I Quaderni dall`Isola-VI

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I Quaderni dall`Isola-VI
I Quaderni dall'Isola-SALEGROSSO
VI Quaderno dall'Isola
I discorsi che ti faccio vengono interrotti da esigenze di altra natura. Queste ripetute interruzioni sono la
premessa di una interruzione più generale e definitiva. Se non altro, uno dei pregi della carta su cui scrivo
è la pazienza che dimostra nel sapermi ascoltare.
Se un giorno vorrai cambiarmi con un altro, cerca di essere veloce. Non fottermi ogni notte con le
menzogne, non essere il mio specchio marcio.
Lucia, mi manchi anche se corriamo parallelamente come rotaie di un binario, non percorreremo mai più
la stessa vita. Tu sei un'eccezione in questa biografia scarsa, di poche inutili cose, stupide amicizie
immerse in un carnevale rintronante, nelle boiate più nere, nei cibi più idioti, in un'igiene sporca come la
fame.
Lucia, mi manca la tua umiltà, così diversa da quelli che più hanno torto marcio e più vantano ragione.
C'è chi fa dell'ignoranza una notevole risorsa.
Siamo rifiuti urbani da riciclare per un altro millennio.
E' vero, io e Lucia siamo anime perse, smarrite e tu?
Qualcuno ha abilmente confuso sincerità ed equità sociale con il puro interesse personale.
Il campo magnetico dell'attenzione ha poppato tutta la mia energia.
Scarico e dolorante…ho passato una giornata a regalarmi per soldi. Chi si vincola a situazioni che lo
costringono ai lavori forzati è un condannato colpevole d'adeguamento. Attanagliati da futili necessità si
sputa l'anima in cambio di una casa, di una macchina e delle vacanze. Non mi va di partecipare a questo
gioco dubbio.
Ho sempre provato un sentimento ostile, ma silenziosamente dissimulato, per chi è riuscito e riesce a
vivere da Protagonista; per chi riesce a vincere nella vita. Ho sempre pensato di essere molto invidioso
del successo degli altri ma, incredibilmente, ho scoperto al contrario, che non lo sono affatto e che tutto
ciò che pensavo fosse invidia è sentimento di estrania sofferenza. Durante tanti discorsi stupidi a cui ho
assistito, ho scoperto la mia non presenza al convivio al quale mi apprestavo; invece, poco più in là,
osservavo il tuo fantasma solitario comodamente appartato ad un altro tavolo deserto. E spesso sono
venuto, come allora, a sedermi accanto a te.
Ma come fanno le persone affermate a non essere rose dall'invidia di noi due?
Cari compaesani, siete le persone più ottuse e stupide che io abbia mai conosciuto, fatte alcune eccezioni
tra le quali io mi stimo. Tra me e voi non è mai corso buon sangue. Le vostre risate angoscianti su tutto e
tutti mi fanno rabbia e pena. Non sapete con quanto sincero trasporto mi pulisco il culo con le vostre
salviette culturali.
Il mio libro uscirà a settembre con i biancospini.
Mi accanisco a vivere come un poppante al seno, con la stessa avidità animale, sono consapevole di aver
crepato con le mie stesse mani il mio progresso vitale.
A questo punto, invece di accostare a destra, continuo a correre all'impazzata con i semiassi divorati dal
rimorso e dalla rabbia.
Io ti capisco, ho compreso cosa hai provato quando tutto il mondo attorno si è ristretto e hai sentito il
bisogno di uscire, di trovare delle vie che non avevi mai visto.
Cari nemici, a voi dedico il mio laborioso sentimento d'amore; una trama affettiva che tesse la mia vita di
ogni giorno e si accanisce a correre di qua e di là per ricucire le lacerazioni.
L'errore che abbiamo fatto è stato quello di farci intenerire dallo sguardo innocente del capro e di
innamorarcene, semplice e pieno di paura. Avremmo dovuto sparare senza pietà sino a che il suo corpo
rotolando non fosse sprofondato, dai dirupi al mare.
Il lavoro cosiddetto lavoro creativo è un'escrescenza, una crosta, la pelle morta, non è mai l'organismo
strutturale, ma soltanto il rivestimento.
Ecco perché un giorno qualcuno disse che non può esserci arte senza dolore. Il dolore è una sonda, un
bisturi che scuote i tessuti profondi; nel suo tentativo di uccidere l'anima la costringe ad una serie di
sollecitazioni e di controffensive crudeli. Il dolore risveglia la coscienza e il dialogo interiore, per lo più
irrazionale, ti costringe a dichiarare quasi sempre fallito il tuo intento, ti toglie ogni ambizione.
Ieri, vedendo le colline, ho pensato a te. Adesso la mia depressione ha un nome. E' una tristezza che corre
attorno ai fianchi delle colline, si srotola sui pendii assieme agli occhi luminosi delle automobili che
rischiarano la via cieca.
Vorrei portare i Nomadi lassù alle Terre Fredde per poter dedicarti un intero concerto.
Ieri, rincorrendo Serughetti, ho scoperto la fatica di tutti i miei organi, la pesantezza del mio corpo.
Mentre lo picchiavo confessavo a me stesso l'inefficacia dei miei muscoli, la straordinaria mancanza di
incisività dei miei colpi.
La memoria è come la cecità: ricordi visti con gli occhi ciechi del cuore, gli unici che vedono e rivelano le
tinte reali della vita. Trascuro i miei versi per lavoro, e sono solo, mi manca la tua mano sempre pronta ad
accogliermi.
Ieri ho rivisto tutta la scena: ti prelevavano dall'auto lassù sul pendio con tutte le loro braccia e tutta la
loro tenerezza, e ho visto per la prima volta la discesa dalla croce della passione di Cristo.
Nel cuore della notte mi sono svegliato e ho ascoltato il silenzio: milioni di suoni ovattati confluivano in
un certo punto là fuori, poi l'aumento del rumore di fondo e la paura, mi hanno spinto ad accendere la
luce, ed è ritornato il silenzio. Dove sei?
In fondo, gli incidenti della quotidianità mi aiutano ad andare avanti: sono come volgari, banali parole,
avverbi superflui, rimasti incastrati nel discorso, erbaccia cresciuta tra le colture. Nonostante ciò, sono
queste buche, questi dissesti momentanei che smuovono la pianta sempre più dura e rigida della vita.
Sottolineare i libri è come assentire con il capo a un interlocutore.
La realtà è una fessura in un grande muro che ci separa contemporaneamente dal noto e dell'ignoto. Come
tutte le fessure ci rivelano voragini che l'occhio sa sondare solo avvicinandosi al muro, là dove si continua
a sparare.
Qui, dentro l'amaca, mi sembra d'essere racchiuso nel fiore di una zucchina.
Totalmente coperto nel bozzolo ho spostato i miei punti di riferimento, mi sento girato da un'altra parte. I
suoni sembrano provenire dal lato opposto della “realtà”. Il sintomo della solitudine si insinua ma non
esce nulla dal filo grezzo che mi avvolge.
Il sonno cancella i punti di riferimento convenzionali e li sostituisce con altri.
Un bisturi profondo e tagliente come quelli fabbricati dai geni di *********. Ecco la vita che incide sul
tuo corpo, se stessa.
Gli architetti arredatori tanto in voga per allestimenti dei locali “in” dovrebbero frequentare con maggiore
attenzione i bar e le trattorie dei paesi di campagna e cogliere in quei sacri arredi l'importanza del grande
specchio obliquo appeso alla parete. Quello specchio, evocazione mitica per il bambino e antesignano
della più recente televisione, restituisce in diretta l'evento. Come un film a puntate si accende e si spegne
con i giorni e le notti, un calendario visivo, la cui originalità sta in quella leggera inclinazione. Lo
specchio obliquo sul mondo, al pari di un grande visore cibernetico che si reclina un poco sul soggetto da
esaminare, non cattura le immagini, non le trattiene, se non giusto il tempo necessario per ricordarle.
All'improvviso un casello mi ferma. Lo sguardo fa un salto e attraversa il binario sino al magico cartello
di San Donato.
Forse alle origini la natura era un racconto scritto bene, ma poi la pioggia continua e torrenziale ha
trasformato le parole in macchie indistinte.
Il lavoro, il contante, gli impegni non sono nient'altro che riempitivi, allontanamenti dalla via che consiste
nello svuotamento, nella sub-realtà, nell'apprezzamento disinteressato delle cose leggere, impalpabili,
evocate.
Il profumo del bosco, il calice vuoto.
Non devo mollare l'osso, ma continuare a pensare, a scrivere su queste pagine i resoconti della vita;
inviare in superficie segnali dal profondo. Come un contabile, devo tenere aggiornate le entrate e le
uscite. Ma il beneficio non sta nell'utile, bensì nell'esercizio del calcolo.
Ho visto Sibelle cogliere delle mele cadute sul prato.
Una coppia entra nel bar, la mamma e la bambina siedono a un tavolo mentre il padre, lavoratore
incallito, estrae dalla tasca alcune monete e, isolato dal mondo, si lancia in un videogioco. La madre e la
bambina lo guardano, mentre lui, abitante dell'angoscia, naufraga in un'isola.
Bisogna essere consapevoli dei propri limiti. Le angosce non sono digeribili. Sbattendo sulle pareti dello
stomaco, con le loro ali, reclamano una via, un esofago, un intestino attraverso cui tentare la fuga.
Ogni mattina, quando mi sveglio, ti rivedo. Lì, in piedi, di fronte al Bar Posta, mentre ci saluti sorridendo
augurandoci un buon viaggio.
A pensarci bene, l'unica casa che possiedo è questa automobile.
La luce della perfezione è così bella e dolce che ti libera. L'amore interessato è un appartamento pieno di
mobili dell'Ichea. L'amore libero, invece, è come il balzo del Livenza che dilata la sorgente e scende al
lago.
Dove andrà la mia anima? Si dissolverà in una delle costellazioni, o più semplicemente prenderà la via
dell'azoto, tra tante particelle sature, galleggianti, confuse tra i riflessi? (Ti guarderò dal fondo delle
acque).
La tua morte è il mio punto di riferimento, non la compagnia, non le parole, non tutto ciò che trattiene
discorrendo le persone attorno a un tavolo. La tua morte è il mio punto di riferimento, la tua solitudine, il
tuo camminare da solo.
Due mondi mi si presentano: coloro che socializzano, si accavallano, fumano, si accoppiano, ridono e tu,
essenza della suprema liberazione, amore dal profondo.
Il tuo tenero abbraccio è la prefigurazione dell'abbraccio di Dio.
Voglio dare la priorità assoluta all'agire. Intendo assottigliare il tempo dedicato ai gelati. Intendo
eliminare il tempo buttato alle incomprensioni, ai litigi.
Non voglio farmi abbruttire da quella parte della vita che somiglia ad una taccagna, operosa massaia che
ti mette sotto minacciandoti con il mattarello.
Stiamo male per milioni di capricci, ma una tigre si aggira libera in un piccolo spazio. La pazzia sale
come una lieve febbre che ti fa, via via, rendere insopportabile la vita. Fermate il mondo, fermatelo!
Quante volte ti ho vista svegliarti.
E la luna, fuori Recanati, sembrava il tuo piccolo pianeta di provenienza.
Aprivi gli occhi, in silenzio, sorridevi. Nessun'altra parola, il sorriso, nel torpore di una lunga sofferenza,
nella dolcezza dell'umiltà totale.
Amore profondo, di un altro mondo.
Ho appena terminato la lettura di un libro che considero lo specchio di tutti i corpi invisibili, “Il piccolo
principe”
Abbiamo visto le fronde piene di uccellini. E' la terza volta che il cielo viene adombrato da una massa
scura e fluttuante. “Chissà che vorrà dire” ha sussurrato Lucia.
Una scorza priva di vita, ecco come appare il corpo dopo la morte. Ed è la prima ed ultima volta che ti
specchi senza specchio, ma ancora una volta non ti puoi toccare.
Vorrei davvero girare un film sulla città, ma mi manca una misura d'appoggio, mi farei prendere nel
vortice di qualche tromba d'aria in cui tutte le cose girano attorno assieme, girano a vuoto e si annullano a
vicenda.
Stanotte abbiamo mangiato dei panini farciti (alla roulotte, nel senso di carovana viaggiante). Anna ha
mangiato salsiccia e cipolla e io una piadina di crudo. In mezzo a ladri, puttane, dentro alla notte
maledetta che risale dallo stomaco e mi parla di te.
Sfoglio una rivista illustrata, ecco, mi fermo qui sulla foto in controluce che mostra il Genio alato della
Scienza mentre spicca il volo dalla rupe al cielo cupo e tempestoso di Torino. Questo azzurro intenso mi
emoziona ancora, trovo te in lui, o meglio ritrovo il tuo sguardo infinito.
La poesia è il paradigma di tutta la conoscenza. Vi sono due vie per definirla: Il lungo, faticoso accumulo
dell'analisi, decantato, aspettato, stagionato, autunnalizzato e infine trasfigurato, morto e rinato. L'altra via
è il getto naturale, la fonte che da sotto spinge sulle rocce, esplode, si apre un varco, comunica…
Entrambe queste vie sono sacre e rare come la ginestra sopravvissuta ai lapilli convulsi del Vesuvio.
Sono quasi arrivato in cima alla montagna, avrò appena il tempo di dare un'occhiata al mondo e poi
inizierò subito a ridiscendere con il cuore gonfio di tristezza, non per aver visto il mondo, ma perché starò
ritornando a casa.
La violenza infinita degli uomini della mia terra: famiglie patriarcali avvinazzate in banchetti serali.
Asserragliati in case sudate e sudate, costruite ai fianchi dell'argine scaricatore. Fumo di campi, di
razzismo, di *****, di capi clan che in zoccoli e canottiera assediano donne e bambini nel nome della
proprietà. Risate volgari, di una violenza inaudita, di una lingua antica che ha perso il sacro e resta
immondezza, scoria dialettale, lasciapassare.
Come colonie di topi di fogna, queste famiglie si aggregano in clan affondati nel tradizionalismo più
bigotto e nel consumismo più esasperato. Eccole qui le incivili storpiature di ciò che un tempo fu la civiltà
contadina del Veneto.
I premi, le premiazioni, i riconoscimenti: tutti questi gonfi buzzurri che passeggiano per Cortina. Straccia
miseria di ****** vicini, specchiati, truccati, quasi teneramente evanescenti. Mi chiedo infatti come degli
spettri incorporei possano avere tanto potere. Come possano uomini di cartone mantenersi così vividi e
saldi al nulla.
Sedersi sulla panchina è come passeggiare restando seduti. Via vai di gente, villeggianti, donne esposte,
ricconi di Cortina.
Eppure, nella miseria del benessere vedo la lievità della pazzia. Mi sembra che qui la ferocia sia lenita
dalla dolcezza del superfluo assoluto. Nei tuguri, dove sono cresciuto, invece, in tutti i quartieri poveri del
mondo, ogni noce ha il peso specifico del piombo.
I ricchi, disossati, come lepri in salmì, sono soltanto delle proiezioni immaginifiche, agiscono qualora noi
stessi cediamo a queste immaginazioni. Il denaro è un'immagine, un valore disossato; è impalpabile carta
che ha una memoria corta.
Quassù è già inverno, il sole si indebolisce, si è raffreddato alle insistenti piogge. Come farò a resistere
lassù? Comincio a ricordarmi di me stesso con tenerezza, fragilità. Ero magro, legato all'ignoto e
all'infanzia. Sognavo cose meno importanti, riuscivo a convivere con la mia nostalgia.
Infinite stelle, toccate la retta che curva come un'ombra, preannunciate l'assurdo.
Caro F., le montagne non vanno riprese dal di fuori, ma dall'interno, e una volta che la talpa ha scavato
per spingersi fino al centro, devi immaginarle coperte di una eterna volta stellata.
Qualcuno ha detto che le stelle che appaiono nel cielo sono probabilmente già morte, e la loro immagine
impiega miliardi di anni ad arrivare ai nostri occhi. Ma bisognerebbe dire altrettanto di noi rispetto
all'universo: da quanti milioni di anni ci stiamo attardando nel limbo del cosmo?
Mi sento un animale sfruttato, che cosa mi resta adesso? Queste montagne, a chi appartengono? Sono
libero, fragile, ho gettato i miei guadagni prima ancora di riceverli sotto forma di compensi, è roba vostra,
anche il mio canto è roba vostra. Ma io di vostro non voglio più niente. Tenetevi le vostre strutture, le
vostre glorie del tubo. Tenetevi tutto.
Io e mio padre abbiamo opacizzato il vetro del tavolo del tinello con i polpastrelli delle dita intinti nella
conoscenza. Mia madre passerà uno straccio e il tavolo ritornerà pulito.
Mio padre non ha mai viaggiato, eppure ha viaggiato molto, conosce le montagne non per ciò che esse
sono, ma per ciò che esse rappresentano.
Due sguardi durante la mia vita mi hanno davvero colpito e commosso: quello umile di mio padre appena
rivolto in alto verso le pietre della storia, e quello di Lucia, umilmente piegato verso il basso. A loro
dedico questa mia vita che spero, egoisticamente, mi venga presto tolta.
Ho finalmente deciso di realizzare un film sulla città, e ho anche deciso di lasciare su questi quaderni
tracce del progetto.
Ho scoperto di essere a Duino e ho scoperto, dopo alcune ore, la correlazione tra Duino e Rilke. Per ora,
comunque, l'esperienza più forte è stata quella di aver percepito un suono: dal letto dell'albergo ho udito
due voci di uomini e un rullio metallico, costante e ritmico, ho capito subito che si trattava del trasporto di
una bombola del gas, fatta ruotare a terra, spinta a danza alterna sulla circonferenza della base. E'
incredibile come quel suono abbia decifrato e dipinto in un istante la fisionomia dell'oggetto,
restituendomi realisticamente tutta la scena rappresentata.
Mi sento lontano, come un astronauta che ha reciso il contatto con l'astronave madre. Sarebbe bello essere
ancora tutti assieme, ma il mio 6° quaderno sta per esaurirsi.
Non ho una profonda motivazione a scrivere ma, nonostante la tristezza della solitudine reale, voglio
parlarvi di queste strane cabine di cemento a forma di bozzolo gigante, munite di una arrugginita porticina
metallica, che ho rinvenuto stamattina tra i flutti rivieraschi di Muggia.
Cabina da bagno per un torso di pietra. Presenze di una misteriosa infanzia lontana e vicina al porto di
Trieste. Carlinghe di argonauti di un secolo futuro, bozzoli dischiusi della generazione degli “invisibili”.
Carcasse più dure della morte abbandonate tra i detriti di una estinta stazione portuale.
La solitudine modella il moto marino interiore in alte e basse maree. Il sonno è l'apnea, il risveglio è il
corpo riemerso.
Vivere in due, invece, è una lacerazione che impegna il tempo.
La vita, che strana, inaudita cosa, è come una stalagmite colpita costantemente da una goccia d'acqua che
cade dalla volta celeste. Poi, un bel giorno, l'ardente calcare bianco si spegne e muore.
La mia macchina da scrivere giace sotto un lenzuolo bianco, come se fosse morta. Sono confuso, non so
se sono davvero così pezzente, mediocre artista, se davvero sto lottando contro i mulini a vento.
Il primo collasso della civiltà si ebbe quando i Romani decisero di edificare enormi teatri sul piano;
decisero di replicare artificialmente ciò che gli antichi fecero sull'imbuto dei monti. Da qui, forse, la
nascita dei nostri problemi, a partire da quei pilastroni di malta, *****, impasto con **** mattoni, tufo e
bare lapidarie di marmo.
Il suicidio è un modo per spegnere definitivamente la televisione, uno strappo al cordone che ti lega a
questo angosciante monitoraggio.
Quell'adenoma maligno cresciuto nell'intestino del porto di Trieste è simile a quello di Marghera. Sono le
trovate del XX secolo: un'altra dimensione rispetto alla pazza, decadente, lussuriosa Serenissima.
Ho riaperto la vita all'ignoto, ma tremo al pensiero di ciò che mi aspetta dietro al muro. Le tue ali calde,
dove sono? Ti telefono? Irreparabile divisione, separazione, irreparabile oblio, incredibile rischio. Ma
sono pazzo? Una strada buia nemmeno fatta dall'uomo. Che assurdità!
Di questi tempi esistono ancora le squallide vetrine dove attrici, film e maestri nuovi e vecchi sfilano
senza ritorno dritti dritti verso il buco di culo del XX secolo, dopo aver attraversato tra gli spasmi della
vacuità tutto il canale.
Le immagini del cinema di oggi sono melense, patinate, “fotografiche”, mielose, “tutte a posto”,
asfissianti, sfumate, colorate e pastellate, manierate come è giusto che sia in ogni decadenza che prefigura
la morte senza saperlo. Ingenuità di chi riesce ad apprezzare la differenza tra la vita e la morte. E per
morte intendo il vivere senza consapevolezza, e non la fine del tempo.