e gli anziani.
In conclusione, quindi, quello che il nuovo governo prende in mano è un paese «vulnerabile» per le troppe incrostazioni e le
troppe situazioni di disagio sociale.
Una vulnerabilità-fragilità certamente accentuata dalle politiche del governo di centro destra, ma non attribuibile solamente
e tutta ad esso.
un nuovo metodo di governo
È certamente solo un caso che un Rapporto con questi contenuti esca in questi giorni, ma nella amarezza di scoprire quanta
fragilità c’è nella società italiana c’è anche
una occasione per chi si accinge a governare: sapere bene quali sono le priorità da
affrontare. Prenderne atto per il nuovo governo significa sapere subito quale realtà
si eredita e da dove si parte.
Speriamo che queste conoscenze servano
a suggerire anche un nuovo metodo di governo.
Innanzitutto occorre esplicitare quali soggetti sociali si vogliono favorire per attenuare le loro situazioni di disagio cioè scegliere con chiarezza e trasparenza a chi si
dovrà dare e perché (il Rapporto fornisce
abbastanza elementi per individuare le situazioni ed i soggetti).
In secondo luogo occorre fare su questo comunicazione e costruire, quindi, un ampio
consenso, cioè coinvolgere i cittadini tutti in
un disegno di maggiore giustizia sociale.
Da qui dovrebbe discendere la necessità di
reperire le risorse necessarie per dare più
sicurezza e più speranza a quelli che non
ne hanno e di conseguenza a tutta la collettività.
Come dire cercare innanzitutto il consenso di chi deve avere e di chi è sensibile alle
domande di giustizia. Il dissenso di chi
dovrà dare potrà anche esserci dopo, ma
sarà certamente meno forte.
Un approccio, questo, diverso da quello che
c’è stato nel corso della campagna elettorale e che speriamo lo diventi nella gestione delle politiche di governo.
ROCCA 1 LUGLIO 2006
Quando questa vulnerabilità si trasforma
in vera e propria povertà?
Aldo Eduardo Carra
31
QUESTIONI ETICAMENTE SENSIBILI
politica
libertà di coscienza
etica pubblica
32
L
(oggi sempre più numerosi e complessi)
relativi all’area della bioetica (e, più in generale, a tutto ciò che ha a che fare con
scelte che coinvolgono più direttamente la
coscienza).
la questione di metodo
Sul terreno del metodo (e della sua valenza politica) è difficile dare torto a chi asserisce che si è trattato di un intervento troppo precipitoso e inopportuno. Il fatto che
il governo si fosse appena insediato e non
avesse ancora potuto elaborare una posizione collegiale – lo stesso comportamento si è peraltro verificato anche in altri casi
con esternazioni di singoli ministri a dir
poco imprudenti –, ma soprattutto la scarsa distanza temporale dal referendum sulla procreazione medicalmente assistita,
con il quale è stata confermata di fatto la
legge 40, che aveva assunto una posizione
di netto rifiuto nei confronti della sperimentazione sulle cellule staminali embrionali, avrebbero (forse) dovuto sconsigliare il ministro dal prendere, almeno immediatamente, tale decisione.
D’altra parte, si deve ricordare a chi ha
condannato (altrettanto precipitosamente)
l’intervento di Mussi facendo leva in modo
particolare sull’esito del referendum, che
la stragrande maggioranza degli italiani ha
scelto l’astensione, mentre chi ha votato si
è, in larghissima misura, pronunciato a
favore dell’abrogazione degli aspetti più
restrittivi della legge. È vero che l’astensione è stata motivata (in percentuale peraltro piuttosto ristretta, stando agli esiti
delle analisi) dalla volontà di impedire che
si addivenisse al quorum – tale è stata la
strategia (tutta politica) adottata dalla Cei,
e in particolare dal Card. Ruini che ha, fin
dall’inizio, intuito che era questa l’unica
via per evitare l’abrogazione della legge –;
ma non si può negare che il quoziente di
gran lunga più consistente degli astenuti
non lo ha fatto per simpatia verso la legge,
ma per ragioni che spaziano dal qualunquismo (purtroppo largamente diffuso) al
disinteresse personale nei confronti del
tema, fino all’imbarazzo (per molti aspetti
giustificato) nel dover rispondere a quesiti che si riferivano a questioni tecnicamente difficili e sulle quali non era semplice
pervenire a valutazioni univoche.
Questi dati non giustificano, ovviamente,
in modo pieno il comportamento del ministro Mussi, ma evidenziano la pretestuosità di alcuni interventi scandalistici, in cui
si è addirittura parlato di blitz, facendo leva
su un’interpretazione unilaterale, e perciò
deviante, del responso delle urne.
il significato dell’intervento e i nuovi
dilemmi
Ma più che le questioni di metodo (per
quanto importanti) grande attenzione esigono le questioni di merito riguardanti il
significato dell’intervento e, più in generale, il ruolo della politica di fronte ai temi
«eticamente sensibili», che hanno assunto
(e assumeranno ancor più in futuro) un
peso sempre maggiore, anche in ragione
della rapidissima evoluzione del progresso tecnologico in campo biomedico.
Va detto intanto, per circoscrivere la portata della decisione di Mussi, che – come
egli stesso ha del resto ripetutamente ribadito – il ritiro della firma da parte dell’Italia al documento ricordato non comporta alcuna modificazione alla normativa attualmente in vigore nel nostro Paese
– quella stabilita dalla legge 40 e che il re-
ROCCA 1 LUGLIO 2006
ROCCA 1 LUGLIO 2006
Giannino
Piana
a decisione, autonomamente assunta dal Ministro per l’Università e la Ricerca scientifica del governo Prodi onorevole Mussi, di
ritirare la firma dell’Italia (data dal
precedente governo) ad una «dichiarazione etica» con la quale alcuni Paesi europei intendevano impedire che l’Europa finanziasse la ricerca sulle cellule staminali embrionali, anche in quegli Stati
che hanno legislazioni meno restrittive
della nostra in questo campo, ha suscitato
(e non poteva che suscitare) reazioni discordanti e forti perplessità.
A giocare un ruolo decisivo sulle posizioni
prese da ambedue i fronti è stata l’emotività, con il rischio di valutazioni affrettate
e l’assunzione di atteggiamenti di diffidenza e di contrapposizione. La possibilità di
uscire da questa pericolosa «distretta» e di
affrontare con serenità ed oggettività tale
questione è dunque strettamente legata
alla capacità di distinguere con chiarezza
il livello del metodo adottato da quello del
merito (cioè del reale contenuto dell’intervento) e di non eludere (soprattutto) il problema di fondo che concerne il compito
proprio della politica nei confronti di temi
33
ROCCA 1 LUGLIO 2006
dello stesso Autore
ETICA SCIENZA E SOCIETÀ
i nodi critici emergenti
(vedi pag. 12)
te, vanno razionate secondo criteri di equità rispettando la scala oggettiva dei bisogni (o dei diritti).
l’urgenza di una soluzione politica
Ma come intervenire? Secondo quali modalità e in base a quali parametri? Anche a
questo livello (che è poi quello più strettamente politico) il ricorso alla semplice libertà di coscienza, cioè il lasciare all’interno dei partiti e dei poli presenti sullo scenario politico che ciascun individuo decida singolarmente, facendo semplicemente appello al proprio sentire etico ispirato
a valori religiosi o laici non è sufficiente e
rischia di non essere neppure corretto. E
questo non solo perché si finirebbe per
acutizzare la contrapposizione, spingendo
ciascuno a ribadire il proprio convincimento e impedendo di dare vita, mediante il
dialogo, a una forma di mediazione capace di interpretare in modo più globale la
realtà (e non solo una parte di essa); ma
anche (e soprattutto) perché, stante la gravità delle questioni sul tappeto, la via del
confronto è la più idonea a trovare convergenze, che oltre a rendere possibile il
superamento della mera proceduralità,
sappiano interpretare correttamente l’ethos
vissuto ed essere per questo accette alla
maggioranza della gente.
L’etica pubblica, alla quale occorre che lo
Stato ispiri la propria condotta sul terreno legislativo, non può coincidere con l’una
o con l’altra concezione morale presente
nel tessuto sociale – si incorrerebbe altrimenti nel rischio di universalizzare un’etica particolare imponendola dall’alto e trasformandola in ideologia –; deve essere
invece frutto di un dibattito pubblico in
cui confluiscano, interagendo tra loro, i
contributi delle varie tradizioni etiche presenti nella società. Partiti politici e aree di
governo e di opposizione non possono rinunciare ad assumere una posizione precisa su tematiche tanto importanti e incandescenti. Se si intendono affrontare infatti seriamente le controversie presenti, a tale
riguardo, anche nel nostro contesto sociale occorre restituire centralità alla politica, cui spetta l’incombenza di fare sintesi
delle molteplici posizioni affioranti nella
società e di giungere, responsabilmente e
in modo partecipato, all’assunzione di decisioni, che siano realmente in grado di perseguire, per quanto possibile, il bene di
ogni uomo e dell’intera collettività umana.
Giannino Piana
34
ESPERIENZE
rivivere dopo il lutto
Sabrina
Magnani
olitudine, abbandono, rabbia, impotenza, frustrazione, sensi di colpa: sono queste alcune, le più evidenti, sensazioni che prova chiunque abbia dovuto, almeno una volta nella sua vita, affrontare la perdita di una persona cara. Non solo. Le relazioni sociali improvvisamente si interrompono, perché è difficile, quasi impossibile, stare accanto a chi ha subito una
ferita così grande. Il lavoro deve subito riprendere, visto che per legge sono previsti
solo tre giorni di permesso retribuito. Le
cose pratiche da sistemare sono tantissime e non si sa da che parte iniziare, con
uno spirito ferito che certo non aiuta a essere lucidi e vigili sulle decisioni da prendere in merito. Anche in famiglia un supporto non è facile da trovare perché ogni
suo membro vive questo evento così singolare alla sua maniera, e spesso ciò porta
a dividersi invece che a unirsi.
Ma soprattutto, il lutto è uno di quegli
eventi che la società contemporanea, fondata sull’efficientismo e sull’individualismo, non vuole vedere. Negando la morte
e tutto ciò che ad essa può condurre e può
dar luogo, essa tende a nascondere un
evento luttuoso. Per chi lo vive non rimane altro che attraversarlo da solo, o continuando la vita di sempre nascondendo nel
privato le sue sofferenze, per non essere
del tutto isolato, o isolandosi maggiormente per cercare risposte e soluzioni parziali
al proprio disagio che però possono essere
trovate anche dopo molto tempo.
L’esito è, nella maggior parte dei casi, un
lutto bloccato, non espresso, e che, come
tale, può dar luogo in futuro a depressioni
o disagi di vario tipo che possono rimanere latenti ed esplodere quando meno ci si
aspetta, anche a distanza di anni, o, al contrario, esprimersi ma in maniera da non
creare un nuovo equilibrio, tale da permettere di continuare a vivere con serenità.
«Lo diceva già ai suoi tempi Dilthey, un
sociologo dell’800, che l’unica cultura che
S
lascia solo l’uomo con la morte è quella
contemporanea, con la crisi della fede nell’aldilà. Ancora oggi siamo dentro a questa logica. Si pensa che il lutto sia un evento
privato e che non sia possibile nessun tipo
di aiuto. Niente di più sbagliato». A parlare è Francesco Campione, psicologo e docente universitario presso la facoltà di Psicologia di Bologna, un interesse e un impegno ventennale nello studio del lutto e
dell’assistenza a persone che ne sono colpite. «Essendo la nostra una società efficientista ed individualista, che nasconde
la morte, uno dei primi effetti del lutto è la
crisi delle relazioni sociali – conferma il
docente –. Se muore il coniuge o il compagno nessuno ti cerca più perché non sei
più una coppia, se muore un figlio nessuno ti cerca più perché non sa cosa dirti. Si
tende a dire «dimentica, vai avanti» in
maniera molto superficiale, ci si può anche adeguare ma così il lutto rimane bloccato, spesso per anni, dando luogo ad altri
inconvenienti gravi, come le depressioni».
Eventi, per altro, sottolinea Campione, con
costi sociali ed anche economici altissimi
per la società.
un vuoto sociale
che può essere colmato
Un vuoto, dunque, che il prof. Campione
ha, a un certo punto della sua attività di
docente, voluto affrontare. Anni di studio
e di ricerca gli hanno permesso di avere i
mezzi culturali per creare un servizio in
grado di essere di sostegno alle persone
colpite da un lutto. Autore dell’unico testo
ancora oggi esistente adottato in ambito
universitario sul tema – è stato l’antesignano di un progetto che ha preso avvio agli
inizi degli anni 90 a partire dall’esperienza condotta con le famiglie e i parenti dei
malati terminali presenti presso l’Hospice
di Bentivoglio, in provincia di Bologna,
una delle poche strutture previste per legge sul territorio nazionale per queste per35
ROCCA 1 LUGLIO 2006
QUESTIONI
ETICAMENTE
SENSIBILI
ferendum non ha cancellato – a proposito
dell’uso delle cellule staminali embrionali. La presa di posizione di Mussi aveva
infatti come unico scopo quello di evitare
che l’Italia assumesse un atteggiamento
preclusivo nei confronti di quei Paesi europei, che hanno fatto sul terreno legislativo scelte diverse dalle nostre. Ciò che, in
altre parole, si intendeva con tale decisione rispettare era la libertà di Paesi in cui
la ricerca sulle staminali embrionali è
ammessa, non impedendo loro di fruire di
fondi europei per poterla attivare o proseguire. Il che, tutto sommato, risponde a un
criterio di tolleranza, che è la base dell’esercizio della democrazia.
Ma la questione più radicale sollevata dall’intervento di Mussi riguarda – riteniamo
– il ruolo che la politica è oggi chiamata
ad assumere nei confronti di questioni delicate come quelle «eticamente sensibili»,
nel contesto di una società caratterizzata
da un grande pluralismo, non solo culturale e ideologico ma anche etico. Il problema che è qui, in ultima analisi, in causa e che costituisce uno dei nodi critici più
scottanti della situazione attuale nell’ambito della bioetica, concerne lo statuto
umano dell’embrione e rinvia alla diversa
concezione che di esso affiora nell’odierno dibattito culturale in cui si scontrano
spesso posizioni inconciliabili.
Il rilievo assunto da questa (come d’altronde da altre tematiche) rende del tutto insufficiente il ricorso alla semplice libertà
individuale, e perciò il rimando alla coscienza soggettiva quale unica istanza sulla quale basare le proprie scelte. Lo Stato
non può rimanere «neutrale», limitandosi
a rispettare la volontà dei singoli; deve intervenire direttamente, quando in gioco vi
è il bene umano (non solo del singolo ma
della collettività e, in senso più allargato,
della stessa specie). Non si possono infatti
lasciare nelle mani del singolo individuo
questioni (come quella dell’embrione e
della fissazione dei limiti alla sua manipolabilità) contrassegnate da una forte valenza sociale anche in termini di allocazione
delle risorse, che, in ragione del loro limi-
36
di essere legittimate a esprimere le proprie
emozioni, piangere, essere arrabbiati, e di
essere ascoltate – continua il docente –. Ma
anche di poter essere aiutati nelle cose concrete, da sbrigare alla morte di una persona cara, come svuotare gli armadi, togliere le sue cose, tutti gesti molto difficili da
compiere».
dalle cose pratiche al counseling
Fondamentali sono i primi due mesi che
seguono la morte di una persona cara. È
in questo periodo che si concentra l’aiuto che l’associazione Rivivere può offrire, sottoforma sia di aiuti per adempiere
a necessità pratiche che di counseling.
«Si comincia insieme, per esempio due
genitori, ma poi quasi sempre si continua separatamente, perché l’elaborazione del lutto avviene per ognuno di noi in
maniera diversa. C’è chi si sente di andare al cimitero tutti giorni e chi non ci
vuole nemmeno entrare, chi si arrabbia
e chi non reagisce. Le reazioni sono personali e se non si agisce su questo si rischiano di incrinare anche i legami relazionali tra i ‘superstiti’». È proprio questo il momento in cui molte coppie vanno in crisi e si separano, o che aumentano le incomprensioni tra membri della
stessa famiglia: dunque, aiutare nell’elaborazione di un lutto ha anche un significato di prevenzione sociale e relazionale.
Nella maggior parte dei casi due-tre mesi
sono sufficienti per affrontare questo
passaggio, ma non mancano casi, in percentuale tra il 10 e il 15, che occorre una
psicoterapia più approfondita. «Si tratta di casi – spiega Campione – in cui erano latenti altri tipi di disagi, magari altri
lutti lontani nel tempo ma non elaborati
che emergono in occasione di un altro
lutto, di un’altra crisi. Queste persone le
mandiamo al servizio di psicologia dove
hanno la possibilità di poter avere un altro tipo di aiuto, mirato».
Nei dieci anni di presenza dell’associazione Rivivere – che da qualche mese
gode anche di una bella sede nel centro
di Bologna donata da una fondazione
privata – circa 2000 sono state le persone incontrate e che hanno ricevuto assistenza, un numero consistente grazie
anche alla collaborazione con varie realtà cittadine. «Abbiamo cercato di farci
conoscere presso tutte quelle realtà che
hanno a che fare con famiglie in crisi,
come gli operatori sanitari, le realtà di
pronto soccorso e pronto intervento, re-
altà come la Caritas, con il comune stesso, affinché il nostro servizio fosse il più
possibile conosciuto e ci inviassero persone bisognose». Il servizio si è differenziato nel tipo di interventi: Niobe è l’aiuto dato a persone colpite da lutto per
morte naturale, Apollodoro per quelle
persone il cui lutto è stato causato da
morte improvvisa e violenta (per esempio un incidente autostradale), mentre in
via di allestimento è anche un servizio
on line per i bambini.
«C’è differenza, e non poca, tra una morte naturale, per esempio da malattia, e
una morte improvvisa, per esempio, da
incidente stradale – evidenzia il prof.
Campione –. Abbiamo anche creato un
corso di formazione adeguata per chi interviene professionalmente in questi casi,
come vigili del fuoco, poliziotti, ecc.».
La formazione è un altro punto fondante dell’associazione, l’aspetto su cui si
concentra il contributo dell’università al
progetto. Nel corso degli anni presso il
dipartimento di Psicologia sono stati allestiti un paio di master, uno in tanatologia e in cure palliative, cui possono
accedere gli studenti e anche chi proviene da altri ambiti e vuole approfondire
la sua conoscenza su questo ambito. Una
formazione adeguata ricevono sia i dieci
psicologi che attualmente svolgono attività di semivolontariato presso l’associazione, sia i volontari, un’altra decina circa, che si rendono disponibili per questo
servizio.
un servizio anche per i bambini
Importante è anche l’aspetto che riguarda
l’assistenza dei bambini di famiglie colpite da lutti. «Su come affrontare il tema
della morte con i bambini c’è una polemica fra chi dice che bisogna educarli a pensarla come un fatto naturale e chi come
fatto personale. Secondo me manca qualcosa. Visto che sono vere entrambe le cose
ciò che è più importante è dire cose che
poi possano essere aperte alle loro domande. Se uno dice ai bambini che il nonno va
in cielo e lui ti chiede com’è fatto il cielo
bisogna cercare di rispondergli, in qualche
maniera, facendo leva anche su quel po’ di
magico che ancora esiste nella visione del
mondo dei bambini. La cosa peggiore è interrompere la comunicazione, dirgli qualsiasi cosa che poi non ha possibilità di essere sottoposto alle sue domande. Il servizio on line che vogliamo creare avrà anche questa funzione, di esser capaci di parlare con un linguaggio adatto a loro».
Un approccio personale è dunque ciò che
caratterizza maggiormente l’aiuto dato da
Rivivere. Anche per gli adulti. «L’importante è non dare risposte standardizzate – continua Campione –. Anche persone di fede
che si rivolgono ai gruppi di preghiera, e ne
ho avuto esperienza, ciò che rifiutano non
è tanto questo tipo di aiuto, quanto il fatto
che si dice, per esempio, che quando uno
muore è felice perché incontra Dio. Ho avuto esperienza di una mamma che aveva perso un figlio ventenne che mi ha detto che
lei ci crede che suo figlio continua a esserci
nell’aldilà, ma, conoscendolo, mi diceva,
sarà certamente arrabbiato per essere morto così giovane, lui che era un ragazzo molto dinamico e vitale. Prima di ogni tipo di
risposta, anche religiosa, che è pure legittima e valida, occorre prima di tutto ascoltare, un atteggiamento di empatia, fondato
sulla comunicazione».
Il risultato principale di questo aiuto è la
capacità di trasformare il rapporto. «Ogni
distacco – conclude Campione – può essere elaborato trasformando quella relazione in qualcosa altro. La madre che perde
un figlio può farlo vivere in sé così come
lei lo ha conosciuto o vivere per lui, ma
deve saper trasformare il rapporto, non più
fondato sulla possibilità di vederlo o di toccarlo. E questo indipendentemente dalla
fede religiosa. Riuscire a farlo significa, in
definitiva, crescere».
Per il futuro il prof. Campione ha le idee
chiare. «Il nostro è un intento prima di tutto culturale. Il lutto non è riconosciuto nella nostra società, non si vuol vedere. Da
qui dipende anche il fatto che di fronte a
un lutto non si sa cosa fare. Sono venuti a
mancare anche quei gesti rituali che un
tempo un po’ tutti sapevano quando muore una persona – delucida il docente –. Chi
ha un lutto oggi è totalmente abbandonato a sé, nel momento più difficoltoso. Il nostro intento è continuare ad assistere più
persone possibile, facendoci conoscere.
Già molti oggi ci chiamano da tutt’Italia, e
siamo in procinto di aprire delle sedi in
altre città. Soprattutto vogliamo creare una
cultura intorno a questo evento, togliendolo dallo stato di nascondimento in cui è
tenuto, rompere questo tabù. Abbiamo in
procinto anche eventi culturali come un
premio di disegno, per l’autunno, e altri
che vorremmo allestire proprio a questo
scopo. Ciò che vogliamo affermare è il diritto al lutto per tutte le persone, così come
c’è quello alla salute. Un diritto da tutelare e perseguire».
ROCCA 1 LUGLIO 2006
ROCCA 1 LUGLIO 2006
ESPERIENZE
sone.
«Quando abbiamo iniziato non c’era nessun tipo di assistenza del genere, tranne il
servizio a pagamento presso l’università
che però non tutti potevano permettersi –
ricorda il docente –. L’esperienza dell’hospice ci ha fatto capire che invece era molto richiesto: il 30-40% delle persone a cui
proponevamo un’assistenza ci rispondeva
positivamente e a da lì siamo partititi».
È lì che nasce l’idea anche di un’associazione, significativamente chiamata «Rivivere», che cerca di far fronte a una grande
lacuna. «Lavorare con i malati terminali
mi aveva fatto capire che questo tipo di
assistenza non poteva essere delegata a
servizi sanitari, come quelli oncologici, ma
che occorreva qualcosa di specifico, mirato, alle famiglie, a chi continua a vivere e
deve, appunto, rivivere, trovare il coraggio
e il motivo per farlo». L’idea iniziale è quella di un’associazione di associazioni tra
tutte quelle realtà di volontariato che a
Bologna si occupavano di famiglia e di vari
ambiti della cura sociale, dai malati di Aids
agli anziani, per verificare e far fruttare le
cose in comune e creare una rete di assistenza sul territorio, il che ha permesso di
incontrare situazioni di crisi di vario genere. Ma, come spesso accade, a prevalere
è stata la logica delle appartenenze: ogni
realtà tendeva a far emergere le sue esigenze e la sua identità.
Si è così passati a una seconda fase, quella
di creare una realtà specifica che si occupasse esclusivamente dell’elaborazione del
lutto. «Ci siamo resi conto che per tante
altre realtà c’erano una o più associazioni
che se ne occupavano, ma per chi è colpito dal lutto non c’era nulla, era un aiuto
totalmente trascurato – spiega Campione
che ricorda come ancora oggi non esiste
una realtà simile ed esistano solo gruppi
di mutuo aiuto dall’approccio limitato –.
Allora è nata la seconda fase di vita dell’associazione Rivivere, grazie a un accordo con il servizio per i malati terminali di
Bentivoglio». Un luogo preciso, un intervento mirato, un’utenza con alta probabilità di avere necessità di un simile aiuto:
ha così avvio un’esperienza, unica in Italia, che permette anche di capire come e
che tipo di aiuto dare a chi è colpito dal
lutto e che verrà ulteriormente sviluppata
in seguito. «Tra il 30 e il 50% delle famiglie con cui entravamo in contatto si dicevano desiderosi di avere un aiuto subito
dopo la morte del proprio caro. Ci siamo
resi conto, sul campo, che nell’80% dei casi
queste famiglie, di queste persone, avevano bisogno di un aiuto psicosociale di base,
Sabrina Magnani
37
COSE DA GRANDI
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l contorno è quanto mai vario, la pietanza resta tristemente sempre quella.
L’ultimissima novità viene da Praga,
si entra in un palazzo molto particolare, e là per pochissimi euro (undici,
sembra, per l’esattezza), si entra per
un tot di ore in una specie di grande fratello, ma stavolta è tematico. E il tema
è il sesso. I clienti infatti diventano attori, attori delle performances sessuali
che realizzano con le ragazze che lavorano dentro il palazzo, e poi il tutto finisce in internet. O in un dvd personalizzato, dove vengono riportati i «provini» più interessanti. Sembra che spesso
capiti che gli «attori» stessi, impiegati,
manager, studenti in gita, bancari, professori – queste esperienze sono molto
democratiche, attraversano trasversalmente tutti i ceti sociali – invitino poi a
casa i propri amici a vedere questo filmino delle vacanze, o a connettersi al
sito, per ricevere un parere esterno, neutrale, sulla qualità della propria prestazione.
A Torino è un po’ più caro, si sa, ma l’attrattiva è destinata a crescere, perché vicino all’aeroporto si sta allestendo una
specie di Disneyland tematica, un vero
e proprio villaggio dell’eros, due ettari
e mezzo delle attrattive più «in», tra letti circolari, specchi, piscine, alcove open
space come negli uffici più moderni,
così tutti vedono quanto sono bravo.
Anche qui la clientela è molto democraticamente varia, anche parecchie coppie
in cerca di diversivi. E per chi vuole un
pizzico di brivido, c’è anche il giro in
mongolfiera o in aliante sopra la zona
proibita, si vede tutto perché tanto è
tutto all’aria aperta, sotto alla luce del
sole, pardon, dei lampioni.
Poi ci sono le situazioni ormai classiche,
la semplice prostituzione di strada, gli
appartamenti di certi quartieri, il turismo sessuale ormai pienamente globalizzato, i club privé, i locali per scambi-
sti, i night club, i bar con la lap dance, i
sex shop, gli innumerevoli siti internet
«dedicati», gli annunci sui giornali e
nelle stazioni, ma, dicono gli esperti,
non bisogna fare di ogni erba un fascio,
ognuna di queste situazioni ha sfumature di pubblico e di abitudini e di esiti
molto differenti. Dalla semplice curiosità, al desiderio di trasgressione, al bisogno di compagnia, fino alla voglia di
esplorare i confini delle proprie pulsioni, fino alle parafilie vere e proprie, così
si chiamano, in un continuum di esperienze che vede una delle strategie di
marketing più pressanti ed efficaci mai
realizzate sulla faccia della terra. E uno
dei business più potenti e lucrosi dell’intero pianeta.
Fino a qui siamo in un territorio che merita più di una analisi, da quella economica a quella di angolatura sociologica
a quella storica, per finire con la psicologia dei clienti e delle/dei prestatori di
servizi sessuali. Ma cominciamo con l’
anello più estremo di questo girone.
una dipendenza come le altre
La faccia più oscura di queste vicende è
una vera e propria sindrome da dipendenza, una vera ossessione che ormai
col sesso non ha praticamente quasi più
nulla a che fare, che si chiama sexual
addiction.
Il bisogno di fare sesso diventa il tema
centrale della giornata, della settimana,
della vita. È il motore delle mie azioni,
è la altalena delle mie emozioni, dal sottile pensiero che si insinua nelle faccende quotidiane fino alla frenesia della ricerca immediata e irrinunciabile di una
soddisfazione fisica, fino al senso di distensione immediato seguito poi da vuoto e anche da sensi di colpa.
Anche questa forma di dipendenza è trasversale alle età e alle classi sociali, ai
generi, agli orientamenti sessuali. Tro-
viamo lo studente inesperto che ha trovato nelle prostitute le amiche e l’affettività che altrove non ha conquistato, il
marito e padre che usa il suo tempo libero e il suo denaro per provare tutte le
ultimissime novità, l’impiegato che si
svena al night club per quella ragazza
ucraina tanto dolce che è l’unica che lo
ha fatto sentire di nuovo uomo, e se non
c’è lei anche le sue amiche vanno bene,
conoscono tutte quante il suo vizietto;
c’è oggi anche la signora bene che anche lei ha scoperto quanto è facile il turismo sessuale, e quanto è ancor più
facile rispondere agli annunci degli «accompagnatori» presenti anche sui giornali femminili.
C’è il marito che costringe la moglie a
prestazioni continue, e integra con l’autoerotismo i momenti di vuoto, c’è anche la persona etero che, da quando ha
provato il brivido dell’incontro con un
trans, lo cerca tutti i giorni come il pane,
ha scoperto che non riesce più a farne a
meno. C’è la persona, uomo o donna,
giovane o anziana, che ha scovato in internet un paradiso artificiale senza confini di tempo e di spazio, dove per di
più si viaggia quasi gratis, e dove di giorno – o di notte, molti «viaggiano» in ufficio, lontano dagli occhi indiscreti del/
della propria partner – posso riannodarmi la cravatta e con essa l’immagine
della persona veramente ok.
Sembra che in Italia si tratti di più di
diecimila persone, e la cifra è sicuramente sottovalutata, di cui più di metà
sono persone che vivono la propria dipendenza mediante internet. In quasi
l’80% dei casi si tratta di uomini, e l’età
media è tra i 30 e i 50 anni, con tendenze di tipo aggressivo e presenza forte di
parafilie. Le donne invece preferiscono
le chat, e mostrano di più comportamenti seduttivi o voyeuristici, fantasie
erotiche non più controllabili, e una
notevole disponibilità ad incontrare
partner sessuali occasionali e sconosciuti (la ricerca è del CeDis di Roma di un
paio di anni fa).
un dramma dell’anima
Il sesso è per queste persone il surrogato delle emozioni, e da qualche parte c’è
senz’altro all’origine una problematica
familiare, dove sono mancati quegli affetti che danno coesione al sé, dove le
emozioni hanno avuto spazi inesistenti, o magari sono stati anche perpetrati
vari gradi di confusione di ruoli, di molestie e di abusi. Al punto tale che quel
bambino, quella bambina, ha percepito
se stesso/a come «difettoso», ha fatto sua
la confusione e la colpa del suo aggressore, e così si trova a dover mescolare
per sempre il linguaggio – e il bisogno –
della tenerezza e il linguaggio – e il bisogno – della passione, e tratta come
oggetti gli altri da cui ottiene la sua soddisfazione, esattamente come da oggetto inanimato è stato trattato lui/lei. Cercasi sesso in luogo di amore, perché
l’amore non so che roba è.
Poi la spinta, la ricerca compulsiva della soddisfazione, ha anche una componente chimica, e c’entra ancora una volta la serotonina, l’ormone cerebrale che
regola l’umore. L’incontro sessuale ne
stimola la produzione, e l’assenza della
soddisfazione genera una vera e propria
crisi di astinenza. E da qui il bisogno di
fare una bella abbuffata, esattamente
come per tutte le altre dipendenze. È
come se la persona fosse dipendente non
tanto dal sesso, ma dalle endorfine. E
dal suo scollamento interiore tra affettività e sessualità.
La triste vicenda dei partner di queste
persone è da sola una storia da raccontare
Prima viene lo shock della scoperta, il
bisogno di negare, di pensare che sia
solo questa volta, solo la prossima vol-
ROCCA 1 LUGLIO 2006
ROCCA 1 LUGLIO 2006
Rosella
De Leonibus
voglie sconfinate
I
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una sessualità nata male
Ma che differenza c’è tra chi ha una sana
attrazione verso il sesso, lo vive con vitalità ed intensità, e chi ne è dipendente?
Il crinale sta tutto nella compulsività,
nella impossibilità di arrestare o differire la soddisfazione dell’impulso.
Il circolo vizioso della dipendenza sessuale è quello che conosciamo per le al-
ROCCA 1 LUGLIO 2006
dello stesso Autore
PSICOLOGIA DEL QUOTIDIANO
tre droghe, per quelle socialmente consentite. Si comincia con la preoccupazione di ricercare stimoli sessuali, si
continua con il mettere in scena (anche
virtuale va bene, anche nell’immaginario, in mancanza di altro) la situazione
desiderata, poi l’eccitazione aumenta e
la persona non riesce a fare a meno di
arrivare alla ricerca molto attiva della
soddisfazione. In molti casi queste persone riferiscono che si sono trovate a
mettere in atto i comportamenti di dipendenza anche contro la propria volontà.
dove sta il vero nucleo del dramma?
Non è nella sua faccia più visibile, nell’insaziabilità di questo appetito. Come
nelle altre dipendenze, il nocciolo duro
del dramma è nella condizione di spegnimento della dimensione affettiva,
non sta nei genitali, e nemmeno nei neurotrasmettitori, il punto di origine di
questa situazione tragica, sta nelle emozioni del cuore.
Sta in una relazione di fondo con la propria sessualità che è nata male, e allora
la persona allevia nel sesso il suo stress,
affoga nel sesso i suoi sentimenti negativi, il suo dolore, la sua tremenda paura delle emozioni vere, la sua profonda
incapacità di gestire le relazioni intime.
Il sesso diventa il moloch a cui tutto viene sacrificato, il dio crudele davanti al
quale mi annullo come essere umano.
E poi, per un istante solo, la distensione che provo appena ho scaricato le mie
tensioni la posso scambiare per la liberazione dalla tensione delle mie angosce più profonde, le quali, inesorabili,
mi aspettano dietro l’angolo appena esco
da quel letto, da quel video.
La soddisfazione dell’impulso spegne
tutto, la nera e vuota sensazione di azzeramento di se stessi che accompagna
la soddisfazione, anche perseguita nelle sue forme più fantasiose e folkloristiche, è il perfido trofeo del sex addicted,
che, al di là di quanto mostra e al di là
dei vanti esibiti, guarda a se stesso con
dolore e pena infinita. Recitare ancora
la pantomima del buon padre, della buona madre di famiglia spesso è l’ultimo
fragile appiglio alla vita, ma anche l’ultima barriera dell’illusione di normalità, e talvolta anche l’ostacolo al riconoscimento di questa patologia e al riconoscimento del bisogno di cura.
(vedi pag. 12)
SBARRE E DINTORNI
grazia in offerta speciale
Vincenzo
Andraous
onostante tante cose siano cambiate, siamo ancora al punto di
partenza.
Sta di fatto che ora il fardello è
rimpallato alla sinistra, senza
alcun gioco di sponda né di buca,
ma in maniera diretta e frontale.
Penso che nessuno abbia ragione da solo e
nessuno si salvi da solo, occorreva ieri, e a
maggior ragione occorre oggi, più coraggio per ciò in cui si crede, e avere più coscienza di sé, come consapevolezza dei
propri limiti, delle proprie capacità, delle
proprie emozioni-sentimenti, e soprattutto percepire sulle proprie spalle la responsabilità del comunicare a chi ci osserva, in
particolar modo quando costui è più giovane o in una situazione di sofferenza.
Grazia, amnistia, indultino e pena certa
che per molti detenuti ormai dura da
trent’anni, ma mai come in questo momento vale il detto: smuovo tutto, chiedo tutto, per non spostare né concedere niente.
Grazia, per gli uomini che cambiano (colpevoli e innocenti), perché l’uomo della
pena non è più l’uomo della condanna: ciò,
nonostante il carcere mantenga perversamente il suo meccanismo di deresponsabilizzazione e infantilizzazione, di maggior
riproduttore di sottocultura.
In questa condanna alla condanna, ci sono
attimi che attraversano l’esistenza dell’uomo detenuto, e proprio nel sapere, nella
ricerca della propria dignità, nasce l’esigenza di un’autoliberazione possibile e non più
prorogabile.
Anche all’interno di una prigione, la vita
può riservare incontri con se stesso e con
gli altri, che disotturano le intercapedini
dell’anima: le visioni unidimensionali, gli
assoluti, i vicoli ciechi si sgretolano, nei
disvalori che sono sempre stati.
Allora l’uomo che convive con la propria
pena, coglie il senso di ciò che si porta dentro, il peso del dramma, quel bagaglio personale maledetto come non è possibile immaginare.
Può un uomo redimersi? Potrà il crimine
essere cancellato attraverso la pena espia-
N
ta? E qual’è la pena che può rendere giustizia agli innocenti umiliati?
Sono domande che non consentono risposte certe, ma dieci, venti, trent’anni di carcere demoliscono certezze e ideologie, rendono l’uomo invisibile a tal punto da risultare difficile dialogare con un’identità
scomposta, che occorre ritrovare e ricostruire, insieme agli altri.
Chi sbaglia e paga il proprio debito con
decenni di carcere, attraversa davvero tempi e contesti di un lungo viaggio di ritorno, lento e sottocarico, fino a far scomparire l’uomo sconosciuto a se stesso, in uomini nuovi che tentano di riparare al male
fatto, con una dignità ritrovata, accorciando le distanze tra una giusta e doverosa
esigenza di giustizia per chi è stato offeso,
e quella società che è tale perché offre, a
chi è protagonista della propria rinascita,
opportunità di riscatto e di riparazione.
Si parla oggi come si è parlato ieri dei casi
Sofri e Bompressi: ritengo che la grazia sia
un atto coraggioso, anche e soprattutto per
la ricerca di una Giustizia giusta ed equa, una
Giustizia che è anche perdono, come ebbe a
sottolineare il Papa, e che comprenda un granello di pietà, perché la pietà non è un atto
di debolezza per i tanti uomini che in un carcere sopravvivono a se stessi, inchiodati alle
loro storie anonime, blindate, dimenticate.
Sono convinto che non esiste amnistia,
indulto, sanatoria d’accatto, per il detenuto, non esistono slanci in avanti utopisti,
esistono solamente uomini sconfitti, perché in un carcere non sopravvivono miti
vincenti, ma esistenze sconfitte dal tempo
e dalle miserie che ci portiamo addosso.
Mi chiedo se è possibile perdonare, nella
difficoltà di affrontare la lettura evangelica
del sentimento del perdono, per non parlare della necessità di salvaguardare la collettività, ormai improntata alla sola risposta penale, al solo deterrente carcerario.
Ma occorre riconoscere il bisogno di un
tragitto umano (non solo cristiano) nella
condivisione e nella reciprocità, quindi
nella accettazione di una possibile trasformazione e cambiamento di mentalità.
Rosella De Leonibus
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ROCCA 1 LUGLIO 2006
COSE
DA
GRANDI
ta, che sia un episodio, una voglia che
passerà. Poi la cruda realtà si impone, e
arriva una rabbia furibonda, accompagnata da una profonda frustrazione,
l’impotenza che si prova davanti a tutte
le dipendenze, aggravata dal fatto che
ora, qui, si mescola fortemente con la
relazione di coppia e gli affetti. Spesso
le donne si pongono davanti ai propri
partner nella posizione di salvatrici, di
eroiche crocerossine che partono alla
crociata della liberazione del proprio
uomo, e non valutano con sufficiente attenzione la situazione della dipendenza, preferendo pensare a problemi di
coppia e di noia. La separazione spesso
è l’ultima chance, anche perché, come
quasi tutte le persone dipendenti, i sex
addicted tendono a negare la propria
situazione, e meno che mai la raccontano al coniuge.
Pensano infatti di riuscire a controllarsi, di poter uscire da questo tremendo
gorgo che parte da una sensazione molto forte, alimentata dalla fantasia e dalle immagini, e scivola verso un vuoto
anonimo e spento, verso la più banale
delle coazioni, dove il desiderio che è incontrollabilmente cresciuto «deve» essere soddisfatto. Incapaci di sentire un
bisogno e differirne o modularne la soddisfazione, queste persone mostrano
veri sintomi di astinenza fisica, e possono diventare aggressive e incontrollate, fino a mettere in atto molestie sul lavoro, cercare prostitute, perfino arrivare alla pedofilia e all’incesto. Oppure si
«fermano» ad altri livelli di soddisfazione patologica, come il voyeurismo, il
sadismo, il feticismo, il frotteurismo.
CULTURE E RELIGIONI RACCONTATE
Marco
Gallizioli
È
giocando con i toni della favola e
dell’apologo che Amos Oz (1) ha
confezionato il suo ultimo intonatissimo romanzo. D’un tratto nel
folto del bosco (2). Infatti, narra
una vicenda semplice e insieme
intensa, avvincente e nel contempo ricca di
spunti di riflessione, che ha per protagonisti dei bambini curiosi, Mati e Maya. È bene
anticipare subito che il tono favolistico permette la lettura del testo a più livelli, anche
se risulta chiaro quanto l’intento ultimo dell’autore sia quello di spingere a riflettere sui
condizionamenti che ciascuna cultura proietta, più o meno consapevolmente, sull’individuo. L’idea di fondo di Oz è che risulta
imperativo attraversare il buio di ogni narrazione mitologica se ci si vuole interrogare senza ipocrisia sulla verità relativa a noi
stessi e agli altri.
nel mitico villaggio
ROCCA 1 LUGLIO 2006
Il libro si apre con la descrizione di un villaggio mitico, chiuso fra le montagne e circondato da un bosco descritto dagli adulti
come luogo fatato e pericoloso. Gli abitanti
del paese temono il buio, perché anni prima, in una notte strana e nebbiosa, sono
scomparsi dal villaggio tutti gli animali, lasciando il paese immerso in un silenzio irreale, denso e funereo. Nessuno, però, vuole spiegare ai bambini cosa sia realmente
accaduto; si preferisce raccontare loro che
un terribile demone dei monti, Nehi, ha stregato gli animali e li ha condotti via. Nehi –
dicono i grandi – abita la notte e talvolta
scende ancora in paese, lasciando delle tracce che ne testimoniano la presenza. Per
questo, vige il divieto di uscire dopo il tramonto: le tenebre sono il regno della presenza oscura e minacciosa, e ciascuno deve
difendersi trincerandosi dietro la porta della
propria abitazione. I bambini vengono allevati in questa cultura mitica e tenuti lontani dalla verità su quanto sia realmente
accaduto, verità conosciuta dal mondo degli adulti, ma da loro stessi taciuta come
42
un tabù. Gli animali perduti vengono a costituire il grande «rimosso» del mondo consapevole; sono una realtà di cui non si deve
parlare e chi lo fa viene deriso o pubblicamente smentito. La maestra Emanuela, ad
esempio, durante le sue lezioni disegna degli animali alla lavagna, descrivendone ai
suoi studenti la bellezza, la ricchezza dei
loro versi, l’importanza della loro funzione, ma i suoi tentativi vengono minati dal
giudizio negativo della collettività. Gli adulti
non si fanno scrupolo di avvertire i bambini che gli animali, in realtà, non sono mai
esistiti e che Emanuela, sola e nevrotica,
cerca di compensare la sua solitudine con
delle storie inventate. La maestra viene dunque presentata come una povera illusa, una
donna frustrata per la mancanza di un marito, un soggetto per certi versi pericoloso,
perché non è come gli altri. La sua diversità consiste nel non volersi adeguare alle
opinioni comuni, nel non volersi piegare al
parere della maggioranza, nell’essere fermamente convinta che non si debba avere paura dei propri ricordi. Anzi, al contrario, la
maestra è convinta che occorra ricordare,
far emergere i vissuti e, in qualche modo,
sapere onorare la verità, alla quale nessuno
si può sottrarre. Ma la proterva cultura della maggioranza è troppo immediata e forte
per poter essere messa in discussione, rispecchiandosi, così, negli atteggiamenti dei
bambini che, al pari degli adulti, prendono
in giro la maestra e quanti caparbiamente
continuano a parlare degli animali. L’abito
educativo del paese genera anche dei comportamenti verbalmente violenti verso il piccolo Nimi, un bambino dai denti sporgenti
e dal perenne moccio al naso, che, dal canto suo, farebbe di tutto pur di essere accettato.
Il destino di Nimi, però, diviene irreversibile quando, dopo essere fuggito nel bosco,
ricompare alcuni giorni dopo veramente diverso: Nimi non parla più il linguaggio degli uomini, ma nitrisce. Gli adulti sostengono che il piccolo ha contratto l’immaginario morbo del «nitrillo», un virus conta-
gioso che rende dimentichi della propria
umanità. Il piccolo, così, è bandito dal paese e costretto a vivere da solo nel bosco.
la scoperta e l’avventura
È in questa cornice che si sviluppa la vicenda di Mati e Maya, due bambini come tanti
e insieme destinati a differenziarsi dal gruppo per via di un segreto da loro soli conosciuto. Un pomeriggio, infatti, mentre vicino al fiume stavano raccogliendo delle pietruzze, vedono in un piccola pozza l’ombra
fugace e inconfondibile di un pesce. È la
prova che gli animali sono davvero esistiti
e che gli adulti hanno sempre mentito. Si
rendono conto, quindi, che c’è una verità
capace di scardinare il conosciuto e il condiviso, una verità in sé ancora oscura, ma
in grado di porsi come obiettivo, come traguardo. A questo punto, il segreto potrebbe
essere dimenticato: Mati e Maya potrebbero far finta di niente, aderendo al rimosso
collettivo dei grandi, oppure procedere nella
conoscenza, scardinando le regole dell’omertà e infrangendo i divieti angusti proposti dalla mitologia oscurantista nella quale sono stati allevati. È la bambina, Maya, a
prendere in mano la situazione e a decidere per entrambi: il segreto li obbliga ad inoltrarsi nel bosco e ad indagare per scoprire
se esistano altri animali. Così, dopo aver
lungamente riflettuto, una mattina i due
bambini decidono di marinare la scuola e
di intraprendere la loro avventura nella foresta. L’intrico dei rami e degli arbusti è così
fitto che l’esplorazione non è affatto semplice. In più, il bosco sembra via via popolarsi di presenze invisibili, di segni non decifrabili attraverso i codici conosciuti dai
ragazzi. La fatica diviene allegoria della rinuncia: perché darsi tanto da fare, quando
si potrebbe più facilmente essere come tutti, accontentarsi come gli altri, abbracciare
la logica della maggioranza e dimenticare
ciò che non quadra, o, per dirla con Montale, «l’anello che non tiene» (3)? Tanto più
che il sentiero nel bosco tende a salire lun-
go le pendici della montagna abitata dal demone Nehi. Ma, proprio quando gli interrogativi si fanno più pressanti, i due bambini scoprono, in una grotta, il rifugio di
Nimi, il reietto, il bambino afflitto dal «nitrillo». Dentro la caverna, un Nimi sorridente li accoglie, li rifocilla e spiega loro che è
stata una sua libera scelta quella di fingersi
pazzo, un modo per sfuggire alla logica integralista degli altri, per non essere più vittima delle derisioni. Tuttavia, Mati e Maya
non sono ancora pronti a gettare via del tutto la zavorra del consueto e sottopongono
Nimi a un fuoco incrociato di domande
sciocche. Nimi, allora, ribadisce il suo gesto
di libertà e, cominciando a nitrire come un
puledro selvaggio, li abbandona al loro destino. Ai due bambini non rimane che riprendere il cammino nel bosco, sconsolati.
A un certo punto, come nella migliore tradizione della favola, i due si perdono di vista e il narratore concentra la sua attenzione sul piccolo Mati, il più pauroso dei due.
Non vedendo più la compagna, Mati si accovaccia a terra e si rifiuta di proseguire
fino a quando, dopo un tempo imprecisato, gli pare di avvertire la voce di Maya che,
dalla vetta della montagna, lo invita a salire. La voce dell’amica sembra incorporea,
più frutto di una suggestione che dato sensoriale vero e proprio. Ancora una volta
Mati è tentato di tornare indietro e cerca di
razionalizzare la sua paura dicendosi che
la voce è frutto della sua immaginazione e
che forse l’amica si trova in pericoli talmente seri da rendersi indispensabile il ritorno
al paese e l’intervento degli adulti. Poi, però,
prevale il coraggio e Mati, fra mille dubbi,
riprende a salire. Giunto sulla vetta della
montagna, il bambino trova la compagna
in una sorta di giardino dell’Eden, circondata da animali di ogni specie. Il giardino è
custodito da Nehi, che non è affatto un demone, ma un anziano abitante del villaggio, fuggito molti anni prima dal paese perché vittima di continue angherie. L’allora
bambino Nehi, rifiutato da tutti, aveva stabilito relazioni di amicizia solo con gli ani-
ROCCA 1 LUGLIO 2006
nel folto del
bosco
43
l’Eden rovesciato
Nella trama semplice e immediata della fiaba, Oz realizza un piccolo miracolo letterario, sia per lo stile, ispirato e insieme ricco
di finezze, sia per gli intrecci continui, anche se non dichiarati, con la tradizione biblica. È evidente che il giardino scoperto
dai ragazzi è una sorta di Eden rovesciato,
un orizzonte di perfezione e concordia che
non si pone ai protagonisti come riferimento mitico dell’inizio, ma come traguardo storico, da raggiungere attraverso un cammino lungo e faticoso. Il giardino è una «terra
promessa» che si fa raggiungere a fatica e
che costringe i bambini a vagare nel deserto del bosco, nell’intrico dei segni e dei linguaggi autoreferenziali. È una meta che si
lascia intravedere solo se si è disposti ad
attraversare paure e pregiudizi, a osare la
ricerca e a porre interrogativi di conoscenza forti. E Oz sembra quasi voler dire che il
paradiso perduto della creazione biblica
non si pone come cominciamento, ma come
ROCCA 1 LUGLIO 2006
dello stesso Autore
LA RELIGIONE FAI DA TE
il fascino del sacro nel postmoderno
(vedi pag. 12)
44
obiettivo, come traguardo, come utopia
possibile, ma in cui occorre innanzi tutto
credere fermamente. Si tratta, quindi, di un
paradiso ritrovato, o, meglio, riedificato
dall’uomo, non di un mondo redento da un
dio. È una realtà resa vivibile dall’uomo, costruita in una sorta di creazione rovesciata.
Un mondo salvato dalla violenza umana e
naturale, in cui le tigri e i lupi condividono
i giacigli con le loro antiche vittime (4), spogliate di ogni ferinità e innovate da un’etica
costruita insieme. Contro la soffocante chiusura del villaggio, al di là di un silenzio
amaro e privo di comunicazione di un paese abbandonato dagli animali, il giardino
si manifesta ai bambini come sinfonia di
suoni, come melodia intonata di messaggi,
come luogo della comunicazione possibile.
La polemica di Oz contro la pervicace quanto errata enfatizzazione del mandato di
possesso del creato che traluce dai primi
due capitoli della Genesi risulta evidente nel
recupero della funzione di custode amorevole esercitata da Nehi. Il vecchio, infatti,
sembra essere sia una proiezione del Signore che passeggia nell’Eden sia il prototipo
dell’uomo che si rende simile a Dio continuando o ricostruendo la sua perfetta opera creatrice. Un dio desacralizzato, umanissimo e a tratti anche malinconico, quando
confessa ai ragazzi che di tanto in tanto sente nostalgia del suo passato al villaggio, e,
insieme, un uomo divinizzato, capace di
rendersi divino proprio nel progetto salvifico, nell’essere caparbiamente convinto che
la Gerusalemme celeste vada costruita già
sulla terra e non solo sognata come realtà
di un tempo ultimo, oltre la storia. Ma, soprattutto, Nehi è il prototipo di un’umanità
convinta che occorra abbandonare ogni
antropocentrismo di maniera fino a trovare il coraggio di sentirsi, in quanto essere
umani, esseri naturali e viventi, parte integrante di un meraviglioso e pervasivo senso vitale.
Marco Gallizioli
Note
1 Amos Oz, nato a Gerusalemme nel 1939, è docente di Letteratura all’università Ben Gurion
del Negev e autore di numerosi romanzi e saggi, tra cui si ricordano: In terra d’Israele, Marietti,
Genova 1992; Lo stesso mare, Feltrinelli, Milano 2000; Contro il fanatismo, Feltrinelli, Milano
2004.
2 A. OZ, D’un tratto nel folto del bosco, trad. it. di
E. Loeventahl, Feltrinelli, Milano 2005.
3 Cfr. E. Montale, I limoni, in Ossi di seppia, in
Tutte le opere, a cura di L. De Maria, Mondadori,
Milano 1984, p. 11.
4 Riecheggiano in queste pagine le suggestioni
del profeta Isaia; cfr. Is., 11, 6-8.
MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO
Sofia
Vanni Rovighi
dalla contemplazione teologica
all’azione etica
Giuseppe
Moscati
na delle personalità più vivaci del
panorama filosofico di area cattolica del Novecento italiano è senza dubbio Sofia Vanni Rovighi
(San Lazzaro di Savena 1908 Bologna 1990).
Nota studiosa della filosofia medievale, appartiene a grandi linee al pensiero neoscolastico e si è formata pienamente nell’ambito accademico dell’Università Cattolica
di Milano, eppure fuoriesce con la forza
dei suoi dubbi e con la tenacia della sua
ricerca libera e appassionata dagli schemi
che la vorrebbero ingabbiata in tutto e per
tutto all’interno della sua tradizione di riferimento principale.
Le sue stesse espressioni – che ritroviamo
via via, con estrema chiarezza espositiva e
con accenti diversi e ogni volta originali,
nei manuali e negli studi specifici sui maestri francescani, su sant’Anselmo d’Aosta
e la filosofia del sec. XI, sull’antropologia
filosofica di san Tommaso e su san Bonaventura, sulla teoria della conoscenza galileiana, sulla gnoseologia kantiana e sulla
filosofia della storia hegeliana, ma anche
U
su fondamentali categorie del pensiero
contemporaneo – ci dicono di come questa brillante autrice non abbia mai difettato di coraggio interpretativo. Il che, naturalmente, costituisce un imprescindibile elemento di fondo per «filosofare» in libertà e autonomia ed è quindi garanzia di
immunità rispetto ai dettami di un’auctoritas asfissiante e totalizzante, che più o
meno esplicitamente voglia imporsi come
limite invalicabile, o di un vero e proprio
pensiero dominante che non accetti alcuna «lettura ereticale» o comunque, come
si dice, non «allineata e coperta».
per una conoscenza a servizio dell’etica
In verità dovremmo parlare, a proposito
del pensiero di Sofia Vanni Rovighi, di una
filosofia della conoscenza che, sostanzialmente attraverso considerazioni metafisiche e attribuendo un ruolo di primo piano
all’elemento della contemplazione, si apre
alla dimensione teologica per affrontare in
profondità il problema di Dio e, al tempo
stesso, per ricercare un’adeguata interpre45
ROCCA 1 LUGLIO 2006
CULTURE
E
RELIGIONI
RACCONTATE
mali, di cui era riuscito a comprendere il
linguaggio. Così, quando decise di andarsene, stanco dei soprusi, gli animali avevano deciso di seguirlo, abbandonando gli uomini del villaggio, malvagi non solo nei confronti di Nehi e dei più deboli, ma anche
verso di loro. Nel corso degli anni – spiega
ai bambini il vecchio – nel suo giardino segreto, lontano dagli uomini, Nehi ha creato una sorta di società perfetta, basata sulla piena concordia e sull’armonia, insegnando alle bestie selvatiche la convivenza pacifica e sostituendo le regole ferree e spietate
della lotta per la vita con un’alimentazione
a base di una bacca dal sapore di carne. I
bambini rimangono estasiati davanti al
mondo sconosciuto e perfetto che si manifesta al loro sguardo e decidono di tornare
al paese per far comprendere agli uomini
la verità che hanno appreso. Sanno che la
loro missione sarà al limite dell’impossibile; sono consapevoli che verranno presi per
pazzi e accusati di aver contratto il morbo
del «nitrillo»; ma rimangono convinti che
la verità vada annunciata e, con questo fermo convincimento, si chiude il racconto.
le la logica all’etica, la metafisica alla filosofia morale. Non ne esce per questo un
Aristotele stravolto o strattonato verso
questo o quello scopo contingente, anzi:
proprio lo spirito dell’Etica nicomachea e
in particolare le virtù dianoetiche dello
Stagirita vengono ad essere letti autenticamente come elementi basilari di un pensiero per l’oggi che possa dirsi veramente
disinteressato, indipendente e, appunto, al
servizio dell’etica. E così Aristotele finisce
per accostarsi felicemente, con la sua parola e con i suoi stimoli, ai nostri giorni e
ai nostri dibattiti.
Poi, come è ovvio, proprio in quanto intenta a ricondurre la teologia all’etica e
proiettata a calare la filosofia in quello che
possiamo chiamare l’‘agone dell’alterità’
del nostro tempo, l’autrice interpreta l’etica aristotelica in relazione alle proprie riflessioni su alcuni filosofi contemporanei
con il cui pensiero ritiene imprescindibile confrontarsi: per citarne due, Edmund
Husserl e Martin Heidegger, ai quali la
Vanni Rovighi ha dedicato un importante periodo di studio tra la fine degli anni
Trenta e la prima metà degli anni Quaranta.
A muovere da qui, cioè riflettendo su questo arricchente dialogo tra filosofia antica
e suggestioni del pensiero contemporaneo
mi pare che, all’interno della visione del
mondo della Vanni Rovighi, si distingua in
modo particolare un determinato concetto
di società. Quest’ultima, per lei, risiede sostanzialmente in un’unità di relazione tra
persone, vale a dire corrisponde in definitiva a un complesso di relazioni fra gli individui che la compongono e che concretamente la animano, facendone cosa viva prima ancora che disquisendone.
nell’agone dell’alterità
Edmund Husserl, Vita e Pensiero, Milano 1939;
Heidegger, La Scuola, Brescia 1945; Elementi
di filosofia, La Scuola, Brescia 1963 (varie ediz.,
1982, 1995); Introduzione allo studio di Kant,
La Scuola, Brescia 1968 (Laterza, Roma-Bari
1999); Introduzione, logica e teoria della conoscenza, La Scuola, Brescia 1972; L’antropologia di S. Tommaso, Vita e Pensiero, Milano 1974;
Storia della filosofia moderna e contemporanea.
Dalla rivoluzione scientifica a Hegel, La Scuola, Brescia 1976; Il problema teologico come filosofia, Vita e Pensiero, Milano 1980 (2a ediz.);
Istituzioni di filosofia, La Scuola, Brescia 1982;
La filosofia e il problema di Dio, Vita e Pensiero, Milano 1988.
ROCCA 1 LUGLIO 2006
C’è insomma da tenere presente tutta una
serie di implicazioni in chiave di possibile
ri-attualizzazione dell’opera di Sofia Vanni Rovighi, proprio a partire dalle sue letture della storia e delle dinamiche caratteristiche del pensiero filosofico contemporaneo.
In realtà la studiosa prende le mosse da
Aristotele, ma lo fa soprattutto per scardinare l’idea di una presunta necessità di
ossequiare le auctoritates del pensiero e per
avvicinare fino al massimo livello possibi46
Giuseppe Moscati
Tra le opere di S. Vanni Rovighi:
LEZIONE SPEZZATA
forza Lecce
Stefano
Cazzato
L
’autoambulanza schizza via dal
cortile del «Gilberto Contacchi».
I ragazzi la seguono fino al cancello e fanno ciao con la mano.
«Dio mio, che c’è di nuovo oggi?!
«professò, c’è de nuovo che nu se fa lezione… non ciabbiamo l’animo giusto mica se
po’ spiegà psicologia in queste condizioni...
«sì, ma che succede, chi sta male?
«se ricorda il ragazzo con l’handicap del 4°F,
eh quello lì, che stà sempre con la Corvini,
l’insegnante de sostegno… oggi è cascato
ro..vi..no..so sulla pancia de Mancusi del 5°A
che sè sentita male… lo sa... no... che stà al
sesto mese de gravidanza?
«Sì lo so. Ma adesso torniamo in classe e
aspettiamo notizie. Speriamo bene!
«In classe? Ce ritrovamo tutti in palestra,
professò, è troppo importante stà storia…
Tutti in palestra dunque. L’atmosfera è confusa più che triste, tra telefonini che suonano e gente che si rincorre nel corridoio. L’insegnante di sostegno rincuora il ragazzo del
4°F che siede corrucciato in un angolo. Il
collega Valeriani rincuora l’insegnante di
sostegno. Il collega Scodella, cinico come
sempre, ironizza sul comportamento
seduttivo di Valeriani nei confronti dell’insegnante di sostegno. Il collega Fischetti,
detto il politicamente corretto, esorta Scodella a risparmiarsi almeno in quest’occasione le sue battute al veleno. Il padre di
Mancusi vuole sapere come sono andate
«esattamente» le cose. Chiede della preside che oggi non c’è (un concorso di poesia
in Toscana, si dice) e tocca alla vice rispondere che sono cose che succedono, signor
Mancusi. La scuola comunque farà tutto il
possibile. Francescotti la prende alla lontana e litiga con Settini sulla contraccezione. C’è chi come Marucci si è talmente
immedesimata nella situazione da cadere
svenuta su una panca. Un gruppo di irriducibili atarassici, complici calciopoli e i
mondiali, discute invece di pallone.
«Professò, ha visto la Juve, lo dicevamo
noi
«Sì, sì
«Speramo che l’anno prossimo fa il campionato de serie B. Và a fà compagnia al
Lecce! Che fiji de na... ciavète pure fatto
perde no scudetto na vorta
Mi sto per sottrarre al grido di forza Lecce
dagli irriducibili, voglio dare anch’io il mio
contributo di consolazione a tutti gli animi affranti del Contacchi quando arriva
trafelato il bidello con una comunicazione ufficiale:
«ì bimbo tà bene, pue aagazza tà bene, tà
bene, i pomeiggio tonna casa, tonna casa,
opedale, pomeiggio, campaella, fetta. (Il
bimbo sta bene, anche la ragazza sta bene,
il pomeriggio torna a casa dall’ospedale.
Che ne dite se suono la campanella per festeggiare?)
Fozza Lecce!
47
ROCCA 1 LUGLIO 2006
MAESTRI
DEL
NOSTRO
TEMPO
tazione della natura e dell’uomo. Ma il passaggio che la porta da un ambito più squisitamente logico a una dimensione che in
un certo senso potremmo definire ‘eticoesistenziale’, per come si va sviluppando e
per come si caratterizza, ci obbliga a ripensare la produzione della filosofa italiana quale vero e proprio attraversamento
delle suddette questioni di Dio, uomo e
mondo a partire da una teoria della conoscenza in direzione di un approdo filosofico-morale.
E allora se, come credo, nella filosofia della Vanni Rovighi è più opportuno parlare
di un passaggio dalla conoscenza all’etica,
va segnalato come la prima rimanga sempre nella sua essenza finalizzata a «servire» la seconda, a promuoverla cioè come
primo e ultimo problema dell’uomo. In
questa accezione, se vogliamo anche un po’
paradossale, l’etica si pone come etica delle relazioni tra gli uomini nel mentre si
concentra sul rapporto uomo-Dio; anzi,
l’uomo rinviene proprio nella ricerca di carattere teorico-teologico la via pratica privilegiata per aprirsi agli altri.
Tale percorso di ricerca che da una conoscenza ‘logica’ di Dio giunge finalmente a
una conoscenza pratica del mondo e delle
«cose degli uomini», in ultima analisi, segna una conquista del pensiero contemporaneo (o forse sarebbe meglio dire postmoderno) ormai divenuta irrinunciabile.
Si pensi alla ‘teologia sofferta’ di un Bonhoeffer o alle considerazioni ‘militanti’ di
quegli altri teologi a noi vicini per motivi
cronologici, ma direi soprattutto per sensibilità, i quali hanno riflettuto su una divinità il più possibile prossima all’uomo,
ai suoi interrogativi e anche alle sue tragedie esistenziali – due per tutte: la guerra e
il genocidio –, o per esempio sul Cristo vissuto come «essere-per-gli-altri», come appunto esemplarmente ritroviamo nell’esperienza bonhoefferiana (vedi Rocca n. 8/
2004).
PAPA RATZINGER DOPO AUSCHWITZ
48
silenzi della Chiesa sull’Olocausto
inseguono il papa tedesco, il primo sceso nel ventre dell’inferno ad
Auschwitz per interpellare con le
bestemmie di Giobbe i silenzi di
Dio. Silenzi evidentemente contagiosi, se hanno trainato il nuovo silenzio
del papa che ha messo a disagio le relazioni ebraico-cristiane sulle responsabilità storiche della Chiesa nella produzione dell’antisemitismo virale e in modo
specifico nella scelta di Pio XII di astenersi dalla denuncia dei crimini genocidi
del III Reich.
Una questione che fa riemergere, al di là
del dibattito storiografico, la lezione del
cardinale Von Galen, di recente proclamato beato, dinanzi alla politica prudenziale del Vaticano: non solo aveva osato, malgrado i moniti del nunzio Orsenigo, accusare la Gestapo e le autorità del regime
per i soprusi perpetrati sui malati mentali e contro i conventi e gli istituti religiosi, il clero e i fedeli cattolici. Aveva posto
per primo la stessa questione teologica
che oggi sta a cuore al papa, dicendo a
Pio XI: «Noi abbiamo a che fare con un
avversario che non conosce verità e fedeltà. Ciò che essi chiamano Dio non è il nostro Dio: è qualcosa di diabolico».
Ma la premura di radicalizzare teologicamente l’interpretazione dell’antigenesi nazista non restava astratta nel «leone di
Münster». Essa si saldava infatti alla sua
capacità intrepida di denunciare l’incessante violazione di «quei diritti fondamentali della personalità umana che sono imprescrittibili». «Se noi possiamo accettare
queste cose senza una pubblica protesta –
scriveva al vescovo di Osnabrück Berning
– dove è mai dunque il punto nel quale diviene per noi un dovere di scendere in campo pubblicamente per la libertà della Chiesa e di mettere eventualmente in gioco la
nostra libertà e la nostra vita?(...) Non riesco più a mettere in pace la mia coscienza
con questi argomenti ‘ex auctoritate’. Penso spesso a san Tommaso Moro e al suo
comportamento riguardo all’argomento ‘ex
auctoritate’.» E aveva aggiunto un avviso
biblico che, rivolto ai pastori ciechi di allora, non tocca di meno anche quelli tre-
pidanti di oggi: «mi vengono in mente i
‘canes muti, non valentes latrare’ di cui
parla Isaia, che aggiunge subito dopo: ‘Ipsi
pastores ignoraverunt intelligentiam’. Questo era possibile solo nel Vecchio Testamento?» (1).
Questioni in parte già dipanate sul piano
storiografico, secondo alcuni, questioni
per il resto ormai superate, secondo altri,
per le audaci scelte giubilari di Giovanni
Paolo II sull’autocritica pubblica, in San
Pietro, per la parte giocata dagli ecclesiastici nella giustificazione teologica della
violenza antisemita, fino al suo pellegrinaggio al Muro del Pianto.
Ricordiamo che lo stesso Benedetto XVI
aveva tenuto un forte discorso a Colonia
nell’incontro con gli esponenti della comunità ebraica, il 19 agosto 2005. Aveva
ricordato la cacciata degli ebrei da Colonia nel 1424. Quanto alla Shoah, definita
«un crimine inaudito», aveva detto: «Nel
XX secolo, nel tempo più buio della storia
tedesca ed europea, una folle ideologia razzista di matrice neopagana fu all’origine del
tentativo, progettato e sistematicamente
messo in atto dal regime, di sterminare
l’ebraismo europeo».
Aveva poi evocato la liberazione dei campi di concentramento nazisti nel 60° anniversario e ricordato con preoccupazione l’emergere di nuovi segni di antisemitismo e di «varie forme di ostilità generalizzata verso gli stranieri». E aveva sottolineato, accanto ai progressi compiuti
dopo il Concilio nei rapporti tra ebrei e
cristiani, il molto che resta da fare per
approfondire il loro dialogo.
un’occasione mancata
Ma appunto perché già delibato, anche se
tutt’altro che consolidato e pacifico nella
Chiesa cattolica attuale – obietta un’altra
corrente di opinioni – il processo di rielaborazione interna della «valle oscura» di
Auschwitz aspettava dal papa tedesco,
perché papa e perché tedesco, un segnale
di convalida, in una circostanza di così
elevato contenuto simbolico: un segnale
rimasto implicito, affidato alle analisi letterarie su un testo complesso, problema-
tico, nel quale i contenuti teologici prevalgono sulle esigenze storiografiche, per
ridefinire al suo massimo grado di drammaticità l’immenso punto di interrogazione forgiato dalla Shoah sull’intero destino e sul senso dell’umanità.
Papa Ratzinger ha portato ad Auschwitz
la coscienza inquieta di figlio del popolo
tedesco, spinto nel luogo dell’orrore, così
lo ha chiamato, da un dovere di fronte alla
verità, dinanzi alle vittime della Shoah e
dinanzi a Dio. È sulla teologia che egli ha
fatto leva nella convinzione che essa possa essere sufficiente a sconfiggere l’ondata restauratrice che nella stessa Polonia
si carica di segnali xenofobi e antisemiti,
anche di matrice cattolica, a significare
la riproduzione di codici cognitivi arcaici
sepolti nelle pieghe e nelle piaghe profonde del mondo cattolico europeo e non
scalfiti né dal Concilio Vaticano II, con la
dichiarazione Nostra Aetate, né dalle aperture di Wojtyla agli ebrei.
Sono quegli stessi stereotipi che hanno
incollato il cattolicesimo tedesco all’ideologia anticristiana del nazionalsocialismo,
intercettando e isolando le volontà di contrasto e di denuncia portate avanti anche
da alcuni ed emarginati esponenti dell’alta gerarchia ecclesiastica tedesca, non
meno che dai nuclei eroici della resistenza civile e della minoritaria «Chiesa confessante».
Purtroppo si deve constatare che non si
tratta di questioni consegnate agli archivi e inattuali. In realtà si tratta di rischi
in agguato contemporanei: gli stessi paradigmi infatti sono ripresi e rilanciati attualmente dalle correnti tradizionaliste
cattoliche di matrice maurrassiana (Action Française) facenti capo, tra l’altro,
allo scisma – che si vorrebbe recuperare
– di monsignor Marcel Lefebvre, non a
caso fra i più pugnaci avversari della dichiarazione conciliare sugli Ebrei. Posizioni analoghe sono ancora, dopo oltre 40
anni dalla fine del Concilio, rilanciate dai
pulpiti di certo clero «tridentino» in alcuni villaggi della Calabria «moderna».
Per tutto questo contesto regressivo, resta
di enorme valore il fatto, prima ancora che
il discorso: un papa tedesco ha voluto con-
cludere fra i reticolati dello sterminio, dove
Wojtyla si era genuflesso in silenzio nel
1979, la sua visita in Polonia, cercando di
ricavare dal simbolo del male assoluto una
lezione di contrasto della spirale di violenza e di distruzioni che torna a rovesciare
sul mondo nuove sventure.
Papa teologo, egli ha fatto propria la domanda del Novecento teologico e filosofico sul Dio che ha taciuto dinanzi all’olocausto del popolo che per primo aveva
scelto un Dio unico: la domanda rimasta
senza risposta, da Giobbe a Hans Jonas,
da Emmanuel Lévinas a Elie Wiesel. Anch’egli ha chiamato in causa Dio, gli ha
chiesto di «svegliarsi» dinanzi alla tragedia dell’umanità. E ha criticato con forza
i soprassalti delle forze oscure, che abusano, ha detto, del nome di Dio per giustificare una violenza cieca contro gli innocenti oppure scherniscono cinicamente la fede in lui.
Sarebbe stato difficile istituire una critica più radicale dei semi dell’antisemitismo di quella formulata da Benedetto XVI
quando ha detto: «I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico
nella sua totalità; eliminarlo dall’elenco dei
popoli della terra (...). In fondo, quei criminali violenti, con l’annientamento di
questo popolo, intendevano uccidere quel
Dio che chiamò Abramo, che parlando sul
Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno. Se questo
popolo, semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel
Dio che ha parlato all’uomo e lo prende in
carico, allora quel Dio doveva finalmente
essere morto e il dominio appartenere soltanto all’uomo – a loro stessi che si ritenevano i forti che avevano saputo impadronirsi del mondo. Con la distruzione di Israele volevano, in fin dei conti, strappare anche la radice, su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la
fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo, del forte».
ROCCA 1 LUGLIO 2006
ROCCA 1 LUGLIO 2006
Giancarlo
Zizola
i silenzi di Dio i silenzi dell’uomo
S
una cricca di criminali nazisti
ma un popolo innocente?
Questa sua protesta è stata talmente dura,
49
50
l’Unione Sovietica: un fondo ideologico
oscuro e complesso che saldava le masse
all’élite al potere.
Infine, essendosi limitato ad evocare soltanto i nomi di Massimiliano Kolbe e di
Edith Stein, entrambi uccisi ad Auschwitz
e canonizzati da Wojtyla, il papa tedesco
avrebbe dimostrato, secondo alcuni, di
non essere del tutto immune dalla logica
dell’annessionismo cristiano della Shoah,
nutrito da una teologia della salvezza un
poco sospetta, che farebbe volentieri del
cristianesimo il Nuovo Israele: una critica che raggiunse l’apice nel 1979 quando
Auschwitz fu definito da papa Wojtyla «il
Golgota del mondo contemporaneo» e poi
nel 1984 con la vicenda del Carmelo aperto ad Auschwitz, risoltasi dopo vari anni
di tensioni con la decisione del papa di
trasferire le carmelitane fuori da un campo della morte in cui nessun gruppo, nessuna religione, nessun simbolo avrebbe
potuto insediarsi senza diminuire il senso unico e universale di quel Vuoto, di
quell’assenza di Dio.
Fra le opinioni critiche, ci limiteremo a
menzionarne due, che riteniamo di maggiore autorità: quella di un filosofo amico di Ratzinger, il suo interlocutore di
molto dialogo Jürgen Habermas, secondo il quale «proprio la nostra generazione deve porsi la domanda, come sia stato possibile che un regime criminale fin
dai suoi primi giorni si appoggiasse su
un così ampio consenso della popolazione». È di questa «apologetica menzognera» che si nutre la retorica pubblica nel
nostro paese, ha dichiarato Habermas
evocando l’insidia sempre attiva del revisionionismo (La Repubblica, 30 maggio 2006).
L’altro commento è del rabbino David Rosen, responsabile per le relazioni inter-religiose dell’American Jewish Committee
a Gerusalemme e noto per la sua cordiale
collaborazione con i circoli cattolici del
dialogo inter-religioso. Secondo Rosen, la
visita del papa ad Auschwitz è stata «positiva per noi ebrei, positiva dinanzi al negazionismo», tuttavia «il Papa ha perduto un’occasione d’oro per essere esplicito
sul tema dell’antisemitismo. C’era bisogno
di un messaggio netto in questa fase storica segnata da un rigurgito antiebraico
che ha pochi precedenti». Ed ha dichiarato che «è probabile che possa emergere
presto un fatto problematico per i rapporti
fra ebrei e cattolici: la beatificazione di
Pio XII» (Il Sole24 Ore, 30 maggio 2006).
L’appello finale, mentre un arcobaleno fioriva tra le nubi fosche sui forni cremato-
ri, ha incoraggiato alla resistenza contro
il male, nel nome di quei testimoni che
avevano pagato con la vita la loro obiezione al nazismo, luci in una notte buia.
Un appello a non scaricare su Dio la responsabilità di crimini che restano a carico dell’uomo, una proposta di liberarsi
dall’odio mediante processi di perdono e
di riconciliazione.
bilancio della visita
La quattro giorni di Papa Benedetto in
Polonia era l’occasione migliore per i polacchi di risvegliarsi dall’ipnosi di Wojtyla, anche se il suo successore ha dovuto
subire pressioni affettuose, cui ha resistito, per un’immediata dichiarazione della
sua santità. Ha impressionato il gesto dell’ex segretario cardinale Stanislao Dziwisz
che ha preso per un braccio il nuovo papa,
come fosse ancora l’altro, trascinandolo
al microfono e intimandogli di fare anche in italiano l’ennesima dichiarazione
pubblica circa l’aureola del servo di Dio,
cosa cui il papa si è sottratto con prudenza e evidente imbarazzo.
Dall’analisi degli interventi principali,
sembra potersi ricavare l’impressione che
Benedetto XVI abbia ritenuto necessario
richiamare un cattolicesimo mitologizzato dal fascino mondiale del papa polacco
alla realtà della storia: è lo stesso Pietro,
ma la sua figura storica, il papa, è cambiato. E si deve voltare pagina: la Chiesa
polacca aveva vissuto per oltre un quarto
di secolo sulla delega delle proprie responsabilità decisionali al papa. Ora la supplenza è cessata e il viaggio di Ratzinger
segna il ritorno della Chiesa polacca alla
normalità, ad una ripresa di propria responsabilità nella guida dei 36 milioni di
polacchi. Come ha detto l’ex segretario
dell’episcopato polacco Tadeusz Pieronek,
«bisogna sfatare i miti, anche in campo
religioso. Abbiamo una mentalità vecchia,
tradizionalista, le nomine episcopali (fatte da Wojtyla) hanno creato questa situazione».
Su questa chiesa Ratzinger ha calato i suoi
avvertimenti a non ritagliarsi una fede cristiana «fai da te», a non cedere al relativismo. Un invito a professare una fede senza incertezze. A rinnovare i fasti della Polonia «fedele». A tornare ai fondamenti del
cristianesimo.
il monito al clero polacco maccarthista
Si è notata inoltre la cautela politica del
papa: quasi ignorata la tensione prodotta
dalla radicalizzazione della destra populista al potere, fomentata da un’ala di cattolicesimo reazionario, sostenuto dall’emittente radiotelevisiva Radio Marija,
diretta dal frate redentorista Tadeusz
Rydzyk, portavoce di grossolani stereotipi antisemiti e xenofobi. Un bombardamento mediatico che dà la caccia ai preti
e religiosi che collaboravano con i comunisti e ha gettato sulla Polonia una cappa
inquisitoriale, per cui Benedetto XVI ha
dovuto raccomandare a Varsavia ai suoi
preti di «guardarsi dalla pretesa di impancarsi con arroganza a giudici delle generazioni precedenti, vissute in altri tempi e in
altre circostanze», e ha loro raccomandato
di «non indulgere a facili accuse in assenza di prove reali o ignorando le differenti
pre-comprensioni di allora».
È noto che i tentativi di convincimento
fatti per riportare tale radio al rispetto
delle linee di fondo della dottrina sociale
cattolica sono stati a lungo frustrati, fino
a che un ordine della Santa Sede ha imposto il commissariamento dell’emittente, minacciandola di chiusura.
Anche per questo la visita del primo papa
tedesco al lager di Auschwitz resta comunque, per quanto attiene alla situazione attuale del mondo cattolico in Polonia,
come un evento orientatore per la formazione di una cultura del dialogo fra cristiani ed ebrei, tanto più urgente oggi
dopo la dimostrazione di quanto rimanga superficiale e fondamentalmente rimossa sotto strati di mitologia trionfalista e nazionalista la lezione di Wojtyla
nella sua stessa patria.
Probabilmente il papa sperava di contribuire con la sua testimonianza sobria e la
sua riflessione ad Auschwitz a smussare
le asperità sopravvenute nei rapporti fra
tedeschi e polacchi, in una fase travagliata dai manifesti xenofobi presenti nel governo polacco, per la questione del monumento che i tedeschi vogliono erigere
alla memoria dei loro concittadini cacciati
a Ovest e per il progetto del gasdotto russo-tedesco sotto il Baltico, che taglierebbe la Polonia dai benefici.
Giancarlo Zizola
ROCCA 1 LUGLIO 2006
ROCCA 1 LUGLIO 2006
PAPA
RATZINGER
DOPO
AUSCHWITZ
per quanto trattenuta dentro una visione
teologica più che storica della Shoah, da
mettere in secondo piano alcune varianti
di un discorso altrimenti lucidissimo: il
velo steso sulle responsabilità della Chiesa nella tragedia dell’antisemitismo, e il
tentativo di differenziare il popolo tedesco dal sistema nazista la cui perversione
criminale è stata valutata, secondo lo stereotipo dell’apologetica cattolica, in chiave di rivolta ateistica e anticristiana. Quel
giudizio, secondo cui «un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di recupero dell’onore della nazione…
cosicché il nostro popolo poté essere usato
e abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio», ha suscitato sconcerto: si poteva concedere l’attenuante della ferita psicologica subita dal
giovane Ratzinger vissuto nel periodo nazista in ambiente di cattolicesimo bavarese e avviato a forza nell’apprendistato
della gioventù hitleriana anche se per un
periodo limitato.
Ma all’intellettuale, al fine filosofo, oggi
responsabile supremo di una grande Chiesa, che pure aveva condiviso i mea culpa
del papa polacco per l’antisemitismo e
l’antigiudaismo albergati in essa, non sarebbe ammissibile concedersi all’autobiografia, e meno che mai ad un patriottismo intellettuale tanto romantico
quanto unilaterale. Né sarebbe pensabile
che l’obiettivo della riconciliazione, che
il papa dichiarava come motivo principale della sua decisione di visitare Auschwitz, potesse giustificare il sacrificio
del rigore storiografico della memoria
degli eventi.
E infatti è stata quasi corale l’obiezione
rivoltagli di aver preferito riprodurre un
facile alibi per esonerare il suo popolo da
ogni responsabilità ad una rigorosa e coraggiosa presa in carico dei suoi torti collettivi: un approccio che nessuno storico
potrebbe più tollerare, pur rifiutando l’altra facilità ermeneutica di una colpevolizzazione indiscriminata.
Quella cricca di criminali era stata eletta
democraticamente, godeva il consenso
collettivo, aveva l’appoggio concordatario
di un grande sistema religioso come la
Chiesa cattolica oltre che dalla maggior
parte delle Chiese protestanti. Soprattutto si appellava al messianismo della nazione tedesca, «Über Alles», con le sue radici antiebraiche, per giustificare il suo
allucinante disegno razzista e mobilitava
il popolo sull’obiettivo supremo di debellare il comunismo e colpire al cuore
Nota:
(1) Ludwig Volk, Akten deutscher Bischofe über
die Lage der Kirche 1933-1945, V, 1940-1942,
Vkzg, Reihe A: Quellen, Bd. 34, Mainz 1983,
p. 365.
51
il pluralismo
convergente
ROCCA 1 LUGLIO 2006
Carlo
Molari
52
N
ell’attuale ambito cristiano l’opinione teologica più promettente
in ordine al dialogo interreligioso
sembra quella che, senza cedere
al relativismo, considera il pluralismo delle religioni non solo come dato di fatto e quindi come possibilità,
bensì anche come condizione di diritto e
quindi opportunità. La ragione sta nella
sovrabbondante ricchezza del dono divino
e nella limitatezza delle simbologie umane
che la esprimono e la trasmettono. I teologi difensori di questo pluralismo non relativista affermano che unica è la Parola rivelatrice e salvifica di Dio, ma numerosi ne
sono i mediatori nella storia umana, tra cui
le varie strutture religiose, pur riconoscendo che fra di esse vi sono notevoli differenze e che non tutte svolgono lo stesso ruolo
in ordine alla salvezza.
I termini utilizzati per designare questa
opinione teologica sono diversi e già la
molteplicità delle formule indica l’attenzione posta dai teologi per evitare ogni ambiguità. Secondo il gesuita Jacques Dupuis:
«il termine più appropriato... sembra quello di pluralismo inclusivo oppure di inclusivismo pluralistico», formula che vorrebbe
affermare nello stesso tempo, «il carattere
costitutivo universale dell’evento-Cristo
nell’ordine della salvezza e il significato salvifico delle tradizioni religiose in una pluralità di principio delle tradizioni religiose
stesse al di dentro dell’unico, multiforme
piano di Dio per l’umanità» (Verso un modello di pluralismo inclusivo in Il Cristianesimo e le religioni, GdT 283 p. 188). Anche
Cl. Geffré parla di pluralismo inclusivo (Verso una nuova teologia delle religioni, in Gibellini R. (Ed.) Prospettive teologiche per il
XXI secolo, Queriniana, Brescia 2003 p.
359).
Da parte mia penso sia più utile parlare di
pluralismo convergente o relazionale, per in-
interrogativi
La prima domanda alla quale la teologia
cristiana ha cercato di rispondere è se il pluralismo delle religioni sia semplicemente un
dato di fatto o un valore da favorire. Mentre la maggioranza dei teologi ha sostenuto
che il pluralismo è la conseguenza dei molti rifiuti opposti a Dio da parte degli uomini, condensati negli errori delle culture e
nelle false strutture religiose, per cui l’ideale da perseguire sarebbe la convergenza
nell’unica vera religione, altri negli ultimi
decenni, hanno visto nel pluralismo religioso un valore da salvaguardare e da favorire
perché necessario per lo sviluppo armonico della storia salvifica. Esso attesterebbe
«allo stesso tempo la soverchia generosità
con cui Dio ha manifestato se stesso in molti
modi all’umanità e la risposta pluriforme
che gli esseri umani hanno dato nelle diverse culture all’autorivelazione divina»
(Dupuis J., Verso una teologia cristiana del
pluralismo religioso, o. c. pp. 518 ss.). Egli
cita Eduard Schillebeeckx (Umanità. La storia di Dio, Queriniana, Brescia 1992 (originale olandese 1989) p. 217, 221) e Cl. Geffré (La singolarità del cristianesimo nell’età
del pluralismo religioso, in Filosofia e teologia 6 (1992) pp. 38-58).
Il secondo interrogativo sorto nel nuovo
contesto ha riguardato la piattaforma o il
punto di riferimento comune a tutte le religioni che consenta un dialogo paritario e
un cammino solidale. La soluzione più semplice scelta da alcuni è stata quella di considerare ogni religione autosufficiente e
compiuta e quindi con lo stesso valore effettivo in ordine alla salvezza.
È la via del pluralismo relativista. Ma questa prospettiva è apparsa senza sufficienti
ragioni teologiche e sterile in ordine al dialogo interreligioso.
Le altre soluzioni hanno implicato passi
diversi che hanno costituito tappe verso il
pluralismo.
verso la teologia del pluralismo
1. Il primo passo da parte dei teologi plura-
listi è stato la rinuncia a considerare la Chiesa (cattolica) quale riferimento esclusivo
della salvezza (ecclesiocentrismo). Essi infatti hanno riconosciuto il suo limite e la
sua particolarità. Già il concilio Vaticano II
ha affermato che la Chiesa ha bisogno di
mettersi in ascolto del linguaggio degli uomini del proprio tempo «perché la verità
rivelata sia capita sempre più a fondo, sia
meglio compresa e possa venir presentata
in forma più adatta» e ha riconosciuto che
essa «sente con gratitudine di ricevere, nella sua comunità, non meno che nei figli singoli, vari aiuti dagli uomini di qualsiasi grado e condizione» (Costituzione pastorale
(Gaudium et spes) n. 44 EV 1, 1461). Riconoscendosi bisognosa dell’apporto altrui per
svolgere adeguatamente la propria missione nel mondo, la Chiesa ha posto il dialogo
interreligioso come dato essenziale della
propria missione (Redemptoris missio, 1990;
Dialogo e missione, 1991). In questa luce la
base comune delle religioni resta la fede in
Dio che in Cristo offre salvezza a tutti.
2. Il secondo passo della teologia pluralista
è stato il riconoscimento della particolarità
storica di Gesù e il conseguente superamento del cristocentrismo inclusivista.
È innegabile che la proposta di Gesù si
muove in prospettiva universale, non riguarda solo gli ebrei e neppure solo i seguaci
della sua via, bensì tutti. Per questo le Beatitudini costituiscono «la Magna Charta del
Regno di Dio, aperto a tutti indipendentemente dalla propria obbedienza religiosa,
e di cui tutti possono diventare membri a
pieno titolo attraverso la fede e la conversione a Dio» (Dupuis J., Il cristianesimo e le
religioni, o. c., p. 94).
Ma è pure innegabile che la attività di Gesù
ha avuto dei limiti culturali e storici. Si è
espresso in una lingua particolare e assunto i modelli culturali di un popolo particolare. Anche i primi discepoli di Gesù hanno
avuto difficoltà ad allargare gli orizzonti
dell’azione apostolica e a comprendere l’universalità della azione salvifica di Dio espressa in Gesù. Essi attendevano infatti il ritorno glorioso di Cristo per avviare la nuova
fase della storia salvifica. Poi passo dopo
passo, attraverso esperienze anche sconvolgenti, gli apostoli sono giunti alla convinzione che la fase universale fosse già iniziata. La convinzione nasceva da una duplice
esperienza espressa da Pietro: la prima nel
giorno della Pentecoste con la citazione del
profeta Gioele: «chiunque invocava il nome
del Signore era salvo» (cfr. At. 2, 21; Gl. 3,5);
e la seconda dopo l’incontro con il romano
Cornelio: «sto rendendomi conto che Dio
non fa preferenza di persone» (At. 10, 34).
La stessa convinzione era conservata anche
nella formula della tradizione paolina: «Dio,
nostro salvatore... vuole che tutti gli uomi-
ni siano salvati e arrivino alla conoscenza
della verità» (1Tim.2, 4). Paolo per questo
ricordava al discepolo: «abbiamo posto la
nostra speranza nel Dio vivente, che è salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di
quelli che credono. Questo tu devi proclamare e insegnare» (1 Tim. 4,10). La portata
universale dell’azione di Gesù dipende quindi dal fatto che in Lui si è espresso il Dio
salvatore di tutti gli uomini. Per la sua fedeltà nell’accogliere la Parola divina è stato
reso «icona di Dio» (Col. 1,15); «principio
di salvezza eterna per tutti coloro che gli
obbediscono» (Eb. 5, 9).
La ragione di questa condizione sta nella
reale distinzione di natura tra Gesù, «uomo
accreditato da Dio per mezzo di miracoli,
prodigi e segni» (At. 2,22) e il Verbo o Parola eterna del Padre. Gesù è il nome della
creatura, di natura umana, nata in un determinato tempo e luogo, mentre il Verbo è
il nome del Figlio eterno di Dio, di natura
divina. Il Concilio di Calcedonia (451) ha
precisato che questa reale distinzione tra le
nature resta anche dopo l’incarnazione e la
risurrezione quando Gesù è «costituito Signore e Cristo» (At 2, 36). Il rapporto infatti, tra il Verbo eterno e Gesù si stabilisce
«senza mutazione e senza confusione»: Dio
resta Dio e l’uomo resta uomo.
La distinzione di natura tra Gesù e il Verbo
(che non è «separazione o divisione») consente ai cristiani di riconoscere da una parte, che, dopo l’avventura di Gesù, l’azione
salvifica di Dio nella storia umana coinvolge sempre la realtà di Cristo glorioso; ma
dall’altra i cristiani sanno riconoscere gli
altri spazi di azione della Parola eterna e
dello Spirito nel tempo e nello spazio e di
superare quindi l’esclusivismo salvifico delle
strutture sorte in riferimento a Gesù Cristo. Il fatto che dopo Cristo l’azione salvifica è segnata dalla sua fedeltà a Dio non richiede a coloro che vogliono accogliere
l’azione divina espliciti e consapevoli atti di
fede in Lui.
In questa luce la base comune delle religioni resta la fede in Dio che offre a tutti salvezza.
(continua)
Carlo Molari
dello stesso Autore
ROCCA 1 LUGLIO 2006
TEOLOGIA
dicare che nessuna forma storica di religione può avere la presunzione di contenere
tutte le ricchezze spirituali fiorite nella storia e che tutte le religioni sono chiamate a
relazionarsi per scambiarsi doni spirituali e
convergere verso traguardi comuni dove ciascuna, conservando e anzi, accentuando le
proprie caratteristiche, possa vivere in profonda comunione con le altre (Molari C.,
La fede cristiana in tensione tra lo specifico e
l’universale, introduzione a (ed. Hick-Knitter) L’unicità cristiana: un mito? Cittadella,
Assisi 1984 pp. 11-48 soprattutto pp. 37-40).
CREDENTI LAICAMENTE NEL MONDO
(vedi pag. 12)
53
Rosanna
Virgili
l’uva acerba
della giustizia
C
ertamente i profeti si occupano
di giustizia e diritto in maniera
speciale. Il loro continuo richiamare a questo compito dell’uomo
e di Israele, nasce da un aspetto
fondamentale del loro statuto,
che è quello di essere custodi della Torah,
tanto che il binomio mishpath/tsedaqah
(«diritto e giustizia») viene tradizionalmente chiamato: la Torah dei profeti. È una
sintesi, insomma, di tutta la Torah, cioè
della Sapienza divina.
Il contenuto di questa Sapienza, secondo
la declinazione dei testi profetici, è il seguente: Dio è il Giusto per eccellenza, non per
ragioni primariamente canoniche od etiche,
ma perché è sceso dal cielo a liberare dalla
schiavitù un popolo oppresso, poi si è legato a doppio filo con esso, gratuitamente,
senza nulla guadagnarci, semplicemente
perché lo amava (cf. Dt 7,8) A ragione di
ciò gli ha promesso una terra in usufrutto e
una secolare discendenza. A questo strano
tipo di giustizia, che si potrebbe meglio definire atto libero di amore, l’uomo risponde, a sua volta, con un atto libero di corrispondenza nell’amore: e questo è quanto
farà di lui un uomo «giusto». Ecco perché
giustizia significa fedeltà ad un legame, lealtà in una alleanza, da cui dipendono il
presente e il futuro, tutta la vita di Israele.
ce, mentre Israele è l’imputato. Si inscena
una specie di lite in famiglia - poiché Dio
si presenta in veste di padre o marito di
Israele, che è figlio o moglie – ma è un atto
che formalizza e rende pubblica una situazione oggettiva di violazione del diritto. Da
questi testi si evince chiaramente una distinzione fondamentale che è quella tra
giustizia e diritto. Le due istanze, anche se
inscindibili, non sono assolutamente uguali: mentre la giustizia – come è stato già
detto – è la fedeltà ad un legame di Alleanza, quindi sempre in movimento, in mutamento, in trasformazione; il diritto è una
sorta di testimonianza formale, di scrittura, di riprova della autentica volontà di un
popolo di anelare alla giustizia.
Per questo nei testi vedremo cambiare il
volto, la forma, le parole della giustizia,
nella sua tensione sempre anche critica di
poter allacciare il cielo con la terra e gli
uomini tra di loro; ma sempre verrà
riproposto un conseguente diritto che ne
renderà positiva l’anima. Capiterà col profeta Osea quando, ad una rinnovata giustizia di Dio, ricreata dopo il tradimento e
il perdono, ancora si dirà: «Ti farò mia sposa per sempre (...) nella giustizia e nel diritto» (Os. 2,21).
le pubbliche accuse dei profeti
Sul tema della giustizia si gioca gran parte
della pedagogia ed anche della poesia dei
profeti. Per ricordare al popolo l’urgenza
sempre attuale della stessa, essi inventano
splendide parabole. Si pensi a quella di
Ezechiele 16, dove Gerusalemme viene
paragonata ad una trovatella che il Signore, infine, porterà a nozze. Questo matrimonio, però sarà molto sfortunato a causa della defezione di lei.
Un’altra metafora bellissima, sempre su
questo tema, è quella raccontata da Isaia
5,1-7. Lì il Signore è un viticoltore avveduto e perito che aveva una vigna su un ferti-
ROCCA 1 LUGLIO 2006
Tra i tanti modi che la letteratura profetica
esprime per parlare di giustizia e diritto,
un genere risulta emblematico: quello giudiziario. Succede, infatti, che i più bei discorsi sulla giustizia, pronunciati dai profeti, siano formulati sotto le spoglie di una
procedura giudiziaria, in cui Israele viene
accusato dei crimini più gravi. Si tratta di
un tipo di testo che presenta elementi fissi
e stereotipi, definito «lite bilaterale» (ryb).
In questa specie di processo Dio si propone come parte lesa, ma anche come giudi54
«il mio amato aveva una vigna»
«ne farò un luogo spento»
Il processo contro la vigna si deve concludere con una condanna: non avendo dato
frutto, senza una ragionevole causa, essa
sarà bruciata, la sua siepe divelta, le sue
piante sterili date in pascolo agli animali
selvatici.
Lo stesso verdetto per Israele e Giuda che
sono la «vigna» del Signore: egli l’aveva
vangata con la sua Fedeltà, piantata del
vitigno rosso della Sua Parola in cui era
scritta la Vita come Giustizia e Diritto, ma
essa ha avvelenato quella Parola, snaturandone l’anima, abusandone per fare del diritto il luogo dell’arbitrio e della giustizia
l’occasione per legittimare la violenza e
l’assassinio.
Ecco perché: «Ne farò un luogo spento –
dice Isaia – non sarà più potata né sarchiata.
Non cresceranno in lei che spine e sterpi.
Ordine do alle nubi, la pioggia su di lei non
cadrà più» (v. 6, per la traduzione di G.
Cernetti). La morte ricadrà su di lei come
una nemesi immanente, come luce che si
spegne, come linfa che si sperde. La luce
della Parola che unisce – la Giustizia – la
linfa che articola ed edifica – il Diritto.
giustizia e diritto frutti della Sapienza
Nel poema della vigna Dio si presenta come
un lavoratore; similmente ad un contadino lo vediamo vangare, togliere i sassi,
piantare, costruire, scavare, tanto che potremmo immaginarlo perfino sudare. Nonostante tutto questo impegno, la vigna
non produce frutti. Allora chi ha speso tante energie si domanda come mai. È una
domanda che riveste un ruolo centrale nel
testo di Isaia, segno di un’ulteriore «ope-
rosità» di Dio, il quale non soltanto agisce
con le mani e con le braccia, ma anche riflette, si interroga, fa dei bilanci. Ci appare un Dio che, come un uomo saggio e intelligente, dopo una cattiva esperienza,
prima di puntare il dito sull’altro, interpella
se stesso, esaminando la possibilità di azioni ed eventuali, fatali, omissioni, magari
inconsciamente compiute.
Questo viticoltore ci è di grande esempio.
Capita anche a molti di noi di lavorare a vuoto, senza ottenere i risultati sperati. Nonostante la perizia e la passione impiegate. L’atteggiamento di Dio, in casi simili, ci deve
spingere alla emulazione: come Lui non si è
avvilito ed ha invece, avuto il coraggio di
andare a cercare dove avesse potuto sbagliare, così faremo anche noi. Una sana operazione di autocritica è la prima cosa cui ricorrere, dopo un fallimento. La seconda operazione sarà, poi, quella di prendere atto della
verità di ciò che è accaduto, quindi di decidere per dei provvedimenti.
Altre volte, capita, invece, che ci si comporti come la vigna di Israele. Di essere
sterili, di essere portatori di morte e non
di vita, intorno a noi. Di ubriacare gli altri
e anche noi stessi di un vino malato. Di far
avvizzire il frutto odoroso del colle dell’Amato. Di fronte a ciò dobbiamo avere il
coraggio di celebrare un giudizio netto,
chiaro e formale, come quello che gli stessi Israeliti pronunciarono su loro stessi.
Solo questa dovuta onesta potrà liberare
«l’ululato» di chi ha subito l’oppressione,
di chi si è visto espropriare il diritto. Questo sarà l’inizio di un futuro diverso, matrice di speranza.
Infine, il terzo tipo di esperienza, che qualcuno di noi potrebbe fare, è simile a quella
del profeta. Egli è lì ad esaltare la bellezza
di quella storia, sulle corde armoniose della sua voce e, allo stesso tempo a soffrire,
insieme al suo amato, per quanto gli è successo. Egli è lì come l’amico dello Sposo,
come colui che di quel tradimento e di quel
legame fallito si dà pena. Sarà lui a non risparmiare parole di condanna a chi ha trasformato il diritto in delitto, ma anche a
stupire ancora quando farà rifiorire quel
legame, riannodandolo, con parole nuove,
un domani, quando ancora il Signore dirà:
«La vigna deliziosa, cantate di lei!
Io, il Signore ne sono il guardiano»
(Is 27,2)
Anche la nostra voce sia davvero profetica,
sia questo flauto di speranza e per il destino della vigna ed anche per coloro che
l’hanno devastata.
ROCCA 1 LUGLIO 2006
LA VOCE DEL DISSENSO
le colle e non fece altro che vangarla, liberarla dai sassi e mettervi a dimora un
vitigno d.o.c.. Dopo avervi costruito anche
una torre e scavato nella pietra un tino,
non credette di far altro che rimanere ad
aspettare il tempo del raccolto. Ma questa
vigna, pur tanto curata ed amata, non fece
affatto uva buona, ma raspi fetidi e avvizziti. L’inatteso risultato mette in angustia
il cuore del contadino.
Allora decide di rendere pubblica la sua
situazione e chiama degli uomini affinché
giudichino fra lui e la sua vigna: «Perché
mentre aspettavo grappoli essa non ha fatto che raspi?». Ma a questa domanda il viticoltore non trova risposta, come Dio non
riesce a capire perché Gerusalemme trasformi il diritto in delitto e la giustizia in
grido di oppressi (cf. v. 7).
Rosanna Virgili
55
CONTROCORRENTE
CINEMA
S
pentecoste
ROCCA 1 LUGLIO 2006
Adriana
Zarri
56
n episodio. Un anno la solennità
di Pentecoste veniva a cadere lo
stesso giorno della festività di
santa Rita. Io camminavo verso
la chiesa per partecipare alla
messa festiva che sarebbe
stata più... festiva e solenne del solito per
via della celebrazione pentecostale. E, vedendo per strada tante persone con in
mano grandi mazzi di rose, mi rallegravo
di tanta devozione, peraltro ben giustificata per una delle feste più importanti dell’anno. Ma, in chiesa la mia allegrezza si
tramutò in tristezza, quando mi accorsi
che quelle rose non erano per lo Spirito
Santo ma per santa Rita: la cosiddetta santa degli impossibili, vale a dire più potente
di Dio. Perché, se impossibile è ciò che non
può essere fatto, nemmeno Dio può farlo.
Dio no, ma santa Rita sì.
Ho ricordato questo piccolo episodio per
dar conto della nostra approssimata religiosità. E ben altri episodi potrebbero venire annoverati per dimostrare che il nostro povero popolo cristiano (e non so fino
a che punto tale) sovente mette i santi davanti a Dio (basti ricordare le tante candele che illuminano l’immagine del santo (o
santa) preferito mentre l’Eucarestia se ne
sta al buio, disadorna, quasi dimenticata).
E questa dimenticanza si rivela, in modo
particolare, per quanto riguarda la terza
persona trinitaria. Del Padre infatti ci ricordiamo di più, non foss’altro che per la
dizione «Padreterno» che è quasi sinonimo di Dio, come se riassumesse in sé la tre
Persone. Del Figlio ci ricordiamo, in quanto incarnato in Gesù Cristo (se non fosse
disceso dal cielo in terra ce ne ricorderemo molto meno). Ma lo Spirito – che non
sembra potente come il Padre («Dio Padre
onnipotente» recita la liturgia) e che non
si è incarnato come il Figlio – resta in pe-
U
nombra. Teologicamente e storicamente
noto per via del Filioque, è quasi ignorato
dalla religiosità popolare che, della faccenda del Filioque, non sa nulla. (Pazienza.
Forse non è necessario che sappia tutto ma
che si ricordi che lo Spirito è la terza Persona di Dio, questo, sì, è necessario, anche
se non necessita nemmeno che sappia o
che ricordi l’ambiguità del termine Persona, riferita alla divina Trinità).
Per celebrare la Pentecoste e per parlare
dello Spirito forse basta ricordare la splendida sequenza che siamo chiamati a recitare (ma meglio sarebbe cantarla perché
anche la musica è assai bella) durante la
celebrazione eucaristica. Vi si legge (e lo
citiamo per intero per comodità di chi non
frequenti la chiesa e non abbia voglia di
andarselo a cercare): «consolatore perfetto, dolce ospite dell’anima, dolcissimo sollievo; riposo nella fatica, riparo nella calura, conforto nel pianto. Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido raddrizza ciò
che è deviato. Dona ai fedeli che confidano soltanto in te, i tuoi santi doni. Dona
virtù e premio, dona santa morte, dona
gioia eterna». L’abbiamo citato in italiano,
benché l’originale latino sia più bello; ma
la comprensibilità ha i suoi costi, e bisogna pur pagarli.
Il Paraclito è spirito di consolazione e di
unità.
La prima lettura della liturgia eucaristica
è presa dalla Genesi e narra il mito di Babele dove le lingue si divisero: è la faccia
oscura e negativa rispetto a quanto accade a Pentecoste, dove le varie lingue si resero a tutti comprensibili, pur rimanendo
nel loro idioma originario: probabilmente
un simbolo che dice come unità e pluralità possano stare insieme, come nella divina Trinità.
❑
ignor polpettone, venite avanti, non vi
peritate: voglio presentare anche voi ai miei
lettori»: così Pellegrino Artusi, nel suo «Manuale pratico per le famiglie» intitolato La Scienza in cucina e
l’Arte di mangiar bene introduce la ricetta del polpettone, partendo dal concetto che si tratti di un piatto
«modesto ed umile», tuttavia dichiarandogli «con
qualche parola detta in vostro favore, troverete qualcuno che vorrà assaggiarvi e che vi farà forse anche
buon viso».
Nelle espressioni gergali
del mondo dello spettacolo il termine «polpettone»
è da tempo sinonimo di un
impasto misto in cui immettere di tutto un po’ – più
con generosità che in un
ordine logico – per facilitarne il maggior gradimento
possibile: avventura, commedia, tragedia, amore,
morte, eccetera eccetera.
E c’è stato un tempo, anche nel cinema italiano, in
cui i polpettoni hanno avuto particolare fortuna.
Costando molto denaro, la
realizzazione di un polpettone ha necessità di una
campagna pubblicitaria
ampia e spesso spregiudicata e, come quasi sempre
succede, deve fingere di offrire un prodotto di qualità artistica. È curioso come
una grande produzione industriale – la questione va
oltre il film di oggi – non si
accontenti mai o quasi mai
di essere quello che è (e
non ci sarebbe nulla di
male), ma tenti di apparire... arte, nella quale via è
sempre o quasi sempre
perdente. Però è così. Ed è
dunque così anche per
questo Codice Da Vinci di
Ron Howard, sulla produzione del quale sono stati
spesi circa centocinquanta milioni di dollari: così
che non è difficile comprendere quale sia stato e
Artusi dixit
Il Codice Da Vinci
quale sia l’impegno pubblicitario, un impegno che
non indietreggia di fronte
a nulla, mescolando sacro
e profano, realtà storiche
e fantasie, puntando anche
sull’enorme successo del
romanzo d’origine. Leonardo (anche se «da Vinci», quindi toscano) è, con
la Gioconda, attrazione turistica parigina, francese; il
Festival del cinema di Cannes – mai restio di fronte
ai successi superficiali e
mondani – si è facilmente
offerto a ospitare in apertura il film. E non è certo
un caso che, in Italia, la
grancassa sia stata battuta soprattutto da una rivista che sembra essere di
informazione e di critica
cinematografica, ma che è
essenzialmente un veicolo
pubblicitario, pubblicato
per di più dal medesimo
editore che ha pubblicato
l’edizione italiana del libro
suddetto.
Ne Il Codice Da Vinci gli
ingredienti del polpettone
cinematografico ci sono
tutti, come da tempo non
accadeva. E, ovviamente,
sono aggiornati al digitale,
alla elettronica, agli effetti
speciali e virtuali visivi, sonori, di ripresa, di montaggio e così via. Aggiungiamo pure una edizione italiana, almeno nelle sale
pubbliche, con un so-
vrapporsi continuo – cólto
ma disordinato – di lingue
(inglese, spagnolo, francese, latino, italiano), utile
forse a stupire ma sicuramente esibizionistico e barocco.
Non occorre dunque parlare né di religione, né di
istituzioni e gerarchie,
bensì di cinema. Del resto
lo stesso Howard ha avuto occasione di dichiarare:
«il mio è solo un film, un
thriller, non un trattato di
teologia». Ed è proprio sul
piano del cinema che il
film è assai modesto, perfino, in qualche passaggio,
noioso, ripetitivo, addirittura ridicolo. È sul piano
narrativo che si va avanti
a balzelloni e che gli ingredienti sono affastellati e
confusi, rimessi continuamente in discussione, su
un filo conduttore, d’altronde, estremamente esile, dopo un avvio lungo e
spesso caotico che vorrebbe essere estremamente
schoccante. Viene chiamato in causa uno studioso di
simbologie, sul quale poi si
innesta una avventura giallo-poliziesca, fino a citare
il Cenacolo di Leonardo da
Vinci per discutere sulla
reale natura della figura
che vi è rappresentata alla
destra di Gesù. Qualora si
tratti, come sostiene il film
(sulla scia del libro) di una
figura femminile, libro e
film sostengono trattarsi
di Maria Maddalena «consorte» di Gesù, con discendenza perpetuatasi in via
femminile, in territorio di
Francia, fino al tempo delle Crociate. Il dipinto di
Leonardo dovrebbe quindi essere la conferma di
una teoria ben precedente... che però trascurerebbe un elemento non di secondo piano: e il dodicesimo apostolo?
Se la grande macchina industrial-pubblicitaria di
Hollywood non si fosse
impegnata a uno dei massimi livelli degli ultimi
tempi per lanciare il film,
si parlerebbe assai meno di
film-scandalo, la stessa
Chiesa di Roma non avrebbe probabilmente perso
tempo a discutere, e Il Codice Da Vinci sarebbe stato affrontato soltanto – e
giustamente – secondo la
sua prospettiva naturale,
quella di un comune spettacolo cinematografico. Si
è invece chiaramente contribuito a dar fiato alle
trombe della pubblicità che
non chiedono altro che di
essere alimentate da ulteriori clamori. Ancora una
volta si è caduti in un gioco che il cosiddetto «libero
mercato» alimenta con infinita spregiudicatezza.
Anche il Comune di Parigi,
attraverso la messa a disposizione dei locali e dei simboli del Louvre, ha incassato milioni di dollari e altri
ne incasserà, giovandosi –
se ce ne fosse bisogno – di
un ulteriore rilancio reclamistico.
Tom Hanks e Audrey Tautou sono due attori cinematografici (lui è – anche
qui – di gran lunga più bravo), e così Jean Reno, Paul
Bettany, Ian McKellen, Alfred Molina, e i loro nomi
non avrebbero assunto significati troppo superiori
alle loro stesse forze.
❑
57
ROCCA 1 LUGLIO 2006
Giacomo Gambetti
RF&TV
ARTE
Roberto Carusi
Renzo Salvi
Mariano Apa
Wrestling
La nevrosi quotidiana
ROCCA 1 LUGLIO 2006
I
l dialogo – comunque si
svolga – tra due personaggi è spesso una sorta di specchio capace di suscitare oppure placare vivaci contrasti. Così è nel teatro.
Vien da pensare a questa
modalità espressiva di
fronte al testo La porta,
scritto da Tommaso Urselli, che ne è anche interprete con Pino Polimeri (il fratello gemello) e Francesca
Perilli (la madre dei due).
La donna li ha abbandonati: quando non è dato sapere giacché i due – uomini fatti – sono abbigliati e
agiscono come bambini
piccoli. E, ad accentuare la
propria intollerabile specularità, registrano e riascoltano ossessivamente
reciproche domande: talora di straordinaria gravità,
talaltra di infantile banalità. In questi loro frammenti di perduta e ritrovata
umanità s’inserisce di
quando in quando la figura materna che racconta di
sé. Chiusa, inesorabilmente, la porta della stanza in
cui si svolge l’azione che
azione non è. Nella regìa –
ben cadenzata – di Antonia
Pingitore i riflettori s’accendono e si spengono su quella porta che ad ogni cambio di luci muta emblematicamente di posizione rispetto ai personaggi.
La coppia, di sapore beckettiano, si scompone e ricompone tra vezzeggiamenti e sbranamenti di
fronte all’ostacolo ricorrente che non consente loro
una vera comunicazione.
Nell’andamento drammaturgico (assimilabile a
quello di una sequenza cinematografica) si colgono
pennellate che richiamano
per un verso un mitico
Sud, per l’altro la perenne
infanzia del portatore di
58
handicap.
Analoga modalità teatrale
di analisi esistenziale, ma
sprizzante umorismo da
ogni battuta, è quella che
propone Woody Allen Cafè,
messo in scena dalla Compagnia stabile del milanese Teatro Filodrammatici.
Come il titolo dice, si tratta di un montaggio (nato
da un progetto drammaturgico di Emilio Russo)
del meglio della produzione di Allen. Esso accosta
una gamma di mille sfumature dei più stereotipati personsggi (la coppia,
l’amicizia, il lavoro) con la
concatenazione seriale
delle vignette di una strip
a fumetti. Le battute – tratte dal repertorio teatrale,
cinematografico, autobiografico dell’autore – ne
mantengono intatta, grazie alla lineare regìa di
Marco Balbi, l’asciutta
brevità e la fulminante secchezza. Alle quali ben
s’adegua il ritmo della recitazione sopra il rigo di
quattro bravi attori: Milvia
Marigliano, Stefania Pepe,
Gianni Quillico, Nicola
Stravalaci. Sicché si ride –
amaro – dei tic, dei blocchi, degli insoliti conflitti
interiori.
Nella scenografia volutamente scarna si introducono di quando in quando, a
sottolineare la multiforme
espressività di Woody Allen, da un lato spezzoni
sapientemente filmati in
bianco e nero, in cui altri
quattro attori parlano dello stesso Allen, dall’altro
gli altrettanto consoni intermezzi di un quartetto
jazz di qualità (pianoforte,
clarinetto, batteria e contrabbasso) che dialogano
tra loro ora facendo eco
l’uno all’altro, ora non
ascoltandosi neppure.
❑
U
na baraonda a suon
di botte e di tifo in
grandi palasport. Un
carnevale di abbigliamenti
e di corpi in mostra, gli uni
e gli altri sovente al di là dei
confini estremi del kitsch.
Un gran atteggiarsi ringhioso – bicipiti, posture, sputacchi ed urlacci: al pubblico piace così – prima e durante quel darsele «di santa
ragione» (che qui davvero è
un modo di dire) molto per
finta: quando i campioni/
attori si fan male davvero,
in genere, accade per sbaglio. Il Wrestling è una messa in scena che il gusto americano del Gran Circo sommato al rodeo ha costruito
come spettacolo-businnes e
di cui la televisione ha incrementato l’impatto, sia riproponendolo e moltiplicandolo attraverso gli schermi domestici (da noi è su
ItaliaUno, nella notte del
sabato, iniziando alle 23 circa), sia esaltandone scene e
situazioni all’interno delle
stesse grandi arene ululanti di pubblico, su megaschermi che ripropongono
scene specifiche, atti
«cruenti» e cattiverie tra
avversari, facendo ricorso a
ralenty e replay.
Su grandi e piccoli schermi passano, con ogni supporto dell’effettistica di
post-produzione video, tutte o quasi le forme della
lotta a due cumulatesi nella storia umana: percosse
di mano e di piede, spinte,
strappi, torcimenti, strette,
costrizioni… Ma anche randellate, martellate e sfasciamenti di sedie sull’avversario… Queste azioni,
come il contorno degli ingressi al palco-ring, con
fiammate e fumi ai portali,
portano al protagonismo
lottatori/cascatori corpulenti, con barbe vichinghe
o kilt scozzesi, costumi da
Capitan America o da pirata della Tortuga, capigliature e pelurie trecciolinate o
tenute alla Lawrence d’Ara-
bia, sino ad un Bokassalook (da supposto imperatore nero: con corona/
manto porpora/ermellino/
scettro/trono e… signora
d’accompagnamento).
Tra gli spettatori di quelle
riprese tv – made in Usa
anche quelle in onda da noi
– non mancano donne e
bambini; e anche tra gli
spettatori della trasmissione italiana, ad ora tarda, i
bambini da scuola elementare son molti. A loro, d’altro canto, sono dedicate linee di prodotto che hanno
fatto perno sull’importazione del Wrestling in Tv:
figurine dei protagonisti
con il dettaglio descrittivo
– peso, misure, costume,
abilità, «alleanze» – di ciascun lottatore; pupazzi in
plasticone, multisnodabili;
costumi carnevaleschi e,
come riproduzione di immagine, facce, sigle, scritte, riprodotte o attaccabili
su zaini, astucci, quaderni.
Sarebbe facile dire che per
questa via cortocircuitano
le due educazioni: quella
alla convivenza, scolastica,
e quella al gioco del massacro, da ring/&/show. Ma
sarebbe una imprecisione
perché non si dà un insediamento sociale del wrestling nell’età infantile
come cultura diffusa e
come affetto; piuttosto per
questo tramite, ora – ma
ricordiamo i Pokemon,
oggi demodè – si rinforzano e trovano modo di svilupparsi, tra i piccoli, comportamenti ipercinetici, di
irrequietudine e di forzata
baldanza, portati a rifare
modi di atteggiarsi e di relazionarsi tra pari, che
(poi) possono coagulare in
modelli di relazione generale, di società a quel punto, tributari del culto del
più forte e di gradimento
del cattivo.
A quel punto la situazione
dovrà far problema. Ma
pensandoci da oggi.
❑
MOSTRE
Giuliano Della Pergola
Trevi
N
ella continuità di un
coerente progetto
culturale, – ben testimoniato dalla rivista
della Galleria: «Work.Art
in Progress», benissimo diretta da Fabio Cavallucci –
la Galleria Civica di Arte
Contemporanea di Trento
afferma con «Il potere delle donne», – per la cura di
Luca Beatrice, Caroline
Bourgeois e Francesca Pasini –, la capacità di essere
protagonista di un dibattito sulla qualificazione della cultura della postavanguardia, tra Concettualismo e Body Art. In questo
dibattito convergono, in
questi mesi, oltre alla Galleria Civica di Trento, anche la vicina Venezia a
Palazzo Grassi – con la raccolta di François Pinault,
con i Mac Carthy e i Cattelan e gli Hirst e i numerosi
altri di: «Where are we
going» curata da Alison M.
Gingeras (catalogo Skira)
– la un po’ lontana Rivoli,
al Museo di Arte Contemporanea – «Concetto, Corpo, Sogno», a cura di Carolyn Christov-Bakargiev,
con gli artisti Lawrence
Weiner, Susan Hiller, Dan
Graham, Joseph Kosuth e
Joan Jonas – e, ancor più
lontana, la Berlino della
quarta Biennale d’Arte, –
per la cura di Cattelan,
Gioni e Subotnik, lungo la
Auguststrasse con la serie
infinita degli artisti benissimo documentati –. Ma la
lontananza geografica si
annulla al cospetto degli
argomenti che si esprimono. Si tratta infatti, da
Trento a Berlino, da Rivoli
a Venezia, di cogliere una
necessità sottintesa e sempre più dichiarata. Che,
ovvero, il decorativismo
del postconcettuale – fino
alle insincerità dei mutanti e delle protesi della post
Body Art – deve lasciar decantare un ritorno alle origini della elaborazione
concettuale (e le mostre di
Rivoli e Venezia aiutano in
questo senso) per affermare ancor nella militanza
della attualità – e qui le
mostre di Trento e Berlino
diventano assai significative – la radicalità dell’argomento artistico in quanto
argomento della radicalità
esistenziale.
Alla mostra del «Potere delle Donne» si affianca una
rassegna interessantissima
di documentazione da parte della Franklin Fornace
Archive, di New York, per
la cura di Martha Wilson.
Nella Galleria passano in
rassegna le storiche presenze di Valie Export (Linz,
1940) e Joan Jonas (New
York, 1936) e dunque la
Bee, Currin e Galliano,
Kern, Meyer, Helmut
Newton, Richardson, Rickett, Waters – le cui opere
sono presentate da Luca
Beatrice, insistendo sul
dato seduttivo ai bordi dell’edonismo e sul precipizio
del consumismo –; ed ecco
Francesca Pasini presentare le opere di Vanessa Beecroft, Di Maggio, Hesse,
Morgantin, Morcellin e
Pellegrini, Liliana Moro e
Nesht e Kiki Smith. La Pasini mette in evidenza il
valore etico della configurazione degli incontri nella realtà della globalizzazione, evidenzia con queste
opere il valore delle domande e degli ascolti tra
linguaggi e antropologie
che fanno piccolo e ricco
questo mondo. Infine Caroline Bourgeois mette in
mostra le opere di Birnbaum, Boudier, Galindo,
Klein, Messager, Rosler,
Trockel e le citate stoiche
presenze delle Export e Jonas; tentando di esprimere
il valore ideologico della
femminilità che si converte al femminismo come
tradizione di un impegno
politico nella pratica artistica.
❑
Stefano Levi Della Torre
L
à dove un tempo la
Richard Ginori aveva i suoi capannoni,
ora, diventato quel quartiere una delle molte aree dismesse urbane milanesi, è
cresciuto un nuovo polo culturale che ingloba la Galleria Corrispondenze. È qui
che espone Stefano Levi
Della Torre, pittore che appartiene ad un filone espressionista dal coté figurativo.
È una pittura, la sua, che
allude e stupisce per il realismo, ma allo stesso tempo
che non concede nulla al figurativismo. Siamo infatti
nell’ambito dell’interpretazione più che della fotografia. Anche nel caso del ritratto della madre Irma, il volto
è quello tratto da un pennello che pesca in un suo corredo tecnico e interpretativo facendo del soggetto apparente qualcosa di diverso
da quello reale. Ed è soprattutto nel comportamento di
certi animali, dipinti per lo
più in gruppo, che meglio
possiamo entrare nel merito della pittura di quest’artista. Successivi a certi quadri in cui Levi Della Torre dipingeva, nell’arca di Noè,
una zoologia pigiata e depressa, sospinta in massa
verso la morte (come gli
ebrei nei carri che li portavano verso i campi di sterminio) ora, queste galline
nel pollaio (Titanic, 199195), o le pecore che titubano tra il riparo ombroso dello stallo ed il prato esterno
illuminato dal sole (Soglia
2005), si direbbero tutti animali sofferenti di un dolore
intimo e sottaciuto, così privi di guida, così recalcitranti a vivere come a morire,
senza orientamento, senza
futuro. Questo è dunque il
vero soggetto della pittura di
Levi Della Torre: egli dipinge il senza, ohone. Si resta
stupiti di fronte ai suoi quadri perché egli ci addita sì un
soggetto, ma solo per parlarci d’altro: i suoi animali alludono ad una sofferenza
che aleggia senza nome,
anonima ma onnipresente,
senza volto eppure densamente frammista alla realtà fenomenica. Acciughe
morte e gettate per la salagione su una tela (Cassetta,
1998), alludono a quei tragici mucchi di ossa dei poveri cadaveri di Auschwitz.
Allora il mondo interiore del
pittore diventa la sua vera
tavolozza ed i colori gli strumenti per dipingere un
mondo morale intenso e
sofferente, indipendente dal
soggetto che appare poi sulla tela. Si dice che il pittore
altro non possa fare che
continuare a dipingere se
stesso, per alludere al fatto
che sempre esiste un’inevitabile relazione tra l’io che
vive quale nascosto abitatore nel corpo (il dasein, l’anima, lo spirito…), e l’io che ci
appare quando l’incontriamo. Certamente tale affermazione presenta una sua
verità, ma nel caso di Levi
Della Torre quest’imprescindibile processo pittorico risulta qualcosa di palpabile
e l’emozione che suscitano
i suoi dipinti deriva dal
mondo morale che egli sa
offrire, con discrezione ma
molto precisamente. Ecco
uno scheletro di pappagallo che predica (Il pappagallo, 2001), professore universitario che nulla ha da dire,
ad uccelli che fanno finta
d’ascoltare. Presenza assente, per una predica inutile.
Ecco due scimmie (Prigioniere 1999) che rifanno il
verso a chi le sta ad osservare, richiamando lo spettatore ad eco allusive sui progenitori, a quella sua zoologia che resta parte della sua
antropologia. Ecco dei sassi che parlano della terra,
ma fors’anche della luna
(Muro 1, 1996), perché non
il pianeta ma il cosmo intero è ciò che ci circonda, seppure le nostre cure più prossime siano rivolte a «quest’aiuola che ci fa tanto feroci». La mostra è stata curata da Veronica Pecorini,
con semplice ma intenso allestimento.
❑
59
ROCCA 1 LUGLIO 2006
TEATRO
SITI INTERNET
MUSICA
Alberto Pellegrino
ROCCA 1 LUGLIO 2006
L
60
(«Noi avevano un sogno/
che non era solo vivere/
giorno per giorno, ed era/
la gioia di dividerlo con gli
altri,/con le nostre compagne e compagni») e la poesia universale come liberazione dell’uomo. A questi versi fa da controcanto
Claudio Lolli con canzoni
che parlano di amori e di
ricordi (La fine del cinema
muto, Angoscia metropolitana, Anna di Francia) unite a canzoni di chiaro impegno politico come
L’amore ai tempi del fascismo ancora presente in
questa società consumistica e alienata, Canzone di
bassa lega su «un’Italia ristrutturata dalle banche»,
Primo maggio di festa,
Quelli lì (Compagno Gramsci), un individuo scomodo per i benpensanti e che
ebbe il buon gusto di togliersi di mezzo, morendo
di malattia in una galera
fascista. Una raccolta di
brani poetici e canzoni
non inediti, ma non per
questo meno validi, perché si rafforzano e si attualizzano dal loro concatenarsi, proprio perché,
come dice D’Elia, «la poesia deve stare dentro la
storia. Si tratta di un lavoro che trae la sua bellezza dal fatto che non nasconde interessi di discografici, ma «nasce dalla
spontaneità e dall’affetto,
– afferma Lolli – senza
strategie di marketing o
piani prefissati».
G
Digital generation
U
n colpo d’occhio sui
nostri contesti di vita
quotidiana poteva
darci già un’idea orientativa del fenomeno, ma ora
un’indagine commissionata
dall’Osservatorio Associazione Italiana Editori ci informa con dati e numeri
precisi: sta crescendo in Italia una vera e propria «Digital generation», costituita
da quel 91% di giovani e giovanissimi italiani, dai 10 ai
24 anni, che si dichiarano
utenti abituali di Internet e
delle tecnologie informatiche, impiegati sia per scopi
formativi che per finalità
ludiche e comunicative.
Studio e interazione sono i
due ambiti d’interesse della
stragrande maggioranza dei
giovani internauti. Tra chi
naviga in modo per lo più
abituale, l’87% usa la rete
tutti i giorni o quasi per reperire contenuti, mentre un
cospicuo 69% mostra di trovare grande interesse nella
pratica della comunicazione via Internet: un ragazzo
su quattro si dedica infatti,
almeno settimanalmente, a
chat e forum, al punto che
per molti la conversazione
via Internet risulta preferibile – e in realtà è già in gran
parte preferita – alla classica telefonata pomeridiana
con l’amico, complice anche il fatto che sono ormai
in circolazione programmi
gratuiti che permettono di
condividere voce e video a
costo zero e con risultati
tecnici di alta qualità (come
anche noi recentemente abbiamo segnalato, cfr. la nostra rubrica su Rocca 9/
2006). Un terzo del tempo
che gli studenti impiegano
per studiare e fare i compiti, inoltre, prevede l’utilizzo
del pc e di Internet, il cui impiego occupa mediamente il
28% delle ore complessive
dedicate allo studio individuale.
Interessante è quanto osserva Renato Mannheimer, curatore dell’indagine: «I gio-
vani non si percepiscono
come soggetti passivi del
mondo informatico, ma
come protagonisti attivi
della produzione dei contenuti da scambiare e condividere: partecipazione e
condivisione diventano le
nuove regole di utilizzo della rete». La riprova è data
dal rapporto che i giovani
hanno con i prodotti editoriali tradizionali e con le
nuove modalità tecniche di
condivisione. Ad esempio il
52% dei giovani italiani legge riviste e quotidiani tanto su Internet quanto in forma cartacea (il 27% lo fa
solo in modo tradizionale),
e sempre il 52% ascolta radio e musica nelle forme
tradizionali mentre il 29%
usa a questo scopo anche
le nuove tecnologie (il 53%
dei giovani possiede iPod o
lettore mp3); più alto il numero di quanti seguono la
Tv sullo schermo classico
(72%), anche se 1 giovane
su 5 dichiara di iniziare a
seguirla anche su Internet.
Quanto alla comunicazione, oltre a chat ed email,
prende sempre più piede tra
i giovani il blog, una sorta
di diario personale realizzato su Internet, e accessibile
a tutti, dove ciascuno inserisce le sue considerazioni,
foto e altri materiali audiovideo: è già a quota 9% il
numero dei ragazzi che affidano alla rete le proprie
fantasie, sogni, angustie
mediante il blog. Non meno
praticato il file sharing, ossia la condivisione gratuita
prevalentemente di musica
e film via Internet: il 42%
degli intervistati dichiara di
aver scaricato, senza pagarlo, nell’ultimo anno (2005),
almeno un brano musicale
o un film da Internet, con
buona pace del diritto d’autore...
Partecipazione e condivisione: se il buongiorno si
vede dal mattino, benvenuta in rete digital generation!
❑
Ferdinando Montuschi e
Gabriella Persico (a cura
di)
Scoprire la vita nella
Terza età
Gli anziani si raccontano
Ed. Cittadella, Assisi
2006, pp. 295
Di libri sulla «Terza età» ne
sono stati scritti parecchi.
Quasi tutti da parte di
«esperti» che propinavano le
loro precise indicazioni per
invecchiare bene.
Questo libro è diverso, è davvero originale perché a parlare della «Terza età» sono
coloro che attualmente la
sperimentano e la raccontano appunto, come recita il
sottotitolo. Infatti il libro
raccoglie circa venticinque
testimonianze di persone
che scrivono come dei miniromanzi autobiografici su
tutta o una parte della loro
vita. Non sono fantasie ma
storie di vita vissuta avvincenti: tengono inchiodato il
lettore allo scritto fino all’ultima pagina. Da tutti i racconti – qualcuno molto sofferto – emerge la modalità o
la strategia con cui le persone ce l’hanno fatta a superare le immancabili e imprevedibili prove, a ricominciare, a ideare nuovi progetti, a
fronteggiare continui cambiamenti e come sono approdate, fino a novanta anni,
a una vita attiva, serena, gioiosa, nonostante tutto.
L’ultima età della vita rimane un mistero per tutti.
In questi racconti ciascuna
persona rivela, più o meno
velatamente, il suo segreto,
la forza che l’ha spinta sempre avanti. Situazioni differenti a cui corrispondono soluzioni differenti. Il segreto
non è uguale per tutti, le
esperienze concrete non
sono esportabili perché dipendono da innumerevoli
fattori: personali e familiari, innanzitutto, ma anche
sociali, ambientali, ecc. Ma
il metodo di adattamento, di
riflessione, di superamento
della prova, di ricerca può
presentare elementi di validità per tutti.
Un cenno particolare merita la «premessa educativa» –
situata all’inizio del libro –
del prof. Ferdinando
Montuschi, che potrebbe essere molto opportunamente
letta da coloro che sono ancora negli anni della produttività, della visibilità sociale
e del successo. La riflessione su queste pagine potrebbe aiutare a elaborare progetti sempre nuovi, capaci di
rendere significativa anche
l’esistenza con minori forze
fisiche e mentali. Insomma
– dice Montuschi – si può
evitare di vivere nella terza
età una edizione “ridotta”
della propria esistenza.
Infine, non si può non riconoscere a Gabriella Persico
nel suo «Dialogando con gli
autori» una bella testimonianza di come vive lei – non
vedente e a 83 anni – la sua
vita attuale densa di impegni e di interessi.
Un bel libro, dunque, da leggere, rileggere, regalare. E
non solo alle persone della
terza età.
Maria Giovanna Galli
Augusto Cavadi
Strappare una generazione alla mafia
DG Editore, Trapani,
2005, pp. 191
Un libro contro i luoghi
comuni. Pregio principale
del volume di Augusto Cavadi, insegnante di filosofia
a Palermo e presidente del
comitato promotore dell’Università etica per la condivisione della conoscenza,
è proprio questo: sottrarsi
alla retorica sulla mafia e
tracciare, invece, i lineamenti base di una pedagogia alternativa, in grado di
strappare i più giovani alla
criminalità organizzata.
Meditato, pesato, talvolta
sofferto, il libro spiega gli
intrecci tra fenomeno mafioso e vissuto sociale, evita saggiamente la strada
repressiva legata all’uso della forza per imboccare la
via dell’educazione più profonda, intesa quale «riforma intellettuale e morale».
La sfida è avvincente e dimostra, soprattutto, come
il processo formativo sia in
grado di scardinare, a lungo termine, il blocco culturale che su cui si impianta
la mafia. Le pagine si susseguono in sei principali
sezioni, che interrogano e
chiamano in causa diversi
ambiti formativi (scuola,
chiesa, associazionismo),
fino a scavare nella stessa
mafia attraverso le parole
di testimoni che hanno
vissuto sulla propria pelle
l’appartenenza, diretta o
indiretta, a un clan.
L’autore non eccede mai ad
un ottimismo ingiustificato, ma coltiva pagina dopo
pagina una lucidità di analisi dell’approccio pedagogico proposto, che lo porta a scommettere sul futuro, sulla difficoltà stessa di
una vittoria culturale appesa a un filo, eppure possibile. Ed è la razionalità, in
questa scommessa, a tenere banco più dell’emotività e delle passioni. Scrive
infatti Cavadi: «Almeno
nella mia vita, la lezione
più efficace e duratura di
Costa, Chinnici, Falcone e
Borsellino è stata che ci
sono battaglie per le quali
il cuore non basta: ci vuole
anche cervello».
Pasquale Martinelli
Peter Antes
L’Islam. Una guida
Palomar, Bari 2006
pp. 176
Tradotto e curato da Leo
Lestingi, questo testo non
li dimostra, ma ha 26 anni,
almeno nel suo nucleo
fondamentale, poi rivisto,
integrato, ridiscusso da un
autore che associa rigore
scientifico e ‘passione culturale’. Antes, che possiamo definire «scienziato
delle religioni» oltre che
esperto islamista, mette a
fuoco la delicata e cruciale
questione di come viene
percepito l’Islam, tra generalizzazioni figlie di una
conoscenza (comoda e) superficiale e commistioni tra
rapporti con l’altro e paure
dell’altro. E allora l’obiettivo è approfondire e farlo
con urgenza – significativo
in tal senso il capitolo dedicato all’etica dell’Islam –,
al di là dei preconcetti, delle prevenzioni ideologiche
e delle facili associazioni
(Islam = fondamentalismo
= guerra = terrorismo…) che
l’opinione pubblica assorbe
troppo spesso per complicità dei mass media.
In realtà la maggioranza dei
musulmani non vive il Corano «come un libro dogmatico che offra spiegazioni
precise intorno a Dio e al
mondo: esso costituisce, soprattutto, una cornice di
orientamento» (p. 71). Nell’ambito di questo orientamento non è vero che non
vi sia spazio per la ricerca
personale, per i dubbi e le
ansie e le fragilità che si sente addosso ogni uomo e
dunque, naturalmente, anche l’uomo dell’Islam.
La proposta di Antes, allora, è quella di indagare – attraverso il confronto con la
laicità, la sottolineatura degli aspetti politici della religione, la rilettura e la rielaborazione di elementi della
tradizione (per esempio Platone e Zoroastro, pensiero
greco e pensiero persiano) e
degli antichi costumi arabi
preislamici – la soluzione in
chiave islamica, cioè la ricerca islamico-religiosa di
un’alternativa. Ma depurandola del vizio di ricaduta
nella logica oppositiva e arricchendola del portato di
evoluzioni storiche e trasformazioni culturali.
Giuseppe Moscati
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ROCCA 1 LUGLIO 2006
Giovanni Ruggeri
Canzone d’autore e poesia
a via del mare è un
disco che è stato
distribuito dall’Unità (per informazioni
www.liocorno.net) e che è
nato dall’incontro del poeta Gianni D’Elia con il
cantautore Claudio Lolli,
accompagnato dal chitarrista Paolo Capodacqua,
poesie e canzoni dense di
pensieri e cariche d’impegno secondo un’antica
tradizione della sinistra
che risale ad alcuni anni
fa quando grandi attori
riproponevano i versi
«politici» di Brecht, Quasimodo, Gianni Rodari,
dei poeti spagnoli repubblicani e le case discografiche pubblicavo canzoni
dalla forte carature politica. Gianni D’Elia, uno
dei maggiori esponenti
della poesia italiana divisa fra sentimenti e impegno politico, propone alcune sue composizioni
tratte dalle raccolte Sulla
riva dell’epoca (Einaudi,
2000) e Bassa stagione
(Einaudi, 2003), che parlano di sentimenti, della
bellezza della natura, di
ricordi familiari, dell’esistenza quotidiana, ma
anche delle lotte operaie
(la Benelli della sua Pesaro) e del neofascismo, di
Togliatti e Allende, di Tien
an men e la libertà, di
guerra e terrorismo, la
volontà di avvelenare il
mondo in nome del profitto, ma anche della politica petulante, noiosa e
«stolida» di Forza Italia e
del suo «padrone», a cui
si contrappone un sogno
antico da far rivivere
LIBRI
Kazakistan
ROCCA 1 LUGLIO 2006
S
tato dell’Asia centrale,
per superficie nono
nel mondo, il Kazakistan è delimitato a nord
dalla Russia, a est dalla
Cina, a sud da Kirghizistan,
Uzbekistan e Turkmenistan
e a ovest dal Mar Caspio. Il
popolo dei kazaki, costituitosi in seguito alla frammentazione dell’impero
mongolo, avvenuta subito
dopo la morte di Gengis
Khan, comparve per la prima volta verso la fine del
XIV secolo. Dopo essere
stati brutalmente sconfitti
dagli Oirat, un bellicoso
popolo mongolo dalle ambiziose mire espansionistiche, l’idea di autodeterminazione dei kazaki, che scaturì in seguito alla liberazione dei popoli dell’Asia centrale ad opera dei bolscevichi, venne infranta dalle frequenti e feroci repressioni
intraprese dai sovietici. Tuttavia, nel 1920, la regione
kazaka divenne una repubblica autonoma russa e a
partire dal 1936 entrò a far
parte dell’Unione Sovietica.
La linea politica che il governo centrale russo adottò in quella regione si incentrò su un intenso programma di industrializzazione,
sulla trasformazione della
steppa in una grande piantagione di cotone e sull’utilizzo delle zone meno popolate per le sperimentazioni nucleari e per la messa a
punto del programma spaziale. Con il crollo dell’Urss
nel 1991, il Kazakistan proclamò la propria indipendenza. Sempre nello stesso
anno, insieme ad altri undici stati che costituivano
l’Unione Sovietica, nacque
la Comunità degli Stati Indipendenti (Csi). Il primo
62
presidente eletto dal Parlamento della neonata Repubblica kazaka fu l’ex comunista, Nursultan Nazarbayev.
Nel 1992 il Paese entrò a far
parte delle Nazioni Unite.
Grazie ai risultati favorevoli
di due referendum, al presidente venne prolungato il
mandato e gli vennero assegnati nuovi poteri. Nel frattempo nel Paese le tensioni
interetniche continuavano a
creare subbuglio, soprattutto a causa della scelta del Parlamento di non accordare
alla lingua russa pari dignità
rispetto a quella kazaka e al
rifiuto di concedere alla popolazione russa la doppia cittadinanza. La risultante fu
che circa un milione di russi
lasciarono il Paese. Nel tentativo di attenuare le divisioni etniche e di contrastare le
tendenze secessionistiche
comparse a nord, la capitale
venne trasferita ad Astana.
Alla fine degli anni Novanta,
un nuovo periodo di turbolenza politica spinse Nazarbayev ad anticipare le elezioni presidenziali, che, svoltesi
in un clima di scarsissima
trasparenza, confermarono
con un ampia maggioranza
la carica del Presidente. Transparency International valuta
il Kazakistan come uno dei
paesi più corrotti del mondo.
Sono stati rivolti contro i
media indipendenti e l’opposizione soprusi quali l’arresto, il terrore, l’intimidazione e la censura. Nel 2000, rafforzati gli accordi di cooperazione con la Russia nel
campo della sicurezza, Nazarbayev ha avviato un dialogo con le vicine repubbliche per contrastare il traffico di droga e le attività terroristiche di ispirazione islamica.
Popolazione: la composizione etnica del Paese risulta
piuttosto anomala, dal momento che su una popolazione di poco superiore ai quindici milioni di abitanti, i kazaki, pur costituendo il gruppo etnico più cospicuo, rappresentano solo il 39% della
popolazione, seguiti dai russi (37,8%), tedeschi (5,8%),
ucraini (5,4%), uzbeki (2%)
e tatari (2%). Verso la prima
metà del XX secolo, la massiccia immigrazione russa
nella regione, finalizzata a
cancellare le divisioni etniche e tribali e a unificare la
popolazione centroasiatica
sotto l’insegna di Mosca, aveva notevolmente ridotto il
gruppo etnico kazako, che
solo di recente si è accresciuto grazie a un elevato tasso
di natalità.
Religione: la confessione
prevalente è quella musulmana di rito sunnita, ma
sono presenti anche numerosi ortodossi (circa il 40%
della popolazione), protestanti e cattolici. Nel febbraio 2005, per combattere il
terrorismo, è stata approvata una legge che limita in
modo grave la libertà religiosa, bandendo le associazioni religiose che infrangono
la legge della Repubblica.
Nel luglio 2005 l’Unione del
musulmani kazaki ha fondato il Comitato musulmano
per i diritti umani in Asia
centrale, finalizzata a proteggere i diritti civili senza
distinzione di nazionalità,
religione o appartenenza
politica.
Economia: dagli inizi del
XXI secolo, grazie alla scoperta di ingenti giacimenti di
petrolio nel Mar Caspio,
l’economia del Kazakistan
sta vivendo un periodo di
FRATERNITÀ
Nello Giostra
forte crescita economica. Il
vice ministro dell’economia
ha dichiarato che il Pil del
Paese potrebbe crescere annualmente dell’8,8% fino al
2009. Oltre al petrolio, il
Kazakistan è ricco di materie prime e di importanti
minerali quali lo zinco, il
manganese, l’uranio, l’oro e
l’argento. Per quanto riguarda il comparto industriale, i settori di maggior
rilievo sono quelli metallurgico, chimico, tessile e della raffinazione del petrolio.
L’inquinamento e l’attività
petrolifera, insieme agli
esperimenti nucleari effettuati negli anni Cinquanta,
hanno gravemente danneggiato l’ambiente, creando
nubi di polvere cha avvolgono numerose città.
Situazione politica e relazioni internazionali: il vento di rivoluzione che in
meno di un anno ha rovesciato i vecchi regimi in
quattro delle ex repubbliche
sovietiche, sembra non attecchire in Kazakistan. Nel
dicembre 2005 infatti, il
presidente Nazarbayev è
stato riconfermato per la
terza volta, malgrado l’Osce
abbia denunciato gravi brogli elettorali. Dopo gli attentati dell’11 Settembre 2001,
il Kazakistan si è schierato
decisamente con gli Stati
Uniti nella lotta contro il terrorismo islamico internazionale, nonostante i musulmani rappresentino quasi la metà della popolazione. Nel maggio 2006, il vicepresidente Usa, Dick Cheney, ha discusso con il Presidente kazako della possibilità di creare un via per
gas e petrolio che però non
passi per la Russia. Anche
le diplomazie cinese e indiana si stanno muovendo con
l’intento di stringere importanti accordi per la fornitura del petrolio kazako, dal
momento che la regione è
ormai diventata il centro
nevralgico per la sicurezza
energetica.
❑
Una famiglia normale
fino a cinque anni fa
Rispondo volentieri alla
vostra richiesta di informazioni riguardanti la famiglia di Luciano. Devo
ringraziarvi perché in questo modo ho potuto avvicinare nella persona di
Luciano un amico che mi
darà una mano per il progetto Oratorio 2006 che sto
cercando di avviare insieme alla Protezione Civile.
Lui ha tutto un trascorso
di uomo appassionato di
sport e in modo particolare di calcio e calcetto. Ha
formato tanti giovani allo
sport, allontanandoli da
pericoli vari, pur vivendo
del suo lavoro di muratore
e con l’impegno della famiglia composta dalla moglie
e due figli di 16 e 15 anni.
Era una famiglia normale,
non ricca, ma che riusciva
ad andare avanti con dignità fino a cinque anni fa
quando è iniziato il calvario della malattia della
moglie: tumore al seno. Ho
dato un’occhiata alle cartelle cliniche e ho preferito accludere solo due fotocopie in un solo foglio
dove potete vedere le terapie continue cui è sottoposta. Le spese sono tante!
Cara Fraternità, ci sono
periodi in cui sembra che
aumentino in maniera forte i casi a cui bisognerebbe far fronte e ci si ritrova
nell’impossibilità di farlo.
Diamo qualche cosa, ma
non basta... Qualsiasi offerta è utile. Vorrei non ricorrere ai vostri generosi amici, ma conoscendo la
loro grande comprensione
trovo il coraggio per scrivere. Grazie per tutto. Don
V.S.
Per fare il venditore ambulante
Vi chiedo scusa se oso nuovamente disurbarvi chiedendo aiuto per la famiglia
«Ogni volta che avete fatto qualcosa
a uno dei più piccoli di
questi miei fratelli
lo avete fatto a me» Matteo 25, 40
di Calogero che versa ancora in situazioni economiche molto disastrate,
aggravate dalla cagionevole salute della moglie. Un
anno fa, a proposito di
questa famiglia, ci è pervenuto dai Rocchigiani un
contributo economico e
un’offerta da parte di una
lettrice per l’acquisto di un
«Ape» che doveva servire a
lui per riprendere il lavoro
di venditore ambulante.
Non abbiamo dato seguito alla vostra proposta perché pensavamo di risolvere, anzi di aver risolto il
problema. Lo abbiamo
fronteggiato con responsabile attenzione, ma per una
serie di conseguenze non
prevedibili, è rimasto ancora insoluto. Purtroppo, a
causa di altri carichi pendenti che man mano si
sono conclusi, la misura
restrittiva attuata dalla
Giustizia nei confronti di
Calogero è stata maggiorata con gli arresti domiciliari, per cui sarebbe stato
inutile procedere con l’acquisto del mezzo. La
«pena» da scontare finirà
ora; si riprensenta quindi
il problema del lavoro.
Non siamo riusciti a trovare un datore di lavoro disponibile ad accoglierlo e
perciò resta da ripercorrere la strada di prima: acquistargli un «Ape» per riprendere il suo lavoro di
venditore ambulante. Il
costo di un seminuovo,
compreso il passaggio di
proprietà, è di euro
1600,00. Chissà che la lettrice di allora non sia ancora disposta ad aiutare
questa giovane famiglia
provata da tante avverse situazioni, ma che sogna e
conserva nel cuore tanta
voglia di integrarsi nella
comunità con onesta e laboriosa dignità. Hanno
due figli di 8 e 1 anno. Vi
ringrazio per avermi ascoltato e sono sicuro di un favorevole riscontro. Auguro
ogni bene dal Signora a
Fraternità e a tutti i lettori
di «Rocca». Don M.G.A.
Piena di stenti e privazioni
Nel mio apostolato e nel
mio costante e assiduo lavoro in campo missionario
per il bene dei poveri, degli ammalati e orfani indiani, il mio pensiero si rivolge a voi che con me cooperate e sostenete quanto sto
facendo per colui che soffre. Mi sento privilegiato
per questa mia vocazione
e mi sento felice quando
posso dare un aiuto a chi
si trova in miseria. Ho avuto due mesi di intenso apostolato nei 24 villaggi della missione. Ho visitato le
varie comunità entrando
in tutte le capanne, cosa
non facile, perché siamo in
alta montagna e lontane
una dall’altra. Quanta miseria, quanta povertà ho
visto! Ho toccato con
mano la dura e difficile vita
del villaggio, piena di stenti
e privazioni. Il nostro
pronto soccorso consiste
in un po’ di medicinali e un
sacco di riso... Così è la situazione della missione
alla periferia di Shillong.
In questo periodo aumentano molto gli ammalati di
malaria e di dissenteria.
Scrivo questo non per rattristarvi, ma per farvi conoscere la verità e capire
quanto sia necessario un
aiuto. Nel febbraio scorso
è iniziato l’anno scolastico
con 2160 alunni, 92 insegnanti e 18 scuole elemen-
tari. Bisogna lavorare intensamente per seguire
questo colossale apostolato per il bene dei bambini
poveri. Do volentieri il mio
sostegno perché vedo il futuro della tribù Khasi. Con
la parte materiale così disastrosa ne risente molto
anche la parte spirituale e
come pastore non posso
chiudere gli occhi... Padre
P.S.
***
La gara di generosità dei
nostri lettori ci commuove sempre. Riusciamo a
confortare alcuni tra i più
bisognosi e siamo felice.
Ecco come alcuni ringraziano:
... dal profondo del mio
essere vi dico «grazie» perché ancora una volta con
l’aiuto di 300 euro avete
voluto essere umani verso
mio fratello che davvero
ha tanto bisogno di aiuto.
Voglia il buon Dio coprirvi di ogni bene. Nella mia
pochezza ho solo la possibilità di pregare per «Fraternità». La vostra offerta
è stata una rugiada feconda in un mare di arsura!
S.R. A.T. «Da offerte libere»
... grazie per le vostre preghiere per la mia salute.
Ne ho veramente bisogno.
Se il cielo vorrà quest’anno avrò il trapianto di
rene. Grazie per l’aiuto di
500 euro perché potremo
adottare altri sedici bimbi e bimbe senza nessuno
al mondo in questa zona
del Cile. Ogni giorno nella mia S. Messa ricordo i
Rocchigiani e Fraternità.
Don S.T. «Mai si ama abbastanza
Si possono inviare offerte
con assegni bancari, vaglia
postali o tramite c.c.p. n.
10635068 intestato a «Fraternità» – Cittadella Cristiana – 06081 Assisi.
63
ROCCA 1 LUGLIO 2006
paesi
in primo
piano
Carlo Timio
rocca
schede
cittadella convegni
64° Corso internazionale di Studi cristiani
Cittadella di Assisi, 20-25 agosto
senza i sandali dell’identità?
“… non c’è giudeo né greco; né schiavo né libero; né uomo, o donna…” (Gal 3, 28-29)
Il Corso è proposto dalla Cittadella con la collaborazione della Comunità di Bose e dell’Editrice Queriniana
domenica 20
chi sono io? percorso in prosa e in versi tra identità di popoli e persone - a cura di
ore 21,15
Roberto CARUSI, regista; Carlo MATTI al pianoforte
lunedì 21
ore 9
ore 16,30
ore 21,15
martedì 22
ore 9
ore 16,30
esplorare l’identità
Eugenio BORGNA, psichiatra; Sergio GIVONE, filosofo
se l’identita’ cammina con la storia
Raniero LA VALLE, giornalista e scrittore
quando sei nato non puoi più nasconderti film di Marco Tullio GIORDANA
culture e religioni: il meticciato, una sfida ineludibile?
Nacera BENALI, giornalista algerina; Kossi KOMLA-EBRI, chirurgo togolese, scrittore
migrante; Rosino GIBELLINI, teologo – coordina Franca CICORIA, della Cittadella
crescere con le differenze incontro con Marco PIAZZA, maestro di musica classica
dell’India; intervista TV esclusiva a Raimòn PANIKKAR, indiano, filosofo delle religioni
a cura di Renzo SALVI, capo-progetto Rai Educational
mercoledì 23
nelle derive integraliste… vivere la laicità Corrado AUGIAS, scrittore; Giannino
ore 9
PIANA, teologo morale – coordina Catiuscia MARINI, sociologa, sindaco di Todi
ore 16,30
cos’è di Cesare? cos’è di Dio? Enzo BIANCHI, priore della Comunità monastica
ecumenica di Bose
chi non si mette la maschera?: Il ‘Miserere’ di Georges Rouault; presentazione di
Tony BERNARDINI, della Cittadella
ore 21,15
ri-trovarsi nell’Eucaristia – celebrazione presieduta da mons. Domenico SORRENTINO, vescovo di Assisi, Nocera, Gualdo Tadino
giovedì 24
ore 9
l’identità feriale Lilia SEBASTIANI, teologa
le identità negate interpellano la politica personalità del mondo politico
coordina Tonio DELL’OLIO, di ‘Libera International’
ore 17
“...chiunque io sia, tu mi conosci “ Rosanna VIRGILI, biblista
a piedi nudi… consegnarsi all’uomo, consegnarsi a Dio Enzo BIANCHI
ogni giorno ore 8,30 preghiera del mattino
informazioni - iscrizioni:
Cittadella Cristiana – sezione Convegni – via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG –
internet: ospitassisi.cittadella.org – tel. 075813231; fax 075812445 – e-mail: [email protected]