l`avventura identitaria
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l`avventura identitaria
L’AVVENTURA IDENTITARIA di Coppo Piero C hiarisco subito le ragioni di questo testo e la posizione da cui parlo. Mi sembra importante che un gruppo di lavoro che si pone ai confini tra culture e discipline, e che ha alle spalle una storia come quella di ORISS1, prenda la parola su questioni che l’attualità ha strappato dai circoli degli studiosi e portato sulle prime pagine, soprattutto se tali questioni sono state fin dall’inizio al centro delle comuni riflessioni. Vorrei contribuire qui a questo aggiornamento che ritengo indispensabile. Non con l’intenzione di definire, ma con quella di discorrere: circolare dentro e attorno al tema, abitarlo, cercando di farne occasione di intelligenza e libero pensiero. Mi rendo conto che esistono sulla questione dell’identità umana, individuale e collettiva, intere biblioteche e che schiere di esperti l’hanno sviscerata in ogni modo e da ogni parte, sostenendo (poiché la questione dell’identità trabocca di significati, rinvii, e nessi con storie e ideologie diverse) tutto e il contrario di tutto. Lascerei ad altri, abitati più di me dalla passione dell’erudizione, il compito, certo utile a una storia delle discipline, di riassumere quella mole imponente di lavori; mettendone però in luce, per amor di scienza, i collegamenti con le appartenenze, le scelte di campo e di prospettiva, le opzioni politiche, esplicite o nascoste, dei vari Autori. Le peripezie, dentro l’Occidente, 1 Organizzazione Interdisciplinare Sviluppo e Salute, associazione senza scopo di lucro che si propone di lavorare sui “luoghi e lingue di confine tra antropologia, psicologia, medicina e psichiatria”. «I FOGLI DI ORISS», n. 17, 2002, pp. 35 - 58 35 COPPO PIERO di concetti quale identità, etnie, culture sono infatti strettamente connesse alle vicissitudini delle ideologie in voga. Vorrei rivendicare qui per me la posizione di non-esperto, e cioè di laico. Vorrei avvalermi in questo caso dell’ignoranza come di una virtù. Vorrei provare cioè a ragionare con la mia testa; parte di quell’insieme che sono io: maschio, anziano, medico e quindi di formazione biologica, psichiatra e quindi interessato alle espressioni squisitamente umane, italiano ma con lunghe esperienze in altrove a volte lontani. E vorrei provare ad accompagnare le mie riflessioni con le parole di un amico davvero altro rispetto alla cultura cui appartengo: un dogon del Mali, Apam Dolo, che ringrazio per aver consentito alla pubblicazione delle sue parole. Identità: insieme di caratteristiche che rendono qualcuno quello che è, distinguendolo da tutti gli altri; in psicologia, consapevolezza di sé in quanto individuo stabile nel tempo e differenziato dagli altri. Così recita il vocabolario della lingua italiana (Zanichelli, 2000). Il vocabolo deriva dal latino tardo identitate(m), da idem: “(proprio quello) stesso”. La carta di identità è un cartoncino plastificato che porta dati utili alla nostra identificazione: utili cioè a farci riconoscere (ri-conoscere: conoscere ora in quanto in continuità con quello che eravamo) e a evitare di essere scambiati (o di spacciarci con successo) per altri. Una foto, l’altezza in centimetri, il colore di occhi e capelli, eventuali segni particolari, data e luogo di nascita, indirizzo, nome e cognome. “Mi chiamo Piero”; in realtà non mi chiamo mai, gli altri mi chiamano e soprattutto mi hanno chiamato, in genere una volta per tutte: il nome proprio, parte così importante della nostra identità, è dato da coloro che ci hanno chiamati in questo mondo. Il cognome indica invece l’appartenenza a una famiglia, quella del padre o della madre; e, indietro, ci collega al lignaggio, agli avi. Ci individuiamo dunque all’incrocio tra la storia di un gruppo (la famiglia, il lignaggio) riassunta nel cognome e la nostra propria storia personale: foto, indirizzo, data e luogo di nascita. Poiché ciò che costruisce gli umani sono le relazioni, e in primis l’incontro (di materie, di intenzioni, di influenze) da cui nasce al mondo l’inedita combinazione che siamo, non può darsi umanizzazione solitaria: tra identità individuale e collettiva c’è continuità; non si 36 L’AVVENTURA IDENTITARIA dà l’una senza l’altra. L’individualità è composta dunque da prerogative squisitamente personali e da prerogative condivise con altri. Per questo è illuminante lo schema di Ibrahim Sow (1977), in cui la persona appare come nodo di intersezione tra tre rette: quella verticale del lignaggio; quella orizzontale della continuità con l’ambiente, umano e no, che è qui ora; quella longitudinale della nostra specifica peripezia esistenziale. E per questo ha ragione Jacques Camatte (1999), quando distingue “individuo”, funzione e risultato della ritenzione e della separazione, da “individualità”, che sottolinea la continuità tra persona e specie; della quale il singolo è caso, espressione, fenomeno, parola. “L’individualità è la manifestazione unitaria, particolare della comunità. Ma, più in profondità, è la manifestazione del flusso di vita che essa lascia passare in lei: ne diventa così un’espressione particolare. L’individuo vuole bloccare questo flusso, mantenerlo in sé per gonfiarsene e distinguersi, perché opera per confronti. Vuole essere un’escrescenza per essere riconosciuto. Ma il flusso della vita non può essere bloccato, e fa saltare le barriere. L’individuo constata allora che la permanenza alla quale voleva accedere crolla e che si rivela l’impermanenza. Da quel momento in poi ogni cosa è sofferenza per lui che, per essere, deve fissare tutto. Ogni individualità, che è percorsa dal flusso della vita, porta in sé la totalità della vita, ma ciò che sboccia in lei è uno dei possibili che costituirà la sua particolarità, la sua originalità. E ciò che essa si troverà a constatare negli altri, non è un’identità ma l’espressione di altri possibili, metamorfosi multiple dello stesso flusso di vita. Non c’è riconoscimento ma presa in conto dell’estrema diversità e, a partire da lì, assorbimento nei due sensi: assorbire tutte queste manifestazioni, assorbirsi in esse. (...) Nella constatazione della presenza di tutte le altre individualità, come in quella di tutte le forme della vita sulla terra o nel cosmo, c’è rivelazione di tutti i possibili” (Camatte 2000: 36-37). Decenni di dominio dell’ideologia individualista e di pratiche (oggetti, strumenti, modelli, urbanistiche, strategie di mercato) di separazione (tra individui e individui, individui e specie, specie e ambiente) non sono riusciti a compiere la mutazione antropologica necessaria a fare degli umani individui chiusi, atomi indipendenti, autosufficienti, equivalenti, interscambiabili, “liberi” da ogni sovra-determinazione (e, 37 COPPO PIERO quindi, a fare delle “culture” e delle “etnie”2 delle illusioni). E questo semplicemente perché tale mutazione è impossibile senza la soppressione reale della specie, e cioè la sua scomparsa in quanto tale. La carta di identità in tanto mi distingue dagli altri in quanto conferma una continuità che la pubblica amministrazione deve limitare. Domani, invece del cartoncino plastificato sarà la voce, l’iride o il palmo della mano: direttamente parti del corpo che, se individuano il singolo, portano in sé ancor più complesse tracce di storie comuni e di continuità. L’identità è dunque il prodotto di una storia, e, spesso, un progetto per il futuro. È un fermo immagine, un dettaglio nello scorrere del gioco dialettico che lega l’uno e gli altri. I pastori somali quando si incontrano al pozzo declinano i loro lignaggi fino a trovare l’antenato comune: solo allora abbeverano in pace gli animali. Fuori dalla consapevolezza e dalla ricerca della continuità, c’è solo opposizione e guerra. Contro l’identità si muove tutta una parte del pensiero dominante, coeso col processo di omogeneizzazione in corso e spaventato dal fantasma della guerra che l’affermazione delle identità collettive può suscitare (trascurando però il fatto che, nel presente, la principale macchina bellica è proprio quella dell’universalismo omologante). L’attacco, anche a opera di fini studiosi, si muove a volte da sconcertanti banalità; come per esempio la constatazione che l’identità individuale o dei gruppi non è una sorta di concrezione granitica, ma è fluida, in costante trasformazione. Solo l’adesione, più o meno consapevole, a opzioni teoriche, culturali e politiche, può spiegare la proclamazione di simili “scoperte” (non è di ieri l’affermazione che tutto scorre) al fine di invalidare il concetto di identità. 2 A scanso di equivoci, ribadisco qui l’accezione di etnia che ho scelto di adottare: gruppi umani negli specifici ambienti in cui evolvono o addirittura, con Ippocrate, singole parti del corpo, a sottolineare l’indispensabile connessione tra dimensione locale (appartenenza particolare) e globale (appartenenza alla Specie). Il fatto poi che ci sia chi, per proprio interesse, attribuisce a un gruppo umano o all’altro valori differenziali utili ai fini della legittimazione del dominio, non autorizza a negare l’esistenza di entità collettive specifiche, tra loro differenti; ma dovrebbe piuttosto spingere alla critica radicale delle relazioni di dominio. Ritenere poi che questa negazione possa essere una via per la “pace”, costituisce una scorciatoia di comodo, pericolosa e illusoria rispetto alla diritta via del lavorare per la coesistenza di diversità che sappiano gestire i conflitti, e rifiutino la guerra. 38 L’AVVENTURA IDENTITARIA È ovvio che le identità sono comunque e sempre, anche là dove le impronte sono materiali, e quindi dotate di maggiore inerzia, come nel corpo biologico, relative: non si è mai identici al momento prima o a quello dopo. L’identità immunitaria, per esempio, risulta dall’incessante dialogo tra i potenziali fabbricatori interni di anticorpi e gli eventuali materiali esogeni. I primi incontri sono col sangue e il latte della madre; poi col cibo e l’ambiente esterno. L’identità immunitaria in un soggetto sano si aggiorna continuamente, anche in vecchiaia. Mentre la marca genotipica riassume, in una combinazione originale, il lignaggio, l’identità immunitaria racconta soprattutto la storia della specificità individuale, definendola. Non è la sola: è risaputo che il fenotipo è solo in parte determinato dal genotipo e in parte invece da una storia anche casuale. Ricerche sulla morfologia delle circonvoluzioni cerebrali in gemelli omozigoti, per esempio, hanno messo in luce differenze significative nonostante la matrice genetica (almeno quella affidata al DNA) rigorosamente identica. Le neuroscienze hanno ampiamente dimostrato come le reti neuronali si costruiscano per soppressioni e rinforzi a partire da specifiche esperienze e abitudini, in limiti e tempi codificati dal programma genetico. Gli organismi umani (e in generale quelli viventi, animali e vegetali) risultano dunque dalla somma di patrimoni dati e storie individuali specifiche e sono strutture aperte dove la trasformazione è necessaria e continua. È lo stesso processo vitale, infatti, a poggiare sulla dialettica, vero e proprio lavorìo incessante, tra difesa della continuità e trasformazione continua. Se è possibile parlare di identità, è solo perché è possibile ri-conoscere, in ciò che un organismo è in un dato momento, un punto di una linea, un episodio di una storia; che continua in un progetto per il futuro. Ciò che è specifico, squisitamente individuale, è dunque un processo, una via; l’esistente (quello specifico esistente umano che c’è qui ed ora) è il rappresentante, la sintesi di quella storia, ove peripezia biografica e collettiva si confondono. Ciascuno di noi è dunque in ogni momento espressione di un divenire individuale e collettivo dove necessità, caso, libertà (intesa come possibilità di scelte consapevoli) concorrono a disegnare un destino che cogliamo forse per intero solo nell’eternità dell’istante che sta tra vita e morte. Viene utile qui il concetto junghiano di “individuazione” che 39 COPPO PIERO sottolinea della peripezia umana la dimensione di processo e di destino (compimento di una potenzialità); concetto da temperare, tuttavia, nelle sue valenze intra-psicologiche e metafisiche, sottolineando le variabili extra-psicologiche, le determinanti storiche e il margine di scelta che è dato agli umani. Si usa dire che la specificità dell’Homo Sapiens sia quella di poter dire “no”; e cioè che in questa specie animale, grazie a un sapiente e complicatissimo gioco di sistemi facilitatori e inibitori, alberga un gradiente di scelta del tutto originale, inesistente altrove. L’uomo, insomma, sarebbe in parte il fabbricatore più o meno consapevole di sé stesso. È vero, anche se questo margine mi appare sempre più ristretto: si tratta in ogni caso di scelte tra alternative sempre limitate (fino all’estremo della scelta tra merci equivalenti) e che comunque solo una serie di circostanze indipendenti da chi è chiamato a scegliere rendono possibili. Il sogno grandioso dell’uomo che si auto-costruisce; o l’ideologia religiosa che enfatizza il libero arbitrio individuale solo per occultare responsabilità sovra-individuali; o quella liberal-commerciale che trova negli umani atomizzati il materiale ideale per le correnti catene di produzione-consumo dicono evidentemente il falso. Gli umani sono prodotti innanzitutto da altri umani e dalla loro storia; e, poi, dall’ambiente in cui si trovano a evolvere. Tuttavia, altrettanto falsificante è l’idea che gli umani, gruppi o individui, siano prigionieri del loro passato, delle loro origini e appartenenze; falsificante perché c’è quasi sempre un margine di scelta e nocivo, perché contribuisce a chiuderli dentro davvero in quel passato, vanificando quella già limitata possibilità di libertà e auto-costruzione che è implicita nel presente. È dunque evidente che sostenere solo la sovra-determinazione o solo la libertà di auto-determinazione individuale senza mettere immediatamente in luce le continuità tra individuo, specie e ambiente e la complessità delle relative dialettiche equivale a adottare delle opzioni ideologiche più che a descrivere dinamiche reali. Inoltre, l’accento prevalente sull’uno o l’altro dei poli del movimento (sovra-determinazione o auto-determinazione) ha effetti diversi a seconda dei contesti. Là dove il processo individuale è fortemente impedito può servire appoggiare le dinamiche di auto-determinazione, compatibilmente con i 40 L’AVVENTURA IDENTITARIA tempi degli individui e del gruppo; viceversa, in contesti dominati da processi e autorappresentazioni individualiste, che tendono a rendere inconsapevoli, inacessibili, e quindi non lavorabili le appartenenze e le continuità, può essere utile appoggiare sulle forze sovra-determinanti. In ORISS abbiamo a lungo, in contrasto col riduzionismo materialista e con la concezione dell’uomo-nel-mondo diffusa dalle agenzie della cultura dominante, sostenuto la complessificazione delle dimensioni costituenti l’esistente, la specificità e le differenze umane, la realtà delle appartenenze costitutive a gruppi, etnie, culture. Ma ecco che questa posizione, che ha aperto alla conoscenza e all’esperienza aree fino ad oggi occultate e rese impraticabili dall’ideologia corrente, rischia di trasformarsi in una trappola se non viene ulteriormente lavorata e approfondita. Nel Settembre 2001 mi è capitato di partecipare a un seminario multi-disciplinare sull’ibridazione organizzato da ORISS: vi partecipavano filosofi, sociologi, antropologi, psichiatri, psicologi, medici. A New York, le torri del World Trade Center si erano già dissolte in nuvole di polvere e fumo e in montagne di detriti, seppellendo alcune migliaia di umani; a Genova la reazione dello Stato alla protesta contro l’organizzazione mondiale del dominio totale del Capitale (la faccia oppressiva della “globalizzazione”) aveva già mostrato, anche a chi si ostinava a negarle o le aveva dimenticate, la violenza totalitaria che anima la “pace” delle “democrazie” contemporanee e la facilità con la quale si possono, in Occidente, revocare quei Diritti Umani imposti perfino con la guerra al resto del mondo come Legge imprescindibile, premessa per profittevoli commerci. Se il seminario sull’ibridazione culturale aveva già, nel contesto ordinario di ORISS, poche possibilità di svolgersi in tranquilla discussione accademica, lo sfondo incandescente del momento ha reso questa ipotesi semplicemente impossibile. Ambedue i fatti citati, infatti, portano con sé quella carica traumatica eccezionale che compare raramente, ma sempre più frequentemente, nella storia dell’Occidente e dell’Italia: capace di ri-allineare e ri-orientare ideologie e coscienze individuali e di gruppo. Cercando tra precedenti di pari efficacia, la mente corre naturalmente, per l’Italia, a Piazza Fontana e alla guerra in Kossovo: 41 COPPO PIERO due eventi potenti, che ridisegnarono posizioni e alleanze, aprirono drammatiche linee di frattura là dove, fino a quel momento, complicità erano apparse come coerenze, e confusioni collusive (per amor di pace o interesse…) come chiari, condivisi assunti teorici. Come sempre accade, il fuoco della storia dissolve le ideologie e ne mette in luce il nucleo difensivo, generato dalla paura. Nel corso del seminario sono emerse nebulose affermazioni sul nucleo fondamentale, irriducibile dell’identità culturale di ciascuno; e con l’enunciazione velata del corollario conseguente della guerra come confronto, addirittura necessario, tra identità irriducibili3 e dell’altrettanto necessario arruolamento di ciascuno da una parte o dall’altra. Tali allusioni e affermazioni hanno suscitato animate reazioni di segno contrario; posizioni tutte che mi hanno spinto fuori, a proporre una diserzione che fosse insieme il rendere deserto il teatro di quella guerra (tra opposti fittizi) e l’abbandonare attivamente sia le ideologie che la sostengono e la giustificano che le semplificazioni del pacifismo corrente. Tuttavia: cosa significa nell’area dello specifico interesse di ORISS, disertare le ideologie che sostengono insieme la “pace” corrente e la stato di guerra attuale? Un gruppo di etno-socio-antropo-psicologi e di psichiatri non può restare oggi intrappolato, come mi è sembrato il gruppo di ORISS, tra l’affermazione dell’esistenza di un nucleo identitario costitutivo immodificabile (e anche, in definitiva, indicibile: con relativi ammiccamenti tradizionalisti, tenebrosi ed esoterici) e l’adesione acritica all’ideologia dominante, che vorrebbe gli umani e i loro gruppi interscambiabili e equivalenti come moneta. Trovo straordinario che per degli studiosi quello dell’identità (individuale e collettiva) possa ancora porsi come problema. Capisco che possa esserlo per i propugnatori dell’universalismo totalitario, per commessi viaggiatori in cerca di popoli omologati, pronti a consumare merci e spettacoli di massa, o per nostalgici appassionati di fisse monarchie o di appartenenze di suolo e di sangue. Ma 3 Posizione estrema che appare anche tra le righe di qualche contributo francese nell’area etnopsichiatrica. Per esempio: “[la] guerra implica prima di tutto riconoscere l’altro in quanto uguale; ecco perché porta in germe la possibilità della pace” (Stengers 2001: 9) A proposito dell’inattualità di tali posizioni, si veda in Pezzella M., infra. 42 L’AVVENTURA IDENTITARIA per degli scienziati! Come se decenni di ricerche e descrizioni dei processi storici e culturali che costruiscono le persone si fossero improvvisamente resi evanescenti. A costo di ripetere ovvietà, provo a fissare alcune considerazioni. Come ho già scritto, considero la “cultura” come la somma dei prodotti, materiali e immateriali, derivanti dall’incontro di un gruppo umano dato con l’ambiente (o gli ambienti) in cui evolve. Questi prodotti si accumulano, si sedimentano, e costituiscono a loro volta un ambiente in parte materiale (oggetti, habitat, strumenti, ecc.) e in parte immateriale (lingua, memorie, sistemi matrimoniali e religiosi, modalità di allevamento, strategie di sopravvivenza, ecc.) in cui “discende” ogni neo-nato. Le condizioni ambientali, il tipo di cure parentali, i principali partner nel lungo periodo di gestazione extra-uterina “inizializzano” l’infante, predisponendolo all’apprendimento e condivisione dei sistemi culturali complessi che finiranno per costituirlo in essere umano specifico. Le culture (che, altra banalità di base, sono organismi in perenne trasformazione) sono dunque attive, producono i loro membri, sono dotate di intenzione. A loro volta poi gli individui agiscono sulle culture cui partecipano, trasformandole di quel tanto o quel poco consentito dall’elastico della storia. Distinguerei in-culturazione da ac-culturazione. In-culturazione è la prima iscrizione in una cultura, è il procedimento che umanizza il neonato. Come ciò avvenga è in grandi linee noto; in generale, si tratta di un processo comune a tutte le culture. Vista l’importanza della gestazione extra-uterina per la specie, grande peso ha sempre la relazione con la madre o chi per essa (nelle sue diverse modalità: non ovunque prevale, per esempio, l’azione strutturante della relazione faccia a faccia) e l’accesso alla lingua. Man mano, però, gli ambienti si differenziano e così le culture, producendo persone diverse. Dopo l’in-culturazione, che ha conseguenze strutturanti profonde soprattutto se avviene in un ambiente fortemente caratterizzato e se dura a sufficienza per occupare le diverse finestre che nel processo evolutivo marcano i passaggi chiave dell’impianto affettivo e cognitivo della persona (tra l’altro, confermando o “potando” specifici circuiti neuronali), possono esserci diverse e multiple acculturazioni a culture 43 COPPO PIERO diverse. Mentre, perché la persona sia completamente umanizzata, è necessaria e sufficiente l’in-culturazione, le acculturazioni intervengono come optional, possono aver luogo o meno. L’in-culturazione invece è conditio sine qua non perché si dia umanizzazione, come insegnano le storie dei bambini lupo (mostrando addirittura come l’assenza di in-culturazione renda improbabile la sopravvivenza dell’organismo biologico umano; e cioè dimostrando che l’umano ridotto alla sua biologia smette semplicemente di sussistere come vivente). Quando le mobilità individuali erano infinitamente più limitate e i mezzi di comunicazione di massa inesistenti, la grande maggioranza degli umani era raggruppabile in culture distinte, essendo essi prevalentemente in-culturati e raramente acculturati a ulteriori culture, essendo cioè poco ibridati culturalmente; oggi la regola tende a invertirsi. Allora, la trasformazione delle culture era affidata soprattutto ai suoi processi di perfezionamento e adattamento interni, e in parte ai contatti, più o meno radi e filtrati in tempi ordinari, catastrofici e violenti in momenti di crisi, con altre culture. Oggi, avviene il contrario. L’identità culturale sia individuale che collettiva segue dunque dei percorsi del tutto analoghi a quella biologica. Si costruisce a partire da una base data, per incontri e per storie. Non diviene mai comunque una sostanza ontologica immodificabile e inaccessibile. È il risultato di sovrapposizioni, di aggiunte su un processo originario che può essere stato più o meno coerente, più o meno caratterizzato. È talmente legata alla storia di ciascuno, da poter essere condivisa davvero solo da chi ha vissuto la stessa storia; e anche in questo caso non è mai identica, ma solo simile secondo raggruppamenti a omogeneità, ai loro bordi, sempre più sfumata. È costituita in parte (almeno per ciò che riguarda l’inculturazione) di una storia capitata; in parte, soprattutto per le acculturazioni, di incontri imposti, scelti o cercati. Se l’impronta dell’in-culturazione è la più profonda, “io” e “noi” si riferiscono però al risultato di un processo ben più complesso, dove per strati successivi si deposita nel tempo, per scelta e necessità, la specificità della persona. “Noi” è un gruppo con cui spartiamo una parte della nostra storia e del nostro senso, quella pertinente in questo momento. Per me ad esempio, mentre lavoro a questo testo, il primo “noi”, quello che mi viene spontaneo, si riferisce a un gruppo con cui ho condiviso 44 L’AVVENTURA IDENTITARIA frammenti di storia e lignaggi virtuali; e col quale nel presente condivido soprattutto un progetto, e lo sforzo per realizzarlo. In altri momenti, il noi che mi emerge dentro ha altre configurazioni. In ogni momento c’è per tutti un “noi” dominante, che orienta azioni e intenzioni. Ma possono esservene proprio nello stesso momento altri, tra loro embricati, più o meno attuali e sfumati, più o meno attivi e vincolanti (la famiglia o la ditta: il noi del sangue o degli interessi comuni; l’etnia: il noi della lingua e del territorio; il noi del colore della pelle; il noi del mestiere o della casta; il noi dello Stato-nazione; ecc. ecc.). Lo sforzo della specie, in continuità con quello che la porta a emanciparsi dalla servitù rispetto alla nicchia ecologica, è qui quello di emanciparsi da un “io” e un “noi” dati, sottratti del tutto al libero arbitrio. Nessuna elemento accertato dunque, che venga dalle discipline biologiche o da quelle umanistiche, mi permette oggi di affermare la necessità, per gli umani, di un nucleo identitario blindato, immutabile (che può tuttavia esistere in quanto intenzione o progetto in personalità o gruppi particolari). Questa constatazione non mi porta però a vanificare differenze e specificità culturali e di conseguenza a ignorare le dinamiche spesso violente di deculturazione e di acculturazione obbligata, o i processi di ibridazione imposti senza alcun rispetto per le scelte e i tempi degli organismi, individuali e collettivi, coinvolti. Parlare quindi di un’identità culturale (in quanto identità collettiva) come di un dato ontologico, impermeabile, irriducibile, metastorico4 di cui il singolo sarebbe un passivo, spesso inconsapevole rappresentante, mi appare un’opzione ideologica e metafisica; o anche la proiezione di un dato caratterologico o etnico, di un progetto o di un desiderio particolari. La struttura della persona, che si manifesta nelle modalità dominanti dei suoi stili relazionali, è ovviamente marcata dalle caratteristiche della cultura cui è stata in-culturata nei momenti sensibili della sua formazione. Per quanto forte sia questa impronta, essa è però complessifi4 Il ricorso al mito del nucleo identitario culturale irriducibile e immodificabile, metastorico appunto, potrebbe essere un caso di quella destorificazione che E. de Martino cita come una difesa nella crisi che “getta nel mondo” il soggetto, ormai incapace di porsi come tale; situazione che ben corrisponde alla maggioranza degli umani nell’attuale passaggio storico. Circa il mito dell’identità come nucleo metastorico, si veda, per esempio, de Martino, 1995: 54 e 58-61. 45 COPPO PIERO cata dagli avvenimenti successivi. E anche l’impronta originaria, in quanto prodotto di un processo storico, può essere modificata da altri processi storici purché altrettanto incisivi (tipicamente, traumi pilotati che riproducano caratteristiche e configurazioni relazionali che furono dell’in-culturazione primitiva, come le situazioni a transfert potente: per esempio psicoanalisi, torture, affiliazioni e iniziazioni). Trovo significativo a questo proposito che un Autore, conosciuto volgarmente come apologeta delle identità etniche blindate, ontologicamente costitutive e irrinunciabili, sia invece uno dei pochi etnopsicologi a tentare di cogliere i processi storici, anche traumatici, di costituzione e trasformazione della persona (e, in particolare, la descrizione delle tecniche che impediscono la concrezione compatta della persona, mantenendola fluida e aperta) per poi farne materiale di lavoro. Per impedirne la sclerosi del vivente in forme immobili, per esempio (sta riferendosi a una cultura del Benin), i gruppi umani (le culture) procedono a intervalli regolari a azioni di frattura e di fissazione. “L’idea è dunque sempre di impedire che l’agglomerato di elementi eterocliti (che è la persona, NdT) si sclerotizzi (e diventi dunque insignificante). La molteplicità è sempre buona, sempre promettente, sempre gravida di un avvenire creativo a condizione che essa sia in perpetuo movimento; che vi sia sempre una possibilità di separarne i componenti. L’esempio più significativo in proposito è il trattamento del cranio. Il cranio di un neonato è composto da una ventina d’ossa non ancora del tutto saldate, e alla sommità porta un’apertura: la fontanella. Lo si considera dunque come “aperto”; e cioè suscettibile (…) di evoluzione favorevole. Alla nascita, il neonato sarà rasato; poi si scarificherà la sommità del cranio a livello della fontanella per introdurre delle sostanze. Più tardi, in occasione della prima iniziazione, che sopravviene in generale all’adolescenza, si dirà che si “rompe la testa” del giovane. Nella realtà non gli si frattura il cranio, no, ci si accontenta di scarificarlo di nuovo per introdurvi ancora delle sostanze – polveri, scorze, liquidi. Ma lo si sottomette anche a varie prove, spesso paradossali; è indubbiamente l’azione nel suo insieme che merita di essere chiamata “rompere la testa”. Rompere la testa dell’iniziando significa in realtà che si opera una disarticolazione del conglomerato al quale l’esistenza lo ha di necessità portato. L’iniziazione è dunque l’atto “culturale” per eccellenza, quello 46 L’AVVENTURA IDENTITARIA grazie al quale si fa resistenza nei confronti della “natura” che conduce ogni essere, per necessità costituito di moltitudini, a consolidarsi in conglomerato. Tuttavia, affinché l’essere in iniziazione, e cioè momentaneamente disarticolato, non si sparpagli, perdendo così ogni speranza di trovare un giorno la densità (si dice in Benin: di “essere pesante”) lo si fissa durante la sua iniziazione. Lo si fissa a degli esseri la cui densità e unicità sono già conosciute e verificate; le divinità, i vodun.” (Nathan 2001: 164-165). E siccome l’operazione di fissazione può essere ripetuta durante la vita della persona e può rivolgersi a supporti diversi, così come possono essere ripetute le operazioni traumatiche di apertura, (trauma: nel greco classico: perforare, forare, lacerare), ecco che la persona può realizzarsi come divenire-testo, o divenire-cosa (Nathan: op. cit) grazie all’azione del gruppo di cui fa parte; e sfugge così alla “naturale” rigidità, alla solidificazione definitiva in conglomerati che è morte in vita (la morte reale essendo invece la definitiva dissoluzione del conglomerato nelle sue varie componenti). Occorre sottolineare che questo tipo di processi non ha altro luogo del gruppo; la persona, sola, non può niente. Se dunque sono i gruppi degli umani a produrre i singoli umani, essi possono di conseguenza anche trasformarli, se dispongono delle tecniche appropriate; e raggiungere, in casi estremi, perfino il cuore che li costituisce in quanto esseri umani specifici. Credo dunque che la resistenza rispetto ai processi di de-culturazione di massa in corso (che sono in realtà acculturazioni occulte di massa) abbia oggi tutto l’interesse a smarcarsi rispetto a posizioni che la portano nella via senza uscita del ritorno a identità fisse e arcaiche, a “tradizioni” falsificata dall’ideologia conservatrice. D’altra parte, l’apologia delle identità molli, o addirittura inesistenti5, e l’affermazione dell’inconsistenza delle etnie (che sarebbero fabbricate dall’esterno, dai colonizzatori e dagli etnologi, cioè da chi guarda l’altro, e sarebbero prive di ogni loro densità interna come 5 La scoperta di alcuni della possibilità di giocare con multiple personalità come se si trattasse sempre di una conquista lascia in ombra la necessità, per chi lo fa, di poggiare su una solida base identitaria, una consistente esperienza di “continuità del sé”; altrimenti il rischio è perdersi, o non esserci, o non esserci mai stato. 47 COPPO PIERO va dicendo una parte dell’antropologia odierna) contribuiscono a diffondere l’ideologia universalista e addirittura a fare dell’umano materia priva di specificità, storia e destino, fino a immaginarlo come sorgente di possibili pezzi di ricambio per tessuti sociali profondamente ibridati con macchine, come nell’immaginario post-human.6 La questione non sta tra conservarsi in identici, ribadendo le gerarchie fondanti le culture che ci hanno prodotto (il che equivale all’arresto del processo vitale) e essere vuoti, aspecifici e equivalenti. La questione è poter scegliere, poterci costruire, poter essere padroni dei necessari processi trasformativi che cambiano la nostra vita, quella del nostro gruppo e gli ambienti in cui evolviamo. Senza per questo dimenticare che siamo il frutto delle storie che ci hanno costruito, dei legami che ci fondano, delle salutari inerzie che ci frenano. Per questo, credo, occorre anche approfondire le riflessioni su tipi, occasioni e tempi delle inevitabili ibridazioni. Poiché non si dà nei fatti l’opposizione ibridazione sì/ibridazione no: l’ibridazione è una regola del vivente, che da sempre esplora tutte le possibili configurazioni per esistere. Nel caso degli umani, occorre innanzitutto tener conto delle intenzioni che pilotano le ibridazioni, e di quali siano le scelte, le volontà, le reali possibilità di padroneggiare simili processi delle persone e dei gruppi coinvolti. Tra le varie ibridazioni, poca attenzione è stata data a mio parere dal gruppo di ORISS a quella tra organico e inorganico, tra vivente e macchina. Forse, la distinzione tra Gemeinschaft e Gesellschaft proposta da Georges Devereux come la sola significativa dal punto di vista etnopsichiatrico ricopre oggi quella tra individui e gruppi a forte ibridazione macchinica e no. Credo che se fosse possibile definire un indice di ibridazione macchinica (per esempio: tempo percentuale in cui un dato vivente è in relazione con una macchina che dispone di una sorgente di energia altra, e non manipola quindi un semplice strumento mosso direttamente dal vivente) sarebbe possibile distinguere modalità di esistenze umane significativamente, strutturalmente diverse (tanto più che è ovvia la reciprocità del rapporto costitutivo tra umani e macchine: gli uni 6 Come esempio della possibile strumentalizzazione delle tesi antropologiche contro l’identità, si veda Marchesini 2002. 48 L’AVVENTURA IDENTITARIA costruiscono le seconde quanto queste formano i primi). Naturalmente, fuori dal contesto della cosiddetta modernità, in quello delle culture dette tradizionali esistono altre differenze significative; ma in complesso le culture dette tradizionali sembrano tra loro simili, nel loro funzionamento, ben più di quanto lo siano rispetto al blocco delle culture che praticano una forte ibridazione macchinica. Credo anche che l’angoscia che in alcuni suscita l’idea dell’ibridazione intra-specifica (ripeto, ibridazione del tutto normale, strategia virtuosa del vivente per esplorare nuove possibilità in ambienti in evoluzione) sia anche uno spostamento, un’allusione all’angoscia rispetto all’ibridazione col non-organico, il vero Altro, sempre più imposta nei paesi a alto sviluppo tecnologico. In altre parole, il vero pericolo non sta nell’ibridazione con l’altro culturale (a condizione che il processo possa essere controllato e voluto da chi lo vive) ma nell’ibridazione con l’inorganico proposta dall’odierna dinamica di sviluppo a guida non-umana. Osservando le culture dove ancora predomina l’organico sull’inorganico (come quelle non industriali), colpisce la loro logica interna: un lungo e graduale processo ha portato i gruppi umani a bassa o nulla ibridazione macchinica a mettere a punto sistemi culturali finora relativamente stabili di produzione e riproduzione sociale. La continuità della cultura in questi casi è affidata a sistemi sociali persistenti ed effettivi, e non alla disponibilità di macchine e merci obbligate dalla logica del mercato a precipitose successioni. Perfino la scansione del tempo, parametro fondamentale dell’esperienza umana, vi resta ancorata a fenomeni biologici; mentre altrove è data dai tempi di macchine e merci, e dal loro turn-over. Non mi sorprende per esempio che in persone costruite prevalentemente in relazione con macchine e merci, là dove lo zoccolo vivente è divenuto sottile, si assista all’emergere sempre più frequente di disturbi depressivi e dell’identità. Simili disturbi non possono a mio parere trovare soluzione nella proposta di ritorno a identità fondanti che si suppone persistenti (con la conseguente inevitabile costruzione di raggruppamenti tra loro antagonisti, ma in un contesto di obbligata coesistenza; e quindi con effetti potenzialmente esplosivi) o in un abbandono definitivo della continuità del sé (con svuotamento delle persone, e 49 COPPO PIERO conseguenti patologie dell’esserci); ma piuttosto nella ri-costruzione di continuità consapevoli (con gli altri umani, con le produzioni culturali invisibili, con l’ambiente) che àncorino la persona ai tempi della storia, a quelli delle trasformazioni degli altri viventi, all’inerzia della materia. Gli effetti stabilizzanti e salutari di pratiche di collegamento (di “messa in continuità”) operate per esempio da alcuni terapeuti e operatori culturali devono secondo me essere messi in conto all’azione benefica della de-culturazione dall’ibridazione macchinica (per esempio, tendenziale uscita dal tempo della macchina) e alla messa in continuità con la propria storia e con quella degli altri esseri biologici (ricostituzione degli assi fondanti di I. Sow: biografico, esistenziale e di lignaggio), piuttosto che con la riattivazione di un nucleo identitario fondante. Si tratta, sì, dell’effetto salutare della pulsazione consapevole di un nucleo fondante; ma non del ri-collegamento a un nucleo identitario, intra-personale, pre-esistente e, ahimè, inconsapevole; piuttosto, della consapevolezza, del rinforzo, della rivitalizzazione indotti dalla pratica traumatica e salvifica del terapeuta, delle molteplici appartenenze che ci costituiscono. Se è bravo, il terapeuta può far vedere e sentire all’umano smarrito che è pur sempre parte di connessioni ignorate, dimenticate, occultate dall’ideologia dominante. Può così rimetterlo nell’orbita delle continuità, in un percorso e in relazioni di senso. Tutto ciò però non ha nulla a che vedere con supposti nuclei identitari etnici, persistenti e impermeabili. Anzi; il numero delle persone che si perdono dimostra piuttosto come tali nuclei, se pure esistessero, sarebbero assolutamente aggredibili, permeabili e disattivabili. Ciò che è fondante non è un nucleo ontologico di cui si sarebbe solo persa la coscienza (!), ma un insieme di connessioni attive nel presente (senza le quali non si darebbero umani) occultate o interrotte dalle pratiche e dalle ideologie diffuse; connessioni che si tratta non solo di scoprire, ma anche di restaurare e soprattutto di alimentare. Tra la posizione del terapeuta che presume di ricollegare il paziente al supposto nucleo identitario tribale e quello che lo mette in continuità ripercorrendo con lui gli assi che lo fondano c’è una differenza di rilievo per le conseguenze che le due opzioni comportano: una è progressiva (la messa in continuità significa procedere verso l’unità consapevole 50 L’AVVENTURA IDENTITARIA della specie, pur nella specificità delle storie); l’altra regressiva (verso identità di gruppo conservative e antagoniste perché definentesi per separazione ed esclusione). Si tratta di due progetti politici e sociali opposti, di cui occorre essere consapevoli e che occorre esplicitare ogni volta che si formulino teorie, o si allestiscano pratiche, che pretendono di aver a che fare con i cuori identitari delle persone o dei gruppi e con le loro trasformazioni (e che per esempio utilizzino pratiche traumatiche, sia terapeutiche che di affiliazione). Anche (o soprattutto) in questi casi, è prerogativa degli umani poter scegliere il progetto cui aderire. Sospenderei qui le mie riflessioni per dare la parola all’amico maliano Apam Dolo. Apam, che di professione fa la guida per turisti sulla falesia dogon, pur essendo analfabeta, parla correntemente il francese che ha imparato per imitazione. Il suo pensiero conserva dunque la struttura orale, ma è direttamente comprensibile senza bisogno di interprete. Gli ho chiesto di raccontarmi come si diventa, nel suo mondo, umani. Ho registrato tre ore di conversazione con lui sul tema. La prima ora, quella che ho qui trascritto, riguarda la prima infanzia. La seconda e la terza (che conto di trascrivere e inserire in articoli successivi a proposito dei processi di affiliazione e iniziazione successivi all’inizializzazione), hanno per tema la circoncisione e l’iniziazione alla società delle maschere. “Mi chiedi cosa ricordo della mia infanzia… quando ho cominciato a parlare, soprattutto con mia madre, lei mi diceva che portavo il nome di mio nonno. Me lo diceva tutti i giorni per farmi capire e perché più tardi potessi integrarmi in questa società. Diceva che ero la reincarnazione di mio nonno e per me era come un gioco e non riuscivo a capirla, il mio pensiero era quello di un bambino, non potevo crederle; e quasi tutti i giorni ne parlava; e poi intervenivano il padre e poi i parenti, il fratello maggiore, e le sorelle e gli altri; e mi chiamavano con quel nome e io chiedevo allora di vedere il nonno e mi dicevano che non era possibile perché il nonno era morto. E io continuavo a chiedermi come mai portavo il nome di mio nonno, e come avviene la reincarnazione e loro dicevano continueremo a parlartene, ogni volta che ci verrà in mente, anche scherzando; e più tardi, con l’età, capirai. Così ogni volta 51 COPPO PIERO che mio padre, o mia madre, o altri membri importanti della famiglia parlavano di ciò, non riuscivo a capirli. Arrivato a una certa età volevo davvero vedere di chi ero la reincarnazione e così mi hanno condotto alla ghinà (casa madre) della grande famiglia; e lì ho visto numerose statue. Ogni volta che ci sono dei neonati nelle diverse famiglie, ogni volta viene dato loro il nome di chi si è incarnato in loro. Normalmente una scultura è l’intermediario della reincarnazione. Così un giorno ti presentano questa statua che sei tu; e nello stesso tempo nella grande famiglia, dove si conservano questi oggetti, puoi toccare un’altra statua che è quella dell’antenato che è tornato; di colui che è alla base della reincarnazione. Dunque mi dicevano che avevano scolpito quella statua quando ero appena nato; e che durante il battesimo era stata messa nella ghinà della grande famiglia. Mi dicevano che il battesimo era una grande festa in cui molti si ritrovavano; ma fino a che, più grande, non ne ho visto uno, non avrei potuto immaginare che potesse esserci tanta gente e tanta gioia nell’incontro tra i parenti. Questo anche grazie all’aiuto della birra locale, il konyo; e il boccale faceva il giro nelle mani di uomini e donne, in un’allegria che mi riempiva. E si beve prima di cominciare, ed è l’inizio della gioia. E quando si rade la testa del bambino, che è tra le braccia della madre, il saggio che è nella ghinà è lui che pronuncia il nome del battesimo; ma fin dal giorno della nascita era stato avvertito che in quella famiglia era venuto al mondo un bambino per abitare nella società dei dogon. E quando questo saggio, questo notabile che sta nella ghinà riceve questa comunicazione, la riceve con una gioia grande; e dopo, ancora prima del battesimo, fa delle benedizioni che chi ha portato alla ghinà la notizia porta poi nell’orecchio della madre; che è davvero contenta. Quando tutti prestano attenzione al bambino che è tra le braccia della madre attorniata da adulti, vecchi e donne in gran numero e da giovani che sono lì e che domandano di poter assistere, e quando tutti si sono sistemati con calma nel cortile della ghinà su sedie o sgabelli o pietre, perché il bimbo non senta dolore mentre gli si rasa la testa allora il notabile domanda alla madre di allattare il piccolo; e in quel momento bagna la testa del bambino; e ha un coltello dato dal fabbro che era stato prima informato dal notabile che sarebbe andato a prendere un piccolo coltello per il battesimo, ben affilato; e con questo lo rasa 52 L’AVVENTURA IDENTITARIA molto delicatamente; e poi dice, a questa società dogon che è lì per il battesimo, dice a voce alta che quel bambino porta lo stesso nome del suo antenato. Allora i presenti si passano di mano in mano il bambino, e per un momento si raccolgono a guardarlo, e si domandano come è possibile che un corpo così piccolo, con la pelle così delicata, sia il supporto dell’anima di un uomo tanto vecchio, che ha avuto così tante esperienze e conoscenze; e così facendo riflettono sulla vita e sulla morte, e attutiscono la paura della morte. Il saggio identifica l’antenato che ritorna per varie vie. Si fanno delle ricerche, la famiglia fa delle ricerche, soprattutto sono le vecchie donne (vecchie, ma che non hanno perduto però la ragione) e i genitori che cercano. Spesso è la madre, o un suo messaggero, che va a chiedere l’aiuto ai veggenti coi cauri, o a quelli che parlano con l’anima del formicaleone; o passano per il canale della volpe: per la volpe servono due giorni, e bisogna aspettare. Dipende dall’urgenza; che è anche in base alla reazione del bambino e alla potenza dell’antenato, che a volte accarezza talmente il bambino che questo smette di mangiare, e piange tutta la notte perché non può dormire. E neanche la madre può dormire; e se è grave, se l’antenato accarezza troppo, allora non c’è tempo, e serve il modo più rapido, i cauri o chi parla con l’anima del formicaleone; e dopo, quando dicono che è questo l’antenato che si è reincarnato, occorre fare ancora un altro passo. Perché durante la sepoltura era stato offerto un pasto, anche crema di miglio, o tô (polenta di miglio), o riso; e dunque quel pasto deposto a lato della caverna, dicendo: ecco, perdonate la vostra famiglia, i vicini, i villaggi vicini, testimonia di un perdono a tutti gli umani con cui è entrato in contatto e dunque alla terra, prima di andare in un altro mondo; e quel piatto può servirgli per la traversata a piedi dell’altro mondo, traversata che per un uomo dura tre anni, quattro per una donna, perché le donne prendono tempo per prepararsi, e quindi richiedono più tempo degli uomini, che finiscono in fretta e poi sono più abili; e gli antenati sono d’accordo di aspettare le donne, perché devono pur esserci le coppie. E dunque lungo il viaggio devono essere nutriti, devono arrivare e essere in salute; se hanno fame non possono arrivare nel secondo mondo. 53 COPPO PIERO Apparentemente, si direbbe che i pasti lasciati di fianco alla sepoltura sono rosicchiati dai rettili, dato che da noi ci sono per esempio lucertole, serpenti, varani o caimani; ma non sappiamo quali siano gli intermediari tra i rettili e le anime dei morti, e dunque bisogna saper andare oltre lo sguardo, e per capire bisogna pensare che non sono i rettili che mangiano ma è l’anima; perché poi lui quando sarà arrivato nel secondo mondo torna per testimoniare; dunque è lui che mangia e non i rettili; perché quando torna in reincarnazione è grazie a quel piatto; e dunque si capisce che è lui, e non i rettili che mangiano. E dunque quando è nel secondo mondo è molto contento, lui, perché potrà parlare ai suoi propri antenati, perché da quando gli uomini esistono è lì che vanno; e sarà molto fiero di rispondere alle loro domande, perché gli domanderanno delle notizie di questo mondo che ha lasciato, e dunque darà notizie di tutti, e dirà che la tradizione continua, che non ci sono state fughe e che tutto continua. E mentre guarda il villaggio, ci sarà qualche donna che resta incinta, dato che la vita continua; e dunque se non sbaglio il tempo della gravidanza è di nove mesi, e se questa donna sta bene, e non è malata, ed è in gamba come le altre donne della famiglia, e dunque riempie la sua giornata andando al pozzo, o raggiungendo gli altri nei campi, l’anima che ha occhi più acuti dei nostri la guarda con benevolenza e scende sotto forma di un insetto volante, una farfalla, una formica volante, o una locusta, quelle cavallette che quando volano tutte insieme fanno il rumore di un aereo; e tocca la donna, che non capisce, pensa che sia un incidente di traffico; e così sarà sorpresa al momento della reincarnazione, perché non poteva sapere. E se la madre è sorpresa, sarà sorpresa tutta la famiglia. E così una volta nato, il bambino per cinque giorni dorme bene; ma il quinto giorno della settimana dogon, in piena notte, a mezzanotte o più tardi, allora l’antenato scende su questo corpo e ne guarda la reazione; e lo accarezza tanto che il bambino sarà così eccitato che rifiuta di prendere il latte della madre e comincia a piangere e dunque bisogna occuparsi di lui. E siccome questo bambino non sa parlare, e quindi non può dire quello che gli succede, la gente non sa come risolvere la cosa; e allora devono andare a chiedere alla volpe, o a quelli che parlano con l’anima del formicaleone o con chi legge i cauri; e allora loro diranno: ah, è quell’insetto che è segno che l’anima è tornata per la reincarnazione; e dunque bisogna fare il riconoscimento, in modo che l’antenato sappia che è stato riconosciu54 L’AVVENTURA IDENTITARIA to, e che si è d’accordo che torni a vivere nella tradizione; e dunque si deve riconoscerlo con delle parole, o piccole offerte in natura. Di fianco a ogni tomba c’è infatti una pietra che è il segno che è stata riconosciuta la reincarnazione; può essere vicino al villaggio, nel villaggio o lontano dal villaggio; sono pietre visibili perché ci sono sopra talmente tante tracce che hanno perfino snaturato l’aspetto della pietra: tracce di sacrifici. E dunque la famiglia consulta questa vecchia del villaggio, e lei si precipita verso il cadere della notte e dice: vi liberiamo della vostra vita, siamo d’accordo che essa continui in questo neonato, vi offriamo questo; e questa donna che è uscita dal villaggio nella notte, pesta il miglio di fianco alla pietra del riconoscimento ed è là che lo mescola con l’acqua e lo versa sulla pietra del riconoscimento e parla; e da quello che dicono i vecchi, e io credo loro, allora quando la donna versa la crema di miglio che scorre dolce nella gola per raggiungere il fegato, quando la versa sulla pietra, allora l’antenato è toccato nel cuore da questo riconoscimento che avviene grazie alla vecchia del villaggio; e così quando la vecchia torna al villaggio trova che il bambino ha smesso di piangere e sta allattando tra le braccia della madre. A questo punto la reincarnazione è riconosciuta; e resta da dare il nome; e questo si fa il giorno del battesimo. In genere, un solo antenato può reincarnarsi in più di un bambino; e grazie a questi incroci di matrimoni, da un villaggio a un altro, l’antenato può andare a reincarnarsi nella famiglia della donna; e tutto ciò è per la società dei dogon. E quando questo bambino è più grande va da una famiglia all’altra; e quando i parenti lo chiamano col nome dell’antenato, sono molto contenti; perché è come se rivedessero la persona che si è reincarnata; ed è vero che è tornata. E ogni volta che avranno la nostalgia potranno chiamare per nome questo bambino, che resta lì per un po’ di tempo, o qualche giorno, o qualche mese; e quindi non vivono la disperazione per questo antenato, perché si è ricostituito su un umano e lo vedono su un nuovo corpo. E dunque non pensano più a questo antenato che se ne è andato, ma lo vedono su questo corpo vivente. E quando questo ragazzo sarà più grande, dopo la raccolta, quando si fanno i grandi sacrifici coi nuovi cereali, e prima ancora che i dogon li consumino, e poiché noi siamo in vita grazie a questi antenati, dobbia55 COPPO PIERO mo fare un sacrificio coi nuovi cereali sull’antenato che è nella famiglia della ghinà; e sono presenti quasi tutti i membri delle famiglie che devono ritrovarsi; e questo nuovo cereale è trasmesso in farina (è in spighe, bisogna batterlo per farne farina e poi passarlo al mortaio o schiacciarlo con le pietre) e poi mescolato con l’acqua dei pozzi o delle sorgenti, e diventa la crema di miglio; allora aspergendone l’antenato gli si chiede scusa, perché è come se gli si facesse la doccia e quindi gli si chiede scusa; e con questa crema versata sull’antenato lui vede queste generazioni, ne vede il coraggio, e le incoraggia a dare il cambio alle precedenti, a continuare la tradizione. E in quel momento adulti e piccini possono vedere la loro statua della reincarnazione che è lì, e che è loro stessi; e dunque ogni bambino deve avere la sua statua che è affidata al primo antenato; e allora al momento della raccolta, sarà un incontrarsi di nuovo per gustare insieme i nuovi cereali. Dopo due settimane dogon di cinque giorni ogni famiglia deve portare i nuovi cereali alla grande famiglia e dopo aver fatto questi sacrifici devono schiacciare e trasformare in pasta il miglio, farne il tô; e i notabili della ghinà sono loro che dovranno per primi assaggiarla, e poi ognuno torna alla sua casa e ciascuno deve gustare i nuovi cereali per condividere le benedizioni che vengono dalla ghinà; e dunque la gente è contenta, è fiera di questi nuovi cereali, di questo sacrificio che è stato fatto pubblicamente da ciascuno; e i genitori sono felici per aver visto queste statue dei loro figli frutto della reincarnazione; e dunque a partire da tutto ciò, diventando grandi, dopo aver visto la grande statua e le piccole che sono state collocate nella ghinà, capiscono cosa è la reincarnazione. Poi, quando alla circoncisione o dopo si comunicano al giovane uomo certe conoscenze, allora comincia a essere fiero della parola che la società gli trasmette; e a cominciare da lì gli si affida la società, e alcune parole molto importanti per certi sacrifici; ed è integrato in questa società e potrà essere iniziato. Ogni uomo deve poi essere iniziato alla società delle maschere; e quando entri in quella società ti trovi con gli antenati; non sei più solo con i viventi; ma sei anche con gli antenati; perché quando parli la lingua segreta, e provi la gioia della danza portando la maschera, sei in contatto con loro, con gli spiriti dei dogon; e là ti vedi in contatto con loro e sei fiero; e quando parli hai una gioia nel cuore, e ti senti in contatto con loro. Ed è proprio vero che ti parlano direttamente nell’orecchio; e vedi 56 L’AVVENTURA IDENTITARIA allora a volte della gente parlarne con gioia, con gli occhi pieni di lacrime; perché l’eccesso di gioia riempie i loro occhi di lacrime. E a partire da una certa età, siccome le generazioni continuano, l’uomo dovrà costruire un altro così come lui è stato costruito; e dunque dopo la circoncisione ti rendi conto che non sei più un bambino: perché ti sono affidate certe parole, ti si fa assistere a certi sacrifici nelle famiglie; e dunque non sei più nel mondo infantile. È dunque col tempo che la tradizione si costruisce, a poco a poco; si costruisce col tempo naturale e quindi col sole, la luna; e anche di notte perché durante il giorno i genitori sono occupati dal lavoro, o ci sono dei periodi pieni di lavoro, e dunque a seconda delle stagioni o in giornate speciali, si dice che c’è un consiglio di famiglia; e così i genitori ti parlano a volte di notte, a volte il giorno e anche al di fuori dei consigli di famiglia, durante il giorno ti parlano; e così ti costruiscono poco a poco con questa tradizione e quando hai raggiunto una certa età già ti senti fiero; e i genitori ti dicono che non hai ancora finito. E dunque dopo la circoncisione tu hai questa sensazione di passaggio e tu stesso, a prescindere da ciò che ti dicono i famigliari, realizzi che non sei più un bambino. E dunque io, dopo essere tornato in famiglia dopo la circoncisione (si circoncidono i bambini in classi di età, e quindi eravamo molto numerosi, perché si fa ogni tre anni riunendo i gruppi di età dei villaggi vicini), dopo essere rimasto fuori i quaranta giorni ed essere tornato in famiglia (e nel luogo della circoncisione la gente ti parlava della lingua sacra e ti allietava per farti sopportare il dolore con musiche, e ti raccontava di come avevi sopportato; e i ragazzi della circoncisione precedente insegnavano ai nuovi circoncisi le musiche e le canzoni, e i fratelli maggiori venivano a vedere come ti coricavi, perché per guarire in fretta e evitare le infezioni devi coricarti di schiena, e dunque soprattutto i bambini che si sdraiano molto male possono essere legati, a rami o pietre) e dunque attraverso questa sofferenza che non hai mai vissuto prima, e grazie alla parola che ritrovi in famiglia e che continua sempre, insomma a partire dalla circoncisione ti trovi a appartenere alla società dogon. Questo si costruisce col tempo; e questa sofferenza che non hai mai vissuto prima te lo fa capire, e ti trovi di più nella società e dai più importanza a questa società. È quello che mi avevano detto i genitori, e mi avevano detto che dopo quell’esperienza avrei meglio accolto le loro 57 COPPO PIERO parole, e ho visto che era vero. Dunque una volta che sei costruito, che sei anche iniziato con le grandi feste delle maschere (che hanno luogo solo quando ci sono ottime raccolte, e nel nostro villaggio sono quindici anni che non si fa, perché servono molti cereali, e si riuniscono molti villaggi anche nel raggio di venti, trenta chilometri, e tutti sono alloggiati e nutriti, e si fa molta birra), e dunque a partire dalla festa delle maschere, quando sei iniziato (e ognuno deve costruire la propria maschera, o affidare la costruzione al fabbro se la vuoi più bella) e dopo aver danzato con la tua maschera stessa, con le parole che ti situano nell’adolescenza, dopo aver traversato il dolore della circoncisione e partecipato alla festa delle maschere e dopo aver danzato, allora tu sei un uomo dogon, per via delle esperienze che hai passato, per quello che hai visto; allora la tradizione si deposita nella tua memoria”. BIBLIOGRAFIA CAMATTE J. 1999 Dialogando con la vita, Colibrì, Milano. 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