Smapsy - Fermati, Vivi

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Smapsy - Fermati, Vivi
introduzione
Fermati
Ascolta, Racconta, Vivi
Questo ebook è un concentrato di storie per fermarsi e
vivere. Racconti di persone che sono uscite dal meccanismo
ripetitivo della quotidianità, hanno preso carta, penna, tastiera
ed hanno scelto di comunicare attraverso le proprie esperienze e la propria fantasia. Persone che si sono chieste: “ma si può
vivere meglio di così?”, ed hanno trovato una risposta positiva.
Perché ha ancora senso fermarsi a raccontare ed ascoltare? Semplice: le storie, i sogni realizzati o da realizzare, sono
il carburante della nostra vita. Lo sono da sempre, da quando
siamo nati! Quando ascoltiamo belle storie ci ricordiamo di
essere stati bambini, di esserlo ancora in certa misura, e di
poter recuperare quell’energia vitale.
Imbattersi in storie che ci ispirano è una vera fortuna,
perché ci aiutano ad immaginare e creare un mondo diverso
da quello che tutti accettano come l’unico mondo possibile.
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Non si tratta di essere infantili, sprovveduti, immaturi, irresponsabili: si tratta di essere vivi.
Allora fermati sulla nostra panchina gialla, ascolta, e vivi!
Se il mondo corre lascialo correre. C’è bisogno di belle storie,
idee rivoluzionarie e la vera rivoluzione può farla soltanto chi
si ferma per fare qualcosa di diverso; soltanto chi si ferma può
salvarsi. Chi non si ferma è perduto.
www.fermativivi.it
FERMATI,
RACCONTA
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Rosalba Butera
Qualcosa in più
Dicono che gli scrittori abbiamo un posto, il loro posto per
scrivere.
A me piace scrivere seduta sul mio letto mentre guardo la
finestra.
Mi piace tanto la musica americana, l’ascolto tutto il giorno, anche quando studio.
La mamma non ci crede che mi concentro meglio se sento la musica, e invece è vero, e poi a me piace tanto, sono
contenta, la mia sveglia infatti ha una canzone bellissima per
svegliarmi.
Mi chiamo Marta come la mia nonna, e ho 10 anni.
La mia mamma, dice che sono nata allegra, che quando la
nonna Marta mi ha preso in braccio, io l’ho guardata negli
occhi e ho sorriso, la nonna ha detto “questa bambina diventerà qualcuno e si chiamerà come me”.
Pare che la mia mamma si sia messa a piangere, e tutti hanno pensato che si fosse commossa, ma io non ne sono convin-
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ta, forse voleva chiamarmi in un altro modo e non ha avuto il
coraggio di opporsi, ma mi sembra strano, la mia mamma è
una persona molto coraggiosa.
La mia mamma fa l’infermiera.
Nel piccolo ospedale della nostra città, nel reparto terapia
intensiva, dice che i cuori si ammalano per mancanza d’amore; io non lo so perché si ammalano i cuori, ma so che la
mia mamma ha tanto amore da dare e forse è per questo che
quando c’è lei di turno all’ospedale nessuno muore mai. Infatti, la mia amica Daisy dice sempre che spera che se le viene
mal di cuore, ci sia la mia mamma, sennò lei preferisce stare
a casa, almeno li, c’è la sua, di mamma.
La mamma della mia amica Daisy è americana, è bellissima, fa
la pittrice, nei suoi quadri ci sono sempre solo donne con fiori, io
quando li guardo se chiudo gli occhi riesco a sentirne il profumo.
Oggi non vado a scuola, ieri sera in camera mia dopo cena
ho messo il disco che mi piace tanto e ho ballato cosi veloce
che ho perso l’equilibrio e dato una zuccata sullo spigolo della
mia scrivania, la mia testa ha fatto un rumore cosi forte, che la
mia mamma dalla sua camera lo ha sentito ed è corsa subito.
Appena mi ha vista stesa per terra ha messo le le mani davanti alla bocca e ha esclamato “Oh mio Dio” poi è andata in
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cucina ed è tornata con un tovagliolo con dentro del ghiaccio
e me lo ha premuto forte sulla fronte.
Forse anche all’ospedale fanno così con i malati di cuore, se
il cuore è troppo caldo, può bruciare.
“Di cuore freddi ne abbiamo abbastanza”, ha detto una volta
la mamma di Daisy.
Io male al cuore l’ho avuto solo una volta, quando il mio
papà è andato via per cercare lavoro, e non è ancora tornato.
Non so se è un vero male al cuore, perchè la mia mamma
non mi ha portata all’ospedale.
Stamattina la mia mamma ha chiamato il Signor Jons, il
mio insegnante per avvertirlo che non sarei andata a scuola,
l’ho sentita ridere, era tutta rossa. Giugno sta arrivando e fa
già tanto caldo, spero che non le si scaldi il cuore, ma di ghiaccio noi nel freezer ne abbiamo tanto, perciò sono tranquilla.
Il signor Jons è proprio un bravo insegnante: dice sempre
che con i libri possiamo conoscere cose che forse non vivremo mai, è come vivere tante vite e a me questo mi piace molto. E infatti voglio fare la scrittrice, così, anche se rimango
con la mia mamma, nella mia camera posso vivere tutte le
vite che voglio.
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Nei miei racconti c’è sempre Daisy, qualsiasi vita vivrò, lei
sarà sempre la mia mia migliore amica.
Oggi ho preso il metro che la mamma usa per misurare
le stoffe dei suoi vestiti, lei i vestiti se li cuce da sé, e sono
molto belli, più di quelli che vedi nelle vetrine dei negozi.
Io penso che dovrebbe cucirli anche per gli altri, anche la mamma di Daisy lo pensa, e le chiede sempre che se li fa anche per
lei, la paga, ma lei dice che è solo un hobby e va bene così.
Con il metro ho misurato lo spazio che occupo sul letto
quando scrivo: è esattamente un metro quadro, veramente ci
sta anche Daisy seduta vicina a me quando le leggo quello che
ho scritto, o quando ci raccontiamo i nostri segreti, abbiamo
giurato che nessuno mai li saprà neanche sotto tortura.
Il suo segreto più grande è che le piace un nostro compagno
di classe, e che le ha regalato un sasso preso giù al fiume; il
cuore le batteva forte quel giorno, ma non le faceva male, per
fortuna sennò all’ospedale avrebbe dovuto svelarlo per curarla, e fine del segreto.
Nel pomeriggio viene Daisy, così facciamo i compiti insieme. La nonna mi ha telefonato per sapere come sto e mi
ha detto che domani forse riesce a venire e mi porta un regalo e di stare attenta che la testa è la parte più importan-
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te del corpo per una signorina e che senza testa non si va da
nessuna parte. Io pensavo che fosse il cuore la parte più importante, ma forse mi sono sbagliata, io mi sbaglio spesso.
La mia mamma e la mia nonna litigano sempre, chissà, forse la
nonna ha la testa e la mamma il cuore, e non riescono a capirsi.
Io voglio tanto bene a tutte e due, e quando vedo che si arrabbiamo faccio le boccaccie per farle smettere, loro si guardano e sorridono e fanno sempre la pace.
Le mie boccacce sono troppo divertenti, se le faccio davanti
allo specchio dopo un po’ rido anche io, Daisy dice sempre
che a lei non la divertono , che però è mia amica lo stesso.
Domenica è il mio compleanno, la mia mamma mi ha organizzato una festa nel giardino. Sono nata il 21 giugno.
Giugno è il mese dell’anno più bello che ci sia, perché ci
sono le ciliege, io ne mangio cosi tante che l’anno scorso ho
avuto mal di pancia tutta la notte.
Domenica la torta alle ciliegie con la crema la fà la mia
nonna che è una cuoca bravissima, ma io ne mangerò solo
una fetta, di mal pancia non ne voglio più.
Ieri sono andata in giro con Daisy e sua mamma: tutti gli
uomini si giravano a guardarla e noi ci sentivamo come le star
di Hollywood.
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La mamma di Daisy, si è fermata all’improvviso davanti ad
una vetrina, e poi siamo entrate. I vestiti erano proprio belli,
ma non come quelli che cuce la mia mamma.
Lei si è comprata una gonna bianca con i fiori, la commessa
ha detto che il cotone è la stoffa ideale, perchè tiene fresco.
Quando sono arrivata a casa, la mia mamma era già tornata
dall’ospedale.
In questa stagione i cuori stanno tutti bene, speriamo che
non aumenti il caldo.
La mamma aveva le mani dietro la schiena e quando mi ha
detto “indovina un po’ cosa c’è qui?”.
Io dall’emozione quasi sono svenuta, lei rideva e mi ha dato
un grosso pacchetto con un bellissimo fiocco azzurro.
Io non ho resistito, lo so che mancano ancora tre giorni
alla mia festa, ma l’ho aperto lo stesso, e dentro c’era proprio
quello che desideravo, un grande blocco per scrivere e tante
penne di tutti i colori.
La mamma mi ha detto che adesso posso scrivere per almeno un anno.
Io mi sono seduta al tavolo delle cucina e nella prima pagina ho disegnato la gonna della mamma di Daisy, così adesso
di regali ne ho due.
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Sono proprio una bambina fortunata.
Quando diventerò una scrittrice famosa, me ne andrò in
giro con la gonna a fiori e tutti diranno, guarda chi sta passando!
Che giornata.
Piove, meno male che Daisy ha passato la giornata con me,
con lei mi diverto sempre Daisy da grande di lavoro vuol fare
la viaggiatrice, cioè vuol viaggiare in tutto il mondo.
In camera sua ha attaccato al muro una grandissima cartina
geografica, e la sera quando è a letto, la guarda sognando tutti
i posti dove andrà.
Oggi mi ha raccontato che vuole essere la prima donna della storia che viaggerà da sola e che lo farà camminando a piedi, cosi conoscerà tutte le persone del pianeta, a me sembra
un po’ troppo .
Tutte le persone sono tantissime, penso che potrebbe accontentarsi di conoscerne almeno due per ogni posto che andrà. Il mio papà è il più importantissimo editore che pubblica
libri.
Mi ha promesso che mi manderà una cartolina da ogni città e se incontrerà il mio papà gli dirà di tornare subito a casa
da me.
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Io sono certe che il mio papà è in America, dove basta andarci e fai fortuna e se hai un’ idea diventi ricchissimo.
Io il mio primo libro lo pubblicherò in America, penso che
racconterò la storia di Daisy.
Per il suo compleanno le regalerò un paio di scarpe robuste,
le serviranno se dovrà camminare così tanto.
Ne ho viste un paio al centro commerciale, sono rosse con
la punta bianca.
Voglio comprare un pennarello azzurro e scriverci sopra
“Daisy, la mia migliore amica e prima donna che non ferma mai”.
Il campanello stamattina ha suonato così tanto, che mi sono
dovuta precipitare giù dalle scale in pigiama e con i piedi
scalzi.
La mamma mi ha sempre detto di non aprire la porta agli
sconosciuti, allora io ho preso lo sgabello e ho guardato dal
buco che c’è sulla porta e c’era la faccia simpaticissima del
postino.
Il postino si chiama signor Mario, tutta le mattine lo incontro e lui ha sempre una caramella gommosa per me; è molto
buono con la sua divisa, è cosi magro che da lontano sembra
di vedere una bicicletta che si muove da sola, e solo quando è
vicinissimo ti accorgi che è lui.
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Da dietro la porta gli ho detto: “Signor Mario non posso
aprirle perchè sono sola in casa e la mia mamma non vuole”, allora ho visto che ha sorriso e mi ha passato una busta da sotto
la porta e mi ha salutata fischiettando a voce alta.
Io sono troppo curiosa e ho aperto subito la busta, e sapete
cosa c’era dentro? Una fotografia che ritrae me e Daisy, con scritto dietro “Tanti auguri alla mia cara amica, speciale” firmato Daisy.
Nella foto si vede Daisy che sorride con i suoi bellissimi capelli riccioli e biondi, appoggia la testa alla mia spalla sinistra,
mentre siamo sedute sulla panchina del parco della scuola,
anche io sorrido.
Io ho i capelli castani, lisci, lunghi e ho la frangetta, la nonna dice che mi starebbero meglio più corti.
Io e Daisy anche se siamo veramente amiche, ma non ci
somigliamo per niente, lei ha grandi occhi azzurri e io neri,
con una forma un pò a mandorla, non come quella degli altri,
un pò diversa.
Io ho la sindrome di down, me lo ha spiegato il dottore, ho
qualcosa più delle altre persone, un gene, forse è per questo
che sono così tanto una brava scrittrice.
Anche la mia bocca è un pò diversa, le mie labbra sono
grosse e quando sarò grande, potrò mettermi il rossetto, che
mi starà benissimo.
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Fa tanto caldo oggi.
Il mio cuore ora batte forte forte, e ho un pò paura, sarà
meglio che mi stenda un pò sul letto.
Appena mi passa, aprirò il mio quaderno e comincerò a
scrivere.
Mi chiamo Marta, e da grande voglio fare la scrittrice.
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Nicoletta Di Marco
L’uomo che aggiusta il mondo
Avete presente quella canzone di Battisti che diceva: “Quel
gran genio del mio amico. Lui saprebbe cosa fare, lui saprebbe
come aggiustare. Con un cacciavite in mano fa miracoli”. Ecco,
quello era mio padre.
Ognuno di noi nasce con una missione nella vita. Difficile
è riconoscerla.
Mio padre non so se abbia mai avuto contezza della sua
missione, ma vi assicuro che l’ha seguita. La missione di mio
padre? Aggiustare il mondo.
Mio padre ha un irrefrenabile bisogno di aggiustare tutto
quello che gli capita a tiro. E per tutto intendo proprio tutto
tutto in maniera indiscriminata. Lui è un tuttofare. Non importa se la cosa rotta è dentro casa o fuori, se gli appartiene o
non gli appartiene: lui l’aggiusta senza pietà.
Chiedere perchè mio padre fa questo è come chiedere a un
medico perchè si ferma per strada per soccorre qualcuno che
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si sente male; non è che il medico si domandi se è o meno il
caso di intervenire, o si pone il problema se il malato si trova
dentro o fuori il suo studio, o se pagherà. È il suo dovere? Ne
ha le competenze? Quindi lo fa. Idem mio padre.
Mio padre cammina per strada, vede una mattonella fuori
posto e l’aggiusta con il piede. Una volta è stato ricoverato in
ospedale, il suo letto cigolava, allora lui che fa? Avvisa l’infermiera che si sarebbe assentato per qualche minuto, va nel
garage, prende la saldatrice, ritorna in ospedale e aggiusta il
suo letto.
Finito con il suo, aggiusta quello di un altro degente, poi
passa alla cinghia rotta della serranda e infine va dall’infermiera per chiederle se c’era da riparare qualcos’altro. Dopo
aver finito di aggiustare mezza corsia va a posare la saldatrice
in garage, torna in ospedale, si rimette il pigiama e continua
a fare il suo bel cruciverba.
Un’altra volta ricordo che tornavo da scuola e dissi a mio
padre che in classe si era rotta la serratura dell’armadio.
L’indomani lui non lavorava allora decide di accompagnarmi a scuola e nel farlo si porta la sua cassetta degli attrezzi.
Aggiusta l’armadietto, saluta maestra e i miei compagni e
se ne va.
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Vi racconto quest’altra storia.
Un giorno i miei genitori mi vengono a trovare a Mantova,
dove lavoravo. Mio padre entra in casa e constata sofferente
che c’è qualcosina da aggiustare. Si rivolge stizzito verso mia
madre rimproverandola: “Visto Enza, te l’avevo detto, in aereo
avrei dovuto imbarcare anche la cassetta degli attrezzi”.
Lo rassicuro dicendogli che anche qui al nord vendono attrezzi da lavoro. Andiamo in ferramenta e già lo vedo che si
rianima. Compriamo gli attrezzi di “primo soccorso”, torniamo a casa e aggiusta tutto. Finalmente vedo un uomo sereno.
Per farvi rendere conto fino a dove si può spingere il suo
raggio d’azione, nel suo bisogno di aggiustare il mondo, persone comprese, vi devo raccontare questa.
Una sera ero in giro con un’amica, esco dalla macchina e mi
chiudo il pollice dentro lo portiera. Vi risparmio i particolari
della scena splatter che ho vissuto.
Ritorno di gran furia a casa. Apro la porta d’ingresso e senza salutare corro nella mia stanza per buttarmi sul letto. I
miei genitori capiscono al volo che c’era qualche cosa che non
andava e mi vengono dietro.
Vedono la mia mano insanguinata e mia mamma corre a
prendere il necessario per medicarmi. Dopo le prime manovre
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cerchiamo di valutare insieme se è il caso o meno di andare
al pronto soccorso, ma a un certo punto mio padre esordisce:
“non c’è bisogno dell’ospedale, ci penso io!”.
Si assenta per qualche secondo e ritorna con un pezzetto di
legno e due fascette da elettricista. Avete capito cosa voleva
fare, vero? Io lo fulmino con lo sguardo e gli dico:
a) mi sono rotta l’unghia e non l’osso, quindi in ogni caso
non si deve steccare;
b) viviamo in un Paese “civile” e non c’è bisogno di ripiegare
su soluzioni da sopravvissuto, stile Cast Away.
Mio padre è un uomo tutto a un pezzo, pochissime volte
l’ho visto piangere.
Una sera, a ritorno da lavoro, entra in casa e va diretto a
sedersi nel salotto senza salutare. Era sconvolto, viso scuro e
occhi lucidi. Mia mamma preoccupata gli chiede cosa fosse
successo: se qualcuno si era fatto male al lavoro, se era morto
qualcuno, ma lui continuava a dissentire con la testa su ogni
ipotesi di mia madre.
A un certo punto, dopo insistenza di mia madre, lui biascica “mi
hanno scassinato l’auto e si sono rubati la mia cassetta degli attrezzi”.
Vi assicuro che per lui quella cassetta era una delle cose più
importanti della vita. Conteneva attrezzi che avevano più di
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quarant’anni, alcuni fatti da lui, altri lasciati in eredità da suoi
amici e altri difficili da recuperare per qualità. Insomma, quel
delinquente aveva rubato non dei semplici attrezzi da lavoro
ma il prolungamento delle mani di mio padre.
L’aggiustare è la sua missione ma anche la sua prigione.
Lui convive bene con tutte le cose che può riparare, viceversa vive male tutto ciò che nella vita non può sistemare con
un cacciavite, come dice lui “si sente con le mani legate”. Alcune
cose nella vita si possono “risolvere con altri “attrezzi”: una
carezza, un bacio. Altre cose non si possono risolvere affatto.
Per me ci sono voluti anni per capire e accettare il suo modo
di amarmi.
Lui entrava nella mia stanzetta, aggiustava la abatjour, e
dietro quel gesto c’era una carezza data a me. Il suo era ed è
un amore silenzioso, ma concreto.
Il suo modo di fare mi faceva capire che qualsiasi problema
avrei avuto nella vita lui ci sarebbe sempre stato, aiutatomi ad
aggiustarlo.
Cosa mi ha insegnato mio padre? A prendermi cura di
quello che va aggiustato, anche se non mi appartiene e non
ho l’obbligo di farlo.
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Mi ha insegnato che per aggiustare non c’è bisogno di partire missionari in Africa, inizia aggiustando e curando chi ti sta
vicino; il tuo prossimo, come diceva uno famoso con tanti fan.
Ah, cosa importante, mio padre si chiama appunto Salvatore. A volte il nome che ci danno alla nascita può essere proemio di quello che faremo nella vita.
P.S. Piccolo avvertimento. Se doveste invitare a casa vostra mio
padre non posso garantirvi su quello che accadrà. È possibile che a
un certo punto lui si metta ad aggiustare il rubinetto che perde, la
spina elettrica rovinata o vi sostituirà la lampadina fulminata.
E farà tutto questo senza neanche chiedervi il permesso.
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Mirella Merino
Un viaggio insieme nell’arcobaleno
(la storia del gabbiano Arco e della farfalla Iris)
Prefazione: A volte gli esseri umani non fanno caso alla bellezza e alla magia di un incontro, si lasciano travolgere dallo scorrere
veloce del tempo... ma due ragazzi invece, ignari dell’esistenza al
mondo l’uno dell’altro e vissuti in contesti completamente opposti,
in una breve visita al centro oasi wwf, attraverso le semplici parole dei protagonisti, vivranno per sempre qualcosa di emozionante
e di unico, alquanto inaspettato per la routine della quotidianità,
ma non per il mistero che racchiude lo sguardo profondo della vita.
Ehi dico a te! Lo sai che esiste un mondo tutto da scoprire
al di fuori di dove vivi?
Tu forse non lo immagini neppure ed io vorrei provare solo
a raccontarti questa breve storia che mi è capitata!
Ciao, mi chiamo Arco e voglio portarti con me in uno dei
miei viaggi, alla scoperta di nuove cose e di nuovi mondi, proprio
come mi è successo in un momento particolare della mia vita.
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Non sapevo dell’esistenza di altri luoghi, al di fuori della mia
casa e del mio contesto, ma un giorno, però, è accaduto che mi
sono perso e da lì ho capito che sono nato una seconda volta!
Giocavo come sempre con i miei amici gabbiani in una piscina degli uomini, ubicata fra le tante case e i palazzi di cemento.
Che bello tuffarsi in acqua e non far niente, lasciandosi portare dal trascorre del giorno!
Eppure qualcosa dentro mi parlava, specialmente quand’ero
in acqua e sentivo una forza irrefrenabile di tuffarmi fino ad
arrivare giù giù in fondo; i miei compagni non sapevano spiegarmelo ed io, anche se non lo capivo e non lo comprendevo,
continuavo a farlo. La mattina trascorreva girovagando per il
cielo, osservando tante persone che vorticosamente e freneticamente correvano iniziando dalle prime luci dell’alba fino a
notte inoltrata.
Io e i miei amici, esattamente come loro, seguivamo per
natura lo stesso scorrere del tempo, divertendoci ad essere
selvaggi, solo quando ci recavamo al mare in prossimità della
città, al fine di trovare alcune zone piene di sacchi neri, ma
con tante cose buone da mangiare.
Quanto spreco e quanti avanzi gli uomini buttano in questi involucri, forse lo fanno proprio per noi, per farci buttare
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a capofitto e strapparli con voracità per goderci le leccornie
ivi nascoste.
Una volta, ma ti parlo di tanto e tanto tempo fa, quando ero
molto piccolo e abitavo ancora con i miei genitori, un anziano
gabbiano mi racconta di quanto ai suoi tempi fosse difficile
e duro procurarsi il cibo. Di quanto allenamento e fatica occorresse per procurarsi un misero pesciolino nell’immensità
del mare, cosa come fare le traversate migratorie sorvolando
distese immense d’acqua.
Bisognava imparare a planare con il vento, a sentire gli odori e a vigilare nel presente, per non soddisfare semplicemente
la pancia, attraverso il mangiare e l’ingoiare con il becco per
colmare la fame nello stomaco, ma si trattava di assaporare a
pieno il gusto dell’esistenza. Cosa volesse dire, sinceramente
non l’ho mai capito, e l’ho solo interpretata come una specie
di favola o leggenda tutto cia che raccontava!
C’erano la mia mamma e il mio papà a sostenermi quando
ero piccolo che mi procuravano perfino il cibo in mare, anche se un giorno non li ho visti più tornare, dopo aver udito
dei colpi in lontananza e cosa eccomi qui con i miei amici a
far festa, a giocare e ad osservare il mondo delle città degli
uomini.
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Luci, suoni, macchine, case, piscine, pochi alberi e tanto divertimento nel non far nulla, semplicemente oziando e giocando.
Una mattina, però, mentre aspettavo come al solito i miei
compagni per poi fare il giro del mattino sopra la città, mi
resi conto che c’era tanta nebbia. Non riuscivo a vedere al di
là del mio becco!
La notte c’era stata una tempesta, aveva piovuto tanto e forte, sapevo che qualcosa stava cambiando a livello climatico;
mia madre, prima che se ne andasse, mi ripeteva spesso che
un giorno tante cose non sarebbero state più le stesse, che gli
esseri umani avrebbero distrutto perfino le cose che avevano
costruito nel tempo, semplicemente per la loro mania di egocentrismo (case, monumenti, persone, natura, ecc...) e qualora fosse accaduto non dovevo aver paura, ma dovevo seguire
sempre la scia luminosa di un arcobaleno, quando un giorno
l’avrei visto comparire nella mia vita, perché mi avrebbe condotto alla mia vera casa.
Le volevo un gran bene, sapeva insegnarmi le cose con semplicità e, nonostante tutto, so che lei è ancora qui accanto a
me!
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Ebbene quel giorno arriva e forse ebbe inizio proprio quella
mattina in cui la città, avvolta dalla coltre nebbia, sembrava
addormentata.
Nessun rumore, nessun mio amico, niente di niente. Dal
caos più totale mi ritrovavo nel silenzio più assoluto e come
per magia dopo un po’ intravidi un semi arco nel cielo dai
bellissimi colori.
Era l’arcobaleno di cui mi aveva parlato sempre mia madre!
Non potevo crederci, qualcosa di unico e spettacolare allo stesso tempo e fu cosa che improvvisamente avvertii un tuffo al cuore che mi fece dimenticare tutto il resto. Senza capire cosa stessi
facendo, mi ritrovai a seguire quelle scie colorate e meravigliose.
Viaggiai per ore e ore, planando nell’aria, e una voce dentro
me mi incitava a spingermi sempre oltre, per raggiungere la
sua interminabile fine; si allontanava sempre di più da me
ogni qualvolta mi avvicinavo, ma continuavo a seguirlo e lui
invece proseguiva e avanzava in senso opposto al mio, spostandosi di volta in volta.
Non capivo il perchè si verificasse, ma continuai imperterrito, ero soprannominato dai miei amici “il gabbiano guerriero”, perché non mi tiravo mai indietro dinanzi ad una sfida,
non mollavo mai e figuriamoci se potevo farlo adesso.
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Ad un certo punto però, avvertii la stanchezza, ma continuai ad avanzare, non m’importava e non mi interessava.
All’improvviso però, il mio entusiasmo e la mia caparbietà
furono smorzate da un qualcosa che mi spingeva sempre più
giù, non sapevo di cosa si trattasse e persi quota.
Non ero abituato a lunghi tragitti, ero stremato, le forze mi
avevano abbandonato e non conoscevo la bellezza e i pericoli
insiti nel vento.
Fui, pertanto travolto in un vortice d’aria che mi risucchiava
sempre più velocemente e mi tirava sempre più giù, più giù e
ancora giù cosa accadde in seguito non lo so, so solo che aprii
gli occhi e mi ritrovai immerso in un’immensa distesa di prati
verdeggianti, a pancia all’aria e con un grande mal di testa.
Cercai di alzarmi, ma non potevo muovere le ali e qualcosa
in me mi sussurrava che erano rotte.
Il cielo sopra di me era di un bellissimo color azzurro, privo
di nuvole e stupendo come il mare.
Il sole era alto e lo sentivo procurarmi calore e benessere, e i
miei occhi adesso percepivano qualcosa che in realtà non avevo mai visto prima e credo che fosse semplicemente perchè
stavo osservando quello spettacolo da un’altra prospettiva;
con gli amici non avevo mai sperimentato questa cosa, perchè
o giocavamo nel cielo o le poche volte a terra non facevamo
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altro che stare sui tetti e i terrazzi delle case e dei palazzi, o a
fare qualche nuotatina in una piscina condominiale e ad osservare la gente.
Fu proprio in quel momento che mi resi conto che allora,
e solo allora, mezzo morto e vivo chissà per quale miracolo,
avevo lo sguardo verso il cielo e quel cielo mi stava regalando
emozioni indescrivibili.
Non potevo muovere la testa, il collo mi faceva male e provai anche a chiamare aiuto, ma con mia spiacevole sorpresa, scoprii che non riuscivo ad emettere nessun suono. Non
usciva nulla, provavo a spingere l’aria verso fuori, ma non
sentivo nulla.
Mi intristii un po’, non avevo paura avevo imparato a cavarmela da solo, ma per la prima volta mi sentivo solo, tentati
anche di roteare la testa prima verso sinistra e poi verso destra, ma non vidi nessuno.
Solo uno sconfinato azzurro sopra di me e che ad osservarlo bene cambiava tonalità di colore tendenti al blu profondo, proprio come faceva il mare, quando qualche volta mi
ero fermato ad osservarlo, lasciando il gruppo degli amici per
starmene un po’ da solo in tranquillità.
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Sotto di me, invece, ampie distese di verde e tanti, anzi tantissimi fiori colorati.
Perché quel cielo cambiava colore? Una volta me l’ero posta
questa domanda anche per il mare, ma non avevo mai trovato
la risposta, forse non mi interessava all’epoca saperlo e avevo
dimenticato la cosa.
Ora invece tutto era diverso, potevo osservarlo, sentirlo e
contemplarlo e pensai fra me e me: Quant’è meraviglioso!
zzzzzzzzz
Che cos’è questo rumore fastidioso? dissi fra me e me.
Guardazzz.che sei tuzzz.fastidioso!
Cosa.zzzci faizzz.la per terrazzze cosa sei?
Mi spaventai, qualcuno mi aveva sentito e cercando di capire da dove provenisse quella voce, non curante dei dolori, mi
voltati a destra e sinistra ma niente.
Allora? Non mi dici cosa sei?
Non potevo crederci, io non vedevo questa voce, ma essa si,
com’era possibile?
Vuoi rispondere si o no?
Sono un gabbiano e mi chiamo Arco e tu invece dove sei e
cosa sei?
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Non lo vedi, sono un’ape!
Un’ ape! E cos’è un’ape?
Oh buon Gesù, ma chi mi hai mandato oggi quaggiù?
Ma da dove vieni, da un altro pianeta? O forse arrivi dallo
spazio?
Ma quante sciocchezze! Vengo dalla città.
Una città e cos’è mai questa cosa?
Ma in che strano mondo sono precipitato, davvero non sai
cos’è una città?
Zzzno credo di no!
È un insieme di tante case, con tante persone che corrono
avanti e dietro, dalla mattina fino alla sera, ci sono tante luci,
musiche, odori strani a volte, macchine e caos!
Certo che tu..zzzsei strano! Anche qui ci sono le case, quindi anche tu vivi come noi!
Certo le case sono lontane da dove ci troviamo ora, sono
poche e la zona è tutta recintata e protetta. Le luci non so
cosa siano zzzio guardo sempre il sole o le stelle del cielo e in
questo periodozzz ci sono anche le mie amiche lucciole che
fra poco, al calar della serazzz.avrai modo di incontrare!
Abbiamo suoni, musiche e ballizzzgrazie alle orchestre delle cicale, dei grilli ezzzdelle rane canterine che si trovano in
prossimità dello stagno!
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Non manca poizzz.il suono del silenzio che è qualcosa di
unico e di meraviglioso da ascoltarezzz specialmente nelle
notti di luna piena ozzz di quello del vento fra le fronde degli
alberi ezzz dei cespugli di rosa canina e biancospino; o di quello degli uccellinizzz come l’usignolo o lo strillozzo di fiume!
Forse è un po’ fastidiosozzz quello della signora cornacchia
grigia, ma come si suol direzzz ogni luogo ha i suoi pro e
contro!
Senta, cara Signora Ape, ma di cosa sta parlando, del paradiso?
Maun luogo cosa non esiste!
L’ape, sconcertata a quella parole, guarda il gabbiano e gli
rispose:
Ma cosazzz.dici?
Io...zzzsto parlando del luogo dove ci troviamo!
Questa è un’oasi wwf, non so se si chiamizzz anche paradiso come hai appena detto tu, ma sicuramente è la mia casa
ezzz anche quella di moltissimi insetti, animali ezzzpiante
che per gli studiosi che ci vengono a visitare rappresentiamo
cose molto importanti per la vitazzzci chiamano infatti indicatori biologici!
Io mi ci trovo bene qui, sono natazzz da pochi giorni e
come puoi ben notare sono ancora molto piccola!
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Sono qui fra i fiori, zzzperchè la mia mamma mi ha detto
di raccogliere il polline e di portarlo all’ape regina ezzz alle
api addette alla trasformazione, per creare quella sostanza
tanto buona e dolce di cui sono tanto golosa ezzz mi sembra che gli esseri umani la chiamino miele! È una sostanza
molto buona anche per i bambini ezzz i grandi, perchè cura
il raffreddore, l’infiammazione della gola e zzz perfino la
bronchite se aggiunta al propoli. Ovviamente ci sono persone che ci aiutano, zzz non siamo le uniche a fare questo
lavoro! Non so dove corrono le persone della tua città, zzzma qui è tutto a rilento, ovviamente, zzz io sono una piccola
ape e forse sono io che vedo il mondo che mi circonda così!
Però sono tanto contenta, zzz perchè ogni giorno imparo a
conoscere nuovi fiori, piante ezzz insetti, uccelli e farfalle e
vedo esseri umanizzz che hanno e portano nel loro cuore
l’amore per la natura e per gli animali, anche per quelli selvatici come noi!
La rispettano, la amanozzz tant’è vero che alla casetta che
si trova all’ingresso di questa struttura, vengono a volte tanti
bambini; guardano dei cartoni creati dalla Signora Volpezzz che spiega loro questo bellissimo posto ezzz poi escono e
passeggiano nei percorsi tracciati dagli addetti alla manutenzione, al fine di visitare tutto cia che è presente: sentiero na-
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tura, zona belvedere, frutteto, casa delle testuggini, casa delle
cicogne, ecc.
Certo, sono sempre accompagnati dalle loro insegnanti e
dalle ragazze volontarie che fanno da guida. Inoltre, a volte,
specie di pomeriggio, zzzsi divertono a giocare e a pasticciare
con le ragazze guida ed inventanozzz.anche giochi ambientati in natura come quello delle caccia alle impronte o della
spesa intelligente!”
Allora anche questo è un museo!
Vedo sempre tanta gente e bambini che da me visitano mostre d’arte, gallerie, musei, ecc...
Cosa sono queste cose non capisco!
Arco, allora, si arrabbia e in tono brusco rispose: Lasciamo
stare, non capiresti mai ed io non capisco invece ciò che tu
dici!
La piccola ape capa che quell’uccello strano si sentiva a disagio e gli rispose: Scusami, hai ragione! Ora torno a casa
ezzz ti auguro buon rientro, ciao!
Arco non rispose, ma sapeva in cuor suo che la piccola ape
non conosceva nulla della sua città e lui, allo stesso identico modo, niente di quel posto e non riusciva a comprendere
come mai fosse caduto proprio la!
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Aveva visto qualche fiore nei giardini del parco, nei vasi sui
balconi o le piante nelle terrazze, ma la non ce n’era nemmeno uno di quelli che lui conosceva o aveva visto, tipo: buganvillee, gerani, rose, papiri, glicine, ecc.
Cosa fai la per terra tutto solo? Perchè non ti alzi?
Arco udì quelle parole provenire da una voce dolce e sottile
e si gira di scatto, ma non vide nulla verso la direzione da cui
provenivano quelle frasi. Rimase perplesso e pensa che fosse
frutto della sua immaginazione e con il pensiero vola di nuovo verso la sua citta e i suoi amici.
Guarda che hai sbagliato, io sono qui dinanzi a te, mi vedi?
Il gabbiano osserva meglio, stavolta in direzione del suo
sguardo e vide volteggiare nell’aria una piccola farfalla color
azzurro-argenteo con dei piccoli punti neri e il corpo di un
azzurro quasi evanescente.
Perchè mi guardi cosa?
Non hai mai visto una farfalla? sorrise Iris.
Scusami, non volevo certo che ho visto altre farfalle e ne
conosco tante, è solo che...
E rimase ancora più sorpreso e stupito nel guardarla, poi
facendosi coraggio aggiunse: Hai dei colori davvero strani!
No scusami, ma cosa ho detto?
Ehm volevo dire solo che hai dei colori davvero particolari!
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Originali e mai visti prima d’ora!
Ti ringrazio, sei molto gentile!
A dire il vero me lo dicono in tanti, e non sempre come un
complimento, ma sicuramente non posso cambiare cia che
sono o cia che la vita mi ha donato!
Cosa vuoi dire, non capisco!
Che tutti noi, tu compreso, siamo esseri pensati in un pensiero universale d’amore e che tutti noi abbiamo dei doni nelle nostre diversità da condividere e mettere al servizio degli
altri, per migliorarci e migliorare il mondo in cui viviamo e
nel tempo che c’è dato.
Arco nell’udire ciò che Iris diceva, rimase alquanto perplesso e stupito, le farfalle della città non gli avevano mai detto
queste cose o parlato in questo modo, per quanto ne sapeva
lui, passavano il loro tempo a svolazzare di qua e di là, senza a
volte nemmeno distinguere un fiore o a prendersi la briga di
conoscerne il nome, e spesso trascorrevano la loro esistenza
senza nessun fine e senza nessuna mèta.
Alcune, addirittura, non sapevano nemmeno cosa fossero i
prati.
Ho detto forse qualcosa che non va?
Il gabbiano ancora confuso rispose ad Iris: No, no, anzi.
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Come ti chiami e come mai ti trovi qui?
Sono nata qui, nell’oasi. I miei genitori la primavera scorsa
hanno deposto le uova in questa bellissima riserva naturale e,
al risvegliarsi del sole di questa mattina, mi sono trasformata
da larva racchiusa nel mio bozzolo a ciò che ora vedi.
Prima, però ho dovuto dispiegar le ali, non sai che dolore,
erano tutte indolenzite e mi ero posata su quell’orchidea là
vicino a prendere il sole per asciugarle; nel gergo si chiama
Ophrys Holoserica e insieme a tante altre fanno parte della
flora endemica e rara dell’oasi.
Un leggero soffio di vento poi, mi ha aiutato a lanciarmi
libera nel mio primo volo e sentendo delle voci mi sono avvicinata e ti ho notato qui per terra.
Capisco benissimo il dolore che hai provato, infatti sono
precipitato al suolo e non posso muovermi, credo che le mie
ali siano spezzate se non addirittura rotte!
Beh! Non credo sia un problema grave so che in oasi esiste
una zona di recupero dei volatili, l’ho udito da alcune libellule
che erano nello stagno, in prossimità dell’orchidea sulla quale
mi stavo asciugando le ali!
Credo che ti troverai bene.
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Ma la farfallina non fece in tempo a finire la frase che sopraggiunse Giulio, uno dei ragazzi di turno che nel suo giro
d’ispezione in oasi, vedendo il gabbiano a terra, lo prese delicatamente fra le sue braccia fino a stringerlo con cautela e a
porlo con cura verso il suo petto.
Arco ovviamente non capiva cosa quel ragazzo gli stesse
facendo, cosa fossero quei gesti ed inizia a dimenarsi. Iris che
aveva intuito cosa stesse succedendo al gabbiano, spicca in
volo e raggiunse il ragazzo e con una leggera danza intorno a
lui, disse ad Arco: Non avere paura! Lui vuole solo prendersi
cura di te!
Giulio entra all’interno del centro ambientale e chiama il
medico di turno, nel frattempo Iris osservava cia che succedeva dall’esterno della grande finestra della sala del centro.
Il dottore arriva e Iris vide come il gabbiano fu prima bendato e poi portato nella zona di recupero per uccelli.
La notte sopraggiunse e Arco si ritrova da solo con sé stesso
nella gabbia; sentiva rumori e suoni nuovi, non aveva paura,
ma pensava a quanto fossero diversi quei suoni da quelli della
sua città.
Il sole la mattina seguente si sveglia presto e con esso anche
la farfallina che subito anda a trovare il suo amico. Lo trova
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che tranquillamente conversava, seppur a distanza, con le cicogne del progetto d’allevamento in cattività, che servivano
da richiamo per le cicogne selvatiche al fine di permetterne la
loro presenza spontanea in oasi.
C’era anche una gru con loro, che a differenza delle cicogne, passeggiava avanti e indietro nel campo aperto, seppur
recintato e non stava invece nelle voliere, poiché a seguito di
un brutto incidente di bracconaggio da parte di un cacciatore, aveva perso definitivamente l’uso dell’ala sinistra che ora,
dopo esser stata opportunamente medicata, penzolava quasi
tutta verso terra.
Iris non riusciva a capire e a comprendere come a volte
gli uomini potessero essere tanto crudeli, che per un semplice sport potessero arrivare ad uccidere animali innocenti.
Buongiorno! Fai conoscenze?, chiese Iris
Ah! Buongiorno a te piccola farfallina,rispose Arco sorridendo.
Come stai?
Meglio, grazie! Avevi proprio ragione sia quel ragazzo ma
anche altri si sono presi cura di me e mi hanno perfino portato da mangiare!
Te l’avevo detto che ti avrebbero curato. Non tutti gli esseri
umani, per fortuna, odiano gli animali, le piante, i fiori, ecc...
ce ne sono tanti altri che seppur non vengono messi in primo
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piano perché amano la semplicità e non la notorietà, amano
tutto questo e cercano di aiutare, proteggere e salvaguardare.
Si, forse hai ragione!
Sai, dove vivo io, non c’è un lago in cui coabitano persone, piante e animali. Ognuno pensa a sé, fa le proprie cose e
quasi sempre corre avanti e indietro, non soffermandosi mai.
Il tempo la scorre veloce, qui sembra fermarsi e sono rimasto molto sorpreso anche dal comportamento di quel ragazzo
che con dolcezza mi ha preso fra le sue braccia e mi ha tenuto a sé, sopra il suo petto, mentre mi portava nella casetta
del centro. Sai, ho sentito i battiti del suo cuore, agli inizi mi
sono spaventato, non avevo capito cosa fosse, per questo mi
dimenavo, ma poi quando mi hai detto che non dovevo avere
paura, mi sono tranquillizzato e ho sentito che quel rumore
lo stavo emettendo anch’io e ho capito che i battiti del suo
cuore erano molto simili ai miei.
Iris sorrise e aggiunse: Possibile che non conosci i suoni del
cuore che uniscono tutti gli esseri viventi? Sei davvero uno
strano gabbiano, caro Arco!
Senti chi parla! Una farfalla azzurro-argenteo tendente al
blu e a volte evanescente!
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Improvvisamente ci fu silenzio e Arco e Iris si ritrovarono per
un breve istante a guardarsi negli occhi, un sorriso comparve
sul viso di entrambi e scoppiarono nello stesso istante a ridere
insieme.
Non ti piace il mio colore azzurro-argenteo? disse sorridendo Iris.
No, no, non volevo offendertianzi scusami, ti prego!
Ma non c’è niente da scusarsi visto che sono proprio così,
sono diversa...
E unica!, interruppe e aggiunse il gabbiano.
Beh!, rispose la farfallina, anche tu sei alquanto unico, ho
visto altri gabbiani stamani volteggiare sopra il lago, precisamente nella zona del Belvedere, ma una mia sensazione mi
dice che non sono come te!
In che senso?
Non so, non so come spiegartelo, ma tu hai qualcosa forse
sbaglio, è solo una sensazione, perdonami ma ora devo andare. Così dicendo, Iris si allontana.
Non andartene, rimani qui ancora un po’. Con me! Disse
sottovoce Arco, ma la farfallina era già lontana per poterlo
sentire.
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La seguì con lo sguardo, mentre si allontanava e all’improvviso avvertì qualcosa nel suo piccolo cuoricino, non sapeva
cosa fosse, non capiva cosa stesse accadendo, non lo comprendeva, ma s’intristì e si nascose in un angolo della sua gabbia,
rimanendo in silenzio. Dopo qualche ora, Iris torna da Arco
e gli spiega perchè era dovuta andar via in quel modo.
Aveva sentito delle urla di aiuto di una mamma coccinella
ed era accorsa ad aiutarla. Una delle sue piccole si era rivoltata e non riusciva a farla rialzare.
Da quel momento Iris racconta tante storie e diverse cose a
quel strano gabbiano e lui nell’ascoltarla e nel trascorrere insieme tutto quel tempo, capì e comprese che quella farfallina
era davvero speciale per lui.
Non a caso, cercò di passare la maggior parte del suo tempo di guarigione in oasi, insieme a lei e quando lei non c’era,
come la mattina presto e la sera, girovagava in oasi alla conoscenza e scoperta di tutte le cose la presenti.
Una delle ali era guarita, ma l’altra era ancora bendata e
pertanto il dottore aveva dato disposizioni ai ragazzi di liberarlo dalla gabbia e di dargli libero spazio per muoversi, ancora qualche settimana e poi sarebbe stato liberato.
Tuttavia, la cosa più importante che lui scoprì fu una sensa-
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zione che non aveva mai provata prima, ma che con il passare
del tempo aumentava e diventava sempre più forte. La mattina
seguente, Iris, nel raccontare le sue avventure all’amico, gli disse:
Sai, è molto bello parlare con te, mi insegni tante cose e ogni
giorno trascorso con te sono cresciuta un po’ di più, per questo ti ringrazio davvero tanto!
Arco rimase alquanto sconcertato; nessuno, nemmeno le
sue amiche gabbiane, gli avevano parlato così, o per meglio
dire, lui non dava importanza a ciò che gli dicevano, compreso i complimenti e le rispose: Ma che dici? Sono io che
ringrazio te!
Credimi non sono nessuno per meritare queste tue belle
parole e ti prego di credermi, chi è davvero un essere meraviglioso, quella sei Tu e non Io!
Iris imbarazzata, ma con una leggera disinvoltura aggiunse.
No caro Arco, ti stai sbagliando, perché cia che vedi in Me...è
ciò che porti in Te!
Non dimenticartelo mai! Sei un Guerriero della Bellezza e
forse non lo sai! Non cambiare mai ciò che sei, perché il tuo
cuore porta un dono molto grande!
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Arco a quelle parole rimase perplesso, ma in cuor suo sapeva
che Iris gli stava dicendo la verità e continua: Non so bene di
cosa tu stia parlando, eppure riesco a sentire ciò che mi stai
dicendo e che sentinon sapevo di questa capacità e la cosa
mi sorprende e mi spaventa, ma mia cara Iris credo che sia
Tu quella Bellezza di cui parli e non Io! Tu hai ali grandi, sei
molto forte e sei una Luce.
Ogni Luce per riflettersi ha bisogno di un Diamante, mio
caro Arco e tu lo sei!
Beh! Credo che il bello sia essere uno il diamante dell’altro,
anche se credo che sia molto raro che ciò accada!
Per essere luce e brillare nei sette colori dell’Arcobaleno,
dissero contemporaneamente e scoppiarono a ridere.
Sembra incredibile, aggiunse Iris e continua: Non ti conoscevo, non sapevo della tua esistenza, eppure porti in te il
pensiero dell’Arcobaleno, esattamente come lo penso anch’io
da sempre.
Arco sorridendo le rispose: Ma mia cara Iris, guarda che i nostri nomi Arco e Iris insieme significano proprio Arcobaleno!
Ma dai, cosa dici?
Sì, è vero, te lo giuro! L’ho sentito dire al telefono da un ragazzo della mia città che vado a trovare spesso sul suo terrazzo,
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è un po’ particolare, forse proprio come me! Ho sentito che
spiegava il significato ad una sua amica e, se non ricordo male,
le diceva che la parola arcoiris è il nome dell’arcobaleno in portoghese e, proprio come te adesso, quella ragazza sorrideva incredula e gli aveva risposto la stessa cosa che hai appena detto.
Arco, ascoltami, io fra qualche giorno devo partire. Questa
per un po’ è stata la mia casa e son stata qui in modo meraviglioso, ho conosciuto tante cose, ma la mia vera casa non è
questa, bensa l’Africa! I miei genitori provenivano da là e per
continuare il ciclo della vita della nostra specie, fatto di nascita, morte e rinascita, io devo andare là! Sono venuta a salutarti, poiché stanotte insieme alle altre mie compagne partirò.
Vengo con te!, rispose con voce rattristata Arco.
Non puoi venire, tu non centri nulla con il mio viaggio e
non sei ancora guarito, non puoi volare e forse non hai mai
fatto lunghe traversate!
Insegnami tu!
Non è una cosa semplice che può essere insegnata, mi dispiace. Il volo fa parte di chi come me è destinato a lunghi
percorsi, è qualcosa d’innato, non so spiegartelo, ma posso
dirti che è parte di te se sei destinato ad arrivare in posti che
ti aspettano da sempre!
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Iris, ti prego non andare, se ti è possibile rimanda la partenza di qualche giorno e non andartene! Ti prometto che ti
accompagnera io a casa, ma questo viaggio che dovrai fare,
questo lunghissimo viaggio verso un posto che non so nemmeno dove sia, se non nel nome Africa che hai appena detto,
permettimi di farlo insieme. Promettimi che faremo questo
viaggio insieme! Ti sei presa cura di me! Hai trascorso quasi tutto il tuo tempo con me, mi hai insegnato tante cose e
in questo periodo insieme ne abbiamo scoperte anche tante altre, in questo fantastico posto che tu chiami oasi wwf,
spiegandomi e raccontandomi ogni piccolo dettaglio e soffermandoti con dolcezza su ogni particolare! È vero, non so
nulla del mondo che c’è là fuori, ho visto qualcosa pensando
di sapere, invece non capivo che guardavo attraverso gli occhi
degli altri e non più attraverso il mio sentire.
Mi hai insegnato a guardare le cose in un modo diverso,
non perché non lo sapessi fare, ma perché non volevo farlo,
mi ero arreso e spento, a causa di alcune ingiustizie e soprusi
del mio passato, generalizzando e presumendo che tutti fossero così, mi ero convinto che quella era la vita, ma grazie a te
ho scoperto che non è vero nulla.
La vita mi hai insegnato che è davvero un’altra cosa e se
per caso, o come spesso invece mi hai detto, che il caso non
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esiste perché ci siamo chiamati ed incontrati per aiutarci, allora l’unico aiuto che posso davvero offriti è accompagnarti
in questo nuovo inizio della tua vita.
Iris si commosse tanto nell’udire quelle parole piene di dolcezza e la sensazione che aveva avuto fin dall’inizio, che quel
gabbiano fosse alquanto particolare, risiedeva nella sua gentilezza e capacità di comunicazione e fu proprio per questi
motivi che quella farfallina dal colore azzurro-argenteo non
riuscendo a rinviare la partenza delle sue compagne di viaggio, disse loro addio, ma con la gioia nel cuore di aspettare la
guarigione definitiva di Arco.
Sapeva in cuor suo che non le avrebbe mai più riviste se fosse
partita in ritardo, ma sapeva che la sua scelta era la scelta più giusta per lei e solo per lei e il suo meraviglioso compagno di viaggio.
Arco invece, vuoi per quel che provava per Iris, per ciò che
aveva fatto per lui, vuoi per quel luogo meraviglioso, vuoi per
tanti altri motivi, apprese prima con gli altri gabbiani in oasi,
e poi da solo, la lezione più importante: in quegli ultimi giorni di guarigione, passando dall’essere un semplice gabbiano
di città, alla scoperta di cosa fosse in realtà, proprio come
tempo prima l’aveva chiamato Iris: Guerriero della Bellezza.
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Scopra anche perchè istintivamente, in città, rispetto ai suoi
compagni, si tuffava in profondità nelle piscine incastrate fra
le case e le palazzine degli esseri umani e, proprio come gli
era stato raccontato da quell’anziano gabbiano, aveva scoperto il suo istinto della pesca in mare.
Scoprì anche tante altre qualità, ovviamente Iris non gli
svelava tutto, ma lo stimolava e lo incitava, affinchè lui non
perdesse mai l’entusiasmo e l’innocenza nel meravigliarsi delle piccole cose e lui riusciva a fare altrettanto con lei.
Arco scoprì la sua vera luce e lei, la luce, scoprì il suo vero
diamante.
Proprio come si erano detti agli inizi, l’un l’altro erano diventanti il diamante e la luce, partendo da un semplice sorriso.
Una mattina, alle prime luci dell’alba, fra le sfumature dai
colori tenui del rosa e dell’azzurro e al nascere dell’astro luminoso, Arco e Iris si alzarono leggiadri in volo, per intraprendere
il loro tanto atteso viaggio insieme per la sconosciuta Africa
e fu così che il gabbiano e la farfallina lasciarono dietro di
loro un meraviglioso arcobaleno ArcoIris, proprio come al
telefono quei due ragazzi ne avevano parlato fra loro.
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Eltore Elica
Gli esercizi del sentimento
ovvero come un lettore può entrare in un libro
e prendere il posto
Mi parlava delle sue abitudini, finché:
“E ogni giorno mi siedo su questa sedia per una mezz’oretta
e per due o tre ore penso, studio, ricerco”.
Eccoci. Ma che diceva il conte? Si sedeva per una mezz’ora
e pensava per due ore?
“Appena ho un’ora di tempo e il tempo è bello me ne vengo
qui, giusto il tempo di trascorrere cinque o sei ore di serenità”.
Allora avevo capito bene. Il conte aveva dei problemi con
la misurazione del tempo ma evidentemente, mentre pensavo
a queste cose, avevo inavvertitamente poggiato lo sguardo su
quella specie di giornale bucato.
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“Ah, il giornale. È un giornale preparato dal buon Alves.
Ogni giorno, alle sette, Alves compera il giornale e poi lo prepara. Gli toglie tutte le notizie cattive, tristi, efferate. Tutte le
notizie che potrebbero turbare la mia vita e i miei esperimenti.
Qualche notizia cattiva la lascia, ma solo se è possibile, anche se in piccola misura, porvi rimedio, fare qualcosa per migliorare la situazione.
L’informazione ci uccide, ci violenta. Bada solo alla quantità delle notizie non all’effetto che queste producono. E poi ci
dicono di tutto; che è come dirci niente.
I mezzi di informazione ormai sono padroni del nostro
umore. Io non lo potevo permettere e allora il giornale me lo
preparo io. O meglio me lo prepara Alves.
Ha mai notato, Dottore, che dietro ogni notizia di morte,
tortura, dolore, c’è sempre una meta-comunicazione forte e
terribile che dice: Questa è la notizia e tu non puoi farci niente.
La vera comunicazione che ci viene fatta è sempre quella
relativa alla nostra impotenza.
Le ultime notizie raccapriccianti le lessi molti anni fa e mi
sono bastate per tutta la vita.
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Oggi se leggo una brutta storia voglio potervi porvi rimedio. E lo faccio.
Non intendo essere il sacco delle botte di un piccolo cronista rampante.
Non intendo più essere spettatore inerte della parte peggiore della realtà, anzi di una realtà confezionata secondo una
ricetta che non è la mia. Ecco perché Alves prepara il giornale tutte le mattine”.
Il Conte si spalmava solo una fetta di pane tostato con burro e marmellata. Niente di carismatico, nulla di significativo
io facevo altrettanto e pensavo: Ecco perché sono qui. Ecco il
motivo della mia visita. non sapevo che ero solo sulla soglia di un
grande territorio e che il Conte sarebbe stata la mia guida.
E, come al solito, per quanto originale fosse questa storia
del giornale bucato, nascondeva un vero bisogno. E somigliava tanto al mio bisogno.
Non somigliava forse alla mia voglia di semplificare, eliminare? Eppure io la storia di questo giornale tagliato l’avevo
già sentita?
E dove? Non avrei potuto ricordarmi, anche se mi fossi
sforzato. Non avrei potuto ricordare perché quella storia non
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era ancora accaduta. Almeno credo. Un giorno di molti anni
dopo, leggendo, centellinando un libro di Saramago, avrei
letto questa stessa storia. Insomma cominciavo a ricordare il
futuro? Incredibile.
Intanto il Conte mi versava il te nella tazza e mi avvicinava
il latte e il limone:
“Figuriamoci poi quegli spettacoli tristi che rappresentano
l’infelicità del mondo: Films, romanzi, commedie. Bisogna
essere dei veri malvagi e mentecatti per creare, per inventare
una cosa che non c’è e inventarla tristissima.
Sono gli eredi della letteratura francese. Quella delle orfanelle tisiche che, il giorno della guarigione, vengono investite
dalla carrozza guidata dallo zio alcolizzato.
Con tante cose tristi che già ci sono, questi ricercatori malati mettono tanta energia ad inventare infelicità che non sono
vere ma che producono gli stessi effetti devastanti negli spettatori. Malati pure loro. Poveretti.
Se i creatori costruissero felicità, quella che manca al nostro
mondo, forse le cose non andrebbero così male. Cose ovvie?”
No, non diceva cose ovvie. Mi sembrava tutto vero.
Soprattutto per me che mai avrei inventato un’arma, mai
avrei coscientemente procurato dolore, neanche a livello di
finzione, di spettacolo.
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E poi più “ lavoravo “ e più diventavo sensibile, sensibile al
bene e al male e quindi gli stimoli troppo forti mi diventavano intollerabili. Forse anche il conte era nella stessa situazione. Ed infatti lui aveva esattamente quei problemi e me lo
stava per dire.
“Il turbamento mi impedirebbe di lavorare. Il lavoro di ricerca ha bisogno di serenità e concentrazione”.
Un sorso al succo di frutta e chiesi:
“Che tipo di ricerche fa?”
Mi sorrideva e mi accennava di nuovo al concetto:
“ …che se aveva una mezz’ora di tempo, se ne stava due o
tre ore a pensare.”
Poi si interruppe un attimo e entrò decisamente nell’argomento.
“Chiuda gli occhi Milandri, si lasci andare”.
Ripeteva più o meno le stesse parole pronunciate da un tale
che con un computer era riuscito a leggere nel futuro di una
persona a me cara.
Mi dissi che dovevo assecondare il conte, in fondo ero lì per
quello.
“Si rilassi, si fidi. facciamo un viaggio, andiamo a molti anni
indietro, quando lei era bambino, torniamoci serenamente,con calma”.
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Smetteva di mangiare, si allungava comodamente nella sedia e chiudeva anche lui gli occhi.
“Dobbiamo ritornare a quei giorni che erano bellissimi anche perché dobbiamo cercare una cosa molto importante che
abbiamo smarrito tanti anni fa e che ora ci serve”.
Non facevo nessuna fatica, chiudevo gli occhi e l’aria di quel
mare mi portava nella mia città, dove avevo trascorso la mia
infanzia in un giardino di limoni e aranci che sapeva di mare.
Per la seconda volta, in pochi giorni, qualcuno mi consigliava di viaggiare nel mio passato.
“Bene. Pensi a quei pomeriggi da bambino”.
Ci pensavo. Erano pomeriggi pieni di luce e di silenzio.
Io la mia infanzia me la ricordavo in Estate, tra la vasca dei
pesci rossi e l’albero di fico e, vicino a me c’era un grosso cane
nero, dal pelo lucido e con gli occhi gialli.
Era il mio amico e il mio complice.
“Come erano lunghi quei pomeriggi Dottor Milandri. E le
settimane? Infinite”.
Aveva ragione il conte. Erano lunghissime.
“E le estati ? Erano interminabili. Scavi nel suo passato di
bambino, come un archeologo. Con cura e rispetto. Riveda le
sue zie, i piccoli amici, il giorno del gelato e quello del compito in classe. Ricordi qualunque cosa. Anche le piccole cose
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possono avere grande importanza. Si faccia passare queste
immagini nella sua mente ma tenti di sentirne anche i profumi. Quando ne sentirà anche i profumi vorrà dire che le sta
veramente rivivendo”.
E io rividi mia madre, la rividi grande come un piccolo può
vedere la sua madre, e zia Clara e Zia Ninuccia che mi ruotavano intorno come trottole mentre io crescevo e loro diventavano sempre più piccole.
Le donne della mia famiglia avevano sempre avuto uno
strano modo di essere presenti eppure discrete. Non le si trovava mai partecipi ad una discussione, ma non c’era mai stata
una decisione che non fosse stata la loro.
Per molto tempo avevo ipotizzato l’esistenza di un posto
fisico, di un posto della casa nel quale le donne della famiglia
si riunissero a decidere.
E doveva esserci anche un momento particolare della giornata perché per tutto il giorno le vedevo affaccendate in mille
mestieri.
A dieci anni, in un pomeriggio di Gennaio, ebbi la netta
sensazione di avere scoperto tutto.
Mia madre, Clara e zia Ninuccia avevano finito di riordinare la cucina, gli uomini di casa erano già ritornati al lavoro,
- 54 -
Clara prese il cesto della biancheria da stendere e dette un’occhiata a Ninuccia e a mia madre.
Uscirono insieme e cominciarono a stendere il bucato sul
filo che attraversava la terrazza.
Quando ebbero finito, Clara mise da parte la cesta vuota e
tutte e tre andarono fino al parapetto, nel punto dove la terrazza si apriva su un grande giardino.
Sembravano guardare verso un punto all’orizzonte e invece
guardavano nel loro animo e parlavano. Sì, io non riuscivo
ad ascoltare le voci ma mi convinsi che parlavano, che era il
momento di una decisione.
Durò solo qualche minuto poi mia madre abbracciò Zia
Ninuccia e lo stesso fece con Clara poi prese la cesta e insieme tornarono in casa.
Il giorno dopo mia madre partiva per l’ospedale:
“per un controllo”
“forse un intervento”
“niente di preoccupante”
“una cosa delicata”
“grave”
“gravissima”
“non c’è più niente da fare”
“Mamma non torna più”
- 55 -
Smisi per un attimo di rincorrere quei pensieri tristi e mi
voltai verso il conte che, con gli occhi chiusi, era rivolto verso
il mare.
Fu solo un istante, l’immagine di mia madre mi avvolse di
nuovo la mente: Mia Madre odorava di violette.
Era bello avere una mamma che odorava di violette.
Io quel profumo me lo ricordavo già da quando lei, grandissima, mi prendeva in braccio e poi c’era anche quando lei, più
piccola, mi aspettava all’uscita della scuola e anche quando
era Natale e quando un giorno, con lei piccolissima, andammo tutti al mare.
E allora sentivo il profumo delle tavole del molo. Le tavole
bagnate dall’acqua del mare per me significarono sempre l’odore dell’estate.
Come l’odore delle mele furono sempre quella bellissima
estate in montagna. a casa di Zia Grazia e Zio Antonio.
I mille volti della mia famiglia mi giravano intorno ma erano proprio i profumi le sensazioni più presenti.
Odori e sapori erano sempre stati nella mia testa, appartati
ma presenti e ora mi ritornavano alla coscienza.
Il rapporto con gli odori aveva sempre segnato la mia vita. Mio
nonno, Vincenzo, raccoglieva erbe e fiori e distillava oli essenziali per profumeria. Una sua annusata equivaleva ad una analisi
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chimica, tanto sensibile e preciso era quel suo grosso naso.
Io, meno tecnico di mio nonno ma forse più sensibile, mi
confrontavo con lui in un incontro-scontro, maestro-allievo.
E il maestro raccontava che ogni ricordo, ogni sensazione è
sempre abbinata ad una serie di odori e che bastava un po’ di
memoria per costruirsi un archivio mentale di profumi.
Mi raccontava di come fossero perfezionati gli organi olfattivi dei cani e di certi insetti e di come gli uomini primitivi
avessero sviluppato questo senso.
Ascoltavo rapito queste bellissime storie e mi esercitavo ad
annusare la vita con mio nonno.
Lontani dalla civiltà dell’immagine e del suono, l’olfatto
sembrava essere, per noi, il sistema più sincero ed animale
per comunicare.
Avevo un’età nella quale un nonno, solo perché complice,
sembra essere il padre ideale.
Non era vero, ma io ero bambino e allora ci credevo.
A volte, sotto lo sguardo incuriosito di occasionali testimoni, Vincenzo teorizzava che ogni animale, ogni oggetto, ogni
atmosfera avessero il proprio odore, profumo, puzza. Bastava
solo coglierlo.
E imparavo a distinguere i retro-odori, le fragranze soffocate e i profumi attenuati.
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Tutto questo esercitarsi e imparare oggi lo avrei definito un
Esercizio del Sentimento ma allora erano solo bellissimi pomeriggi di un bambino in compagnia del suo nonno.
Una sera, di ritorno da una lunga passeggiata nell’aria del
mare, mi feci promettere da mio nonno che, quando fosse
stato in punto di morte, mi avrebbe descritto che odore sentiva. Lui sorrise e accettò.
Vincenzo se ne andò in un giorno di Marzo e, mentre partiva, io non ebbi il coraggio di chiedergli nulla e lui, troppo occupato a morire, se ne andò senza dirmi niente. Ciao
nonno.
L’immagine della morte di mio nonno mi svegliò e risentii
la voce del conte.
“Ecco, adesso, tra tutte queste immagini, dobbiamo trovare
quella cosa che cerchiamo. Dobbiamo trovare quel sistema,
quella cosa che da bambino ci dilatava il tempo che allungava
a dismisura le giornate. Allora c’era un equilibrio tra lo scorrere del tempo dentro e fuori di noi. Poi qualcosa si guastò.
Noi uomini abbiamo il maledetto difetto di antropomorfizzare tutto; tutto a misura di noi stessi.
Mettiamo sempre noi stessi al centro dell’universo e invece
siamo solo una periferia confusa e bruttina.
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Lo scorrere del tempo è una cosa naturale è la natura che
deve insegnarcelo e deve misurarlo per noi.
È inutile piangere sulla brevissima vita di una farfalla cavolaia, quelle che vivono solo un giorno.
Per quella farfalla la vita è un’ eternità.
E rispetto alle stelle siamo noi le effimere farfalle cavolaie.
E allora qual è il giusto sistema per misurare il tempo? Forse
sono tutti buoni a patto di misurare solo il tempo e di non
dargli un valore, un giudizio sulla sua lunghezza.
La vita di una farfalla cavolaia dura un giorno e non solamente un giorno.
È quel solamente che è di troppo. La vita di una stella dura
due trilioni di anni e non ben due trilioni di anni.
Il ben è di troppo. Ma noi non siamo fatti per queste idee
imparziali”.
Il Conte riassettava un lembo della vestaglia e ricominciava:
“Noi parliamo di vecchi, giovani, di presto, di tardi, diamo
sempre un giudizio sul tempo. Non siamo capaci di limitarci
solo a misurarlo. Gli attribuiamo qualità e attributi che sono
invece propri delle cose che facciamo in quel tempo.
Insomma, Dottor Milandri, è impossibile trascorrere un’ora
bellissima; è invece possibile trascorrere un’ora facendo cose
bellissime.
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A ben vedere non esiste conoscenza che noi non traduciamo in termini umani. Pare che per noi sia il solo sistema di
capire.
Se solo misurassimo il tempo come ce lo presenta la natura. In armonia con lei. Da bambini eravamo così e l’idea del
tempo era la stessa dentro e fuori di noi”.
Riprendeva a sorseggiare il te e, quasi distrattamente:
“Ci sono esercizi di dilatazione temporale che permettono
di rallentare lo scorrere del tempo. In teoria potrebbero anche
fermarlo o addirittura invertirne il senso di marcia ma nessuno si é mai provato a farlo.
La prossima volta che capiterà in qualche piccola isola del
mediterraneo si fermi ad osservare i movimenti e le lente abitudini degli abitanti del luogo. Capirà che simili modi di fare
sono giustificabili solo se si ha a disposizione molto tempo da
vivere.
È questo il punto. Loro vivono sette, otto volte più di noi
anche se noi non ce ne accorgiamo. Per loro è una cosa naturale, gli viene spontanea.
Noi invece siamo costretti ad imparare il sistema per dilatare il tempo. O almeno ci proviamo.
A volte si ha bisogno di fare tante cose e il tempo pare non
bastare. In quel caso non resta che dilatarlo”.
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Si schiariva la voce per interrompere un discorso che non
voleva continuare e che io, allora, non ero stato capace di
comprendere.
“Dovremmo cercare nel nostro passato quando l’equilibrio
si ruppe. Quella prima volta, nella nostra vita, che ci accorgemmo che era tardi, che c’era poco tempo per fare qualcosa.
Cerchi quella volta.
È probabile che sia stato in un periodo nel quale lei ha avuto troppi stimoli, troppe informazioni che non è più riuscito
a gestire emotivamente. Ci pensi”.
E io ci pensavo. Di quei momenti ce ne erano stati molti
nella mia vita. Avevo cominciato presto a sentirmi sfuggire
il tempo e questo era stato salutato dalla mia famiglia come
una manifestazione di responsabilità.
Federico é cresciuto, dicevano, e invece era solo una richiesta di tempo.
Il Conte mi raccontava che, se si faceva molto esercizio,
si riusciva di nuovo a impadronirsi di quel sistema che da
bambini ci dilatava il tempo. E allora lo si poteva rallentare, spezzettare, diluire e questo sarebbe stato più facile se
eravamo soli e a contatto con la natura perché la grande
madre aveva conservato lo scorrere del tempo che avevamo
da piccoli.
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E mi riparlava della Grecia e di certe isole nelle quali Ulisse si era fermato per tanto tempo o forse per poco tempo. Io,
invece, pensavo a quelle ore di bambino trascorse seduto sul
marciapiedi di Napoli, mentre le mie zie erano nel negozio di
tessuti. Pur di uscire da casa le accompagnavo al negozio ma
la lunga attesa mi uccideva.
Io aspettavo per settimane e loro forse erano dentro solo
per mezz’ora.
Questo voleva dire il conte. Forse avevo capito. Ora potevo
andare e poi si era fatto tardi, forse.
“La saluto Conte. Mi ha fatto piacere, sinceramente”.
Avevo la testa troppo piena ed affaticata.
“La ringrazio anch’io, l’ho sentita vicino. Grazie. Venga pure
a trovarmi quando vuole”.
“Con piacere, appena avrò un pomeriggio libero tornerò a
trovarla e passeremo qualche settimana insieme” - gli dicevo
in tono scherzoso.
“Certo, Dottor Milandri, certo, mi rispondeva serio, molto serio”.
Ritornavo in città e mi sorprendevo di non trovare il solito
traffico e che, a quell’ora, non ci fossero ristoranti aperti.
Quando guardai l’orologio cominciai a sospettare qualcosa.
Era impossibile. Non era possibile che fossero le undici del
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mattino. L’orologio doveva essersi guastato.
Avevo trascorso per lo meno tre ore con il conte senza contare il viaggio di ritorno e l’orologio mi indicava che era trascorsa al massimo un’ora.
Naturalmente l’orologio funzionava benissimo e forse anche gli esercizi di dilatazione temporale che il conte aveva
voluto spiegarmi.
Allora mi sentii ricco. Per la prima volta in vita mia mi sentii ricco di tempo. Adesso avevo una mattinata intera per me
e me ne sarei andato a spasso per il centro.
FERMATI,
PARLAMI DI TE
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Giovanni Gamberini
Kite designer,
il mondo visto da un aquilone...
Oggi sono un designer tra i cavalli e vivo e lavoro in Toscana.
Più di trenta anni fa lavoravo nel mondo dell’industria e dei
creativi e vivevo in giro per il mondo nei paesi che chiamavamo in via di sviluppo a portare innovazione e quello che a loro
più sembrava mancare, la tecnologia e lo sviluppo industriale.
Avevo già cominciato ad elaborare l’idea che tutto il nostro
sviluppo non facesse tutto il bene che si diceva a chi lo portavamo, ma servisse soprattutto a fare del bene a noi.
Fu un’epatite da ostriche malesi a trattenermi in Italia qualche mese e a permettermi di rivedere i miei progetti di vita,
conobbi allora il popolo dei cavalli, un popolo che intorno
agli anni 70/80, da noi, era in grande crisi proprio a causa
dello sviluppo industriale.
Insieme alle cozze e a mille altri motivi devo riconoscenza
per la nuova vita e nuovi orientamenti al lavoro anche ad un
incontro con un grande personaggio.
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Ero a Kota Bharu, nel nord della Malesia, e lavoravo all’
organizzazione degli aspetti tecnici e della formazione del
personale per una nuova fabbrica di semilavorati in legno che
una multinazionale aveva impiantato in quella città, al confine con la Thailandia, di fronte all’oceano e contornata da
meravigliose foreste.
L’idea era di produrre sul posto con materia prima e lavoro
a costi molto bassi il semilavorato e poi importare in Italia un
prodotto di qualità da rifinire in base a mode e tendenze del
nostro mercato.
Tra i prodotti che avrei dovuto mettere a punto oltre a cornici, elementi torniti, parti di strumenti musicali, c’erano anche componenti per calzature in legno come tacchi e sandali
da donna e in particolare zoccoli da rifinire poi in pelle o in
tessuto per modelli stile olandese.
Tra i collaboratori malesi, un giovane autista che aveva il
compito di portarmi in giro tra segherie e cantieri di taglio
nelle foreste e di farmi da interprete, parlava cinese e malese
e inglese, mi aveva preso in particolare simpatia, sapeva che
ero un designer ma aveva giustamente vaghe idee sul nostro
mondo del design industriale, un giorno mi disse: “Qui c’è un
designer come te, ti vorrebbe conoscere, anche lui fa zoccoli.”
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La casa del designer malese era deliziosa, pareti di legno
e struttura di bambù, a pochi metri dalla spiaggia in un boschetto di palme da cocco.
Un cartellone di due metri per due al margine tra prato e
casa portava la scritta KAIT DESIGNER.
In effetti il mio collega era uno dei più famosi costruttori di
aquiloni sportivi di tutta la Malesia e la battaglia tra aquiloni
sulle spiagge era uno sport molto seguito e praticato.
Entrammo nel giardino e sulla terrazza ad un metro da
terra seduto sul pavimento di tavole c’era il designer, bello,
magro, anziano, chioma bianca e barbetta da monaco, scalzo
a dorso nudo e con il sarong. Aveva in mano la struttura di
un aquilone a forma di uccello. La struttura era di lamelle finissime di bambù legate con filo di cotone, un paio di
metri di ala e un poco meno dal becco alla coda; lo teneva
su con un dito e controllava la distribuzione del peso e il
bilanciamento facendo rimbalzare lo sterno sul polpastrello
dell’indice.
Ci vide, appoggia delicatamente a terra il suo capolavoro e
ci fece cenno di salire. Presentazioni, e poi cominciò la chiacchierata. Era stato lui a organizzare l’incontro, era curioso di
sapere da me cosa avremmo prodotto e che sviluppo avrebbe
avuto la nuova fabbrica.
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“È vero che avete delle macchine grandi che fanno il lavoro
di molti uomini?”
“Si sono torni a pantografo, fanno 4 oppure 8 copie di un modello in pochi minuti. Il primo modello deve essere fatto a mano”
“Mi hanno detto che farete anche zoccoli”
“Si zoccoli e tacchi per scarpe da donna”
“Quanti pensate di farne?”
“Circa cinquemila paia alla settimana”
Ci fu uno scambio di sguardi increduli, il mio interprete mi
chiese di ripetere, riporta la cifra e ci fu una bella risata del
nostro ospite che poi mi disse.
“Impossibile.. io ne faccio da anni dieci, venti paia all’anno
e per tutta la città bastano”
“Ma noi non li vendiamo qui, li portiamo in Italia, pensiamo di fare zoccoli almeno per venti settimane all’anno e
portarli in Italia con la nave”
Allora si fece serio, guarda l’interprete e disse con aria dispiaciuta: “Ci sono tante persone a piedi nudi in Italia” .
Non mi seppi trattenere dal ridere e lo rassicurai: “No, non
abbiamo gente scalza in Italia. Hanno tutti molte scarpe,
quelle che facciamo qui, se siamo capaci di farle bene, le comprano per moda, per il piacere di portarle e farsi vedere belli”
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Anche questa volta si fece ripetere la mi risposta e quando fu
sicuro di avere capito bene fece un grande sospiro poi mi guarda
dritto negli occhi con commiserazione, pensò ancora e poi fece
un discorso lento che fu tradotto parola per parola in tempo reale.
Devo ammettere che già dentro di me si era creato un varco
tra parole e pensiero durante la mia spiegazione, la questione
delle molte scarpe portate per sfizio, in fondo, non mi sembrava limpida.
“Avete molta gente strana in Italia. e anche tu mi dai da
pensare anche se sembri normale. Avete tutti molte scarpe e
venite fin qui, con l’aereo, costruite una fabbrica tanto lontano dalle vostre case, per fare scarpe che non vi servono per
camminare meglio, ma solo per farvi belli. O siete tanto brutti o siete tanto strani.
Non so quale fosse l’aggettivo originale ma con gentilezza
venne tradotto con strange.
Poi fece un altro sospiro. “Non capisco altre due cose, io gli
zoccoli li faccio sul piede, la macchina come fa a sapere quale
piede ha bisogno della scarpa?”
Me la cavai con la questione dei numeri e delle taglie, ma
rispondere all’altra domanda fu più complicato
“Come mai fate fare in fretta a da macchine complicate un
lavoro che si può fare con le mani ,meglio, con calma e piacere”
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In un attimo riproiettai nella mente gli ultimi dieci dei miei
anni di idee, politica, studio, lavori discorsi e scelte che fino a
quel momento mi erano sembrate intelligenti.
Mi ero laureato da pochi anni con una tesi sulla necessità
e possibilità di risparmiare energia nella produzione industriale e sulla stupidità di produrre gli oggetti “usa e getta” e di
sostituire il legno con le plastiche per fare lo stesso oggetto.
Venivo da un ‘68 studentesco caldo e impegnato, e le mie
idee non interessavano alla nostra industria, ma avevo trovato
un buon filone nel lavoro in paesi dove semplicità efficienza
e risparmio energetico erano indispensabili per le loro industrie nascenti. Mi ero concentrato sul dito e avevo perso
di vista la luna, nel particolare ero bravo ma non avevo visto
tutto il mondo intorno. Vedermi dal suo punto di vista fu una
grande scoperta e un vero regalo.
“Hai proprio ragione”, gli dissi di cuore “Siamo strani. forse
anche malati .ma possiamo cambiare e anche guarire”
Al momento dei saluti lo abbracciai con tanta, tanta gratitudine.
Ci frequentammo per qualche settimana ancora e gli rubai
un poco di segreti sulla costruzione di aquiloni. Vennero poi
le ostriche con il vibrione, poi i cavalli, le Ande e tanti atri
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progetti e incontri e scoperte, ma da allora ho cercato con
molta attenzione di avere sempre interesse per i diversi punti
di vista, per il dito e per le molte altre lune.
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Carlotta Bonadonna
Grazie: la straordinaria
riscoperta di una donna
Vi racconto la storia di una giovane donna che dopo anni
lontana da casa, o meglio distaccata da un mondo ormai quasi sconosciuto o addirittura dimenticato per volontà o rabbia,
ritorna nella sua terra.
L’impatto fu devastante, arrivando all’aeroporto in Sicilia
provò tristezza, noia e vuoto. La paura di affrontare la gente,
le voci, i pensieri che non voleva ascoltare la facevano stare
male. Un blocco affettivo, forse personale la costrinse a stare
chiusa 2 giorni in casa. Non c’era voglia di fare nulla, solo voglia che i 2 lunghi mesi che le aspettavano finissero in fretta.
Un amore deluso ed un senso di fallimento che la riportarono in quella terra, piano piano si trasformarono in forza,
coraggio, gratitudine, gioia, serenità ed entusiasmo. Improvvisamente cominciarono lunghi e profondi respiri, che l’ac-
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compagnavano durante le sue giornate, pensò di stare male,
poi col tempo capì che stava succedendo qualcosa di grande.
Un senso di rilassamento e libertà ad ogni emissione di
fiato le pervadevano il corpo e le accarezzavano la mente.
La tensione e la rabbia si stavano allontanando, dando vita
ad un’anima vibrante. Ogni giorno in più era un ritrovare
un pezzo della sua infanzia, gli amici di sempre, i profumi
dei cannoli appena fatti, l’affascinante decadenza del sud si
convertì improvvisamente in bellezza e nostalgia per le proprie origini.
La mamma di sempre con la quale passare piacevoli serate e divertirsi insieme, il mare con i suoi rumori e colori,
le serate con gli amici come se non fosse passato il tempo
cambiarono tutto. Nuove amicizie, nuove esperienze, nuove vacanze, nuove emozioni, forti sentimenti.... tutto quasi
nuovo sebbene vecchio.
Ma in realtà fuori era mutato poco... era lei che era rinata,
che vedeva tutto più suo, più sereno e più autentico. In realtà
credo che avesse ritrovato sé stessa ritornando alla sua vita e
alla sua famiglia.
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Lei ha ancora voglia di andar via, di ricominciare in altri
luoghi ma la gioia di ritornare a casa ogni qualvolta potrà non
andrà più via.
Le emozioni arrivano e non si dimenticano più.... un senso di enorme gratitudine l’accompagnerà per molto tempo...
forse per sempre. E come cita un famoso film “al sud si piange
2 volte quando arrivi e quando riparti”. La gratitudine è la forma più alta per rispondere alla vita.
Per cui dico grazie per la meravigliosa estate a diverse persone che sebbene non ne siano coscienti, tutti in diversi modi,
mi hanno aiutato a trascorrere un periodo bellissimo.
Un grazie pieno di amore a mia madre Dane che non so
come avrei fatto senza di lei, a mia sorella a distanza Elisa ai
miei parenti lontani: Adriana, Benito, Cristiana, Massimiliano, ai parenti vicini: Roberto, Christian, Harald.
Un grazie speciale a Morena Ru una nuova amica preziosa,
Laila con i suoi pensieri, Irene con i suoi sorrisi, e poi ancora La
Firri con i nostri dialoghi, Jessy e la spensieratezza, David, Roberto, Mirko Il Mala, Francesco, Cinzia, Lidia, Francesco, Tamy,
Anna Maria, Manuela, Eleonora, Valeria, Isabella, Daniela, Luisa, Lipari ed i nuovi conoscenti, la Puglia con i suoi vecchi e
nuovi amici, Marzameni ed i suoi incontri..... grazie di tutto!!!!!
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Budau Daniela
Un viaggio che continua
Smisi di piangere, ma sopratutto, smisi di piangermi addosso. Non potevo andare avanti così, non potevo... Dovevo
trovare una via d’uscita, la volevo trovare a tutti i costi: non
m’importava come o cosa, o sotto quale forma potrebbe essere questa via d’uscita.
Mi serviva una porta: così ho cominciato a costruire delle
porte e ad ognuna cercare poi di abbinare una chiave. Immane impresa: non avevo idea in quale guaio mi sarei cacciata!
Ma anche intrapreso un viaggio meraviglioso, da cui non sarei più tornata come ero prima!
Un viaggio fatto di tanti mondi, perchè dietro ogni porta,
c’era un mondo a sé.
Decisi di lasciarmi andare, di seguire il corso delle cose, di
fidarmi... insomma: semplicemente seguire il cuore.
Non ho preparato nulla di bagaglio, mi ero detta che avrei
scartato strada facendo le porte cui non riuscivo ad aprire.
Così che, ho cominciato a conoscere le Persone, tanti me-
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ravigliosi mondi intorno a me. Ecco: voglio solo dire che non
solo dobbiamo credere ai miracoli, ma i miracoli esistono:
ogni giorno, su tutte le strade di città e di campagna, i miracoli
camminano accanto a noi. Sul mare e sui monti, nel deserto.
Alcuni lo sanno, altri no. Alcuni hanno nomi comuni, altri no.
Questi mondi, vi sembrerà strano, interagiscono fra di loro.
Ma non è dato per tutti: per alcuni, la chiave per aprire la serratura o non esiste più o si è rotta. E allora rimangono da soli con il
loro mondo, senza il bisogno di arricchirsi con altre esperienze.
Sono quei mondi di cui butti via la chiave, perché non riuscirai mai ad oltrepassare la porta. Hanno le serrature più
difficili e complicate. Mondi inesplorabili, e abitati da strane
e sofferenti creature.
Ecco: voglio parlare di loro!
Di coloro che lo vogliono essere a porta chiusa, e altrettanto
non cercano nemmeno di comprendere qual è il modo migliore per aprire le porte, e vedere quanti e quali altri mondi
meravigliosi esistono intorno a loro.
Ho incontrato nel mio viaggio, e conosciuto, Persone meravigliose.
Ma loro non lo sanno. Sono i scorbutici, i maleducati, i
malpensanti, coloro che l’amore non l’hanno mai incontrato,
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coloro che pensano che solo giudicando gli altri si innalzano.
Se solo si vedessero con i miei occhi... se solo per un istante
vedessero quanto sono essenziali, quanti miracoli accadono
intorno a loro ogni secondo, e di quanto è bello l’Universo
fatto di tanti piccoli mondi, con altrettante porte e chiavi.
Vorrei dire loro quanto sono meravigliosi! Vorrei dire loro
quanto mi hanno insegnato, e quanto sono importanti! Senza
di loro, l’Universo non sarebbe più lo stesso!
Vorrei dire loro che i miracoli esistono, e sono proprio all’interno e intorno a noi. Vorrei solo che si vedessero con i miei
occhi per un istante.
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Danilo Maruca
Sei nato unico
non morire fotocopia
Quando avevo più o meno sedici anni mi chiedevo come
mai alcune persone erano soddisfatte e felici ed altre erano
così terribilmente infelici.
Un giorno lessi questa frase di Tiziano Terzani:
“Vorrei che il mio messaggio fosse un inno alla diversità, alla
possibilità di essere quello che vuoi. Allora, capito? È fattibile, fattibile per tutti. Cosa è fattibile? Fare una vita. Una vera vita,
una vita in cui sei tu. Una vita in cui ti riconosci”.
In quel momento dentro di me è cambiato qualcosa, come
se quelle parole avessero attivato un interruttore interiore che
mi ha aperto gli occhi. Le persone che sono soddisfatte della
loro vita sono quelle che si impegnano a seguire la loro voce
interiore. Seguono i loro obiettivi e i loro sogni.
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Le persone che non sono soddisfatte invece seguono i sogni
di altre persone. In effetti o lavori per realizzare i tuoi sogni o
finisce per lavorare per soddisfare gli obiettivi di qualcun altro.
Quello che ho capito e che vorrei trasmettere è che la società sbaglia nell’insegnare alle persone il sistema: “Vai a scuola, studia, trovati un lavoro qualsiasi e sposati” questo è un ottimo consiglio per essere... infelici.
Questi consigli potevano andare bene qualche decennio fa,
ma non vanno più bene oggi. Sono assolutamente convinto
che ad ogni persona che arriva sulla terra siano stati donati
dei talenti e delle passioni in modo tale che possa portare beneficio alle persone con la quale entra in contatto.
Ognuno di noi ha l’obbligo e il diritto di inseguire i propri
sogni e di trasformare la sua passione nel suo lavoro.
Tutte le persone che hanno fatto qualcosa di grande erano
o sono persone “visionarie”. Credono nei loro sogni.
Gandhi sognava l’indipendenza dell’India, i fratelli Wright
sognavano di far volare l’uomo, Max Calderan sognava di attraversare i deserti e migliaia di persone sognano di realizzare
qualcosa senza avere nessuna prova fisica che si realizzerà.
Bisogna capire un concetto semplice:
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“Non ti trovi sul pianeta per caso. Esisti per poter realizzare
un Sogno, per concretizzare una Visione. Siamo tutti degli strumenti dell’Universo affinchè si manifesti qualcosa di più grande
di noi. Il Sogno esiste già e poi cerca persone adatte con la quale
farsi realizzare. Devi diventare la persona adatta a realizzare i
Sogni che ti hanno scelto, in quanto non sei tu che hai un sogno ma
è lui che ha scelto te. La vita non ti appartiene è un dono. Condividi i tuoi talenti e le tue capacità con gli altri”.
Bisogna insegnare ai giovani che la loro vita può e deve essere da esempio a tutta la specie. Vivere solo per sopravvivere
non avendo nessun grande obiettivo non è una cosa normale.
Coltiva la tua vita per migliorare l’umanità, questo è l’idea
che andrebbe insegnata a scuola.
Esiste un legame sottile tra noi e il mondo.
Quando tu cresci, anche gli altri crescono. Quando tu diventi più coraggioso, tutto il mondo migliora. Quando tu ti
lamenti, tutto il mondo viene inquinato. Non esistono momenti ordinari. In ogni attimo, attraverso la tua vita decidi se
il mondo migliora o peggiora. Noi siamo responsabili per ciò
che accade nel mondo perché abbiamo lasciato che la mediocrità invadesse la nostra mente e i nostri pensieri.
Nello stesso momento in cui i giovani hanno iniziato a so-
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gnare la pensione, a desiderare una vita normale fatta di un
lavoro qualsiasi.
Nel preciso istante in cui i giovani hanno accettato di sopravvivere senza nessuna ambizione accettando la mediocrità, in quel preciso momento... è nata la crisi.
La mancanza di persone che credono nei loro sogni è una
situazione imbarazzante.
Se vogliamo vivere una vita in cui ci riconosciamo dobbiamo riprendere il coraggio di credere nei nostri sogni e dedicare la nostra vita a qualcosa di più grande di noi.
La domanda è:
“Quale eredità vuoi lasciare al mondo? Sei nato unico... non
morire fotocopia”.
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Antonella Salamone
Fermati, abita
È successo che c’avevamo sentito l’odore del pane che
avremmo fatto, in quella casa.
In una mattina di metà estate, sudati per la pedalata che ci
aveva reso cosa tanto cittadini, ci eravamo fermati e avevamo
iniziato a improvvisare modi di essere paesani. E con questi,
inventavamo strade conosciute e volti che in realtà non avevamo visto mai.
Davanti a quella cascina del 1600 e a quell’agente immobiliare con la camicia appiccicata sulla schiena e il sorriso prosciugato, sentivamo ciò che ci mancava.
Ed era in quella casa e in tutto ciò che da quel momento ci
sarebbe mancato di noi e della nostra terra. Quando in estate
facevamo la salsa in campagna per esempio e bruciavano nei
tagli d’infanzia quegli acini del pomodoro spaccato a metà a
mezzogiorno.
Ma là, in quella casa, almeno quelle visioni tornavano tutte
e ci sfilavano davanti come spettri celebranti di ciò che sta-
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vamo cercando e di ciò che fermandoci un attimo stava accadendo: eravamo diventati improvvisamente grandi.
Poi abbiamo ripreso le nostre biciclette e ce ne siamo andati.
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Beatrice Toccacieli
Imparare a vivere
Otto anni fa più o meno di questo periodo ho scoperto di
avere un carcinoma all’intestino, e che era anche un po’... attempato.
Mi sottoposi ad un primo intervento per l’asportazione del
tumore e della parte di colon interessata, ma al risveglio mi
ritrovai con una “borsetta” sulla pancia e mi informarono che
mi era stato asportato tutto il colon perché completamente
pieno di polipi della stessa natura del carcinoma.
Mi fecero dei test genetici e risultai positiva a una malattia
genetica rara, la Poliposi Adenomatosa Familiare che in casa
mia non sapevano neanche pronunciare... colpisce un individuo ogni 12.000 nati vivi. Che fortuna!, dissi.
In seguito, subii altri innumerevoli interventi, terapie, chemio e radioterapia, nutrizione in vena, e ancora oggi, oltre ai
controlli annuali, sperimento alimentazioni speciali e terapie
per mantenere, almeno dormiente, questa terribile malattia.
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È stata una lotta continua ed estenuante con battaglie vinte
ed altre perse, ho sentito sulla pelle il brivido che provoca la
paura di morire, per un istante l’ho guardata in faccia la morte, ma sono sempre stata determinata a restare qui con la mia
vita e con tutti coloro che ne fanno parte e l’ho vista sgretolarsi sotto i miei passi.
Ogni volta che c’era da affrontare un esame o intervento
importante, pregavo con forza e fede profonda di poter tornare dalla mia famiglia, dicevo che avevo un compagno e due
figlie che mi aspettavano per vivere momenti felici insieme, e
ogni volta mi rialzavo sempre più forte!
Solo che se perdi il controllo nel gestire la forza e il coraggio a lungo andare ti ritrovi come imprigionata in un
armatura rigida, un’armatura che con il tempo imprigiona
l’elasticità mentale, il pensiero e i sentimenti, forse il meccanismo inizialmente è di protezione degli stessi per non
sgretolarli e perderli, ma poi ti accorgi che dall’esterno non
li avvertono più i tuoi stimoli, soprattutto i sentimenti sono
rimasti isolati in qualche stanza della memoria e per quanto
cerchi di tirarli fuori, commetti degli errori e finisci per dimostrare il contrario, e cioè che non ti interessi nient’altro
che te stessa!
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Ma non è cosa, non è vero che pensi solo alla tua situazione,
è che cerchi di farti vedere forte per non far soffrire chi ti sta
intorno e per cercare di passargliela quella forza per aiutarli a sopportarti, e per fare questo devi per forza soffocare le
emozioni e ammutolire i sentimenti, altrimenti saresti troppo
vulnerabile e debole!
Mi chiedo oggi chi sono? Chi sono diventata?
Oggi, che tengo a bada la malattia e sono riuscita ha concedermi il lusso di assaporare le mie lacrime, a sentire il calore
di provare un sentimento e ancor più a dialogare con le mie
emozioni senza classificarle.
E per fare ciò ho dovuto rompere pezzo per pezzo la corazza che mi ero costruita su misura per lottare con i fantasmi
della malattia, ma ancor prima con un matrimonio non voluto e finito velocemente, con la scelta di un lavoro che non lo
sentivo proprio adatto per me, e con tante scelte non fatte per
non deludere.
Riflettendoci, a volte mi chiedo, tra me e me, ma le malattie genetiche rare esistono davvero? O basterebbe trovare il
sistema di smettere di aver paura di vivere come si è dentro
per restare sani?
E allora mi dico che qualsiasi possa essere la risposta c’è
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una cosa più importante per ognuno di noi: Vivi il momento,
ogni momento buono o meno buono che sia accettalo e vivilo
intensamente con passione, sentimenti ed emozioni, ma soprattutto esprimi quello che provi, sempre, trova il modo per
comunicarlo anche se non sempre trovi le parole.
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Stefano Leo
Bivio
Un giorno mi sono fermato e ho scoperto che stavo perdendo ogni attimo della mia vita mentre ero tutto preso ad
inseguire l’illusione di costruire una ricchezza che avrei lasciato a mia figlia.
Era nata e io avevo provato una gioia immensa ma allo stesso tempo avevo creduto che il mio gesto d’amore per lei dovesse consistere nel sacrificarmi e lavorare ancor più di quanto avessi fatto prima di quel momento.
Da allora erano passati diversi anni e lei era cresciuta senza
quasi conoscermi.
Anche mia moglie lavorava tutto il giorno. La bambina era
cresciuta in asilo, tra educatrici e poi in scuole a tempo pieno
insieme a insegnanti e altri bambini.
La sera io e mia moglie tornavamo a casa ormai talmente
stanchi che nostra figlia ci vedeva appena e poi la mettevamo
sbrigativamente a letto.
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I nostri momenti insieme e felici erano le brevi vacanze
estive e qualche viaggio per poi tornare a immergerci in quella vita fatta di rimandi e privazioni in attesa di un futuro in
cui pensavamo che saremmo stati finalmente assieme.
Ma più passava il tempo e meno riuscivo a costruire l’impero che credevo di desiderare. Gli affari andavano male e ad
un tratto presero una piega sempre più negativa.
Mi ritrovai come un aereo entrato in stallo: la mia attività si
avvitava sempre più in una spirale di debiti impagabili e di spreco
delle mie risorse ed energie per cercare di salvarla, senza riuscirci.
Persino mia moglie perse il lavoro, ed un giorno ci ritrovammo da soli, in casa.
Ma la casa era ormai pignorata e sapevamo che ben presto
l’avremmo lasciata.
Tutti i nostri sogni di benessere erano svaniti. Ci restava
solo nostra figlia.
L’avevamo chiamata Angela. Ma non avevamo mai capito
bene il perchè di quel nome: era stata una scelta spontanea,
come dettata dall’inconscio.
Credevamo fosse motivata dal suo aspetto dolce e gentile.
Ma capimmo il vero motivo soltanto quando sia io che mia
moglie facemmo un sogno straordinario.
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Quella notte era l’ultima perchè l’indomani avremmo lasciato la nostra villa con piscina per un modesto appartamento in un quartiere popolare.
Nostra figlia ci apparve in sogno, accanto a lei due figure di
luce. Non parlavano, ma fu nostra figlia a parlare.
Ci disse che prima di nascere ci era già venuta a trovare.
Una volta si era presentata sotto le spoglie di un mendicante
che aveva chiesto a mia moglie la carità.
Lei gli aveva dato una moneta e lui gli aveva chiesto se fosse
felice della propria vita.
Ella aveva risposto che i soldi non facevano la felicità.
Un’altra volta era apparsa a me, come una bella ragazza. Io
non avevo ceduto alle sue lusinghe e avevo detto che non cercavo delle avventure, ma soltanto di essere un giorno il padre
di una ragazza che fosse stata bella come lei...
Gli angeli a quel punto squarciarono un velo di ombra che
era dietro di loro e ci mostrarono l’immagine di una strada
che ad un certo punto si divideva a un bivio.
In una strada si vedeva un futuro di prosperità, feste, ricchezza ma in quel momento due anziani risalivano in un’auto
di lusso, senza nemmeno guardarsi tra di loro.
Gli sguardi vuoti.
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Nell’altra strada vi erano due genitori anziani ma sereni,
partecipi della gioia di una festa insieme ad una ragazza stupenda. La ragazza si chiamava Angela.
Poi il sogno finì e mi svegliai e mi accorsi che anche mia
moglie si ridestava nello stesso momento. Nel suo sguardo
c’era la mia stessa consapevolezza. Non dissi nulla. Insieme
andammo nella stanza in cui nostra figlia dormiva placidamente. Allora ci abbracciammo. Poi silenziosamente e pieni
di gratitudine ci accingemmo a preparare le nostre valigie.
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Agnese Albertini
Ho “dovuto” fermarmi!
Sono nata sotto il segno del Leone, energica, combattente,
solare! Mai ferma, nè con il corpo nè con la mente!
La mia curiosità mi ha sempre portato ad esplorare, capire,
imparare, fare.
Stare ferma non era proprio per me.
Ed anche la mia professione mi stimolava ad essere sempre
in movimento, lavorando in proprio si sa, bisogna stare attenti a tutto!
Ma i guadagni c’erano e pure buoni. Mancava solo il tempo
di spenderli i soldi guadagnati!
Ma il tempo per gli altri lo trovavo! Per i più deboli i bisognosi, i meno fortunati!
Ho sempre parteggiato per il più debole... Io mi sentivo
forte, fortissima!!!!!
La mia infanzia e giovinezza fu difficile!
Quanta fatica per crescere! Quante domande senza risposte! Quante delusioni!
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Allora, ai miei tempi, era così, eri piccola e dovevo stare zitta ed ascoltare.
Ma nessuno ascoltava te! Tutti troppo impegnati per il lavoro, per poter vivere meglio, con più comodità!
E anche nella mia famiglia non trovavo quello che cercavo,
ascolto, comprensione, affetto.
La mia mamma era una brava donna ma, pure lei da piccola
non ha ricevuto affetto per cui non riusciva a darlo!
Ma questo io l’ho capito solo da grande, mentre da piccola
mi chiedevo: Ma perché la mamma non mi accompagna a
letto? Perché non mi racconta mai una storia? Perché non mi
ascolta?
Tutte domande che tenevo per me! Si sa, i bambini non riescono a spiegarsi. E neppure capiscono bene che cosa manca
loro, ne soffrono però!
Era una grande lavoratrice, voleva dare a noi figlie tutto
quello che non aveva avuto lei ma di “materiale” si trattava!
A me serviva altro non solo la bicicletta o la slitta o vestitini
della sarta, ricamati. Ma affetto e comprensione!
Il mio papà aveva un lavoro che lo portava nove mesi
all’anno lontano da casa! Era un grande Chef di cucina! Uno
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dei “grandi” ed ha sacrificato la sua famiglia per la carriera!
Era sempre presente con una cartolina o un telegramma
quando ero promossa o ricevevo dei bei voti! A modo suo
cercava di essermi vicino, ma non bastava!
E questo ha fatto soffrire pure lui, infatti diventò alcolista.
La mamma ha cercato di nascondere questa verità fin che
ha potuto ma poi la cosa fu chiara!
Era un brav’uomo, onesto, gentile, profondo, sensibile e mi
ha i segnato il valore del rispetto per tutti e l’amore per gli
animali! Era un cuore tenero ma quando beveva diventava
violento!
Così non sono cresciuta in un ambiente “sano” e a vent’anni
me ne andai da casa, ho voluto spiccare il mio volo ma le mie
ali non erano abbastanza forti!
La mamma, iperprotettiva, non mi aveva insegnato a scavalcare gli ostacoli!
Sono sempre stata un po’ fragolina in effetti è lei scavalcava
per me, credendo di fare bene! Ma fu un grave errore!
Catapultata nella grande metropoli di Milano, insicura
e timorosa se pur ben acculturata. Non ce l’ho fatta! Non
ero pronta ad affrontare la vita con tutti i suoi problemi!
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Per un po’ resistetti, trovai un lavoro che mi occupava molto,
e feci carriera!
Ero intelligente e con una buona cultura! D’altra parte la
mia famiglia mi aveva insegnato il grande valore del lavoro!
Ma a tutto ci deve essere un limite! Ed io non lo avevo! Lavoravo e lavoravo.
Finchè non successe il patatrack!
La mia insicurezza, fragilità e le mie paure trovarono strada
nella droga!
Ed iniziò il tormento!
Un tormento una disperazione per me e per la mia famiglia
durato ben 13 anni!
I valori inculcatemi non mi hanno permesso di arrivare a
vivere la strada, ho sempre lavorato ed i soldi non mi mancavano! E, nella mia disperazione ero una solitaria! A differenza dei “molti” che facevano gruppo!
Questo, per fortuna, mi ha messo al riparo dal contrarre
malattie!
Ma non vivevo, vegetavo, mi annullavo nei paradisi artificiali!
Ed alla fine anche il lavoro ne risentì e dovetti smettere!
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Non avevo più nè le forze nè la lucidità necessaria per portare avanti i miei impegni!
Fu ancora più terribile. Anche quei freni che avevo conservato si ruppero. E toccai il fondo!
In effetti questo periodo non durò molto, per fortuna!
Ero stanca, sfiduciata, delusa di tutto di me stessa, stavo
male e facevo stare male. Ed i rimorsi mi attanagliavano, allora esageravo ancora di più!
Finchè ebbi la forza di dire “basta”!
Mi ricordo come fosse ora!
Eravamo davanti al camino io, mamma e papà che, in uno
dei rari momenti di sobrietà, suonava il suo mandolino!
Era la vigilia di Natale, fuori nevicava ed io ero in preda ad
una forte crisi di astinenza! Non avevo nemmeno più la forza
di andare a cercare la mia dose! Tenevo in mano una tazza di
tè caldo. Ma tremavo come una foglia! Non avevo più scampo e lo sapevo!
Allora chiesi aiuto ai miei genitori, piangendo, finalmente
la molla era scattata!
Loro, naturalmente non aspettavano altro.
Ricordo che mamma teneva in mano la sua tazza di caffè e
quando sentì le mie parole, richiedenti aiuto, la tazza le scap-
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pa dalle mani, cadendo a terra!
Il primo passo era fatto!
Ai miei genitori chiedevo solo di sostenerci, di non abbandonarmi, di starmi vicino per il resto sapevo bene come fare!
E loro mi promisero tutto l’aiuto necessario!
Passai una notte d’inverno, in preda ai dolori dell’astinenza!
Mamma non sapeva che cosa fare! Mi massaggiava con l’alcol i muscoli tesi e doloranti!
Le crisi di astinenza sono terribili, difficili da raccontare!
È tutto il tuo essere che si ribella! Niente funziona più, tutto va per conto suo e io non avevo più nessun controllo! Evito
i particolari.
Finalmente la notte passò.. avevo sempre nelle orecchie le
famose parole di Eduardo “A da passa’ a nuttata!”
E la mattina mi feci accompagnare al Sert della Provincia!
Parlo di tantissimi anni fa, le cose non funzionavano come
avrebbero dovuto!
Io chiesi di entrare in una Comunità per tossicodipendenti
ma “loro”, i cervelloni psicologi che non capiscono nulla, mi
frenarono, proponendomi la cura con metadone!
Cosa che naturalmente accettai, stavo troppo male!
E cosa la mia agonia continua ancora perché il metadone si
mi faceva passare i dolori dell’astinenza ma andavo comun-
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que a cercare la mia dose, le mie dosi, sempre di più! Perché
così succede a tutti!
Il metadone un grande fallimento! Ideato solo per dar da
mangiare a psicologi e psichiatri, raramente aiuta!
Cosa andai ancora avanti o meglio, indietro! Ma alla fine
decisi di ribellarmi! Ma capii che avrei avuto bisogno del sostegno di un buon professionista! Da sola non sarei riuscita
nel mio intento! E tutto questo era paradossale!!! E la mia
rabbia montava!
Allora, mi affidai ad uno psichiatra consigliatomi dal mio
dottore di famiglia.
Un disastro! Non capiva niente... intascava solo soldi con
la presunzione di potermi aiutare lui! Ma io sapevo bene che
l’unico aiuto, per me, era la Comunità!
Ma, per fortuna mi venne in aiuto la moglie, psicologa, lei
sì che capiva e molto bene anche! E mi disse chiaramente
che suo marito non avrebbe potuto aiutarmi e che mi serviva
andare in Comunità!
Non potevo credere alle mie orecchie! Finalmente una persona che capiva!
Allora le raccontai del mio tentativo, e lei, naturalmente, si
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arrabbiò molto!
Mi diede appuntamento per il giorno dopo al Sert dicendomi che mi avrebbe accompagnata lei dai signori “cervelloni”. E così fu!
Ci trovammo al Sert con tutta la Commissione riunita e...
lei grande!
Gliene disse di tutti i colori e anche di più, li fece vergognare davanti a me, ricordo che tenevano tutti gli occhi bassi, i bastardi! E mi fece entrare in Comunità, quella che lei
conosceva molto bene, la Comunità INCONTRO di Don
Pierino Gelmini.
Naturalmente dovetti aspettare e rispettare tutto l’iter,
analisi del sangue, urine, colloqui su colloqui. Ma io sempre
ferrea e sempre più convinta di uscire finalmente da tutto
quell’orrore!
Dovetti aspettare ben sei mesi prima di essere accettata. Ed
in quei mesi nei quali avrei dovuto disintossicarmi, peggiorai
ancora di più! Non ce la facevo.
Infatti entrai in Comunità in crisi di tutto! Eroina, cocaina, metadone, sigarette... solo l’alcol non faceva per me! E fu
dura, molto dura, durissima!
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In Comunità non si poteva fumare... non si poteva fare nulla senza chiedere il permesso, anche per andare a fare pipì e,
spesso, veniva pure negato!
E la ribellione si faceva sentire, come una tigre in gabbia ma
senza gabbia... perché nella Comunità INCONTRO entri
con la tua volontà e con la tua volontà esci!
Non esistono cancelli nè recinti, sei libero di restare o andartene!
E l’aiuto te lo possono dare i tuoi compagni di sventura,
solo parlandoti e, se li ascolterai rimarrai, sennò tornerai alla
tua vita disperata!
Ogni giorno volevo andarmene. Ogni mattina mi imponevo di aspettare la sera e la sera di aspettare la mattina seguente! A volte solo ore... ancora un’ora, mi dicevo! L’alternativa la
conoscevo e non mi piaceva!
E tutto in astinenza e niente farmaci!
Un giorno, sfinita, svenni: mi diedero una camomilla!
Notti e notti insonni, dolori lancinanti... rabbia che mi bruciava il cuore ed il cervello! Ma resistevo! E dovevo pure lavorare, per quel che riuscivo! In Comunità si sta a letto solo se
si ha la febbre. Ed il confronto, serrato e duro, quasi crudele
ai miei occhi di allora!
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Abituata a fare tutto quello che volevo, mi ritrovavo a dover
chiedere per tutto, a non poter pensare con la mia testa a sentirmi dire “vedi la tua testa dove ti ha portata! Ora usi la nostra”
E non capivo, o non volevo capire! Capire significava poi
cambiare ed il cambiamento è faticoso!
Facevo tante domande, tanti perché è sempre mi veniva risposto “fai e poi capirai” Ed a me sembrava di impazzire!
Il silenzio poi... un momento terribile!
Il momento della meditazione, mezz’ora al mattino e
mezz’ora la sera, in silenzio per riflettere e guardarci “dentro”.
Ma io non vedevo nulla, non capivo nulla! Pensavo fossero
tutti matti!
E colazione, pranzo e cena, tutte in silenzio assoluto! Anche versare l’acqua nel bicchiere era un gesto “sacro”, guai a
fare rumore!
Noooooooo mi dicevo, qui sono tutti impazziti! Per farmi
uscire da un problema mi fanno entrare in uno più grande: la
pazzia collettiva!
Ma resistevo... l’astinenza era passata e una notte che riuscii
a dormire anche solo un’ora mi parve un grande passo avanti!
Quando lo dissi ai miei compagni, la mattina, scatta un applauso che più forte non ne avevo mai sentito!
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E questo fu il primo segnale che io stavo funzionando, perchè in Comunità nessuno ti regala niente! Ti devi guadagnare tutto! Anche il mangiare!
Ogni persona aveva un compito, una responsabilità quotidiana, nel rispetto delle proprie possibilità!
Ed io, in quel periodo avevo da accudire il pollaio! Le uova
erano molto importanti per noi! E la salute delle galline pure,
gli animali erano sacri e trattati molto bene. E non venivano
uccisi per mangiarli! E questo mi piaceva molto!
Per cui, due volte al giorno, ad un’ora precisa, dovevo andare a dar da mangiare alle galline e ogni tre giorni zappettare
tutto il terreno per far in modo che le galline potessero becchettare e pulire tutto il pollaio! Cosa che facevo benissimo!
Il lavoro non mi faceva paura, avevo sempre lavorato! E mi
rilassava stare con gli animali!
Ma un giorno mi dimenticai la cena per loro!
Non so come ma mi dimenticai! Beh! Mi dissi, pazienza, mangeranno un po’ più domani! Ma la cosa non era cosa semplice!
La Comunità è come una palestra, dove sperimenti la vita,
facendo gli sbagli ma sei protetta, però i tuoi errori hanno un
significato diverso che fuori!
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Cosa mi ritrovai in mezzo al “cerchio”. Non capivo che stesse succedendo!
In fondo avevo solo dimenticato di dare la cena alle galline!
E che sarà mai!
Ma non era cosa!
Iniziarono tutti a dire la loro, ingigantendo la cosa, facendone un dramma! Come se le avessi fatte morire di fame!
Tutti contro di me!
Me ne dissero di tutti i colori, finchè non mi misi a piangere e crollai! Il mio “io” crolla e mi sentii una nullità!
Un pianto “liberatorio”, consolatore e poi i miei amici me
li sentii tutti vicini! Tutti a consolarmi! Incominciavo finalmente a capire!
Così tra crisi e crisi, trascorsero i due anni di programma.
Ed uscii! Mi sentivo impaurita, fragile, insicura, dubbiosa!
Ce la farò, mi domandavo!
Perchè ora si trattava di affrontare la vera vita e senza paracadute! Mi sentivo come un uccellino che volava in una tempesta!
Ma piano piano, vivendo, facendo sempre tesoro degli insegnamenti ricominciavo a vivere, ma vivere veramente, assaporando la Vita!
Le paure si dissolvevano, la forza la sentivo dentro di me, l’insicurezza dava spazio alla sicurezza, anche se sempre con prudenza!
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La vita finalmente mi sorrideva!
All’inizio fu difficile perchè dovetti riconquistare la fiducia
dei miei genitori e delle mie sorelle, mi tenevano d’occhio, mi
guardavano con sospetto, timorosi, mi controllavano tutto!
Ma io ero preparata a questo! La Comunità mi aveva avvertito! Per cui andavo avanti senza sentirmi offesa! Finalmente
riuscivo a capire anche gli altri oltre che me stessa! Ed era
una bellissima sensazione!
Nei momenti difficili me ne andavo al fiume io con il mio
amato cane a piangere da sola e lui mi leccava le lacrime! E
mi aiutava molto! Lui aveva già capito che ce l’avevo fatta!
Gli animali con il loro istinto spesso capiscono prima! Ed io
lo sentivo!
Ma la Vita iniziava a mettermi alla prova!
Mio papà che era già ammalato di tumore peggiora molto,
tutto ad un tratto e fu necessario il suo ricovero!
Il tumore si era sparso nelle ossa e per lui non c’erano più speranze.
Io morivo dalla voglia di riprendere in mano la mia nuova
Vita, il mio lavoro, di essere indipendente ma capii che dovevo ancora aspettare!
Papà aveva bisogno di me ed io ero l’unica che poteva aiu-
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tarlo! Avevo in me tutti gli strumenti necessari!
Così iniziai ad assisterlo prima solo di giorno poi anche
di notte! Trascorrevo tutte le mie giornate in Ospedale, parlando con lui, accudendolo. Ed iniziammo a conoscerci!
Non ne avevamo mai avuto il tempo, prima!
Lui con il suo problema è io con il mio che, in effetti, era lo stesso disagio, le stesse paure, le stesse fragilità, cambiava solo la sostanza, lui l’alcool ed io la droga!
Così ci riscoprimmo molto simili!
E ci incontrammo finalmente, sul suo letto di morte, ma ci
siamo incontrati e capiti! E nacque un Amore immenso, anche se, purtroppo, durò troppo poco!
Papà stava morendo. E io lo sapevo! Ma ero impotente,
potevo solo donargli tutto il mio Amore che, nonostante i
dolori, lo rendeva felice!
E lo aiutai a morire, serenamente per quanto fosse possibile
e lui fu il secondo, dopo il mio cane, che capiii che ce l’avevo
fatta. Ed i suoi occhi luccicavano di orgoglio!
La sua colomba, mi chiamava!
E se ne andò lasciando un grande vuoto ma anche un “pieno” di Amore!
Ora che lo avevo trovato lui se ne andava! Ma ero preparata, anche a questo!
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Anche questa è una regola della Vita! Tutto inizia e tutto
finisce!
Poi la mia nuova Vita incomincia!
Con difficoltà e ostacoli. Ma ero in grado di affrontarli ora!
Ricomincai a lavorare, un lavoro più tranquillo! I soldi non
mi interessavano più, si solo per vivere dignitosamente ma
non erano più la priorità!
Le macchine sportive non mi servivano più, non dovevo
più correre!
Il rolex che tanto “ostentavo” lo regalai a mia nipote, non mi
serviva più!
I bei ristoranti non mi interessavano più! Amavo cucinare
i miei cibi, papà mi aveva insegnato bene. Ed i suoi insegnamenti ora erano preziosi!
Riallacciai le vecchie amicizie e con i primi soldi guadagnati acquistai un’auto di seconda mano, una piccola panda che
mi sembrava una Ferrari!
Tutto si era ridimensionato, aveva preso il posto giusto, e
le mia priorità ora erano i sentimenti, gli affetti, l’Amore, la
compassione, l’amicizia, la condivisione, la pietas tutte cose
che non avevo mai considerato e mai conosciuto!
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Più tempo passava e più forte diventavo!
“Le pietre che i muratori avevano scartato, sono diventate testare d’angolo”!
Era proprio così, ero un esempio, un buon esempio!
E poi il destino mi fece conoscere quella persona “speciale”
che diventò poi mio marito, anche lui un “ex” guarito! Sarà
stato un caso? Non credo!
Nacque un Amore stupendo! Ci capivamo a colpo d’occhio,
mi sembrava di averlo sempre conosciuto! Condividevano gli
stessi sogni, avevamo gli stessi ideali, una grande empatia un
grande rispetto!
Ed il nostro Amore dura da 23 anni, sempre uniti nonostante le difficoltà ed i problemi di salute per una mia malattia reumatica che, purtroppo, limita molto la mia qualità di
Vita!
Ma siamo felici e sereni, nonostante tutto, siamo sempre
insieme, camminiamo manina-manina e facciamo sempre
progetti per il nostro futuro!
Non abbiamo però avuto il coraggio di mettere al mondo
figli ma non ce ne siamo mai pentiti! Ci sentiamo una vera
famiglia, con i nostri due cani che riempiono il nostro cuore di
Amore puro, quello che solo gli animali sanno cosa regalare!
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Ed il tempo ora ha il suo valore!
Niente più corse...
Niente più ansie...
Tutto il tempo è per noi da godere più che si può!
Abbiamo imparato a fermarci, a meditare a respirare piano
piano...
Ed è per noi una grande conquista!
Buona Vita a tutti!
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Italia Bianchetelli
A Ugo
A te che ti ho conosciuto
in un momento di crisi personale.
A te che sei entrato nella mia vita,
in punta di piedi, e pian piano
mi hai fatto innamorare.
A te che mi hai fatta sentire al centro delle tueAttenzioni,
siamo stati due corpi,
e un’anima sola.
A te Ugo che mi hai lasciata per raggiungere altre dimensioni.
la dimensione dell’aldilà
ci divide un filo sottile,
che nel silenzio e nella pace, quasi ci si può sentire.
A te che sei stati il mio grande Amore, dedico queste semplici righe.
Ugo sei stato per me una persona più che importante
eri e sarai sempre il mio mondo
ti amo oggi come allora.
Ciao Ugo,
ti dico solo arrivederci.
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Eva Peddio
Sala parto sotto le stelle
È stato un brusco risveglio quella mattina.
Cumba, l’ostetrica della casa di Santè, ci aveva mandato a chiamare: la donna gravida che avevamo visitato qualche giorno prima era in travaglio era in pieno travaglio.
Ci fu un bel trambusto, un veloce viavai, niente colazione,
una fila superveloce al bagno, le divise già indosso.
Mandalà, il nostro cavallo, era già la pronto sulla spiaggia.
C’era bassa marea; il carretto, passando sulla sabbia, sfiorava
le onde dell’oceano. Per raggiungere Mboro godevamo di una
bellezza particolare: il rientro dei pescatori che portavano a
riva le enormi piroghe colorate; noi, con le gambe penzoloni,
sostenendoci con forza sui palmi delle mani per non cadere,
osservavamo l’alba pensando di arrivare in tempo per il parto.
La a destinazione una sola “sala travaglio-parlo-degenza-ambulatorio”, la sala d’attesa era fuori, sulla sabbia. Per
nascere nessuna luce o culletta termica o lucide mattonelle,
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solo una povera stanzetta, che non aveva nulla, se non un lettino arrugginito, senza lenzuola.
La donna, colorata dagli abiti, che avvolgevano il suo corpo era pieno di antico pudore. I suoi abiti esaltavano la pelle
nera. Soffriva in silenzio le sue contrazioni uterine, come un
destino a lei assegnato, solo per essere donna.
Nulla, nemmeno un lamento dalle sue labbra, qualche smorfia. Solo i suoi occhi parlavano di quel dolore di madre.
Là il dolore è diverso, nemmeno i bambini con le ferite infette piangono durante le medicazioni.
“Poussez! Poussez! Spingi! Spingi”! dicevamo alla donna ormai in sala parto.
Pochi gli strumenti a disposizione, disinfettati malamente in mezzo alla polvere in un ambiente dove I’acqua non scorre nei tubi e lavarsi le mani è molto difficile.
Un’ultima spinta ed ecco un vagito: è una femmina sana e
vivace.
Un respiro profondo il nostro, come dopo ogni parto. Tutto
sembra finito; ma che succede?? Guardiamo allarmati l’addome ancora prominente.
Sono due!! Sono due!!
Gridiamo un pa sorprese allarmate: è una gravidanza gemellare e il secondo gemello a in posizione podalica. Un par-
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to difficile qui in questo mondo dove non c’è ancora nè luce
nè acqua, e neppure la sala operatoria.
Mentre ci preparavamo al secondo parto, l’ostetrica locale masticava un bastoncino di legno, quello che solitamente
usano per pulirsi i denti, con il flemmatico fatalismo degli
africani.
La vagina della donna rimaneva dilatata; ecco spuntare il
primo piede, solo uno. Davanti ai nostri occhi come per magia appare il manuale di ostetricia. Parto podalico, vagina. Agganciare l’altro arto, assecondarle rotazioni naturali. Spunta
anche il sederino della bimba. Favorire l’espulsione delle spalle. leggevamo mentalmente. Infilare la mani nella bocca del
feto in modo che la testa possa rimanere flessa e offrire un
diametro più favorevole all’espulsione. Tutto procede bene.
Molto sangue freddo, molta professionalità ed esperienza
da parte dell’èquipe ed ecco prendiamo tra le braccia anche la
seconda bambina, scalciante, prepotente e con tanta voglia di
vivere.
Noi ora più serene, anche se la puerpera ha bisogno di un
controllo intensivo nelle due ore dopo il parto: guardavamo i
due esserini appena venuti al mondo. Le piccole in un pianto
quasi silenzioso, capivano sicuramente di essere nate in Africa.
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Ora avvolte anche loro in teli colorati, seppure col cordone
a penzoloni malamente disinfettato e legato con uno spago
grosso, sembravano delle principessine adorate dalla madre,
regina di felicità dopo la sofferenza.
Nello sguardo delle donna, amore per le bimbe e riconoscenza per noi.
Un grazie fatto sguardi e di lingua wolot, a noi incomprensibile. Oggi, quelle due bimbe nate alle porte del natale, con
la neve sulle nostre alpi e col caldo in Senegal, hanno quasi
due anni e presto le rivedremo.
Ci aspettano con la loro mamma. Tutti li ci aspettano: i
malati, i collaboratori, e i dolci amori nati e rinnovati tra il
bianco e il nero, il chiaroscuro come luce e ombra, come vera
vita. E si affaccia la nostalgia di quella terra e penso che è vero
che esiste il mal d’Africa.
Riaffiorano prepotenti i ricordi del primo viaggio. Arrivammo che era notte fonda a Dakar, con tanta stanchezza
nel corpo, ma l’animo pieno di gioia, pronti a dare il meglio
di noi.
Una ginecologa, due ostetriche, due dermatologi tutti abbastanza ignari del lungo viaggio che ci aspettava.
Solo i presidenti della nostra associazione erano consci delle difficoltà che avremmo incontrato... E pensare che ci ave-
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vano avvertiti dall’aereoporto un vecchio camioncino aperto,
tra scossoni e polvere, ci trasporta a Mboro, piccolo paese di
pescatori sull’oceano a sud di Dakar.
Ci avevano informato che in Senegal a dicembre era caldo.
Ma la notte faceva freddo, e noi, addossati gli uni agli altri
cercavamo di scaldarci un po’.
Ed eccoci a Mboro alle quattro del mattino, credevamo di
essere giunti a destinazione, ma sbagliavamo: mancava ancora qualche chilometro.
Venne a prenderci un carretto trainato da un cavallo, Mandalà.
Solo l’indomani avremmo visto quanto era scheletrico quel
povero cavallo che ogni giorno ci portava al lavoro.
Eppure stanchi, assonnati e infreddoliti, abbiamo ammirato per la prima volta la luna d’Africa, grande e lucente, che si
specchiava nell’oceano.
Impagabile ai nostri occhi anche lo spettacolo al nostro risveglio: la capanna sulla spiaggia, sull’oceano, ci offriva sole e
calore.
Una spiaggia infinita dove l’orizzonte spariva dalla nostra
vista tra la foschia e l’azzurro molto azzurro del cielo africano.
Una spiaggia infinita abitata da una miriade di piccoli granchi
che facevano a gara per scavarsi un nascondiglio nella sabbia.
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I ricordi dei panorami si uniscono a quelli interiori: alle feste dei nostri amici senegalesi, che ci offrivano il benvenuto,
ripagandoci ampiamente della fatica del lungo viaggio. Viaggio che, ormai da qualche anno, si rinnova.
Offriamo il nostro lavoro a chi ne ha bisogno e riceviamo
tanto in cambio: una ricchezza impalpabile, spirituale, che
tutti possono leggere nei nostri occhi ad ogni nostro rientro.
Da questa bella esperienza, il giorno dopo il parto, nacque
anche questa piccola poesia:
Il miracolo della vita
Da silenziose doglie
si affaccia a mani esperte
e due bimbe raccoglie.
(Les petites Annette et Robertà
elles sont nait a la source du soleil
elles sont sages la nuit pour nous n’est pas bien
et elles ont attendu le jour)
Sono arrivate piccole piccole
il cuore materno sorpreso a riscaldare
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e l’animo generoso a rallegrare
di chi disinteressato aiuto voleva dare.
Sala parto uno stanzino
sala travaglio uno sgabuzzino;
tutto al buio riluceva di luce d’amore,
è cosa che va qui la vita, amici e colleghi,
amore e perizia
il cockail della letizia per un parto gemellare
che il Senegal ci ha voluto regalare.
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Italia Bianchetelli
In vacanza
Mi trovo in un paese di montagna
faccio un giro nel bosco
intorno a me un gran silenzio
mi fermo, ascolto, osservo;
le cime degli alberi quasi non si vedono,
un raggio di sole riesce a penetrare
chiaro e splendente,
un fruscio di foglie
mi distoglie da tutto ciò,
uno scoiattolo bruno con una maestosa coda,
corre veloce su un ramo,
ora un batter d’ali è un uccello
dai colori sgargianti che si posa nel nido.
Passeggio in questo posto incantato
intorno a me colori di fiori e frutti di montagna,
in lontananza sento, il gorgoglio di un ruscello
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mi fermo a guardare, scorgo un gruppo di daini,
con un manto bellissimo, vanno a dissetarsi in quell’acqua
limpida e chiara.
L’aria è leggera pulita ,si sente il canto delle cicale,
questo luogo non è ancora rovinato, dall’incuria dell’uomo,
sembra quasi un paradiso, tutt’intorno
le cime maestose delle montagne fanno da cornice.
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Ornella Petrocelli
Quella notte di febbraio
Era una notte di fine febbraio, come ogni sera avevo passeggiato nella mia camera da letto con in braccio la mia secondogenita cantando la sua ninna nanna stringendola al petto.
Ogni volta che passavo davanti allo specchio guardavo il
mio riflesso appena visibile, nel buio, illuminato dai deboli
raggi di luce che provenivano dai lampioni per strada. Una
donna che non ero io, non ero mai stata formosa, ma cosa
filiforme da sembrare malata non di certo.
Ricacciavo le lacrime dentro con tutta la forza che avevo,
ma non ne avevo più, era solo l’amore delle mie bambine che
mi regala l’energia per continuare a lottare contro la voglia di
lasciarmi spegnere.
Poi toccava alla più grande il concedersi la mia voce, mi
chiedeva di leggergli ogni sera una storia diversa, ma quella
che più amava era “Il giro del mondo in 80 giorni”.
Quella notte la mia immagine riflessa nello specchio mi
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aveva turbato, non era la mia magrezza a farmi paura ma il
mio sguardo spento.
Ero sempre stata positiva, ero sempre riuscita a trovare il
modo di cavarmela in tante situazioni, anche le più difficili o
complicate. Mi ero innamorata di lui che sembrava aver bisogno di me, mi aveva fatto credere che ero il suo giusto incastro, la sua metà. Invece si era rivelato il pericolo più grande.
Era riuscito a fare di me il suo zerbino, il suo giocattolo.
Un uomo mai cresciuto, ma che non era stato mai bambino.
Passavo dall’essere il suo giocattolo all’essere il suo sostentamento economico semplicemente perché non aveva voglia di
lavorare. Io ero ipnotizzata dalla mia spada di Damocle, più
mi feriva e più mi stringevo a lei, tanto da sentirmi perversa!
Odiavo quella sensazione di dipendenza da lui.
Non era capace di darmi quelle sicurezze che volevo, da
quella affettiva a quella morale.
Fingevo di non vedere, di non capire le tante amanti che
allietavano le sue giornate, mentre io morivo. Mi aveva riso
in faccia quando gli dissi che avevo capito tutto, che non ero
stupida.
La cosa che però mi feriva nel profondo era la sua incapacità di stabilire quel legame forte che ogni padre crea con le sue
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figlie. Mi sembrava più uno zio che un padre, uno zio lontano.
Potevo fare di me ciò che volevo, ma ero responsabile della
vita delle mie figlie e non potevo fare questo alle mie bambine.
Pensai con rammarico che un divorzio non sarebbe stata una
tragedia,già,per una come me che crede nei valori sembrava uno
squarcio nel profondo dei miei ideali, ma la tragedia più grande
sarebbe stato insegnare alle mie figlie cose sbagliate sull’amore.
Quella notte di fine febbraio la ricordo bene, era il 24, fu l’ultima volta che mi guardai schifata nello specchio della mia
camera.
Quella notte lui non rientra, non era la prima ma fu l’ultima.
Sono passati molti anni da quella notte, tanto ancora ho da
recuperare di me, non sono più quella che ero prima di lui ma
non sono più quella che ero diventata per lui, ho trovato una
nuova me.
Ora sono forte di me, mi sono ricostruita la mia sicurezza
interiore, fiera di fare da padre e da madre, impavida a tentare
di realizzare sogni.
Rido, piango, vivo e non ho rimpianti, perchè quel 24 di
febbraio io mi sono fermata e ho cominciato a vivere!
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Davide Cimarosti
La mia storia e le mie passioni
Ciao a tutti,
mi chiamo Davide Cimarosti e ho 36 anni e abito da 9 anni
in Friuli dove aver abitato prima in provincia di Milano.
Sono nato prematuro e sono stato in culla termica con l’ossigeno ma dopo grazie all’aiuto di mia mamma mi sono ristabilito perchè mi ha insegnato ad usare la gambe e le braccia.
Nel lontano 1980 sono stato il primo bambino ad essere
stato operato con il laser a eccinmeri e ho acquistato la vista
da un occhio (ora faccio la “ginnastica visiva” e vedo bene).
Ho fatto una tremenda depressione tre anni fa e ne sono
uscito grazie all’aiuto di una psicologa e successivamente grazie alla conoscenza di una super amica, Sonia.
Grazie a lei ho tifato Udinese di nuovo. E poi mi ha fatto
conoscere Clauzetto, in cui quando vado sù (ormai conosco
tutti) mi rilasso e mi reintepro.
Passiamo alle mie passioni
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Grazie all’aiuto di mia mamma cucio nonostante i problemi di vista.
Realizzo porta smartphone segnalibri sacchettini porta lavanda e ho scoperto il pirografo, che realizzo madonnine su
legno.
Oltre a Clauzetto, cerco di fare lavori (e ne ho tanti) e mi
tengono occupato.
Risolvo piccoli problemi di pc (faccio inoltre pdf sulle principali manifestazioni in Friuli Venezia Giulia) e cerco di fare
conoscere la mia Regione fuori dalla Regione.
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Cristina Gaiardelli
Rinascita
Un passaggio in auto per raggiungere la Metro dopo un
seminario su una qualche tematica di “crescita personale”, argomento che mi stava appartenendo sempre più.
Da qualche tempo... noi, creature viventi sulla faccia della
Terra, dovevamo essere, molto di più che un “sistema fisico”,
eravamo uniti e parte di qualcosa di molto più grande, non
eravamo compartimenti stagni.
Per questo stavo frequentando Corsi e Scuole riguardanti
l’olismo, avevo già diverse specializzazioni al mio attivo.
Quel pomeriggio, con le due ragazze che mi avevano offerto il passaggio, parlavamo del più e del meno delle nostre
esperienze in merito, quando una di loro mi chiede se conosco una certa forma di “Benedizione” indiana diffusa in
Italia da un “Risvegliato”, dicendomi che loro avevano già
assistito ad una conferenza, ed era stata un’esperienza indescrivibile. Bene.
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Nei giorni che seguirono, sembra riprendere tutto normalmente, nella mia vita. Ma dopo qualche tempo, un impulso
irrefrenabile mi porta a cercare informazioni su quello che
avevo ascoltato.
Cerco e... trovo il luogo della mia città dove avrei potuto sapere di più. Mi presento. Oasi di pace nel caos cittadino... musiche orientali in sottofondo, persone sorridenti,
sommesse, accoglienti mi guidano in una grande stanza dove
numerose persone sedute su cuscini o sdraiate, ad occhi chiusi, stanno in ascolto. In attesa... e poi accade. Ecco le prime
persone speciali. Che mi aprono un mondo nuovo e antico, la
conferma di quello che pensavo da sempre.
Da la in poi, un’Energia prorompente e corroborante mi
porta ad andare ancora avanti nell’imparare a conoscere me
stessa.
Sulla mia strada altre persone speciali che mi aiutano a sistemare altri tasselli, poi i due viaggi in India che, attraverso
un profondo lavoro interiore, non privo di grandi emozioni,
forti, di dolore altrettanto forte, e di Gioia piena, portano alla
“me” di adesso, sempre in cammino verso la vera Anima.
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Luciana Zangheratti
Cosa mi guidaron le stelle
Il coraggio nella vita
La mia vita è un binario morto.
È un treno che sfreccia.
È un treno che lento fa la sua corsa.
È un treno che rischia di deragliare.
È un solido treno e non pua, non può deragliare!
Quanta strada deve fare...
non sa dove andare... ma vuole arrivare
Erano gli anni ‘80 ed ero nel fiore della vita quando scrissi
queste parole. Mi sentivo profondamente smarrita, (un po’
come Dante nella selva oscura) ma nel cuore c’era la speranza
di realizzare una vita piena.
Perchè scrivere un libro sulla mia vita? C’è forse un qualcosa
che potrà essereinteressante per voi che leggerete? Si, forse si.
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Ed è il coraggio che ho sempre avuto. Il coraggio di cambiare,
di non adagiarmi, di non accontentarmi. Di soddisfare quel
desiderio della mia anima che voleva essere se stessa. Fare ciò
per cui era venuta in questo mondo. M’interrogavo spesso e
dialogavo con lei scrivendo.
“Dal momento che vivo, cosa voglio farne di questa vita?
Non mi sono mai chiesta veramente come volessi spendere
questo tempo. Forse solo adesso ho la maturità per farlo. Al
momento è come se tenessi un vestito nell’armadio: invecchia
senza che me lo sia goduto. Se vado avanti così a cinquant’anni
sarò cosa disperata e angosciata da pensare al suicidio. Sento
proprio che la sto sprecando la mia vita.
Visto che esisto, voglio proprio arrivare a goderla questa vita, ecco l’unico scopo che ha il nostro vivere. Godersi la vita vuol dire essere soddisfatti di ciò che si fa.
A cosa serve un fiore? Il fiore è bello. Quando lo guardo e mi
piace, il fiore ha motivo di esistere. Poi, sempre il fiore, lascia
cadere i suoi semi perchè altri fiori esistano ed altre persone
possano gioirne.
Io, da parte mia, per essere soddisfatta di me, vorrei avere
questi pensieri ogni giorno, lo stimolo cioè a migliorare.
Se solo riuscissi a capire anima mia, come utilizzare il mio
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tempo, queste benedette ore di lavoro! Non trovo nessun lavoro che mi interessi veramente! Che mi faccia sentire utile.
Cosa vuol dire per me “sentirmi utile?”
Mi vien da pensare che solo trasmettendo qualcosa agli altri
mi sentirei utile. Per esempio se avessi fatto la maestra, forse
cosa mi sentirei realizzata. Ma ormai! Mi piacerebbe allietare
gli altri con delle cose che escono da me. Dovrei fare l’artista?
Cosa potrei trasmettere? Su forza, se c’è qualcosa tiralo fuori!
Forse i tempi non sono ancora maturi. Calma.
Sono passati due anni dagli scritti precedenti, ma quei pensieri valgono tutt’ora.
Ho letto una frase su di un libro di yoga che mi ha molto
colpita:
“Come il burro è nascosto nel latte, cosa la luce ed il potere sono
nascosti dentro questo corpo”
Vorrei tanto vedere un po’ di luce, questa luce sopita dentro
me, questa non chiarezza.
In questo momento mi si è acceso un lumino, che posso
alimentare (se voglio) o lasciar spegnere.
Io sono. Io sono tutto. Sono sensibilità, fragilità, gioia, in-
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nocenza, tristezza. Sono fatta da mille cose che al di là, o meglio, dentro il mio corpo fanno si che io esista. Esisto e non
me ne stavo accorgendo. La mia essenza mi piace. La devo
curare questa essenza. È un po’ “malata”, le manca il nutriente
più importante: l’amore! Ma arriverà!
Un altro giorno è passato, con tanto frastuono che in parte
mi assorbe, ma non sono mancati momenti in cui ho cercato
un io migliore. Domani farò meglio. Buonanotte.
Ricordo quella sensazione intensa d’insoddisfazione nel
fare un lavoro per cui sentivo di non essere nata: la commessa. Ogni giorno mi dicevo che non sarei più stata in grado di
continuare cosa. Nelle pause pranzo mi dedicavo del tempo
per rilassarmi frequentando un corso di yoga. Non potevo immaginare quali risvolti avrebbe avuto quel corso nella
mia vita!
Un bel mattino mi svegliai completamente fuori uso. Il collo era come un pezzo di legno e non potevo muovermi. Dopo
qualche ora riuscii ad alzarmi, presi il telefono ed avvisai la
titolare del famoso negozio di intimo in cui lavoravo che quel
giorno non sarei andata e che dopo Natale (eravamo in ottobre) mi sarei licenziata. Così feci.
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La forza di quel gesto mise in moto il cambiamento della
mia vita. Avevo 27 anni.
Ebbi la fortuna di crescere in una famiglia “normale” Nacqui terzogenita. Tutto accadde dopo. Dopo essermi sposata a
ventuno anni e separata a ventisei.
Dopo le medie, non sapendo verso quali studi orientarmi,
frequentai un triennio di grafica pubblicitaria, anche se con
poca convinzione. Non sapevo che anche questo mi sarebbe
poi servito per realizzare quello per cui ora vivo. La Vita sa
sempre ciò che fa! Nulla avviene per caso!
Ma torniamo al momento del licenziamento.
In quel periodo vivevo sola e avevo anche il mutuo della casa da pagare. Dopo l’avventata decisione, confesso che
sbattei la testa contro il muro per un po’ e dopo qualche giorno, magicamente, un mio compagno di un corso shatzu, che
frequentavo da alcuni anni, mi propose di lavorare per la sua
ditta come rappresentante di prodotti per informatica.
L’argomento mi era alquanto ostico, ma ingranai da subito.
Dopo alcuni mesi di sfruttamento intenso, mi resi conto di
essere in “rosso” e di non farcela più.
Mi licenziai nuovamente e riprovai presso un’altra ditta.
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Questa volta, da vera leonessa, pretesi un fisso mensile, che
mi fu accordato. Ma a che prezzo! Io e gli altri rappresentanti
venivamo obbligati a comportarci come mendicanti. Supplicavamo i clienti ad acquistare per non subire le ire del titolare.
Una mattina rimasi a casa, col cappotto e la valigetta in
mano, seduta sul divano, incapace di uscire per andare in ufficio prima e dai clienti dopo. Mi chiama il titolare non vedendomi arrivare. Dissi solo” mi licenzio”.
Non poteva essere questa la mia preziosa vita. Di nuovo a
casa, sempre sola e senza un soldo.
Intanto avevo iniziato da un po’ di tempo altro corso, (ne ho
fatti davvero tanti!) un corso motivazionale.
Uno degli esercizi consisteva nello scrivere una lettera (che
poi fecero leggere ad alta voce) in cui dovevamo esprimere
cosa avremmo voluto fare per sentirci realizzati.
Io scrissi, in sostanza, che avrei voluto trasmettere qualcosa
agli altri per farli stare meglio con se stessi.
Un mio compagno si avvicina e mi disse che un suo amico
aveva appena aperto un centro benessere dove si faceva anche
shatzu.
Mi disse di provare ad andare e presentarmi a nome suo.
Detto fatto il giorno dopo andai e, con non poche difficoltà,
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io e il mio nuovo titolare iniziammo quest’avventura. Non lo
sapevo, ma la Vita mi stava preparando per l’attività per cui
ora vivo. Dovetti occuparmi del centro, accogliere le persone
e fare i trattamenti shatzu.
Gli proposi d’impostare anche un corso di yoga, io lo frequentavo da tempo ed ero sicura che avrebbe avuto successo
al centro. Accettò. L’insegnante ogni tanto era assente e il
mio titolare mi chiedeva ogni volta di sostituirla.
Al termine delle lezioni a cui anche lui partecipava, mi diceva: “tu diventerai una brava insegnante di yoga”. Io rispondevo
dicendo: “Ma cosa dici! Non credo proprio di esserne all’altezza!”
Invece... ebbe ragione lui!
E la Luce fu! È tutto molto chiaro, molto luminoso ora!
Rileggendo gli scritti precedenti mi rendo conto dei passi
avanti che ho fatto nella percezione di ciò che la mia anima voleva realizzare: se prima erano solo percezioni lievi, ora
sono certezze: è l’aspetto spirituale della vita che dopo aver
risvegliato in me, vorrei trasmettere agli altri!
Lo yoga, a poco a poco, entra nella mia vita, anche come lavoro. Un lavoro che è missione. Che mi coinvolge a 360°. Che
mi consente di esprimere tutta la mia creatività e maternità.
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Frequentai diversi corsi di formazione e mi diplomai.
Nel 94 con alcuni amici creai l’associazione “Ananda yoga.”
Il nostro “Nido di silenzio”. Un luogo essenziale ed accogliente dove prendersi cura di sé, come dice il nostro sito.
Già, perché la scuola di grafica mi è servita e non solo per
il sito, ma anche per tutti i volantini e le locandine che ogni
anno facciamo per farci conoscere! Siete d’accordo allora che
niente capita a caso?
Non sono più sola e questa è un’altra bella storia che merita
di essere raccontata perchè di nuovo frutto del mio coraggio.
Ma questa è un’altra storia...
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Maria Sofia Garrasi
Corri per non bagnarti
e tutto cambia
A 54 anni la mia vita aveva assunto toni molto grigi.
Dopo vari problemi di salute e familiari, avevo deciso di
tornare alla mia vita da casalinga e chiudere con i lavori precari, passando da una fabbrica all’altra.
Non che il lavoro non fosse stimolante per me, anzi, direi che
proprio il fatto di cambiarlo continuamente negli ultimi 10 anni,
mi aveva dato l’opportunità di conoscere sempre gente nuova e
mettermi in gioco con il mio spirito creativo e di relazione.
Eppure avevo scelto di stare a casa in compagnia dei miei
cagnolini, Margot e Lupin e di mio marito che era poco presente diviso tra il lavoro e le sue mille attività.
Sono una persona molto attiva e socievole, quella vita un
pò isolata mi stava portando alla depressione, troppi fantasmi
del passato mi assillavano, non c’era modo di sfuggirgli.
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Durante le lunghe camminate con i cani, mi ripetevo come
un mantra: “Ho bisogno di appassionarmi ancora, di quelle passioni che riempiono la vita e i pensieri!”
Non cercavo avventure amorose, come a volte accade in
queste situazioni, ma qualche cosa che mi desse nuovi stimoli.
In uno di questi mattini di passeggiata “meditativa”, mi sorprende la pioggia! Margot, Lupin, corriamo, corriamo a casa
o ci bagneremo!
Mio marito correva da quasi 30 anni, era anche dirigente di
una squadra podistica amatoriale, ma quelle poche volte che
avevo provato a praticare quello sport, avevo subito desistito,
impossibile andare oltre i 50 metri; sopraggiungevano i miei
problemi di asma, tachicardia e spossatezza infinita.
Quel giorno con i miei cagnolini,l ‘unica sensazione che
avevo avvertito era un senso di leggerezza e libertà, come se
potessi correre più veloce dei miei “fantasmi”, lasciarmi tutto
alle spalle!
Nei giorni a seguire, ripetei quell’esperienza, ormai cercavo
di rivivere quotidianamente quelle sensazioni che mi davano
adrenalina e serenità.
Dopo pochi giorni raccontai a mio marito delle mie corsette mattutine e del fatto che non avevo più problemi di asma
o stanchezza cronica; realizzammo che, avendo intrapreso da
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4 anni una dieta senza glutine (a 50 anni mi avevano diagnosticata celiaca), il mio fisico rispondeva positivamente all’attività fisica.
Grazie alla competenza sportiva di mio marito, dopo aver
fatto una visita da un medico sportivo, iniziai degli allenamenti seri che in capo a un anno mi portarono ad avere discrete soddisfazioni nelle gare amatoriali che si svolgevano la
domenica mattina.
La passione per la corsa mi ha dato quegli stimoli che cercavo, per uscire da un periodo di depressione, non ho più
sofferto di asma o tachicardia, mi ha fatto conoscere gente
nuova e un ambiente pieno di situazioni coinvolgenti.
Alla mia età sono consapevole che non andrò alle Olimpiadi, ma ho conquistato 2 volte il titolo di campionessa regionale su strada UISP della mia categoria e la soddisfazione di
andare sul podio ed essere premiata personalmente dal mio
idolo, Gelindo Bordin!
E da 3 anni sono il Presidente della mia società podistica,
un’associazione sportiva che nel 2017 farà 60 anni e che ha
iniziato alla carriera sportiva grandi nomi dell’atletica come
Maura Viceconte, campionessa europea di maratona nel 1994.
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Michela Monni
La felicità è nelle tue mani
Sono nata 35 anni fa in un paese isolato nel Sud Sardegna.
Fin da piccola ho sempre avuto una fantasia illimitata... E
non mi accontentavo mai della prima risposta negativa... ero
tenace e persistente... ottenevo ciò che desideravo sfoderando
le mie capacità persuasive.
A casa dei miei si respirava un clima ostile, litigi continui e
dialogo inesistente... si faceva attenzione a ciò che mancava.
Mio padre lavorava tutto il giorno, tutti i giorni, tutta la
vita, per non farci mancare nulla, ma ci mancava lui!
Mia madre, sola con tre figli. ci ha cresciuti in maniera leggera, donna creativa, socievole, disponibile.
Ho passato i primi 13 anni della mia vita a escogitare modi
per pianificare la fuga.
Allora appena uscita dalle scuole medie si poteva fare il libretto di lavoro all’ufficio di collocamento...
Era fantastico... iniziai a cercare un lavoro che potesse permettermi di coprire le mie esigenze.
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Lo trovai lontano da casa 40 km.
Baby sitter di due bellissimi bambini, in una famiglia fantastica nella città di Cagliari!
Credo che il Dono più grande che i miei genitori mi hanno
fatto, dopo il dono della Vita, sia stato permettermi di fare
quell’esperienza lavorativa lontano da casa.
Lavoravo tutta la settimana. Tornavo a casa col bus il venerdì sera e il lunedì nuovamente dai bambini.
Adoravo il mio lavoro!
Mentre mi divertivo a giocare e disegnare con loro, un giorno, Virginia, madre dei bambini, mi propose di iscrivermi al
liceo artistico.
Io ero titubante ma al tempo stesso tentata e chiesi a mia madre di accompagnarmi a visitare il liceo per valutare l’iscrizione.
Mia madre ha assecondato la mia richiesta e credo che fosse felice di vedermi serena, benchè soffrisse la mia mancanza.
Credo...
La prima persona che vidi in segreteria chiarì tutti i dubbi,
decisi in fretta.
Era alto, abbronzato, fisico scolpito, capelli lunghi e lisci, il
profumo, bhe, lo ricordo ancora.
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Come me, si iscriveva in quella scuola... Guardai mia madre
e le dissi: “Sarà mio”
Ahahahah... idee chiare!
Passa l’estate, molto in fretta, non vedevo l’ora di incontrarlo.
La mia più cara amica era satura di racconti... i miei sogni
la travolgevano.
Lo vidi finalmente, Era un amico di due miei compagni
di classe, feci il possibile per creare un contatto ma non fu
semplice. Ricordo che aveva tante fanciulle intorno, e naturalmente ne avevo anche io.
I nostri sguardi si incrociavano spesso.
Poi un giorno in maniera inaspettata, un incontro fugace
“vieni ti devo chiedere una cosa”. Un corridoio discreto, un classificatore su cui poggiarsi, visi che si avvicinano, il cuore come
un cavallo impazzito, il suo profumo nelle narici, e un grande
desiderio di stringerlo forte. Un bacio lungo, molto molto
emozionante. Quasi svenivo.
Da allora ho desiderato solo di vederlo e rivederlo ancora
ma le nostre strade si sono unite solo anni più tardi.
A 15 anni il mio lavoro come baby sitter continuava in un
altra famiglia meravigliosa di Cagliari. Guadagnavo abba-
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stanza bene per quei tempi, 800 mila lire d’estate e 400 d’inverno, quando adavo a scuola.
I bambini li adoravo, la loro famiglia pure, mi sentivo a casa.
Studiavo al liceo artistico, i prof li adoravo e loro erano molto comprensivi con me.
Frequentavo la 3 classe indirizzo Architettura.
Avevo consolidato il rapporto con tanti amici, adoravo vivere in citta, tornavo in paese il fine settimana e mi bastava
per sentire i soliti litigi di sempre.
1999: una rimpatriata tra amici e compagni di scuola. Eccolo lui la mia prima fiamma. Cesare
Abbiamo iniziato a frequentarci e impreziosire la nostra
storia.
Finiti gli studi, il lavoro si è intensificato.
Obiettivo principale costruirci casa e andare a vivere insieme!
Nel 2004 ci siamo sposati.
Nel 2006 è nata la nostra prima creatura.
Nel 2009 la seconda.
È stato bellissimo, anno dopo anno, conquistare una vita carica di emozioni e soddisfare le nostre ambizioni, poi... vuoto.
Io mamma giovane.
Imbruttita e confusa.
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Frustrata dalle faccende di vita quotidiana.
Il marito impegnato a lavoro, hobby sport, caccia pesca distrazioni varie.
Ed io a casa, lavoravo sporadicamente come animatrice per
bambini, e come rappresentante di cosmetici... ma non mi
bastava, avevo voglia di crescere, mi sentivo ancorata con i
piedi per terra e senza più stimoli, senza sogni e senza entusiasmo.
Forse perchè avevo già tutto nella mia vita?
Avevo desiderato e realizzato tutto?
Piangevo, a volte.
Ero nervosa e facevo sogni terribili.
Sognavo spesso di cadere dalle scale. Di picchiare le bambine, di sbattere la mia testa contro il muro ripetutamente
Non capivo cosa stesse succedendo, c’ero dentro! Alcune
amiche mi parlavano di ansia e depressione, io evitavo il discorso, non mi riconoscevo!
Avevo due bambine meravigliose, una famiglia splendida,
mio marito mi amava, Cosa mi mancava? Eppure.
Un pomeriggio di primavera nel 2010 ricevetti una e-mail.
Una di quelle tipo. Stanca della vita? Vorresti cambiare qualcosa ma non sai cosa? E già, era proprio cosi.
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Era subito disponibile un audio-corso di un formatore americano sconosciuto. Ho riflettuto una frazione di secondo e
ho chiesto poter scaricare il file. Lo ascolto dopo, pensai.
La sera poi messi tutti a letto. Ho ascoltato quel audio, cavoli!
Aveva visto tutta la mia vita questo, o cosa?
Parlava di me!
Qualche giorno dopo una bellissima persona del suo staff
italiano mi chiamò e mi informò di un seminario a Roma.
La mia risposta è stata semplicemente
“Roma? No ma io sto a Cagliari”
E lei. “Ci saranno persone da Israele”
Io: “Si vabbè ma quanto costa?”
Lei: “1000 euro circa”
Io: “Ma è tantissima roba”.
Lei: “I SOLDI SI RECUPERANO, IL TEMPO NO!
Bhe, credete che mi abbia convinta!?
Da quel giorno ho iniziato a cercare il modo per andare a
fare questa esperienza che si prospettava miracolosa.
Lasciare a casa marito e figlie di 1 e 4 anni,
Prendermi 4 giorni di tempo per me stessa e per sistemare
la mia testa, la mia vita!
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Il 24 giugno ero a Roma.
Con 7 mila persone almeno.
A lavorare solo su me stessa!
“UPW sprigiona il potere che è dentro di te”, il corso con uno
dei formatori più Super mega galattici della Storia, Anthony
Robbins!
Credo che sia stata in assoluto una delle esperienze più forti che ho sperimentato nella mia vita!
Sono tornata a casa da mio marito con un energia travolgente. Avevo capito tutto, avevo bisogno di fare dei cambiamenti immediati per ricostruire tutto!
E cosi dopo aver preso le dovute precauzioni abbiamo iniziato un cammino lungo e tortuoso, insieme!
Riassestare un vulcano non è semplice!
Il primo anno è stato devastante, io ero incontenibile, ho
cambiato le mie abitudini.
Volevo una salute perfetta, fare sport, ho cambiato l’alimentazione, successivamente ho eliminato le proteine animali, ho
rivoluzionato le nostre giornate, naturalmente questi cambiamenti hanno destabilizzato mio marito.
Ma un corso con Robbins, l’anno successivo, a Rimini e un
percorso completo tra Los Angeles e Brighton, bhe ci hanno
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riallineati alla grande!
Abbiamo comprato una casa in campagna e l’abbiamo restaurata.
Mio marito ha realizzato un sogno, tirato fuori un manoscritto dal cassetto ha pubblicato il suo primo romanzo nel 2013.
Abbiamo fatto decine di presentazioni e venduto centinaia
di copie.
Ci diamo trasferiti in campagna e le bambine sono cresciute nella natura a contatto con gli animali.
Il mio lavoro è migliorato incredibilmente, i fatturati della
mia squadra sono cresciuti del 60% e ogni anno sono sempre
in incremento.
Ora sono passati 6 anni.
Credo con estrema convinzione di dover ringraziare quel
momento in cui la sincronicità del tutto mi ha fatto prendere
la decisione di agire e prendermi quei 4 giorni per me.
La formazione personale è l’unico investimento proficuo
che garantisce frutti a lungo termine!
Consiglio a tutti di credere nelle proprie capacità! Crederci
e avere fede. Siamo esseri unici e speciali!
W La Vita!
FERMATI,
RICOMINCIA
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Neva Pessina
Fermati e respira
Era tutto sotto controllo. Avevo un posto di lavoro a tempo indeterminato, come impiegata in una multinazionale. E
durante il fine settimana, mi occupavo dell’attività di famiglia
per aiutare mio padre. Riuscivo a gestire una vita da lavoratrice
dipendente pendolare - con partenza alle 5 del mattino e rientro alle 20 - e una da “imprenditrice”. Impegno 365 giorni
l’anno. Responsabilità familiari varie e importanti.
Le mie giornate iniziavano con antinfiammatori e integratori. Ma, in qualche modo, arrivavo comunque a sera con la
certezza che la mia vita non potesse prescindere dai pesi che
dovevo sostenere.
Il giorno in cui il mio corpo decise di mandarmi un segnale
inequivocabile lo ricordo bene.
Stavo camminando e, d’un tratto, le mie ginocchia si rifiutarono di farmi proseguire. Dolori lancinanti e mancanza di
forza mi tormentavano giorno e notte. Dovetti rinunciare al
mio lavoro di impiegata. Ma continuai a portare avanti l’at-
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tività di famiglia. La pensione di mio padre dipendeva da
quella. Ed era mio dovere morale portare tutto a termine e
raggiungere l’obiettivo.
Il pellegrinaggio negli ospedali fu, per molti mesi, sterile ed
estenuante. Fino a quando giunsi alla diagnosi di fibromialgia.
Era giunto il momento di fermarsi e respirare. Ricominciare a camminare, poco per volta. E iniziare a pensare a ciò che
desideravo veramente fare della mia vita.
Il percorso di recupero è stato lungo e pieno di cadute. Iniziare a camminare cinque minuti per volta, poi dieci, poi ancora cinque. Nel frattempo, arriva la pensione di mio padre
e la chiusura dell’attività. Così iniziai a frequentare corsi di
massaggio e scuole di ayurveda.
Presi il diploma di operatore ayurvedico. Piansi quel giorno.
Era la mia rivincita su tutte le privazioni. Era la mia nuova
vita.
Ricordo ancora la gioia che scorreva nel mio corpo nel portare a termine un massaggio, nonostante i limiti che il mio
corpo continuava ad impormi. Il benessere che riuscivo a
trasmettere ad un altra persona, nutriva il mio corpo e i miei
pensieri di speranza.
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Con molta pazienza, dopo qualche anno, riuscii a fondare
un circolo culturale, affiliato ad Arci Natura, per la diffusione
delle discipline olistiche.
Per aiutare qualcuno a sentirsi bene e a ritrovare il proprio
benessere è indispensabile svolgere un lavoro su se stessi. È
un percorso costante, spesso in salita. Ma la gratificazione è
impagabile e indescrivibile.
La professione di operatore olistico, nell’assenza di regolamentazione legislativa e nella giungla di impedimenti e scappatoie, è abbastanza tormentata. È sempre difficile mantenersi aggiornati (i corsi sono sempre molto cari) e complicato far
comprendere che il proprio operato non deve essere considerato
alternativo alla medicina convenzionale, bensì complementare.
Nel frattempo ho frequentato un master di counseling e
sto completando una formazione biennale in Nutrizione e
comportamento alimentare.
Con il trascorrere degli anni, ho imparato ad ascoltare le
mie mani ed il mio cuore. È sempre molto difficile mettere
d’accordo le energie fisiche di cui dispongo con gli obiettivi
lavorativi e le possibilità economiche.
Ma, ogni volta che mi fermo e faccio un bel respiro, sono
consapevole di aver fatto la scelta giusta.
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Giorgia Bocca
Vivere di natura
Una casa contadina, un bosco e l’amore per l’agricoltura e
l’ecologia, sono gli ingredienti fondamentali di questa storia
“vera” che coinvolge due donne che hanno deciso di mettere a
disposizione la loro vita e creatività per un progetto ecologico
agricolo e formativo nell’entroterra di Genova.
Tutto inizia quattro anni fa grazie ad una donazione da
parte di uno psichiatra di Torino, Angelo Grillo, che dona a
Francesca e Giorgia una casa contadina del 1900 conosciuta
dai locali con il nome “La tabacca”, così chiamata perché si
narra che nelle valli contrabbandavano il tabacco.
Sulle carte la casa ha un altro nome ma tutti la chiamano
con l’uso che se ne faceva un tempo e cosa è rimasto. La casa
è un dono anche dell’Universo che ha voluto premiare Giorgia e Francesca che dopo anni dedicati al cercare di ottenere
una casa in una valle sul mare, di proprietà di un marchese e
sostenute da una associazione ambientalista Terra! Onlus ne
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hanno fatto diventare un caso politico al fine di far emergere
una problematica attuale, ovvero la ricerca di terra per chi
vuole dedicare la vita all’agricoltura.
Dopo quattro anni di peripezie e colpi di scena e grazie
all’aiuto di diverse figure amiche riescono a risolvere problemi
di successione legati alla donazione e iniziano a recuperare la
memoria del luogo scoprendo che qui era vissuta una donna
“Geinnin” generosa e accogliente e trovano una lettera scritta
di una bambina nascosta in una cassa in una stalla.
Si ritrovano faccia a faccia con il proprio sogno, con una
casa contadina costruita in pietra che ha i segni della storia
agricola ligure, dove muretti a secco intinti della fatica e della
volontà di famiglie povere e generose sostenevano “fasce “di
terra che producevano cibo.
Donne in un bosco con una casa da ristrutturare un progetto ecologico da attivare, due cani e due gatti e un sogno quello di vivere di Natura dove l’anima delle persone s’incontra
con il silenzio del bosco e tutto fluisce in modo armonico.
Questo è quello che si ritrova in questo progetto dove un
gruppo di donne sperimenta la propria “resilienza” in un momento storico dove appare fondamentale rispondere ai cam-
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biamenti con creatività, per realizzare i propri sogni.
Un gruppo di persone che affronta le problematiche quotidiane trovando soluzione innovative, in grado di contaminare le famiglie della valle vicina e riuscendo a incidere anche
sulla politica locale.
Lo fanno rendendo il processo sostenibile con cura e con
ironia creando un modello nuovo in grado di ispirare tanti giovani che frequentano quotidianamente il luogo. Ci riescono perché nella “biodiversità umana” che stanno creando
tra il confronto con generazioni diverse, talenti inaspettati e
opportunità nuove, si nascondono soluzioni e risorse che difficilmente apparirebbero in un sistema lineare.
In un momento di crisi globale d’identità, e ambientale è
fondamentale promuovere stili di vita e innovazione in grado
di promuovere un cambiamento immediato nelle persone e
nella comunità.
Giorgia e Francesca utilizzano la biodiversità come strategia per aumentare la resilienza e affrontare le problematiche
non solo al fine di costruire la propria comunità ma soprattutto per favorire soluzioni applicabili in altri contesti.
Attraverso lo studio, il confronto con le istituzioni e il sostegno di un’associazione ambientalista, Terra!Onlus si vuole
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proporre un modello replicabile che può essere d’ispirazione
per costruire modelli di vita sostenibili e anche di filiere di
vendita locale partendo dall’azienda agricola, non solo come
impresa economica ma come attivatore di pratiche virtuose.
Il lavoro costante di dialogo con l’amministrazione e la politica sono fondamentali per cambiare il paradigma attuale e
costruire nuovi immaginari.
Il progetto della Tabacca è iniziato circa quattro anni fa e le
azioni e gli studi fatti sul luogo sono stati molti si sono aggiunte persone, volontari e amici.
Dopo un’attenta osservazione e ricerca storica del luogo il
gruppo ha lavorato sull’attivazione della piccola comunità che
vive vicino alla casa e ha dedicato tempo e cura all’inserimento delle persone nuove che in modo diverso si sono inserire
nel progetto.
Il risultato è che ora dopo quattro anni, i bambini del piccolo borgo frequentano con quotidianità La Tabacca e addirittura passano l’estate dormendo in tenda e partecipano alla
vita comunitaria.
Nel frattempo è stata costruita una piccola casetta in pietra
e legno che rappresenta l’abitazione di “transizione ecologica”
al fine di adattarsi da una vita urbana in città ad una in cam-
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pagna in un bosco.
È stato costruito un forno in terra cruda a forma di lumaca
che garantisce il pane e le pizze ogni venerdì che è anche aperto al piccolo borgo.
Sono stati costruiti degli impianti di fitodepurazione che
sono in grado di depurare l’acqua grigia utilizzando le radici
delle piante.
Sono stati installati due impianti per avere la luce elettrica e
l’acqua calda, costruito con gruppi di scout durante un corso
di formazione.
Si è dato valore alla sperimentazione come strumento di
studio e applicazione per fare formazione e auto formarsi.
Una formazione partecipata basata non solo sulla teoria ma
sull’azione e sulla pratica. Sono stati realizzati orti in agricoltura sinergica che hanno l’obiettivo di mantenere e sostenere la sostanza organica del terreno per garantire fertilità
alle piante.
Ogni orto, per questo, ha un nome: Occhio di rosa, Geinnin, orto Terrazzo. Ognuno con caratteristiche diverse e sono
il sostentamento del gruppo.
Si è iniziato a distribuire le eccedenze e sperimentare la vendita attivando piccole filiere di “mangiatori” che sostengono,
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La Tabacca cercando di mettere in contatto la città limitrofa
all’azienda agricola.
Sono stati attivati dei percorsi di formazione e diversi inserimenti sociali con persone svantaggiati, realizzato attività
e campeggi sul medioevo, feste, canzoni e incontri di divulgazione.
Sono state coinvolto le famiglie della valle e instaurato rapporti di scambio e di aiuto, risolto conflitti e sono nate storie
d’ amore.
È stata montata una yurta in un bosco e iniziato un percorso insieme con il Comune per modificare normative riguardanti la fitodepurazione e l’impianto del compost toilet per
garantire a chi ne farà richiesta la possibilità di scegliere e
attivare, per la propria casa, sistemi ecologici. Sono iniziati i
lavori per realizzare il tetto utilizzando materiali locali e anche da recupero; verranno utilizzati, infatti, anche barattoli di
vetro per il drenaggio della casa: una nuova sperimentazione
replicabile anche per altri.
Francesca e Giorgia stanno coronando il loro sogno in un
bosco, vivere di e per Natura.
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Francesca Dellamore
Arno
Arno è diventato il mio angelo con la coda nel luglio 2014.
A dicembre, sfruttando un piccolo spazio all’interno dell’albergo di famiglia, ho dato il suo nome al mio negozio di cosmetici eco-biologici, borse e scarpe in materiali alternativi
alla pelle, oggettistica di chi produce con amore per l’ambiente, tutto Made in Italy.
Qualche mese dopo ho investito nell’acquisto del dominio
www.arno.it (finalmente, qualche mese fa ho conosciuto una
splendida web designer veg, che sta creando il mio e-commerce).
All’epoca non avevo ancora abbastanza coraggio per lasciare il mio lavoro: ero cost controller e commerciale estero in
un’azienda che si occupa di trattamenti galvanici e verniciature, principalmente su accessori moda (il cliente più importante che seguivo era Louis Vuitton, che rappresenta l’esatto
opposto di ciò in cui io credo...).
Ma era Arno che fino ad allora mi aveva fatto sopportare
un lavoro in cui non mi riconoscevo ed una monotonia della
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quale nemmeno mi accorgevo, perché le mie giornate iniziavano e terminavano con lui e questo rendeva la mia vita
perfetta e felice.
A luglio 2015 mi sono licenziata (avevo un contratto a tempo indeterminato) e, dopo un periodo di ricerca, ho trovato
un bellissimo locale commerciale in una CasaClima a Sappada, un caratteristico paesino di montagna di origine austriaca,
a 12 km dal mio paese.
Nonostante le difficoltà, tengo molto a sviluppare il mio
progetto fra le “mie” montagne, perché ritengo che in mezzo
a questo ambiente sia più facile sentirsi vicini agli animali ed
alla natura, ed amarli.
Grazie ad Arno ho iniziato a guardare agli animali ed alla
natura con occhi diversi, diventando vegetariana, quasi vegana. Arno era il cane da caccia di mio zio, che io e mia madre
abbiamo “adottato” dopo che mio zio è mancato (in un incidente di caccia), trasformandolo (senza troppa fatica...) in un
cane da salotto. Arno è venuto a mancare a luglio 2014, all’età
di 15 anni e mezzo: il mio progetto è nato grazie a lui, perché
ho capito che non ha senso sprecare la nostra vita facendo
qualcosa che non ci piace e di cui non ci importa.
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Ovviamente Arno richiama più facilmente alla mente il fiume che bagna Firenze e questa coincidenza mi fa estremamente piacere perché ho abitato a Firenze due anni ed è la
città che amo di più perché credo che evochi perfettamente
l’italianità a cui tengo molto e perché, essendo la culla del
Rinascimento, evoca anche il concetto di rinnovamento, alla
base dei marchi che ricercano nuovi materiali per realizzare il
Made in Italy che tutto il mondo ammira.
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Antonella Proietti
QUESTIONE DI TEMPO
Il 27 giugno 2015 si è concluso il nostro laboratorio di lettura all’interno del carcere di Terni “Ora d’aria”. Nell’ottobre
2013 ha promosso un interessante corso aperto a tutta la cittadinanza per svolgere volontariato in carcere.
Ricordo che nonostante gli orari coincidessero perfettamente con quelli del mio lavoro, non esitai ad iscrivermi,
mossa da quella scintilla che era dentro di me da moltissimi
anni e che fu innescata da un’insegnate di lettere.
Quando avevo quindici anni, a scuola, facemmo un bellissimo lavoro di ricerca sulla delinquenza ed il carcere minorile.
Fu un lavoro illuminante che mi permise di capire il mio profondo interesse verso l’altro e soprattutto verso chi ha avuto
un destino sfavorevole.
Cosa mi appassionai a letture che mostravano un’adolescenza problematica, molto diversa dalla mia cosa tranquilla. Mi
dedicai a libri che trattavano temi di disagio, di difficoltà, di ri-
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bellione verso la società borghese (come si usava definirla negli
anni ‘70) oppure alla dura esistenza dei ragazzi di borgata.
Iniziai a leggere il libro “Ragazzi di vita” di Pierpaolo Pasolini, che divorai in pochi giorni, poi passai a temi di ribellione
ed opposizione politica, a Cesare Pavese ad Elio Vittorini, a
Kundera e a molti altri.
Da quel momento il mio punto di vista cambiò radicalmente
e da allora cercai sempre di sviluppare un’opinione personale
su fatti e persone, senza mai farmi convincere dai quei stereotipati e falsi luoghi comuni sul carcere e sui detenuti.
Il popolo Maya ha coniato un’interessante espressione per
salutare, “in lack’esch”, ossia io sono un altro te. In ogni approccio, incontro o scontro, dovremmo ricordare di essere di fronte ad un altro essere umano che ha molto in comune con noi,
un altro te stesso.
Ed è stato proprio questo pensiero che mi ha messo nella
condizione di incontrare i detenuti con molto rispetto, lo stesso rispetto che nutro per me stessa.
Tornando alla esperienza appena compiuta, ricordo perfettamente quando ci comunicarono che la Direzione del carcere
aveva accettato la proposta del laboratorio di lettura. Dalla
teoria si passa alla pratica.
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Una esperienza vergine per me. Il primo passo fu creare un
progetto. Ci mettemmo subito al lavoro cercando di analizzare un iter ed un obiettivo da percorrere.
Dopo qualche altro incontro con Federica, Emanuela e
Paola, eravamo pronti.
Alla vigilia della nostra prima entrata mi incontrai con Peter, Nicoletta ed Omar, preziosi “compagni di viaggio”.
Era sabato mattina ed eravamo al bar, di fronte ad un caffè.
Cosa, in quel preciso momento, inizia la nostra collaborazione
ad un progetto in cui tutti credevamo fermamente. Ognuno
di noi ha messo a disposizione le proprie abilità, le competenze, le idee e soprattutto la passione.
Paola, Federica ed Emanuela, ormai esperte di volontariato
in carcere, sono state i nostri navigatori.
A febbraio ci fu il nostro primo ingresso.
Ero molto emozionata, avrei incontrato per la prima volta i miei compagni di avventura. Mi lasciai percorrere dalle
emozioni, perché tutte le scelte e le proposte di lettura sarebbero scaturite da quelle sensazioni.
Era doveroso capire chi avevamo di fronte prima di proporre un racconto o brano tratto da un libro. Come far nascere la voglia di leggere e stimolare la loro curiosità?
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Federica ebbe un’idea che si è rivelata molto efficace durante l’iter del laboratorio. Utilizzare delle parole chiave su cui
basare le letture ed iniziare un percorso all’interno di argomenti stimolanti.
Ricordo che mi colpì molto, in quel primo incontro, il fatto
che tutti si presentarono annunciando il loro nome e cognome e aggiungendo gli anni di carcere che avevano già trascorso dentro il penitenziario.
Involontariamente ci avevano già suggerito un tema, infatti
una delle parole chiave scelte era proprio il TEMPO.
Il tempo ha scandito il nostro laboratorio, il tempo della
loro pena, il tempo concesso dalla Direzione del carcere per
incontrarci ogni sabato mattina, il nostro tempo dedicato a
loro, il tempo ancora necessario per raggiungere la libertà.
Non sono molte le persone a cui ho raccontato la mia esperienza, ma tra queste, il commento più frequente è stato:
“Quanto sei brava a dedicare il tuo tempo al volontariato!”.
Io vorrei rispondere a tutti, che questo tempo l’ho dedicato
soprattutto a me stessa.
Perché ogni nostro incontro è stato uno scambio di idee, di
emozioni, di gratitudine reciproca, di crescita e confronto. La
mia idea del carcere è totalmente cambiata, quell’idea che mi
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ero costruita con letture e film, quella distanza tra me ed un
penitenziario, tra me ed un detenuto. Quella distanza, attraverso la lettura e la condivisione, si è azzerata totalmente.
Spesso ho pensato a quei ragazzi, a quanto fosse lungo un
intero giorno da trascorrere in cella, a come impiegare tante
ore senza avere un lavoro, allo spazio ristretto a loro disposizione, alla mancanza di vita all’aria aperta e soprattutto a
come la loro giovinezza stesse svanendo. Quante possibilità
di incontri mancati, di esperienze non vissute, di speranze
soffocate?
È vero, sono dentro per scontare una pena. Lo so. Vorrei
ugualmente esprimere un mio personalissimo pensiero, scaturito da un’osservazione, non superficiale, durante i nostri
incontri.
In loro ho trovato la voglia di farci conoscere la loro parte
migliore, la voglia di riscatto, il desiderio di comunicare una
nuova identità. In fondo è la stessa cosa che fa ognuno di noi
quando si relaziona con persone nuove, mostra il lato migliore. Ma in questo caso, non era apparenza. In loro ho apprezzato la parte più vera, quella che si avvicina alla verità.
Come in un piacevole cammino, insieme abbiamo percorso
un sentiero che potesse dare ad ognuno la possibilità di esprimersi, di discutere e raccontarsi.
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Come un esploratore mi sono addentrata in nuove letture
per scegliere brani, racconti brevi, poesie e favole. Insieme ai
miei colleghi, ho condiviso e scambiato opinioni, selezionando ogni volta ciò che ci sembrava più interessante.
Partendo da Carver, con il racconto “La Cattedrale”, il cui
tema tratta proprio la diversità, il pregiudizio e la possibilità
di cambiare la visione dell’altro, il viaggio del laboratorio era
tracciato, non ci restava che percorrerlo.
Dopo qualche mese, molti di loro hanno chiesto di leggere romanzi d’amore. L’amore come sintesi dei loro desideri
e sogni. L’amore come riscatto dei loro errori, come unica
possibilità di ritrovare una nuova vita. Questo lato romantico
non mi ha sorpreso molto, anzi mi ha dato la misura della
loro umanità.
Partendo dalla parola tempo, di argomento in argomento siamo giunti alla fine del laboratorio, proponendo brani sull’ultimo argomento scelto: LIBERTA’.
Un tema molto difficile da affrontare per chi ne è privato.
Ma anche questa volta i ragazzi mi hanno insegnato molto.
La leggerezza con cui ne hanno parlato mi ha fatto provare lo
stesso imbarazzo che sento quando trascorro del tempo con
una carissima amica non vedente.
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Ormai ho capito che la sua cecità è uno dei tanti modi che
la vita ti concede di vivere, diverso certo, ma non per questo
preclude la possibilità di una vita degna di essere vissuta.
E la serenità dei ragazzi mi ha svelato che la libertà è dentro
di loro e l’attesa è solo questione di TEMPO.
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Ilaria Goffo
Io e la voglia di raccontarmi
Due anni fa circa, in estate, ero a casa, non potevo andare
in vacanza perché ero in disoccupazione estiva e non sapevo
dove e se avrei lavorato a settembre. Presa da un colpo di nervi, stanca di stressare i miei amici e i miei famigliari, ho preso
il pc e ho iniziato a scrivere di getto “Io ti vedo, nel buio della
precarietà”.
Premetto che non tutto capita per caso, una sorta di bella
magia, direi. Io avevo conosciuto, in un blog di scrittura a più
mani di storie per bambini, una scrittrice molto in gamba, la
quale mi aveva consigliato di provare prima o poi a scrivere
qualcosa di mio.
Dopo all’incirca un anno credo, dal momento in cui mi aveva instillato la curiosità, io ho preso il pc per scrivere. Ho
scritto tutto d’un fiato: alla fine mi sono messa a ballare in
camera da sola, ero la persona più felice del mondo. Ho preso
il file e l’ho inviato a questa persona, la quale una domenica
mattina, dopo averla letto, mi ha chiamato al telefono per
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dirmi: “Ilaria mi sono commossa, davvero, prova a stamparla,
hai scritto bene, trasmetti emozioni!”.
Dopo qualche mese mi sono messa a cercare una casa editrice
che mi stampasse il libro: ci sono riuscita, nonostante qualche sacrificio. Ho trovato una casa editrice che in modalità
selfpublishing ha stampato il mio piccolo grande libro. Dopo
la stampa, ho iniziato un “tour” di presentazioni nella mia
regione e fuori, in locali, biblioteche, InformaGiovani: è stata
un’esperienza molto bella e costruttiva. Ho conosciuto molte
persone, instaurato nuove relazioni e fondamentalmente sono
cambiata io: mi sono aperta al mondo, ho superato alcuni
miei limiti, insomma è stata una meravigliosa avventura.
Questo libro mi ha aperto delle porte, ora continuo a scrivere e spero di riprendere a fare presentazioni e di incontrare
persone nuove stimolanti.
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Vincenzo Di Bernardo
Il valore delle cose importanti
Tutto sembra correre alla velocità della luce e invece è tutto com’è
sempre stato. La giornata è lunga quanto quella di mille anni fa e
le cose veramente importanti sono rimaste le stesse di sempre.
Il giorno in cui facevo questa riflessione ero seduto davanti
al pc a preparare un corso di Psicologia del Successo che avrei
tenuto a Lugano qualche settimana dopo per un gruppo di
networker.
Mentre sistemavo le slides, diventava sempre più evidente il
mio modo di intendere il successo richiedeva una totale revisione del modo di vivere la propria esistenza e gestire il proprio tempo e che il classico modo di concepire il time-management, così riduttivo nelle sue categorie e così preminentemente orientato alla gestione del lavoro, non mi avrebbe
aiutato affatto nell’intento.
Per quanto paradossale potesse apparire, percepivo che nella concezione classica della gestione del tempo mancasse la
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cosa più essenziale di tutte: l’attenzione per le cose veramente
importanti.
Strano a dirsi, poiché l’obiettivo principe del time-management dovrebbe essere proprio orientato a questo, ma allora
perché dare importanza quasi esclusivamente all’aspetto lavorativo e trascurare gli altri ambiti aspetti essenziali dell’esistenza? D’altro canto si lavora per vivere, non si vive per lavorare. E il lavoro deve servire ad alimentare la qualità della
vita e darci la possibilità di viverla al meglio.
È stato da questo interrogativo che è nata l’idea di un nuovo modo di concepire il proprio tempo in funzione della vita
e non viceversa. Il Successo e il saperlo scorgere espandono la
consapevolezza e allarga il proprio campo di esperienze a tal
punto da rendere la vita come un respiro di aria pura in una
giornata di inizio estate sulla cima di un’alta montagna.
Il Successo, come lo intendo io, richiede il perseguimento
dell’Auto-realizzazione del Sè e non semplicemente dell’auto-affermazione di sè.
Si sente spesso dire che bisogna dare vita ai giorni e non
giorni alla vita. Io ne sono convintissimo, ma è davvero cosa
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semplice farlo?
La tecnologia ha facilitato tante cose: ha accorciato le distanze, ridotto i tempi di trasmissione dell’informazione, incrementato le possibilità di contatto a livello mondiale, mentre ha ridotto il tempo che dedichiamo alle cose veramente
importanti.
Non ci si ferma più! Non lo si fa mai veramente.
Ogni pausa è un’occasione per consultare lo smartphone,
postare una foto, rispondere a un messaggio, esprimere un
commento, condividere un post, incazzarsi per una notizia
poco gradita, dire la propria su qualsiasi cosa e sparare a zero
su qualcuno, senza neppure darsi il tempo sufficiente per riflettere prima di passare all’azione.
Il motivo apparente per cui lo si fa è quello di risparmiare
tempo, o almeno questo è l’alibi che ci si racconta. La realtà è
che si sta sprecando del tempo molto importante.
Il presente ci sfugge tra le dita come fa l’acqua del mare e
quel che è peggio è che ce ne rendiamo perfettamente conto.
C’è sempre troppo poco tempo per le cose davvero importanti. Al lavoro ci si dedica anima e cuore poiché ci si è
formati alla scuola del “l’importante è che si lavori”. Ci sono
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detti popolari come questo che di saggezza ne hanno davvero ben poca.
Oggi si ha la percezione di avere molti più “amici” di prima.
Io ho più di duemila amici su Facebook a cui non ho neanche
mai stretto la mano. Ci sono occhi che non ho mai visto neppure in foto, poiché quella del profilo è un gattino.
I social network hanno dato a tutti la possibilità di sentirsi
popolari, anche se nel proprio piccolo e si fa a gara a postare
frasi più ad effetto, in grado di raccogliere il maggior numero
di consensi in termini di “likes”. Tutto ciò sta modificando
l’uso che si fa del proprio tempo e soprattutto l’essere presenti
nel momento.
Ho creato Smapsy con l’intento di aiutare le persone a fermarsi e vivere. È un software di Self-Management e Social
Supporting Network che ci aiuta a dar valore alle cose veramente importanti. Smapsy ti ricorda che il tempo scorre e
che devi passare a fare altro se vuoi essere vivo.
L’idea che ha ispirato la nascita di Smapsy è stata quella di
una tecnologia al servizio della vita da condividere con gli altri.
Ci si registra gratuitamente tramite il sito www.smapsy.com e
si hanno a disposizione una moltitudine di utilità che possono
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aiutarci ad esprimere al massimo le nostre potenzialità.
C’è anche la possibilità di collegarsi con le persone che possono aiutarci a raggiungere i nostri obiettivi e che entreranno
a far faranno parte della nostra preziosissima rete di sostegno
sociale.
Una delle molteplici cose che è possibile fare con Smapsy è
quella di pianificare il proprio tempo considerando 7 macro-categorie essenziali: i Bisogni Primari, gli Affetti, le Relazioni, il
Lavoro, le Passioni, le Faccende e Commissioni, la Spiritualità.
Il modo migliore per dare la giusta attenzione a tutti questi
aspetti è pianificare. Lasciare tutto al caso oggi non è più possibile. Si rischia troppo di scivolare nella perdita di vita (più
che di tempo).
Oggi anche l’ozio va pianificato, in modo tale che sia proprio quello di una volta, cosa vitale e rigenerante. In questo
senso la pianificazione diventa un modo per ricordarsi di sè,
per fermarsi e pensare alla propria giornata come a un lasso
estremamente importante della propria intera esistenza. E la
vita non dovrebbe mai essere sprecata.
Friedrich Wilhelm Nietzsche ha detto che “se uno ha molto
da cacciarvi dentro, una giornata ha cento tasche”. Oggi, gra-
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zie all’enorme progresso tecnologico, dovremmo avere tanto
tempo per fare molte più cose, eppure lo utilizziamo per fare
sempre le stesse, comprese quelle che hanno poco valore e
nessuna importanza.
Nella concezione di Smapsy il tempo da dedicare a ciascuna delle 7 macro-categorie va bilanciato settimanalmente, in
modo tale che nessuna di esse vada mai trascurata.
La prima tra tutte è quella relativa ai Bisogni Primari, nella
quale rientrano momenti importantissimi per la qualità della
nostra esistenza: l’alimentazione, il sonno e il riposo.
Di solito questa categoria viene data per scontata nel classico time-management. Sembrerebbe del tutto inutile pianificare le ore della giornata da dedicare a questi eventi vitali,
ma a ben vedere non lo è affatto. Mangiare un panino al volo
mentre si legge il giornale, prendere un caffè veloce mentre
si consulta la propria pagina Facebook, “rilassarsi” rispondendo ai messaggi su WhatsApp e addormentarsi solo dopo
lo spettacolo televisivo di terza serata è diventata la prassi e
non l’eccezione.
Sembrano tante azioni innocenti e innocue eppure è proprio in queste cattive abitudini che si annidano le trappole
dello stress cronico e dei disturbi alimentari. Pianificare i pro-
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pri Bisogni Primari è un modo per ridare la dignità a questi
aspetti essenziali della nostra esistenza e avvicinarci di più a
noi stessi. È questo un modo per fermarci, essere presenti,
rallentare il tempo, vivere più intensamente e rigenerarci.
Gli Affetti vanno coltivati. Ho notato che solo pianificando il mio tempo riesco a fare una visita a mia nonna paterna
(l’unica rimasta ancora in vita), alle mie zie e addirittura a mia
madre. Con gli amici riesco a trascorrere più tempo, complice
anche la condivisione degli hobby.
Sono avvantaggiato perché vivo in un piccolo paese, che
mi ha aiutato a rallentare i ritmi. Ma quando sono in viaggio
devo pianificare accuratamente le mie visite se voglio dedicare
del tempo di qualità alle persone che amo (amici e parenti)
che sono sparse per l’Italia.
Conosco persone che vedono il proprio partner qualche ora
nel fine settimana, pur vivendo nello stesso paese. Sono troppo prese da altri impegni per viversi profondamente l’amore e
si limitano a mantenere il contatto via chat o tramite telefono.
Il tempo delle Relazioni Sociali e quello degli Affetti
vanno alimentati. Il rapporto con gli altri ci arricchisce. Ci
sono chiacchierate che non possono essere esaurite in un
paio di minuti e visite che potremmo non riuscire a fare più
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domani, perché alcuni nostri cari sono avanti con gli anni e
poi ciò che ci riserva il futuro è imprevedibile per ciascuno
di noi.
Il Lavoro va organizzato. Conosco liberi professionisti e
imprenditori che lavorano 24 ore su 24. Non staccano mai,
neanche durante una cena tra amici: ora inviano una e-mail,
ora li vedi assorti nei loro pensieri, ora sono al telefono con
un collaboratore o un cliente. Di fermarsi davvero non se ne
parla neppure. Li capisco benissimo. Sono stato anch’io uno
di loro. Non li giudico, so quanto sia difficile fermarsi, mi
limito a suggerire loro di iscriversi gratuitamente a Smapsy e
di usarlo quotidianamente.
L’appuntamento con l’avvocato o il commercialista, quello
per spedire un pacco o pagare una bolletta alla posta, il tempo per fare la spesa o riordinare l’armadio, quello per inviare
le email, prenotare un volo, archiviare i documenti e cose del
genere sono tutte azioni che rientrano nella macro-categoria
Faccende e Commissioni e come tali vanno anch’esse pianificate, per non rischiare di farle “quando capita” e togliere
tempo ad altre cose importanti.
Molte di queste occupazioni rosicchiano abitualmente tempo ai Bisogni Primari, agli Affetti, alle Relazioni, alle Passioni
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e alla Spiritualità. Fare una buona pianificazione è in tal senso molto vantaggio e rende tutto più semplice.
Le Passioni riguardano lo svago, il divertimento, lo sport,
l’arte, la lettura; in termini più generici: gli hobbies. È quel
tempo che rende la vita più piacevole da vivere. Le Passioni
sono il nutrimento dell’anima e il sorriso del corpo. Senza
di esse ci si raggela, sia fisicamente che emotivamente. È un
rischio troppo grande da correre.
Dulcis in fundo lo spirito. Qualcuno trova durante il giorno
pochi minuti da dedicare alla preghiera e un’ora nel giorno festivo da dedicare al culto, altri non curano affatto questo aspetto.
La Spiritualità è di tutti, anche degli atei. Non ha nulla a
che vedere con la religiosità. Ognuno ci si dedica come meglio
crede. Anche il contemplare la bellezza di un fiore tra le rocce,
il fermarsi a riflettere su di sé e sulla vita, il respirare consapevolmente e gioire del momento presente è Spiritualità. Senza
questo tempo perdiamo l’essenza di chi siamo veramente.
Sono del parere che l’essere umano debba esprimere la propria umanità usando la mente com’è capace di fare, altrimenti
si sta vivendo da animali, il che è indegno nei confronti del
mondo, poiché loro quel tipo di vita sanno farla molto meglio
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di noi, in quanto esprimono in maniera naturale il massimo
del loro potenziale evolutivo.
Ciò che ci distingue dagli altri esseri viventi presenti sulla
Terra è la nostra capacità creativa. Con essa riusciamo a immaginare, progettare, pianificare, decidere e ragionare. Possiamo farlo grazie alla corteccia prefrontale, che è la parte del
cervello che caratterizza noi esseri umani e che ci fa asserire
di essere gli esseri più evoluti del pianeta.
C’è uno svantaggio, tuttavia. Queste capacità non vengono
espresse nella loro pienezza in maniera automatica. Richiedono molto esercizio. Ciascuno di noi dovrebbe dedicarvici
con dedizione durante l’intera vita.
Il pensiero è automatico. Pensiamo anche se non vogliamo
farlo. Fermare i pensieri richiede un lungo e metodico training. Ragionare è molto diverso. Per farlo bisogna fermarsi,
farsi delle domande, cercare connessioni tra le idee e poi attendere che un’intuizione connetti il tutto e faccia sorgere la
luce della della consapevolezza.
Ogni giorno abbiamo la possibilità di fare un passo avanti
nell’espressione della nostra umanità, nel modo più autentico
possibile. Come esseri umani abbiamo la possibilità e quindi
la responsabilità di farlo. È un atto dovuto a noi stessi, agli
altri e alla Vita.
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Ideando Smapsy ho cercato di contribuire, nel mio piccolo,
alla creazione di uno strumento che possa facilitare il proprio
percorso evolutivo. È solo uno strumento, ma se è ben utilizzato può fornire spunti inesauribili e vantaggi tangibili. Io lo
definisco il mio Buddy, un coach che mi ricorda cos’è il vero
Successo (vivere da Esseri Umani) e come fare per perseguirlo
giorno dopo giorno.
Ci sono voluti più di tre anni per mettere a punto il progetto
e realizzarlo. Ora è disponibile nella versione beta, utilizzabile da tutti i supporti fissi e mobili. Presto sarà anche un’app
per smartphone, una di quelle che mi auguro possano contribuire a dare nuova linfa alla vita e a sussurrare alle orecchie
della nostra anima un messaggio autentico e profondissimo:
Fermati e Vivi!
ringraziamenti
Grazie a tutti coloro che hanno realizzato questo Ebook con le loro storie,
a te che le stai leggendo, a tutte le persone che ti ascolteranno quando ne parlerai.
Ogni volta che puoi: fermati, ascolta, racconta, vivi!
Agnese Albertini
Stefano Leo
Teresa Angelico
Gianfranco Marinari
Giorgia Bocca
Mirella Merino
Italia Bianchetelli
Danilo Maruca
Marie Christine Bodein
Michela Monni
Rosalba Butera
Edi Morini
Carlotta Bonadonna
Secondo Monti
Davide Cimarosti
Cenio Ogliastra
Paolo De Gregorio
Neva Pessina
Budau Daniela
Francesca Dellamore
Vincenzo Di Bernardo
Eva Peddio
Ornella Petrocelli
Antonella Proietti
Nicoletta Di Marco
Antonella Salamone
Cristina Gaiardelli
Franca Scarpellini
Eltore Elica
Romano Sartori
Giovanni Gamberini
Beatrice Toccacieli
Ilaria Goffo
Luciana Zangheratti
Maria Sofia Garrasi
Luca Vivan
www.fermativivi.it