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la Biblioteca di via Senato mensile, anno vi Milano n.7/ 8 – luglio / agosto 2014 BIBLIOFILIA Alessandro Paganini, spericolato editore di giancarlo petrella PUNTURE DI PENNA Consigli intellettuali per il vero Maître à penser di luigi mascheroni BVS: GRAFICA Una celebre rivista e un grande incisore di luca piva GUERRA E LETTERATURA Vicende belliche nella letteratura classica di marco cimmino GUERRA E SCRITTURA Il giovane Tolkien e la prima guerra mondiale di gianfranco de turris la Biblioteca di via Senato – Milano MENSILE DI BIBLIOFILIA – ANNO VI – N.7-8/53 – MILANO, LUGLIO/AGOSTO 2014 Sommario 6 BvS: Grafica UNA CELEBRE RIVISTA E UN GRANDE INCISORE di Luca Piva 58 Guerra e scrittura IL GIOVANE J.R.R.TOLKIEN E LA PRIMA GUERRA MONDIALE di Gianfranco de Turris 14 Bibliofilia ALESSANDRO PAGANINI, SPERICOLATO EDITORE di Giancarlo Petrella 64 L’Altro Scaffale NAPOLEONE, LA GRAFICA E I FRAMMENTI PUBBLICITARI di Alberto Cesare Ambesi 28 Editoria LA CIVILTÀ PERFEZIONATA DA CHAMFORT A SCIASCIA di Massimo Gatta 69 Filosofia delle parole e delle cose PASSAGGI DI SENSO FRA METAFORA E SIMILITUDINE di Daniele Gigli 33 IN SEDICESIMO – Le rubriche LE MOSTRE – LA PROPOSTA DEL MESE – LA NOTIZIA DEL MESE a cura di Luca Pietro Nicoletti, Federica Balza e Marco Cimmino 71 BvS: il ristoro del buon lettore IL CANTO MAGICO DELLA SIRIOLA di Gianluca Montinaro 50 Punture di penna CONSIGLI INTELLETTUALI PER IL VERO MAÎTRE À PENSER di Luigi Mascheroni 54 Guerra e letteratura VICENDE BELLICHE NELLA LETTERATURA CLASSICA di Marco Cimmino 72 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO SI RINGRAZIANO LE AZIENDE CHE SOSTENGONO QUESTA RIVISTA CON LA LORO COMUNICAZIONE Fondazione Biblioteca di via Senato Biblioteca di via Senato – Edizioni Presidente Marcello Dell’Utri Redazione Via Senato 14 - 20122 Milano Tel. 02 76215318 - Fax 02 798567 [email protected] [email protected] www.bibliotecadiviasenato.it Consiglio di Amministrazione Marcello Dell’Utri Giuliano Adreani Fedele Confalonieri Ennio Doris Fabio Pierotti Cei Fulvio Pravadelli Carlo Tognoli Segretario Generale Angelo de Tomasi Collegio dei Revisori dei conti Presidente Achille Frattini Revisori Gianfranco Polerani Francesco Antonio Giampaolo Direttore responsabile Gianluca Montinaro Servizi Generali Gaudio Saracino Coordinamento pubblicità Ines Lattuada Margherita Savarese Progetto grafico Elena Buffa Fotolito e stampa Galli Thierry, Milano Referenze fotografiche Saporetti Immagine d’Arte - Milano Immagine di copertina Diego Pettinelli, Costruzione del Teatro al Vittoriale (1937) Stampato in Italia © 2014 – Biblioteca di via Senato Edizioni – Tutti i diritti riservati L’Editore si dichiara disponibile a regolare eventuali diritti per immagini o testi di cui non sia stato possibile reperire la fonte Reg. Trib. di Milano n. 104 del 11/03/2009 Editoriale C i sono casi sui quali non si può tacere e voltare la testa dall’altra parte. Ci sono eventi intorno ai quali è doveroso manifestare una propria opinione. Anche se potrebbe essere più comodo far finta di nulla. Anche se potrebbe essere più politically correct accettare, passivamente, l’idea corrente, per lo più basata e costruita (del tutto in malafede) sul sentito dire, sull’approssimazione e sulla generale ignoranza... Cervelli all’ammasso che abbondano nel nostro disastrato e pavido Paese. Esprimere, in modo garbato, il proprio parere, seppure contrastante con quello dei più, è un dovere morale e civile. Morale perché riguarda la sfera dell’individuo e dei suoi valori (fra i quali, innanzi tutto, la coerenza personale). Civile perché proclamare verità differenti dovrebbe aiutare a far maturare e crescere, nella pluralità e nel rispetto reciproco, il consorzio umano del quale tutti noi facciamo parte. Manifestare la propria opinione si rende ancor più necessario nei casi ove ci si trovi personalmente coinvolti, o ove si trovino coinvolte persone direttamente conosciute. Individui con i quali si è avuto a che fare, con i quali si è lavorato, con i quali si sono condivisi idee e progetti, momenti privati e pubblici, situazioni di gioia e di sconforto. Tutto ciò premesso, sugli eventi occorsi in 4 queste ultime settimane al presidente della Fondazione della Biblioteca di via Senato, al di là di tutto il clamore mediatico suscitato, si impone una chiara e netta espressione del proprio pensiero personale. Per ciò che mi riguarda, nessun giudice potrà mai convincermi della veridicità di ciò di cui è stato accusato il senatore Marcello Dell’Utri. La mia esperienza personale e diretta e la mia consuetudine con lui mi dicono tutt’altro. Mi raccontano di un’altra persona. Mi parlano di un uomo colto, mite, pacato, pronto alla riflessione e all’introspezione. Ma sempre con una parola, un sorriso, una battuta per tutti. Mi narrano di una persona tranquilla, nella rassegnata impotenza alla propria sorte. Conosco Marcello Dell’Utri da quasi quindici anni, da quando - ventenne capitai per la prima volta in via Senato. Benché molto impegnato lui trovò un po’ di la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 tempo anche per me. Parlammo, ovviamente, di libri, e in modo particolare di Aldo Manuzio. Quando mi salutò mi chiese se conoscevo la rivista che da poco aveva iniziato a pubblicare, il raffinato «l’Erasmo», diretto da Carlo Carena. Risposi di sì, aggiungendo però che mi mancavano i primi tre numeri. Subito se li fece portare dalla segretaria, li mise in una borsa e me ne fece dono. Mi accompagnò alla porta, dicendomi di tornare presto a trovarlo. Lo feci, a distanza di poche settimane: sentivo sintonia con quest’uomo che non mi aveva suscitato sentimenti di timore o timidezza. In quella seconda occasione mi guidò personalmente nella visita alla Biblioteca, mostrandomi alcuni dei pezzi più importanti del Fondo Antico, fra quelli conservati nell’allora Sala Serpotta. Gli raccontai dei miei studi sull’utopia, sulla nascita del pensiero politico in età Moderna e luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 5 sulla storia del Rinascimento. Lui non solo mi invitò a frequentare liberamente la Biblioteca ma mi propose di avviare una collaborazione. Mi propose anche di partecipare all’avventura del nascente «Domenicale». Ovviamente accettai con gratitudine ed entusiasmo. Da allora tanto tempo è passato ma ancora oggi, ogni giorno, arrivando in Biblioteca, provo nei suoi confronti i medesimi sentimenti. Grazie a Marcello Dell’Utri ho imparato, in modo più profondo e più vero, non solo l’amore per i libri, per il sapere, per la cultura ma anche ciò che a esso sottende: il rispetto per la verità e per la libertà. Il rigore intellettuale e il giudizio critico. La comprensione e la pietas. Io non so se definire Marcello Dell’Utri un «prigioniero politico» o un «detenuto per reati d’opinione» (come si è letto su alcuni organi d’informazione). Ma sento come un’ingiustizia la sorte che qualcuno gli ha assegnato. E vivo come ignobile crudeltà l’indegno spettacolo che tanta stampa e televisione hanno suscitato attorno alla sua persona. Ora, penso spesso ai tanti momenti passati insieme. In particolare ce n’è uno che spicca sugli altri. Una sera d’estate, sul lago di Como: parlavamo come sempre di libri. E a un tratto lui recitò una terzina della Commedia, il passo in cui Dante si trova al cospetto di Dio: «Nel suo profondo vidi che si interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna». Rimanemmo per dieci minuti in silenzio, a riflettere. In sottofondo solo il rumore delle onde del lago... Gianluca Montinaro 6 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 7 BvS: Grafica UNA CELEBRE RIVISTA E UN GRANDE INCISORE Le xilografie di Diego Pettinelli sulle pagine dell’«Eroica» LUCA PIVA N el 2004 la Biblioteca di te il Vittoriale, intrattenne rapvia Senato acquisì la porti familiari con d’Annunzio e collezione completa collaborò ad alcuni dei suoi indell’«Eroica», la “Rassegna d’onumerevoli progetti. Nel 1935 gni poesia” fondata nel 1911 a La incise le illustrazioni per una raSpezia da Ettore Cozzani, e da ra e preziosa edizione di Le dit du lui diretta fino all’ultimo numesourd et muet qui fut miraculè en ro uscito a Milano nel 1944. Per l’an de grace MCCLXVI ; dopo la l’occasione furono dedicati alla morte del Poeta incise le coperrivista una mostra e un puntuale tine per un’edizione commentacatalogo, che proiettarono un ta di tutte le sue liriche, pubbliraggio di luce su tutto un mondo cata da Zanichelli fra gli anni di letterati e artisti che sembrava quaranta e cinquanta e, per lo essere stato avvolto dall’ombra stesso editore e quindi anche per di un tenace oblio. Fra gli altri va Airoldi, quelle di altri volumi di annoverato il pittore marchigiaargomento dannunziano. Sia no Diego Pettinelli, alla cui attipure in tono minore, Pettinelli vità di incisore «L’Eroica» dedi- Sopra: Adolfo de Carolis, Frontespizio raccolse l’eredità di De Carolis, cò tutto l’apparato iconografico (1917). Nella pagina accanto: Diego illustratore principe di d’Andel quaderno 274-275, datato Pettinelli, Autoritratto (1939) nunzio da Francesca da Rimini giugno-luglio 1941. (1902) sino al Notturno (1921), Nato a Matelica nel 1897 e in una continuità di risultati sanmorto a Roma nel 1989, Pettinelli si formò presso cita dalla comune radice linguistica e dall’utilizzo l’Istituto di Belle Arti di Urbino. Fu allievo e colla- del medesimo strumento espressivo: il nero proboratore di Adolfo de Carolis, che coadiuvò nella fondo che imprime sulla carta la matrice lignea. realizzazione di importanti cicli di affreschi e del Un accento personale distingue le opere di Pettiquale sposò la figlia Adriana; al pari del suo mae- nelli da quelle del suo maestro: se infatti l’adesione stro fu un virtuoso nell’arte della xilografia. Fra il al più elevato modello rinascimentale manteneva 1926 e il 1936, veterano della Grande Guerra de- sempre le figure di De Carolis su un piano di altera corato di Croce al Merito, frequentò assiduamen- solennità, il suo allievo si rivolse invece alla franca 8 eloquenza di modelli più interlocutori, come la scultura e la pittura musiva dell’ultima romanità e del romanico, dove una classicità irrisolta agisce più da aspirazione che da norma, le fisonomie appaiono più rudimentali e talvolta giungono ad assumere un ricercato sapore popolaresco. Il periodo di più intensa attività editoriale fu per Pettinelli quello a cavallo fra gli anni trenta e quaranta, quando fornì tutte le copertine e le illustrazioni per i mondadoriani Annali dell’Africa Italiana, interpretando l’impresa coloniale in chiave di epopea, e per opere di disparati argomenti, in particolare per conto dell’editore Zanichelli che gli diede occasione di spaziare dai Lirici Greci a trattati di pratica militare, includendo una Vita di Giacomo Leopardi curiosamente tradotta in un’iconografia di sapore Strapaesano. Nel secondo dopoguerra Pettinelli si dedicò prevalentemente all’insegnamento, presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, al restauro e, come sempre, a incidere e dipingere; la sua carriera di illustratore si interruppe bruscamente, così che le xilografie di quest’ultimo periodo, non comparendo più sulle pagine di libri e riviste, rimasero diffuse in un ambito più circoscritto: sola l’eccezione, il tribolato progetto di un Piccolo Vangelo, intagliato entro la fine degli anni quaranta e parzialmente dato alle stampe solo nel 1975 dalla Editoriale Romana d’Arte. In questa serie di piccoli legni l’artista appare raccolto in una disposizione di spirito molto diversa da quella la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 che lo animava pochi anni prima, va a recuperare i lontanissimi echi lotteschi diffusi in tante chiese marchigiane, e si esprime con la voce smorzata che basta a chi parla rivolto a sé stesso. Quando, nel 1919, Pettinelli intraprese l’attività di incisore, la xilografia attraversava un periodo di diffuso rigoglio. L’incisione su legno aveva accompagnato la prima fioritura dell’arte tipografica fra quattro e cinquecento, per andare poi esaurendo la sua stagione più feconda nel corso del sedicesimo secolo, a beneficio della più duttile incisione calcografica su metallo. Nella seconda metà del diciottesimo secolo era divenuta uno strumento di riproduzione obsoleto, allorché la fortunata introduzione di un aggiornamento tecnico la condusse a un nuovo periodo di inattesa fortuna: in alternativa alla consuetudine, fino ad allora sistematica, di lavorare tavole di legno di filo, fu sperimentato l’impiego del legno di testa - tagliato trasversalmente alla lunghezza del tronco - che offre una superficie più regolare e compatta, agevolando un intaglio di finezza paragonabile a quello che si ottiene sul metallo, e offrendo in aggiunta il vantaggio di matrici poco meno che inesauribili. Entro la fine dell’Ottocento questa innovazione conobbe un’imponente applicazione nel campo della stampa industriale, dando luogo a risultati commercialmente efficacissimi, ma di scarso o nullo valore estetico. A partire dai primi anni del Novecento ebbe luogo un risveglio dell’impiego artistico della luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 9 Sopra: Diego Pettinelli, Costruzione del Teatro al Vittoriale (1937). Nella pagina accanto dall’alto: Adolfo de Carolis, Frontespizio (1914); Diego Pettinelli, Copertina (1942) stampa xilografica, che in Italia prese il via nella cerchia di d’Annunzio, sempre solerte nell’estrarre tesori dimenticati dal forziere dei secoli aurei della nostra civiltà, trovò un ardente propulsore nell’«Eroica», ed ebbe il riconosciuto caposcuola in De Carolis, che seppe elevare le procedure e gli strumenti dell’intaglio su legno di testa alla dimensione della creazione poetica, battendo una strada che Pettinelli, di pari passo con altri colleghi, avrebbe seguito sino a esiti di mirabile raffinatezza. Proprio su questo punto nel sodalizio dell’«Eroi- ca» emerse un contrasto di orientamenti che nel 1914 condusse all’allontanamento del gruppo di De Carolis, la cui propensione alla ricerca di effetti chiaroscurali complessi, tipici di altre e diverse tecniche espressive, fu giudicato contraddittorio rispetto al carattere che a questa data Cozzani riteneva più consono alla xilografia, individuato nella laconica contrapposizione di campiture uniformi. A distanza di un secolo ci si può stupire nel misurare quanto trasporto di passione si sia sollevato nel nome di una disciplina avara di lusinghe qual è 10 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 sto e quattordici fra fregi, finali e vignette. La prima stampa, un autoritratto al cavalletto, si impone in forza di una statuaria solidità, singolarmente accordata a una pittorica dovizia tonale: il disegno di base annota la realtà con puntigliosa attenzione, senza caricarla di affettazioni stilistiche o grevità naturalistiche, traducendola nei termini di un idioma educato ed eloquente; ma sono solo i ferri dell’incisore a determinare il carattere della rappresentazione, rilevandola a uno spessore di misurata monumentalità. Sopra: Diego Pettinelli, Ritratto di Gian Carlo Maroni (1935) l’intaglio di matrici lignee. A guadagnarle una patente di nobiltà furono proprio i suoi aspetti più ingrati: la molteplicità di insidie che si oppongono a chi si propone di domare la materia, l’impraticabilità di ripensamenti e correzioni, le doti marziali pretese da chi si dedica al suo esercizio, al quale si addicono chiarezza di obbiettivi, determinazione, destrezza, saldezza di mano e di spirito. Nella xilografia si volle riconoscere un cimento di michelangiolesca virilità, capace di parlare con franchezza a un pubblico più vasto di quello dei cultori d’arte, consono a una generazione d’uomini che aveva attraversato i rigori della guerra, degno di onorare con un medesimo gesto il culto della bellezza e quello degli eroi. Il fascicolo dell’«Eroica» dedicato a Pettinelli reca in copertina un corsivo schizzo a penna, agile preludio a una rassegna di opere esenti da qualsiasi inclinazione bozzettistica, tutte contrassegnate dal massimo impegno esecutivo: dieci tavole fuori te- La maggior parte delle tavole successive raffigurano paesaggi di molto ampio respiro, composti da una armonica varietà di piante, colture e fabbricati, e intonati a una più marcata stilizzazione. Si distinguono fra gli altri due quadri di soggetto dannunziano: un ritratto, eseguito nel 1935, dell’architetto del Vittoriale Gian Carlo Maroni, MAGISTER DE VIVIS LAPIDIBVS, e una rievocazione della costruzione del teatro all’aperto nel Vittoriale medesimo, nella quale un articolato scenario naturale e architettonico appare animato da scene di lavoro alacre e unanime, la dannunziana fatica senza fatica, graficamente riecheggiata dal caparbio perseverare dei bulini. Su ogni tavola le punte instancabili distendono un mutevole tessuto di ombre e penombre sparso di innumerevoli tocchi di lume, chiudendo campiture smorzate in profili taglienti, senza che lo sfumato cerchi mai effetti di profondità atmosferica, ma piuttosto un’apparenza di tangibile concretezza. Ciascuna figura appare non descritta ma costruita, mettendo a frutto ogni più ardua opportunità offerta dalla tecnica xilografica giunta ad un grado estremo di maturità. «Il Pettinelli ha colto in mano agli incisori di mestiere dell’Ottocento, incisori capaci di un vero miracolo di fedeltà riproduttiva, il bulino a più punte, e ne ha fatto uno strumento d’arte nobile e ispirato, prova d’una coscienza d’artista che non tema di battere le strade più pericolose… l’incisione in legno egli la luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano tratta con una sua tecnica particolarissima che lo distingue da tutti gli altri xilografi italiani del nostro tempo… appartiene a quella schiera di incisori che forzano questa nobile schietta materia a espressioni di chiaroscuro così fine e vario e a volte impalpabile, che rasenta quelle della litografia, e le indefinibili tonalità dell’acquerello… non ha violentato il legno ma lo ha attratto al suo stile. La xilografia deve al Pettinelli l’apertura di un nuovo orizzonte, ed egli, come fortunato pioniere, ci darà una vasta messe di opere nobili come il suo sogno» (s.f., Diego Pettinelli, in «L’Eroica» n. 274-275). L’apparizione sull’«Eroica» segnò il culmine nel percorso di incisore e illustratore di Pettinelli, e qualcosa di simile a una consacrazione, ma fu anche il preludio a un impreveduto canto del cigno. Le dimensioni ridotte o minime di alcuni suoi lavori precedenti, come le illustrazioni per i Lirici Greci, lo avevano talvolta imprigionato in un fare faticato e scolastico, più incline alla parafrasi che alla invenzione, e solo il confronto con 11 formati di maggior respiro lo condusse a raggiungere il giusto equilibrio fra disciplina e libertà creativa; quanto alle vicende successive della sua attività, sembra che a determinarle abbia concorso più il mutare delle circostanze storiche che la scelta di orientamenti artistici. «L’Eroica» e i suoi sodali non mostrarono mai alcuna reticenza nel sostenere il fascismo e il suo capo, fin dentro il baratro della guerra: negli ultimi numeri della rivista rintocca un raggelante stillicidio di notizie luttuose che registrano la morte violenta di collaboratori, amici e persone note, con la costernata fermezza di chi sostiene i rovesci del destino ritenendo di trovarsi dalla parte della ragione. Ma non fu un pregiudizio ideologico, agevolmente sanabile al pezzo vantaggioso di un’abiura, a condannare all’oblio opere come quelle di Pettinelli e di artisti a lui affini, quanto piuttosto una pendenza di ordine culturale: la connaturata fedeltà a una lingua figurativa di remoto lignaggio, fieramente italiana nella propensione ad assoggettare le forme al Sotto da sinistra: Diego Pettinelli, due fregi da “Annali dell’Africa Italiana” 12 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 13 Nella pagina accanto: Diego Pettinelli, La Cava (1936). A destra: Diego Pettinelli, La Valle della Morte (1936) proprio regolato governo, che fu il bersaglio privilegiato dell’azione eversiva delle avanguardie storiche. Se esiste una categoria di arte tardo italiana simmetrica a quella di tardo antico che qualifica l’estrema classicità, essa ben si adatta ai legni lavorati con scrupolo e vigore da questo volonteroso comprimario di una scena artistica, del tutto immune da tentazioni decadentistiche, sulla quale il sipario calò improvviso ed inatteso. La cava, xilografia del 1936 esposta nello stesso anno alla Biennale di Venezia e acquisita alla collezione reale, ci pone al cospetto di una bella di piante famiglia e d’animali: una valle abbeverata dal rapido corso di un fiume sale verso un alto orizzonte seguendo un accavallarsi di colline, la cui natura generosa è ingentilita da piantagioni e seminati e popolata da piccoli borghi distesi al sole; in primo piano vediamo affaccendata una squadra di operai che scavano una vena di marmo emersa dalla radice del monte, e ai loro piedi, simile a un’apparizione, biancheggia la testa di una statua classica, presagio del nobile esito cui è rivolta la loro umile fatica. Nell’estate del 1941, quando compare sulle pagine dell’«Eroica», questo corale laus vitae si presenta nella luce di un cruento crepuscolo, inducendoci a collocarlo in un fondale sul quale incombe l’urto di un’ora fatale, disseminato di devastazioni, teatro di mesti commiati, perdite irreparabili, rapinose metamorfosi. La soluzione di continuità che sopravvenne fu così tagliente da mutare il corso dei fatti a venire e anche, in accordo con il rinnovato spirito del tempo, di quelli passati. Della xilografia del secolo scorso rimane nei compendi di storia dell’arte solo il filone espressionista e primitiveggiante che fece capo ai rudi legni polinesiani di Gauguin e alle buie variazioni di Munch, rivolgendosi a un uso vigoro- so e sommario del legno di filo, mentre il ricordo degli incisori italiani novecenteschi, che non ebbero timore di contrastare la corrente della storia per andare a riprendere un percorso lasciato interrotto dai maestri del tempo di Ugo da Carpi, è coltivato da studi locali o specialistici, e i loro nomi conservano un suono sbiadito, che fatica a valicare i confini di una vicenda chiusa: Giulio Cisari, Gino Barbieri, Remo Branca, Carlo Guarnieri, Adalberto Migliorati, Plinio Morbiducci, Antonello Moroni, Aldo Patocchi, Diego Pettinelli… Appena la guerra fu passata, molti poterono credere che, terminato il tempo del sangue e delle macerie, la cultura figurativa italiana fosse destinata a reincamminarsi nell’alveo naturale della sua secolare tradizione, solo emendandosi dai connotati più confacenti allo spirito del deposto regime. Viceversa, la stagione incipiente avrebbe provveduto a mettere in chiaro quanti e quali mutamenti inevitabilmente determini una sconfitta senza appello. L’autore dell’articolo ringrazia il personale della Biblioteca comunale di Matelica per la gentile collaborazione. Altre notizie su Diego Pettinelli si trovano nel saggio di Antonio Trecciola, Il mestiere di pittore - Momenti della formazione umana e artistica di Diego Pettinelli, pittore Matelicese, in AA. VV., Persone e Fatti di Matelica, Matelica, Grafostil, 2001. 14 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 Bibliofilia ALESSANDRO PAGANINI, SPERICOLATO EDITORE Un imprenditore fra tascabili, libri di ricami e un Corano arabo GIANCARLO PETRELLA L a famiglia Paganini era oriunda di Cigole, piccolo borgo della campagna bresciana che, per una curiosa coincidenza, tra Quattro e Cinquecento diede i natali ad altri valenti stampatori, fra cui Giovanni Antonio Bresciano e la nutrita dinastia dei Turlino.1 Fu Paganino Paganini ad avviare l’attività tipografico-editoriale trasferendosi a Venezia verosimilmente intorno ai primi anni Ottanta del Quattrocento. Nel 1487 era già conosciuto come «stampator di libri», se con tale appellativo compare in un documento dal quale apprendiamo fosse stato coinvolto in un processo per falsificazione di monete dal quale uscì comunque indenne. Prima di mettersi in proprio Paganino aveva scelto di dividere i rischi con il mantovano Giorgio Arrivabene, col quale, tra il 1483 e il 1488, stampò alcune belle edizioni di opere giuridiche e religiose. Alla fine degli anni Ottanta del Quattrocento aprì bottega da solo, forse grazie anche all’aiuto dell’influente stampatore di origini tedesche Francesco Fontana, alias Frank Renner, di cui Paganino aveva ‘strategicamente’ sposato la figlia Cristina. Nel frattempo dovevano essere sopraggiunti a Venezia al- tri due membri della famiglia, Jacopo e Girolamo, che lavorarono in proprio per circa un triennio firmando però soltanto una manciata di edizioni. Poi di loro si perdono le tracce e Paganino tornò a dominare la scena attraverso una serie ravvicinata di edizioni religiose o rivolte al mercato universitario: Bibbie, messali, testi di diritto canonico e civile, opere di filosofia. I proventi della florida attività di stampatore erano oculatamente reinvestiti in altri settori, fra cui beni immobili in Friuli e nella Riviera del Garda, che di lì a poco sarebbe divenuta la seconda residenza dei Paganini. All’attività tipografico-editoriale si affiancava infine, in una sapiente gestione dell’impresa familiare, l’apertura di una libreria ‘all’insegna della Sirena’ che rimarrà il referente per la vendita anche dopo il trasferimento della tipografia a Toscolano, sulle sponde del Garda. Intanto nel retrobottega moveva i primi passi il figlio Alessandro che dimostrò assai presto le proprie indubbie doti tecniche come disegnatore e incisore di caratteri. Iniziò, e non poteva essere diversamente, all’ombra del padre, all’epoca già affermato e stimato tipografo-editore con oltre un ventennio di solida atti- luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 15 Sopra: Francesco da Modena, Viaggio a Gerusalemme, Salò, Alessandro Paganini, 1517, colophon. Nella pagina accanto: Viaggio a Gerusalemme, Salò, Alessandro Paganini, 1517, c. A1r vità alle spalle. Ma, come spesso accade nelle imprese di famiglia, non si accontentò di commesse già pronte e di un catalogo nel quale probabilmente non si rispecchiava e finì col percorrere strade tutte sue, che l’eccessiva prudenza imprenditoriale paterna avrebbe certo disdegnato. Audacia e grande abilità tecnica lo portarono a rinnovare profondamente il panorama editoriale italiano del primo Cinquecento. Il gusto per l’azzardo lo spinse infine oltre il limite, affascinato dalla possibilità di sbarcare per primo sul mercato ottomano sgombro dalla concorrenza con un’edizione nientemeno che del Corano in arabo. Ma procediamo con ordine. Dopo aver mosso i primi passi nel retrobottega, nel volgere di pochi anni Alessandro raggiunse una graduale autonomia rispetto alle scelte editoriali del padre Paganino, la cui attività si andò invece affievolendo fino a cessare del tutto nel 1511. La carriera di Alessandro Paganini si estende per circa un trentennio (1509-1538), nel quale licenziò un centinaio di edizioni, stampate dapprima a Venezia e poi, dal 1517, sulle sponde del Garda.2 Esordì nel 1509 incidendo l’elegantissimo carattere impiegato in due autentici capolavori della tipografia rinascimentale, l’Euclide volgare curato dal matemati- 16 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 Viaggio a Gerusalemme, Salò, Alessandro Paganini, 1517, testo con silografie co Luca Pacioli, già discepolo di Leonardo da Vinci, e la Divina proportione dello stesso Pacioli. Poi, nel 1515, il salto di qualità, compiuto progettando e realizzando una rivoluzionaria collana di classici volgari e latini nel minuscolo formato in ventiquattresimo (ciò vuol dire specchio di stampa pari a circa mm 85x40) per cui disegnò appositamente un minutissimo carattere (meno di 2 mm e mezzo per linea di testo) ibrido tra romano e corsivo.3 La serie di libretti da mano si apre nell’aprile del 1515 col Petrarca volgare dedicato alla marchesa Isabella d’Este, presto seguito, nel fecondissimo biennio 1515-1516, dall’Arcadia del Sannazaro, gli Asolani del Bembo, la Divina commedia, il Corbaccio e una schiera di autori latini, tra cui il prediletto Ovidio. L’ultimo titolo della collana, licenziato nel giugno 1516, è la Cerva bianca del Fregoso (colophon: Venezia, Alessandro Paganini, 18 giugno 1516), riemersa in questi mesi presso la libreria Chartaphilus di Milano in un raro esemplare (Edit16 ne registra solo 4 copie in biblioteche italiane) con elegante legatura settecentesca in marocchino rosso.4 Poi, senza alcuna evidente motivazione, nel 1517, dopo anni floridissimi nei quali Alessandro aveva saputo rinnovare profondamente l’attività paterna, i Paganini scelsero di trasferire i torchi dalla Laguna alle sponde del Garda: dapprima a Salò, dove esordirono collaborando col francescano luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 17 Alexander de Villedieu, Doctrinale, Toscolano, Alessandro Paganini, [1519-20], cc. 1v-2r Francesco Licheto, priore del convento sull’Isola di Garda, per cui stamparono due commenti a Duns Scoto, poi, definitivamente, a Toscolano. Il nuovo inizio è contraddistinto da alcuni titoli interlocutori dietro i quali non si intravede ancora alcun progetto di più ampia portata. Il primo libro con la firma di Alessandro Paganini dopo il trasferimento da Venezia («Stampata in Salò ad instantia de Alexandro Paganino di Paganini Brixiano nel Anno Mcccccxvii adi vii Decembrio») è il Viaggio a Gerusalemme di tal Francesco di Alessandro da Modena, grazioso libretto popolare di sole otto carte, adorno di cinque silografie di soggetto religioso, che tramanda il resoconto di un pelle- grinaggio a Gerusalemme. Seguono un sempre remunerativo Pronostico per l’anno 1518 dell’astronomo bolognese Ludovico Vitali (Cantamessa 8464) e un manipolo di testi grammaticali, tra cui il vecchio Doctrinale di Alexander de Villedieu, uno dei più diffusi strumenti didattici tardomedievali, nel quale reimpiega una curiosa silografia di ascendenza forse astrologica raffigurante un docente (o un astrologo) in cattedra ai cui lati due fanciulli dormono nei loro letti. Nel 1521, dopo un avvio in sordina, dai suoi torchì uscì la prestigiosa edizione dell’Opus macaronicorum di Teofilo Folengo illustrata da un corredo di 54 esuberanti silografie e contemporaneamente riavviò il più so- 18 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 Sopra da sinistra: Burato, [Toscolano], Paganino e Alessandro Paganini, [c. 1532]; Ovidius, Metamorphoseon libri XV, Toscolano, Alessandro Paganini, 1526, frontespizio. stanzioso progetto della collezione nel piccolissimo formato in ventiquattresimo. La collana riprese in terra benacense con una silloge di opere ovidiane (Fasti, Tristia, De Ponto, Ibis, ad Liviam consolatio) e proseguì a ritmo serrato con Sallustio, le Metamorfosi, un altro Petrarca volgare dopo quello veneziano del 1515, Orazio, fino a chiudere stancamente i battenti con l’esperimento piuttosto bizzarro delle Institutiones imperiales. Ma Alessandro già pensava ad altri lucrosi progetti. Ai primi anni Trenta risalgono infatti i Libri dei ricami. Alessandro Paganini, ispirandosi quasi certamente a modelli d’Oltralpe, vale a dire edizioni tedesche e francesi di analogo argomento, confezionò intorno al 1531-1532 una o forse più raccolte di disegni per le ricamatrici anticipando di alcuni secoli analoghi prodotti oggi facilmente acquistabili in edicola. Il Burato, cosiddetto da un tessuto leggero per i ricami, è un curiosissimo libretto che contiene soltanto una ventina di reticolati vuoti sui quali le ricamatrici disegnavano i modelli che avrebbero in un secondo momento riportato sulla stoffa. I Libri de richami offrono invece una cospicua serie di disegni e modelli pronti all’uso. Non si trattava insomma di libri veri e propri, ma di opuscoli di poche carte destinati a essere impiegati e inevitabilmente distrutti. Da qui l’assoluta rarità degli esemplari giunti fino a noi, al punto che di alcune edizioni sembra non sia addirittura sopravvissuta copia alcuna. luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano Nel corso degli anni Trenta la produzione toscolanense del Paganini subì una drastica quanto evidente contrazione: le ultime due edizioni datate note (le Epistolae Heroidum di Ovidio e una raccolta di modelli epistolari composta dal veneziano Giovanni Antonio Tagliente) risalgono al 1538, anno della scomparsa del patriarca Paganino Paganini. Negli stessi mesi anche Alessandro sembra chiudere definitivamente l’esperienza tipografico-editoriale, probabilmente in conseguenza dell’operazione più azzardata della sua carriera, il tentativo di realizzare un’edizione del Corano in arabo. Persino l’allontanamento da Venezia fu a lungo messo in relazione con il fallimento di tale operazione editoriale. Di questa opinione era ancora Ugo Baroncelli, secondo il quale Paganino si risolse a lasciare Venezia mosso «dal desiderio di ritrovare la salute e la serenità dello spirito, amareggiato dalla triste esperienza della stampa del Corano».5 Gli studi successivi hanno invece dimostrato che le cose andarono diversamente e che la scelta di Toscolano fu piuttosto il tentativo da parte dei Paganini di ‘delocalizzare’ la produzione del libro a stampa, avvicinandola nella fattispecie al centro della produzione cartaria, attività nella quale i Paganini erano peraltro assai ben inseriti. Da Toscolano risme di carta bianca e fogli stampati raggiungevano attraverso le vie d’acqua la libreria ‘all’insegna della Sirena’ rimasta attiva a Venezia. Ma torniamo all’edizione del Corano, realizzata o solo presunta, di cui si è tornato a parlare negli ultimi mesi. Per secoli l’edizione in arabo del Corano stampata nel primo Cinquecento a Venezia e attribuita ai Paganini, frequentemente citata dagli studiosi ma mai vista da alcuno, è stata avvolta da un’aura di mistero. Almeno fino al 1987, quando presso la Biblioteca dei frati minori di San Michele in Isola a Venezia Angela Nuovo individuò quella che a tutt’oggi risulta l’unica copia nota. Un primo articolo apparso sulla gloriosa rivista 19 Luca Pacioli, Summa de Arithmetica, Toscolano, Alessandro Paganini, 1523, frontespizio «La Bibliofilia» di Olschki ne dava prontamente notizia e provava a dipanare l’intricata vicenda.6 La studiosa è inoltre ritornata di recente sulla questione, con qualche nuova acquisizione, dalle pagine dell’ultimo fascicolo dei «Nuovi Annali della Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari» editi sempre da Olschki.7 Il volume, un in folio di 232 carte, è interamente in arabo e privo di note tipografiche, data compresa. Come quindi assegnarla ai Paganini? L’attribuzione è supportata da documentazione coeva che porta sul banco dei testimoni due orientalisti dell’epoca, Teseo Ambrogio degli Albonesi (1469-1540 c.) e Guillaume Postel (1510-1581). L’orientalista pavese Teseo Ambrogio degli Albo- 20 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 Teofilo Folengo, Opus macaronicorum, Toscolano, Alessandro Paganini, 1521, cc. Q1v-Q2r nesi, in un passo della sua Introductio in Chaldaicam linguam pubblicata a Pavia nel 1539, riferisce che Postel lo aveva pregato di procurargli presso «Alexandrum Paganini Brixiensis filium» punzoni e matrici di quei caratteri arabi con cui poco prima avevano impresso il Corano: «typos formasque Punicarum literarum quibus olim pater eius Alcoranum impresserat». A sua volta Postel, scrivendo nel 1568, afferma che circa trent’anni prima, dunque nel 1538, fu stampato a Venezia un Corano coi caratteri tipografici («illud Corani Arabicum exemplar quod typis iam ante 30 annos Venetiis prodierat»). Affidandosi dunque alle fonti documentarie coeve, fin da metà Cinquecento, si era a conoscenza di un’edizione veneziana del Corano, uscita coi tipi dei Paganini. Di questa edizione si persero però presto le tracce, tanto che l’orientalista olandese Thomas van Erpe nel 1620 poteva citare nella sua bibliografia un Corano veneziano degli anni Trenta del Cinquecento, aggiungendo però che tutti gli esemplari erano stati bruciati («Alcoranus Arabice circa annum 1530 literis Arabicis sed exemplaria omnia cremata sunt»).8 La storiografia protestante attribuiva la colpa di aver dato alle fiamme il Corano dei Paganini alla Chiesa di Roma. Il rogo, in realtà, almeno quello imputabile al pontefice è un’invenzione leggendaria, l’ennesima di questa affascinante vicenda. L’assurdità di questa tesi è facilmente dimostrabile se si considera che nessun ostacolo la Chiesa frappose nel 1547 alla pubblicazione, a opera di Andrea Arrivabene, del primo volgarizzamento del Corano, BEVI RESPONSABILMENTE IL PRIMO CREMAMARO BEVILO GHIACCIATO. 22 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 Sopra e a destra: Libro di ricami, [Toscolano], Paganino e Alessandro Paganini, [c. 1532] operazione questa assai più pericolosa perché metteva a disposizione di tutti coloro che sapessero leggere il libro sacro dell’Islam.9 Le cose andarono diversamente, come ha permesso di ricostruire la scoperta, a distanza di 450 anni, di una copia del Corano e le ulteriori recenti riflessioni degli studiosi. Per una coincidenza nient’affatto trascurabile l’esemplare rinvenuto è proprio la copia posseduta dall’orientalista Teseo Ambrogio degli Albonesi, come attesta la sua nota di possesso all’ultima carta («D. Thesei Ambrosii ex Comitibus Albonensis papiensis ac Canonici Regularis Congregationis Lateranensis»). Il Corano non sparì dunque dalla circolazione né tantomeno ne fu cancellata ogni traccia col fuoco. Più semplicemente l’edizione a stampa del Corano in arabo, impresa mai prima tentata in Occidente, fu l’ultima, e certamente anche la più rischiosa, avventura tipografica del geniale e spregiudicato Alessandro Paganini. Con essa intendeva rivolgersi non al pubblico ristrettissimo degli orientalisti occidentali in grado di leggere la lingua araba, ma al mercato arabo-turco dei fedeli musulmani che ancora non possedevano la stampa tipografica. Si trattava insomma di un prodotto da esportazione, progettato per un mercato orientale al quale la concorrenza non aveva ancora osato pensare e perciò fonte di possibili ingenti guadagni. La porta d’accesso era quella, già ben collaudata, della carta: sfruttando le rotte commerciali di Venezia il Paganini provò a vendere sui mercati del Mediterraneo carta bianca e carta stampata. Gli ultimi ac- luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano certamenti di Angela Nuovo sembrano supportare questa strategia. Si scopre infatti che i Paganini erano imparentati, in via diretta e indiretta, con i potenti Gabiano di Venezia e i Vukoviç serbi, quest’ultimi titolari di una società che godeva di non trascurabili appoggi e corrispondenti a Costantinopoli. L’impresa del Corano, tipograficamente condotta dai Paganini, bene verrebbe dunque a inserirsi nell’ambito degli affari di questa società mercantile già attiva nella produzione di libri religiosi in alfabeti non latini per il Levante veneziano.10 Il Corano sarebbe stato il passo ulteriore. Non avevano però fatto i conti con l’ostile diffidenza dei fedeli di religione islamica per la riproduzione meccanica del libro sacro, che rimarrà per secoli affidato alla sola produzione manoscrit- 23 ta. L’accoglienza del Corano in terra islamica fu terribile e tutte le copie andarono presto distrutte. Il progetto del Paganini si risolse in un fallimento senza appello e questo contribuisce a comprendere la sua pressoché contemporanea uscita di scena. Alla luce delle testimonianze, l’edizione del Corano fu stampata fra l’estate del 1537 e quella del 1538. Ma la sua progettazione, estremamente complicata e onerosissima soprattutto per la realizzazione dei caratteri tipografici arabi, impegnava il Paganini già da parecchi anni, così da giustificare la brusca riduzione della produzione benacense negli anni Trenta. Il fallimento dell’operazione decretò una crisi da cui l’officina non riuscì più a risollevarsi. Paganino e Alessandro uscirono di scena entrambi nel 1538: Paganino, ormai anziano, fece testamento il 27 giugno del 1538; Alessandro, terminata la stampa a Venezia del Corano, 24 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 Sopra: Ovidius, Metamorphoseon libri XV, Toscolano, Alessandro Paganini, 1526, incipit Liber I. A destra: Terentius, Comoediae, Toscolano, Alessandro Paganini, 1526, frontespizio fece rientro a Toscolano dove stampò almeno altri due testi: il formulario epistolare del Tagliente (Formulario nuouo che insegna dittar lettre missiue & responsiue) e le Eroidi di Ovidio. Poi più nulla. Non si conosce infatti alcun’altra edizione di Alessandro Paganini posteriore al 1538 e di lui, anche nella documentazione coeva, si perdono quasi completamente le tracce. Fin qui la tesi di Angela Nuovo, ribadita anche a ventisei anni di distanza. In tempi più recenti Mahmoud Salem Elsheikh, docente di arabistica cui si deve un censimento dei manoscritti del Corano conservati nelle biblioteche pubbliche di Firenze,11 è tornato con severa decisione sulla vicenda, sulle orme delle os- servazioni già a suo tempo avanzate da Maurice Borrmans.12 Un più attento esame autoptico della copia conservata a San Francesco della Vigna a Venezia ha portato all’individuazione di alcune imprecisioni bibliologiche nella descrizione fattane a suo tempo dalla Nuovo ma soprattutto un numero tanto elevato di errori formali e sostanziali, di cui non si accorse neppure il cosiddetto esperto di lingua araba Teseo Ambrogio degli Albonesi, da far ipotizzare che in realtà si tratti soltanto di una prova di stampa. La nuova ipotesi, spiazzante, è dunque che il cosiddetto Corano dei Paganini, «in primo tempo considerato il primo Corano stampato in arabo a Venezia fra 1537 e 1538 per i tipi di Pa- luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano ganino Paganini e suo figlio Alessandro», in realtà non sia mai esistito «in quanto edizione completa». La mole di errori che contiene, fin dal primo rigo, e la macroscopica anomalia dell’assenza di indicazione della fine del versetto rende impensabile che possa essere andata in stampa un’edizione tanto scorretta del Libro sacro. Ciò nonostante, anche Mahmoud Salem Elsheikh, è costretto ad ammettere: «restano ancora oscuri tanti lati connessi con la storia di questo esperimento paganiniano per la stampa del Corano». Stante che i Paganini avevano posto grandi aspettative nell’impresa, investendo forti capitali, l’idea di pubblicare il Corano era davvero iniziativa dei Paganini o di un committente? E chi era il committente? Forse la società Gabiano-Vukoviç? Poi, di quali maestranze (a questo punto assai poco esperte nella composizione dell’arabo!) si servì la tipografia dei Paganini? Chi ha controllato la bozza di stampa e, sempre secondo Mahmoud Salem Elsheikh, impedito «la divulgazione di una copia scorretta, per non dire blasfema, del Libro sacro dell’Islam»? Comunque siano andate le cose sembra però confermato che la mancata edizione del Corano, e quindi il mancato rientro dei capitali investiti e degli introiti preventivati (ma già messi incautamente a bilancio, per così dire?), abbia procurato ai Paganini gravissimi danni, tali da decretare il fallimento della ditta, la chiusura dell’officina e il ritorno di Alessandro a Toscolano. Ci si spinge persino a mettere in relazione con il fallimento la morte «di Paganino, avvenuta, a quanto si dice, fra il 27 giugno e l’11 agosto 1538». Ma qui sarei più cauto, a meno da voler fantasticare un qualche colpo apoplettico causato da un libro mancato! Personalmente continuo a rimanere perplesso anche su altri aspetti: davvero per affrontare un’impresa tanto innovativa dal punto di vista materiale e culturale Paganino non seppe trovare maestranze migliori di quelle che qui si intravedo- 25 no? E davvero nessuno (tanto più l’ipotetico committente che «con la stampa del Corano ambiva a guadagnare i favori del sultano») era al corrente del fatto che i musulmani, allora e per parecchi altri secoli, mai avrebbero tollerato che il libro sacro fosse stampato? Questa appare una leggerezza davvero impensabile per un imprenditore che fino a quel momento aveva dato segni di grande intuizione editoriale e destrezza sul mercato, come se oggi un editore investisse una forte somma sul progetto di un rivista a dispense destinata al mondo arabo dal titolo, ipotetico, ‘Cento modi per cucinare il maiale’. Anche l’ipotesi che la copia veneziana sia soltanto una prova di stampa non convince affatto. Innanzitutto, la copia presenta evidenti se- 26 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 Una pagina del Corano arabo attribuito a Paganino e Alessandro Paganini, c. 1537-38. gni di correzione o altri interventi tali da comprovare quest’ipotesi? La carta impiegata è di ottima qualità e nessun foglio fu stampato, come lasciano intendere i casi di fogli di bozza giunti fino a noi, su fogli di recupero. Un aspetto però soprattutto non torna. Va infatti tenuto presente che la stampa e la correzione delle bozze non procedevano allora come potremmo immaginare: esiguità del materiale tipografico a diposizione, costi e tempi di lavoro non consentivano cioè di allestire una copia integrale del volume da correggere prima di procedere alla tiratura definitiva. Si procedeva foglio per foglio, o meglio forma per forma, con un’organizzazione del lavoro piuttosto sincronizzata fra torcoliere, correttore e compositore che impediva sia al correttore sia all’autore di rivedere l’insieme del testo che si andava stampando. Spesso addirittura per accelerare i tempi e per ragioni economiche non si procedeva neppure a introdurre le correzioni necessarie o lo si faceva solo su quella parte NOTE 1 A. NUOVO, Maestri tipografi tra Venezia e il Garda: i Paganini, in Cartai e stampatori a Toscolano, a cura di C. Simoni, Brescia, Grafo, 1995, pp. 81-98; E. FERRAGLIO, I Paganini de Cegulis. Una famiglia di stampatori tra Quattro e Cinquecento, Brescia 2006. Sui Turlino rimando al mio G. PETRELLA, Un’edizione dei Turlini ritrovata (Le battaglie che fece la regina Antea, Brescia, Damiano Turlini, 1549) e la tradizione a stampa di Falabacchio e Chattabrigha giganti, «La Bibliofilia», CXII, 2010, pp. 117-140. 2 A. NUOVO, Alessandro Paganino (1509-1538), Padova, Antenore, 1990. 3 L. BALSAMO, I corsivi dei Paganini, in L. BALSAMO – A. TINTO, Origini del corsivo nella tipografia italiana del Cinquecento, Milano, Il Polifilo, 1967, pp. 79-101. 4 EDIT16 CNCE 37289. 5 U. BARONCELLI, La stampa nella Riviera bresciana del Garda nei secoli XV e XVI, Salò, Ed. dell’Ateneo, 1964. 6 A. NUOVO, Il Corano arabo ritrovato: Venezia, Paganino e Alessandro Paganini, tra l’agosto 1537 e l’agosto 1538, «La Bibliofilia», LXXXIX, 1987, pp. 237-271; poi ripreso in A. NUOVO, Alessandro Paganino (1509-1538), pp. 106-131. 7 A. NUOVO, La scoperta del Corano arabo, ventisei anni dopo: un riesame, «Nuovi Annali della Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari», XXVII, 2013, pp. 9-23. 8 Sulle fonti documentarie e la questione prima del ritrovamento si veda M. NALLINO, Una cinquecentesca edizione del Corano stampata a Venezia, «Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere e arti», CXXIV, 1965-66, pp. 1-12. 9 Sull’operazione si veda il recente bel volume di P. MATTIA TOMMASINO, L’Alcorano di Macometto. Storia di un libro del Cinquecento europeo, Bologna, Il Mulino, 2013. luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano della tiratura ancora in corso di stampa.13 Quindi non si capisce come e perché nel caso del Corano si sia investito in attrezzatura tipografica, carta e si sia proceduto con la composizione e scomposizione di oltre duecento forme tipografiche per stampare soltanto una copia di prova. Senza contare che se si conoscono singoli fogli sopravvissuti come bozze di stampa, un intero volume sarebbe un caso davvero eccezionale. E ancora, una volta constatata la blasfemia dell’operazione tipografica, non dando, di fatto, il ‘visto si stampi’, perché allora si sarebbe dovuto conservare quell’unicum? Anche l’ipotesi dell’arabista Salem Elsheikh, come si intuisce, mostra più di qualche crepa. E se a questo punto la scoperta dei tanti, troppi errori di cui si macchia la copia veneziana finisse per ri-confermare la vecchia tesi della distruzione di tutte le copie realmente stampate?14 Ragioniamo. Dal punto di vista ‘storico-processuale’ sembra impossibile trascurare o zittire la documentazione coeva. Perché ignorare un teste attendibile come l’Albonesi che afferma senza esitazioni che il Corano 10 A. NUOVO, La scoperta del Corano arabo, pp. 19-23. 11 M. SALEM ELSHEIKH, I manoscritti del Corano conservati nelle Biblioteche pubbliche di Firenze, «La Bibliofilia», CXV, 2013, pp. 553-614, nel quale riprende un più ampio lavoro in arabo (Il Cairo, National Library of Egypt, 2012) dal titolo Il Corano di Paganini fra supposizioni del passato ed errori del presente (si veda p. 553 nota 2). 12 M. BORRMANS, Observations à propos de la première édition imprimée du Coran à Venise, «Quaderni di studi arabi», VIII, 1990, pp. 3-12; ID., Présentation de la pre- 27 sia stato davvero stampato, non soltanto messo in cantiere? Rileggiamo gli atti: «typos formasque Punicarum literarum quibus olim pater eius Alcoranum impresserat». Accogliendo la nuova perizia secondo la quale il Corano progettato dai Paganini è un vero obbrobrio per scorrettezza formale e sostanziale, si capirebbe dunque bene la ragione della distruzione di tutte le copie stampate. E tornerebbe quindi in auge persino l’ipotesi a lungo coltivata, pur con indebite esagerazioni e fantasticherie, ma sostenuta anche dalla testimonianza del contemporaneo Jean Bodin, del rogo delle copie che si sarebbero dovute smerciare in Oriente e della terribile pena del taglio della mano inflitta all’anonimo mercante coinvolto nel traffico (Alessandro Paganini o forse un esponente dei Gabiano-Vukoviç?).15 La colpa? Aver osato compiere il più blasfemo degli atti: riprodurre con la vile ars artificialiter scribendi il sacro testo. Bisogna attendere sino al XVIII secolo perché il sultano ottomano Ahmed III autorizzi la stampa in arabo, con l’esclusione però proprio dei testi sacri. Solo nel 1923, oltre quattrocento anni dopo l’invenzione della stampa tipografica, un Corano fu stampato in un paese islamico.16 mière édition imprimée du Coran à Venise, «Quaderni di studi arabi», IX, 1991, pp. 93126. 13 C. FAHY, Saggi di bibliografia testuale, Padova, Antenore, 1988, pp. 161-163; J.F. GILMONT, Dal manoscritto all’ipertesto, Firenze, Le Monnier, 2006, pp. 90-95. 14 Era favorevole a questa tesi anche G. VERCELLIN, Venezia e le origini della stampa a caratteri arabi, in Le civiltà del libro e la stampa a Venezia, a cura di S. Pelusi, Padova, Il Poligrafo, 2000, p. 57. La tesi della Nuovo è stata ripresa in tempi recenti da A. MARZO MAGNO, L’alba dei libri. Quando Venezia ha fatto leggere il mondo, Milano, Garzanti, 2012, pp. 61-80. 15 Si veda, con qualche cautela, C. PANELLA, Fuoco al Corano in nome di Allah. L’inquisizione islamica contro la stampa, Soveria Mannelli, Rubettino, 2011 che riprende il tema assai delicato dell’introduzione della tipografia nei paesi islamici. La testimonianza di Bodin, in un primo tempo sfuggita alla Nuovo, ritorna, con una certa cautela, in A. NUOVO, La scoperta del Corano arabo, pp. 17-18. 16 C. PANELLA, Fuoco al Corano, p.57. 28 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 Editoria LA CIVILTÀ PERFEZIONATA DA CHAMFORT A SCIASCIA Risvolti editoriali volanti ovvero dei segnalibri della Sellerio MASSIMO GATTA Seconda parte C lui che lo sapeva perché lo aveva visto, glielo insegnò. O come preparare le «schede» per i venditori: i semplici testi di presentazione dei libri che i promotori portano di libreria in libreria per convincere i librai all’ordine commerciale). In una parola fu lui a fissare lo stile che è rimasto alla casa editrice e che i lettori – ci sembra con forte evidenza – spesso riconoscono nei nostri tipi quasi più ancora che i titoli. E a dare quell’impronta nel trattare il libro – come opera dello spirito, come oggetto e come fine – che può definirsi con parola non azzardata un’etica […] Ed è bello quindi ricordarsi di lui, mediante ciò che lui più faceva per divertimento. L’editore” 29. iò che però caratterizza il segnalibro-risvolto di cui ci occupiamo, rendendolo un unicum nell’ambito paratestuale, è il suo costituirsi come contenitore plurisemico: dati editoriali e di collana, caratteristiche tipografiche, risvolto vero e proprio, grafica d’autore, segnalibro. La sua origine coincide con la nascita stessa della casa editrice palermitana, ad opera dei coniugi Enzo Sellerio28 ed Elvira Giorgianni, oltre che dell’antropologo Ignazio Buttitta e di Leonardo Sciascia, che dei quattro costituisce il perno intorno al quale si costruirà negli anni l’intero e multiforme progetto editoriale della casa editrice palermitana: Una impresa editoriale rimasta negli anni sostanzialmente a conduzione familiare. “[Sciascia, N.d.A.] fu una specie di socio editore senza interessi finanziari nell’impresa, di direttore editoriale, di consigliere e di lettore, di amico, di consulente, di ufficio stampa e capo delle pubbliche relazioni, e finanche di persona esperta in questioni pratiche (come, per esempio, l’abbozzare una lettera di impegno, o redigere un rendiconto: non lo sapeva fare nessuno all’atto di nascita di questa casa editrice, e A corredo della tessitura del catalogo Sellerio non bisogna dimenticare l’apporto dei tanti artisti che collaborarono alla realizzazione delle copertine30, soprattutto della prima, “La civiltà perfezionata”31, come anche di quella nata nel 1979 sempre dalla mente illuminista di Sciascia: “La memoria”32. E in questa costante frequentazione sciasciana col mondo dell’arte, riversata a piene mani nelle scelte luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano di copertina, appare il forte legame dello scrittore con il linguaggio artistico che diventa intrinseco a quello letterario33, determinando in tal modo un doppio codice ermeneutico copertina-testo: “Basterebbe leggere il Diario di Edmond e Jules de Goncourt per capire quanto tenaci e stretti siano i legami e i nodi che hanno sempre avvinto gli scrittori ai peintres et acqua-fortistes. Nodi inestricabili se lo scrittore in questione si chiama Leonardo Sciascia. Una copertina di un libro, un’acquaforte che salta fuori nelle maglie del suo ragionamento non sono mai un belletto o una semplice citazione erudita, ma prefigurano simbolicamente quello che talvolta la parola non riesce a trasferire immediatamente nella coscienza del lettore. […] Ho sotto gli occhi le copertine dei libri di Sciascia del suo primo editore, Einaudi, e i libri e le cartelle delle collane che Sciascia si è dato la gioia di inventare, e 29 non mi lascia il pensiero che queste copertine, originali e severe […] costituiscono un racconto tormentoso della sua vita, delle inquietudini, delle angosce, dei desideri, forse, che ribollivano confusi nella sua anima”.34 All’epoca la casa palermitana aveva il nome “Edizioni Esse” ma: “La sigla venne quasi subito cambiata perché venimmo a sapere che esisteva un altro editore con quel nome”.35 Copertine sempre di grande impatto visivo legate a scelte iconografiche ragionate, con le pagine intonse da tagliare una ad una e il bisogno di un lettore complice.36 Quello che fin dall’inizio ci appare è un tono avorio, sobrio, caldo ed elegante. Carta vergata a bordi intonsi, copertine in un perfetto e rigo- 30 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 colas-Sébastien Roch. Elvira Sellerio era particolarmente legata a questa sua prima collezione: “[…] alla quale sono particolarmente affezionata: la prima della casa editrice, quella in cui è stato pubblicato il primo grosso successo in termini di vendita (L’affaire Moro di Sciascia)”.39 roso bianco e nero xilografico protette da sottile carta pergamyn e in copertina la riproduzione di un’incisione. I margini sono ampi, quindi un colophon completo con tutte le informazioni sulla stampa del volume ordinario e di quello fuori commercio. E poi c’è il testo, naturalmente; opere importanti prevalentemente di argomento siciliano, ma inconsuete e sempre di grandi autori. Una collana questa “[…] preziosa e intelligente, notevole anche per certe proposte di libri necessari e poco noti”37 e il cui nome venne scelto da Sciascia che lo riprese da un’espressione dello scrittore e moralista francese Nicolas de Chamfort38, pseudonimo di Ni- NOTE 28 ALESSANDRA LAVAGNINO, Con “I veleni di Palermo” nacque vent’anni fa la Sellerio, intervista a Enzo Sellerio, «Millelibri», n. 20, luglio 1989, pp. 44-47; cfr. anche VANNI SCHEIWILLER, Enzo Sellerio editore, in Enzo Sellerio fotografo ed editore, a cura di Roberta Valtorta, Caselle di Sommacampagna, Cierre, 1991, pp. 15-18. Di particolare interesse è anche OLIVIA SELLERIO, Certe canzoni amava. 16 canzoni per Elvira, mia madre, foto di Enzo Sellerio e cd-rom musi- Dunque Sciascia fin dagli inizi40, e per l’intera storia culturale della casa editrice, rappresenta di volta in volta l’ispiratore e il progettista, l’architetto e il muratore, l’autore e l’editor, il consulente e il traduttore, il suggeritore iconografico per le copertine; insomma lo scrittore, che aveva già intrattenuto rapporti di collaborazione (sempre però libera, mai vincolante) col mondo editoriale41 (la storica Laterza di Via Dante 51 a Bari42, Salvatore Sciascia a Caltanissetta43, l’Einaudi di Calvino, la Sellerio di Enzo e Elvira Giorgianni, la Bompiani del conte Valentino e in ultimo l’Adelphi di Roberto Calasso, con la quale pubblicherà anche il suo ultimo romanzo), con quella sua felicità di far libri di cui parleremo, sarà per la Sellerio44 un sostegno fondamentale, soprattutto riguardo ad alcune Collane: “Leonardo Sciascia ha collaborato fin dagli inizi con la casa editrice. Il suo sostegno è stato fondamentale e ha riguardato soprattutto la collana “La cale allegato, Palermo, Sellerio, 2011. 29 MAURIZIO BARBATO, Testimonianza, in Leonardo Sciascia scrittore editore, cit., p. 31, 41. 30 Cfr. Alcune copertine di Sellerio editore, in Enzo Sellerio fotografo ed editore, cit., pp. 19-21. 31 “«La civiltà perfezionata», la prima collana di Sellerio destinata alle librerie, si presentava con le pagine intonse. E non prevedeva la stampa dei risvolti di copertina. Per accompagnarlo ai lettori, ogni volu- me era provvisto di un segnalibro in cartoncino adibito a presentazione volante: di stesura redazionale, o ricavata dalle Introduzioni, quando non era Sciascia a scriverla”, in La civiltà perfezionata. Segnalibri, in Leonardo Sciascia scrittore editore, cit., pp. 45-61 [45]; cfr. anche GIANFRANCO DIOGUARDI, Leonardo Sciascia tra letteratura e impresa, in Leonardo Sciascia vent’anni dopo, «Il Giannone», a cura di Antonio Motta, a. VII, n. 13-14, gennaio-dicembre 2009, p. 311. luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano civiltà perfezionata” e poi “La memoria”, oltre che naturalmente la collana di storia e letteratura siciliana (la “Biblioteca”)”.45 La tentazione di farsi editore46, o quantomeno di lavorare in una casa editrice, affascinava lo scrittore di Racalmuto fin da giovane. In una intervista del ’77 di Claudio Marabini sugli editori siciliani, Sciascia dichiarava infatti: “Ho avuto sempre l’hobby, come si suol dire, di far fare dei libri; un piacere quasi simile a quello di scriverli. In qualche momento della mia vita sono stato persino tentato di entrare in qualche casa editrice: sono stato sul punto di farlo con la Garzanti. Ma una piccola casa è sempre meglio, per il mio gusto, per le mie attitudini, di una grande. Così ho seguito gli amici Sellerio fin dal principio della loro attività, consigliando loro dei libri da pubblicare, scrivendo prefazioni, pubblicando da loro quel libretto sulla morte di Roussel, svolgendo insomma un’attività che dà un senso al mio stare a Palermo, città in cui altrimenti 32 Cfr. [Leonardo Sciascia], Presentazione della collana «La memoria», Palermo, Sellerio, 1979; rist. in Leonardo Sciascia scrittore editore, cit., pp. 183-185, cfr. anche La memoria 1979-1989, con uno scritto redazionale non firmato, Palermo, Sellerio, 1989. 33 Ad esempio in Leonardo Sciascia (a cura di), 27 disegni di Carmassi, Milano, Edizioni 32, 1972, con le suggestioni provocate dal misterioso personaggio di fine Quattrocento Samuel ben Nissim Abul Fa- 31 non vorrei né potrei stare. La casa editrice, nel giro di pochi anni, ha assunto una riconoscibilità formale e sostanziale: non, si capisce, soltanto per quello che io vi faccio”.47 E l’amico e biografo Matteo Collura ha giustamente rilevato che: “Se Leonardo Sciascia non fosse diventato scrittore, forse avrebbe tentato l’avventura dell’editoria. E sarebbe stata un’esperienza fallimentare dal punto di vista economico, lui assolutamente inadatto alla conduzione di un’impresa commerciale, anche se fondata sui libri. Ma anche in questo ebbe fortuna, perché gli riuscì di fare l’editore senza doverne mai affrontare i problemi di gestione. Un diversivo e un divertimento, per lui, pubblicare i libri degli altri; e un’impagabile soddisfazione gli veniva dallo scovare un testo dimenticato o un autore nuovo o ingiustamente sottovalutato e condannato al silenzio”.48 rag, scoperto da Sciascia nel maggio del ’69 visitando la Galleria 32, episodio richiamato da Andrea Camilleri in Inseguendo un’ombra, risvolto di Salvatore Silvano Nigro, Palermo, Sellerio, 2014, pp. 78-87. 34 ANTONIO MOTTA, Leonardo Sciascia e i peintres et acqua-fortistes, cit., pp. 326332 [326]. 35 Lettera di Elvira Sellerio a chi scrive, Palermo 29 gennaio, 2001. 36 Per una visione anche parziale delle copertine della Sellerio rimando ai volumi: Ma è la prima collezione di testi a inaugurare lo stile Sellerio, rimasto invariato anche dopo la morte dello scrittore, avvenuta «La memoria 1979-1989», cit.; I gialli de «La memoria», Palermo, Sellerio, s.a. [anni ‘90], e I libri di Andrea Camilleri, con una Nota dell’editore, Palermo, Sellerio, 2005. 37 SEBASTIANO ADDAMO, Il “miracolo Sellerio”, in ID., Racconti di editori, cit., pp.71-77. Una utile, seppur breve, storia della Sellerio è la Nota dell’editore, in Anatole France, Il procuratore della Giudea, traduzione e nota di Leonardo Sciascia, con uno scritto di Salvatore Silvano Nigro, Palermo, Sellerio, 2009, pp.7-19; cfr. anche 32 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 nel 1989: eleganza grafica, attenzione filologica, testimonianza storica, laicità di stampo illuminista: “Il mio progetto era pubblicare dei testi scritti, delle opere di letteratura, non solo di grafica. E chiesi a Leonardo [Sciascia, N.d.A.] ‘mi consiglia dei titoli e anche il nome da dare alla collana?’. E lui subito: “La civiltà perfezionata”, un nome molto difficile, molto sofisticato e anche molto bello.49 dute e di gusto. Su queste basi poggia l’avventura editoriale Sellerio; un azzardo che vedrà consolidarsi una realtà imprenditoriale senza precedenti nella ‘marginale’ Palermo”.50 Così come su affinità elettive poggiava il rapporto del primo Sciascia con la cultura romana e con l’editore Bardi in particolare, ben analizzato da un saggio di Franco Onorati51: Tratto biografico distintivo in Sciascia, rimarcato anche da Collura nella sua biografia dello scrittore: “Lavorando per ‘Galleria’ Sciascia conosce, tra gli altri, Mario Dell’Arco, che lo aiuta a pubblicare le Favole della dittatura con l’editore Giovanni Bardi di Roma”.52 “Per lui, la scelta di pubblicare con un determinato editore non è mai dettata da ragioni economiche, bensì da contingenti simpatie e affinità di ve- Fine seconda parte. La prima parte è stata pubblicata sul numero di giugno e la terza parte verrà pubblicata sul numero di settembre 2014 GELSOMINO D’AMBROSIO, PINO GRIMALDI, Sellerio: lo sguardo e la tradizione della Sicilia, «Il Mattino», 1989. 38 Nicolas-Sébastien Roch, Chamfort, Prodotti della civiltà perfezionata. Massime, pensieri, caratteri, aneddoti, Torino, Boringhieri, 1961. 39 Lettera di Elvira Sellerio a chi scrive, Palermo 28 luglio 2000. 40 ANTONELLA BARINA, Sciascia amico mio. Un incontro con Elvira Sellerio, «il Venerdì di Repubblica», 1996. 41 Cfr. GIOVANNA LOMBARDO, Il critico collaterale. Leonardo Sciascia e i suoi editori, Milano, La Vita Felice, 2008, ANTONIO MOTTA, Laterza nella storia di Leonardo Sciascia, «Nuova Antologia», n. 2224, ottobre-dicembre 2002, pp. 257264. Della Lombardo segnalo anche Caro Sciascia, Caro Linder. Carteggio 19631983, «La Fabbrica del Libro», n. 2 (2004), pp. 24-28, Ead., Una conversazione ininterrotta. L’attività editoriale di Leonardo Sciascia, tesi di dottorato, Università degli Studi di Catania-Dipartimento di Filologia moderna, a.a. 2004-2005. Per i rapporti di Sciascia con Valentino Bompiani cfr. GIOVANNA LOMBARDO, “Con un occhio ilare e uno lacrimoso”. Il carteggio Sciascia-Bompiani, «La Fabbrica del Libro», n. 1 (2006), pp. 13-18. 42 LEONARDO SCIASCIA, Via Dante 51, in Cento anni Laterza 1885-1985. Testimonianze degli autori, Bari, Laterza, 1985, [Universale Laterza, 676], pp. 236-237. 43 SEBASTIANO ADDAMO, Salvatore Sciascia, editore a Caltanissetta, in ID., Racconti di editori,cit., pp. 57-61. 44 GIOVANNA LOMBARDO, Con Sellerio: la ricerca, l’esperienza editoriale, in EAD., Il critico collaterale, cit., pp. 141-182. 45 Lettera di Elvira Sellerio a chi scrive, Palermo, 29 gennaio, 2001. 46 MARCELLO D’ALESSANDRA, Leonardo Sciascia editore, in Colpi di penna, colpi di spada, a cura di Valentina Fascia, «Qua- derni Leonardo Sciascia», n. 6, Milano, La Vita Felice, 2001. 47 CLAUDIO MARABINI, Editori in Sicilia, intervista a Leonardo Sciascia, «La Nazione», 13 luglio 1977. 48 MATTEO COLLURA, L’«antigattopardo», in ID., Il maestro di Regalpetra. Vita di Leonardo Sciascia. Milano, Longanesi, 1996, la citazione è tratta dalla II ediz., Milano, TEA, 2000, p. 132. 49 STEFANO MALATESTA, Sciascia, le passioni di uno strano editore, intervista a Elvira Sellerio, cit., p. 45. 50 MATTEO COLLURA, Il maestro di Regalpetra, cit., pp. 217-218; ma cfr. anche GIANFRANCO DIOGUARDI, Ricordo di Leonardo Sciascia, Milano, Rovello, 1993. 51 FRANCO ONORATI, La stagione romanesca di Leonardo Sciascia. Fra Pasolini e Dell’Arco, Milano, La Vita Felice, 2003. 52 GIOVANNA LOMBARDO, Il critico collaterale, cit., p. 11. luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 33 inSEDICESIMO L E M O S T R E – L A P R O P O S TA D E L M E S E – L A N O T I Z I A D E L M E S E LA MOSTRA/1 LUCIO FONTANA TORNA A PARIGI Appunti da una visita a cura di luca pietro nicoletti er chi non ha visto, per motivi di anagrafe o per distrazione, le mostre che si tennero a Milano e a Roma per il centenario della nascita di Lucio Fontana, la grande retrospettiva di Parigi offre una rara occasione di fare i conti con la complessità, estensione e vitalità dell’opera dell’artista italo-argentino. Non è la prima volta che il museo parigino ospita una rassegna su di lui: la prima, curata da Enrico Crispolti e Gilbert Brownstone, era del 1970. Come in quell’occasione, però, non è una mostra su Lucio Fontana a Parigi e i suoi rapporti con l’ambiente artistico francese, che sono invece oggetto di analisi da parte di un libro di Silvia Bignami e Jacopo Galimberti (Lucio Fontana e l’“artventure” di Parigi, Milano 2014), ma una mostra su Fontana tout cour. Il taglio dell’esposizione odierna, tuttavia, è per ovvie ragioni diverso da quello di allora, e ha il merito di mostrare sia le cesure sia gli elementi di continuità del percorso dell’artista, sollecitando molte domande. Sarà contento, chi viene da Milano, nel rivedere dopo tanto tempo il Fioci- P natore del 1933-1934, che accoglie i visitatori in apertura di esposizione, al centro di due mezze esedre che lo conducono a un ambiente più ampio che si incardina su tre capisaldi del Fontana anni Trenta: la Signorina seduta (1934), il Campione olimpico (1932) e, poco discosto, il Torso italico del 1938. A dispetto di quanto potrebbe far pensare la nutrita selezione di ceramiche che si estendono nelle prime sale, nel 1939 Fontana aveva dichiarato: «sono scultore e non ceramista». È un’affermazione significativa, perché mostra, già a quelle date, la consapevolezza di una piena autonomia espressiva, che unisce l’abilità artigianale e una cosciente libertà nell’utilizzo dei mezzi stessi. Il colore, si fa notare in mostra, gioca in tal senso un doppio ruolo, esaltando la forma (o, forse, l’esuberanza della materia) e, al contempo, dissolvendone il LUCIO FONTANA. RÉTROSPECTIVE PARIGI, MUSÉE D’ART MODERNE DE LA VILLE 25 aprile-24 agosto 2014 Concetto spaziale Attese, 1959, Parigi, Musée d’Art Moderne volume. È particolarmente vero nella ceramica ornamentale, o nelle piccole nature morte, o ancora nel grande Torso italico oggi di proprietà Karsten Greve. È come se Fontana voglia “sporcare” la forma con il colore, come non fa, invece, nella Signorina seduta o nel Campione olimpico: nel primo caso, la doratura parziale distingue gli incarnati dall’abito, nel secondo, una leggera velatura di blu è stata stesa su tutto il gesso. Di quest’ultimo, poi, si comprendeva meglio lo scarto rispetto al contesto coevo nella mostra sugli Anni ’30 di Palazzo Strozzi del 2012: lì, a confronto con la scultura del suo tempo, era percepibile l’eccentricità di questa scelta antinaturalistica e programmaticamente antiretorica, anche se all’interno di una cultura visiva arcaizzante, fatta di zigomi pronunciati e anatomie iper- 34 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 Sopra: Concetto spaziale, 1952, Torino, Civica Galleria d’arte Moderna. A destra: Scultura spaziale,1947 trofiche, che Fontana aveva manipolato a suo modo e con tratti di espressionismo. Viene da chiedersi quanto Fontana abbia guardato Arturo Martini, soprattutto di fronte alla Vittoria e cavalli progettata (e mai realizzata) nel 1939 per il Palazzo dell’acqua e della luce dell’E42 di Roma. E il Campione olimpico, visto di schiena, come starebbe vicino al David di Mirko Basaldella? Non credo sia una domanda peregrina, specie se si considera che, nelle foto di allora, il bronzo dello scultore udinese era riprodotto sovente di tergo, forse a sottolineare che quella fosse la vista principale, sottolineando un vigore plastico condiviso con il marziano, concentrato atleta blu di Fontana. All’interno del percorso della ceramica, però, avviene una progressiva metamorfosi, come una mutazione in- terna che apre nuovi scenari: quella consapevole disinvoltura nell’uso dei materiali conduce Fontana a battere nuove vie, a costeggiare l’Informale e a superarlo nello stesso momento in cui ne acquisisce le modalità processuali. È l’artista stesso, in fondo, ad affermare, anni dopo, che «una farfalla nello spazio eccita la mia fantasia; liberatomi dalla retorica, mi perdo nel tempo e inizio i miei buchi». Non sono convinto, a dire il vero, che, a dispetto del titolo, nell’Uomo atomico del 1947 ci sia davvero una prima espressione del Manifesto blanco: la ceramica, stando al percorso espositivo, avrebbe consentito a Fontana di fissare la sua visione dello spazialismo come «continuità dello spazio nella materia». Tuttavia, vista a Parigi, quella scultura, su cui si appunta un certa attenzione, si presenta tutto sommato vicina a un certo gusto francese per la figurazione, a una New images of man: è un uomo atomico che può stare accanto a quell’idea di umanità post-bellica che trova il suo seme generatore nel cranio d’ossidiana di Picasso. Da lì, poi, il salto sarebbe stato verso la materia pura come strumento di traduzione visiva dell’immaginario cosmico. È pacifico che una delle vie di superamento dialettico del pur informale, cioè quel passo avanti che non ne abbia comportato una radicale rimozione, è passato da una condensazione dell’intervento di segno e di materia entro limiti circoscritti del campo pittorico, reintroducendo un rapporto compositivo fra figura e sfondo: da lì, in un passaggio di ulteriore concentrazione luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano drammatica ma al contempo di formalizzata, si arriverà alla fenditura singola o ripetuta. E anche arrivati agli esiti più estremi, Fontana non perde di vista l’amore artigianale per la confezione del dipinto e la sua realizzazione. Nel documentario di Jean Ferrero, proiettato a ciclo continuo in mostra, si vede infatti Fontana a Comabbio che lavora: pare accarezzare la superficie con la spatola, prima di ferirla al centro, come una ripetuta penetrazione nel cuore della tela, con gesto ripetuto. In altri casi, invece, si vede Fontana bucare con ritmo e decisione, con gesto e ripetizione automatica, senza incertezze, seguendo una traiettoria mentale senza l’uso di una traccia. In ogni caso, il gesto non esplode indistintamente su tutto lo spazio a disposizione, ma anima un impasto ribollente delimitato entro un confine che designa un’immagine e non più una superficie. Fra gli elementi di continuità del discorso fontaniano, infatti, affiora con evidenza un’idea di cornice, o meglio una tendenza a isolare l’intervento gestuale, a marcarlo entro uno spazio delimitato da contorni precisi, palese nel grande anello argentato della Luna a Venezia di collezione Banca Intesa San Paolo di Milano, o nel Sole in piazza San Marco del 1961. In tutto il suo percorso, dai primi buchi nell’argilla agli squarci rosa degli oli del 19601962, si ritroverà una tendenza, abbandonata solo nelle Attese, a incorniciare con una leggera incisione, se non con un segno più marcato, l’area riservata all’intervento gestuale: ancora nella serie della Fine di Dio, dove gli squarci sulle tele ovoidali sembrano invadere tutta la superficie, ci si accorge, a uno sguardo ravvicinato, che anche quei segni sono contenuti dentro una sorta di insieme, dentro un’area delimitata, per quanto quasi coincidente con il telaio stesso. Fra le scelte allestitive, che non hanno riscontro nel poderoso catalogo, non è senza significato poi che la sezione numero 6, “Informel baroque. 19521958”, in dichiarato omaggio a Michel Tapié, si apra con il Concetto Spaziale del 1958 (58G1 del catalogo ragionato del 2006) tempestivamente donato nel 1959 da Charles Damiano alla Tate Gallery (e oggi alla Tate Modern): è uno dei quadri più puramente gestuali, fatto quasi di solo segno, o meglio in cui il segno e il colore sovrastano e quasi annullano la timida costellazione di buchi 35 sulla losanga centrale: è un quadro “autre” più di altri, perché può far pensare a Wols, e che potrebbe far pensare al preludio di una stagione sviluppatasi, in realtà, in una direzione diversa. Lo si nota bene incontrando, immediatamente alle spalle di questa tela, come dietro una quinta, il gran ferro dipinto del 1952 della GAM di Torino, con il suo giallo in tutto innaturale e un po’ marziano, posto al centro di una delle sale più ricche di sollecitazioni della mostra. Sarebbe stato bello, forse, poter vedere in quel contesto il Golgota del Museo del Novecento di Milano, o il grande inchiostro appartenuto alla collezione Boschi-Di Stefano: dello sfaccettato percorso di Fontana, inchiostri e aniline risultano forse la produzione più sacri- 36 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 Concetto spaziale, Teatrino, 1965, Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique ficata dalla mostra, sebbene non manchino accenni a quella migrazione di forme e soluzioni espressive dalla scultura alla pittura e viceversa: dalle losanghe di tela ritagliate e applicate su tela, figlie di certe sculture astratte degli anni Trenta esposte a suo tempo dalla Galleria del Milione, il passaggio alle scultura a gambo è palesato senza possibili dubbi. Una scelta di inchiostri, tuttavia, sarebbe stata sollecitante, in particolare, constatando, all’interno di una misura e di una tenuta della mostra rigorosa e tutt’altro che passionale, l’affiorare nelle scelte curatoriali di segnali di un gusto e di un occhio francese che si posa sull’artista prescindendo dal contesto italiano e tradendone, inconsapevolmente forse, delle possibili fonti: l’evidenza con cui è valorizzato il quadro della Tate Modern già ricordato, in fondo, è perfettamente in linea con un’abitudine visiva verso una storia della pittura che guarda al superamento brutale della “peinture de tradition française”. Al contempo, come non pensare invece ai rilievi di Arp di fronte a un concetto spaziale come il 59T73 del 1959, con una losanga argentata allungata su fondo ocra, quasi una figura leggibile dentro una macchia, a incorniciare un taglio quasi chirurgico, al centro? L’occasione di incontro con quella fonte, tutto sommato, non era mancata: bastava la mostra dei “reliefs” del maestro surrealista, alla galleria del Naviglio di Milano, nel 1957. E a una certa idea di “rilievo”, di superamento del puro segno aggiungendo della materia sul quadro, si può trovare, a questo punto, anche nel Concetto Spaziale giallo del 1956 (56BA22). Su una stesura gialla di fondo Fontana ha disegnato, con lo stesso colore ma impasto denso e materico, una struttura astratta, una forma chiusa innervata da spessi e mossi cordoni di materia: se si fosse trattato di disegno sarebbe stato un quadro da “art concret”, o l’inizio di una tela di Magnelli: Fontana, tuttavia, ha evitato questo pericolo disegnando con la materia e alleggerendola poi con una teoria di buchi, tutti eseguiti forando la tela dal fronte: molti seguono il contorno, mentre altri (per esempio sulla destra) indicano altre direttrici compositive non indicate nel disegno. Solo in ultimo l’artista ha campito l’interno di questa forma con colore bruno e paillettes, arricchendo la materia e dando leggibilità di figura alla forma. Delude un po’, invece, la scelta dei “tagli” della sessione 7, dove spicca però il quadro del Musée d’Art Moderne stesso, una tela del 1959 in cui il taglio arriva in ultimo, su un quadro di pura astrazione geometrica (ma quanti, a fine anni Cinquanta, avrebbero pensato a un quadro “concreto” e di composizione in oro e nero?) giocato su un gruppo di sei linee orizzontali, ma non parallele, che paiono in caduta libera, frenate da una lunga linea spezzata sulla parte finale del dipinto stesso. Ma prima di chiudere, proprio sulle battute finali, nella sezione 14 dedicata ai “teatrini”, vero e proprio ripensamento tardo e iconico dell’artista sulla sua produzione, la mostra pone un ultimo interrogativo: sarà legittimo, di fronte a queste opere, parlare di Un design spatialiste? I teatrini, qui, sono dunque letti a cavallo fra design, estetica pop ed oggetto minimalista, che si esprime bene anche nelle coeve Ellissi, di aspetto effettivamente industriale. Eppure c’è un’ironia, in Fontana, che non è propria del design di quegli anni. 38 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 LA MOSTRA/2 NON SOLO BARCHE E SILENZI Per il centenario di Walter Lazzaro WALTER LAZZARO. APPRODI SILENTI A cura di Wanna Allievi FORTE DEI MARMI, IL FORTINO 12 luglio - 28 settembre 2014 cento anni dalla nascita, il profilo di Walter Lazzaro sembra finalmente chiarirsi e prendere le distanze dagli stereotipi più consolidati che lo hanno accompagnato nell’ultimo cinquantennio: ne è emersa, al contrario, una inedita complessità esistenziale che era difficilmente immaginabile dietro i cliché del “pittore del silenzio”. È uno dei meriti del lungo lavoro di Wanna Allievi, che da tre lustri, attraverso operazioni di vario tipo, ha supportato l’Archivio Lazzaro by Corsi in un percorso di valorizzazione dell’opera del pittore romano. Anche l’attuale mostra di Forte dei Marmi, a dispetto del titolo, insieme alla cospicua monografia che l’accompagna, cerca di mostrare l’opera di Lazzaro secondo una luce nuova, rivelando una ricchezza di motivi e di soggetti ben maggiore di quanto potesse far immaginare il A ristretto ma più noto numero di temi di ambiente marino che fanno parte dello stereotipo summenzionato. Si è scritto molto, in passato, sulla luce dei quadri di Walter Lazzaro, sulla solitudine delle sue spiagge spoglie, prive di presenze umane ma evocative di una poesia del silenzio per la quale si è usata spesso (non sempre appropriatamente) la parola “metafisica”. Come spesso accade nella critica, il motivo iconografico ha avuto la meglio sullo specifico della pittura, aprendo la strada a una scrittura di In alto a destra: Walter Lazzaro con l’Autoritratto, a Palazzo Pitti, Firenze. In alto a sinistra: Walter Lazzaro, Versilia Silente, olio su cartone telato, 1977 Qui sopra: Walter Lazzaro, Canale di Fano, olio su tela, 1932 afflato lirico che ha perso di vista una prospettiva di lungo periodo e ha rinunciato a una comprensione storica del “caso” Lazzaro. Quella che si era persa di vista, in tal modo, è la complessità di un percorso avulso dagli sviluppi artistici del secondo Novecento, ma con una problematica luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 39 Sotto: Tevere, olio su masonite, 1954; A destra. A destra: Pittura Tonale, olio su tela, 1935 più articolata rispetto alla vulgata che vuole Lazzaro pittore di spiagge costellate di solide e inanimate presenze figurative: per quanto queste siano preponderanti nella sua produzione, non ne sono il tema esclusivo. Ma soprattutto, quei soggetti e quel modo di concepire il quadro sono l’approdo di uno sviluppo più ampio e non mancano, inoltre, implicazioni psicologiche ed esistenziali. Le radici della sua ricerca, infatti, sono saldamente piantate nella pittura del secondo Ottocento grazie alla lezione di suo padre Ermilio. Ma c’è una cesura forte, nel percorso di questo artista, in cui gli accadimenti biografici hanno una ricaduta sulla produzione artistica: durante la guerra, al fronte, Lazzaro fa l’esperienza del campo di concentramento a Biala Podlaska, in Polonia. Una volta tornato dalla prigionia, che fu un periodo tutt’altro che inoperoso anche dal punto di vista artistico, la figura scompare quasi completamente dalla pittura di Lazzaro, come se l’uomo, dopo tante efferatezze, non fosse più degno di entrare nel novero dei temi della pittura. Su queste opere, più che su altre, la fantasia degli interpreti si è sbizzarrita. Era quasi giocoforza, tuttavia, quel tipo di lettura di fronte a un’opera versata a sollecitare le solitudini più assolate e malinconiche. Ma questi quadri, non va mai dimenticato, vengono dopo la guerra, e sono come la ricerca di un luogo dello spirito: talvolta compaiono luoghi reali, come Camogli o, soprattutto, l’amatissima Versilia, ma la connotazione territoriale del paesaggio è poco significativa, anzi molto meno significativa rispetto alla caratterizzazione della campagna romana, o dei “silenzi” del Lungotevere. I cieli e le luci del Mediterraneo, in fondo, sono interiorizzati dall’artista e non hanno più bisogno di quel referente reale da tenere a modello. 40 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 LA MOSTRA/3 LA “MONOFORMA” DI ANGELO BOZZOLA Ipotesi per una costruzione d’immagine ascia sconcertati, a una rapida riflessione sulla cronologia, la precoce modernità e la freschezza del percorso del novarese Angelo Bozzola, riproposto dalla mostra curata da Elena Pontiggia presso la triennale di Milano: nel momento caldo dell’Informale, alla metà degli anni Cinquanta, Bozzola aveva preso in pieno la via del concretismo, che avrà uno sbocco effettivo nella militanza nel MAC, mantenendo tuttavia una propria autonomia e continuità. Ciò che lo connota, in particolare, è la via da lui L ANGELO BOZZOLA. OPERE 1952-1981. LE COLONNE INFINITE A cura di Elena Pontiggia MILANO, TRIENNALE 11 giugno - 24 agosto 2014 scelta per sondare le strade dell’arte modulare, decisamente poco incline a derive intimistiche e fatta invece, secondo un’estensiva poetica delle varianti, dalla reiterazione e rielaborazione di un dato repertorio di segni linguistici combinati fra loro. In questi casi, infatti, l’opera d’arte è un progetto e il risultato finale è l’esito formale di un calcolo di accordi cromatici e di delimitazione di campiture di colore saturo e brillante: e questo calcolo di relazioni, in linea di principio, avviene attraverso la moltiplicazione del modello, o “monoforma” secondo la definizione di Bozzola stesso, in una concatenazione che si muove e si articola nello spazio. Spetta al colore, poi, guidare l’occhio nella lettura di questa forma ripetuta e articolata nello spazio, traslata sulla luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano superficie in modo da creare un effetto di movimento, una fluttuazione di sagome come corpi fisici o una sequenza temporalmente scandita per tappe. Va da sé che in un tale procedimento il modulo, o “monoforma”, nasca al di fuori e a prescindere dal medium pittorico: non è una forma grafica quanto non è una forma pittorica, ma un profilo adatto a migrare dalla tempera all’olio all’acquerello, o alla semplice matita, senza perdere di intensità espressiva a seconda della sostanza che gli dà corpo. Per questo motivo, anzi, la “monoforma” è pronta a saltare dalla bidimensionalità della tela alla tridimensionalità della scultura. Qui, secondo una concezione prettamente architettonica della forma plastica, è ancora più evidente il principio delle variabili in concatenazione: dagli anni Sessanta, infatti, Bozzola realizza delle lamine di ferro tagliato con fiamma ossidrica, che recuperano talvolta pericolosamente un aspetto “autre” nelle loro evidenti slabbrature, liberamente componibili in sequenza. Non sono sicuro che ci sia un debito nei confronti di Calder, come pure si è sostenuto, per quanto Bozzola non disdegni la scultura in sospensione anziché poggiata al suolo: anche così, i suoi schemi di riferimento sono gli elementi basilari dell’architettura, dalla colonna all’arco, fino alle più recenti ellissi. Al contrario, mi pare invece verosimile che a monte di questa idea di scultura liberamente montabile a partire da un numero di elementi dato (o “programmato”) si possa vedere un omaggio, consapevole o meno, verso l’idea di “opera aperta. 41 LA MOSTRA/4 ARCHETIPO, MUSICA E REPERTO Il “transito” di Gabriella Benedini a materia è un segno nello spazio, libera del peso visivo della sua gravità al suolo: è questa la prima considerazione che si è tentati di postulare uscendo dalla mostra di Gabriella Benedini presso il Museo Diocesano di Milano, che offre uno spaccato sul lavoro dell’artista differente rispetto alla precedente mostra, di pochi anni fa, presso lo Spazio Oberdan. Il suo percorso, o almeno l’itinerario che l’artista ha voluto delineare in questa mostra, tutt’altro che gravata da preoccupazioni di ordine cronologico e filologico, potrebbe in ogni caso riassumersi con tre termini: materia, racconto e reperto. È l’unione di queste L componenti, infatti, a consentire una migliore messa a fuoco della ricerca. Si tratta di un uso della materia evidente, che talvolta non disdegna un certo gusto barocco (come “barocca”, del resto, era la ridondanza materica di Fontana), ma fortemente metaforizzato: l’ostensione di materia, qui, non è fine a se stessa, ma serve a dare concretezza a un preciso discorso iconico basato sul mito e sull’archetipo, ben espresso dalla TRANSITI E INCONTRI. GABRIELLA BENEDINI MILANO, MUSEO DIOCESANO 24 giugno - 30 agosto 2014 42 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 Nella pagina precedente: Arpa marina e Musiké. Sopra da sinistra: Nozze di Psiche, Porta del cielo, vela di Psiche; Arpe; Geologie e arpa marina monumentale installazione scura a parete delle Costellazioni che fanno da fulcro all’esposizione. Gabriella Benedini, infatti, usa la materia e l’assemblaggio per tracciare delle mappe di un immaginario cosmico e musicale: non è difficile, infatti, che dalle sue costellazioni, dalle tracce siderali più immaginifiche, si sprigioni letteralmente una notazione musicale. L’artista stessa, del resto, in occasione di questa mostra scriveva una nota che metteva in luce il significato della manipolazione della materia in rapporto all’alchimia; anzi, meglio: «le manipolazioni della materia in chiave alchemica sono azioni che ritroviamo simili nel gesto artistico, col suo bisogno di rintracciare un mondo di relazioni, di scoprire l’inesauribile casualità dei rapporti, di sperimentare». È un lessico, questo, che affonda le sue radici sul crinale fra anni Cinquanta e Sessanta, nel momento di crisi dell’informale e di ricerca di una nuova “relazione” degli elementi del discorso visivo, ricorrendo a una strenua “sperimentazione” in cui il “caso” era un elemento di apertura e una possibilità di indagine. In tal senso, osserva Paolo Bolpagni nel saggio in catalogo: «la combinazione e l’interazione degli elementi nell’irripetibilità dell’hic et nunc è un ulteriore aspetto che connota il procedimento creativo dell’artista: dettagli contingenti e accidentali per un verso, consapevoli e deliberati per l’altro, amalgamati in un crogiuolo che rende l’esito linguistico-formale ed estetico superiore e diverso rispetto alla mera somma delle parti […], vanno a comporre il quadro dell’istante, la totalità della situazione momentanea, che, nell’interdipendenza tra eventi oggettivi e condizioni soggettive, è sempre differente, irreversibile e non replicabile, e di cui l’opera è emblema e prodotto. La possibilità combinatoria è infinita, e ogni risultato è una formula imprevedibile sfuggita da un fantastico ingranaggio». Ma il fine del lavoro di Gabriella Benedini, in ultima analisi, è la realizzazione di un racconto non per momenti didascalici, ma per evocazione di eventi e per restituzione metaforica di un momento transitorio: le cose, gli oggetti che inserisce nelle sue opere siano esse votate alla terza dimensione come steli o vere e proprie installazioni, o siano al contrario vocate alla parete, pur sfuggendo alla dimensione del quadro e preferendo piuttosto soluzioni di scultura “a muro” sperimentate già nella Germania fra le due guerre- sono visibilmente soggetti allo scorrere del tempo. Sembra, anzi, che la Benedini li abbia scelti proprio per la loro qualità consunta, per un precoce invecchiamento che li colloca, per converso, in una dimensione atemporale: l’oggetto consunto non rivela la sua età, ma fa parte, al contrario, di un passato privo di collocazione cronologica, che si trova ad avere una nuova vita dentro un nuovo contesto di relazione con altri oggetti e altre materie, tenuto legato dentro un elaborato complesso che fa tesoro delle moderne pratiche di costruzione dell’immagine e delle poetiche del frammento. Ciò che interessa, anzi, è il “sentimento” del reperto, come rinvenuto da un letterario “porto sepolto”. Frammento e addizione, dunque, servono a visualizzare il flusso di coscienza con cui lavora la memoria, che è il vero protagonista, alla fine, del percorso. E la memoria, in fondo, è qualcosa di impalpabile e transitorio, come la musica. Il mito, allora, è un archetipo che porta a guardare verso il cielo. luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 43 LA PROPOSTA DEL MESE IN VIAGGIO VERSO ACQUI TERME Una piccola capitale, fra termalismo, monumenti, libri e grande cultura di federica balza d Acqui Terme non scendono più a “passare le acque” o a “fare i fanghi” monumenti della Belle Epoque come Federico Caprilli, Gabriele D’Annunzio ed Emanuele Bricherasio, né, Umberto di Savoia col suo aristocratico entourage, importanti Ministri degli Esteri e diplomatici, Josephine Baker con i suoi spasimanti di mezza Europa, raffinati intellettuali o frondisti del regime fascista come Dino Grandi, Ezra Pound, Margherita Sarfatti, Pietro Badoglio, Luisa Baccara, Mario Sironi, Curzio Malaparte, e nemmeno Amedeo Nazzari, Luisa Ferida, Osvaldo Valenti, Alida Valli o altri divi, che negli anni Trenta-Quaranta facevano battere il cuore a molti italiani. A Al turismo ed al termalismo d’elite si è andato sempre più sostituendo un turismo culturale, religioso, ambientale ed enogastronomico, che sta riportando Acqui, una delle indiscusse capitali delle villes d’eaux internazionali a fine Ottocento e in epoca fascista, ai fastigi di ottant’anni fa. Acqui Terme ha l’orgoglio di una piccola capitale, che onora, valorizza e difende una bimillenaria storia ed un grande passato. Lo si vede dalla sua architettura, dai suoi giardini, dai suoi monumenti, dalle sue chiese, dai suoi ampi portici umbertini, dalla sua dorsale alberata di corso Bagni, che ricorda i boulevard parigini, dal suo solido, ma sobrio e composto centro storico, restaurato con pazienza, amore e attenzione, ma che non disdegna mostrarsi con un pizzico di grandeur, come d’altronde i suoi abitanti. Dell’eccellenza di Acqui, delle sue terme e del suo territorio sono in molti a parlare fin dall’antichità: Strabone, Seneca, Tacito, lo storico longobardo Paolo Diacono, Liutprando da Cremona. Nel V secolo si ha la costituzione della diocesi di Acqui, con il vescovo San Maggiorino, che sarà sepolto nella Basilica di S. Pietro. Molti i monumenti che costellano la città. Il Duomo, uno dei primi esempi del Romanico in Italia, viene consacrato nel 1067 dal Vescovo Conte San Guido. Ha pianta a croce latina, con tre navate. Molto estesa e suggestiva la cripta colonnata, sovrastata dal presbiterio e dal transetto. Il portale principale, scolpito in pietre nel 1481, del luganese Giovanni Pilacorte. Sulla destra, imponente il quattrocentesco Palazzo Sopra: celebre manifesto decò custodito in un museo statunitense. A sinistra: la Bollente inquadrata dai Portici Saracco 44 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 A sinistra: Il trittico gotico-fiammingo di Bartolomé Bermejo. Sotto: Carlo Sburlati con Franco Battiato, testimone del Tempo all'Acqui Storia. In basso: altro celebre manifesto decò custodito in un museo statunitense. A destra: un celebre ex-libris, xilografia su legno di bosso, inciso da Sigfrido Bartolini nel 1973; Il Figliol Prodigo di Arturo Martini. Vescovile terminato nel 1592, sulla sinistra il Seminario Maggiore, progettato a metà 700 da Bernardo Vittone ed il Seminario Minore, con suggestivi chiostri. Un capolavoro da non perdere nell’aula capitolare: è un trittico gotico-fiammingo, di Bartolomè Bermejo, detto Rubeus. La tavola centrale raffigura la Vergine seduta su una sega, simbolo del santuario catalano di Montserrat. Il castello marchionale che domina la parte alta di Acqui diviene dimora dei Paleologhi, a partire dal 1305. Oggi, ospita il rinnovato allestimento del Museo Archeologico, con diverse sale che spaziano dalla Preistoria, all’Età Romana, al Tardo Antico e al Medioevo. Dopo la cacciata della dinastia bizantina dei Paleologhi da Costantinopoli, Acqui passa nel 1536, in seguito a vicende matrimoniali, ai Gonzaga di Mantova, che nel 600 saranno gli artefici del progetto degli stabilimenti termali oltre il fiume Bormida. Sfruttando l’acqua calda di quelle sorgenti, sgorganti a circa 50° gradi, l’architetto Giovanni Battista Scapitta, su incarico del duca Ferdinando Carlo di Mantova, completerà nel 1687 i grandiosi stabilimenti delle Antiche Terme, che nel Settecento diverranno modello degli edifici termali di mezza Europa, dall’inglese Bath alle francesi Vichy e Plombiers, alla sabauda Aix en Savoie. Grazie all’imponente ponte sul fiume Bormida, inaugurato da Carlo Alberto nel 1849, l’espansione di Acqui verso la zona Bagni e le Antiche Terme avrà uno sviluppo molto rilevante, completato soprattutto in epoca fascista, con la costruzione di impianti sportivi, alberghi di lusso, la realizzazione di giardini, aree verdi, del Casinò Municipale-Kursaal Teatro, che per un certo periodo sarà una delle poche case da gioco d’Italia e la fondazione del celebre centro studi sulla fangoterapia, nato nel 1930. La definitiva consacrazione internazionale dell’eccellenza del termalismo e del turismo ad Acqui si avrà il 30 giugno 1930, quando verrà inaugurata la grande piscina natatoria di acqua termale, lunga 125 metri e larga 60, la più grande in assoluto d’Europa. Gli inviati speciali di grandi quotidiani italiani ed europei scriveranno ammirati che, non solo a Torino o a Roma, ma neanche a Parigi, Berlino o Londra o New York si poteva luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano trovare una struttura simile di quelle dimensioni, dotata di tutte le attrezzature più moderne, eleganti e raffinate. Con gli Archi Romani e la grande piscina, il terzo simbolo è senz’altro “La Bollente”, la più importante fonte termale del centro-città, sita a poca distanza dal vecchio Ghetto ebraico e dalla Sinagoga. Inaugurata nel 1879 dal Senatore Saracco (che per diversi decenni sarà illuminato Sindaco di Acqui, oltreché più volte Ministro, Presidente del Senato ed anche Presidente del Consiglio, dopo l’assassinio di Re Umberto a Monza) dà uno scenografico risalto ai vapori sprigionantesi da questa fonte, della portata di 540 litri al minuto, che sgorga alla temperatura di 74,5° gradi. E’ proprio la grande portata di questa fonte che alimenta le vaschefango dello Stabilimento Nuove Terme, inaugurato nel 1889, pochi anni dopo l’entrata in funzione del Grand Hotel. Quest’ultimo, a cui scendevano abitualmente le teste coronate delle principali casate europee, maragià indiani, emiri arabi e medio orientali, miliardarie americane e lord inglesi, compreso il premier Winston Churchill, è stato recentemente riportato ai fasti dell’epoca liberty da un accurato restyling. Similmente sono stati inaugurati a fine 2010 un nuovo e raffinatissimo centro fitness e una nuova spa, dotati di numerose piscine interne ed esterne di acqua calda termale, provenienti dal lago delle Sorgenti, nel complesso delle gonzaghesche Antiche Terme oltre il fiume Bormida ed il nuovo Centro Congressi. Molte sono le eccellenze culturali di Acqui, che non a caso viene definita “città del benessere e della conoscenza”. A partire dall’ “Acqui Storia”, il più importante premio letterario, non solo italiano ma europeo, nel campo della storiografia scientifico-divulgativa, del romanzo storico e della storia al cinema ed in televisione. Con l’elezione nel 2007 di Carlo Sburlati ad Assessore alla Cultura e la 45 sua conseguente nomina a Responsabile Esecutivo di Acqui Storia ed Acqui Ambiente, queste manifestazioni hanno conosciuto una grande visibilità internazionale, un eccezionale rilancio letterario, scientifico, mediatico e mondano ed un grande successo di pubblico, con servizi filmati nelle ore di punta sui principali telegiornali nazionali e lunghi articoli sui più diffusi quotidiani e rotocalchi, non solo italiani. Negli ultimi due anni hanno calcato il teatro Ariston di Acqui per ritirare i premi registi come Carlo Verdone, Pupi Avati, Pier Francesco Pingitore, il Direttore di Rai Uno e Rai Sport Mauro Mazza, Valerio Massimo Manfredi, Roberto Giacobbo, Mario Cervi, Giuseppe Vacca, Bruno Vespa, Vittorio Feltri, Maria Gabriella di Savoia, l’Ambasciatore Maurizio Serra, Dario Fertilio, Ottavio Barié, Gianpaolo Pansa, Franco Cardini e tanti altri. Si pensi che per l’edizione 2014, la XLVII, che vedrà la spettacolare ed attesissima premiazione conclusiva 46 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 A sinistra: La facciata del Grand Hotel Terme. Sotto: Bocca Bollente, l'acqua fuoriesce a 75°. sabato 18 ottobre, i volumi in concorso hanno sfiorato le duecento unità, mentre nelle prime 40 edizioni (a monte dell’avvento dell’attuale deus ex machina Carlo Sburlati e di Pier Angelo Taverna, Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, che continua a mettere a disposizione gli assegni da 6500 euro per i vincitori di ognuna delle tre sezioni) la media dei libri presentati oscillava tra i 25 ed i 30 per anno. Sono già quarantatre le edizioni dell’annuale “Antologica di pittura”, ospitata nei mesi estivi nei saloni di Palazzo Saracco. Si era iniziato nel 1970 e da qui sono passati tutti i più importanti nomi della pittura italiana del Novecento da Morlotti a Casorati, da Carrà a Rosai, da Campigli a De Chirico, da Soffici a Morandi, da De Pisis a Maccari, da Balla a Burri, da Sironi a Sigfrido Bartolini. Quest’anno è la volta di Ugo Nespolo. Biennale è invece l’altro celeberrimo premio “Acquiambiente”, che consacra i migliori volumi a soggetto ambientalista e progetti di tutela del territorio, della montagna, del mare, delle eccellenze enogastronomiche, la cui passata IX edizione si è svolta nell’incomparabile cornice di Villa Ottolenghi con la solita, raffinata regia di Carlo Sburlati. Ha visto recentemente premiate personalità come Vittorio Sgarbi, Elisa Isoardi, Cristina Gabetti, Alberto di Monaco, Giulio Rapetti Mogol e addirittura Papa Benedetto XVI. Villa Ottolenghi, questa “acropoli delle arti”, realizzata da una ricca famiglia ebrea convertitasi al cattolicesimo, è uno straordinario complesso realizzato su circa 70 ettari della collina di Monterosso, diviso nella grande villa residenziale, l’utopico atelier degli artisti, il grande mausoleo, i meravigliosi giardini disegnati da Pietro Porcinai. Il progetto, partito nel 1923 e durato fino agli anni 60, vede la firma di grandi architetti da D’Amato a Marcello Piacentini, a Giuseppe Vaccaro, a Gaetano Rapisardi, a Fritz Poessenbacher, e sarà impreziosito da alcuni dei massimi capolavori di Arturo Martini, come La Pisana, L’Adamo ed Eva, Il Tobiolo, I Leoni di Monterosso, Il Sogno. Nell’avventura utopica di Monterosso saranno coinvolti molti dei più grandi artisti del Novecento, dall’Accademico d’Italia Ferruccio Ferrazzi, allo scultore Venanzio Crocetti, ad Ernesto Ferrari, ad Alberto Martini, a Depero, a Giò Ponti, a Flavio Poli Seguso, a Zecchin, ad Amerigo Tot. “L’acropoli delle arti di Monterosso”, purtroppo spogliata di alcuni capolavori di Arturo Martini e di parte degli eccezionali arredi, dispersi in una celebre asta ad Acqui della Finarte del 12-13 ottobre 1985, è una delle visite più interessanti nei dintorni, a circa due chilometri dal centro. E’ invece visitabile in pieno centro ad Acqui, nel chiostro di quello che fu l’ex Ospedale di Santa Maria Maggiore, (oggi, dopo la ristrutturazione degli Anni Trenta di Marcello Piacentini, che ne valorizzò i bei loggiati tardo-cinquecenteschi, diventato Casa Jona Ottolenghi), il capolavoro assoluto di Arturo Martini, il gruppo monumentale del Figliol Prodigo, tra le opere più significative della scultura europea del Novecento. luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano LA NOTIZIA DEL MESE LA X EDIZIONE DEL FESTIVAL èSTORIA DI GORIZIA In ricordo della I Guerra Mondiale di marco cimmino a storia non è un segmento, come la raffigura la tradizione giudaico-cristiana: non è neppure un cerchio, in cui gli eventi si ripetano a intervalli regolari, come se l’immaginavano i Greci. Se dovessimo rappresentare la storia, probabilmente, potremmo utilizzare la metafora del “Cubo di Rubik”: una sorta di complicato rompicapo architettonico, pieno di variabili e di costanti, in perenne antagonismo tra loro, oppure in perfetta e delicatissima armonia. La storia, insomma, è una realtà complessa, mutevole, plastica: bene diceva Benedetto Croce, quando sosteneva che la storia è tutta contemporanea. Lo stesso possiamo dire dei grandi fenomeni epocali, dei mutamenti, delle esplosioni e delle implosioni demografiche, delle migrazioni, delle ecatombi, di cui la nostra storia è gravida. La Grande Guerra fu uno di questi fenomeni: uno dei più recenti, ma anche uno dei più sconvolgenti, tanto da lasciare tracce indelebili nella memoria dell’umanità. Si sono spesi fiumi d’inchiostro per cercare di descrivere la prima guerra mondiale: storici ed economisti, politici e geografi, fisici e psicologi, hanno dedicato milioni di pagine a questo conflitto, che fu tanto nuovo, tanto inimmaginato, da divenire per tutti “la Grande Guerra” per antonomasia. L Questo benché, solo vent’anni dopo, ne sia scoppiata un’altra, ancora più sanguinosa e totale. Eppure, la parola si è quasi sempre dimostrata inadeguata, esile, debolissima, nel cercare di descrivere l’indescrivibile: nello sforzo di raccontare una memoria irraccontabile. Nei reduci vi fu una specie di pudore: la paura, forse, di dover descrivere orrori tanto abnormi da risultare incredibili. Perciò, la storia della Grande Guerra, nonostante il lavoro di tanti studiosi di vaglia, ci appare ancora lacunosa: mostra, a un secolo esatto dal suo inizio, la necessità di ulteriori indagini, di analisi operate con altri strumenti 47 che non le tabelle, le statistiche, le proiezioni. Ci rimane da indagare l’uomo di fronte alla guerra: non l’eroe dell’agiografia di regime e neppure la bestia da macello di tanta storiografia degli anni Settanta ed Ottanta, ma l’uomo, semplicemente, con la sua disperazione e le sue speranze, con l’amore per la casa e la famiglia e l’odio feroce per la strage e per il nemico invisibile, entrambi amplificati enormemente dalle circostanze stesse del conflitto. In un certo senso, la scelta del titolo di questa X edizione di èStoria, festival della storia, “Trincee”, che si è tenuto a Gorizia tra il 22 ed il 25 maggio, ha voluto richiamare proprio questo aspetto: la trincea, luogo di vita e di morte, in cui milioni di uomini vissero per anni un’esistenza da trogloditi. Vene di fango e di sasso, scavate nell’epidermide della vecchia Europa: lande desolate, butterate di crateri, simili talvolta a paesaggi lunari, ma capaci ancora del “canto coraggioso delle allodole”. èStoria, da sempre, ricerca l’uomo: il profeta, il bandito, il rivoluzionario, il poeta. Anche in questo centenario, è stato l’uomo ad essere 48 protagonista del festival: una nuova specie di essere umano, l’Homo Trinceratus, specie che non si era mai vista fino al 1914. Quest’anno, èStoria, fin dal suo debutto, ha affrontato energicamente questi temi: il festival si è aperto, infatti, con un convegno di altissimo livello scientifico, “Una guerra globale. Mito ed origini della Grande Guerra”, cui hanno partecipato alcuni tra i massimi studiosi della prima guerra mondiale, come Hirschfeld, Schmidl, Strachan, uno per paese belligerante, riuniti nel neonato Comitato Storico sulla Grande Guerra, presieduto da Paolo Mieli. La disamina di tutte le pieghe del conflitto, che, come si è detto, sono moltissime e complesse, è passata attraverso esperienze sensoriali affatto diverse tra loro, in una vera e propria sinestesia sulla guerra: Uto Ughi ha suonato, in una serata piena di suggestione, sul Monte Santo, dove, nel 1917, Toscanini diresse una banda militare, durante la battaglia della Bainsizza. Attori bravi e famosi, come Massimo Popolizio o Anita Kravos, hanno recitato poesie di guerra in due reading dedicati alle poetesse e ai poeti di guerra, italiani e stranieri. Altri reading sono stati dedicati a due dei più noti scrittori di la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 guerra, uno esteta della battaglia e l’altro pacifista: Ernst Juenger e Erich Maria Remarque. Vi sono stati gli appuntamenti ormai classici della Colazione con la storia e dell’Aperitivo con la storia, che coniugano la convivialità e la cultura, in modo da rendere più utili e gradevoli entrambe. E non sono mancate, naturalmente, le tradizionali uscite di èStoriabus, tra cui spicca quella sui luoghi di A farewell to arms, con la presenza di John Hemingway, nipote del grande scrittore statunitense. La Grande Guerra, insomma, è stata raccontata da moltissime angolazioni: coi fumetti, alla Trgovski Dom, attraverso opere cinematografiche, come nel caso degli incontri su Orizzonti di gloria di Kubrick, o sul celebre documentario The battle of the Somme, che fu il primo realizzato in tempo di guerra, oppure con lo scenario di un romanzo giallo, raccontato dal suo autore, come nel caso dei Misteri in trincea affrontati dal poliziotto-soldato Célestin Louise. La guerra è stata anche cantata, nei “Canti della notte d’Europa” come pure si è resa protagonista di un progetto informatico innovativo, come “Grande Guerra +100”. E, soprattutto, la Grande Guerra è stata la materia di un ricchissimo carnet di conferenze, relazioni, dibattiti, che, in quattro giorni, ne ha scandagliato aspetti noti e meno noti, dal ruolo della donna a quello degli operai, dalla diplomazia alla propaganda, dalla memorialistica all’estetica. Gorizia si presenta come sede ideale di studi sulla Grande Guerra: la dimensione stessa della città isontina, il suo ruolo essenziale nel corso del conflitto sul fronte italiano, la sua bellezza, la sua tradizionale ospitalità e la sua posizione strategica, che la colloca al centro di una rete di itinerari sui luoghi del conflitto, ne fanno una città simbolo di quello scontro titanico, insieme a Verdun, insieme ad Ypres. Fortuna ha voluto che, proprio a Gorizia, la storia abbia trovato persone disposte ad investire denaro, lavoro ed ingegno in una scommessa che, oggi, si rivela vincente, ma cui, dieci anni fa, pochi avrebbero profetizzato un simile successo. Oggi, “Trincee” è stato un punto d’arrivo di un’esperienza consolidata: un festival oliato, rodato, avviato su binari ormai tradizionali. Rappresenta, però, anche un ovvio punto di partenza per nuove ricerche, per nuove idee e per nuove sfide, che, proprio dai cinque anni del centenario prenderanno le mosse. Perché la storia è materia, come si è detto, complessa: ma, in fondo, l’uomo, senza storia, vive un’esistenza cieca. Perfino il concetto di Patria, ossia di terra dei padri, senza memoria della propria storia, diviene un’idea vuota, astratta. èStoria, in definitiva, serve, soprattutto a questo, coi suoi convegni, le sue escursioni, i suoi concerti: a mantenere viva l’anima della storia. Ad aiutarci a ricordare. 50 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 Punture di penna Consigli intellettuali per il vero Maître à penser Ovvero: come furoreggiare nei salotti – parte nona LUIGI MASCHERONI BEST-SELLER Sottolineare che sono cosa ben diversa dai best-reader. E voi scegliete sempre i secondi. BERLINGUER Quando c’era Berlinguer… I treni arrivavano in orario. Screditare il film: “Un compitino…”. SINISTRA AL CAVIALE SNOB Parola che non ha al- Curiosa e ineliminabile casta socio-intellettuale le cui vicende ricordano che bisogna nascere comunisti per morire ricchi. cuna definizione. Bisogna esserlo e basta. EPICEDIO (del berlusco- VITA E LETTERATURA Ci sono scrittori che spiano la condizione umana da un bicchiere di Martini, pensando di studiare l’umanità ai party. Voi, ça va sans dire, preferite gli altri. Sopra: Luigi Mascheroni la civiltà umana è sempre progredita, e non si è estinta in qualche catastrofe, è stato grazie alla saggezza degli anziani, più che alla forza dei giovani. ROTTAMAZIONE Sotti- FUTURO Quando ci arriveremo, al suo centro troveremo il passato. SALOTTI INTELLETTUALI Posti pieni di persone che non prendono nulla sul serio, eccetto loro stesse. le ma devastante guerra propagandistico-mediatica con la quale i nuovi arrivati cercano di scalzare le vecchie posizioni di potere. Di per sé, una cosa giusta. Ricordare però - a margine - che se FELLATIO Se qualcuno ne parla, accennare al fatto che un pompino è sempre più innocente di un dibattito su un pompino. nismo) “Mai come da quando la parola Destra ha avuto il suo quarto d’ora di celebrità, ha smesso di avere un senso”. Farete colpo sull’uditorio, sia di destra sia di sinistra. RAI Parlarne in termini elogiativi per il suo passato, biasimando la deriva volgare e consumistica del presente. Scegliere a caso fra le espressioni: “Gli abbonati sono i veri padroni”, “Bisogna puntare sull’innovazione”, “Non sedersi sull’audience”, “Le fiction si distinguono tra scritte bene e scritte male”, citare spesso il maestro Manzi e il “modello BBC”, “I contenuti sono fondamentali” luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 51 (“ma anche le forme del racconto lo sono”), “Il nemico peggiore è l’autocensura”, “Rispecchiare la complessità”, “Dobbiamo raccontare l’Italia”, “Più attenzione al cinema di qualità”, “E’ stata la Rai a insegnare agli italiani la lingua italiana”, “Sì, ama a rovinarla è stata Mediaset”, “Occorre puntare sulla meritocrazia”. E comunque, rimarcare l’importanza dei due termini, inscindibili uno dall’altro: “servizio” e “pubblico”. NEOQUALUNQUISMO Il nostro mondo occidentale e consumistico fa schifo; il Terzomondo è buono; gli extracomunitari sono schiavi sfruttati dall’Occidente, noi siamo gli sfruttatori schiavisti; i giornalisti, a parte Travaglio, raccontano solo bugie; occorre avere più attenzione per l’altro; i giovani sono la nostra risorsa; tutti dobbiamo darci da fare e rinunciare a qualcosa; “Ah, cazzo, sono già le sei, ora vado in centro a comprarmi un’altra Birkin, dopo in palestra al Downtown, cena leggera al Baretto e poi a casa che devo vedere Ballarò…”. ROMANZO Citare l’aned- doto: William Faulkner, che da giovane scrisse anche raccolte di versi (ma smise presto) era convinto che la poesia, cosa che pochissimi scrittori sono in grado di fare veramente, fosse l’espressione più alta della lettera- James Gillray (1757-1815), L’Assemblée Nationale or Grand Cooperative Meeting at St. Ann’s Hill Respectfully Dedicated to the admirers of “A Broad-Bottom’d Administration”, (particolare) 1804 tura. Poi viene il racconto breve, che è la forma più difficile dopo la poesia. “Fallito anche questo tentativo, lo scrittore si dedica infine al romanzo”. NOIR Se è tale è “Tesissimo”, oppure “Duro e spietato”. REGOLE PER DIVENTARE UN PERFETTO GIORNALISTA 1) Non leggere le regole per diventare un perfetto giornalista di Beppe Severgnini; 2) I due grandi limiti del buon giornalismo sono la mancanza di tempo e la disponibilità di informazioni. Alla prima si può sopperire accorciando le pause caffè, o la lunghezza dei pezzi. Alla seconda copiando da Internet. I limiti creati dai giornalisti stessi si risolverebbero invece licenziandoli. Ma non si può. Però si possono chiudere i giornali (cosa che ultimamente succede spesso peraltro); 3) Comportarsi come se non si sapesse dove sta di casa l’onestà. I pezzi ci guadagnano in chiarezza; 4) La pacatezza nella scrittura è 52 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 Joshua Reynolds (1723 –1792), Gli arcieri (Colonnello Acland e Lord Sydney) controproducente. E l’eticità tende a ridurne l’efficacia. Poi, fate come volete; 5) Le convinzioni politiche è meglio tenerle fuori dalla redazione. Così come le amanti. I pregiudizi invece solo il sale del giornalismo; 6) Tra il lettore e l’editore, scegliete sempre il secondo, facen- do credere che vi immedesimate con il primo; 7) Una sana competizione fa bene al mestiere. Troppa, fa male a voi; 8) Per fare bene il proprio lavoro bisogna fare tante domande. Per farlo meglio, bisogna capire in fretta a chi non farle; 9) Sapere che la professione dei giornalisti ha una reputazione peggiore di molte altre. E che voi non potrete fare molto per cambiarla (ma tanto per aggravarla ulteriormente); 10) Dovete essere seriamente determinati a superare qualsiasi difficoltà si presenti sulla vostra strada, e sapere che il mestiere del giornalista, e soprattutto delle giornaliste, è quello di battere i marciapiedi, e che lo strumento più importate a vostra disposizione non è la testa, ma i piedi. Da cui l’espressione, quando si sbaglia qualcosa, “Ho pestato una merda”; 11) La qualità della scrittura, come dimostrano i romanzi in classifica di tanti giornalisti, è più un intoppo alla carriera che altro; 12) Non avere paura di sembrare stupidi. Se volete fare i giornalisti, lo siete; 13) Gli articoli che vìolano tutte le regole fondamentali del giornalismo e della corretta informazione di solito sono i più belli. Da cui il corollario: un articolo che trae conclusioni affrettate e arbitrarie è deontologicamente da condannare. Però è divertentissimo; 14) Non è il carattere che distingue i giornalisti eccezionali da quelli comuni. Ma il cinismo; 15) Essere coscienti del fatto che i giornalisti spessissimo sono dei cialtroni. Ma i lettori sono sempre delle teste di cazzo. 54 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 Guerra e letteratura Vicende belliche nella letteratura classica I fatti di guerra e gli eroi greci nell’epica e nella tragedia MARCO CIMMINO L a guerra ha sempre rappresentato un’attività primaria dell’uomo: è logico, pertanto, che la letteratura le abbia sempre dedicato un occhio di assoluto riguardo. Il genere letterario d’elezione per descrivere eroi e battaglie è sempre stato, naturalmente, quello della poesia epica, in cui i miti religiosi e quelli eroici si sono mescolati strettamente, dando vita ad una tradizione che ancora influenza la sensibilità occidentale. Possiamo, anzi, dire che la letteratura è nata con l’epica: pur lasciando perdere l’antichissimo poema epico sumero Gilgamesh ed assumendo come campo d’indagine la sola civiltà letteraria occidentale, la primissima opera poetica del mondo greco, l’Iliade, altro non è che il resoconto epico di una guerra. Anzi, della guerra tra due mondi: quello dell’Asia Minore, destinato a soccombere perché militarmente meno efficiente, e quello acheo, indoeuropeo, giovane ed aggressivo, già in possesso, per le proprie armi, Sopra: Aristofane, in un busto del III secolo a.C., Atene, Museo Nazionale. A destra: Pieter Paul Rubens (1577–1640), La morte di Ettore, 1630-1635, Rotterdam, Museo Boijmans Van Beuningen della tecnologia del ferro. Omero (o chi per lui) volle descrivere le origini della fortuna militare di una razza cui anch’egli apparteneva, creando un’infinita serie di archetipi che sarebbero sopravvissuti nei millenni, fino a giungere ai nostri giorni. Possiamo dire che, nell’Iliade, la guerra si risolva in due elementi fondamentali: la partecipazione degli dei, schierati dalla parte di uno dei contendenti, e gli scontri individuali tra gli eroi, con un’inevitabile disinteresse per la massa combattente, relegata a ruolo di anonimo comprimario. L’elemento divino serviva all’aedo per giustificare il prevalere di una parte sull’altra, a parità di valore; la figura dell’eroe era, invece, una figura istituzionale ben precisa, antesignana di quella degli spartiates, soldati di mestiere, cui la città delegava la propria difesa, e che non potevano sottrarsi al proprio dovere-destino. Possiamo assumere come esemplare in entrambi i casi la figura di Ettore, il difensore di Troia: nel duello finale contro Achille, l’eroe troiano viene ingannato dagli dei, che si sostituiscono al suo auriga, Deifobo, determinando la sua sconfitta e la sua morte. In precedenza, nell’ultimo dialogo con la moglie Andromaca, Ettore le aveva spiegato di non poter luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano sfuggire al proprio destino, poiché mancare al proprio dovere avrebbe significato divenire un paria, disprezzato da tutti: un eroe viene onorato e coperto di privilegi, ma, in fondo, è legato ad una servitù ben precisa, da cui non può emanciparsi, pena il ripudio da parte della città. Solo in un secondo tempo, questa logica elementare si sarebbe trasformata nel moderno concetto di eroismo, che i romantici , sovente a sproposito, saccheggiarono a mani basse, trasformando Ettore in un eroe consapevole e malinconico. Questo alle origini. In epoca classica, tuttavia, non fu solamente l’epica ad affrontare il tema polemico in letteratura: questo compito venne spesso svolto dalla lirica e dalla tragedia. Tra il VI ed il V secolo a.C. questi due generi si svilupparono notevolmente: la lirica soprattutto nelle colonie orientali e ad Atene, la tragedia solamente nella capitale attica. È il lirico Tirteo, Ateniese prestato a Sparta, figura semimitica, colui al quale viene 55 attribuito il primo autentico slogan guerresco: «Morire è bello, combattendo in prima fila», autentico antesignano dei vari «Chi per la Patria muor vissuto è assai» e «Dulce et decorum est pro Patria mori», cui attingerà ampiamente e, talora, perfino antifrasticamente, la letteratura della Grande Guerra. Per la verità, però, l’evento epocale, la ‘Grande Guerra’ del mondo greco antico, furono le guerre persiane, che tra il 490 ed il 478 a.C. impegnarono la Grecia e soprat- 56 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 Sopra da sinistra: busto bronzeo di Eschilo, Firenze, Museo Archeologico; ipotetico ritratto di Omero, copia romana del II secolo d.C., da originale greco del III secolo a.C., Parigi, Museo del Louvre; Euripide, in un busto del IV secolo a.C., Roma, Museo Pio-Clementino. Nella pagina a destra: Gerung, Matthias (1500-1570), La distruzione di Troia ed il Giudizio di Paride, (part.), Parigi, Museo del Louvre tutto Atene in una terribile battaglia per la propria sopravvivenza, contro gli eserciti del Re dei Re. È inevitabile che questa straordinaria pagina militare abbia lasciato profonde tracce nella letteratura polemica: queste tracce, com’è naturale, trasudano dell’orgoglio greco per la propria incredibile vittoria contro forze tanto preponderanti. Per ragioni di brevità, citeremo soltanto l’epitaffio di Simonide di Ceo per i caduti alle Termopili, che inaugura l’idea di memoria incorruttibile delle gesta eroiche e la scena della battaglia di Salamina, come compare nella tragedia di Eschilo I Persiani, in cui la pugna appare come autentica sinfonia collettiva, dove l’eroismo trionfa sul numero. Nel brevissimo apogeo della civiltà letteraria greca, il tema della guerra venne elaborato con una completezza che ancora oggi ci lascia ammirati e stupiti: in un secolo soltanto, partendo quasi dal nulla, arte e pensiero raggiunsero vertici forse ineguagliati nella tradizione occidentale. Va da sé che altrettanto ci stupisca la rapidità con cui questo circolo virtuoso si arrestò, lasciando il campo ad altri competitori culturali. Comunque sia, dopo aver perfettamente delineato i canoni di una poesia che celebrasse la guerra ed il valore militare, la Grecia seppe anche descrivere gli aspetti accessori del fenomeno. La tragedia, che con Eschilo era stata lo strumento principe per l’esaltazione del valore della Polis e del- le virtù militari ateniesi, con Euripide assunse toni assai più psicologici ed intimisti, fino a giungere all’affermazione dell’inutilità della guerra, fonte esclusivamente di dolore e di pianto: Euripide, nelle sue Troadi, si pose nell’ottica delle vedove, degli orfani e, in definitiva, degli sconfitti, ribaltando i canoni della guerra eroica, in cui l’obiettivo inquadrava solamente i combattenti nell’acme del proprio valore. Con il grande comico Aristofane, autentico fustigatore dei costumi ateniesi e straordinario creatore satirico, la guerra diviene semplicemente un passatempo stupido degli uomini: un equivalente dell’andare a vedere la partita di football la domenica pomeriggio. Protagoniste di al- luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano cune tra le più fortunate commedie di Aristofane sono le donne, che, stanche di vivere lontano dai propri mariti, perennemente occupati a combattere contro Sparta nella terribile guerra del Peloponneso, decidono di entrare in sciopero sessuale, riunendosi in parlamento: nacquero così le Ecclesiazuse e la Lisistrata, che avrebbero rappresentato un autentico archetipo della letteratura pacifista. Come si vede, con una rapidità davvero straordinaria, la letteratura greca seppe creare un mito eroico e farlo a pezzi: inventò, si può dire, un genere poetico ed il suo esatto con- trario. La civiltà latina, che pure fu debitrice al mondo greco di quasi tutti i suoi generi letterari ed essendo il prodotto di una società in cui il valore militare e la guerra erano elementi capitali, non ebbe una grande tradizione di poesia a tema polemico: l’epica latina, generalmente, non fece che elaborare temi e stilemi già affrontati dai greci, ruotando quasi sempre intorno al ciclo omerico. Anche i poemi che si staccarono dal mito troiano, per affrontare temi ed epopee solamente romani, non seppero creare nuove figure eroiche o nuove descrizioni della guerra, 57 limitandosi ad applicare i canoni dell’epica tradizionale ad eventi reali e più recenti, circondandoli di un alone mitologico. In un certo senso, la figura dell’eroe divenne catastematica, ed il carattere letterario della guerra rimase invariato per più di un millennio. Sarebbero dovuti arrivare nuovi popoli da oriente e avrebbero dovuto imparare a combattere a cavallo, coperti di ferro ed armati con lunghe spade, prima che comparisse una nuova poesia a descrivere il combattimento. In quel tempo, però, la gloria di Roma era finita da seicento anni: quella di Atene da più del doppio. 58 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 59 Guerra e scrittura Il giovane J.R.R. Tolkien e la prima guerra mondiale Sull’esperienza al fronte dell’autore de Il Signore degli Anelli GIANFRANCO DE TURRIS U n sondaggio effettuato nel 1999 tra i lettori britannici su chi fosse il più significativo scrittore di lingua inglese del Novecento, diede un risultato per molti sorprendente: John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973). Che un autore di narrativa “fantastica” abbia prevalso su una miriade di nomi oggettivamente più noti, la dice lunga non solo sulla fama e la popolarità del professore di Oxford, ma soprattutto su quanto la sua opera - da Lo Hobbit a Il Signore degli Anelli a Il Silmarillion - abbia inciso sull’immaginario collettivo del XX secolo e lo abbia influenzato in modo che dire indelebile non è una esagerazione. Se ne deve dedurre che la Nella pagina accanto: J.R.R. Tolkien in una foto del 1945. A destra dall’alto: Ernst Jünger (1895-1998), in una foto del 1918; William Morris (1834-1896), in una fotografia del 1884 sua opera complessiva non è soltanto una vicenda di semplice avventura fantastica, come ne esistono a migliaia, che non è soltanto una “favola per adulti”, il divertissement di uno stravagante e svagato filologo oxoniense. Anche perché a 60 anni esatti dalla pubblicazione de Il Signore degli Anelli le traduzioni in tutto il mondo sono state decine e decine nelle lingue più impensate per oltre 80 milioni di copie, di cui oltre un milione in Italia. La conclusione è che le vicende “fantastiche” scaturite dall’immaginazione di Tolkien hanno un senso e un valore per ogni tipo di cultura e non solo per quella occidentale, in quanto utilizzano simboli universali. Il successo della seconda trilogia del regista Peter Jackson, tratta da Lo Hobbit e altri scritti del professore, sta ancora una volta a dimostrarlo, anche se la sua efficacia è inferiore a quella de Il Signore degli Anelli di dieci anni fa. A differenza di tanti osannati e conclamati best seller 60 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 (tanto per citarne uno, Il Codice da Vinci) che come si suol dire lasciano il tempo che trovano e nessuna traccia se non quella di un boom di vendite, l’opera di Tolkien complessivamente e Il Signore degli Anelli in particolare è un long seller, si vende sempre, attira sempre lettori di generazioni successive senza una particolare pubblicità. Insomma, è un “classico”. Tolkien ha spiegato più volte ciò che lo spinse a cimentarsi con questa prova narrativa: da un lato, il desiderio di dare uno spessore concreto alle genti che parlavano i linguaggi che lui inventava sin da ragazzino; inoltre, la volontà di fornire al suo Paese, la Gran Bretagna, una mitologia. Creò così una narrazione epica sulla falsariga delle saghe leggendarie e delle storie cavalleresche, adatta all’uomo del XX secolo e, cosa straordinaria, non soltanto di cultura occidentale. Quella che è stata anche definita “la fiaba più lunga del mondo”. E proprio come una narrazione tradizionale, di un folklore di per sé immaginario ma nel cui interno sono confluite tutte le sue competenze e conoscenze di filologo, mitologo e appassionato delle leggende europee, in essa si può trovare di tutto e può essere analizzata in molti modi e secondo diversi metodi critici, uno dei quali non esclude l’altro, anche se alcuni di essi possono fornire una analisi più completa e approfondita delle fonti che sono dietro all’immaginario tolkieniano, spiegando da dove nascano certe sue figure, personaggi, creature, luoghi, addirittura nomi. Sotto questo aspetto, la sua opera è una miniera. C’è chi, ad esempio, ha indagato sulle fonti letterarie dei suoi libri, a cominciare dal mondo medievaleggiante ma immaginario di William Morris, autore quasi sconosciuto in Italia; c’è chi ha indagato sugli aspetti linguistici e sulle fonti filologiche; c’è chi ha sviscerato le fonti mitologiche, leggendarie e simboliche, e chi luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 61 Sopra: J.R.R. Tolkien in un’illustrazione di Anna Emilia Falcone (disegno creato per «la Biblioteca di via Senato»). Nella pagina accanto: le copertine della prima edizione della trilogia de Il Signore degli Anelli, pubblicata a Londra, presso George Allen & Unwin, nel 1954 quelle invece storiche. E c’è chi si è rifatto a quanto delle sue esperienze di vita possono averne influenzato gli scritti, cercando di rintracciarle nelle loro pagine. Ad esempio, l’esperienza della prima guerra mondiale di cui ricorre quest’anno il centenario dell’inizio. Tolkien venne inviato sul fronte francese della Somme nel giugno 1916, quando aveva dunque 26 anni, inquadrato nei Fucilieri del Lancashire. Partecipò alla terribile battaglia che ebbe inizio il 1° luglio fino al 27 ottobre, quando si ammalò della “febbre delle trincee”, venne ricoverato in ospedale e l’8 novembre tornò in patria. Nemmeno quattro mesi, che tuttavia rimarranno impressi in modo indelebile nella sua memoria e incisero sulla sua immaginazione. Non solo sulla Somme erano morti due suoi carissimi amici e sodali, ma quel che lì vide fu di certo trasfigurato in alcune parti del Signore degli Anelli. Che inizialmente si sarebbe dovuto intitolare The War of the Ring, la Guerra dell’Anello, il che appare significativo, dato che fa pensare alla sua giovanile e traumatica esperienza. Se si va poi alla descrizione di Mordor e della landa che Frodo e Sam attraversano faticosamente, molte similitudini possono venire in mente: l’aldilà oscuro e la terra dei morti della mitologia classica; le terre imputridite dall’inquinamento industriale contro il quale lo scrittore lanciava le sue invetti- 62 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 J.R.R. Tolkien, The Hobbit, London, George Allen & Unwin, 1937 (prima edizione) ve quando viveva a Oxford; e infine la no man’s land di fronte alle trincee inglesi e francesi che le divideva da quelle tedesche: crateri di bombe, fumi delle esplosioni, filo spinato, esalazioni di gas, pozze d’acqua infetta, cadaveri, ruderi di case sventrate dalle cannonate. Uno scenario apocalittico rimasto impresso nella mente e nel cuore, che si riverbera nella sua scrittura. Come tanti letterati presenti in tutti i fronti, anche Tolkien affrontò la disumana “guerra di materiali” come poi la definì un soldato che forse Tolkien ebbe di fronte, oltre i reticolati, Ernst Jünger. Un conflitto ancor più disumano della “guerra di uomini” come era sempre stata sino a quel momento… Dove la “macchina” senza anima ha il predominio e gli esseri viventi sono nulla, in sua balìa. 64 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 L’Altro Scaffale Napoleone, la grafica e i frammenti pubblicitari Piccole ma preziose proposte di collezionismo ALBERTO CESARE AMBESI P otrà apparire incredibile, ma la realtà è questa: il personaggio Napoleone e i decenni che videro la sua avventura politico-militare hanno suscitato da due secoli a questa parte opinioni appassionate e contrastanti. Più che comprensibile: le scienze e le arti, il diritto e il costume ne furono travolti e/o innovati. Perciò non stupisce di trovare significative e coeve illustrazioni, o testimonianze, di tale epoca pure nei settori della grafica “minore” e delle curiosità cartacee. La Taberna Libraria di Pistoia, per esempio, nelle pagine di supplemento di un recentissimo catalogo ha offerto in vendita, al prezzo di 450 euro, un bellissimo, cartaceo Mappamondo intelato, comprendente otto quadranti, riferentisi alla situazione politica intorno al 1811, ma disegnati e incisi in rame, nel 1846, da un artista di nome William Hughues. Un’attribuzione che mi lascia sconcertato, poiché la storia delle arti ricorda piuttosto Sopra: Paul Delaroche (1797–1856), Napoleone abdica a Fontainebleau, 1845, Londra, The Royal Collection. A destra: Paul Delaroche, Napoleone attraversa le Alpi, 1850, Liverpool Walker Art Gallery il cognome, lievemente diverso, di Arthur (1832-1915) e William (1842-1915) Hughes: futuri protagonisti, in modo difforme, della stagione preraffaellita, ma decisamente improbabili, quali cartografi, all’età, rispettivamente, di quattordici e quattro anni. Si è forse di fronte a un caso di (parziale) omonimia? Mi parrebbe verosimile. Ritorno perciò a considerare il Mappamondo intelato, in sé e di per sé, precisando che si tratta di una tavola di mm. 625x985, edita a Londra e concepita a celebrazione delle coeve aree imperiali (o similari), sia occidentali (Spagna e Inghilterra, Empire of Napoleon, Svezia e Stati Uniti) sia orientali (Cina, Persia e Impero Ottomano), ognuna delle quali identificabile da una nitida, peculiare coloritura, in corrispondenza da quanto precisato dalla didascalia descrittiva posta al margine superiore dell’opera. Un dettaglio grafico curioso: entrambi i poli sono raffigurati come ricoperti da poco invitanti nubi oscure. Quattordici litografie, molto ben conservate (su diciannove della serie originale) invitano invece il collezionista di stampe a riflettere sulla melaconica gloria postuma del Prigioniero di Sant’Elena, così come si manifestò, in un primo tempo, dal 16 ottobre 1840, data dell’imbarco delle luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano sue spoglie, al 15 dicembre 1840 che ne vide, a Parigi, la solenne, tumulazione nella cappella di Saint-Jérome dell’Hôtel des Invalides. Soluzione, come è noto, che cesserà di essere tale il 2 aprile 1861, quando Napoleone III destinerà a quelle spoglie un sarcofago di quarzite da collocarsi nella sala centrale della cattedrale di Saint-Louis des Invalides. Quali momenti siano raffigurati in ciascuna delle suddette incisioni è agevolmente riassumibile: 1) Ricognizione dei resti mortali di Napoleone. 2) Catafalco dell’Imperatore a bordo della fregata la Belle Poule. 3) Battello catafalco dell’Imperatore. 4) Cappella ardente eretta nella fregata. 5) Imbarco della salma di Napoleone. 6) Sbarco della salma a Courberie. 7) Carro funebre di Napoleone. 8) Entrata del convoglio funebre a Parigi. 9) Marcia del corteo lungo i Campi Elisi. 10) Passaggio del convoglio funebre sul Ponte della Concordia. 11) Sosta del corteggio alla barriera della Stella. 12) Arrivo del corteo funebre agli Invalidi. 13) Dopo venticinque anni, gli ultimi avanzi del grande Esercito rispettosamente circondano il Sarcofago dell’Imperatore. 14) Catafalco dell’Imperatore disegnato al naturale nella Chiesa degli Invalidi. Gli ulteriori dettagli: il gruppo di stampe fu pubblicato dopo il 1840 dalla litografia Zanolli ( Editore V. Za- notti) di Bologna e la sua realizzazione fu opera di quattro incisori di diverso valore (Lodovico Aureli, 1816-1865; A. Bextenghi, E.Dotti e A.Frulli), peraltro concordi nell’attenersi ad un attento stile descrittivo, tuttavia solenne. Ragguardevoli le dimensioni di ciascuna tavola: cm. 44x63, più gli ampi margini. Il costo: ottocentocinquanta euro, per l’intero insieme delle opere. Di là dalla tematica napoleonica, il citato catalogo della Taberna Libraria propone l’acquisto, nel settore della grafica, 65 di una bella raffigurazione di fanciulle in fiore eseguita con la tecnica dell’acquaforte da Auguste Renoir (1841-1919) nell’anno 1894. Si tratta, per la precisione del famoso soggetto de Le Chapeau Épinglé affrontato dall’artista con una serie di sei, diverse stampe, tre acqueforti ed una terna di litografie, con ricorrenti variazioni di postura. L’esemplare posto in vendita (a settecento euro) appartiene alla tiratura di prima edizione pubblicata in La Vie artistique di Gustave Geoffroy (1855-1926) ed è firmato in bas- 66 Jacques Louis David (1748-1825) L’Imperatore Napoleone Bonaparte nel suo studio alle Tuileries, 1812, Washington, National Gallery of Art. A destra: alcuni manifesti d’epoca Cinzano, anni ’50 e ’60 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 so, sulla sinistra, “Renoir” - Stato II/II. Le sue dimensioni sono le seguenti: mm. 83x120, inclusi i margini bianchi di mm. 115x165. Altro - e diversamente interessante - la tipologia delle pub- blicazioni offerte dallo Studio Bibliografico L’Arengario di Gussago (BS), trattandosi di volantini, cataloghi, opuscoli, cartoline e pubblicazioni di varia consistenza di genere pubblicitario e pubblicitario-industriale, risalenti ai decenni cruciali che vanno dal 1900 al 1960. Un ambito dove ora sembrano assommarsi, ora paiono disgiungersi, i valori estetici (talvolta casuali) e gli intenti promozionali o strettamente reclamistici. Come è ovvio, con un rapporto qualitàprezzo (come si dice in sedi di vendita) molto differenziato. Per esempio, la brossura, in cartoncino, del 1933/34, Cinzano, impaginata e illustrata a colori con figure, fotomontaggi e design, a cura dell’artista elvetico Nico Edel (1901-1971), è con ragione proposta a milleduecento euro, poiché si tratta della prima edizione, in lingua inglese, della monografia che mirava a illustrare, all’estero, ambienti, prodotti e storia di un’impresa liquoristica pluricentenaria (la sua esistenza era stata sanzionata da un riconoscimento della Real Casa di Savoia nel 1786) e in fase di diffusione mondiale. Monografia, non a caso pubblicata da stampatori tanto raffinati quanto erano Alfieri e Lacroix (Milano) e nell’accattivante formato di cm. 325x26,5, come voleva il progetto originale del libro (48 pagine complessive) curato dall’Ufficio Propaganda della stessa Cinza- luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano no. Alla estremità opposta, cioè a dire con costi minimi (centocinquanta e duecentocinquanta euro) possono invece rintracciarsi due opuscoli pubblicitari originali, entrambi di indubbio interesse documentativo. Il primo di essi ha un design e un’impaginazione d’impronta futurista. Suo, presumibile autore: Lucio Venna (1897-1974), pseudonimo di Giuseppe Landsmann, artista di nazionalità italiana, ma con ascendenza austriaca. Scopo della pubblicazione: la sintetica illustrazione, scritta e grafica, della Fiera Nazionale dell’Artigianato di Firenze del 1932, grazie a un pieghevole di cm. 16,8x12,2 che, una volta svolto, misura cm. 33,5x48. Stampatrice ed editrice dell’opera, la Tipografia Benaglia. Copertina e tre facciate che comprendono composizioni figurali in nero, grigio, bianco e rosso, più grande fotomontaggio con fotografie in bianco-nero di diversi oggetti, fra i quali non possono non notarsi le ceramiche di Deruta e di Richard Ginori, nonché le estrose forme dei mobili disegnati anni prima dal geniale Fortunato Depero (1852-1926). La seconda pubblicazione che qui si segnala risulta invece, rispetto alla precedente, più giovane di due anni. Illustra infatti la TIF Tripoli International Fair organizzata dall’11 marzo al 31 maggio 1934 dal General Board of Fairs TABERNA LIBRARIA Via della Rosa, 38 51100 Pistoia Tel. 0573.994562 www.tabernalibraria.com L’ARENGARIO STUDIO BIBLIOGRAFICO Via Pratolungo, 192 25064 Gussago (BS) Tel. 030. 2522472 www.arengario.it 67 Tripoli, avendo per coeditori l’Ente Autonomo della Fiera di Tripoli e l’Istituto Geografico De Agostini. Curatore della brossura, il pittore Carlo Vittorio Testi (1902-1977), già legionario fiumano e fascista “libertario”. L’opera in questione è una brossura di 32 pagine n.n. con una copertina illustrata a colori, sei fotomontaggi in b.n. nel testo ed è arricchita da fotografie di luoghi, edifici e ambienti tripolini. Il contenuto è redatto in italiano, francese, inglese e tedesco. Un rilievo importante, anzi indispensabile: l’edizione della mostra tripolina che qui si è ricordata rimase celeberrima, a livello internazionale, poiché, come rammentato nel catalogo librario dell’Arengario, fu praticamente concomitante con il primo circuito sulle oasi del deserto libico condotto dall’aeronautica italiana. luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 69 Filosofia delle parole e delle cose Passaggi di senso fra metafora e similitudine Fra le sottigliezze di alcune figure retoriche DANIELE GIGLI S e la lode, l’affermazione nuda e quasi inconsapevole della realtà, è l’origine della parola (e della poesia) la similitudine, il «questo è come quello», ne è probabilmente l’immediata conseguenza. Per accorgersene, ancora una volta, più che prendere lezioni di estetica è utile osservare il nostro agire di ogni giorno. Che cosa facciamo, infatti, quando vogliamo dire a qualcuno quanto siamo contenti o affaticati? O quando vogliamo spiegare quanto blu sia il cielo di oggi, o quanto verde - e come - il prato di trifoglio su cui sdraiati stiamo leggendo? Normalmente, usiamo il paragone. Tentiamo cioè di tradurre in immagini, anzi di ri-comprendere in immagini, quel che vogliamo affermare e per cui sentiamo il puro nome insufficiente, a un tempo stesso troppo vago, carico di significati, e troppo preciso, troppo stretto. È il primo passo in direzio- ne di quella strategia che T.S. Eliot definì, consegnandola alla storia della critica letteraria, come «correlativo oggettivo»: la traduzione in una serie di oggetti esterni, e nelle relazioni tra di loro, del sentimento o dell’intuizione o del pensiero che si vuole esprimere. Se potessimo fare una scala del paragone - e lo possiamo solo tenen- do conto che è un utile gioco, ma che le cose non sono così semplici - dovremmo porre allo stadio più elementare la similitudine, dove «a» viene descritto «come b»; a un secondo grado la metafora, in cui il termine «a» viene saltato, sottinteso (non «sei forte come un leone», ma «sei un leone»); a un terzo grado di astrazione, ma paradossal- Bisonti gialli, 19.000 a.C., grotte di Lascaux, Francia 70 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 Cola Dell’Amatrice, Calliope, secolo XVI, Città di Castello, Pinacoteca Comunale mente più simile al primo che al secondo, il correlativo oggettivo e l’allegoria. Alla similitudine piace infatti di più l’allegoria, cioè l’espressione di significati mentali dentro l’espressione di strutture reali. Alla metafora, invece, piace più il simbolismo, l’espressione di significati mentali attraverso l’uso di rappresentazioni delle strutture reali. Al metaforista che dice «sei un leone» non interessa il leone, ma la forza e il coraggio e tutte le qualità che possiamo immaginare proprie di un leone; ma soprattutto, gli interessa che quelle qualità siano assegnate - massima paradossalità - al termine di paragone non espresso. Sei appunto «tu» a essere «forte come» un leone, anche se non lo diciamo, ma lo lasciamo dire alla metafora, a questo rapporto che tanto più è ricco di cultura e sentimento il ricevente, tanto più diventa vago e impreciso, sovrainterpretabile. La metafora non chiarisce, evoca e sfuma, tanto è vero che se io ti dico «sei un leone» tu puoi inebriarti perché ti ritengo forte come lui o coraggioso come lui; ma, se qualcosa di me ti insospettisce, puoi altrettanto adombrarti perché temi io ti ritenga «spieta- to come un leone» quando abbranca e dilania la sua preda. Come sempre, sono cose di poeti perché sono cose di uomini, essendo la poesia lo spazio necessario e primitivo in cui la lingua vive, si rinnova e si riconnette con l’esperienza. Lo sapeva Wallace Stevens, quando con stupore calmo descriveva l’accadere della poesia, il tradursi gratuito, apparentemente innecessario eppure essenziale del mondo là fuori in una struttura linguistica. In parole che, soltanto rinominandolo, sapessero lodarlo: «Era là, parola per parola,/ La poesia che prese il posto di un monte.// Ne respirava l’ossigeno/ Persino quando il libro stava voltato nella polvere del tavolo.// Gli ricordava come avesse avuto bisogno/ Di un luogo da raggiungere nella direzione sua,// Come avesse ricomposto i pini,/ Spostato le rocce e trovato un sentiero fra le nuvole,// Per arrivare al punto d’osservazione giusto,/ Dove sarebbe stato completo di una completezza inspiegata:// La roccia esatta dove le sue inesattezze/ Scoprissero infine la vista che erano andate guadagnando,/ Dove potesse coricarsi e, fissando il mare in basso,/ Riconoscere la sua casa unica e solitaria» (Wallace Stevens, La poesia che prese il posto di un monte, in Il mondo come meditazione, Guanda, Parma 1998, traduzione di Massimo Bacigalupo). luglio / agosto 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 71 BvS: il ristoro del buon lettore Il canto magico della Siriola I Monti Pallidi, l’Alta Badia, la grande cucina GIANLUCA MONTINARO L e leggende narrano che sia difficilissimo udirla. Raccontano che solo in pochi, puri di cuore e pieni di generoso coraggio, siano destinati a incontrarla. La Siriola, usignolo che abita le vette più inaccessibili delle Dolomiti, è il magico e minuscolo uccello che tutte le sere, durante l’enrosadira, saluta il sole che si abbassa nel cielo. Vola «disegnando arabeschi enigmatici». Vola cantando una piccola e arcana canzone che subito si nasconde «tra i petali di una sperduta stella alpina» o «in un refolo di vento» perché nessuna possa ascoltarla. La Siriola, come spiegano le leggende raccolte e pubblicate da Karl Felix Wolff in numerosi volumi, fra cui Il regno dei Fanes (libro che la Biblioteca di via Senato possiede nella prima edizione italiana, del 1951, stampata a Bologna da Licinio Cappelli), veglia sul popolo antenato dei Ladini. Il regno dei Fanes, primo in gloria e ricchezza, si stendeva su buona parte delle valli dolomitiche. Il loro re risiedeva in un castello sulle Conturines, l’impressionante massiccio alto più di tremila metri che si apre sopra San Cassiano, in Alta Badia. Oggi, ai piedi delle sue pareti a Ristorante La Siriola Via Pre de Vi, 31 San Cassiano - Badia (Bz) Tel. 0471/849445 strapiombo, si trova uno dei relais montani più belli d’Italia: l’hotel Ciasa Salares. Casa, da oltre cinquant’anni di Paoli e Hilda Wieser, il Ciasa Salares sussume, per esprimerlo al meglio, lo spirito dell’Alta Badia. Qui la Siriola canta tutte le sere. Qui Stefan (figlio di Paoli e Hilda), aiutato dal giovane Jan Clemens, propone, nel piccolo e curatissimo ristorante La Siriola, il meglio di queste valli. In cucina il valente Matteo Metullio gioca destramente con i prodotti e le tradizioni locali riuscendo a costruire piatti dallo stile contemporaneo, centrati nel gusto e senza astrusità, come il perfetto caprino con fiori di zucca, trota salmonata affumicata e pucia o a rivisitare grandi classici di montagna, come uovo, speck e patate. Con maestria si misura anche con piatti importanti, come il risotto al foie gras, pesche e petto d’oca affumicato o il controfiletto di capriolo con purè di carote, verdure di stagione, bernese e salsa al fieno. Da una carta dei vini enciclopedica, ricca anche di annate preziose - fiore all’occhiello di Stefan - non si sbaglierà nello scegliere un grande pinot noir di Borgogna: magari un Beaune premier cru Les Chouacheux di Philippe Pacalet. Nel bicchiere il vino, di un profondo rubino tendente al granato, sviluppa un complesso profilo aromatico con chiare note di ribes nero, una adeguata spezia e una lunga scia minerale. In bocca entra quasi con timidezza: il tannino è setoso, i polialcoli sottili… Poi, come in progressione, esplode in un caleidoscopio di sensazioni dalla lunghezza quasi infinita. Intanto le Conturines, maestose e imponenti, iniziano a tingersi di rosa. Quando poi al tramonto seguono notti di luna piena, la visione si fa ancora più impressionante. Le vette assumono colori diafani e quasi spettrali. La Siriola continua a volare. E il suo canto a diffondersi nel cielo stellato. 72 la Biblioteca di via Senato Milano – luglio / agosto 2014 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO ALBERTO C. AMBESI Alberto Cesare Ambesi (1931), scrittore e saggista, ha insegnato storia dell’arte e semiotica all’International College of Sciences and Arts e all’Istituto Europeo del Design. Fra le sue opere si ricordano qui: Oceanic Art (1970), L’enigma dei Rosacroce (1990), Atlantide e Le Società esoteriche (1994), Il panteismo (2000), Scienze, Arti e Alchimia (riedizione ampliata e rinnovata di un precedente saggio, Hermatena, Riola, 2007) e le particolari monografie Nella luce di Mani (2007) e Il Labirinto (2008). È stato critico musicale del quotidiano «L’Italia» e ha collaborato alle pagine culturali de «La Stampa». FEDERICA BALZA Federica Balza (1986), ha studiato Ingegneria Logistica e della Produzione al Politecnico di Torino, si occupa di pianificazione approvvigionamenti e analisi logistica nel settore industriale. Collabora con articoli scientifici, storici ed economici a diversi settimanali e periodici italiani. Nel 2013 è stata designata dai 60 giuratipopolari dell’Acqui Storia, Rappresentante dei lettori nella sezione storico-divulgativa. LUIGI MASCHERONI Luigi Mascheroni ha lavorato per «Il Sole24 Ore», «Il Foglio» e, dal 2001, per «il Giornale». Scrive soprattutto di Cultura, Spettacoli e Costume. Ha una cattedra di Teoria e tecnica dell’informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Fra i suoi libri, il pamphlet Manuale della cultura italiana (2010) e Scegliere i libri è un’arte. Collezionarli una follia (2012). Sta lavorando a un saggio sui plagi letterari e giornalistici. È fra i fondatori del blog “Dcult” (difendere la cultura): http://www.dcult.it/. Dal 2011 ha un videoblog, primo in Italia, di videorecensioni: http://blog.ilgiornale.it/mascheroni. GIANCARLO PETRELLA Giancarlo Petrella (1974) è docente a contratto di discipline del libro presso l’Università Cattolica di Milano-Brescia. Nel 2013 ha conseguito l’abilitazione per la I fascia di insegnamento di Scienze del libro e del documento. È autore di numerose monografie fra cui: L’officina del geografo; Uomini, torchi e libri nel Rinascimento; La Pronosticatio di Johannes Lichtenberger; Gli incunaboli della biblioteca del Seminario Patriarcale di Venezia (2010). Ha curato le mostre Petrarca alla Trivulziana e Libri mei peculiares. Collabora con «Il Giornale di Brescia» e la «Domenica del Sole24ore». MARCO CIMMINO Marco Cimmino (Bergamo, 1960). Storico, membro della Società Italiana di Storia Militare e socio accademico del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna, si occupa prevalentemente di Grande Guerra. Collaboratore Rai, scrive su molte testate. Membro del comitato scientifico del Festival Internazionale della Storia di Gorizia, è uno dei responsabili del progetto èStoriabus. Tra i suoi saggi più recenti: La conquista dell’Adamello (2009), Da Yalta all’11 settembre (2010) e La conquista del Sabotino (2012), finalista al premio Acqui Storia 2013. LUCA PIVA Luca Piva (Piove di Sacco, 1960), saggista e illustratore, si interessa a temi e spunti della tradizione figurativa e letteraria italiana, in particolare nelle sue espressioni di ambito veneto, per lo più di periodo tardo. Nella sua bibliografia figurano due saggi pubblicati in «Padova e il suo Territorio» (Invito allo studio del Cristo di Arzerello, 2010; Una triste visita di Giovanni Comisso a Piove di Sacco, 2011). Sta lavorando ora a una raccolta di storie narrate da architetture. GIANFRANCO DE TURRIS G. de Turris ha lavorato in Rai dal 1983 al 2009, come vice-caporedattore dei servizi culturali del Giornale Radio. Ha ideato e condotto la trasmissione di approfondimento culturale L'Argonauta, con cui ha vinto nel 2004 il Premio Saint-Vincent di giornalismo. Si occupa di politica culturale da un lato e di letteratura dell'Immaginario dall'altro, scrivendo di questi argomenti su quotidiani, settimanali e mensili, nonché su enciclopedie e dizionari, dirigendo riviste e collane, curando l' edizione e l'introduzione di centinaia fra romanzi e saggi, e pubblicando una quindicina di libri. È direttore responsabile della rivista «Antares». MASSIMO GATTA Massimo Gatta (1959) ricopre l’incarico, dal 2001, di bibliotecario presso la Biblioteca d’Ateneo dell’Università degli Studi del Molise dove ha organizzato diverse mostre bibliografiche dedicate a editori, editoria aziendale e aspetti paratestuali del libro (ex libris). Collabora alla pagina domenicale de «Il Sole 24 Ore» e al periodico «Charta». È direttore editoriale della casa editrice Biblohaus di Macerata specializzata in bibliografia, bibliofilia e “libri sui libri” (books about books), e fa parte del comitato direttivo del periodico «Cantieri». Numerose sono le sue pubblicazioni e i suoi articoli. LUCA PIETRO NICOLETTI Luca Pietro Nicoletti, storico dell’arte, si interessa di arte e critica del Secondo Novecento in Italia e in Francia. Ha pubblicato: Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un editore italiano a Parigi (Macerata 2013). GIANLUCA MONTINARO Gianluca Montinaro (Milano, 1979) è docente a contratto presso l’università IULM di Milano. Storico delle idee, si interessa ai rapporti fra pensiero politico e utopia legati alla nascita del mondo moderno. Collabora alle pagine culturali del quotidiano «il Giornale». Fra le sue monografie si ricordano: Lettere di Guidobaldo II della Rovere (2000); Il carteggio di Guidobaldo II della Rovere e Fabio Barignani (2006); L’epistolario di Ludovico Agostini (2006); Fra Urbino e Firenze: politica e diplomazia nel tramonto dei della Rovere (2009); Ludovico Agostini, lettere inedite (2012); Martin Lutero (2013). DANIELE GIGLI Daniele Gigli (Torino, 1978) lavora nella conservazione dei beni culturali. Studioso di T.S. Eliot, ne ha curato alcune traduzioni, tra cui quelle di The Hollow Men (2010) e Ash-Wednesday, di imminente uscita. Ha pubblicato le plaquette Fisiognomica (2003) e Presenze (2008) e sta attualmente lavorando al libro Fuoco unanime.