Carnevale Tradizioni

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Carnevale Tradizioni
IL FALO' DI CARNEVALE
Come esistono i dolci di Natale, di Pasqua, del giorno dei Morti (ossa ), di S.
Ilario (scarpette), esistono pure i dolci di Carnevale: chiacchiere "al ciac’ri", i
"canif", e i tortelli dolci con ripieni vari di marmellata <äd brugni> o
marmellata e amaretti. Per le chiacchiere come per tutti i piatti tipici esistono
varie ricette che ogni rezdora tiene gelosamente segreta in quanto patrimoni
dei saperi muliebri delle sue antenate. Ci sono massaie che nell’impasto
aggiungono un goccio di grappa, altre utilizzano il cognac, altre ancora il rhum
mentre le più padane ricorrono al tradizionale vino bianco. Fatto sta che il
giorno si Carnevale, specie un tempo, era un trionfo di fritti il cui aroma si
spargeva per tutta la città e per il contado fino a lambire le fiamme del grande
falò che alla sera si bruciava nelle aie per salutare <re Carnevale> e prepararsi
al periodo di Quaresima
I nostri nonni cominciavano a darsi da fare intorno al 17 di Gennaio:
Sant’Antonni dal gozèn (Sant’Antonio Abate). Questa, o giù di lì, era la data
canonica in cui iniziavano i preparativi per il grande falò di Carnevale.
Innanzitutto, veniva adocchiata una delle piante più lunghe e dritte che doveva
essere immolata per fornire la lunga pertica sulla quale cominciare ad
accatastare la <roba>, ossia il materiale combustibile: legna, fascine, vincigli, paglia, fieno, tarabaccole varie, seggiole spagliate, assi, panche.
Giorno dopo giorno, la pira aumentava di volume fintanto che scoccava l’ora di accenderla.
A dare il via ai roghi carnevaleschi (che avvenivano nella notte dell’ultimo giorno di Carnevale), in collina, era il sordo suono della lumèga, uno
strumento fatto in casa come la sfoglia che emetteva una sorta di muggito fendendo il silenzio della notte. Come per magia i falò venivano accesi
dovunque mentre borgate e paesi andavano a gara per allestire quello più gagliardo. Tutt’intorno era uno spettacolo insolito, singolare e affascinante
in quanto pareva di scorgere accampamenti di pastori o di guerrieri che baluginavano nelle tenebre. I nostri nonni bruciavano così il Carnevale,
ossia la Poiana e suo marito Carnevale. Lui, attore principale dell’agreste dramma nei panni di un fantoccio goffo e vestito di stracci. Lei, la
vecchiaccia, rappresentata con il naso adunco, i capelli stopposi e arruffati, il volto appuntito fatto di carta di giornale ed il corpo di paglia rivestita
di stracci neri.
Il rogo significava, nell’inconscio dei nostri nonni, l’addio senza rimpianti all’inverno che ormai stava languendo sul fuoco come la Poiana ed il suo
consorte. Mentre invece il bagliore delle fiamme voleva significare il benvenuto alla primavera che timidamente stava avanzando vestendo i campi
di tenere asprelle e i fossati di viole e primule. L’usanza del rogo carnevalesco in gergo bruzär al pajòn, per la nostra gente dei campi, aveva un
duplice significato: oltre essere un divertimento, rappresentava pure un ancestrale desiderio di purificazione e di rinnovamento.
Di tradizioni antichissime, addirittura celtiche, il rito della notte dei falò intendeva
propiziare la primavera, l’abbondanza di fiori e frutti e quindi l’uccisione con il fuoco
purificatore dell’inverno, delle tenebre, del male e della brutta stagione. Proseguendo
la tradizione dei falò dell’ultimo dell’anno e dell’Epifania, con quello del Carnevale, i
nostri vecchi, nel loro inconscio, intendevano aiutare il sole giovinetto nel suo lungo
cammino di crescita che, il 23 giugno (solstizio d’estate), lo avrebbe portato al suo
massimo splendore con la netta vittoria della luce sulle tenebre e cioè del bene sul
male.
Bruciare il Carnevale significava pure allontanare il malocchio, le stregature, mentre
sotto l’aspetto più strettamente religioso, significava chiudere il capitolo dei
divertimenti con la consapevolezza di entrare nel periodo quaresimale. Inoltre, dal
colore della cenere del falò di Carnevale, i nostri vecchi facevano pronostici. Infatti se
la cenere sèndra) fosse stata chiara, era auspicio di serenità e benessere; in caso
contrario, se fosse stata scura, era un pessimo presagio.
Allo stesso modo si interpretavano le fiamme e il vento della notte. Se le lingue di
fuoco erano vive e chiare, sarebbe stato di buon augurio per tutto l’anno, se invece il vento si tramutava in tramontana, allora, erano guai seri per la
stagione. Un brancòn (manciata) di cenere si spargeva sui campi con l’intento di scacciare gli insetti e i parassiti che potevano danneggiare il
raccolto. Allo stesso modo venivano incipriati di cenere anche l’orto e il pollaio considerato il capitale delle rezdora.
Anche la Chiesa, il giorno dopo Carnevale, distribuisce ai fedeli le ceneri ricordando loro la fragile e caduca condizione umana. Quando i falò erano
quasi spenti e, delle fiamme non restavano che alcune piccole e irrequiete scintille, usciva dalla catasta un’acre puzzo di bruciato che la brezza
birichina della primavera mescolava allo spavaldo profumo delle ultime frittelle e a quello molto più delicato e discreto delle prime viole.
Lorenzo Sartorio