Oltre la superficie dipinta. L`opera di Paolo Scheggi

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Oltre la superficie dipinta. L`opera di Paolo Scheggi
Oltre la superficie dipinta. L’opera di Paolo Scheggi negli anni sessanta
di Irene Balzani
«Io non credo che Paolo Scheggi sia quello dei fori. Detta così la cosa sembra un po’ brutale. Quasi
da conversazione. Da strada. Ma- sinceramente- è la mia riflessione sul lavoro di Scheggi.[…] Non
si tratta di opere chiuse. Abbiamo sempre opere complesse, aperte, come interrotte.
Un’interruzione che lascia però il problema impostato. Non si tratta, mai, di opere presuntuose.
Non c’è nessuna soluzione nelle opere di Paolo Scheggi […]. Non è un artista concreto […]. Io
considero Scheggi un artista concettuale. Considero il tipo di ricerca che ha condotto puramente
concettuale».1
Così Giuseppe Chiari sintetizza, nel 1983 a dodici anni dalla scomparsa di Paolo Scheggi, il suo
percorso, esaltando la ricerca concettuale che sottende tutto il suo lavoro e che lo porta prima a
sperimentare la pittura, a esasperare le sue potenzialità, per poi dilatarne i confini fino a
intrecciarla con l’esistenza stessa.
La carriera artistica di Paolo Scheggi è una parabola che si consuma in poco tempo.2 La sua
formazione avviene nell’ambiente fiorentino, lo studio dove prendono vita le sue prime opere, nella
casa paterna a Settignano, «era una stanzetta inserita in un’altra più grande; poca luce». «Quelle
due finestre di seminterrato che davano su un orto di campagna mi fecero una gran tenerezza, un
po’ come pensare allo Zoo di Vetro»,3 così lo descrive Fernanda Pivano dopo averlo visitato nel
1963. Alle pareti citazioni di Eliot, Mallarmè, Wols, che, «scelte così, attaccate così sulla parete in
un tentativo di identificazione di se stesso, facevano capire com’era disperata la solitudine di quel
ragazzo, com’era faticosa la sua ricerca»;4 una ricerca che lo aveva portato a comporre opere
polimateriche di sapore informale: «era curioso vedere in quell’ambiente di campagna questi
ritardatari esempi new dada. Chissà se quel ragazzino sapeva chi sono i new dada: la provincia
riserba spesso certe sorprese».5
Il cambiamento arriva all’inizio degli anni sessanta, con il trasferimento a Milano, che, in quegli
anni, è uno dei laboratori culturali più ferventi, anche grazie alla presenza di Lucio Fontana, Bruno
Munari e il più giovane Piero Manzoni con il gruppo di Azimuth; questi artisti, con il loro lavoro,
mettono definitivamente in crisi l’idea tradizionale di opera d’arte con tutti i suoi corollari: unicità
e irripetibilità dell’esecuzione, supporto e tecniche provati da una lunga tradizione, rigida opzione
tra tridimensionalità della scultura e bidimensionalità della pittura, concezione del quadro come
«diario di un’anima».
6
Fontana, in particolare, diventa di punto di riferimento per un’intera
generazione: il confronto diretto con la superficie, con la pittura stessa, annullata attraverso la sua
lacerazione nei Concetti spaziali, o l’evoluzione in senso concettuale dell’intervento sullo spazio,
attuata con Ambiente spaziale a luce nera, vengono interpretate come possibili vie d’uscita dalle
correnti informali.7 «È necessario, un cambio nell’essenza e nella forma. È necessario il
superamento della pittura, della scultura»”,8 sostiene Fontana, convinto che l’arte debba trovare i
suoi assunti principali nel «movimento, colore, tempo e spazio». 9
In questo contesto Paolo Scheggi realizza i primi “fori” per usare le parole di Chiari, ovvero le prime
opere costituite da tre superfici monocrome forate che, sovrapponendosi, lasciano che le diverse
aperture si intravedano l’una sotto l’altra. Intitolate Per una situazione [fig.1], Zone riflesse o
Intersupefici, queste tele assumono una forte evidenza concreta, trasformando il quadro in oggetto
a sé stante lontano dal problema dell’espressione soggettiva e distante da una qualsiasi figurazione.
Come in Fontana, la tela «cessa di essere un piano di proiezione e viene direttamente implicata nel
contesto. Non è più uno schermo che riceve l’immagine di azioni che si compiono in un altro
spazio, ma un campo di forze».10 A differenza dei Concetti spaziali, però, è assente il gesto
concentrato, rapido e liberatorio del taglio. I fori, tracciati a mano libera, delineano piuttosto forme
dai contorni curvilinei e irregolari, che, in un certo senso, appaiono “morbide”, organiche. Forte è
l’attenzione alla dimensione spaziale: oltre all’ingombro fisico dell’opera, il buio che si percepisce
tra i diversi piani dà la sensazione di uno spazio indefinito anche se non infinito; quello che se ne
ricava è la percezione di un “oltre” che sfonda in profondità i confini tracciati dalla tela. Ed è
proprio la problematica dello spazio, secondo Giulio Carlo Argan, il nodo di tutta la ricerca di
Scheggi: «la contraddizione dialettica tra spazio e oggetto, la definizione per assurdo (la sola
pensabile) del vuoto».11
Le opere di Scheggi, ma anche quelle di altri artisti che operano in quegli stessi anni a Milano come
Enrico Castellani, Agostino Bonalumi, Dadamaino e Getullio Alviani, insistono inoltre sugli effetti
percettivi dell’operazione artistica perché chiamano l’occhio di chi guarda a una risposta diretta. I
diversi piani di incidenza della luce, così come la posizione da cui le si osserva, diventano aspetti
essenziali e costituivi dell’opera stessa, così lo spettatore, con la sua dimensione fisica, diventa
parte integrante del processo creativo.
A partire dal 1964, Scheggi inizia a regolarizzare le forme dei fori che, da fluide, diventano aperture
perfettamente rotonde ottenute con fustelle di ferro. Costituite da griglie regolari queste opere
perdono ogni possibile riferimento alla variazione soggettiva e si avvicinano molto a oggetti creati
industrialmente, rendendo il confine tra arte e design difficilmente tracciabile.
L’applicazione del metodo matematico, la serializzazione, la completa trasformazione del quadro in
oggetto, l’idea di un’arte che si avvicini al design perviene alle sue estreme conseguenze negli Interena-cubi [fig.2] e nelle Strutture modulari, tutti lavori composti da moduli che si ripetono, come se
fossero elementi prodotti in serie e poi assemblati. «L’inter-ena-cubo», spiega Scheggi, «è un
oggetto plastico, che conferisce allo spettatore un pari grado di corresponsabilità della vita plastica
dell’opera. […] Lo spettatore potrà infatti eseguire tutte le possibili variazioni dell’oggetto plastico
usufruendo anche del dorso degli inter-cubi, […] sì da distribuire quale iter continuum la luce sulle
forme-ripartitori circolari in rapporto alla propria esigenza di tempo-lettura».12 Achille Bonito
Oliva, in un testo del 1969, parla di questi lavori come «opere che non vogliono vivere al di fuori del
flusso del reale […] ma che intendono proporsi come meccanismo di conoscenza». «Una
conoscenza» continua il critico «non accidentale e adatta soltanto per una comprensione
dell’opera, ma stimolo per una riformulazione della realtà. Scheggi infatti non vuole produrre
oggetti che riflettano soltanto se stessi, ma tende ad allargare l’incidenza della propria sfera
attraverso la serializzazione, la quale naturalmente non può da sé riscattare il mondo, ma
partecipare alla ricostruzione di un reale in cui l’arte non si ponga come alibi-decoro del sistema
ma partecipi alla modificazione della nozione politica del mondo».13 Un’arte, dunque, che assuma
un ruolo sociale, e in un certo senso politico, che serva da stimolo «per una riformulazione della
realtà».14
Questo è per Scheggi un punto di svolta nel suo percorso artistico. Gli Inter-ena-cubi hanno insita
nella loro natura la potenzialità di svilupparsi all’infinito, di diventare spazio totale, e lo dimostra
l’allestimento di una personale a Firenze nel 1969, dove, infatti, Scheggi espone varie Strutture
modulari dello stesso colore insieme, messe in modo da coprire un’intera parete. È verso questa
direzione che Scheggi si dirige nel corso del 1967, quando presenta l’Intercamera plastica [fig.3], il
lavoro in cui «lo spazio potenziale acquista energia e diventa architettura. È un ambiente spaziale,
in cui lo spettatore può muoversi, passeggiare, discutere, vivere e sostare».15 L’area che prima
veniva compressa tra le tele, tra le superfici, adesso si dilata fino a raggiungere dimensioni
ambientali, diventando spazio reale, vivibile. Scheggi, invece, definisce così il suo lavoro:
«modalità iter-spaziali atte ad integrare quei settori dell’architettura, la cui fruizione tenda a
rinventare in spettacolo plastico e determinare i comportamenti a livello psichico le attuali
tipologie costruttive. La sperimentazione dell’intercamera intende essere, in questa sede, più che
un modello, un pre-progetto di intenzionale comportamento produttivo».16
L’Intercamera plastica, che rappresenta la definitiva uscita dalla dimensione coercitiva del quadro,
viene esposta significativamente in occasione di Lo spazio dell’immagine a Foligno, mostra
simbolo per la conquista della dimensione ambientale delle opere d’arte, essendo i diciannove
artisti partecipanti chiamati a realizzare un «ambiente plastico-spaziale».17 Tutta l’esposizione
rende esplicita la tendenza espansiva dell’oggetto artistico verso quello che viene definito
“environment” , «quel passaggio in cui l’immagine dal significare, passa ad essere lo spazio»,18 per
dirla con le parole di Celant, una tendenza di cui Fontana viene riconosciuto anticipatore con il suo
Ambiente spaziale a luce nera, riproposto alla mostra. Mentre Celant parla di «im-spazio»,19 De
Marchis propone il termine «teatrale» per definire lo spazio in cui queste ricerche ambientali si
oggettivano al termine di un processo percettivo, perché diviene luogo di eventi in cui lo spettatore
è abitante e parte del gioco.20
Ed è proprio la dimensione teatrale, intesa come momento corale, quella che prende spazio nel
percorso artistico di Scheggi in questi ultimi anni sessanta. In una intervista rilasciata a Marisa
Rusconi nel 1969, per la rivista “Sipario”, l’artista sostiene: «personalmente penso che il problema
fondamentale dell’espressività contemporanea non sia già riempire uno spazio, ma riempire un
tempo, un tempo come tempo di teatralità».21
L’ambiente Interfiore, presentato nel 1968 al Teatro delle Mostre della galleria La Tartaruga, nasce
da queste riflessioni. Composta da anelli di legno di colore arancione, di diverso diametro, sospesi a
diversa altezza e illuminati dalla luce di Wood, viene definita da Maurizio Calvesi «l’invenzione più
astratta della manifestazione. Scheggi ha agito percettivamente sul senso dello spazio, che,
immerso nel buio, era annullato come contenitore, lasciando fiorire dei circoli luminosi».22 La
manifestazione romana prevede che ogni giorno esponga un artista diverso nello spazio della
galleria, in modo che l’ambiente si modifichi sostanzialmente e appaia sempre diverso: la nozione
abituale e determinata di spazio viene meno, mentre ne emerge la potenzialità infinita.
Maurizio Calvesi scriveva ancora, nel catalogo del Teatro della mostre: «l’happening è stato, è, la
contemplazione attiva dell’evento in sé, in quanto tale più che per i suoi significati; una cosa che
accade, che succede, ma dove conta il succedere, l’accadere, e non la cosa. […] L’oggettualità come
presenza fisica, pregnante, è controvertita da una ricerca di strutture e di processi. Il tempo non è
recuperato come arresto o come flusso ma come processo: l’opera, in quanto esperienza, porta
insito in se stessa il tempo della propria processualità, la propria cadenza temporale, ed è questa
che è emersa come perno di una nuova struttura».23
La ricerca di Scheggi muove verso l’apertura delle opere al coinvolgimento del pubblico, e il teatro
sembra l’ambito più adatto a questi scopi, per questo inizia collaborazioni in ambito scenografico,24
per poi occuparsi anche della stesura registica e della scelta dei testi da rappresentare. Nel corso del
1969 nascono quelle che lui stesso definisce «azioni-teatro»,25 tutte opere che da un punto di vista
contenutistico richiamano elementi biblici, spesso affrontati in maniera ironica, intrecciati a
richiami politici e simbolici.
Oplà-stick, messa in scena al Naviglio [fig.4], consiste in un’azione in cui degli attori alternano
momenti di immobilità a momenti in cui leggono delle frasi o spostano delle lettere attaccate sullo
sfondo, e le portano in primo piano a comporre parole come “occhi”, ”abisso”, “urto”, “violenza”, in
base alle indicazioni date da una voce fuori campo. Gli attori si muovono all’interno della galleria, e
sono visibili dal pubblico da una vetrina affacciata sulla strada.
Ancora le lettere, questa volta di dimensioni più grandi, escono dallo spazio della galleria e
invadono la città in occasione della manifestazione OPLÁ, “azione-lettura-teatro”, svolta per le
strade di Milano, e ripetuta a Torino, Firenze, Roma nel corso del 1969. Nel caso del capoluogo
lombardo la performance viene eseguita il mattino dello stesso giorno di Oplà-stick, Passione
secondo Paolo Scheggi, mentre a Firenze l’evento coincide con l’inaugurazione della personale in
cui sono esposte le Strutture modulari.
Dalla dimensione della tela, l’opera ha conquistato prima lo spazio all’interno della galleria e poi
anche quello all’esterno: la città è concepita come la scenografia in cui l’arte entra a diretto contatto
con la realtà.
Il passo ulteriore è rendere gli spettatori attori: avviene nell’Autospettacolo. Nella già citata
intervista, Marisa Rusconi Scheggi aveva espresso la convinzione secondo cui «allo spettatore, oggi,
è concesso un solo atto di teatralità: scegliersi totalmente al di qua della scena e viversi come
teatro».26 Le stesse idee sono riproposte in un articolo che Scheggi stesso scrive per “Casabella” nel
1969, in cui parla del rapporto arte-città, partendo dalla constatazione che le due realtà sono
divenute indipendenti, perché l’arte generalmente «riempie solo uno spazio che lo spettatore non
può vivere», così essa si è trasformata «da senso aperto e corale a luogo fittizio e strumentale».27
Dunque «l’arte del falso oggettivo, della falsa verità rivelata, dove opera e fruitore giocano ruoli
indipendenti è l’istanza più appariscente della condizione che l’ha creata, l’assenza di catarsi. E
inevitabilmente si identifica con un’arte del non vissuto, dell’anemia e della morte. Privato quindi
della coscienza di reciprocità nella funzione spettatore-spettacolo, della possibilità di intervenire
attivamente in questo falso rito, chiuso nell’asfissia di un «tempo senza realtà», all’ “urbano” oggi è
concesso un solo atto: scegliersi totalmente al di qua del rito e viversi come spettacolo». «È noto»
scrive ancora Scheggi «come la maggior parte della produzione artistica nasca legata ad uno spazio
dell’illusione che dal Palladio-Tiepolo al Van der Rohe-Picasso rimanga nella struttura base
immutata», ma questa è appunto la descrizione di uno spazio virtuale che deve tornare ad essere
reale, trasformandosi a sua volta in tempo visibile e vivibile, «insomma la città come tempo di
spettacolo totale, lo spazio come sosta del tempo vissuto». Da queste considerazioni arriva a
sostenere che «forse in questo momento la sola arte nella città è l’ ”Autospettacolo” ».
Autospettacolo è il titolo dell’opera che Scheggi propone a Caorle nel 1969 per la manifestazione
Nuovi materiali, nuove tecniche. In collaborazione con Raffaele Maiello e Franca Sacchi, egli
sistema una serie di microfoni e altoparlanti per le vie della città, insieme a manifesti graficamente
impostati come locandine teatrali [fig.5], con il nome degli autori e degli interpreti principali,
ovvero degli artisti presenti all’evento come anche di tutti gli abitanti di Caorle e dei visitatori.
L’Autospettacolo consiste infatti nella registrazione di quello che avviene per le strade della città, e
nella ritrasmissione automatica di questi stessi suoni, rumori, voci attraverso altri altoparlanti
posti in zone diverse; così gli spettatori diventano contemporaneamente protagonisti e fruitori: il
“pubblico” è perfettamente al centro dell’opera d’arte. Tommaso Trini, nel catalogo della mostra,
scrive che Scheggi opera «dentro la realtà concreta, che si limita ad apparecchiare con microfoni
segreti e altoparlanti defilati alla curiosità. L’arte si azzera sulla vita, l’unico suo metodo è quello del
rilevamento; rilevate, le voci dei vari punti di ascolto vengono immesse in un circuito che
costituisce il solo atto o volontà di regia dell’artista. Con l’Autospettacolo tutti siamo attori e
pubblico - che è già importante - ma lo siamo in forma anonima (leggermente spionistica) - che lo è
ancora di più».28
In questo modo la presenza dell’artista non è quasi percepibile, perché limitata a creare i
presupposti affinché l’opera esista, mentre il visitatore è reso co-autore in quanto elemento
fondante del processo: impossibile delineare una “cornice” all’opera, impossibile tracciare un
confine che delimiti arte e vita, artista e spettatore.
1 Giuseppe Chiari, Oplà, in Paolo Scheggi (catalogo della mostra, Firenze, Sala d’Arme di Palazzo Vecchio, 28 maggio-26
giugno 1983), Vallecchi Editore, Firenze, 1983, p.15.
2 Paolo Scheggi muore nel 1971, a soli trentun anni.
3 Fernanda Pivano in Franca Scheggi e Deanna Farneti (a cura di) Paolo Scheggi, (catalogo della mostra, Bologna,
Galleria d’Arte Moderna, 6 ottobre-10 novembre 1976), s.n., Bologna, 1976, p.n.n.
4 Ibidem.
5 Ibidem
6 Per un’analisi del contesto milanese in quegli anni: Angela Vettese, Milano et mitologia. I poli della ricerca visiva 19581964, Edizioni Bellora, Milano, 1989.
7 L’Ambiente spaziale a luce nera viene definito dallo stesso Fontana «il primo ambiente spaziale nel mondo, né pittura,
né scultura, arte immediata, suggestione libera dello spettatore in un ambiente creato da un artista, preparazione a
concetti di un’arte del futuro basata sull’evoluzione del mezzo dell’arte». Lucio Fontana, Perché sono spaziale (1952), in
Enrico Crispolti e Rosella Siligato (a cura di), Lucio Fontana (catalogo della mostra, Roma, 1998), Electa, Milano, 1998,
pp. 176-178.
8 Manifesto tecnico, letto da Lucio Fontana al I Congresso Internazionale delle proporzioni nell’ambito della IX Triennale
di Milano del 1951, in ivi, pp. 174-176.
9 Ibidem.
10 Giulio Carlo Argan, Lucio Fontana, in Lo spazio dell’immagine (catalogo della mostra, Foligno, Palazzo Trinci, 2 luglio1 ottobre 1967), Alfieri edizioni d’arte, Venezia, 1967, p. 52.
11 Giulio Carlo Argan in F.Scheggi, D.Farneti (a cura di), Paolo Scheggi, op.cit., p.n.n.
12 Paolo Scheggi, Nota per l’Inter-ena-cubo, in ivi, p.n.n.
13 Achille Bonito Oliva, Una conoscenza per il mondo, in ivi, p.n.n.
14 Ibidem.
15 Germano Celant, “Paolo Scheggi”, Casabella, n. 312, gennaio-febbraio 1967, p. 70.
16 Paolo Scheggi in Lo Spazio dell’immagine, op. cit., p. 99.
17 Maurizio Calvesi, Strutture del primario, in ivi, p. 52
18 Germano Celant, l’Im-spazio, in ivi p. 20.
19 Ibidem.
20 Giorgio De Marchis, Lo spazio dell’immagine, in ivi, pp. 23-24
21 Marisa Rusconi, “Paolo Scheggi: riempire il tempo come tempo di teatralità”, Sipario, n. 276, aprile 1969, pp. 15-20
22 Maurizio Calvesi, Arte e tempo, in Maurizio Calvesi (a cura di) Teatro delle mostre (catalogo della mostra, Roma,
galleria La Tartaruga, 6-31 maggio 1968), Lerici editore, Roma, 1968, pp. 11-15.
23 Ibidem.
24 Nel corso del 1968 collabora con Giuliano Scabia e Raffaele Maiello al Piccolo Teatro di Milano realizzando gli
Interventi plastico-visuali per lo spettacolo Visita alla prova dell’Isola Purpurea di Bulgakov.
25 Tra il 1969 e il 1971 vengono realizzate: Oplà-stick, Passione secondo Paolo Scheggi; OPLÁ; Autospettacolo, Dies Irae,
Inquisizione secondo Paolo Scheggi; Marcia funebre o Della geometria, Processione secondo Paolo Scheggi.
26 Marisa Rusconi, “Paolo Scheggi: riempire il tempo come tempo di teatralità”, Sipario, cit., p. 17.
27 Paolo Scheggi, “La città come tempo di spettacolo”, Casabella, nn. 339-340, agosto-settembre 1969, riportato in
F.Scheggi, D.Farneti (a cura di) Paolo Scheggi, op.cit., p.n.n.
28 T.Trini, in Nuovi materiali, nuove tecniche (catalogo della mostra, Caorle, 20 luglio-20 agosto 1969), s.n., s.l., 1969,
p.n.n.
IMMAGINI
1. Paolo Scheggi, Zone riflesse, 1963, Milano, Collezione Franca Scheggi.
2. Paolo Scheggi, Inter-ena-cubo, 1969, Milano, Collezione Cosima Scheggi
3. Paolo Scheggi, Intercamera plastica, 1967, (foto U. Mulas)
4. Paolo Scheggi, OPLÁ, 1969
5. Paolo Scheggi, L’Autospettacolo (locandina), 1969