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Il modello Milano batte i competitor. Manifattura leader in Europa
–di Paolo Bricco 24 settembre 2016
La via milanese e lombarda alla nuova manifattura si conferma al di sopra della media del migliore
standard europeo. Con, al suo interno, una polarizzazione crescente fra imprese efficienti e non
efficienti. Anche se, per restare a pieno titolo nel cuore della manifattura continentale, deve
riuscire a sviluppare più innovazione formalizzata e deve connettersi con più potere alle catene
globali del valore.
A livello sistemico, il sistema industriale lombardo conferma la sua appartenenza al network
composto dai cinque aggregati industriali europei principali (ci sono anche Baden-Württemberg,
Baviera, Rhône-Alpes e Catalogna), la sua leadership italiana e la sua conformazione tecnoindustriale, fatta di medium-tech nella specializzazione produttiva e dell’adozione di meccanismi di
governance e di strategie aziendali inusuali nel nostro Paese. Ma, nella conformazione di quello
che resta il motore dell’economia italiana, la recessione ha approfondito il divario fra le imprese
che ce la fanno e le imprese che non ce la fanno.
Con il report “Le performance delle imprese europee: un’analisi benchmark” (la quarta ricerca del
2016), il centro studi di Assolombarda ha delineato la più avanzata e accurata disamina del
modello Milano e di quel sistema lombardo che ha in esso il perno di riequilibrio e il punto di
raccordo con i circuiti internazionali. Le imprese migliori – definite “top performer” – utilizzano
bonus nei loro assetti manageriali, brevettano, digitalizzano i processi aziendali (non solo nella
parte manifatturiera) e partecipano direttamente alle Global Value Chains. Secondo l’analisi di
Assolombarda, i top performer di tutte e cinque le aree europee hanno una produttività media di
71,5 mila euro. I top performer della sola Lombardia hanno una produttività media di 88,2 mila
euro. Dunque, i top performer di questa parte d’Italia staccano non di poco la migliore Europa
presa nel suo insieme. Il resto del campione, composto dai non top performer nell’insieme
complessivo delle cinque aree europee, ha una produttività di 44,6 mila euro, quasi identica a
quella degli equivalenti lombardi (44,8 mila euro). Dunque, la Lombardia, anche nelle sue
componenti meno virtuose, sta al passo del meglio dell’Europa. E, quando si prende in
considerazione il meglio del meglio, è al di sopra. Questa spinta produce una inevitabile
polarizzazione, che viene accentuata nel caso lombardo. Nel caso della media europea, la
differenza di produttività fra chi adopera i bonus per l’organizzazione manageriale, deposita un
brevetto, digitalizza i processi e partecipa alle Global Value Chains e chi non lo fa “vale” 27mila
euro. In Lombardia, questa differenza sale a 44mila euro. Si tratta di un dato impressionante: la
produttività di chi fa tutto questo è doppia rispetto a quella degli altri.
L’analisi realizzata da Assolombarda non ha soltanto un valore scientifico. Ha anche un valore
interpretativo, nel significato più alto del termine: dovrebbe essere mandata a memoria da
chiunque abbia compiti di governo e di costruzione delle policy. Per esempio, cancella la pigrizia
semplificatrice - tutta italiana - che collega la crescita al taglio dei costi. Non nei casi aziendali in cui
il turnaround deve essere duro e severo per risanare condizioni patrimoniali deficitarie, per
cancellare la mala gestio e per ovviare allo sbandamento strategico. Ma nei casi in cui l’impresa è
sana e, alla salita dello sviluppo e dell’espansione, si preferisce la discesa del taglio dei costi. Per
esempio, i dati del centro studi di Assolombarda smentiscono l’idea che un basso costo del lavoro
per unità di prodotto (il Clup) sia la sola condizione necessaria per una elevata competitività
internazionale.
Le imprese altamente innovative riescono a essere competitive sui mercati globali anche in
presenza di un Clup elevato: per queste la relazione fra probabilità di esportare e Clup è
sostanzialmente piatta. Viceversa, per le imprese non innovative un aumento del Clup causa una
diminuzione della probabilità di esportare pari al 30 per cento. «Politiche volte esclusivamente al
contenimento dei costi – si legge nel report di Assolombarda – possono non essere efficaci nello
stimolare l’attività di esportazione se questa viene portata avanti in settori dove l’attività di
innovazione è fondamentale. In questi stessi settori, sarà la qualità dell’innovazione, e non il
prezzo, a determinare il successo sui mercati internazionali». Dunque, è un problema di
posizionamento complessivo del sistema industriale. Più giochi con i migliori, più diventi migliore.
Il problema è che, per giocare con i migliori, servono gli strumenti dei migliori. In questo, il centro
studi di Assolombarda evidenzia come, per rimanere su un segmento medio-alto, sia
indispensabile non soltanto l’innovazione informale, ma anche l’innovazione formalizzata. Le
imprese lombarde presentano performance sull’innovazione in linea con le altre regioni europee
sia per quanto riguarda le innovazioni di prodotto e di processo (le realizzano rispettivamente il
38,5% e il 31,3% delle imprese contro, per esempio, il 41,2% e il 27,4% registrato nel BadenWürttemberg) e l’attività di R&S (il 39,9% degli imprenditori lombardi dichiarano di averla svolta
negli ultimi tre anni, contro il 40% di Baden-Württemberg e Baviera). Tuttavia, non sono tanto la
R&S e l’innovazione di prodotto e di processo a fare la differenza, quanto la capacità delle imprese
di trasformare gli input ottenuti dalla ricerca in output tecnologici con valore di mercato. «In
questo senso – si legge nel report – nella valutazione della competitività di un territorio assumono
maggiore rilevanza i brevetti e le altre forme di protezione della proprietà intellettuale: marchi,
design industriale e copyright».
Usando il campione complessivo di tutte le cinque principali aree tecnoindustriali europee –
appunto Baden-Württemberg, Baviera, Catalogna, Lombardia e Rhône-Alpes – si nota come le
imprese che adoperano strumenti di protezione dell’attività intellettuale hanno – a parità di
territorio, settore o dimensione – una produttività superiore del 22% e un fatturato maggiore del
2% rispetto alla media del campione. Inoltre, le imprese che hanno depositato un brevetto hanno
una quota di fatturato da export superiore del 6,3 per cento rispetto a chi non l’ha fatto. Dunque,
la tutela della proprietà intellettuale conta moltissimo.
Nelle cinque roccaforti della manifattura europea più avanzata, il 18,3% delle imprese ha usato un
qualche strumento di protezione della proprietà intellettuale (brevetti, marchi, design industriale
o copyright); nello specifico, l’11,2% delle aziende ha depositato brevetti. Prendendo la sola
Lombardia, queste quote sono assai più basse: rispettivamente il 7,6% e il 5,7 per cento. «Pur
ammettendo che parte della capacità innovativa delle imprese lombarde non venga colta dalle
statistiche sui brevetti, – si legge nel report – il divario con le altre regioni europee è troppo ampio
per non destare preoccupazioni: non riusciamo a trasformare la scienza in tecnologia, a
capitalizzare il nostro potenziale innovativo».
L’altro elemento fondamentale è rappresentato dall’internazionalizzazione. Il problema è quale
internazionalizzazione. Usando il semplice indicatore dell’export, la Lombardia è messa bene: il
60% sono esportatrici; il 46,8% esportano al di fuori dell’Unione europea, contro il 44% della
media di tutte e cinque le macro aree europee. La questione si apre quando si considera
l’internazionalizzazione come un fenomeno a più dimensioni. In questo report, il grado di
partecipazione alle catene globali viene calcolato come un mix di attività di import-export e di
produzione all’estero. Il 4,3% delle imprese lombarde ha una partecipazione alta alle Global Value
Chains. Questa quota sale all’8,2% in Catalogna, al 6,4% nella Baviera, al 7,8% nel BadenWürttemberg e al 14,2% nel Rhône-Alpes. Questo, sotto il profilo strategico, è un problema: le
aziende meglio collegate alle Global Value Chains sono in un numero proporzionalmente maggiore
negli altri quattro motori industriali europei rispetto a quanto non siano in Lombardia. Le cose
vanno meglio – ma non troppo – quando si considerano non solo le imprese con una
partecipazione alta, ma anche quelle con una partecipazione media alle catene globali del valore.
Così, il 21% delle imprese lombarde ha una partecipazione medio-alta alle catene internazionali
del valore, a fronte del 23,2% del Baden-Württemberg, del 19,3% della Baviera, del 50,6% della
Catalogna e del 48% del Rhône-Alpes. Oltre al collegamento maggiore o minore con le catene
globali del valore, vanno considerati i compiti e le specializzazioni funzionali. «Le imprese
lombarde – si legge nel report – hanno un potere di mercato piuttosto ridotto, perché producono
più delle altre in subfornitura (22%, contro l’8,3% della Baviera e il 5,4% del Baden-Württemberg).
E, se lo fanno, realizzano in subfornitura quasi l’80% del proprio fatturato».
Nel caso delle imprese lombarde, esiste un tema – potenziale e reale – di potere e di influenza e,
in prospettiva strategica, di aumento della centralità e di riduzione della marginalità nella divisione
dei compiti della manifattura avanzata ai tempi della nuova globalizzazione.
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