Tutti i colori del noir

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Tutti i colori del noir
i quaderni del cineforum
TUTTI
I COLORI
DEL
26
NOIR
contaminazioni di un genere
DI
C LAUDIO C ASAZZA
E
M ARCELLO P ERUCCA
CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA
viale Monza 140 - MIlano - MM1 «Turro»
www.cineforumdelcircolo.it
[email protected]
TUTTI
I COLORI
DEL
NOIR
contaminazioni di un genere
DI
CLAUDIO CASAZZA
E
MARCELLO PERUCCA
aprile - maggio 2012
CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA
Viale Monza 140, Milano
www.cineforumdelcircolo.it
[email protected]
IL FILM NOIR CLASSICO E L’EVOLUZIONE CONTEMPORANEA
La vita mi ha servito delle mani perdenti, o magari non le ho sapute
giocare, chissà... Ora volevo parlare, ma non avevo nessuno accanto a me: ero un fantasma, non vedevo nessuno, e nessuno vedeva me.
Ero il barbiere...
(Billy Bob Thorthon interpreta Ed Crane in
L’uomo che non c’era dei Fratelli Coen, 2001)
Non mi importa se i miei modi non le piacciono; in confidenza non
piacciono neanche a me, ci piango su spesso, specialmente durante
le lunghe sere d’inverno.
(Humphrey Bogart interpreta Philip Marlowe in
Il grande sonno di Howard Hawks, 1946)
I
n questa introduzione inquadreremo il cinema noir dal punto di vista cronologico cercando di capire gli
elementi basilari della messa in scena, individueremo le tematiche classiche che caratterizzano il genere e andremo a capire la sua evoluzione nel corso della storia del cinema.
È un’impresa ardua definire e circoscrivere il noir, che può a seconda dei casi, essere considerato un genere, un filone, una tendenza o anche solo un ristretto elenco di titoli. Il mondo criminale, popolato di gangster, detective e poliziotti, a partire dal nome francese è un ibrido seducente. Riflette la società, ne analizza le fondamenta, ne porta alla luce le contraddizioni. Non ha limiti inventivi, ha legami stretti con la letteratura popolare, di cui è figlio, ed offre a registi e scrittori la possibilità di mettersi alla prova, di sperimentare, di far sognare.
L’espressione noir (termine francese che significa «nero») fa riferimento al tono decisamente cupo e sinistro delle pellicole appartenenti al suddetto genere: noir significa anche «scuro» ma può anche voler dire
«tenebroso». Film nei quali è possibile trovare una serie di tematiche ricorrenti: l’ambiguità morale dei
protagonisti, il brutale realismo delle vicende, l’avidità e l’ambizione come moventi di atti criminosi,
ambientazioni urbane e notturne, una narrazione costruita spesso attraverso flash-back, e una rappresentazione trasgressiva della sessualità. Oltre a questi aspetti contenutistici, il genere noir è contraddistinto
anche da precise caratteristiche formali: l’uso prevalente del bianco e nero (o comunque di tinte molto
scure), i forti contrasti cromatici e altri elementi stilistici ripresi dall’espressionismo tedesco, come la
distorsione dell’immagine in chiave soggettiva. Nei noir si incontrano inoltre personaggi convenzionali
basati su stereotipi fissi: il detective, che sia un membro delle forze dell’ordine o investigatore privato, il
gangster, la dark-lady e la femme-fatale.
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In alto: Edward G. Robinson in una scena di
Piccolo Cesare.
Sopra: Gene Tierney in Vertigine, di Otto
Preminger.
Storicamente si può dire che il noir si afferma nei primi anni
‘40 e che si impone per una serie di elementi tematici e stilistici che trasformano i gangster movie degli anni 30, film figli
della grande depressione e del proibizionismo come Piccolo
Cesare (1931) di Mervyn LeRoy e Scarface - Lo sfregiato
(1932) di Howard Hawks.
Possiamo assumere per convenzione questi ‘estremi anagrafici’ del film noir: il 1941 (data di uscita de Il mistero del falco,
prima regia di di John Huston) e il 1958 (data di uscita de
L’infernale Quinlan di Orson Welles), ben sapendo che sono
possibili altre periodizzazioni in relazione agli elementi considerati ‘puri’ o ‘spuri’ del noir, o in relazione a film che sono
considerati un lento epilogo del filone o un suo tardivo recupero.
Il rapporto con la Francia è fondamentale: il noir arriva in
terra transalpina nell’estate del 1946 con un primo ‘pacchetto’
di opere esemplari: Il mistero del falco, Vertigine di Otto
Preminger, La fiamma del peccato di Billy Wilder, La donna
del ritratto di Fritz Lang. In questo periodo venne coniata
dalla critica cinematografica francese l’espressione film noir.
Con questo primo gruppo di film, ci si rende conto della trasformazione del poliziesco in “avventura criminale”, caratterizzata da una nuova visione del crimine e da una nuova psicologia del criminale. Qualche mese dopo arrivano sugli
schermi parigini Gilda di Vidor, Il grande sonno di Hawks, I
gangster di Robert Siodmak.
Il riferimento alla Francia è d’obbligo per più motivi: l’attenzione critica che rivolse al fenomeno, la ricostituzione di un
corpus di film e di analisi, l’interesse che manifestò in riferimento alla letteratura poliziesca francese, la produzione di
molti noir francesi ispirati al noir americano (la filmografia
completa di Jean-Pierre Melville ad esempio).
Come spesso capita al cinema di genere, all’inizio il noir era
ritenuto un genere commerciale e di serie B, con pellicole realizzate con budget medio-bassi; alcune di queste, però, ottennero uno straordinario successo e ancora oggi sono considerate dei veri e propri capolavori. I grandi critici francesi dei
Cahiers du cinéma (Bazin, Truffaut, Godard, Chabrol) ebbero
un ruolo fondamentale per la riscoperta del genere negli anni
‘50 e furono indispensabili per farlo diventare un genere di
culto. I registi francesi poi seppero reinterpretarlo in maniera
geniale, come fecero, ad esempio, Godard con Fino all’ultimo
respiro e Pierrot le fou (Il bandito delle ore 11), Truffaut con
La mia droga si chiama Julie o Chabrol con tutto il suo cinema nero sulla provincia francese.
Il rapporto con la Francia è molto importante per la sua diffusione, ma il debito del noir nei confronti del cinema tedesco
degli anni ‘20 è ancor più evidente. Le influenze dell’espressionismo sono certe e ciò può essere in parte spiegato dal fatto
che quattro registi germanici furono tra i principali esponenti
del genere: Fritz Lang, Robert Siodmak, Otto Preminger,
Billy Wilder, tutti registi emigrati in America con l’avvento
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del nazismo in Germania.
Bisogna considerare che numerosi film neri provengono dalle trasposizioni sul grande schermo dei romanzi hard boiled, ovvero di quella letteratura poliziesca i cui protagonisti sono perlopiù detective cinici e risoluti; tra i principali autori di hard boiled si annoverano Raymond Chandler (creatore del celebre detective
Philip Marlowe), James M. Cain, Cornell Woolrich e Dashiell Hammett. Romanzi scabri e sensazionalistici, come Piombo e sangue di Hammett, sono in contrapposizione con i classici gialli inglesi e alle loro
atmosfere posate, ambientate tra personaggi di classe elevata e in eleganti dimore di campagna. Molti loro
romanzi e racconti furono portati sullo schermo, a cominciare da II falcone maltese di Hammett.
Ma sulla letteratura e il noir vi rimandiamo, per approfondimenti, al capitolo successivo.
Tornando alla concezione del noir, c’è da dire che gli eroi sono quasi sempre uomini, di solito investigatori o criminali, caratterizzati da pessimismo, insicurezza o da una visione del mondo fredda e distaccata. Le
donne sono seducenti ma traditrici, spingono i protagonisti nel pericolo o li usano a fini egoistici.
L’ambientazione classica è la grande città, specialmente in scene notturne: marciapiedi lucenti e bagnati di
pioggia, vicoli oscuri e bar equivoci sono i luoghi tipici. Lo stile abbonda di angolazioni dall’alto o dal
basso, luci soffuse, forti grandangoli e riprese in esterni, anche se capita che alcuni film noir contengano
pochi di questi elementi. Il mistero del falco fissò molte delle convenzioni del noir e Humphrey Bogart
divenne una star di prima grandezza nel ruolo dell’investigatore privato, rappresentandone per sempre la
quintessenza simbolica: feltro in testa, sigaretta in bocca, sguardo torvo, bicchiere di whisky tra le mani,
impermeabile e pistola nella tasca della giacca pronta all’uso.
Il noir americano presenta sempre storie oscure, personaggi dalle ambizioni poco raccomandabili, è onirico, insolito, erotico, ambiguo, crudele. Vi domina l’esotismo sensuale, a cominciare da Shanghai di
Sternberg o Gilda di Vidor. La crudeltà è legata a un’azione insolita, che non ha motivazioni o giustificazioni riconducibili ai classici schemi del conflitto fra due individui. È il tipico tratto della crudeltà senza
scopo, che guida un’azione aberrante o un duello psicologico fra due individui, dove la posta in gioco non
Humphrey Bogart divenne una star nel
ruolo dell’investigatore privato, fissando
molte delle convenzioni del noir classico.
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è soltanto il dominio ma la morte.
Spesso il lato ‘nero’ di un film è legato a un personaggio psicopatico, a un
ambiente corrotto, a una scenografia
inquietante. Il ricatto, la delazione,
la rapina, la truffa, il traffico di droga
generano un intreccio dove la posta
in gioco è la morte. Sono rare le serie
di film che in pochi anni abbiano
accumulato sullo schermo una tale
quantità di brutalità e di omicidi. La
morte è sempre sordida o insolita:
aspetta il protagonista alla fine di un
viaggio tortuoso. Il film noir è, in
ogni accezione del termine, un film
di morte. La morte è l’obbiettivo
finale di ogni azione e diffonde sul
film la sua ombra cupa. La morte è
già dentro l’eroe del noir: bisogna
solo aspettare che si rovesci all’esterno, inondando lo schermo di cadaveri e di violenze inusitate.
Dalla fine degli anni ‘50 si può sostenere che il cinema americano abbia
abbandonato il noir e in questo modo
il genere, come accennavamo prima,
si sia “trasferito” fuori dagli States.
Nonostante sia un genere tipicamente americano, il noir ha avuto una
notevole diffusione anche nel cinema
francese, con titoli quali Legittima
difesa di Henri-Georges Clouzot e
Ascensore per il patibolo di Louis
Malle, i film di Dassin dopo aver
lasciato gli Usa, molti film di Becker,
tutto il cinema di Melville, gran parte
Rita Hayworth in due suoi celebri film:
in alto nel ruolo di Gilda, la sensuale
protagonista dell’omonimo film di
George Cukor. Sotto con Orson Welles
ne La signora di Shanghai.
dei film di Chabrol.
Anche il cinema giapponese ebbe un ruolo importante:
Kurosawa per certi versi già con Rashomon utilizzò flashback e luci alla maniera del noir, poi con I cattivi dormono in
pace e Anatomia di un rapimento entra perfettamente nel
genere. Un altro regista giapponese, Seijun Suzuki, tra il 1956
e il 1967 ha realizzato circa 40 film, principalmente B-movie
di genere yakuza (mafia giapponese) con uno stile che si è
fatto sempre più surreale e «artistico» influenzando tantissimo
l’evoluzione del genere.
Per quanto riguarda il cinema italiano negli anni ‘60 e ‘70 c’è
stato soprattutto uno sviluppo del poliziesco/poliziottesco che
prende spunto da un certo tipo di noir anche se con profonde
differenze. Vi rimandiamo al box a pagina 19 per una sintetica disamina del noir e poliziottesco italiano.
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A partire dagli Anni ‘70 il cinema nero torna in voga anche
negli Stati Uniti trasformato nel cosiddetto neo-noir, che
rielabora lo stile del noir classico secondo un’ottica moderna. I più importanti esempi di questo filone sono costituiti
da Il lungo addio di Robert Altman, Chinatown di Roman
Polanski, Bersaglio di notte di Arthur Penn, via via fino a
versioni che abbandonano lo schema classico, in cui tutto
ruota attorno alla figura del detective e/o a quella della
femme fatale: per cui, si possono definire noir anche film
quali La conversazione di Coppola o Taxi Driver di Martin
Scorsese, i quali comunque mantengono intatti situazioni,
atmosfere, stati d’animo (e non di meno una sottesa critica
sociale) tipici del genere.
C’è da considerare anche Scarface di Brian De Palma con
Al Pacino, remake del capolavoro di Hawks. Più vicini al
noir classico i successivi Brivido caldo di Lawrence
Kasdan e, in tempi più recenti, Rischiose abitudini di
Stephen Frears e L.A. Confidential di Curtis Hanson.
Il cinema americano di oggi riscopre il proprio passato
oscuro, basti pensare a Gangs of New York di Martin
Scorsese o a Zodiac di David Fincher. La figura del delinquente, canaglia dallo charme inconfondibile c’è tutta in La
promessa dell’assassino di David Cronenberg, noir sui
generis, dove Viggo Mortensen è un glaciale russo dallo
sguardo talmente tagliente da poter uccidere. Ridley Scott è
un esploratore dei generi, il suo Blade Runner (1982) è un
neo-noir cyberpunk che adatta un racconto di Philip K. Dick
alla realtà dei detective. Come Scarface anche il recente
American Gangster (sempre di Scott) riporta in auge il confronto tra due realtà temporali differenti ma tra rappresentazioni sociali così stranamente identiche.
Il cinema di Joel e Ethan Coen entra di diritto in questo
discorso, i due geniali fratelli esordiscono con Blood Simple
un noir molto classico. Poi, muovendosi sempre intorno al
genere, realizzano Fargo, L’uomo che non c’era, per certi
versi Il grande Lebowski e anche Non è un paese per vecchi, rivestendo il noir di una forte impronta autoriale e con
un umorismo non comune.
Negli anni ‘90 anche Quentin Tarantino, già sceneggiatore
di noir come Una vita al massimo di Tony Scott e Assassini
nati di Stone, ha un ruolo fondamentale nella ristrutturazione del genere: i suoi capolavori del periodo (Le iene, Pulp
Fiction e Jackie Brown) si muovono nelle tematiche noir
con l’introduzione spiazzante di dialoghi surreali, violenza
grafica e ossessioni pop.
È necessario ricordare anche Michael Mann con il suo cinema fiammeggiante. Mann è uno dei pochi registi al mondo
capace di mescolare autorialità e cinema di genere in una
dimensione mainstream, dando vita ad autentici capolavori
del genere: Manhunter, Heat- la sfida, Collateral e il recente Nemico Pubblico.
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In alto: a partire dagli anni ‘50 il cinema giapponese ebbe un ruolo importante nel genere
noir. In alto un’immagine del regista Seijun
Suzuki, autore di numerosi B-movie, principalmente di genere yakuza.
Sopra: il Philip Marlowe interpretato da Elliot
Gould nel film di Robert Altman Il lungo addio.
Locandine de Le iene, di Quentin
Tarantino e di Oldboy di Kim Ki-duk
Per quanto riguarda il cinema degli ultimi anni non si può non parlare del noir del sud-est asiatico. Pur semplificando, vanno citati almeno una manciata di autori che dagli anni ‘90 sono venuti alla ribalta nei festival europei. Il cinema asiatico ha rielaborato il noir con un uso della violenza molto diverso da quella che
vediamo nei film americani e con una commistione tra generi (melodramma, commedia, anche horror) che
rende originalissimi gli autori di questo cinema.
Per il cinema di Hong Kong sono saliti alla ribalta registi geniali come John Woo (poi assorbito da
Hollywood, purtroppo) e Johnnie To che tiene ancora la posizione sfornando una serie di titoli con uno stile
personale e avvincente (The Election, Breaking News, PTU). Capolavoro recente del cinema di Hong Kong
è la saga in tre capitoli Infernal Affairs di Andrew Lau, grande successo al botteghino e recentemente ripresa da Martin Scorsese con il remake The Departed.
Per il Giappone c’è sicuramente da considerare il genio assoluto di Takeshi Kitano, nei suoi noir asciutti e
poetici (Violent cop, Sonatine, Hana-bi) la Yakuza è un elemento assolutamente ricorrente così come lo
sono il mare, la disgrazia fisica ed il suicidio. L’eroe di Kitano è molto spesso un invincibile vendicatore
la cui giustizia cruda e discutibile è portata avanti in modo inesorabile.
Anche la Corea una citazione la merita: Park Chan-wook è un regista originale come pochi, i suoi Joint
Security Area e la triologia della vendetta (Mister Vendetta, Oldboy e Lady Vendetta) sono universalmente
riconosciuti capolavori del genere.
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Nel corso della rassegna abbiamo scelto di privilegiare il noir contemporaneo, rivolgendoci perciò alle tre
anime storiche del noir: Stati Uniti, Francia e Sud-est asiatico. L’obiettivo, nel scegliere i film, è stato quello di presentare opere che ragionassero sull’evoluzione del noir, sulle sue contaminazioni con altri generi,
cercando di fornirne un panorama il più ampio possibile, pur nelle “ristrettezze” di soli sei titoli.
Inizieremo con il cinema orientale e, in particolare, con Hana-bi di Takeshi Kitano (1997). È il film che fa
conoscere Kitano fuori dal Giappone con la vittoria del Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia del
1997. È un film poetico, polimorfico che parte come un poliziesco d’azione, continua come un noir, finisce nel melodramma esistenziale. Alterna il lirico e il tragico, scoppi di violenza e digressioni sulla pittura. Spiazza, coinvolge, intenerisce, colpisce, commuove.
A seguire, Fargo (1996) uno dei film più interessanti dei fratelli Coen, Joel, ed Ethan. Opera spiazzante
per vari motivi. L’ambientazione: anziché le cupe atmosfere cittadine, l’innevata e apparentemente candida provincia americana (siamo nel Minnesota, luogo di origine dei due fratelli); la stupidità con cui i due
criminali compiono il loro efferato delitto; la poliziotta che indaga (e già il fatto che non sia di genere
maschile la dice lunga) con un’aria non particolarmente intelligente e in avanzato stato di gravidanza.
Sempre negli Stati Uniti, ma a Los Angeles, si svolge la vicenda di Collateral di Michael Mann (2004).
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Apparentemente è un film normale dove male (un killer prezzolato) e bene (un tassista che capita per caso)
sono ben definiti e separati. La novità principale è lo stile di regia di Mann: il film è stato interamente girato nelle ore notturne e in location reali, con l’ausilio di appositi filtri per ottenere una tonalità e un’atmosfera cupa e misteriosa e un iperrealismo visivo che solo Mann riesce a definire. E c’è anche da dire che
in questo film Mann ha girato più della metà delle riprese in digitale, donando all’aspetto finale del film
quello di una vecchia pellicola di celluloide granulosa. È un aspetto importantissimo poiché è stato uno dei
primi film di una major a usare il digitale.
Ci trasferiremo, quindi, in Europa con 36 Quai des Orfévres, di Olivier Marchal (2004). Il film, che ha
ricevuto il premio del pubblico al Noir in Festival di Courmayeur, prestigiosa rassegna internazionale di
genere, prende il titolo dalla famosa strada parigina dove ha sede la questura. Si tratta di un film duro, violento, che vede lo scontro fra due poliziotti, stupendamente interpretati da Daniel Auteuil e Gerard
Depardieu. È un film che non fa sconti e dove, alla fine, non ci saranno vincitori e vinti, ma solo sconfitti.
Torneremo in Asia con un capolavoro infinito: The Killer di John Woo. Apprezzato da molta critica mondiale alla sua uscita nel 1989, è il film che ha fatto conoscere John Woo all’occidente ed è diventato, con
il tempo, quasi spartiacque di certa cinematografia di genere. È un melodramma più che un noir, è
un’esemplificazione diretta e palese dell’inesistenza di un confine «definito» tra Bene e Male. Non è solamente una splendida dimostrazione di cinema d’azione, è un film che va ben aldilà della semplice definizione di action-movie. Con un uso sapiente e per nulla misurato del ralenti, spinge la dimensione filmica
dell’azione a livelli quasi liturgici.
Chiuderemo la rassegna con L’uomo del treno di Patrice Leconte (2002), interpretato da uno strepitoso
Johnny Halliday nella parte di un rapinatore di banche stanco, che sogna la pensione e un efficacissimo
Jean Rochefort che interpreta un professore in pensione e pantofolaio che, al contrario, sogna una vita spericolata e avventurosa. Un noir anomalo per i suoi personaggi fuori da ogni cliché, una commedia venata
di dolcezza e malinconia. Una commedia noir o un noir sotto forma di commedia. Forse né l’uno né l’altra: semplicemente un film bellissimo.
IL NOIR: STRUMENTO PER RAPPRESENTARE LA SOCIETÀ
I
l noir classico nasce verso la fine degli anni Venti in un periodo contraddistinto da grandi incertezze.
Sono gli anni della Grande Depressione e la società americana vive una crisi mai conosciuta sino ad
allora. Ecco quindi che la letteratura poliziesca inizia a raccontare storie cupe, specchio di una realtà
destabilizzante. Il noir tende a descrivere questa realtà raccontando vicende ambientate in una società contraddistinta dalla violenza, dagli intrecci fra criminalità e politica, dalla corruzione. Non c’è lieto fine nel
noir. Anche laddove la storia si risolve per il meglio,
i protagonisti arrivano al termine stremati, profondamente cambiati, per loro nulla sarà mai più come
prima.
Anche il cinema risentirà di questo sentimento di
incertezza percepito nel vivere quotidiano. Gli anni
d’oro del cinema noir sono quelli che vanno dalla
fine degli anni Trenta sino alla fine dei Cinquanta. Il
cinema noir si sviluppa, quindi, prendendo spunto
dalla letteratura, in un periodo caratterizzato dalla
paura della Seconda guerra mondiale e si alimenterà,
in seguito, del malessere della Guerra fredda e della
Immagini della grande depressione del 1929 negli Stati
Uniti. In questo contesto si sviluppa la letteratura poliziesca, con storie cupe, spesso specchio di una realtà
destabilizzante.
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caccia alle streghe durante il maccartismo. I valori classici e
fondanti della società sono quelli più bersagliati: il matrimonio, la famiglia, il ruolo della donna all’interno di essa, vengono spesso messi in discussione. Così come le istituzioni, che
vengono viste non come rassicuranti, protettive per il cittadino, bensì nemiche e pericolose. Un’entità della quale diffidare.
Anche in anni più recenti, quando ormai il genere noir, per lo
meno nella sua accezione più classica, è finito, i film che ad
esso si ispirano e che ne sono i naturali prosecutori, utilizzano
gli schemi del genere per narrare una società che non è mai
vista in maniera positiva. Infatti la violenza, la criminalità
organizzata, i serial killer sono spesso gli ingredienti e i protagonisti dei film che, più o meno dall’inizio anni Ottanta, vengono definiti neo-noir. A partire da Brivido caldo (Lawrence
Kasdan, 1981) e, soprattutto, Blade Runner (Ridley Scott,
1982), film a tutti gli effetti di fantascienza ma che utilizza,
senza ombra di dubbio, molti degli stilemi del noir classico
per raccontare una società del futuro ormai senza più anima,
dove i sentimenti vengono immessi all’interno di robot sempre più simili agli esseri umani e dove è sempre più labile il
confine fra la macchina e l’uomo.
Anche oggi, nei romanzi e nel cinema, viene utilizzata sempre più spesso la formula del poliziesco, del noir, del thriller,
per raccontare le storture della società contemporanea. Ne
sono un esempio, in letteratura, gli americani James Ellroy,
James Lee Burke, Tony Hillerman, James Crumley, Sandra
Scoppettone. In Europa oltre ai molti scandinavi (fra i quali i
più famosi sono sicuramente Henning Mankel e Lisa
Marklund) che svelano i cupi retroscena di una società solo
apparentemente perfetta, troviamo la folta schiera dei “mediterranei”, dai nostri Andrea Camilleri, Carlo Lucarelli,
Massimo Carlotto e molti altri, al sommo catalano Manuel
Vazquez Montalban. Dal marsigliese Jean-Claude Izzo al
greco Petros Markaris, altro anello di congiunzione fra cinema
e letteratura, essendo stato sceneggiatore di buona parte dei
film di Theo Angelopoulos sino alla tragica morte del regista,
avvenuta a causa di un incidente stradale poche settimane or
sono.
Lo scrittore belga Georges Simenon, autore
di innumerevoli romanzi noir e inventore del
Commissario Maigret.
IL NOIR MEDITERRANEO
La Francia: Simenon e i suoi eredi
Il poliziesco francese affonda le sue radici sin nell’800, quando Émile Gaboriau pubblica, nel 1863, quello che viene considerato, a tutti gli effetti, il primo «vero» romanzo poliziesco
francese, L’Affaire Lerouge. Negli anni seguenti poi, Gaston
Leroux e Maurice Leblanc produrranno opere con al centro le
imprese di detective (Rouletabille) e ladri (Arsène Lupin).
Ma è con Georges Simenon che il genere acquista una sua
fisionomia ben definita. Simenon, di origine belga ma parigino di adozione, oltre alle opere con il notissimo personaggio
del commissario Maigret, realizza una serie di romanzi dove
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Copertine di varie edizioni della serie del
Commissario Maigret.
sono palpabili le ambientazioni più tipiche
del noir. Ambientazioni che, a differenza dei
romanzi americani che prediligevano la
grande città, privilegiavano la provincia
francese, le piccole cittadine, le campagne
(La vedova Couderc, La Marie del porto, I
Pitard). Raramente le storie di Simenon si
sviluppavano nelle metropoli (ad esempio
L’uomo che guardava passare i treni o Il fidanzamento del signor Hire entrambi ambientati a
Parigi). In Simenon più che la trama e l’intreccio
giallo, quello che conta sono le atmosfere, le psicologie dei vari personaggi, la descrizione di una
società che, ormai, non esiste più.
Successivamente André Héléna e Leo Malet, esporteranno nella Francia del dopoguerra il noir americano. Il primo lascerà testimonianze importanti in
merito all’occupazione tedesca, come avviene in
Les flics ont toujours raison incentrato sull’inferno
delle prigioni di Vichy. Il secondo, creando il personaggio del detective Nestor Burma e realizzando la
famosa Trilogia noir (La vita è uno schifo, 1948; Il sole non è per noi, 1949; Nodo alle budella, rimasto
inedito per vent’anni, sino alla pubblicazione della Trilogia), vero modello di riferimento per il noir, non
solo francese.
Più di recente gli scrittori francesi tendono a descrivere maggiormente la società. Così avviene in Didier
Daeninckx che, in A futura memoria, rievoca il massacro di algerini avvenuto a Parigi nel 1961 durante
una manifestazione. In Jean-Patrick Manchette, che scrisse una decina di libri fra il 1969 e l’inizio degli
anni ’80 analizzando, da sinistra, la società francese del dopo Sessantotto. In Jean-Claude Izzo, che descrive in maniera romantica e, allo stesso tempo, disillusa, la Marsiglia di oggi, città multietnica per eccellenza.
Per quanto concerne il cinema, numerosi sono i film tratti dai romanzi di Simenon. Oltre a quelli incentrati sulla figura del Commissario Maigret, spesso interpretato da Jean Gabin (Il commissario Maigret, Jean
Delannoy, 1958; Maigret e il caso Saint-Fiacre, Jean Delannoy, 1959; Maigret e i gangster, Gilles
Grangier, 1963) e la famosa serie televisiva italiana con Maigret magistralmente interpretato da Gino
Cervi, ricordiamo, fra i titoli più famosi, Le chat-L’implacabile uomo di Saint-Germaine e L’evaso,
entrambi film del 1971 realizzati da Pierre Granier-Deferre; L’orologiaio di Saint-Paul, Bertrand
Tavernier, 1974; L’insolito caso di Mr. Hire, Patrice Leconte, 1989; I fantasmi del cappellaio (1982) e Betty
(1992), entrambi di Claude Chabrol.
Il poliziesco italiano. Dalla Milano di Scerbanenco alla Sicilia di Camilleri
Se la narrativa poliziesca è stata a lungo considerata letteratura di genere, senza particolari pregi e dignità
nel contesto del panorama letterario, ancor di più la narrativa poliziesca italiana ha rappresentato, sino a
non molti anni or sono, un sottogenere nel mondo del giallo. Molti critici hanno sempre mostrato una grande ritrosia a considerare i giallisti come dei veri scrittori. Giorgio Scerbanenco ne è un esempio significativo: ancora oggi viene accettato con molta fatica come un grande della scrittura.
Le ragioni di questa ghettizzazione vanno ricercate agli albori del cosiddetto giallo italiano.
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Dall’alto in baso: la copertina del primo
numero del Giallo Mondadori (1929) e
un’immagine dello scrittore Giorgio
Scerbanenco.
Il 1929 è l’anno in cui nascevano i Gialli Mondadori, così
chiamati per via del colore della copertina che caratterizzava
la collana e che, da quel momento, avrebbe contraddistintinto
in Italia tutto un genere. A quel tempo si parlava di polizieschi in senso stretto, in quanto al centro dell’azione c’erano
dei poliziotti. Il fascismo, però, imponeva dei condizionamenti tali per cui i poliziotti italiani dovevano essere obbligatoriamente descritti come più buoni dei loro colleghi americani.
Ciò fece sì che il poliziesco italiano assumesse connotazioni
più di rompicapo che di vero e proprio noir. Con l’avvento
dell’autarchia, queste limitazioni si fecero ancor più rigide,
con il divieto di tradurre qualsiasi poliziesco che arrivasse
dalle nazioni ostili: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia.
Addirittura nel 1941 si giunse al divieto di pubblicare gialli da
parte del Ministero della Cultura Popolare, il famigerato
“Minculpop”, poiché reputati diseducativi per i giovani. Tutti
questi fattori hanno, di fatto, impedito la nascita di un vero
filone noir italiano e, soprattutto, hanno portato, negli anni del
dopoguerra, alla pubblicazione di una miriade di autori esteri
per compensare il vuoto che si era venuto a creare con il divieto di pubblicazione dei polizieschi italiani.
In questo clima di ostilità molti scrittori italiani furono obbligati a pubblicare le loro opere con pseudonimi americani. Fu
solo verso la metà degli anni Sessanta che il poliziesco italiano si afferma e diventa un mezzo per raccontare il vero volto
della società italiana. È, infatti, del 1966 Venere privata, di
Giorgio Scerbanenco, ambientato nella Milano del boom economico. È la storia di un medico favorevole all’eutanasia,
radiato dall’ordine e condannato a tre anni di prigione.
Quando ne uscirà, affronterà la società con spirito disincantato ma non corrotto.
Da questo momento in poi le storie poliziesche italiane tenderanno sempre di più a raccontare le storture della società, la
corruzione nella polizia e nel sistema politico.
Parallelamente, a partire dagli anni Settanta, in Italia il cinema inizia a utilizzare storie che, più della letteratura, si avvicinano per temi e ambientazioni al noir. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto ne è un esempio. Film del
1970 realizzato dal regista Elio Petri insieme allo sceneggiatore Ugo Pirro, dove un commissario assassino conta sull’impunità che gli deriva dal proprio ruolo. Nel film di Petri, quello che conta è la forte critica alla società e al livello di corruzione delle istituzioni.
Sarà negli anni ’80, soprattutto grazie a due autori, che la narrativa noir italiana assume una sua vera e propria fisionomia.
Sergio Altieri, noto con lo pseudonimo di Alan D. Altieri, nel
1981 pubblica Città oscura, vero thriller ambientato, però, in
una Los Angeles da incubo e Furio Colombo, noto giornalista
che, con lo pseudonimo di Marc Saudade, realizza tre opere
estremamente crude e intrise di cinismo, Bersagli mobili
(1984), L’ambasciatore di Panama (1985), El Centro (1987).
Con gli anni, poi, la letteratura poliziesca e noir in Italia ha
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assunto un’importanza via via maggiore, con un interesse crescente da parte sia della critica, sia del pubblico. Scrittori quali Loriano Machiavelli, spesso in coppia con Francesco Guccini, Giancarlo De Cataldo,
Marcello Fois, Carlo Lucarelli, Andrea Camilleri, Sandrone Dazieri, Gianrico Carofiglio, Massimo
Carlotto, nella loro diversità, hanno un tratto in comune: quello di descrivere, per usare le parole di quest’ultimo, “la realtà sociale, politica ed economica che ci circonda”. Il poliziesco oggi, sia quello italiano
che, in generale, quello europeo, è “una sorta di ponte tramite cui possono parlare gli emarginati, ovvero
tutti coloro che, per forza o per scelta, passano la propria vita sfuggendo alle regole e all’istituzione”
(Patrick Raynal, direttore della Serie Noir di Gallimard Ed.).
In conclusione, il poliziesco oggi in Italia, ci racconta la realtà, spesso difficile da digerire, come quando
il commissario Salvo Montalbano, nato dalla penna di Andrea Camilleri, medita di dimettersi dalla polizia
guardando in televisione, costernato e incazzato, i propri colleghi perpetrare il massacro più vergognoso
compiuto dalla polizia negli ultimi anni: quello della scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001:
“Bastava ragionare tanticchia supra quelle notizie che venivano date col contagocce e con governativa
osservanza dalla stampa e dalla televisione per farsi preciso concetto: i suoi compagni e colleghi, a
Genova, avevano compiuto un illegale atto di violenza alla scordatina, una specie di vendetta fatta a friddo e per di più fabbricando prove false. Cose che facevano tornare a mente episodi seppelluti della polizia fascista o di quella di Scelba” (Andrea Camilleri, Il giro di boa, 2003).
La Spagna: il noir si sviluppa dopo il franchismo
Come in Italia durante il fascismo, così in Spagna il franchismo ha avuto effetti negativi sullo sviluppo
della letteratura noir. Anche se non mancano esempi di scrittori che, in qualche maniera, si rifacevano ai
canoni del noir (El inocente, opera di Mario Lacruz del 1953, è considerato un precursore del genere noir
in Spagna), è solo con la morte di Francisco Franco e la fine della dittatura che inizia a svilupparsi una
scuola spagnola di noir, della quale Manuel Vasquez Montalban può essere considerato, a tutti gli effetti,
la punta di diamante. Montalban, nato a Barcellona nel 1939 è il padre dell’investigatore Pepe Carvalho,
“ex comunista, ex agente della Cia, amante di una puttana”, come si definisce lui stesso. Per Montalban i
romanzi con Carvalho sono dei pretesti per parlare della società spagnola, inserendovi buone dosi di politica, come avviene nei suoi polizieschi più “politici”, quali Assassinio al Comitato Centrale (1981),
ambientato nella direzione nazionale del Partito Comunista Spagnolo, o in Quintetto di Buenos Aires
(1997), con il quale affronta il dramma dei desaparecidos argentini.
La Grecia. Il noir al tempo della crisi
Petros Markaris è, senza dubbio, l’esponente di spicco della letteratura poliziesca greca. Scrittore teatrale,
sceneggiatore (molti film di Theo Angelopoulos portano la sua firma), ha esordito nella letteratura di genere nel 2000 con Ultime della notte. Protagonista il commissario della polizia di Atene Kostas Charitos che
se la deve vedere, di volta in volta, con casi di terrorismo, assassini
commessi in ambienti gay, fantasmi della dittatura e, ultimamente,
con i gravi problemi economici che hanno fatto sprofondare la Grecia
A sinistra: lo scrittore
greco Petros Markaris;
a lato: Manuel
Vazquez Montalban
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in una delle crisi più gravi della sua storia. Proprio l’ultimo romanzo di Markaris, Prestiti scaduti del 2011
è l’occasione per lo scrittore di origine greche nato a Istanbul, di disquisire sulla crisi economica, sulle
cause che l’hanno generata e sulle colpe di banche e banchieri. Una lucida analisi della Grecia di oggi e
dell’Europa al tempo della crisi.
LETTERATURA E CINEMA NOIR: UNO SCAMBIO COSTANTE
C
ome già accennato nell’introduzione, il cinema noir deve molto, probabilmente tutto, alla letteratura di genere, con un costante interscambio di storie, stereotipi, immagini ricorrenti entrate ormai
nell’immaginario collettivo. Il detective, spesso disilluso e tradito dalla vita. La donna sensuale e
malvagia. I poliziotti buoni e quelli corrotti. Tutte figure delle quali la letteratura poliziesca è piena. A partire dall’hard-boiled americano.
Il termine «noir»
Quando la famosa casa editrice francese Gallimard decise di introdurre fra i propri tipi una collana di
romanzi polizieschi, la battezzò Serié Noir. Ed è proprio prendendo lo spunto dal titolo di questa collana
che, nel 1946, due critici, Nino Frank, un italiano trapianto in Francia e il francese Jean-Pierre Chartier,
in un loro articolo dal significativo titolo Les américains font aussi des film “noir” (Anche gli americani
fanno film “noir”), utilizzarono il termine noir per indicare tutta una serie di film provenienti dagli Stati
Uniti. I due critici, nel loro articolo, contrapponevano i film provenienti da oltre oceano con quelli di una
presunta scuola nera francese che comprendeva film degli anni Trenta, cioè del cosiddetto realismo poetico, quali, ad esempio, Il porto delle nebbie o Alba tragica, entrambi di Marcel Carné o Il bandito della
Casbah, di Julien Duvivier, nei quali vicende criminali venivano trattate con ambientazioni cupe, crepuscolari; foschi melodrammi dove il protagonista è, in genere, un uomo disilluso dalla vita, condannato alla
sconfitta dal Destino, quello con la D maiuscola.
Sarà però solo nel 1955 che il termine “noir” entrerà a far parte ufficialmente dei generi cinematografici
quando Raymonde Borde ed Etienne Chaumeton, altri due critici francesi, realizzano Panorama du film
noir, un testo importante per la capacità di sistematizzazione di tutta una serie di pellicole americane. Per
forza di cose Borde e Chaumeton avevano a disposizioni solo pochi titoli, fra i quali alcuni già citati nel
capitolo precedente: Il mistero del falco, La fiamma del peccato, Vertigine, L’ombra del passato, Il postino suona sempre due volte.
Fra questi titoli, molti avevano come origine testi letterari, di quella letteratura poliziesca americana denominata narrativa hard-boiled.
Il noir e la letteratura «hard-boiled»
La letteratura hard-boiled nasce negli Stati Uniti intorno agli anni
Venti, quando alla guida di una famosa rivista poliziesca dal titolo Black Mask, arriva un certo capitano Joseph T. Shaw, il quale
decise che, quanto sino ad allora pubblicato, doveva essere spazzato via e sostituito con qualche cosa di nuovo, di mai visto
prima.
Fino ad allora, nei racconti polizieschi, il delitto era un evento
gratuito e la ricerca del colpevole paragonabile a un rompicapo, a
un gioco di pazienza. Con l’avvento del capitano Shaw i racconti pubblicati su Black Mask cercarono di descrivere in maniera
sempre più realistica il mondo dei poliziotti e dei criminali. La
cosiddetta hard-boiled school, la scuola dei duri, prese origine da
Jean Gabin, icona del noir francese
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questo tentativo di raccontare un determinato mondo per ciò
che, effettivamente, era. Togliendo il racconto poliziesco dalla
naftalina nella quale sino ad allora era stato costretto da autori
quali, giusto per citare i più noti, si annoveravano Agatha
Christie, creatrice di Hercule Poirot e Miss Marple e S.S. Van
Dine, ideatore del sofisticato detective privato Philo Vance.
Fra gli scrittori che contribuirono in maniera massiccia all’affermarsi del romanzo hard-boiled, vanno citati Dashiell
Hammett e Raymond Chandler. Hammett era un ex detective
della Agenzia Pinkerton, costretto ad abbandonare il mestiere
per via della tubercolosi della quale era afflitto e contratta nel
corso della Prima guerra mondiale. Per campare si dedicò,
quindi, alla scrittura, descrivendo le sue esperienze come investigatore. Vari racconti di Hammett vennero pubblicati proprio
dalla rivista diretta da Joseph T. Shaw. Rivista alla quale collaborò anche Raymond Chandler. Nato a Chicago ma trapiantato in California Chandler, dopo svariate esperienze lavorative,
iniziò, a partire dal 1933, a pubblicare su Black Mask dei racconti nei quali il protagonista era un poliziotto privato con
caratteristiche molto simili a quelle del futuro Philip Marlowe.
Il cinema, ben presto, si appropria delle storie di Hammett,
Chandler e soci, trasformandole in film di grande successo.
Non solo. Molti scrittori della “scuola dei duri”, Hammett e
Chandler in testa, iniziarono a collaborare con l’industria cinematografica in veste di sceneggiatori di film tratti da loro opere
o da opere di altri scrittori.
La trasposizione di molti romanzi hard-boiled del periodo
della depressione in film è dovuta, in parte, al fatto che l’istituzione dell’autocensura di Hollywood, che aveva impedito, sino
ad allora, tale operazione, divenne nel periodo bellico più permissiva. Tuttavia, passando dalla carta stampata alla pellicola,
spesso il genere poliziesco perse molte delle sue caratteristiche
per acquisirne altre, completamente diverse e proprie del genere noir.
I “duri” americani e il grande schermo
Dashiell Hammett (1894-1961) e Raymond Chandler (18881959)
Fra i primi detective nati dalla fantasia di scrittori di polizieschi
ad essere approdati sul grande schermo, troviamo Sam Spade.
Nato dalla penna di Dashiell Hammett, Spade è il protagonista
di uno fra i più apprezzati noir statunitensi: Il mistero del falco
(John Huston, 1941), tratto dal romanzo del 1936 Il falcone
maltese. In questo film Sam Spade ebbe il volto di Humphrey
Bogart che, successivamente, interpretò anche Philip Marlowe,
altro famoso detective privato creatura dello scrittore
Raymond Chandler, ne Il grande sonno. Questa pellicola girata da Billy Wilder nel 1946 è da considerarsi fra i capolavori
assoluti della cinematografia in generale. Alla sua sceneggiatura parteciparono fra gli altri, lo stesso Chandler e il famoso
romanziere William Faulkner.
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In alto: copertina della rivista poliziesca
Black Mask, con il racconto di Dashiell
Hammett Il falcone maltese.
Sopra: Dashiell Hammett (a sinistra) e
Raymond Chandler (a destra).
In totale sono nove i film in cui compare il personaggio di Marlowe. Non tutti, ovviamente, sono da considerarsi dei capolavori. Anzi, alcuni sono decisamente mediocri. Fra i titoli, però, ritroviamo ottime pellicole fra le quali, oltre alla già citata opera di Wilder, va segnalata Il lungo addio (Robert Altman, 1973)
dove, a prestare il volto al detective è l’attore Elliot Gould che si muove in un’ambientazione insolita quella della società californiana degli anni Sessanta-Settanta.
Infine preme ricordare il Marlowe interpretato da Robert Mitchum in Marlowe, poliziotto privato (Dick
Richards, 1975) non tanto per la qualità del film, quanto per la grande interpretazione di Mitchum che dona
a Marlowe un’aria stanca, disillusa, che nulla ha più da chiedere alla vita, avendone già conosciuto tutto il
marcio che si cela in essa.
Cornell Woolrich (1903-1968)
Anche Cornell Woolrich va annoverato fra quegli scrittori i cui romanzi hanno dato origine a film di grande successo. Woolrich, newyorkese, conosciuto anche sotto alcuni pseudonimi (William Irish, George
Hopley), dopo un inizio di carriera in sordina, diede alle stampe nel 1940 La sposa era in nero, segnando
l’avvio della cosiddetta «serie nera», una sequenza di romanzi che influenzerà non solo il roman noir francese, ma anche il cinema. Proprio da questo romanzo François Truffaut, allora giovane esponente della
nouvelle vague francese, ne trasse un ottimo film interpretato da Jeanne Moreau dal titolo La sposa in nero
(1967).
Ma quello del cineasta francese non fu l’unica pellicola realizzata a partire dai romanzi di Woolrich. It Had
to be Murder, divenne Rear Window film del 1954 di Alfred Hitchock, conosciuto in Italia come La finestra sul cortile.
La vita di Woolrich non fu facile. Legato morbosamente alla madre, visse chiuso con lei in un albergo di
Manhattan in uno stato psichico precario. Alla morte della donna cadde vittima di uno stato depressivo che
lo portò a perdersi nell’alcol, incapace di scrivere e finendo i suoi giorni su una sedia a rotelle a causa dell’amputazione di un piede.
Jim Thompson (1906-1977)
Quasi dimenticato per molti anni e ora, da qualche tempo, riscoperto dalla critica e dal pubblico, Jim
Thompson ha “prestato” molti suoi romanzi al cinema. Opere dalle quali ne sono scaturite pellicole di
grande successo, fra le quali Getaway! di Sam Peckimpah (1972), Il fascino del delitto di Alain Corneau
(1979), Colpo di spugna di Bertrand Tavernier (1981), Rischiose abitudini, di Stephen Frears (1990).
Artista maledetto, Jim Thompson amava descriversi come “uno nato in carcere”. In realtà nacque in un
alloggio posto sopra la prigione di Anadarko in Oklahoma, dove il padre, sceriffo della contea di Caddo
costretto poi alla fuga perché accusato di corruzione, viveva con la famiglia. Una figura ingombrante quella del padre, tanto che il giovane Jim ne rimase segnato per tutta la vita, che trascinò fra alcol, mille lavori per sbarcare il lunario e la scrittura nella quale riversava i propri incubi e le proprie ossessioni.
Jim Thompson, nelle sue opere, descriveva una società malata, un’America sconfitta dal suo stesso sogno.
Una società basata sulla menzogna e popolata da uomini miseri, vittime e, allo stesso tempo, artefici della
propria dannazione. Come altri e, forse, meglio di altri, Thompson ha raccontato la famiglia descrivendola come un’istituzione ormai alla deriva, marcia. Così come la provincia americana, subdola e violenta,
dalla quale egli stesso proveniva.
Da sinistra a destra:
Cornell Woolrich, Jim
Thompson e James
Ellroy.
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James Ellroy (1948)
La stessa società malata descritta da Jim Thompson sarà raccontata anni dopo da James Ellroy, anche se,
in questo caso, l’ambientazione delle storie è quella della grande metropoli e la narrazione assume, spesso, la forma della cronaca nera. Un mezzo, questo, che Ellroy utilizza per descrivere il degrado degli
ambienti polizieschi e malavitosi, per scavare nel torbido dell’animo umano e raccontare una società malata e in declino.
La vita di Ellroy, dissipata per anni fra alcol, droga, furti e violenza, fu segnata da un avvenimento luttuoso e drammatico: l’omicidio della madre, avvenuto quando lo scrittore aveva circa 10 anni. Un caso
rimasto irrisolto che Ellroy utilizzò per scrivere I miei luoghi oscuri, un’indagine alla ricerca della verità
sull’uccisione della madre.
Il legame di Ellroy e il cinema è molto stretto. Da due suoi romanzi sono stati tratti altrettanti film: L.A.
Confidential (Curtis Hanson, 1997) e The Black Dahlia (Brian De Palma (2006). Ma, soprattutto, Ellroy
utilizza il cinema descrivendo il mondo dorato e cinico di Hollywood e inserendo, fra i suoi personaggi,
attori e attrici veri o immaginari.
James M. Cain (1892-1977)
Dell’opera di Cain, giornalista e scrittore, è noto, soprattutto, Il postino suona sempre due volte, romanzo
noir scritto nel 1934 che gli valse il successo dopo alcune opere passate nell’anonimato. È la vicenda, narrata in maniera magistrale, di una passione travolgente, nella quale un uomo e una donna bruciano le loro
esistenze inoltrandosi sempre più in una torbida storia d’amore e di morte.
Da questo romanzo furono tratte quattro versioni cinematografiche. La prima, Le dernier tournant, è del
1939 ed è firmata dal regista francese Pierre Chenal. Interpretata da Michel Simon, Fernand Gravey e
Corinne Luchaire, ebbe alcuni problemi con la censura e poi, nel 1940, nella Francia occupata dai nazisti,
ritirata dalla circolazione.
La versione francese era comunque nota al giovane Luchino Visconti, già assistente di Jean Renoir, dal
quale ebbe una copia in francese del romanzo di Cain allora vietato in Italia dal regime fascista. Il giovane Visconti decise quindi di ridurre il romanzo americano in film. Nel 1943 realizza, insieme a Giuseppe
De Santis, Ossessione, trasferendo l’azione nel delta del Po. Una storia d’amore e di morte interpretata da
Massimo Girotti e Clara Calamai i due amanti e da Juan De Landa il marito della donna che viene ucciso
dalla coppia.
Ma il vero protagonista di Ossessione è il paesaggio, sono i luoghi in cui è ambientata la vicenda: “una provincia italiana
impregnata di fascismo invisibile, immersa in un silenzio eterno, dove anche la violenza e il lavoro hanno le forme evanescenti e distanti di un sogno: una terra dove viaggiare e restare, partire e tornare sono la stessa cosa” (S. Bernardi:
Prigionieri del paesaggio. Sfondi e volti di “Ossessione”, in
Bianco&Nero, marzo-aprile 1999). Vi è, nel film, un
contrasto violento fra i toni cupi, torbidi
Locandine dei film tratti dal più famoso
romanzo di James M. Cain: Il postino
suona sempre due volte.
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Sotto: a sinistra James M. Cain; a destra
Mickey Spillane.
In basso: Barbara Stanwyck e Fred
McMurray in una scena del film di Nilly
Wilder Double Indemnity (La fiamma del peccato).
della vicenda e gli assolati paesaggi della provincia italiana,
così polverosa e soffocante e magistralmente ripresa dalla
macchina da presa di Luchino Visconti.
Del romanzo furono in seguito realizzate altre due versioni
cinematografiche, americane, entrambe con lo stesso titolo
del libro. La prima del 1946, con la regia di Tay Garnett con
Lana Turner e John Garfield. In questa versione il legame fra
sesso e violenza, così esplicito nel romanzo, venne solo
accennato e suggerito dal clima claustrofobico che si respira
in tutta la sua durata.
Nel 1981, infine, Bob Rafelson realizza quella che, sino ad
ora, è l’ultima trasposizione cinematografica del romanzo.
Jessica Lange e Jack Nicholson interpretano i due amanti diabolici. La versione di Rafelson è “la prima che mette in
immagini esplicite la rude e aggressiva sensualità che, per
ragioni di censura, i registi precedenti avevano dovuto comprimere o elidere. Di questa storia di un amore che, nato da
una violenta attrazione fisica, si trasforma in un rapporto più
profondo e complesso, Rafelson fa un altro film sul «sogno
americano», la sua trasformazione in incubo, descrivendone
(…) il contesto sociopolitico” (Morando Morandini, Il
Morandini).
Trama simile – due amanti decidono di uccidere il marito
della donna per riscuotere l’assicurazione – è quella di Double
Indemnity, in italiano La morte paga doppio. Noir scritto da
James M. Cain nel 1936 e immediatamente amato da Billy
Wilder tanto che, nel 1944, il regista di origini austriache ne
fece un film di enorme successo dal titolo La fiamma del peccato. Alla realizzazione della sceneggiatura partecipò anche
Raymond Chandler, che contribuì a velare il film di un alone
di mistero avvertibile sin dalle prime battute. Infatti, a differenza del romanzo che inizia con la descrizione degli eventi
che porteranno Neff, il protagonista (interpretato sullo schermo da
Fred MacMurray) a incontrare la
donna che lo condurrà alla rovina,
il film ha un prologo nel quale, nel
cuore della notte, Neff, che di
mestiere fa l’assicuratore, entra nel
suo ufficio per registrare il racconto indirizzato al suo capo, interpretato da un efficace Edward G.
Robinson. Vediamo Neff sofferente; non sappiamo che cosa gli sia
successo esattamente (solo in
seguito comprenderemo che è in
fin di vita) ma intuiamo subito che
gli eventi gli hanno riservato un
destino tutt’altro che lieto.
Wilder e Chandler calano la storia,
che si sviluppa in un lunghissimo
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IL NOIR ITALIANO
Rarissimi sono i polizieschi o noir italiani degli anni Trenta e Quaranta. Questo perché, durante il fascismo, le trame che si rifacevano a questi due generi cinematografici non erano tollerate in quanto si
voleva nascondere anche solo l’idea che in Italia si potessero verificare fatti di cronaca nera. In realtà qualche tentativo di realizzare film polizieschi o gialli, c’era stato. Si trattava, però, di pellicole di
ambientazione storica o con trame che si sviluppavano all’estero, come L’orologio a cucù di Camillo
Mastrocinque (1938) ambientato in epoca napoleonica, La pantera nera di Domenico Gambino
(1942) che si svolgeva a Budapest o Grattacieli di Guglielmo Giannini (1943), ambientato negli Stati
Uniti allo scopo di mettere alla berlina la polizia americana.
È solo con Ossessione, film del 1943 che Luchino Visconti trasse dal romanzo di James M. Cain Il
postino suona sempre due volte, che si può comiciare a parlare di noir in Italia. Visconti, già assistente di Jean Renoir in Francia, aveva ricevuto dal regista francese il libro, a quel tempo vietato in Italia
e dal quale trasse il film che è considerato un po’ il capostipite del Neorealismo italiano. Sarà
Ossessione a ispirare, molti anni più tardi, Michelangelo Antonioni - che a sua volta fu assistente di
Marcel Carné - per il suo film del 1957 Il grido. Si possono cogliere alcune analogie fra le due opere:
entrambi sono ambientate nella pianura Padana e sono film “on the road”, dove il protagonista è un
meccanico che ha la vita sconvolta da una donna.
Pietro Germi, dal canto suo, è il regista italiano che, a partire dalla fine della guerra, ha utilizzato con
maggior frequenza il genere noir. Suoi sono Il testimone (1945), La città si difende (1951) e, soprattutto, Un maledetto imbroglio (1958) adattato dal romanzo di Carlo Emilio Gadda Quer pasticciaccio
brutto de via Merulana che lo stesso Germi, che nel film interpreta il commissario Ingravallo, definì il
primo vero poliziesco italiano.
Sul finire degli anni ’60 si assiste all’uscita di almeno un paio di pellicole che vanno ricordate. Banditi
a Milano di Carlo Lizzani (1968) è la cronaca della rapina al Banco di Napoli di largo Zandonai a
Milano compiuta dalla Banda Cavallero e dalla successiva fuga in macchina per le strade del capoluogo lombardo finito con l’arresto dei quattro componenti della banda e con tre morti e numerosi feriti.
Dell’anno successivo è Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, in cui un
commissario di polizia, grazie al ruolo che ricopre, resta impunito nonostante un omicidio commesso.
Il decennio successivo è quello dei cosiddetti poliziotteschi, polizieschi all’italiana che hanno in
Fernando Di Leo (Milano calibro 9; La mala ordina, entrambi del 1972) e Umberto Lenzi (Milano
odia: La polizia non può sparare, 1974; Roma a mano armata, 1976; Napoli violenta, 1976) due
dei più interessanti realizzatori.
Un film concepito con l’intenzione di denunciare il pesante clima politico che si respirava in Italia negli
anni ’70, con la nascita di vari gruppi neofascisti è San Babila ore 20: un delitto inutile (Carlo
Lizzani, 1976).
Dalla seconda metà degli anni Settanta, sin verso la metà dei Novanta, in Italia il genere è in declino,
sia che si tratti di polizieschi, gialli o noir. Da segnalare, più per il consenso di pubblico che per veri
meriti artistici, la serie poliziottesca del Monnezza, con Tomas Milian e La donna della domenica,
bel giallo diretto nel 1975 da Luigi Comencini, interpretato da Marcello Mastroianni e tratto dall’omonimo romanzo di Fruttero & Lucentini. Qui, ma soprattutto nel successivo A che punto è la notte
(Nanni Loy, 1994), sempre con Mastroianni e sempre tratto da un’opera della coppia di scrittori, si
avvertono atmosfere noir in una Torino misteriosa e torbida, dove si intersecano criminalità e sette religiose.
Il genere, in Italia, riprende un po’ di vitalità con l’avvento del nuovo millennio. È del 2002 l’ottimo noir
di Matteo Garrone L’imbalsamatore, Film con risvolti psicologici che descrive l’intreccio di desiderio
e omosessualità fra due uomini e una donna con, sullo sfondo, i traffici della camorra e il degrado
delle periferie napoletane.
Da segnalare, infine, Quo vadis, baby? (Gabriele Salvatores, 2005), poliziesco di ambientazione
bolognese dove a svolgere le indagini è un detective privato donna, ben interpretato da Angela
Baraldi; La ragazza del lago (Andrea Molaioli, 2007), con un intenso Toni Servillo; Il passato è una
terra straniera (Daniele Vicari, 2008), tratto da un romanzo del magistrato/scrittore, ora deputato,
Gianrico Carofiglio e La cosa giusta (Marco Campogiani, 2009), anomalo poliziesco in cui più che
l’azione, contano personaggi e sentimenti.
flash-back, in un’atmosfera allucinata, punteggiandola di dettagli che contribuiscono a caratterizzare i personaggi, come il braccialetto che circonda la caviglia della donna (una sensuale e fatale Barbara Stanwyck)
o di particolari all’apparenza insignificanti, come ci ricorda Neff ripensando al profumo del caprifoglio
lungo la strada che portava alla casa della donna e accostandolo, con amara ironia, al “profumo” del delitto. Memorabile la frase finale, pronunciata da Neff ormai morente: “L’ho ucciso per i soldi e per una
donna. Non ho avuto i soldi. E non ho avuto la donna”.
Mickey Spillane (1918-2006)
Un duro fra i duri. Spillane, nei suoi romanzi porta all’eccesso gli elementi classici della scuola hard-boiled: violenza, sesso, cinismo.
Creatore del detective privato Mike Hammer, maschilista, duro e spietato come i criminali a cui dà la caccia, Spillane era dichiaratamente di destra, tanto che aderì senza indugio al progetto anticomunista del
senatore Joseph McCarthy.
I, the Jury, il primo romanzo con Hammer protagonista, uscì in America nel 1947 e, in Italia, nel 1953 con
il titolo Ti ucciderò, pubblicato presso la collana dei gialli della Garzanti che, per molti anni, fu la casa editrice che pubblicò nel nostro paese le opere dello scrittore newyorkese.
Il cinema si appropriò di alcuni romanzi di Spillane che fu, egli stesso, sceneggiatore e, addirittura, interprete del suo detective. La pellicola più famosa e sicuramente più riuscita tratta da un suo noir è Un bacio
e una pistola (Robert Aldrich, 1955) che segna una sorta di spartiacque fra il modello dei detective romantici alla Marlowe e quello dei duri alla Hammer, appunto, o alla Dirty Harry, cioè l’Ispettore Callaghan di
eastwoodiana memoria. Alla sua uscita il film non fu esente da critiche per via di alcune scene piuttosto
crude (una donna seviziata sino alla morte e un’altra incenerita da materiale radioattivo).
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I FILM
Hana-Bi
Fargo
Collateral
36 Quai des Orfèvres
The Killer
L’uomo del treno
HANA-BI - FIORI DI FUOCO
(Hana-Bi)
Regia Takeshi Kitano
Soggetto e sceneggiatura Takeshi Kitano
Fotografia Hideo Yamamoto
Montaggio Takeshi Kitano, Yoshinori Hota
Musica Joe Hisaishin
Scenografia Norihiro Isoda
Con Takeshi Kitano, Kayoko Kishimoto, Ren Osugi,
Susumu Terajima,Tetsu Watanabe Hakuryu
Produzione Giappone
Anno 1997
Durata 103’
LA TRAMA
ishi, il protagonista della storia (interpretato dallo
stesso Kitano che è anche l'autore della sceneggiatura e dei bellissimi disegni che si vedono nel film), è un
poliziotto che ha vita dura in una Tokio dove la malavita e in particolare la Yakuza, la terribile mafia giapponese, hanno grande potere. Mentre Nishi si reca in ospedale a far visita alla moglie ammalata di leucemia allo stadio terminale, il suo amico e collega di lavoro Horibe, viene ferito in una sparatoria e sarà
costretto su una sedia a rotelle. Poco dopo un altro amico, un giovane poliziotto viene ucciso con grande
spargimento di sangue. Nishi, evidentemente si trova in un momento di svolta della sua vita.
N
PREMI
Leone d'oro alla mostra del cinema di Venezia 1997
Camerimage 1998: Rana d'argento (Hideo Yamamoto)
European Film Awards 1997: miglior film internazionale
LA CRITICA
La violenza come stupore di fronte all’incomprensibilità della vita, la morte come tenerezza impossibile:
al di là di tutti i generi, Kitano gira con uno stile folgorante e contemplativo fatto di accelerazioni e accostamenti imprevedibili, ma ha anche il talento di suscitare emozioni vere, rare nel cinema contemporaneo.
Esplicito, questa volta il rapporto con la cultura tradizionale giapponese, che con i suoi luoghi sacri ridotti ad attrazioni turistiche fornisce un controcanto ironico e patetico all’ultimo viaggio di Nishi. Meritato
Leone d’oro a Venezia. I due ideogrammi del titolo originale significano separatamente “fiore” e “fuoco”,
e insieme “fuoco d’artificio”.
Paolo Mereghetti, Il Dizionario dei film
Film polimorfico che parte come un poliziesco d’azione, continua come un noir, finisce nel melodramma
esistenziale. Alterna il lirico e il tragico, scoppi di violenza e digressioni sulla pittura. Spiazza, coinvolge,
intenerisce, colpisce, commuove (...)
L’autore, Takeshi Kitano che nel suo paese è noto come conduttore di talk show e attore comico, esordisce
con questa pellicola nei cinema italiani ed è sicuramente destinato a far parlare di sè. (...)
«Hana Bi» è un film di grande fascino, alterna momenti drammatici a momenti lirici, l’umorismo a improvvisi scoppi di violenza e a scene pulp alla maniera di Quentin Tarantino. Tutto ciò anche se sapientemen-
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te armonizzato, può risultare gratuito e di facile effetto a una lettura superficiale. Invece, secondo me vi si
può cogliere l’essenza della cultura giapponese con tutte le sue contraddizioni, il misto di tradizioni antichissime e tecnologismo esasperato.
Non bisogna dimenticare che questo paese, come ci suggerisce l’antropologa Ruth Benedict nel suo famoso libro «Il crisantemo e la spada», esce dal Medioevo solo verso la metà del secolo scorso e nel suo popolo convivono dimensioni diversissime. I gesti d’amore di Nishi possono essere letti nell’ottica di un’ antica tradizione di cui parla sempre la Benedict, cioè quella di «pagare i debiti», debiti verso la società, gli
amici, i familiari verso tutti coloro che hanno fatto qualcosa per noi. Si tratta ovviamente di debiti sia materiali che spirituali e proprio questi ultimi hanno il peso maggiore.
Per l’uomo giapponese è di fondamentale importanza pagare il proprio giri (l’obbligo, il debito) così come
ha il dovere di mantenere incontaminata la propria reputazione. Persino la vendetta non è che una manifestazione di questo dovere-virtù (Nishi stermina letteralmente i componenti della Yakuza) ed è necessaria
in alcune occasioni.
Anche lo stoicismo e l’autocontrollo fanno parte di questa tradizione.In essi vi è una sorta di atteggiamento da noblesse oblige e infatti in epoca feudale li si esigeva in particolare dai Samurai. La recitazione rarefatta di Kitano, la sua maschera tragica, i lunghissimi silenzi che esprimono più di qualunque battuta, il suicidio finale fanno assomigliare Nishi più ad un antico samurai che a un eroe dei nostri giorni.
Il «bagno di sangue», visto in quest’ottica, assume uno specifico significato che non ha niente a che vedere con la violenza dei films occidentali, diventa con le parole dello storico Yoshisaburo Okakura, come il
bagno mattutino che lava ogni macchia per un popolo che aspira a condurre una vita pura che ha la serenità e la bellezza dei ciliegi in fiore.
Renata Biserni, www.centrostudipsicologiaeletteratura.org
Quella al centro di Hana-Bi potrebbe essere una storia di ordinaria solitudine esistenziale metropolitana:
un dramma contemporaneo che risucchia la vita del personaggio in questione fino al suicidio. Sintetizzata
in questi termini, potrebbe trattarsi di una trama ‘normale’: a renderla unica e, per certi versi, eccezionale,
è lo stile asciutto e ridondante, lento ed accelerato, debordante ed essenziale di Takeshi Kitano, che in questa pellicola lascia trasparire una spiccata propensione per l’eleganza visiva e per la composizione ossimo-
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rica dei contenuti: Hana-Bi è allo stesso tempo un poliziesco d’azione, un noir, un film drammatico, malinconico, riflessivo ma aperto a squarci di sereno, un film complesso ed a registri molteplici. […]
Paolo Boschi, Scanner
Nel film giapponese molto bello, Hana-Bi, premiato con il Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia, il
genere poliziesco si trasforma in una riflessione esistenziale grazie allo stile alto, asciutto, nitido, doloroso e insieme ricco di forza del regista cinquantenne Takeshi Kitano, che in Giappone è una famosissima
star multimediale: attore comico, romanziere, poeta, saggista, autore di fumetti, divo di talk show televisivi, fisicamente pare una versione asiatica di Harvey Keitel. Il gran talento dell’autore (anche protagonista,
sotto lo pseudonimo Beat Takeshi) mette insieme eccentricità sorprendente (il film comincia con un ragazzo giapponese biondo platino, con la scritta «Crepa» vergata in rosso sull’asfalto della strada), calma, silenzio (la storia è quasi senza parole) e scatti violentissimi: pugni fulminei, bacchette da cibo infilate dentro
l’occhio dell’avversario, calci in bocca sino a far vomitare sangue, risse improvvise, sopraffazioni, sparatorie letali, cumuli di cadaveri bucati e insanguinati. […]
Lietta Tornabuoni, La Stampa
IL REGISTA
Personalità multiforme e dagli infiniti talenti, Takeshi Kitano è da
molti considerato il maggior cineasta giapponese in attività. Eppure
la sua carriera iniziò nei primi anni 70 come attore, nel duo comico-demenziale "The Two Beats", in coppia con "Beat" Kyioshi
Kaneko. In Italia lo si ricorda poiché il duo era presente negli spezzoni di Mai dire Banzai della Gialappa's Band.
Nel decennio successivo "Beat" Takeshi divenne uno dei personaggi televisivi più noti in patria, nelle vesti di regista/attore di commedie e conduttore dei più svariati show. Ebbe inoltre modo di recitare in diversi film: nel più celebre di questi, Furyo (1983) di Nagisa
Oshima.
Nel 1989 l'abbandono del regista designato permise a Kitano di
dirigere un film che in realtà doveva solamente interpretare: il risultato fu Violent Cop, un poliziesco anti-spettacolare e sui generis,
girato con una ricchezza di idee e una consapevolezza stilistica
eccezionali per un esordiente. L'anno successivo arrivò l'opera
seconda, Boiling Point, il film è meno teso e secco del primo, il
montaggio più sperimentale e difficoltoso, ma continuano a delinearsi i tratti distintivi di una poetica tanto originale quanto complessa.
Il suo primo film non yakuza è anche il primo in cui non compare come attore: Il silenzio sul mare (1991),
la storia di un ragazzo sordomuto che impara a surfare. Un capolavoro miracoloso tra tra dramma e commedia, e con una delicatezza di tocco rarissima.
Nel 1993 ecco Sonatine, un'altra storia di yakuza. Questa volta l'adesione agli stilemi del film di genere
non è neanche lontanamente presa in considerazione. Le geniali idee di cinema presenti nelle prime tre
opere si amalgamano qui in una costruzione narrativamente "eretica", ma proprio per questo ricchissima
di fascino.
Seguono due episodi minori, il demenziale Getting Any? (1994) e il drammatico Kids Return (1996), due
pellicole senza dubbio riuscite nel loro genere, ma forse "fuori fuoco" rispetto alla poetica più puramente
kitaniana.
Proprio dopo le riprese del primo dei due film Kitano, alla guida della sua motocicletta, fu coinvolto in un
terribile incidente, nel quale sfiorò la morte e al quale seguì una convalescenza di diversi mesi. Nel frattempo ebbe modo di iniziare a dipingere, anche qui con risultati sorprendenti.
Quando nel 1997 si riaffacciò nelle sale, il suo volto era una maschera impassibile (in seguito alle operazioni di chirurgia plastica dovute all'incidente), ma ciò non gli impedì di prendere parte come attore prota25
gonista al suo settimo lungometraggio da regista, Hana-bi. Il film vinse il Leone d'oro al Festival di
Venezia e fece conoscere universalmente il nome di "Beat" Takeshi. E' uno dei capolavori degli anni ‘90,
una delle opere più originali e fantasiose che il cinema moderno ci abbia regalato. I coloratissimi quadri
del Kitano pittore intervallano le scene, che sono quasi sempre al limite della fissità fumettistica.
Nel 1999 è il turno di L'estate di Kikujiro, una lieve commedia incentrata sull'amicizia tra uno yakuza da
quattro soldi (Kitano, ovviamente) e un bambino. La fonte di ispirazione è Il monello di Chaplin.
Lontano anni luce dal suo cliché è invece Dolls (2002), storia di tre amori impossibili destinati a finire in
tragedia. Kitano si abbandona totalmente alla sua vena poetica, introducendo però un romanticismo esasperato (nelle tematiche, non nello stile) finora inedito.
La fiducia è ben riposta: nel 2003 esce Zatoichi, una storia di sangue e vendetta ambientata nel Giappone
dei samurai.
La sua opera seguente, Takeshis' del 2005, è un film diverso dal tipico percorso "kitaniano". Piuttosto sembra essere una summa meta-cinematografica del Kitano uomo pubblico e regista. Segue due anni dopo l'assurdo e sconclusionato Glory to the Filmmaker! in cui Kitano recupera la vena di follia che animava la
sua comicità degli esordi. La trilogia si conclude nel 2008 con Achille e la tartaruga, nel quale il regista
interpreta un pittore decisamente sui generis, riflettendo nuovamente sul concetto di arte e sull'origine dell'ispirazione poetica.
Dopo questa parentesi interlocutoria (cui è da aggiungere anche la direzione dell'episodio One Fine Day
all'interno del collettivo Chacun son cinéma), Takeshi Kitano torna nel 2010 al suo genere d'elezione, lo
yakuza movie, con Outrage, in concorso al Festival di Cannes, nel quale riprende il ruolo dell'insubordinato gangster che ha contribuito a renderlo un icona. Nonostante l'opera non abbia convinto pienamente la
critica, il regista è pronto a lavorare al seguito del film, Outrage 2.
FILMOGRAFIA
Violent Cop (1989)
Boiling Point (1990)
Il silenzio sul mare (1991)
Sonatine (1993)
Getting Any? (1994)
Kids Return (1996)
Hana-bi (1997)
L'estate di Kikujiro (1999)
Brother (2000)
Dolls (2002)
Zatoichi (2003)
Takeshis’ (2005)
Glory to the Filmmaker! (2007)
Chacun son cinéma - Episodio One Fine Day (2007)
Achille e la tartaruga (2008)
Outrage (2010)
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FARGO
Regia Joel Coen
Sceneggiatura Joel e Ethan Coen
Fotografia Roger Deakins
Musica Carter Burwell
Scenografia Thomas Wilkins
Con Steve Macey, Francis McDormand, Steve
Buscemi, Peter Stormare
Produzione Usa
Anno 1996
Durata 98’
LA TRAMA
erry Lundegaard, gestore di una concessionaria d’auto, ingaggia due malviventi per rapire la moglie e ottenere, così, il riscatto pagato dal suocero. Purtroppo per
lui, i due rapitori, tanto incapaci quanto crudeli, tramuteranno in tragedia il rapimento. La poliziotta
Marge, in avanzato stato di gravidanza, indagherà e scoprirà il piano.
J
PREMI
Oscar 1996: miglior attrice a Francis McDormand
Oscar 1996: miglior sceneggiatura a Joel ed Ethan Coen
Festival di Cannes 1996: miglior regia a Joel Coen
LA CRITICA
Sulla mappa Fargo è una località al confine fra il North Dakota e il vicino Minnesota: intitolando cosi’ il
loro film, presentato in concorso e in uscita la settimana prossima in Italia, i fratelli Joel ed Ethan Coen
hanno voluto simbolicamente alludere al confine tra il bene e il male. Proprio in un bar notturno di Fargo,
nella prima scena, sorprendiamo il venditore di macchine Jerry (l’attore è William H. Macy, un prediletto
di Mamet) sancire un patto scellerato con i gangsters Carl (Steve Buscemi, della scuderia Tarantino) e Gaer
il taciturno (Peter Stormare, uno svedese targato Bergman). I due furfanti si impegnato a rapire la moglie
di Carl in modo da far pagare a Wade (Harve Presnell), ricco padre di lei, il congruo riscatto con cui Jerry
conta di tamponare i propri debiti. È un modo per far vedere come in un quadretto familiare da «Ladie’ s
Home Journal», affondato nel bianco paesaggio invernale, la cupidigia produce disastri. Paurosamente
mascherati Carl e Gaer irrompono nella villa alla periferia di Minneapolis e si portano via dopo una lotta
forsennata la povera donnetta, sorpresa mentre stava davanti alla tv: a Jerry non resta che esibire il suo finto
dolore al suocero, che però è un tipo tosto (alle sue spalle, nello studio, ha un paio di bronzi di cowboys
scolpiti da Remington) e non rinuncerà a farsi giustizia da sè in stile vecchia America. Negli assurdi andirivieni del film le macchine passano e ripassano sotto l’enorme scultura in legno del semidio Paul Bunyan,
patrono della zona e ulteriore simbolo di valori ormai desueti. Mentre i Coen ci descrivono dei cialtroni
tanto insipienti da non reggere il confronto con i cattivi di una volta, non nascondono la loro simpatia per
la poliziotta Marge (l’attrice bravissima è Frances McDormand, nella vita moglie di Joel), casalinga e
incinta di sette mesi, che appare dopo mezz’ ora e si appresta a seguire le sanguinose tracce dei rapitori
(alla fine i morti inutilmente ammazzati ammonteranno a sette). Straordinaria tragicommedia dove le più
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svariate e raffinate componenti intellettuali si innestano su una trama di genere, Fargo gioca a opporre la
normalità del bene alla normalità del male: l’una e l’ altra sono rappresentate con ineffabile ironia in situazioni e dialoghi essenziali. I personaggi appaiono immersi nel torpore della vita provinciale, sia quelli che
hanno trascurato di mettere l’orologio all’ora attuale, sia quelli che si illudono di incrementare il proprio
destino con spunti di cinismo o atti di violenza. Tutti guardano la tv: ladri, guardie e gente comune. E
Marge, in particolare, è una donna comune di tipo non comune: la prova vivente che nella confusione
odierna l’ attaccamento tranquillo ai propri compiti (il marito, la famiglia che cresce, il dovere del servizio) rappresenta l’ unica alternativa. Fargo è la conferma della statura di una premiata coppia registica
(Palma d’ Oro con Barton Fink nel ‘91) e insieme un racconto esemplare dell’America di fine secolo,
accolto qui con grande favore per i suoi valori d’ intrattenimento e la sbalorditiva economia dello stile.
Vorrei concludere, profetizzando: è un film che resterà .
Kezich Tullio, Corriere della Sera, 15 maggio 1996
Fargo, o «de l’avidità». Quattro colori segnano il film dei fratelli Coen: il bianco, il rosso, il verde e il nero.
Il bianco è quello della neve, neve che si trova ovunque, immacolata coltre bianca che confonde l’orizzonte: ti volti a destra e sinistra per sotterrare una valigetta piena di soldi e non vedi altro. Il rosso è il sangue:
di quando ti sparano alla mascella, di quando passi nel posto sbagliato al momento sbagliato e vedi qualcosa che non dovresti, di quando trituri il cadavere del tuo socio nella macchina per tagliare la legna. Il
verde non lo si vede spesso, ma è quello che vorresti vedere di più: è il colore dei soldi che ti spinge a organizzare il rapimento di tua moglie per ricattare il bastardo di tuo suocero. Il nero infine è quello della commedia che si mescola al thriller: l’ironia beffarda che intacca le circostanze, vicende paradossali che si
intrecciano nella ridicola tragedia fallimentare dell’uomo.
Nel 1994 i Coen girano Mister Hula Hoop, prima grossa produzione dopo i consensi di pubblico e critica
dei primi quattro film, che però si rivela un’opera deludente. Per il lavoro successivo decidono di tornare a casa, con
una storia più consona, nei posti dove
sono cresciuti e che conoscono bene.
Fargo, allora, che dà l’idea di un paese
americano dimenticato da dio, su a
nord, centocinquanta chilometri dal
confine canadese, a cavallo tra Nord
Dakota e Minnesota, dove poi le vicende sono ambientate, tra le città di
Breinard e Minneapolis. Jerry
Lundegaard (William H. Macy), modesto venditore di automobili, assolda due
malviventi, Carl (Steve Buscemi) e lo
psicopatico e taciturno Gaear (Peter
Stormare), per far rapire la propria
moglie e chiedere il riscatto al ricco
suocero Wade (Harve Presnell). Ma il
sequestro si complica quando i due
galantuomini cominciano a lasciarsi
alle spalle una serie di inutili cadaveri,
sui quali indaga la poliziotta Marge
(Frances McDormand), incinta e sposata col pacifico Norm (John Carroll
Lynch). Tornano molti topoi coeniani:
il rapimento (Arizona Junior, Il grande
Lebowski), il ricatto (L’uomo che non
c’era, A prova di spia), la violenza
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(Crocevia per la morte, Non è un paese per vecchi), e poi il tragicomico fallimento dei piani, le ironiche
fragilità dell’uomo, l’omicidio che irrompe nella vita quotidiana, gli uomini comuni che si rendono protagonisti delle peggiori meschinità, e un’intera avvilente galleria di personaggi senza scrupoli e bugiardi. E,
ovviamente, l’avidità.
Il bianco è, come detto, il colore della neve che sommerge un paesaggio che fa da sfondo a un intreccio
noir. Paesaggio solitario, quasi alienante, non-luogo che annichilisce i sentimenti. Scenario immoto e desolato, in contrasto con le persone che invece si muovono generando danni e drammi - frustrati, perdenti, arrivisti, incapaci di comunicare. Ma bianco è anche il candore, l’innocenza della maternità che diverge con il
rosso della violenza, il verde dell’avidità e il nero del racconto. Marge - la cui gravidanza è emblema di
femminilità - in opposizione a un universo di maschi mediocri, bugiardi, falliti, miserabili; che fa un lavoro da uomo e contrappone a questa insensata isteria maschile valori morali e principi semplici, logica e
buon senso, fermezza e decisione nonostante la sua apparente fragilità (il corpo ingombrante, la nausea
mattutina). Marge non è uno smaliziato detective hard-boyled e tanto meno un supereroe, ma cerca di capire il perché delle cose, prima ancora del come e del chi. Arriverà a trovare i colpevoli, ma per lei resteranno irrisolvibili i motivi di tanta atrocità. Non sa decifrare la folle natura umana, e lo ammette nel momento in cui arresta Gaear e lo rimprovera come un bambino: «There’s more to life than a little bit of money,
you know. And here you are. And it’s a beatiful day. I just don’t understand it». Per lei anche una qualunque schifosa giornata di inverno è una bella giornata, sa apprezzarla, mentre non comprende come si possa
uccidere solo per «un po’ di soldi». Gaear, simbolo di una condizione umana condannata all’indifferenza
e alla gelida apatia, non ha parole, vuoto come il paesaggio fuori dal finestrino.
Il solo uomo che pare sottrarsi a questa bassezza morale e al fallimento è Norm, il marito di Marge, che
sembra più la donna di casa. I loro piccoli quadri di una vita domestica pulita, basata sul non-detto e fatta
di semplici piaceri sono il contraltare delle vite abiette e immorali di Carl e Gaear da un lato, e di Jerry dall’altro. Ma se Marge apprezza le modeste gioie della sua vita, è anche attratta dall’evasione dalla routine,
come ad esempio l’incontro con l’ex compagno di scuola Mike Yanagita (Steve Park). La digressione è
spiegata dai Coen come un espediente per un ulteriore effetto di verosimiglianza, ma di fatto introduce un
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altro uomo, nuovamente inetto, fallito, inaffidabile, che tenta di circuire goffamente Marge, viene respinto con educazione, e si rivelerà un debole frignone e bugiardo. L’innocenza di Marge è solo relativa: intende il pericolo e la corruzione quando ci si trova di fronte.
Secondo Aristotele, le persone prive di vergogna non sono in grado di instaurare relazioni come amore e
amicizia. La vergogna è il dolore dell’aver commesso qualcosa che ci discrediti, soprattutto agli occhi di
coloro che riteniamo moralmente importanti. Le persone eccellenti hanno il senso della vergogna; altri
invece non la provano del tutto e non sanno riconoscere il proprio operato come sbagliato; altri, infine,
sono mossi da passioni forti (rabbia, odio, avidità) che discernono, ma non riescono a controllare. Marge
è un modello di eccellenza: è attenta e discreta nel rimproverare gli altri (correggere l’errore di un collega,
allontanare il vecchio compagno di scuola, ammonire il marito di non essere troppo avido se non ha ricevuto il primo premio a un concorso, sparare a Gaear su una gamba e redarguirlo), non solo per il suo essere Minnesota nice, ma perché ha introiettata la misura della vergogna, rispetta gli altri, ed è quindi la sola
ad avere un amore sincero e incondizionato, non utilitaristico. Chi invece non è neppure in grado di avere
una conversazione è Gaear («Would it kill you to say something?», gli chiede Carl), che si muove solo per
soddisfare i propri appetiti più bassi (i soldi, il pancake, il sesso con le prostitute), e non è in grado di rispettare nessuna legge civile o etica. Jerry, infine, è la terza via indicata da Aristotele: è un subdolo bugiardo
nel vendere auto («A bold-face liar» lo definisce un cliente truffato), e non prova rimorsi; vuole evitare
quella che sente come una pubblica umiliazione (la povertà) e per questo mette in moto un atto aberrante
di cui distingue l’errore, ma non può fermare. Si nasconde dietro finti sorrisi infingardi (riflessi incondizionati) anche quando parla col figlio, ha attacchi di ira sempre più soffocati, è ridicolo quando cerca il
tono giusto per comunicare la notizia del rapimento al suocero, e raggiunge il culmine del patetico mentre
viene arrestato in mutande. Scotty (Tony Denman), il figlio adolescente, maschio non ancora corrotto e
unico realmente in ansia per le sorti della madre (Wade è più concentrato sul prezzo del riscatto), ci permette di misurare le colpe degli adulti che lo circondano.
Joel e Ethan Coen amano giocare con generi e codici narrativi, in particolare quelli del noir, che qui, come
detto, si combina con la commedia. Commedia sull’evasione dalla routine, sui confini a cui può spingersi
l’uomo nel cercare di cambiare la propria vita, generando invece discrasie, caos, dolore. L’umorismo nasce
dall’osservazione delle azioni compiute per pura disperazione e mero interesse. La violenza diventa farsa
e l’imprevedibilità norma. I personaggi evadono gli schemi classici: una poliziotta di provincia incinta
indaga su crimini efferati, i cattivi non sono geni del male, ma stupidi e impreparati, perché così succede
nella realtà. I Coen sviscerano stereotipi regionali di una fetta di America, sineddoche della cultura americana e per esteso della condizione umana, con elementi di verosimiglianza culturale e idiomatica, e satira
sociale.
La verosimiglianza, allora. Con Fargo - Oscar come miglior sceneggiatura - i Coen compiono un vero
esperimento di semantica. Una didascalia all’inizio presenta i fatti come realmente accaduti. Ma lo spunto
di cronaca è solo parziale, il resto è pura finzione. Una sfida alla credulità dello spettatore, che si trova
immerso negli stereotipi della cultura del Minnesota in modo quasi sociologico, e vede contrapporsi il realismo dei luoghi e del modo di parlare (è stato assunto un trainer per l’accento) a una storia assurda. Com’è
possibile che tutto questo sia successo e io non ne abbia mai sentito parlare? La dicitura vuole evitare che
il film venga visto come un thriller ordinario: è una sfida ai codici della verosimiglianza, confonde realtà
e finzione. Si sa, spesso storie realmente accadute possono sembrare più incredibili di quelle inventate, e
allora la riflessione per esteso comprende la plausibilità stessa del cinema e dei media: dovrei fidarmi di
quello che un regista mi fa vedere? Lo spettatore è il solo ad avere un punto di vista esterno sulla vicenda,
è il solo a poter rispondere al quesito di Marge e a trarre le conclusioni sul perché ci spinga a tanto squisitamente per avidità.
Lo humor nero smaschera le incongruenze e i contrasti del quotidiano attraverso il paradosso. Lo spargimento di sangue gratuito non è solo ironico e provocatorio, ma evidenzia lo iato tra vero e falso. La mdp
è il più possibile distaccata, non cerca effetti drammatici, con la sola concessione delle geometrie di oggetti e persone in contrasto sugli sfondi bianchi. Un realistico spaccato di cultura americana viene messo in
scena per setacciare la frattura tra credibile e incredibile, reportage e fiction, verità e menzogna. I criminali fanno cose «comuni»: litigano per mangiare il pancake, guardano soap opera alla tv, si servono di espressioni ricorrenti, si mettono il cappello prima di uscire per ammazzare a sprangate il proprio collega, discu30
tono sui dettagli degli orari e polemizzano sul pagamento del pedaggio. Le idiosincrasie e le peculiarità del
Minnesota, fortemente influenzato dalla cultura scandinava, sono tratteggiate con minuscoli dettagli, si
respirano l’aria e l’atmosfera delle stanze, anche grazie a una scenografia curatissima (di Rick Heinrichs)
e alle musiche (di Carter Burwell) basate su temi popolari nordici. Gli accenti, la parlata economica, asciutta, le maniere educate e distaccate di matrice nordeuropea fanno apparire i personaggi verosimili ed evitano di farli cadere nella caricatura.
Alla fine tutti pagano il contrappasso della propria avidità: Wade vuole consegnare i soldi di persona e
muore, Jerry e Gaear vengono arrestati, Carl è ucciso da Gaear perché vuole tenersi l’auto. Solo Marge e
Norm potranno continuare con le loro vite, in attesa del figlio. Il delitto non paga, ma soprattutto non ci si
può fidare di nessuno: tuo marito ti fa rapire, il tuo socio ti uccide, un vecchio amico ti contatta con una
scusa innocente ma ha in mente altro, e i registi di un film? Quelli, poi: ti presentano una storia come vera
quando non lo è. Allora che mondo è, questo, dove non puoi credere a colleghi, parenti e amici? In che
mondo viviamo se non possiamo più fidarci neanche delle immagini di un film, della parola dei registi?
Davide De Lucca, www.ondacinema.it
Cieli lattescenti, sconfinate distese di neve, gelo, nebbie candide, paesaggi piatti immensamente bianchi: il
Grande Inverno americano è l’invenzione figurativa bellissima di Fargo di Joel Coen. Altre immagini straordinarie: un gangster che tentando di triturare il cadavere del suo compagno nella macchina per fare la
segatura arrossa la neve d’una pioggia di sangue; un capo della polizia che è una donna incinta di almeno
sette mesi (la brava Frances McDormand, moglie di Joel Coen, che scherza: «Da dodici anni vado a letto
col regista ed è la prima volta che mi dà una bella parte»). Bersaglio centrato e comune a molti altri film
del festival: i soldi, l’avidità di soldi, quel sogno o bisogno dei soldi che oggi rende cosi facilmente criminali le persone «per bene», come la cronaca registra ogni giorno. I fratelli Coen (Joel regista, Ethan produttore, insieme sceneggiatori) hanno fatto il primo film della loro storia ispirato alla realtà, a un episodio
accaduto nel 1987 nel Minnesota, a Minneapolis dove sono nati e cresciuti (anche loro, quarantenni, come
Altman settantenne tornano al paese natale): un venditore d’automobili strangolato dai debiti progetta di
rapire la propria moglie e di chiedere un riscatto al ricco padre di lei; assolda allo scopo due piccoli delinquenti inetti e quasi pazzi, Steve Buscemi, Peter Stormare; il piano non funziona affatto, tutto va storto,
tutto si disfa nel caos, nel delitto, nella morte. A Fargo, nel North Dakota, il protagonista tratta coi delinquenti il sequestro della moglie, segnando il proprio passaggio apparentemente così agevole e facile alla
criminalità: William H. Macy è l’ottimo interprete del personaggio, un uomo come se ne conoscono tanti,
assediato dalla mancanza di soldi, frustrato, ansioso, umiliato e spaventato all’idea di venir ancora mortificato, che cerca disperatamente di rendersi simpatico con i sorrisi, la cordialità e i «no problem» del venditore. Ma tutto è bello nel film molto riuscito: il rapimento confuso e poi l’abbandono della rapita, buttata sul pavimento come un cane schiacciato sull’autostrada; le esplosioni di violenza, il gangster ferito che
cerca di tamponare il sangue con la carta igienica, le uccisioni a colpi di pala in testa, l’avarizia del ricco,
le facce dei vinti, lo sguardo affettuoso e spietato dei Coen sulla gente normale.
Lietta Tornabuoni, La Stampa, 15 maggio 1996
I fratelli Coen raccontano la storia di un caso di omicidio secondo la loro inimitabile angolazione, arricchendola con buffe osservazioni sugli abitanti del Minnesota e finendo col realizzare una commedia assolutamente disarmante! La McDormand è formidabile nei panni di una poliziotta efficiente (e incinta) con
molti omicidi fra le mani; Macy è altrettanto bravo in quelli di un intrallazzatore da due soldi che cerca di
mantenere il sangue freddo quando si ritrova invischiato fino al collo in una serie di delitti. E che belle le
musiche di sottofondo! Vincitore dell’Oscar per la migliore sceneggiatura (Joel ed Ethan Coen) e la migliore attrice (McDormand).
Leonard Maltin. Guida ai film
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I REGISTI
Joel e Ethan Coen, i due fratelli nati a
Minneapolis rispettivamente nel 1954 e nel
1957, sono registi, sceneggiatori e produttori, spesso scambiandosi i compiti e realizzando prodotti assolutamente omogenei e
quindi, di fatto, rendendo inutile qualsiasi
distinzione dei ruoli.
Il loro primo lungometraggio è del 1984:
Blood Simple - Sangue facile, un noir che
prende spunto dalla lezione di Hitchcock e
Welles. Del 1987 è il loro secondo film,
Arizona Junior, commedia grottesca, scoppiettante e divertente.
Nel 1990 realizzano il loro terzo lungometraggio, Crocevia della morte, un gangster-movie violento e gelido nel quale viene affrontato il tema dell’intreccio fra politica, affari e criminalità organizzata. È una delle
vette più alte della prima parte della carriera dei Coen. Altezze che torneranno a raggiungere nel 1996 con
Fargo, ambientato nella loro città natale, Minneapolis, con il quale trionfano al Festival del cinema di
Cannes. Il film è un crudo affresco della provincia americana e, scardinando gli stereotipi del noir che
vuole ambientazioni cupe e, spesso notturne, viene giato in un paesaggio innevato, dove il candore dell’ambiente esterno fra da contrappeso, rimarcandolo ancora di più, al nero dell’animo umano. I Coen tornano dietro la macchina da presa nel 1998, con Il grande Lebowski, dove il protagonista, interpretato da
un ottimo Jeff Bridges, è un acuto osservatore del degrado morale della società contemporanea.
Joel e Ethan recuperano i temi del noir classico nel 2001 con L’uomo che non c’era, raffinato bianco e nero
con Billy Bob Thornton nella parte di un laconico barbiere condannato alla pena capitale per un omicidio
mai commesso, tornando al noir moderno con il violento e crudo Non è un paese per vecchi (2007), dove
una catena di omicidi commessi da un serial killer (Javier Bardem) non potrà essere arginata neanche da
un vecchio e coscienzioso sceriffo (Tommy Lee Jones).
In molti dei loro film recita parti da protagonista Frances McDormand, attrice e moglie di Joel Coen. La
Mc Dormand presente sin dal primo film dei fratelli, ha vinto l’Oscar come miglior attrice protagonista con
Fargo, dopo aver già ottenuto l’ambita statuetta come miglior attrice non protagonista per Mississippi
Burnig, pellicola del 1998 di Alan Parker.
FILMOGRAFIA
Blood Simple - Sangue facile (Blood Simple) (1984)
Arizona Junior (Raising Arizona) (1987)
Crocevia della morte (Miller's Crossing) (1990)
Barton Fink - È successo a Hollywood (Barton Fink) (1991)
Mister Hula Hoop (The Hudsucker Proxy) (1994)
Fargo (1996)
Il grande Lebowski (The Big Lebowski) (1998)
Fratello, dove sei? (O Brother, Where Art Thou?) (2000)
L'uomo che non c'era (The Man Who Wasn't There) (2001)
Prima ti sposo, poi ti rovino (Intolerable Cruelty) (2003)
Ladykillers (The Ladykillers) (2004)
Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men) (2007)
Burn After Reading - A prova di spia (Burn After Reading) (2008)
A Serious Man (2009)
Il Grinta (True Grit) (2010)
Suburbicon (2012)
32
COLLATERAL
Regia Micahel Mann
Sceneggiatura Stuart Beattie
Fotografia Dion Beebe
Scenografia David Wasco
Musica James Newton Howard
Montaggio Jim Miller, Paul Rubell
Costumi Jeffrey Kurkland
Con Tom Cruise, Jamie Foxx, Jada Pinkett-Smith, Mark
Ruffalo, Peter Berg, Bruce McGill, Irma P. Hall, Barry
Shabaka Henley, Richard T. Jones, Debi Mazar, Javier
Bardem
Produzione Usa
Anno 2004
Durata 119’
LA TRAMA
os Angeles, atmosfera sincopata. Max, tassista
modello, compie una corsa con un procuratore donna che avrebbe dovuto discutere un
caso in tribunale la mattina successiva. Immediatamente dopo, un nuovo cliente, Vincent,
che gli fa una proposta allettante, accompagnarlo per l'intera notte in cambio di 700 dollari.
Max si fa convincere, senza sapere che da quel momento avrebbe iniziato un viaggio allucinante. Vincent è infatti un killer di professione che deve regolare i conti con cinque persone, una
delle quali, a sua insaputa, sta a cuore al conducente di taxi.
L
PREMI
BAFTA alla migliore fotografia a Dion Beebe e Paul Cameron
National Board of Review Awards 2004: miglior regista
2 Satellite Awards 2005: miglior montaggio, miglior sonoro
LA CRITICA
Collateral è una sinfonia notturna dedicata a Los Angeles, il ritratto mobile di una città: Michael Mann
piega al suo estro uno script piuttosto interessante e gira almeno un’ora e mezza di cinema strepitoso. Se
il dato sostanziale è, come al solito, alquanto attraente – la storia cogliendo i protagonisti in medias res e
vedendoli operare nel tempo concentrato di una notte – e il rapporto tra i due personaggi, rilevandosi il loro
graduale cambio di ruoli, sviluppato con ludica geometria, è vero d’altronde che le modalità con le quali
questi elementi vengono resi risulta ancora più eclatante: Mann (che gira in digitale gran parte dell’opera)
non è stato mai tanto efficace nel celebrare a dovere l’immagine in movimento e nel dipingere, da pittore
sensibilissimo, un’atmosfera e una situazione. Superfluo è dire allora della suprema tecnica dell’artefice,
della sua capacità di spogliare le vicende di ogni orpello e di riportarle, prosciugate, dal chiuso di un abitacolo agli esterni luminescenti di una città. E se Cruise appare così bravo è perché non è, come al solito,
la star che ha da imporsi sul resto ma, come in Eyes wide shut, elemento perfettamente integrato in un quadro che assume rilevanza nella sua globalità (Collateral è un film di Michael Mann non un film con Tom
Cruise). L’ultima parte si inchina alle ragioni del thriller triviale e fa perdere quota a una pellicola fino ad
allora perfetta, ma questo inciampo è peccato che perdoniamo facilmente a un regista che usa in quella
manciata di minuti la maschera del blockbuster solo per coprire allo sguardo vorace di Hollywood il sembiante del vero artista.
Luca Pacilio www.spietati.it
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Nel processo di significazione dell’immagine-cinema, il lavoro compiuto da Michael Mann rappresenta
probabilmente il discorso estetico più rigoroso e coerente svolto da un regista all’interno del cinema americano degli ultimi venti anni. Anche dopo la separazione dal fido collaboratore alla fotografia Dante
Spinotti - con cui non lavora dai tempi di Insider, il punto forse più alto della carriera di entrambi - il cineasta è comunque riuscito a portare avanti un’idea di cinema assolutamente precisa e riconoscibile, la cui cellula primaria e portante è proprio la composizione dell’immagine: un’inquadratura estrapolata da opere
come Manhunter, Heat, o Alì contiene in sé un lavoro di sperimentazione e di significazione rigorosa difficilmente rintracciabili in altri registi con una tale consapevolezza e coerenza. Il taglio e l’angolazione dell’inquadratura, l’uso del fuoco o del grandangolo, oppure più semplicemente della sola luce: tutte queste
componenti, assemblate tra loro sempre secondo una stessa filosofia estetica, hanno portato alla composizione di un mosaico di rara bellezza, che racchiude in sé più pellicole legate tra loro, ed il cui filo conduttore è appunto la pregnanza e potenza del lavoro sull’immagine. Ora, la cosa assolutamente straordinaria
del lavoro di Mann è che è riuscito a caricare talmente la sua visione cinematografica proprio sottraendo
al resto delle componenti di cui un film è composto: un primo piano su Al Pacino, su Robert De Niro o
Russell Crowe, su William Petersen o Will Smith contengono in sé già un così grande numero di informazioni psicologiche che allora l’autore si è potuto permettere di sottrarre spazio ala lungaggine della parola, del dialogo, procedendo così ad una sublimazione capace di alleggerire e slanciare tutti i suoi film. Nelle
opere più riuscite di Mann il lavoro di sottrazione e stilizzazione visiva ha compiuto l’impresa di eliminare la parola; l’immagine, sempre più rarefatta e preziosa, è diventata il primo ed assoluto veicolo di racconto, comunque sempre diretta verso un processo di sintesi inaudito.
Ora, perseguendo tale scelta stilistica, a noi pare assolutamente coerente che Mann arrivasse prima o poi a
tentare la strada del digitale, (non)formato capace di scarnificare al massimo l’immagine, ma allo stesso
tempo pronto a decretarne definitivamente l’importanza se usato secondo criteri coerenti e soprattutto volti
a non considerarlo un “parente povero” della pellicola. Va da sé perciò che sotto questo punto di vista
Collateral è l’opera più rischiosa e sperimentale di Mann, e questo anche se il risultato estetico non fosse
stato così assolutamente straordinario. Finalmente, cosa che il cineasta ha sempre tentato di fare, ambiente e personaggi riescono a fondersi in un unico marasma di colore e soprattutto di oscurità; sfruttando in
tutte le sue potenzialità l’appiattimento, la mancanza di profondità che il digitale fornisce all’immagine, il
regista è riuscito a condensare la sua triste e sfavillante Los Angeles in una serie di fotografie oseremmo
dire surreali, in cui si dipana la storia altrettanto borderline del tassista Jamie Foxx e del suo inquietante
passeggero Tom Cruise. Strade deserte, non-luoghi densi di colori saturati come la discoteca, soprattutto il
taxi in cui i due protagonisti-antagonisti si conoscono e si confrontano: tutti gli ambienti di Collateral sono
allo stesso tempo tangibili ed astratti, semplicemente riconoscibili ma non identificabili, e diventano a loro
volta attore di ruolo fondamentale nel processo di stilizzazione del film, che tocca vertici inusitati. Ed insie-
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me a questo, Collateral è un thriller serrato, coinvolgente, un’opera capace di straordinarie accelerazioni
di ritmo e di scene d’azione di rara efficacia. Quello che davvero sorprende è poi la perfetta fusione di un
progetto così lucido con una dose altrettanto compiuta di attenzione alle regole del genere, rispettate in
ogni particolare anche dalla magnifica sceneggiatura di Stuart Beattie.
Rigoroso e sperimentale, sporco e sublime, Collateral ci accompagna per due ore nel più incredibile “tutto
in una notte” che si ricordi: Jamie Foxx e soprattutto Tom Cruise offrono il meglio delle loro capacità nel
riempire due personaggi già di per sé pieni di sfaccettature, che esprimono la loro vita interiore in maniera istintiva, quasi animalesca, reagendo così alle leggi della giungla cittadina che vengono loro imposte.
Michael Mann per certi versi ha davvero sfornato il suo capolavoro, trovando il punto più alto raggiungibile da ogni componente della macchina-cinema. La sua capacità di costruire l’opera in modo da elevare
la tensione fino al climax viene riproposta in questo film al suo massimo; ed infatti gli ultimi venti minuti di Collateral rappresentano una sinfonia visiva, cromatica, sonora e soprattutto emozionale che davvero non verrà dimenticata.
Adriano Ercolani http://www.offscreen.it
IL REGISTA
All’interno del panorama del cinema contemporaneo
pochi registi possono vantare una filmografia coerente e di
qualità come quella di Michael Mann, un regista che ha
attraversato gli ultimi trent’anni di storia del cinema americano affrontando un genere come il poliziesco e portandolo a livelli di raffinatezza visiva e di introspezione psicologica assoluti.
Michael Mann è nato a Chicago il 5 febbraio 1943. Dopo
essersi laureato in letteratura inglese presso l’Università
del Wisconsin, Mann si innamora del cinema e della regia
in particolare: abbandona così l’idea di una carriera accademica e nel 1964 parte per l’Inghilterra. Frequenta le
lezioni della prestigiosa London International Film School
durante tutta la seconda metà degli anni Sessanta.
Seguendo un trend inaugurato da alcuni registi attivi sul suolo inglese in quegli anni (ad esempio Alan
Parker e i fratelli Ridley e Tony Scott) anche Mann si dedicò alla pubblicità e al cortometraggio. Nel 1971
Mann ritorna negli Stati Uniti, inizia a lavorare come produttore esecutivo per la 20th Century Fox, recita
in alcune pellicole di secondo piano e soprattutto comincia a farsi notare con la scrittura di alcuni episodi
della famosa serie televisiva Starsky e Hutch. Questo gli permise di lavorare nel 1978 sulla produzione di
un’altra serie, Vegas, una delle più seguite dell’intera stagione televisiva. E così, di successo in successo,
Mann riesce ad avvicinarsi sempre più al mondo del cinema: nel 1979 gira Jericho Mile, un film per la tv
che verrà poi proiettato anche nei cinema. È il suo battesimo di fuoco sul grande schermo, fu nominato agli
Emmy come miglior film drammatico e Mann vinse il premio per la migliore sceneggiatura mentre la
Director’s Guild of America gli assegnò il premio per la migliore regia.
Nel 1981 si occupa della sua prima pellicola pensata specificamente per il cinema: supportato da un attore in stato di grazia, James Caan, realizza Strade violente, un noir metropolitano lento e sinuoso, ambientato nelle strade notturne e piovose di Chicago. Strade violente è il primo lavoro in cui Mann lascia trasparire il suo stile espressivo e fiammeggiante. Dopo la strana incursione nell’horror del 1983 con La fortezza , la televisione torna a bussare alla sua porta l’anno successivo. Dal 1984 fino al 1989 è stato il produttore esecutivo e autentica mente di Miami Vice, successivamente Mann produsse dal 1986 al 1988 anche
Crime Story.
Nel 1986, all’interno di questo dedalo di impegni televisivi, Mann riesce a ritagliarsi il tempo per dedicarsi alla sceneggiatura e alla regia di un film tratto da «Red Dragon», un romanzo di Thomas Harris. L’esito
di questo lavoro sarà Manhunter - Frammenti di un omicidio, il suo primo capolavoro. Fa la sua comparsa ufficiale sul grande schermo lo psicologo antropofago Hannibal «The cannibal» Lecter, reso poi celebre
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da Anthony Hopkins ne Il silenzio degli innocenti. Nel 1989 Mann dirige Sei solo agente Vincent, una sorta
di prova generale prima della realizzazione, sei anni più tardi, di Heat – La sfida. Nel 1992 è la volta de
L’ultimo dei Mohicani. Tratto dall’omonimo romanzo di James Fenimore Cooper, è solo all’apparenza un
oggetto spurio rispetto al resto della filmografia di Mann.
L’amore di Mann per le serie televisive e per la possibilità di sviluppo delle storie che la loro lunghezza
consente trova espressione nei due film successivi, due pellicole che sfiorano entrambe le tre ore, due
autentici gioielli nella sua filmografia: Heat – La sfida e Insider – Dietro la verità.
Heat è del 1995 ed è un noir colossale, un affresco come al cinema non se ne vedevano da un sacco di
tempo. La storia è tutta centrata sul confronto-scontro tra il poliziotto Al Pacino e il ladro Robert De Niro.
Insider – Dietro la verità è invece del 1999 ed è una storia solo apparentemente più piccola ma è un film
di denuncia contro le industrie del tabacco girato con una forza morale e visiva assolutamente senza precedenti nel panorama del cinema a stelle e strisce
Nel 2001 riprende una storia vera, quella di Muhammad Alì e ne trae un film decisamente personale. Alì.
Nel 2006, dopo Collateral, riprende la storia dei «suoi» detective Sonny Crockett e Rico Tubbs e gira
Miami Vice Un film di genere solido come una roccia. Due anni fa l’ennesimo capolavoro: Nemico pubblico, sulla caccia a Dillinger nell’America degli anni ‘20.
FILMOGRAFIA
La corsa di Jericho (The Jericho Mile) (1979) - Film TV
Strade violente (Thief) (1981)
La fortezza (The Keep) (1983)
Manhunter - Frammenti di un omicidio (Manhunter) (1986)
Sei solo, agente Vincent (L.A. Takedown) (1989) - Film TV
L'ultimo dei Mohicani (The Last of the Mohicans) (1992)
Heat - La sfida (Heat) (1995)
Insider - Dietro la verità (The Insider) (1999)
Alì (Ali) (2001)
Collateral (2004)
Miami Vice (2006)
Nemico pubblico - Public Enemies (Public Enemies) (2009)
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36 QUAI DES ORFÈVRES
Regia Olivier Marchal
Musica Erwan Kermorvant, Axelle Renoir
Con Daniel Auteuil, Gerard Depardieu, André Dussolier,
Valeria Golino, Mylène Demongeot, Olivier Marchal,
Roschdy Zem, Daniel Duval
Produzione Francia
Anno 2004
Durata 110’
LA TRAMA
l titolo fa riferimento alla sede ove si trova la sede
centrale della polizia parigina. Due poliziotti,
Vrinks (capo delle Brigade De Recherche et
d’Intervention) e Klein (capo delle Brigade de
Répression du Banditisme), un tempo legati da profonda amicizia, si odiano e sono in competizione per il posto di direttore generale. Chi dei due riuscirà a sgominare una pericolosa e
violenta banda di criminali sarà il favorito. Ispirato a fatti realmente accaduti e alle esperienze del regista, un tempo poliziotto.
I
PREMI
Premio del pubblico al Courmayeur Noir in festival 2004
LA CRITICA
Il 14 gennaio 1985, il capitano Dominique Loiseau della Bri (Brigata d’intervento rapido) morì in un conflitto a fuoco con una banda di rapinatori. L’improvvido intervento degli uomini della Brb (Brigata di
repressione del banditismo) fece scoprire il poliziotto in appostamento. Nella squadra di Loiseau, alla
memoria del quale 36 – Quai des Orfèvres è dedicato, anche un giovane ufficiale, Olivier Marchal, che
adesso, da regista, racconta questa storia. Daniel Auteuil è il capo della Bri, Gérard Depardieau del Brb. Il
primo tra loro che riuscirà ad acciuffare una gang di spietati banditi avrà il posto di direttore generale della
Police Judiciaire, sostituendo André Dussolier. E Depardieau è pronto a tutto, letteralmente, per avere quella dannata scrivania. Qual è il confine tra lecito e illecito, per uno sbirro? In fondo se lo chiede anche
Auteuil, che per la dritta risolutiva vende l’anima al diavolo. Ma in un poliziesco così domandarsi dove
stiano i buoni è un esercizio sterile. Contano, prima di tutto, le facce. Quelle giuste dei due protagonisti,
con un Depardieau immenso, ricurvo sulle spalle, le mani sempre in tasca, lo sguardo che tradisce una frustazione recondita, inutilmente seppellita sotto una fitta coltre di bastardaggini. E il “contorno”: da
Dussolier, che concentra in due sguardi e tre battute il letamaio della politica, a Mylène Demongeot, l’anziana Manou, immagine di tutte le Manouche di melvilliana memoria. Ogni personaggio un universomondo, ogni poliziotto solitudine e rabbia. Certo Marchal è un eccellente regista “d’azione”, e qui c’è di
che divertirsi, ma sono i percorsi umani e disumani a scartavetrare l’anima. Sono le lacrime di uno dei
funerali più belli mai visti al cinema o l’intensità sorda di certi passaggi, certe occhiate, certe frasi bisbigliate all’orecchio, cariche di allusioni. Nella seconda parte, quando Auteuil sembra finire per sempre a
Monte Cristo e il tradimento di Depardieau grida vendetta al cielo, , qualche risvolto narrativo si fa macchinoso, . ma è un niente, un eccesso d’amore nei confronti di una storia che è la propria, e per questo non
la si vorrebbe mollare mai. Fino alla frase sussurrata da Auteuil nel cesso (“Se non riesci con la prima pal37
lottola, ce ne sono altre tredici”), comunque un bellissimo polar.
Mauro Gervasini, FilmTv, 4/2005
Da tempo in condizioni migliori di quella italiana, la cinematografia francese potrebbe offrire qualche interessante spunto di riflessione anche per far ripartire l’ansimante macchina della nostra produzione nazionale. Soprattutto nel campo, spinoso, dei rapporti tra autore (che vuole, o vorrebbe, il controllo artistico
assoluto sul film) e genere (che invece impone, o dovrebbe farlo, regole rigide almeno a proposito di trama
e look). Da qui, da questa capacità di intrecciare la genialità creativa del regista con strutture narrative
facilmente riconoscibili dal pubblico (come sono appunto i generi) potrebbe nascere un nuovo modo di
pensare un cinema capace di riconquistare il pubblico perso. È per esempio la strada percorsa con successo da Olivier Marchal che ha scavato nel suo passato di autentico poliziotto per raccontare, in 36 Quai des
Orfèvres, l’ odio e l’ invidia che divide due commissari, che hanno la faccia di Gérard Depardieu e Daniel
Auteuil. Del genere poliziesco c’è la caccia a una banda di rapinatori assassini che sembra imprendibile,
c’ è la ricostruzione veristica dell’ ambiente della polizia parigina con i suoi scontri e i suoi compromessi,
c’ è la fotografia cupa e scura di Denis Rouden perfettamente in sintonia con l’ ambiente corrotto e violento che racconta. E dell’autore c’è l’abilità nel costruire i personaggi con pochi tratti significativi, capaci di
dar vita a opposte filosofie di vita, e soprattutto il coraggio di passare da una storia criminale a una saga di
vendetta e redenzione. Più sfumato, ma non meno significativo, il caso del disegnatore Enki Bilal che ha
voluto ricreare parte della sua celeberrima Trilogie Nikopol al cinema.
Paolo Mereghetti, Corriere della Sera, 27 agosto 2005
Al 36 di «Quai des Orfevres» c’è la polizia centrale di Parigi. Banditi o poliziotti ricorrono a ben più di un
compromesso per raggiungere i propri fini. I peggiori criminali dietro l’apparenza delle buone intenzioni;
più che chiudere un occhio si finisce per bendarsi ambedue.
Olivier Marchal si aggrappa saldamente alle sue fonti cinematografiche (Heat con la celebre coppia De
Niro-Pacino) per mettere in scena una realtà che ha conosciuto in prima persona, riconducendo ogni elemento agli stereotipi di un genere che ingabbia qualunque personaggio e qualunque vicenda per ridurre
ogni cosa alla sequenza dell’uomo di fronte alla morte, la propria o quella altrui.
Marchal immerge i due eroi in una Parigi fatta di locali notturni, squallide periferie e moderni quartieri
asettici.
Con i suoi chiaroscuri verdognoli, gli interni crepuscolari alla Melville, ma anche con una determinazione
quasi feroce nelle scene
di azione, Marchal insegue la strada della filmica totale ed esemplare:
la macchina da presa è
libera come i suoi personaggi, non viene costretta ad evoluzioni impossibili da irritanti «soccorsi» digitali, non
sarebbe leale nei confronti di questi antieroi
che sudano e sanguinano. Nervosa quanto
basta, mai irritante nell’uso limitato della macchina a mano, campi
lunghi con ottimi tagli
d’inquadratura durante
le sparatorie che si contrappongono a intensi
38
primi piani che scrutano nell’anima dei protagonisti.
I confini di una Parigi e del suo cielo di piombo, sono le pareti di una scatola metallica contro le quali è
destinato a soffocare qualunque tentativo di evasione, almeno fino all’avvento di una qualche giustizia
suprema in grado di riportare gli eventi al loro corso naturale, ripristino tragico e violento dell’ordine delle
cose.
Andrea Olivieri, www.cinemadelsilenzio.it
La Francia torna a sfornare film di grande qualità. Premiato dal pubblico al recente «Noir in Festival» di
Courmayeur, 36 Quai des orvefres, presenta assieme per la prima volta, tre nomi notissimi del cinema d’oltralpe: Depardieù, Auteil e Dussolier, invischiati in una sordida storia di tradimenti e vendette all’ombra
della centrale di polizia con sede nella via da cui il film prende il suo titolo.
I primi trenta minuti del film presentano le migliori sequenze «poliziottesche» degli ultimi vent’anni : dure,
violente, ricche di suspance, pathos, originali nella forma e perfette nella realizzazione pratica ed interpretate alla grande non solo dai due giganti Auteil e Depardieu, che peraltro possono dare libero sfogo alla
loro bravura durante il resto della pellicola, ma anche e sopratutto da un cast di seconde linee, assolutamente strepitoso. Una volta esauritasi la forza dirompente dell’incipit, 36 cambia lentamente ed inesorabilmente faccia, diventando qualcosa di simile ad una tragedia shakespeariana, con la lotta a distanza tra i
due protagonisti che si fronteggiano e lottano a forza di colpi bassi entrando in una spirale di violenza e
morte che lascerà ben pochi personaggi vivi sul campo di battaglia. Diretto alla grande e sceneggiato alla
stra-grande, 36 colpisce lo spettatore grazie alla freschezza e realismo della messa in scena, alla bravura
degli interpreti, alla eccezionale colonna sonora, evocativa ma mai ridondante, ad una serie di dialoghi che,
se fossero inseriti in un film americano, probabilmente, sarebbero oggi già sulla bocca di tutti. Insomma,
in una parola, imperdibile.
Andrea Chirichelli, www.mymovies.it
IL REGISTA
Nasce a Talence, cittadina del dipartimento francese della Gironda nel
1958. Entra in polizia con la qualifica di ispettore nel 1980, dove viene
integrato nella sezione dell’antiterrorismo di Versailles.
Contemporaneamente al suo lavoro di poliziotto studia recitazione
presso il conservatorio di Parigi. Questa sua passione lo porterà, nel
1993, a lasciare la polizia per dedicarsi esclusivamente al cinema.
Dapprima come attore, divenendo uno dei protagonisti della fortunata
serie televisiva Police district, poi come sceneggiatore nella fiction
Commissaire Moulin, dove mette a frutto la sua conoscenza diretta dell’ambiente della polizia.
Il suo primo lungometraggio è Gangster, del 2002, film dove alla storia piuttosto scontata, fanno da contrappunto dei dialoghi mai banali,
una trama serrata e un notevole gioco di sfumature psicologiche che
fanno presagire le potenzialità di questo regista.
Il successo arriverà con l’opera successiva, 36 Quai des Orfèvres
(2004), film di grande qualità, impreziosito dalla notevole interpretazione di Daniel Auteuil e Gérard Depardieau.
Del 2008 è, invece, L’ultima missione, ancora con protagonista Auteuil
nella parte di un poliziotto alla deriva, a cui viene offerta un’ultima
occasione per riscattarsi. Ambientato in una Marsiglia cupa e piovosa,
il film vede nel personaggio di Auteuil il tipico antieroe così caro al
genere noir. Il titolo originale, MR73, fa riferimento al modello di revolver in dotazione alla polizia francese negli anni ‘70.
Olivier Marchal, nel gennaio 2010, è stato nominato Cavaliere dell'Ordre des Arts et des Lettres.
39
FILMOGRAFIA
Gangsters (2002)
36 Quai des Orfèvres (2004)
L’ultima missione (MR73) (2008)
40
THE KILLER
Regia John Woo
Sceneggiatura John Woo
Fotografia Peter Pau Tak-hei, Wong Wing-hung
Musica Lowell Lo
Scenografie Tai Chun.ching
Con Chow Yun-Fat, Danny Lee, Sally Yeh, Chu
Produzione Hong Kong
Anno 1989
Durata 111’
LA TRAMA
effrey, sicario professionista, durante lo svolgimento di uno dei suoi incarichi, ferisce accidentalmente agli occhi una cantante, rendendola
cieca. Divorato dai rimorsi, accetta un ultimo incarico con il quale permettere economicamente alla donna
un trapianto di cornea. A rendergli le cose difficili però ci si mette la mafia cinese (che lo considera "bruciato") e un detective molto tosto e ligio a un suo particolare codice morale.
J
LA CRITICA
Spiccio, serafico. Non ha molto da dire il sicario, nel compimento del suo ennesimo atto: l’accettazione di
un nuovo incarico. Esce sotto la pioggia e si avvia, senza voltarsi verso colui che gli da lavoro, per altro
suo migliore amico, verso una nuova avventura, verso un nuovo incontro con la morte. Si mette il cappuccio nero, impugna la falce e va a fare visita a chi ha già timbrato il suo biglietto per l’inferno. Si avvia, dentro al locale, capelli perfettamente pettinati, sciarpa bianca, sul cappotto nero. È un’immagine di purezza,
questa, contrapposizione ossimorica alla dubbiosa moralità dei suoi gesti.
Inizia così The Killer, con un montaggio alternato dove i movimenti della camera da presa indugiano sui
volti dei protagonisti, al ritmo di una canzone dal tono triste che risulterà essere l’accompagnamento musicale di tutta la vicenda. Inizio questo, di una pellicola che è forse il film di punta della filmografia di John
Woo. Collocabile cronologicamente più o meno al centro del percorso filmico del regista di Hong Kong
(fece altri tre film in patria e poi emigrò negli States), The Killer, almeno idealmente assurge a un ruolo
più preponderante. In molti hanno definito quest’opera come il capolavoro massimo di John Woo, altri una certa schiera di detrattori - lo posizionano sicuramente al di sotto di un’altra sua notevole prova, Bullet
In The Head, e forse anche su un gradino inferiore rispetto alla grezza veracità di A Better Tomorrow (sua
prima prova nel genere action).
Distribuito nel 1989, oltre a essere il film che ha fatto conoscere John Woo all’Occidente, vantando recensioni entusiastiche di gran parte della stampa specializzata, The Killer è anche il risultato di una lunga e
difficoltosa gestazione. Durante le riprese in pochi erano realmente a conoscenza di quale sarebbe stato il
risultato ultimo e il montaggio finale è il frutto di una quasi esclusiva visione del regista. In questo senso
The Killer è sicuramente il film più autentico e personale di John Woo.
Film dalla genesi travagliata, dunque (anche a causa dei continui alterchi tra il regista e il produttore Tsui
Hark), The Killer è opera di grande coerenza formale, una pellicola dove l’azione, «paradossalmente», non
è il fine ultimo della messinscena, ma è un mezzo che John Woo utilizza per esprimere ciò che gli sta più
a cuore. Non è un caso che le emozioni più intense non siano appannaggio delle lunghe, articolate sparatorie bensì facciano breccia nell’animo dello spettatore proprio nei momenti post-«battaglia» e nel preludio dell’azione.
Hong Kong, fotografata in uno stato di travagliata «notturnità», si è vista e si vedrà solo in alcune pellico41
le di Johnnie To (regista simile eppur diverso, ma ugualmente geniale). L’isola fa da contrappunto alle
vicende dei protagonisti, configurandosi un po’ come territorio di passaggio - il film inizia e finisce nello
stesso luogo, una chiesetta ai margini della metropoli - con le sue luci avvolgenti nella notte stradale, con
i suoi continui ritmi stressati, imprigionata in un costante, irrefrenabile movimento (…).
Con questo film John Woo consacra il mito dell’eroe decadente, lo adatta alla figura straordinaria del suo
attore feticcio (Chow Yun-Fat) e ne accentua i lati più deboli e oscuri. Con un uso sapiente e per nulla misurato del ralenti, spinge la dimensione filmica dell’azione a livelli quasi liturgici. Mai smisurato ma sì estremo nella rappresentazione della violenza, riesce nella difficile impresa di dare un nuovo volto al cinema
noir. Pur non nascondendo i continui rimandi a Frank Costello - Faccia d’angelo (Le Samourai) di
Melville, John Woo se ne discosta profondamente. E in questo modo realizza un suo film personale, totalmente adulto e pregno di una certa elegia che accompagna gesti e situazioni. Apprezzato da molta critica
mondiale, esportato all’estero, ha dato vita al «fenomeno Woo» - oggi fin troppo saccheggiato, con lo smodato uso del ralenti profuso in molte produzioni da «cassetta» (definizione ad oggi, ammetto, probabilmente obsoleta...) - ed è diventato, con il tempo, quasi spartiacque di certa cinematografia di genere.
Sicuramente meno ambizioso di Bullet In The Head - opera molto discussa e probabilmente non abbastanza capita -, è forse più composto e completo. Vedetela, se vi pare, in questo senso: Bullet In The Head è un
grido di rabbia contro l’orrore della guerra (e in certo qual senso anche nei confronti dell’indole malsana
dell’essere umano), The Killer è una esemplificazione più diretta, palese, antropologica dell’inesistenza di
un confine «definito» tra Bene e Male. Contemporaneamente è uno sguardo emozionato, quasi fanciullesco della vita e della morte - a vederla diversamente, risulterebbe ridicolo il gioco dei nomi «Disney» tra i
due protagonisti. Drammaticissimo, tremendamente tragico, The Killer è definitivamente uno dei film
d’azione più pessimisti di sempre. Non c’è scampo, non c’è via d’uscita. L’unica possibilità è affrontare il
proprio destino. In fondo a tutto ciò, solo, forse, una certa redenzione.
Il titolo in cantonese significa «Due proiettili eroici».
di Massimo Versolatto, www.ondacinema.it
Il canto del cigno dell’eroismo, dell’amicizia e del senso dell’onore: Woo accetta fino in fondo le regole
del noir e del melodramma, ma sceglie le soluzioni più pessimiste, e non offre vie di scampo o di riscatto.
Il cinema di genere viene presto superato, i personaggi sono a tutto tondo, pieni di sfumature e contraddizioni: ma al tempo stesso Woo travolge lo spettatore con il senso dell’azione e del ritmo che hanno fatto
epoca.
La violenza, come hanno detto in centinaia, è messa in scena sì come un balletto, ma ha anche una qualità fisica e concreta che invano si cercherebbe nei film americani. Mitico il finale alla Peckinpah, che in
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coda evoca e travolge Duello al sole. Un capolavoro all’altezza della sua fama. Prodotto da Tsui Hark, con
Ching Su-Tug coordinatore delle scene d’azione.
Paolo Mereghetti, Il Dizionario dei film
IL REGISTA
Uno dei registi cinesi più celebri in America che è riuscito a sdoganarsi dal cinema orientale trovando il giusto compromesso fra
Hollywood e Hong Kong. Un Maestro.
Nato durante il caos provocato dalla guerra civile cinese nel
1946, di religione cristiana, lui e la sua famiglia fuggirono a
Hong Kong, quando lui aveva 5 anni. La famiglia è costretta a
vivere in una baraccopoli. Sono anni difficili per il regista, che,
riesce comunque a studiare. Nell’adolescenza pensa di diventare un seminarista, ma è un’altra la passione che lo infuoca: quella per il cinema. Riesce a trovarsi qualche lavoretto e ad avere
la possibilità di andare nei cinema di quando in quando. Si
appassiona alla cinematografia francese, specialmente a JeanPierre Melville.
Molto timido e introverso, trova nel linguaggio audiovisivo un
codice linguistico che gli appartiene e ne studia da autodidatta
le principali caratteristiche. Nel 1969, la sua prima occasione di
diventare aiuto regista presso gli Shaw Brothers Studios di
Hong Kong. Collabora a cortometraggi e supervisiona soggetti.
Adora le pellicole ultraviolente, soprattutto di genere gangster e thrillers, ma con un pizzico di Martin
Scorsese e di Sam Peckinpah.
Il debutto alla regia e il periodo cinese
Nel 1974 firma il suo film di debutto: Tie han rou qing (1974). È uno dei registi prediletti dalla grande star
del genere kung fu action Jackie Chan, con il quale riesce a coadiuvare coreografie e dinamismo della macchina da presa in elaborate scene di combattimento. Viene immediatamente convinto a passare alla Golden
Harvest Studio che punta su di lui per la realizzazione di un’infinità di pellicole d’azione che lui firmerà
con nomi differenti. Nel contempo si sposa e mette su famiglia (ben tre figli) con Annie Ngau Chun-lung.
Adora avere nel suo cast attori come Leslie Cheung e Chow Yun-Fat ed è proprio con loro, fra commedie
e pellicole adrenaliniche che diventa qualcuno nel panorama cinematografico asiatico e non solo. Come
molti registi si lega, o forse sarebbe meglio dire lega a sé, un attore feticcio; a partire dal 1986 con il film
A Better Tomorrow tale attore è Chow Yun-Fat, che chiamerà più volte e con cui girerà Hard Boiled, ultimo film di produzione asiatica per Woo. Altri titoli del periodo cinese che vale la pena ricordare sono The
Killer (1989), Tragic Heroes (1989), Bullet in the Head (1990), Once a Thief (1991).
A partire da A Better Tomorrow (1986) le intenzioni di Woo sono quelle di cambiare i canoni tradizionali
del cinema d’azione, non soltanto dal punto di vista stilistico, ma anche dal punto di vista delle tematiche.
Woo combinerà tematiche proprie dei «wuxiapian» (genere cinematografico prettamente cinese, secondo
molti paragonabile all’occidentale «cappa e spada», in cui si racconta di personaggi mitici ed eroi epici
della tradizione cinese, di cavalieri erranti e spadaccini volanti), del noir, e spettacolari scene di sparatorie;
i combattimenti e le sparatorie nello stile di Woo saranno coreografate come veri e propri balletti, utilizzando lo stesso modo in cui nei film di kung fu vengono coreografati i combattimenti a mani nude.
A Hollywood
Hollywood si accorge di lui e lo invita a entrare nella sua industria. Il primo perfetto prodotto di questo
sodalizio è il bellissimo Senza tregua (1993) che gli farà avere una nomination ai Saturn Award), cui segue
l’interessante Nome in codice – Broken Arrow (1996) con John Travolta che ritroverà nel suo film più bello:
Face/Off – Due facce di un assassino (1997) con Nicolas Cage. È la sua terza pellicola hollywoodiana. Nel
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2000, Tom Cruise gli chiede di dirigere l’iperspettacolare Mission: Impossible 2, con Anthony Hopkins e
nel frattempo crea una serie di fumetti dal titolo «Seven Brothers» pubblicati dalla Virgin Comics. Una
volta ritrovato Nicolas Cage nel bellico Windtalkers (2002), si impegna nel progetto cinematografico All
the Invisible Children.
Ritorno in Asia
Poi finalmente pronto, tornerà a guardare all’Asia con il suo stile inconfondibile, cercando di far coincidere tutto quello che ha imparato in America con ciò che l’Oriente gli può offrire, il tutto sempre nel nome
del ralenti (di cui fa spesso uso) e della spettacolarità. E sono proprio questi gli ingredienti del suo straordinario e lunghissimo kolossal, tutto made in Cina, Red Cliff, diviso in due parti ma che in Italia è uscito
solo in un’unica versione chiamata La battaglia dei tre regni. Impegnato in tanti progetti, il regista cinese
avrà l’agenda fitta d’impegni, almeno per un paio d’anni. Lo ritroveremo infatti a co-dirigere insieme a
Chao-Bin Su il film Rain of Swords in a Pugilistic World e anche 1949, Caliber, Flying Tiger Heroes e
Ninja gold.
Un talento unico nel padroneggiare generi diversi John Woo è un uomo dal deflagrante talento, riuscito a
sfuggire alle forbici della censura per la troppa violenza del suo cinema e che ha saputo (e non è da tutti)
infondere nei film su commissione tutti gli ingredienti dei suoi generi più cari: melodramma, azione, commedia, western, padroneggiandoli con un’abilità unica e storica. Nel 2010 ha ricevuto il Leone d’Oro alla
carriera alla Mostra del Cinema di Venezia.
FILMOGRAFIA ESSENZIALE
Periodo a Hong Kong
Farewell My Buddy (1974) - Rieditato come The Young Dragons
Hand of Death alias Countdown in Kung Fu (1976)
Money Crazy (1977)
The Brave Lion (1977)
Follow the Star (1978)
Hello, Late Homecomers (1978)
To Hell with the Devil (1981)
Laughing Times (1981)
The Time You Need a Friend (1984)
Heroes Shed No Tears 1986)
A Better Tomorrow (1986)
A Better Tomorrow II (1987)
The Killer (1989)
Tragic Heroes (1989)
Bullet in the Head (1990)
Once a Thief (1991)
Hard Boiled (1992)
Periodo a Hollywood
Senza tregua (Hard Target) (1993)
Nome in codice: Broken Arrow (Broken Arrow) (1996)
Face/Off - Due facce di un assassino (Face/Off) (1997)
Mission: Impossible II (2000)
Windtalkers (2002)
Paycheck (2003)
Ritorno a Hong Kong
La battaglia dei tre regni (Chi bi) (2008)
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L’UOMO DEL TRENO
(L’homme du train)
Regia Patrice Leconte
Sceneggiatura Claude Klotz
Musica Pascale Estève
Con Jean Rochefort, Johnny Halliday, Jean-François
Stévenin, Pascal Parmentier, Isabelle Petit-Jacques,
Charlie Nelson, Edith Scob
Produzione Francia
Anno 2002
Durata 90’
LA TRAMA
ilan, un rapinatore di banche, una sera scende da un treno in una stazione di una qualsiasi cittadina della provincia francese. Ha un
forte mal di testa e ciò lo porterà a recarsi in una farmacia dove conosce Manesquier, un vecchio professore in pensione che, poichè l’unico albergo del posto è chiuso, lo ospiterà a casa sua per qualche giorno. Entrambi hanno, per il sabato successivo, un appuntamento fatidico: Milan, con i suoi complici, una banca da rapinare;
Manesquier un’operazione al cuore. Nell’attesa, nasce fra i due, così diversi, una sorta di muta
invidia, ciascuno per la vita dell’altro. Il rapinatore sogna una vechiaia da pensionato in pantofole; Manesquier quella vita avventurosa che mai ha potuto avere.
M
PREMI
Premio Lumière 2003: Miglior attore Jean Rochefort
LA CRITICA
Tutti i giorni feriscono, l’ultimo uccide. E aspettando un sabato di fuoco due personaggi (anzi: due uomini) mettono a repentaglio le proprie esistenze, sognando di potersele scambiare. Un bandito che sta per
rapinare una banca, un anziano professore che deve affrontare un intervento chirurgico. Uno ha invidia
della condizione dell’altro, e sotto il filtro di una sceneggiatura da incorniciare (di Claude Klotz, alias
Patrick Cauvin, scrittore che nel paese delle Tamaro e dei Baricco non conosce nessuno) passa il desiderio
di un domani se non migliore, diverso.
Patrice Leconte firma con L’uomo del treno il suo film migliore, sceglie la rischiosa strada di una messa in
scena “sperimentale” (digitale riversato) per rendere ancora più evidente come l’unica cosa che conti sia
l’anima, non la forma. Dietro ogni dialogo, un mondo; dietro ogni “maschera”, una verità. Il professore
avventuriero, l’avventuriero pantofolaio, il ladro artista (Jean-François Stevenin: magnifico). Leconte e
Cauvin utilizzano il canovaccio del polar (un dramma di genere con psicologie allo stato brado) per imbastire una storia esemplare, pretesto per una riflessione appassionata sulla vecchiaia di cui si ribalta l’assunto comune: non è la stagione della vita su cui cala la notte ma quella che segna l’alba di un nuovo giorno.
Così si spiega anche il finale, solo all’apparenza ridondante, in cui i due uomini sospesi in una veglia di
morte cinematografica si scambiano non il futuro, ma il passato. Non sarebbe così bello L’uomo del treno
senza i due protagonisti. Jean Rochefort, il professore in pensione, gioca sul registro dell’(auto)ironia;
Johnny Hallyday, rockstar noir, su quello della demistificazione («Hai letto troppi polar» dice all’amico).
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E non sarebbe così bello se Leconte non avesse scelto di calare il contesto rarefatto tra echi e reminiscenze di vecchi noir con Serge Reggiani e Lino Ventura o vecchi western con Gary Cooper e Henry Fonda.
Mauro Gervasini, FilmTv, 48/2002
Certo non è strano che uno che abita in una villa con giardino, in un piccolo centro della provincia francese, non possegga le chiavi di cancelli e portoni della propria casa.
Non è strano se chi ci abita è un uomo anziano, un pensionato che conduce una vita tranquilla, senza vizi,
senza amici. E non è strano che un uomo così ne incontri un altro che è quasi il suo opposto, che capita in
paese non proprio per caso.
Milan (Johnny Hallyday) arriva col treno e con un mal di testa che, rimasto a corto di aspirine proprio mentre tutti i negozi tirano giù le serrande, lo conduce in una farmacia dove anche Manesquier (l’anziano pensionato interpretato da Jean Rochefort) sta comprando delle medicine. E per errore del farmacista, che gli
vende delle compresse effervescenti, è quasi costretto ad accettare l’invito dell’altro che gli offre un bicchiere d’acqua nella sua casa poco distante.
Sembra una casualità, come quando, poco dopo, Milan trova l’albergo dove avrebbe dovuto alloggiare
chiuso. L’unica soluzione, quindi, è tornare dall’anziano signore senza chiavi di casa e chiedergli ospitalità fino al sabato.
Se uno è solitario per scelta e di poche parole, l’altro soffre la solitudine e ha bisogno di parole e spiegazioni.
La convivenza per due uomini abituati solo ai propri pensieri è tutt’altro che scontata e non può che sollevare ognuno dei due dalle abitudini e convinzioni di una vita intera.
Leconte gestisce le attese e i lunghi tempi narrativi con un ritmo perfetto, il tutto scandito da un appuntamento di entrambi i protagonisti, che entrambi non possono sfuggire e che ad entrambi cambierà la vita,
nel bene o nel male.
La freddezza apparente di Milan è in contrasto con la calma piatta ma accogliente
della casa di Manesquier, e i toni blu della
fotografia ce lo ricordano ogni volta che
Milan esce dalla villa e progetta, insieme
a vecchi colleghi, una rapina nella banca
del paese e che inghiotte lo stesso
Manesquier quando insieme diventano
complici fuori dalla culla domestica e
quando entrambi si avviano verso una crescita interiore reciproca.
Milan fa provare l’ebbrezza di sparare a
Manesquier e, di rimando, lui gli insegna
a tenere sempre uno spazzolino di scorta o
a portare pantofole in casa. La casa ricca
di tappeti, quadri, divani e fotografie di
un’infanzia felice che poi, a detta dello
stesso Manesquier, s’è trasformata in una
vita cristallizzata, in cui lui ha mantenuto
la stessa posa per anni. La sua passione
per la poesia, la musica e la sua professione (Manesquier era professore di francese), lo rendono un uomo sensibile, senza
pregiudizi, capace di accogliere e chiedere aiuto. Manesquier mostra i suoi bisogni, li maschera rendendoli ancor più evidenti nella sua goffaggine, e colpiscono
persino un duro come Milan.
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È uno scambio continuo e costante, in cui chi trascorreva giornate identiche lasciandole scivolare via passando tutto il tempo a rimpiangere e a cercare il coraggio per cambiare, finalmente trova quel po’ di coraggio e, anche se forse è tardi per stravolgersi, almeno può dire di averci provato e conservarne il ricordo.
Così il gran giorno arriva insieme alla paura di non riuscire a superarlo, la rapina e l’operazione al cuore
di Manesquier; così come dall’inizio, nessuno si lascia andare, le parole rimangono contratte ma fin troppo chiare e prendono vita negli occhi e nei gesti di ognuno per l’altro.
La regia originale di Leconte sostiene e arricchisce la sceneggiatura di Claude Klotz, curatissima e piena
di spunti, che riapre di tanto in tanto durante la narrazione.
Leconte alterna momenti più lenti, e sempre essenziali, in cui i brillanti dialoghi trovano il respiro che
meritano, considerando che quasi ogni battuta contiene temi e concetti su cui si potrebbe riflettere a lungo;
gli interni sono gestiti proprio con questa consapevolezza, le conversazioni fra Milan e Manesquier sono
inserite in un contesto di tranquillità, tra luci soffuse e penombre nelle atmosfere placide e pacate della
casa. I toni intimi risaltano, evidenziati anche dall’attenzione per i particolari e una macchina da presa
quasi sempre stretta sui protagonisti. Il mondo fuori è più incostante, le inquadrature rimangono scarne e i
piani si allargano mostrando ambienti se non ostili quantomeno estranei, uno sfondo sul fuoco sempre presente sullo sviluppo del rapporto tra i personaggi.
La fotografia segue la stessa logica e oscilla tra interni neutri e propri di Manesquier e i toni freddi, blu, di
Milan. Entrambi assumono le caratteristiche dell’altro quando l’altro «conduce» nella propria esperienza,
i colori di Milan diventano quelli di Manesquier se è il primo a guidare e viceversa.
Le interpretazioni sono il giusto compenso per una grande storia, sia Rochefort che Hallyday riescono a
centrare i caratteri aggiungendogli un fascino fondamentale con una recitazione matura.
Se il tema è quanto si può mettere in gioco se stessi e potersi fidare di qualcuno, allora sia Milan (che non
ha mai fallito) che Manesquier (uno che è abituato alle sconfitte), raggiungono il loro vero obiettivo nonostante gli eventi.
Uno scambio reale che viaggia e, fino alla fine, si incontra per poi passare oltre, in direzioni opposte accomunate da quell’attimo condiviso tanto intenso e prezioso.
Giulia Novelli, www.ondacinema.it
Autore discontinuo e a volte un po’ inconsistente, Leconte si conferma un grande maestro nella commedia
dai toni lievi ed esilaranti. I suoi personaggi, coscientemente sempre sul filo dello stereotipo, sono dei brillanti conversatori, dei laconici umoristi, dei filosofi dell’assurdo, insomma, degli affascinanti paradossi.
Ecco che la faccia lunga e un po’ triste di Jean Rochefort fa da contrappunto a quella granitica e manieristica di Johnny Hallyday; ecco che la fanciullesca freschezza del vecchio verboso e abitudinario si confrontano, mescolandosi, alla calma nervosa e disincantata dell’avventuriero; ecco il cocktail sweet-n-sour,
che si snoda attraverso situazioni brillanti e confronti retti soprattutto dai dialoghi di taglio teatrale e dall’irresistibile confronto delle due personalità, sullo schermo e fuori da esso. Il film perde un po’ di tono
nell’ultimo quarto, quando la mano di Leconte si fa un po’ più pesante sulla vicenda e la dirige più forzatamente verso il nucleo tematico del film, il rimpianto. I due uomini sono infatti modello l’uno per l’altro,
anti-poli di attrazione; e l’ultimo soffio di vita nei loro corpi compie il miracolo dello scambio, l’opportunità per entrambi di ricominciare prendendo in prestito la vita dell’altro, le sue abitudini, le sue manie o
viceversa l’assenza di regole e di restrizioni. L’avventuriero e il professore, la strada e la poesia, il circo e
la scuola. Due modi non solo di vivere, ma di essere, di esistere: attraverso il grugno rock-n-roll di
Hallyday, o il sorriso beffardo (“Ve l’ho fatta un’altra volta”) di uno splendido Rochefort.
Alberto Zambenedetti, www.spietati.it
IL REGISTA
Parigino, classe 1947, Patrice Leconte, dopo aver frequentato il prestigioso Idhec, inizia a girare una lunga
serie di cortometraggi per arrivare a realizzare nel 1975 Il cadavere era già morto, suo primo lungometraggio, parodia del genere poliziesco francese. Il successo giungerà con Tandem (1987) e con il succesivo
L'insolito caso di Mr. Hire (1989), uno dei migliori film tratti dai romanzio di Georges Simenon, che gli
valse un buon riconoscimento da parte della critica al Festival del cinema di Cannes.
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In Italia acquista una grande notorietà con Il marito della parrucchiera
(1990), film percorso da un leggero umorismo e interpretato da Jean
Rochefort, attore che lo accompagnerà in molti suoi film e Anna Galiena.
Nel 1995 realizza Ridicule, con cui ottiene un grande successo e che gli varrà
quattro César, tra cui miglior film e miglior regia, il David di Donatello per
la miglior regia, nonché la nomination all'Oscar come miglior film straniero.
Nel 1999 Leconte ottiene un nuovo successo grazie a La ragazza sul ponte,
con Daniel Auteuil che interpreta un lanciatore di coltelli che salva una
ragazza, interpretata da Vanessa Paradis, che vuole suicidarsi gettandosi da
un ponte sulla Senna.
Nel 2002 è a Venezia con il suo L’uomo del treno che ottiene un grande successo, grazie anche anche alle interpretazioni superlative di Jean Rochefort
e Johnny Halliday, notissimo cantante rock franco-belga, che ha intrapreso
anche una discreta carriera come attore.
Del 2006 è Il mio migliore amico, con Daniel Auteuil e Dany Boon, film
delicato e leggero sull’amicizia che si instaura fra un antiquario di successo e un taxista un po’ naïf.
FILMOGRAFIA ESSENZIALE
Il cadavere era già morto (Les vécés étaient fermés de l'intérieur) (1975)
Les Bronzés (1978)
Les Bronzés font du ski (1979)
Viens chez moi, j'habite chez une copine (1980)
Ma femme s'appelle reviens (1981)
Circulez y'a rien à voir (1983)
Les spécialistes (1984)
Moi vouloir toi (1985)
Tandem (1987)
L'insolito caso di Mr. Hire (Monsieur Hire) (1989)
Il marito della parrucchiera (Le mari de la coiffeuse) (1990)
Tango (1993)
Il profumo di Yvonne (Le Parfum d'Yvonne) (1993)
Ridicule (1995)
I granduchi (Les Grands Ducs) (1996)
Uno dei due (Une chance sur deux) (1998)
La ragazza sul ponte (La fille sur le pont) (1999)
L'amore che non muore (La Veuve de Saint-Pierre) (2000)
Félix et Lola (2000)
Rue des plaisirs (Rue des plaisirs) (2001)
L'uomo del treno (L'homme du train) (2002)
Tête de gondole (2003)
Confidenze troppo intime (Confidences trop intimes) (2003)
Dogora (Dogora - Ouvrons les yeux) (2004)
Les bronzés 3: amis pour la vie (2006)
Il mio migliore amico (Mon meilleur ami) (2006)
La Guerre des miss (2009)
Voir la mer (2011)
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FILMOGRAFIA ESSENZIALE
Dark Lady
La dark lady (letteralmente: "donna scura") è un personaggio
del noir - di cui è forse il carattere più tipico e popolare - e del
giallo hard boiled. Rappresenta la donna seduttrice, manipolatrice anche se non necessariamente malvagia, comunque
pericolosa. È spregiudicata e sensuale, infedele e dannatrice;
tuttavia non è infrequente il caso di ritratti femminili la cui
ambiguità è solo il prodotto di un distorto sguardo maschile.
Questo personaggio è affine a quello della femme fatale, tanto
che sono spesso utilizzati come sinonimi, sebbene le due figure non coincidano necessariamente: la femme fatale è una
donna maliziosa e disinvolta, ma in genere non nasconde la
cattiveria e il desiderio di annientamento tipico della dark
lady della prima metà degli anni quaranta.
L’angelo del male. Jean Renoir, Usa, 1938
Ombre malesi. William Wyler, Usa, 1949
Ossessione. Luchino Visconti. Italia, 1943
La donna del ritratto. Fritz Lang, Usa, 1944
La fiamma del peccato. Billy Wilder, Usa, 1944
Femmina folle. John M. Stahl. Usa, 1945
Gilda. George Cukor, Usa, 1945
La strada scarlatta. Fritz Lang, Usa, 1945
Il postino suona sempre due volte. Tay Garnett, Usa, 1946
Lo strano amore di Marta Ivens. Lewis Milestone, Usa, 1946
La signora di Shanghai. Orson Welles, Usa, 1948
Il romanzo di Thelma Jordan. Robert Siodmak, Usa, 1949
La sanguinaria. Joseph H. Lewis, Usa, 1949
Seduzione mortale. Otto Preminger, Usa, 1950
Viale del tramonto. Billy Wilder, Usa, 1950
Casco d’oro. Jacques Becker, Francia 1952
So che mi ucciderai. David Miller, Usa, 1952
Niagara. Henry Hathaway, Usa, 1953
I diabolici. Henry-Georges Clouzot, Francia, 1954
La bestia umana. Fritz Lang, Usa, 1954
Ascensore per il patibolo. Louis Malle, Francia, 1958
I cugini. Claude Chabrol, Francia, 1958
A doppia mandata. Claude Chabrol, Francia, 1959
Eva. Joseph Losey, Francia/Italia, 1962
Stephane, una moglie infedele. Claude Chabrol, Francia, 1968
La mia droga si chiama Julie. François Truffaut, Francia 1969
L’amico di famiglia. Claude Chabrol, Francia, 1973
Gli innocenti dalle mani sporche. Claude Chabrol, Francia,
1975
Il fascino del delitto. Alain Corneau, Francia, 1979
Brivido caldo. Lawrence Kasdan, Usa, 1981
Il postino suona sempre due volte. Bob Rafelson, Usa, 1981
Blood Simple – Sangue facile. Joel e Ethan Coen, Usa, 1984
La vedova nera. Bob Rafelson, Usa, 1986
Chi ha incastrato Roger Rabbit? Robert Zemeckis, Usa, 1988
Rischiose abitudini. Stephen Frears, Usa, 1990
Basic Instint. Paul Verhoeven, Usa, 1992
Jade. William Friedkin, Usa, 1995
Soldi sporchi. Sam raimi. Usa, 1998
Femme fatale. Brian De Palma, Usa, 2002
L’imbalsamatore. Matteo Garrone, Italia, 2002
Tra bene e male (polizia e poliziotti)
Nel noir ci sono sempre storie cattive, violente, di perdizione,
con protagonisti con un piede ben oltre i limiti della moralità,
senza distinzioni nette tra bene e male, tra giustizia e illegalità. Protagonisti fin eccessivi, i poliziotti sono spesso votati
alla corruzione spicciola e proprio da questa loro propensione a tenere il piede in due staffe ricavano guai a non finire.
Vertigine. Otto Preminger, Usa, 1944
La città nuda. Jules Dassin, Usa, 1948
Sgomento. Max Ophüls, Usa, 1949
L’uomo della Torre Eiffel. Burgess Meredith, Usa, 1949
Sui marciapiedi. Otto Preminger, Usa, 1950
Neve rossa. Nicholas Ray, Usa, 1951
Pietà per i giusti. William Wyler, Usa, 1951
Il grande caldo. Fritz Lang, Usa, 1953
Anatomia di un delitto. Jerry Hopper, Usa, 1954
La polizia bussa alla porta. Joseph H. Lewis. Usa, 1955
Il Commissario Maigret. Jean Delannoy, Francia, 1958
L’infernale Quinlan. Orson Welles, Usa, 1958
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Un maledetto imbroglio. Pietro Germi, Italia, 1959
Maigret e i gangster. Gilles Grangier, Francia, 1963
Agente Lemmy Caution. Missione ad Alphaville. Jean-Luc
Godard, Francia,1965
Ultimo domicilio conosciuto. José Giovanni, Francia, 1969
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Elio
Petri, Italia, 1970
Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo. Don Siegel, Usa, 1971
La donna della domenica. Luigi Comencini, Italia, 1975
Colpo di spugna. Bertrand Tavernier, Francia, 1981
Police. Maurice Pialat, Francia, 1985
L’anno del dragone. Michael Cimino, Usa, 1985
Vivere e morire a Los Angeles. William Friedkin, Usa, 1985
The Big Easy. Jim McBride, Usa, 1987
Violent Cop. Takeshi Kitano, Giappone, 1989
Legge 627. Bertrand Tavernier, Francia, 1992
Heat – La sfida. Michael Mann, Usa, 1995
Scomodi omicidi. Lee Tamahori, Usa, 1996
Hana-Bi. Takeshi Kitano, Giappone, 1997
L.A. Confidential. Curtis Hanson, Usa, 1997
Il colore della menzogna. Claude Chabrol, Francia, 1999
Joint Security Area. Park Chan-wook. Corea del Sud, 2000
Debito di sangue. Clint Eastwood, Usa, 2002
Indagini sporche – Dark Blue. Ron Shelton, Usa, 2002
Infernal Affairs. Andrew Lau, Hong Kong, 2002
Insomnia. Christopher Nolan, Usa, 2002
PTU. Johnny To, Hong Kong, 2003
Breaking News. Johnny To, Hong Kong/Cina, 2004
36 Quai des Orfèvres. Olivier Marchal, Francia 2004
Bellamy. Claude Chabrol, Francia, 2009
Diamond 13. Gilles Béat, Francia/Belgio/Lussemburgo, 2009
Il detective privato
Frequenta abitualmente i bassifondi metropolitani, solitario,
difende umiliati e offesi, risoluto investigatore in perenne conflitto con l’ordine costituito. Duro di carattere, a prima vista
egoista, si dedica in maniera indefessa al suo lavoro in cui si
rivela preciso e accurato. Il mondo in cui si aggira sono gli
Usa degli anni Trenta, dipinti con estremo realismo e popolati da squali della finanza, ricchi arroganti, poliziotti corrotti e
dark ladies. Elegante, dipendente dal fumo e dall’alcol, non si
interessa del denaro che spende, interessato alle donne come
qualsiasi scapolo ma al tempo stesso tendente alla misoginia,
non vuole utilizzare le armi di ordinanza.
Il falcone maltese. John Huston , Usa, 1941
Una pallottola per Roy. Raoul Walsh, Usa, 1941
L’ombra del passato. Edward Dmytrik, Usa, 1944
Il grande sonno. Howard Hawks, Usa, 1946
Una donna nel lago. Robert Montgomery, Usa, 1946
Le catene della colpa. Jacques Tourner, Usa, 1947
Solo chi cade può risorgere. John Cromwell. Usa, 1947
Tragedia a Santa Monica. André De Toth, Usa, 1948
Il terzo uomo. Carol Reed, Gran Bretagna, 1949
Un bacio e una pistola. Robert Aldrich, Usa, 1955
Una squillo per l’ispettore Klute. Alan J. Pakula, Usa, 1971
Il lungo addio. Robert Altman, Usa, 1973
Chinatown. Roman Polanski, Usa, 1974
Bersaglio di notte. Arthur Penn. Usa, 1975
Marlowe il poliziotto privato. Dirk Richards, Usa, 1975
Blade Runner. Ridley Scott, Usa, 1982
Hammett, indagine a Chinatown. Wim Wenders, Usa, 1982
Il mistero del cadavere scomparso. Carl Reiner, Usa, 1982
Velluto blu. David Lynch, Usa, 1986
Il grande inganno. Jack Nicholson, Usa, 1990
Regarde les hommes tomber. Jacques Audiard, Francia, 1994
Strange Days, Kathryn Bigelow, Usa, 1995
Memento. Chrtistopher Nolan, Usa, 2000
Quo vadis, Baby? Gabriele Salvatores, Italia, 2005
Uomini in fuga
Una delle ossessioni che ritorna più volte nel noir è la mancanza di libertà dell’individuo, la costrizione dentro a dei limiti. Questo si traduce nell’assenza di spazio libero, nella presenza costante di confini, muri, limitazioni che rendono difficile per l’uomo una libera circolazione. Il cinema noir si era
già fatto carico di questo aspetto della condizione umana,
affrontando storie che per la maggior parte raccontano di
evasioni dal carcere e fughe disperate attraverso gli Stati
Uniti, con un susseguirsi di limiti e ostacoli da superare.
Vendetta. Mervin LeRoy, Usa, 1937
Il porto delle nebbie. Marcel Carné, Francia, 1938
Sono innocente. Fritz Lang, Usa, 1938
Lo sconosciuto del terzo piano. Boris Ingster, Usa, 1940.
La chiave di vetro. Stuart Heisler, Usa, 1942
La donna fantasma. Robert Siodmak, Usa, 1944
Detour – Deviazione per l’inferno. Edgar G. Ulmer, Usa, 1945
Due esseri. Carl Th. Dreyer, Svezia, 1945
Un angelo è caduto. Otto Preminger, Usa, 1945
L’angelo nero. Roy Willim Neill, Usa, 1946
La dalia azzurra. George Marshall, Usa, 1946
Angoscia nella notte. Maxwell Shane, Usa, 1947
Legittima difesa. Henri-Georges Clouzot, Francia, 1947
La fuga. Dalmer Daves, Usa, 1947
Chiamate Nord 777. Henry Hathaway, Usa, 1948
Schiavo della furia. Anthony Mann, Usa, 1948
Catene. Raffaello Matarazzo, Italia, 1949
La finestra socchiusa. Ted Tetzlaff, Usa, 1949
Il diritto di uccidere. Nicholas Ray, Usa, 1950
Non voglio perderti! Mitchell Leisen, Usa, 1950
Gardenia blu. Fritz Lang, Usa, 1953
Il bacio dell’assassino. Stanley Kubrick, Usa, 1955
Non voglio morire. Robert Wise, Usa, 1958
L’evaso. Pierre Granier-Deferre, Francia, 1971
Getaway! Sam Peckinpah, Usa, 1972
L’orologiaio di St. Paul. Bertrand Tavernier, Francia, 1974
Finalmente domenica! François Truffaut, Francia, 1983
Fuori orario. Martin Scorsese, Usa, 1985
Cuore selvaggio. David Lynch, Usa, 1990
Una vita al massimo. Tony Scott, Usa, 1993
Strade perdute. David Lynch, Usa, 1996
L’uomo che non c’era. Joel e Ethan Coen, Usa, 2001
Mister Vendetta. Chan-wook Park, Corea del Sud, 2002
Lady Vendetta. Chan-wook Park, Corea del Sud, 2005
The Departed – Tra il bene e il male. Martin Scorsese, Usa,
2006
Nemico pubblico. Michael Mann, Usa, 2009
Gangster e banditi
I personaggi di questo genere sono spesso figure inquietanti e
malsane. Coppie diaboliche, donne di malaffare, ubriaconi,
scommettitori, mariti brutali, giovani folli e assassini per sete
50
di conquista. A differenza del giallo, nel noir si "lavora" per
far trionfare il male che ogni personaggio porta dentro di sé.
Le notti di Chicago. Josef Von Sternberg, Usa, 1927
Nemico pubblico. William A. Wellman, Usa, 1931
Piccolo Cesare. Mervin LeRoy, Usa, 1931
Scarface. Howard Hawks, Usa, 1932
I gangsters. Robert Siodmak, Usa, 1946
Il bacio della morte. Henry Hathaway, Usa, 1947
Le forze del male. Abraham Polonsky, Usa, 1948
L’urlo della città. Robert Siodmak, Usa, 1948
Doppio gioco. Robert Siodmak, Usa, 1949
La donna del bandito. Nicholas Ray, Usa, 1949
Giungla d’asfalto. John Huston, Usa, 1950
I trafficanti della notte. Jules Dassin, Usa, 1950
Le jene di Chicago. Richard Fleischer, Usa, 1952
Mano pericolosa. Samuel Fuller, Usa, 1953
Rififi. Jules Dassin, Francia, 1955
Rapina a mano armata. Stanley Kubrick, Usa, 1956
Strategia di una rapina. Robert Wise, Usa, 1959
Fino all’ultimo respiro. Jean-Luc Godard, Francia, 1960
Giungla di cemento. Joseph Losey, Usa, 1960
Lo spione. Jean-Pierre Melville, Francia, 1962
Anatomia di un rapimento. Akira Kurosawa, Giappone, 1963
Pierrot le fou. Il bandito delle ore 11. Jean-Luc Godard,
Francia, 1965
Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide. Jean-Pierre Melville,
Francia, 1966
Senza un attimo di tregua. HJohn Boorman, Usa, 1967
I senza nome. Jean-Pierre Melville, Francia, 1970
La mala ordina. Fernando Di Leo, Italia, 1972
Milano calibro 9. Fernando Di Leo, Italia, 1972
Gli amici di Eddie Coyle. Peter Tates, Usa, 1973
Il Boss. Fernando Di Leo, Italia, 1973
L’assassinio di un allibratore cinese. Usa, 1976
Napoli violenta. Umberto Lenzi, Italia, 1976
Scarface. Brian De Palma, Usa, 1983
Omicidio a luci rosse. Brian De Palma, Usa, 1984
A Better Tomorrow. John Woo, Hong Kong, 1986
A Better Tomorrow II. John Woo, Hong Kong, 1987
Zoo di notte. Jean-Claude Lauzon, Canada, 1987
A Better Tomorrow III. Tsui Hark, Hong Kong, 1989
Crocevia della morte. Joel e Ethan Coen, Usa, 1989
The Hot Spot - Il posto caldo. Dennis Hopper, Usa, 1990
Le iene. Quentin Tarantino, Usa, 1992
Pulp Fiction. Quentin Tarantino, Usa, 1994
I soliti sospetti. Brian Singer, Usa, 1995
Ancora vivo. Walter Hill, Usa, 1996
Face. Antonia Bird, Gran Bretagna, 1997
Jackie Brown. Quentin Tarantino, Usa, 1997
U-Turn – Inversione di marcia. Oliver Stone, Usa, 1997
The Mission. Johnny To, Hong Kong, 1999
Sulle mie labbra. Jacques Audiard, Francia, 2001
Era mio padre. Sam Mendes, Usa, 2002
Gangsters. Olivier Marchal, Francia, 2002
Election. Johnny To, Hong Kong, 2005
American Gangster. Ridley Scott, Usa, 2007
Nemico pubblico N. 1 – L’istinto di morte. Jean-François
Richet, Francia, 2008
Nemico pubblico N. 1 – L’ora della fuga. Jean-François
Richet, Francia, 2008
Killer e serial killer
Criminali sadici, che per un motivo preciso ma inspiegabile o
perché psicopatici, uccidono in serie
più vittime, per lo più utilizzando un modus operandi meticolosamente studiato e ripetitivo.
M, il mostro di Düsseldorf. Fritz Lang, Germania, 1931
L’ombra del dubbio. Alfred Hitchcock, Usa, 1943
L’uomo leopardo. Jacques Tourneur, Usa, 1943
La scala a chiocciola. Robert Siodmak, Usa, 1946
La furia umana. Raoul Walsh, Usa, 1949
La belva dell’autostrada. Ida Lupino, Usa, 1953
La finestra sul cortile. Alfred Hitchcock, Usa, 1954
La morte corre sul fiume. Charles Laughton, Usa, 1955
L’occhio che uccide. Michael Powell, Gran Bretagna, 1960
Psyco. Alfred Hitchcock, Usa, 1960
Il promontorio della paura. Jack Lee Thompson, Usa 1962
I cinque volti dell’assassino. John Huston, Usa, 1963
Il corridoio della paura. Samuel Fuller, Usa, 1963
Cul-de-sac. Roman Polanski, Gran Bretagna, 1966
Frank Costello Faccia d’angelo. Jean-Pierre Melville,
Francia, 1967
Gli occhi della notte. Terence Young, Usa, 1967
La sposa in nero. François Truffaut, Francia, 1968
Il tagliagole. Claude Chabrol, Francia, 1969
L’assassinio di Rillington Place N. 10. Richard Fleischer,
Usa, 1970
Lo strano vizio della signora Ward. Sergio Martino, ItaliaSpagna, 1971
Non si sevizia un paperino. Lucio Fulci, Italia, 1972
Taxi Driver. Martin Scorsese, Usa, 1976
I fantasmi del cappellaio. Claude Chabrol, Francia, 1982
Manhunter – Frammenti di un omicidio. Michael Mann,
Usa, 1986
Matador. Pedro Almodovar, Spagna, 1986
The killer. John Woo, Homg Kong, 1989
Ore 10: calma piatta. Philip Noyce, Australia, 1989
Nikita. Luc Besson, Francia, 1990
Cape Fear – Il promontorio della paura. Martin Scorsese,
Usa, 1991
Il silenzio degli innocenti. Jonathan Demme, Usa, 1991
Sonatine. Takeshi Kitano, Giappone, 1993
Assassini nati. Oliver Stone, Usa, 1994
Regarder les hommes tomber. Jacques Audiard, Francia, 1994
Minuti contati. John Badham, Usa, 1995
Seven. David Fincher, Usa, 1995
Fargo. Joel e Ethan Coen, Usa, 1996
Fratelli. Abel Ferrara, Usa, 1996
Almost Blue. Alex Infascelli, Italia, 2000
Ichi The Killer. Takashi Miike, Giappone, 2001
Debito di sangue. Clint Eastwood, Usa, 2002
L’uomo del treno. Patrice Leconte, Francia, 2002
Collateral. Michael Mann, Usa, 2004
Luci nella notte. Cédric Khan, Francia, 2004
The Pusher. Matthew Vaughn, Gran Bretagna, 2004
H. Lee Jong-dong, Corea del Sud, 2007
La promessa dell’assassino. David Cronenberg, Usa, 2007
Zodiac. David Fincher, Usa, 2007
In Bruges – La coscienza dell’assassino. Martin McDonagh,
Gran Bretagna-Belgio, 2008
L’ultima missione. Olivier Marchal, Francia, 2008
51
Le ombre del passato
Il noir descrive un universo contraddittorio, strutturalmente
ambiguo, in cui i luoghi, le forme, i corpi e le identità si raddoppiano, così come le dimensioni temporali si incrociano e si
biforcano senza sosta.
La struttura stessa della realtà viene posta sempre di nuovo in
discussione: ogni gesto è al tempo stesso solare e oscuro, puro
e colpevole, certo e sfuggente. C'è spesso un rapporto metamorfico, di scambio e incrocio, fra passato e presente, fra doppie identità, fra campagna e città. Il passato che ritorna è
capace di sconvolgere vite tranquille spingendole verso i fantasmi di una realtà sospesa fra colpa
e innocenza.
Rebecca la prima moglie. Alfred Hitchcock, Usa, 1940
Il corvo. Henri-Georges Clouzot, Francia, 1943
Angoscia. George Cukor, Usa, 1944
Il bandito senza nome. Joseph L. Mankiewicz, Usa, 1946
Odio implacabile. Edward Dmytrick, Usa, 1947
Tirate sul pianista. François Truffaut, Francia, 1960
Che fine ha fatto Baby Jane? Robert Aldrich, Usa, 1962
Marnie. Alfred Hitchcock, Usa, 1964
L’insolito caso di Mr Hire. Patrice Leconte, Francia, 1989
Prova schiacciante. Wolfgang Petersen, Usa, 1991
Betty. Claude Chabrol, Francia, 1992
Il buio nella mente. Claude Chabrol, Francia, 1995
Mystic River. Clint Eastwood, Usa, 2003
Oldboy. Chan-wook Park, Corea del Sud, 2003
A history of violence. David Cronenberg, Usa, 2005
Tutti i battiti del mio cuore. Jacques Audiard, Francia, 2005
False verità. Atom Egoyan, Canada/Gran Bretagna, 2006
Apri gli occhi. Alejandro Amenàbar, Spagna, 2007
Shutter Island. Martin Scorsese, Usa, 2010.
Old Boy. Spike Lee, Usa, 2012.
Altro
Vengono indicati in questa sezione titoli che, per le tematiche
affrontate, non rientrano nelle categorie individuate in precedenza.
Notorius, l’amante perduta. Alfred Hitchcok, Usa, 1946
Anima e corpo. Robert Rossen, Usa, 1947.
Mulholland Drive. David Lynch, Usa, 2001
13 (Tzameti). Géla Babluani, Francia, 2005.
Le mele di Adamo. Anders Thomas Jensen, Danimarca, 2005
52
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE IN LINGUA ITALIANA
Generale
Paolo Aleotti. La Hollywood dell’era pulp. Dalle riviste pulp al cinema di Tarantino. Editori Riuniti,
Roma, 1999.
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Torino, 2000.
Maurizio Colombo. Il cinema nero americano. In Nick Raider. Almanacco del giallo1994. Sergio Bonelli
Editore, Milano, 1994.
Franco Fossati. Dizionario del genere poliziesco. Vallardi, Milano, 1994.
Leonardo Gandini. Il film noir americano. Lindau, Torino, 2001.
Mauro Gervasini. Cinema poliziesco francese. Le Mani, Genova, 2003.
Fabio Giovannini. Storia del noir. Dai fantasmi di Edgar Allan Poe al grande cinema di oggi.
Castelvecchi, Roma, 2000.
Alberto Guerri. Il film noir - Storie americane. Gremese, Roma, 1998
Marina Fabbri, Elisa Resegotti (a cura di). I colori del nero. Ubulibri, Milano, 1989.
Il noir alla francese. Il castoro, Milano, 2003.
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Paola Malanga. Tutto il cinema di Truffaut. Baldini, Castoldi Dalai Editore, Milano, 2008
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Richard Schickel. Clint Eastwood. Sperling&Kupfer, Milano,1996
Massimo Sebastiani, Mario Sesti. Delitto per delitto. 500 film polizieschi. Lindau, Torino, 1998.
Roberty Sklar. Il cinema americano, 1945-60. In Storia del cinema mondiale. Gli Stati Uniti. Einaudi,
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François Truffaut. I film della mia vita. Marsilio Editori, Venezia, 1978
François Truffaut. Il cinema secondo Hitchcock. Nuova Pratiche Editrice, Parma, 1977.
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Renato Venturelli. Gangster e detective. Il cinema criminale. In Storia del cinema mondiale. Gli Stati
Uniti. Einaudi, Torino, 2000.
Renato Venturelli. Storia del cinema gangster in cento film. Le Mani, Genova, 2000.
Su Takeshi Kitano
Luciano Barcaroli, Carlo Hintermann, Daniele Villa (a cura di). Il cinema nero di Takeshi Kitano. Con
tre sceneggiature: Sonatine, Hana-bi, Brother. Ubulibri, Milano, 2001.
Vincenzo Buccheri. Takeshi Kitano. Il Castoro Cinema, Milano, 2001.
53
Donatello Fumarola (a cura di). Takeshi Kitano. Dino Audino Editore, Roma, 1998.
Takeshi Kitano. Asakusa Kid. Mondadori, Milano, 1988
Sui fratelli Coen
Alessandro Agostinelli. Gli otto comandamenti dei fratelli Coen. Controluce, Nardò, 2010
Ronald Bergan. The Coen Brothers. Una biografia. Lindau, Torino, 2002
Vincenzo Buccheri. Joel e Ethan Coen. Il Castoro Cinema, Milano, 2002
Bill Green, Ben Peskoe, Will Russell, Scott Shuffitt. La vita secondo il Grande Lebowski.
Sperling&Kupfer, Milano, 2007
Alberto Mascia. Alla ricerca del senso. Cinema e filosofia nell’opera dei fratelli Coen. Cadmo ed.,
Fiesole, 2007.
Su Michael Mann
Pier Maria Bocchi. Micheal Mann. Il Castoro Cinema, Milano, 2002.
Alessandro Borri. Michael Mann. Ed. Falsopiano, Alessandria, 2000.
Su John Woo
Marco Bertolino, Ettore Ridola. John Woo - La violenza come redenzione. Le Mani, Genova, 2010.
Su Patrice Leconte
Giancarlo Zappoli, Luisa Ceretto (a cura di). Patrice Leconte. Un pessimista sorridente. Centro Studi
Cinematografici, Roma, 2009.
Piccola biblioteca noir e poliziesca
Pierre Boileau, Thomas Narcejac. I diabolici. Fazi Editore, Roma, 2003.
Pierre Boileau, Thomas Narcejac. I vedovi. Sellerio, Palermo, 2006.
Pierre Boileau, Thomas Narcejac. La donna che visse due volte. Sellerio, Palermo, 2003.
James Lee Burke. Piccola notte Cajun. Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1996.
James Lee Burke. La palude dell’odio. Il Giallo Mondadori, Milano, febbraio 1999.
William R. Burnett. Giungla d’asfalto. Sellerio, Palermo, 2005.
James M. Cain. Il postino suona sempre due volte. Adelphi, Milano, 1999
James M. Cain. La morte paga doppio. Adelphi, Milano, 1998.
Andrea Camilleri. Il giro di boa. Sellerio, Palermo, 2003.
Massimo Carlotto. Arrivederci, amore ciao. Edizioni e/o, Roma, 2001.
Massimo Carlotto. La verita dell’Alligatore. Edizioni e/o, Roma, 1995.
Gianrico Carofiglio. Testimone inconsapevole. Sellewrio, Palermo, 2007.
Raymond Chandler. Addio mia amata. Contenuto in Tutto Marlowe investigatore, vol. I. Omnibus Gialli,
Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1982.
Raymond Chandler. Il grande sonno. Contenuto in Tutto Marlowe investigatore, vol. I. Omnibus Gialli,
Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1982.
Raymond Chandler. Il lungo addio. Contenuto in Tutto Marlowe investigatore, vol. II. Omnibus Gialli,
Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1982.
Didier Daeninckx. A futura memoria. Il Giallo Mondadori n. 2455, Milano, 1996.
Sandrone Dazieri. Attenti al gorilla. Mondadori, Milano, 1999.
Augusto De Angelis, Il candeliere a sette fiamme. Feltrinelli Editore, Milano, 1963.
Giancarlo De Cataldo. Romanzo criminale. Einaudi, Torino, 2006.
James Ellroy. Dalia nera. Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1987.
James Ellroy. I miei luoghi oscuri. Bompiani, Milano, 1997.
James Ellroy. L.A. Confidential. Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1991.
James Hadley Chase. Eva. Feltrinelli, Milano 1990
Dashiell Hammett. Il Falcone Maltese. In Dashiell Hammett. Romanzi e racconti. I Meridiani, Arnoldo
Mondadori Editore, 2004.
54
Thomas Harris. Il silenzio degli innocenti. Mondadori, Milano, 1989.
Jean-Claude Izzo. Casino totale. Edizioni e/o, Roma, 1998.
Jean-Claude Izzo. Chourmo. Edizioni e/o, Roma, 1999.
Jean-Claude Izzo. Solea. Edizioni e/o, Roma, 2000.
Carlo Lucarelli. Almost Blue. Einaudi, Torino, 2002.
Carlo Lucarelli. Un giorno dopo l’altro. Einaudi, Torino, 2000.
Loriano Macchiavelli. Ombre sotto i portici. Einaudi, Torino, 2003.
Leo Malet. Trilogia nera La vita è uno schifo - Il sole non è per noi - Nodo alle budella. Fazi Editore,
Roma, 2003.
Jean-Patrick Manchette. Nada. Einaudi, Torino, 2006
Jean-Patrick Manchette. Pazza da uccidere. Einaudi, Torino, 2005
Henning Mankell. Assassino senza volto. Marsilio, Venezia, 2007
Henning Mankell. Muro di fuoco. Marsilio, Venezia, 2010
Petros Markaris. La lunga estate calda del Commissario Charitos. Bompiani, Milano, 2009.
Petros Markaris. Prestiti scaduti. Bompiani, Milano, 2011.
Petros Markaris. Ultime della notte. Bompiani, Milano, 2001.
Andrea G. Pinketts. Lazzaro, vieni fuori. Feltrinelli, Milano, 1992.
Giorgio Scerbanenco. I milanesi ammazzano al sabato. Garzanti, Milano, 2010
Giorgio Scerbanenco. Venere privata. Garzanti, Milano, 2007.
Georges Simenon. Il fidanzamento del Signor Hire. Adelphi, Milano, 2003.
Georges Simenon. I Pitard. Adelphi, Milano, 2000.
Georges Simenon. La Marie del porto. Adelphi, Milano, 1992.
Georges Simenon. La neve era sporca. Adelpi, Milano, 1991.
Georges Simenon. L’uomo che guardava passare i treni. Adelphi, Milano, 1986.
Mickey Spillane. La vendetta è mia. Garzanti, Milano, 1954
Mickey Spillane. Ti ucciderò. Garzanti, Milano, 1953
Jim Thompson. Diavoli di donne. Contenuto in Vita da niente. Omnibus Gialli, Arnoldo Mondadori
Editore, Milano, 1990.
Jim Thompson. Getaway. Contenuto in Vita da niente. Omnibus Gialli, Arnoldo Mondadori Editore,
Milano, 1990.
Jim Thompson. Vita da niente. Contenuto in Vita da niente. Omnibus Gialli, Arnoldo Mondadori Editore,
Milano, 1990.
Manuel Vazquez Montalban. Assassinio al Comitato Centrale. Feltrinelli, Milano, 2005.
Manuel Vazquez Montalban. Il centravanti è stato assassinato verso sera. Feltrinelli, Milano, 2004.
Manuel Vazquez Montalban. Quintetto di Buenos Aires. Feltrinelli, Milano.
Cornell Woolrich. La sposa era in nero. Mondadori, Milano, 2009.
55
INDICE
Il film noir classico e l’evoluzione contemporanea.......................................................................................3
Il noir: strumento per rappresentare la società.............................................................................................9
Il noir mediterraneo.........................................................................................................................10
La Francia: Simenon e i suoi eredi......................................................................................10
Il poliziesco italiano. Dalla Milano di Scerbanenco alla Sicilia di Camilleri.....................11
La Spagna. il noir si sviluppa dopo il franchismo...............................................................13
La Grecia. Il noir al tempo della crisi..................................................................................13
Letteratura e cinema noir: uno scambio costante........................................................................................14
Il termine «noir»..............................................................................................................................14
Il noir e la letteratura «hard-boiled»................................................................................................14
I «duri» americani e il grande schermo...........................................................................................15
Il noir italiano..............................................................................................................................................19
I film............................................................................................................................................................21
Hana-Bi . Fiori di fuoco...................................................................................................................23
Fargo................................................................................................................................................27
Collateral..........................................................................................................................................33
36 Quai des Orfèvres.......................................................................................................................37
The Killer.........................................................................................................................................41
L’uomo del treno..............................................................................................................................45
Filmografia essenziale.................................................................................................................................49
Bibliografia essenziale in lingua italiana.....................................................................................................53
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