la creatività nel quotidiano di Massimo Dolcini fotografie ceramiche

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la creatività nel quotidiano di Massimo Dolcini fotografie ceramiche
Massimo Dolcini.
Grafica di pubblica bontà
Massimo Dolcini è “programmato” per comunicare.
Come artista, come docente, come essere umano.
Passione, ricerca, osservazione, manipolazione e creazione.
Le fasi del processo creativo si assomigliano in tutte le arti.
Ma ne esiste una, unica a coinvolgere tutti e cinque i sensi,
che prevede una fase supplementare imprescindibile.
L’arte culinaria nasce dalla passione per il cibo, passa
attraverso la ricerca degli alimenti, l’osservazione per
decidere cosa dovranno diventare, la manipolazione
della materia e la creazione del piatto. Ma non finisce qui.
Dulcis in fundo giunge l’assaggio. La condivisione
dell’opera. Il vero obiettivo di un cuoco che non consideri
il proprio lavoro un mero sfoggio di abilità è l’assaggio
condiviso. L’atto di cucinare non è atto creativo fine
a se stesso, ma gesto che presuppone l’amore per gli altri,
poiché per gli altri si cucina, siano questi “altri” anche
soltanto una ristretta cerchia di amici e familiari.
Anche la grafica di pubblica utilità, ovvero una
comunicazione che non sia al servizio solo dell’estetica
ma del vivere civico, non esiste per se stessa.
La comunicazione va per sua natura verso gli altri e,
per raggiungerli, utilizza un linguaggio conosciuto
e riconoscibile per trasmettere informazioni, significati,
messaggi. In questo senso è mossa da un processo
creativo che più degli altri si avvicina a quanto accade
in cucina. Come il maestro Michele Provinciali,
da cui trae e rielabora la poetica affettiva degli oggetti,
era figlio di un pasticcere, Massimo Dolcini è figlio
di un ristoratore (un caso?) e respira aria di cucina
fin dall’infanzia, osservando il processo creativo
di mani che trasformano gli alimenti, sviluppano idee,
sperimentano varianti e abbinamenti e infine servono
qualcosa che non è solo un piatto, ma una sintesi
di emozioni tra generosità e fiducia.
La sua produzione artistica è ricca di immagini legate
al cibo, a partire da illustrazioni e marchi realizzati
per aziende del settore. Ma i riferimenti alla cucina,
siano alimenti o strumenti, entrano spesso
nelle opere quando non sono i diretti interessati.
I processi che portano alla realizzazione dell’opera
nell’uno o nell’altro caso sono ben diversi, anzi opposti:
il cibo per parlare d’altro, altro per parlare del cibo.
I manifesti realizzati per il Comune e per le organizzazioni
sociali e culturali di Pesaro, che hanno raccontato
per immagini la vita della città tra il 1971 e il 1985,
rappresentano uno dei casi più importanti in Italia
per la progettazione dell’immagine di un’amministrazione.
In questi manifesti ricorre spesso l’immagine di alimenti
o utensili legati alla cucina. Osservato nel suo contesto
e poi decontestualizzato, l’oggetto familiare, di uso
comune, che rimanda ad azioni quotidiane e alla
gestualità della memoria, diventa veicolo di contenuti
e significati altri. Dolcini “non è un advertiser … non crede
in una grafica che vuole sedurre, convincere, che vuole
far consumare. Crede e lavora su una grafica che
comunica e informa” (Alberto Ridolfi, Grafica Utile),
e racconta qualcosa che i destinatari ancora non sanno,
ma possono intuire grazie all’uso emotivo di un linguaggio
originario e riconoscibile, anche se manipolato
e trasformato fino all’ermetismo o al surrealismo.
Tra mani, martelli, cazzuole, barattoli, chiavi, penne,
vasi, forbici, piante (quante le piantine verdi per parlare
di vita…) e attrezzi dalla funzione ordinaria, anche
le posate assumono valenza evocativa, diventando
una rete che dà fondamento scientifico alla “casalinghità”
e suggerendo che il modo migliore di proporre
la frequentazione di una biblioteca non è presentarla
come un algido tempio della cultura, bensì servirla
apparecchiata di tutto punto, oppure aprirla come
un barattolo di conserva per farne uscire libri golosi
da gustare. Una enorme zucca diventa contenitore
di meraviglie per i bambini, la parte finale
di un pesce si trasforma in un apribottiglie,
la testa umana in una mela verde con le orecchie.
Con lo stesso metodo, rigoroso fino al rituale, che
dal gesto di seminare una piantina nel proprio orto
porta alla realizzazione di un piatto e trasforma
la materia dalla sussistenza all’invenzione,
Dolcini combina e trasforma gli elementi-alimenti in
una poetica che raggiunge forza espressiva chiamando
in causa l coinvolgimento e la partecipazione attiva
ed emotiva dell’osservatore destinatario affinché
colga il concetto che l’autore vuole esprimere,
usando le immagini come parole polisemiche.
Maria Chiara Ballerini
la creatività
nel quotidiano di
Massimo Dolcini
fotografie
ceramiche
disegni
18.07
04.10. 2015
Pesaro
centro arti visive
Pescheria
Da sinistra a destra
in senso orario
Gabriella Stefanini prepara
le cresciole di carnevale,
Cattabrighe
Serpente-vassoio in grès
di Massimo Dolcini
Disegno di Dolcini a pennarelli
della “Contura”, Palmi
Tavola apparecchiata
nella cucina di Cattabrighe
Da sinistra a destra
Veduta della costa calabrese,
disegno a pennarelli
di Massimo Dolcini
Particolare della cucina
di Cattabrighe
a cura di
Ludovico Pratesi
immagine grafica
Ma:design
Massimiliano Patrignani
Monica Zaffini
Allestimento
Sistema Musei
………
…….
si ringraziano per la
collaborazione
.......
direttore dell’Accademia
di Belle Arti, Urbino
Feliciano Paoli
Direttore deI Musei Civici
di Urbania
Lorenzo Grazziani
della Biblioteca Archivio
di Documentazione AIAP
Milano
Corrado Belli
Mauro Filippini
i prestatatori delle opere
Marta Alessandri
Chicca Altomani Ciaroni
Luca Cincini
Otello Berti
Giovanni Morabito
e Valeria Vocaturo
Gabriella Stefanini
Alessandro Dolcini
Marcello Dolcini
Franco Panzini
Giovanni Salerno
Un particolare
ringraziamento
per il prestito dei manifesti
esposti nella mostra
permanente “Grafica Utile”
......Barchiesi
Preside dell’Istituto
Tecnico Donato
Bramante Pesaro
Luigi Panzieri
Una mostra poliedrica
Pesaro rende omaggio a Massimo Dolcini
(1945-2005) uno dei suoi cittadini
più importanti, che ha contribuito
a rivoluzionare il concetto di
comunicazione pubblica e culturale
in Italia, con un’esposizione che
non si limita ad analizzarne la figura
professionale ma si propone di mostrare
come la sua creatività fosse allargata ai
molteplici aspetti della sua vita quotidiana.
Lo sguardo di Massimo è un affondo sul
Dolcini pubblico e privato, in un percorso
che unisce i diversi aspetti di questo
personaggio caleidoscopico, che viene
presentato per la prima volta a 360 gradi,
grazie ad un allestimento ispirato alle sue
creazioni grafiche. Inserita all’interno
dell’attività di rivalutazione di artisti
e collezionisti marchigiani che il Centro Arti
Visive Pescheria conduce da diversi anni,
la mostra di Massimo Dolcini costituisce
un’occasione di riflessione a tutto tondo
su una personalità vulcanica e complessa,
che riprende vita principalmente grazie
ad una numerosa serie di fotografie
inedite, abbinate alle ceramiche realizzate
e collezionate da Massimo insieme
a dipinti e disegni di pregevole fattura.
Infine, nell’ex chiesa del Suffragio
una nutrita selezione dei suoi manifesti
più significativi presentano il volto
più noto di Dolcini, a coronamento
di una rassegna che fa della poliedricità
la sua forza attrattiva.
Ludovico Pratesi
organizzata da
COMUNE DI PESARO
Assessorato alla Bellezza
realizzata da
SISTEMA MUSEO
in collaborazione con
COMUNE DI FANO
COMUNE DI URBANIA
COMUNE DI URBINO
Lo sguardo
fotografico
Le foto
della domenica
Massimo Dolcini era nato con uno sguardo da pittore.
E anche con una vocazione al furto di immagini di cui
si è sempre molto felicemente servito con spirito
picaresco ma trasparente: quello che rubava veniva
elaborato, stravolto e riproposto in modo innovativo,
il “suo”. Del resto è quello che ogni artista compie,
anche inconsciamente, nella sua pratica, ma la peculiarità
dell’operare di Dolcini sta appunto in questa sfrontata
manipolazione delle immagini, seducente, debordante,
eccessiva – eppure rigorosa – dove si legge tutto
il suo piacere di giocare senza remore con immagini
alte e basse ad libitum (suo e nostro).
Per quanto riguarda la fotografia, senza addentrarci
nell’insidioso terreno teorico del rapporto tra fotografia
e arte, diremo che in molte delle sue foto private
(da poco ritrovate) Massimo sembrerebbe perdere questo
atteggiamento di “predatore consapevole” ma, come
vedremo, in realtà non si discosta da questo ruolo,
che anzi conduce con un gioco più sottile, adoperando
con assoluta padronanza linguaggi presi da vari contesti.
Sotto questo “titolo” sono esposte nella mostra stampe
originali di Dolcini e riproduzioni di suoi scatti realizzati
nel contesto familiare e con gli amici che frequentavano
la sua casa-studio sul colle S. Bartolo. Una ex casa
colonica di costruzione abbastanza recente, collocata
in un’area ancora non contaminata da villette suburbane
cresciute sui filari di vigneti, al di qua e al di là di antichi
gelsi, ora in gran parte abbattuti, che segnavano
il sentiero che portava al crinale da cui si apriva la veduta
del mare sotto la falesia.
I soggetti sono i membri della sua famiglia colti in vari
atteggiamenti, nelle stanze dove la luce del mattino filtra
leggera creando un’atmosfera (pittorica?) molto amata
da Massimo, ricercata anche in altre situazioni e in altri
contesti. Ad esempio, nelle foto-ritratto di Emma Corvo
e altri in un momento dell’allestimento della mostra sulla
tessitura artigianale tra Marche e Romagna a Fiorenzuola
nel ’79, dove un telo appoggiato a un pannello, a fianco
di una finestra a levante, offre l’incanto di una luce
sospesa che si appoggia morbida su visi e panneggi.
Stessa atmosfera che ritroviamo nel ritratto del ceramista
bruno Baratti ripreso nel suo atelier dove sculture,
ceramiche, strumenti di lavoro sono rivelati dalla luce
radiante che scende dal lucernario. In certi gruppi le pose
sono quelle della ritrattistica ottocentesca, quando
le lunghe esposizioni richieste dal mezzo fotografico
ancora ai primordi richiedevano la totale immobilità
dei personaggi ritratti. Unica eccezione, il movimento
tra madre e bambino che dopo la fissità della posa
entrano in contatto visivo e aprono un loro dialogo.
In questi scatti lo sguardo di Massimo pare arrendersi
all’emozione degli affetti, ma certi particolari rivelano
che il suo reale interesse è altro: la composizione
dell’immagine, l’abbigliamento dei personaggi,
l’adozione di un’estetica impeccabile, e soprattutto
la messa in scena dell’immagine condotta preliminarmente
seguendo quello spirito della teatralità che si ritrova
in molte sue opere e prima di tutto nella sua vita.
Il corpo
come messaggio
Alla base delle modalità del suo processo creativo
era appunto la teatralità nella sua accezione positiva
di volontà e capacità di creare situazioni, eventi e dunque
immagini. La precedeva l’abilità di percepire le occasioni
opportune, a cui Massimo lavorava ” di suo” costruendo
una messa in scena ideale per produrre poi una
rappresentazione visiva molto al di sopra delle aspettative
dei committenti: ecco la meraviglia del suo mondo
di immagini. In questo processo di “amplificazione
di senso” del soggetto reale o concettuale, una nota
messa in tutta evidenza rivelava la simulazione del regista
e lo purificava del suo inganno: l’ironia leggera
e dichiarata che corre come un filo rosso per tutto
il suo lavoro. Che fa Christian Cassar con quel lungo
bastone da patriarca (che però ha la cuspide di un
attrezzo da giardino), in posa ieratica sul gruppo degli
amici-allievi nello studio di Massimo? Lo aveva raccolto
certamente da qualche parte nella casa e ci si era
conformato nella posa, ma quel semplice gesto è diventato
il punctum ironico dello scatto di Massimo.
Nelle foto “private” hanno spazio anche gli ambienti,
le cose, su cui si posa lo sguardo di Massimo: un insieme
che faceva parte della sua quotidianità e nella cui
rappresentazione si può leggere in trasparenza la lezione
del suo maestro Michele Provinciali sulla memoria degli
oggetti emarginati e l’amore di Massimo per gli oggetti
etnici, gli strumenti del lavoro artigianale, le terrecotte
d’uso in tutte le loro forme e funzionalità.
Nature morte di cose povere, ma illuminate dal suo
interesse e dalla sua scelta, portatori di nuovo valore.
Una seconda sezione in cui è articolata l’esposizione
fotografica riguarda gli scatti relativi al suo lavoro
di grafico che in epoca pre-digitale richiedevano l’impiego
di tecniche manuali: disegno o foto dei soggetti, poi varie
elaborazioni in camera oscura con l’ingranditore su
pellicola fotomeccanica ad alto contrasto ed interventi
manuali successivi di ritocco per arrivare, con altri
passaggi su pellicola, alla stampa finale su carta.
Si tratta quindi di scatti realizzati come primo passo della
progettazione, in location di fortuna, che avevano come
personaggi i collaboratori di Massimo o lo stesso grafico,
realizzati con poca attenzione alle luci e anche alla qualità
dei rullini impiegati. Erano il passo tecnologico successivo
all’idea schizzata su carta, che permetteva di dare
un’impronta realistica ad alcuni manifesti, in particolare
legati a celebrazioni, (ad esempio della Resistenza)
o altri soggetti istituzionali-politici.
In alcuni scatti dove Massimo assume il ruolo di attore,
ritroviamo un altro aspetto della sua creatività: quella
del travestimento, del piacere di rivestire i ruoli più
inconsueti nella quotidianità, come il panciuto Babbo
Natale-inverno, o il dio Pan-primavera che suona il flauto
a un germoglio per aiutarlo a crescere, o altre
rappresentazioni delle stagioni, per un calendario
commissionato da un’azienda fanese produttrice di mobili
in rattan. L’ironia che diventa divertita autoironia.
Altre immagini hanno trovato posto in un possibile album
fotografico di Dolcini fotografo per una ragione che
abbiamo scoperto rivedendole in previsione della loro
possibile esposizione. Dai provini a contatto su carta,
la successione delle varie immagini ricreano un effetto
di movimento che senza rimandare agli esperimenti
di Eadweard Muybridge o altri fotografi attuali,
a posteriori evocano tuttavia questa tipologia di linguaggio.
Altre rappresentazioni hanno inoltre una caratteristica
che ci ha permesso di selezionarne alcune
che per il loro ruolo non ancillare nei confronti della grafica.
Sono infatti “immagini dell’assenza” (la definizione
Mal di ceramica.
Massimo Dolcini ceramista e collezionista
è di Massimiliano Patrignani), che creano un effetto
straniante per la presenza di oggetti “vuoti” (la fascia
del sindaco priva di tricolore, il cartello dell’uomo
che diventerà un partecipante a un corteo senza scritta)
che acquistano senso per lo spettatore successivamente
allo scatto, in uno sguardo procastinato al futuro.
Nella stessa sezione sono poi presentate fotografie
della stagione pesarese della “grafica di pubblica utilità”
e immagini di reportage di ambito politico sociale:
il report di una Festa dell’Unità nel quartiere periferico
di Cattabrighe, la divertente sequenza di due operai
della FLM a cui la moglie ha imposto di fare la spesa
al mercato per rendersi conto dell’aumento dei prezzi,
utilizzata per un vero e proprio “fotoromanzo”
a puntate nell’house organ della locale Federazione
dei metalmeccanici.
Le foto di viaggio.
Persia
meravigliosa
Un altro fortunato ritrovamento è stato quello
di un cospicuo numero di diapositive a colori 6x6 scattate
con l’Hasselblad che sono il reportage di un viaggio
in Iran con Michele Provinciali negli anni ’70. Si tratta
di una committenza dello stesso Provinciali, esploratore
periodico degli aspetti storici e culturali del Paese,
innamorato com’era della sua civiltà. In questo caso
la finalità de viaggio era la documentazione fotografica
dei bazar iraniani e della loro ostensione di oggetti
artigianali che Provinciali intendeva pubblicare in un volume
poi non realizzato. Per Massimo il viaggio fu un percorso
di formazione e di grande stimolo creativo. Le immagini
che presentiamo non hanno bisogno di parole.
Marta Alessandri
Da sinistra in senso orario
La casa-studio
sul San Bartolo
Viviana Bucci al trucco
L’Albero della Cuccagna
alla festa dell’Unità
di Cattabrighe, Pesaro
Il giovane Luigi Carboni,
artista
Da sinistra a destra
in senso orario
Paesaggio iraniano
Ciotole in grès realizzate
da Massimo Dolcini
Vasaio a Fratterosa
Bruno Baratti
nel suo atelier
Porta coltelli artigianale
nella cucina di Dolcini
Paesaggio invernale
Iran, macellaio
Massimo Dolcini aveva sin da giovane sviluppato una
intensa passione verso la terracotta ed in particolare verso
gli oggetti ceramici di uso quotidiano che ancora si
producono nelle zone del mondo, dove questa tradizione
resiste alla concorrenza di metallo e plastica.
Vedeva in questi oggetti semplici, ma nello stesso tempo
di forme eleganti e segnati da una decorazione sobria
quanto energica, il risultato di una sapienza collettiva:
l’intelligenza di anonimi lavoranti che nel tempo avevano
sedimentato su questi utensili miglioramenti di forma
e lavorazione, invenzione di decori. Considerava
le terrecotte d’uso, in passato prodotte da artigiani
specializzati in grande numero, e poi diffuse nei mercati
di vaste aree geografiche attraverso catene distributive
che varcavano monti e mari, all’origine del fenomeno
del design moderno ed anzi fonte di ispirazione per quello
prossimo e futuro. Lui stesso ceramista, e quindi
conoscitore delle tecniche, Dolcini riconosceva nei singoli
pezzi i segni degli strumenti usati per produrli,
i modi in cui la mano si era mossa per dargli forma
e decorarli. Gesti sempre rapidi, legati ad una produzione
di grandi numeri, ma insieme sofisticati perché affinati
attraverso una evoluzione durata decenni e spesso secoli.
Così negli anni, e in puntuale corrispondenza dei suoi
viaggi, panciute brocche indiane, spigolosi bracieri
yemeniti, monumentali olle cipriote, anfore di argilla
porosa dai paesi caldi, vasi da burro del nordeuropa,
capaci pentole balcaniche, solari piatti siciliani si erano
andati sedimentando nella sua casa, formando una
collezione straordinaria (oggi nel Museo Civico di Urbania)
che testimoniava con la sua semplice presenza quello che
Massimo andava sostenendo: che la ceramica popolare,
un tempo presente in ogni casa per una miriade di diverse
funzioni, era stata per secoli uno dei laboratori privilegiati
della creatività umana.
Questo messaggio lo aveva voluto trasmettere anche
attraverso una serie di mostre annualmente organizzate
(insieme a me) a Fiorenzuola di Focara, dal 1998 alla sua
morte. Vi furono presentate ceramiche d'uso provenienti
da contesti geografici disparati, che attestavano la
caratteristica comune a questo tipo di produzione fittile:
di essere oggetti, prodotti da artigiani capaci di eseguire
l'intero ciclo di progetto e produzione, che sapevano
coniugare piacevolezza e funzionalità.
Erano quindi portatori di una lezione per il design
contemporaneo, ma apparivano insieme la testimonianza
di un grande spreco; quello di una secolare eredità
creativa che si andava perdendo nell'indifferenza.
Col senno di poi, non può non scorgersi nella dolorosa
denuncia espressa nelle mostre di Fiorenzuola,
una metafora di quanto andava accadendo
nei medesimi anni nel mondo della grafica
e che coinvolgeva in prima persona Massimo.
Il quale proveniva da una scuola che aveva inteso
la grafica come ricerca di espressività, lezione che
lui stesso aveva esaltato attraverso la sua propensione
ad una comunicazione diretta e giocosa a cui proprio
la manualità dava una cifra inconfondibile.
Gli anni Novanta avevano però visto ineluttabilmente
trasmigrare quella grafica intrisa di artigianalità che
Massimo aveva amato, verso la computer grafica,
in cui la generazione e manipolazione delle immagini
avveniva per mezzo esclusivo del computer, strumento
inadatto a sporcarsi le mani e a cui Massimo si era
avvicinato con estrema ritrosia.
Così, come grafico, si era ritrovato a ripercorrere
l'itinerario doloroso di quei ceramisti messi fuori gioco
dal mutare dei tempi. Sarà forse stato per questa empatia
che la ceramica era diventata una sua personale cura
dell'anima; e il laboratorio dell'amato Franco Bucci
era divenuto il romitaggio dove si ritirava per lasciare
fluire liberamente quella manualità creativa
che i computer gli avevano sottratto.
È in queste circostanza che nacque quella piccola
produzione di ceramiche, strettamente d'uso, che Dolcini
usava per offrire il tè a studio, o regalare a familiari
e amici, rispettando così quel carattere di condivisione
della ceramica d'uso che tanto lo seduceva e in cui
ritrovava un contatto stretto con la sua attività di grafico
pubblico. Le segnava con un marchietto, all'uso dei
ceramisti antichi, e insieme atto di contaminazione
fra ceramica e grafica. Dopo i primi esperimenti minimali
e sobri, ispirati a quel giapponismo che aveva
già meravigliosamente nutrito Franco Bucci, le sue
ceramiche si erano nel tempo andate caricando di minuti
segni grafici. Sino a divenire esse stesse segni,
manipolazioni gestuali, senza nulla perdere della loro
caratteristica di oggetti d'uso. Piccole ceramiche di
traboccante vitalità e poeticità. 'Oggetti per chi ama
la vita,' come ebbe a scrivere di altre ceramiche popolari
in prefazione ad uno dei cataloghi di Fiorenzuola.
Franco Panzini