Patrizia Turrini, La Comunit ebraica di Siena

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Patrizia Turrini, La Comunit ebraica di Siena
Patrizia Turrini, La Comunità ebraica di Siena. I documenti dell’Archivio di Stato
dal Medioevo alla Restaurazione. Prefazione di Mario Ascheri, Siena, Pascal
Editrice, 2008, pp. XII, 179.
Il volume si presenta come una ricognizione dettagliata della massa documentaria
relativa alla lunga presenza ebraica a Siena dal Medioevo fino al termine del governo
francese sulla città. I fondi archivistici indagati sono in gran parte, come esplicitato dal
titolo, quelli dell’Archivio di Stato di Siena, ma non mancano significativi sondaggi
nell’Archivio arcivescovile senese, affiancati da citazioni di documenti conservati
nell’Archivio di Stato di Firenze e nell’archivio della Contrada della Torre, sul territorio
della quale storicamente insiste il ghetto ebraico senese.
Sgombrato il campo da un errore di lettura di un passo della Biccherna, che aveva
fatto risalire la presenza di una universitas ebraica a Siena già agli inizi del Duecento
(N. Pavoncello, Notizie storiche sul tempio di Siena, “Rassegna mensile di Israel”,
1954; Id., Notizie storiche sulla Comunità ebraica di Siena e la sua Sinagoga, ivi, 1970,
pp. 293-313) – già segnalato da Sofia Boesch Gajano (Il Comune di Siena e il prestito
ebraico nei secoli XIV e XV, in Aspetti e problemi della presenza ebraica nell’Italia
centrale, Roma 1983, pp. 179-180) – l’esame dei molti documenti condotto dall’autrice
permette di datare la presenza ebraica in città già dal 1228, quando un Ferrabuoi ebreo
viene registrato fra i componenti delle milizie comunali. Ancora più rilevante una
notazione nel Diplomatico Riformagioni, alla data del 26 agosto 1230, nel quale un
Guido “iudeus” compare in una lista del Consiglio Generale finalizzata a conferire un
incarico a due ambasciatori in occasione dell’assedio della fortezza di Selvole da parte
dei Fiorentini. Una presenza – come annota giustamente l’autrice – «poco consueta
nel panorama italiano, dove in genere gli ebrei erano esclusi dai diritti politici e non
potevano ricoprire cariche pubbliche, né tenere scuola, né professare arti liberali, né
commerciare in generi alimentari, abiti nuovi o articoli di oreficeria» (p. 5).
Il tutto a definire un’anomalia che testimonia della particolare condizione
della presenza ebraica in città, confermata anche a inizi Trecento, quando un “giudeo
barattiere” viene documentato alle dipendenze del Comune di Siena per frustare i ladri
lungo le vie cittadine, e ribadita in qualche modo anche a metà del secolo, quando
un pubblico riconoscimento viene attribuito a Vitale di Daniele per la sua opera di
prestatore.
Anche Siena comunque – seguendo il percorso del volume, che alterna sulla
base della documentazione squarci di vita privata a disposizioni generali a carattere
pubblico –, pur in presenza di un aumento progressivo dei capitali gestiti dal prestito
feneratizio e di un conseguente consolidamento economico e sociale dei prestatori, non
rimane estranea alla ricorrente e diffusa legislazione emarginativa nei confronti degli
ebrei che si fa strada a varie riprese in Italia con l’avanzare del sentimento antisemita,
supportato dalla predicazione religiosa e dalla volontà di limitare gli spazi economici
e finanziari acquisiti dalle comunità operanti sul territorio. In città già nel 1384, ad
esempio, si dispone l’allontanamento degli ebrei dalle abitazioni poste nelle strade
principali e, verso la fine del secolo, si moltiplicano le imposizioni di prestiti forzosi nei
loro confronti. Disposizioni che vanno ad aggiungersi alle regolamentazioni suntuarie
promosse dalla stessa comunità ebraica italiana intervenute a inizi Quattrocento, tese a
ridimensionare quell’immagine abnormemente abbiente e socialmente troppo esposta
di molti ebrei, sicuramente dannosa per il resto della comunità, e a restituirle una cifra
morale maggiormente attendibile, al pari di quanto stavano diffusamente predicando
i neonati Ordini mendicanti per l’intera società italiana. Un tentativo che non riuscì
ad evitare comunque la progressiva marginalizzazione degli ebrei dalla vita pubblica,
dovuta alle preclusioni della Chiesa e autorevolmente giustificata anche sul piano della
dottrina giuridica.
Un terreno sul quale si vennero ad alimentare atteggiamenti fortemente
polemici nei confronti della comunità ebraica anche a Siena, in particolare sulla scia
delle violente invettive pubbliche di San Bernardino. Atteggiamenti di pregiudizio
antigiudaico concretizzatisi anche in una serie di pubblici provvedimenti discriminatori,
come quello del febbraio 1429 che obbligava alla chiusura delle botteghe nei giorni
di festa cristiana, o quello dell’ottobre 1439, sia pure giunto in ritardo rispetto ad
altre realtà italiane, che prescriveva il segno di riconoscimento in pubblico da parte
degli appartenenti alla comunità ebraica. Misure che comunque non intaccavano un
atteggiamento blandamente tollerante nei confronti dell’insediamento ebraico da parte
del governo senese, preoccupato della continuità della consistente attività di prestito su
pegno, non scalfita nemmeno dall’istituzione, nel 1472, del Monte de la pietà.
La marginalizzazione fisica degli ebrei all’interno del ghetto senese sarebbe
intervenuta dopo la caduta della repubblica ad opera del granduca Cosimo I, che, nel
calcolo politico dell’instaurazione e del mantenimento di buoni rapporti con il papato,
non aveva esitato a ripristinare l’obbligo del “segno” nel 1567, a proibire l’ingresso dei
profughi ebrei nel territorio del granducato due anni più tardi, ad abrogare le patenti di
banco nel 1571, anno nel quale sarebbe iniziata a Firenze l’opera di sistemazione di una
specifica zona destinata ai componenti della comunità giudaica. Un provvedimento che
trovò la sua realizzazione anche a Siena l’anno successivo, con la scelta – come ricorda
l’autrice sulla base della documentazione relativa – della centrale zona di San Martino,
in grado di favorire la continuazione della tradizionale attività commerciale degli ebrei,
e con l’utilizzazione per di più di «un’edilizia già scadente fruita fino ad allora da
persone di basso ceto, piccoli delinquenti e prostitute, spesso dimoranti intorno alle
zone di mercato» (p. 24).
Dopo qualche ritardo la ghettizzazione della comunità ebraica senese sarebbe
iniziata nel corso del 1573, prodromo, con le sue limitazioni fisiche e sociali e con la
proibizione dell’attività feneratizia, ad un progressivo e drastico ridimensionamento
delle condizioni economiche e sociali dell’intera comunità.
Dopo la ghettizzazione del secondo Cinquecento la politica granducale toscana
nel corso del Seicento si sarebbe distinta nella sostanza solo per alcuni provvedimenti
di ordine pubblico tesi a reprimere il fenomeno crescente delle ingiurie e delle violenze
contro gli ebrei, alimentato da varie componenti religiose e civili, mantenendo
comunque – e in qualche caso aggiungendo – limitazioni all’integrazione e allo sviluppo
delle tradizionali attività economiche gestite. Queste comunque, a dispetto della
marginalizzazione forzata e dei molti ostacoli frapposti, sopravvissero e si dilatarono,
tanto da provocare nel corso dei secoli XVII e XVIII frequenti controversie con le
Arti senesi che – com’è noto – furono successivamente soppresse nel 1781 da parte
del granduca Pietro Leopoldo, lasciando ampi spazi all’iniziativa economica privata e
cercando di favorirne il dispiegamento. Un processo che permise di fatto l’estensione
dei margini di attività e la crescita del volume di affari anche di molti imprenditori
ebrei.
Di lì a pochi anni dai provvedimenti leopoldini, l’esportazione dell’esperienza
rivoluzionaria francese nei territori al di qua delle Alpi avrebbe permesso anche agli
ebrei senesi di emanciparsi in nome di quel principio di libertà religiosa che costituiva
uno dei capisaldi del pensiero illuminista che aveva ispirato i rivoluzionari. All’arrivo
del commissario francese Abram, il 29 marzo 1799, gli ebrei senesi, subito entusiasti del
nuovo corso che veniva da Parigi, venivano dichiarati cittadini a pieno titolo e assistevano
con esultanza all’abbattimento delle porte del ghetto, bruciate successivamente in Piazza
del Campo, in un gesto dal valore fortemente simbolico. Un entusiasmo interrotto
dall’entrata in città pochi mesi dopo di quelle truppe controrivoluzionarie e sanfediste
del “Viva Maria” che avrebbero dato vita, memori di vecchi rancori e di nuovi fanatismi,
ad un violento pogrom, fatto di saccheggi indiscriminati, di violenze efferate e della
spietata esecuzione di diciannove ebrei, bruciati pubblicamente all’interno del Campo.
Il ritorno dei Francesi e la stabilizzazione del governo su Siena e sul nuovo
Dipartimento dell’Ombrone avrebbe ridato finalmente libertà e parità di diritti alla
comunità ebraica cittadina, riconoscendone la presenza e il ruolo svolto per un ampio
arco di secoli.
MARIO DE GREGORIO