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I lettori che desiderano informarsi
sui libri e sull’insieme delle attività della
Società editrice il Mulino
possono consultare il sito Internet:
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Massimo Livi Bacci
Amazzonia
L’impero dell’acqua
Società editrice il Mulino
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ISBN 978-88-15-00000-0
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dalla legge che tutela il Diritto d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito
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Indice
Prologo
p. 000
I.
Il «mare dolce» del pilota della Niña. L’oro di
Atahuallpa e un signore chiamato Eldorado. L’oro
del Perú arriva a Siviglia. Oltre l’Impero degli Inca,
oltre le Ande. Cani feroci e avidi coloni. La rivolta
dei Quijos
000
II.
Gonzalo Pizarro varca le Ande in cerca di ricchezza.
Niente oro, poca cannella, tanta fame. Cinquantasette rionauti discendono l’Amazzonia. Doni, razzie e
frecce avvelenate. Un frate perde un occhio e prende
la penna. In mare aperto
000
III. Trecento rionauti scendono il Grande Fiume. Pedro
de Ursúa e Ines de Atienza prime vittime della tragedia. Aguirre furore di Dio. La lunga scia di sangue
fino all’oceano e al Venezuela. Sfida a Filippo II.
Morte di Aguirre e di Elvira, sua figlia
000
IV.
Padre Cugia dalla Sardegna alle rapide del Marañon.
Gesuiti alla conquista spirituale del Grande Fiume.
Vangelo, asce e machete. Molto ingenium, poca prudentia. Caleidoscopio etnico, babele linguistica. In
centrotrenta anni, 161 padri e 152 effimere missioni
000
V.
Su e giù per l’Amazzonia. Due frati in fuga scendono il Grande Fiume e allarmano i portoghesi.
000
6 Indice
Inattesa e sgradita visita a Quito dei coloni del Pará.
Un gesuita colto e attento descrive l’Amazzonia e
riferisce al re
VI. Missione impossibile. Pescatori di anime: maglie
larghe e pesci piccoli. Una missione modello. Gli
irriducibili Jivaros e un napoletano scriteriato. Un
bavarese sciamanico predica in quaranta villaggi nelle
isole del fiume. Il fare e disfare dei missionari
p. 000
VII. Paradiso dell’antropologo, purgatorio del demografo. Molti o pochi indios? Un umile frate che
faceva di conto. Fughe e catture; arrivi e partenze;
fondazioni, spostamenti e abbandoni. Le stragi del
vaiolo. Vaccinazione nella selva
000
VIII. Scienziati sfortunati all’equatore. Perú-Parigi, via
Amazzonia. Buon selvaggio o bruto bestiale? Vaiolo,
caucciù e polli avvelenati. Sociologia delle Amazzoni: la Condamine e Humboldt. La straordinaria
avventura di Madame Godin
000
IX. Francesi, inglesi e olandesi ospiti indesiderati del
Grande Fiume. Uno strano Presepio. Un predicatore politico. Le ingiuste guerre giuste, i riscatti e
i pogrom. A caccia di schiavi. Fine dell’Amazzonia
dei primi rionauti.
000
Epilogo
000
Appendici
000
1. Rio delle Amazzoni: carta di identità
000
2. Aritmetica Amazzonica
000
3. Popolazione di Mainas (XVIII secolo)
000
Indice 7
Cronologia
p. 000
Glossario
000
Illustrazioni
000
Indice dei nomi
000
Indice delle cose notevoli
000
Elenco delle mappe, tabelle e figure
000
Prologo
«Vedo una canoa vuota sulla riva, riempiamola di noci di cocco, entriamoci e lasciamoci trasportare dalla corrente. Un fiume conduce sempre
ad un luogo abitato...» disse Cacambo. «Andiamo», rispose Candide,
«raccomandiamoci alla Provvidenza».
Chi non ha sognato di fare come Candide, e il suo servo
Cacambo, che partirono dal regno degli Inca in cerca dell’Eldorado? Al sogno ho dato un mio personale seguito nelle pagine di
questo libro, dedicate all’Amazzonia e al suo disvelamento agli
occhi europei. Dal primo colpo d’occhio che Pinzón, valoroso
pilota di Colombo, dette all’estuario all’alba del Cinquecento, alla
sua completa navigazione intrapresa casualmente quarant’anni
più tardi dal capitano Orellana, dal frate Carvajal suo scrivano,
e da cinquanta compagni. Dalla tragica spedizione di Pedro de
Ursúa e Lope de Aguirre, intrisa di sangue e tragedia, alla lenta
discesa del Grande Fiume di La Condamine, uomo di scienza
impegnato nell’osservare, misurare e classificare. Mentre l’immensità amazzonica si rivelava agli europei, i valori e i comportamenti
dei nuovi intrusi si manifestavano nella loro crudezza agli occhi
delle popolazioni del Fiume. Un incontro, tra iberici e amazzonici, con esiti disastrosi per questi ultimi a causa dell’insostenibile
asimmetria dei due mondi. Assai più destabilizzante che in altre
parti d’America, dove il contatto, peraltro, ebbe quasi ovunque
conseguenze disastrose. Il mondo amazzonico era liquido e mobile, articolato in una molteplicità di lingue ed etnie, plasmato
da una natura esuberante. Fragile di fronte alla dura intrusione
spagnola che oltrepassava le Ande, prima alla ricerca di ricchezze
e regni inesistenti, poi della manodepera indigena per estrarre
l’oro nascosto nel letto dei fiumi, per il duro lavoro servile nelle
piantagioni, per il trasporto come umane bestie da soma. Fragile
10 Prologo
di fronte alle incursioni dei portoghesi, che risalivano il Fiume
dall’estuario alla caccia di schiavi da razziare. Asimmetria e fragilità determinarono lo sconvolgimento demografico della società
autoctona per il forte declino delle popolazioni e per il profondo
mutamento delle caratteristiche insediative, e uno sconvolgimento
antropologico per le migrazioni e le dislocazioni, per la frammentazione, la ricomposizione e la scomparsa di etnie, per la perdita
spesso traumatica di caratteri culturali originali.
Avvenne così che l’Amazzonia – percorsa da migliaia di chilometri di maestose vie d’acqua, immersa nei milioni di chilometri
quadrati di selva – venisse sconvolta da un pugno di europei e
di meticci, poche centinaia a metà Seicento, qualche migliaio un
secolo più tardi. Un impero dell’acqua conteso – spagnoli da
ovest, portoghesi da est – e sconvolto da dure genti di guerra,
da impietosi cacciatori di schiavi, da abili mercanti, e dalle nuove
malattie che portarono con sé. Nel mezzo agì un debole arbitro
(gli ordini religiosi, in particolar modo i gesuiti), mediatore tra
gli interessi degli europei e quelli degli amazzonici, e poco efficace difensore dei diritti dei secondi. È dagli ordini religiosi, e
in misura minore dalle autorità civili, che procedono cronache,
racconti e relazioni degli eventi amazzonici che mi sono sforzato
di collegare e presentare organicamente, cercando di intuire i fatti
dietro il formalismo giuridico dei funzionari, la scrittura edificante
dei religiosi, le sbrigative narrazioni degli uomini d’azione.
Queste pagine ripercorrono tre secoli, dal primo avvistamento della costa brasiliana alla chiusa del Settecento, quando le
autorità civili subentrarono ai gesuiti espulsi nel governo degli
immensi territori, e i caratteri originari della società amazzonica
si dissolsero per il diradarsi delle popolazioni, la perdita delle
identità culturali, l’omologazione ai modelli trasmessi e imposti
dagli iberici.
Come Candide, l’autore di queste pagine aveva iniziato il
suo viaggio con ottimismo e fiducia nella ragione, ma lo chiude
con la constatazione – una volta di più – che i peggiori nemici
della specie umana non sono le sette piaghe d’Egitto, ma i propri
simili. Un naturalista di fine Settecento scrisse: «Si incontrano
luoghi, in quel fiume, che una volta erano abitati da innumerevoli barbari e che ora non mostrano segni di vita oltre alle ossa
dei morti». La Condamine, che fu amico di Voltaire, con tono
meno catastrofico osservò che «le rive del Marañon, appena un
secolo addietro, erano ancora popolate da un gran numero di
Prologo 11
nazioni, che si sono ritirate nell’interno appena hanno visto gli
europei». All’inizio dell’Ottocento, quella società variata e liquida
che i primi navigatori avevano osservato con curiosità, sconcerto
e timore, non esisteva più.
Questo lavoro è diretto, soprattutto, al pubblico italiano, per il quale
l’Amazzonia evoca immagini esotiche, ma che ignora la sua travagliata
storia. È stato anche un’occasione per analizzare le conseguenze del contatto tra Europa e America, in un contesto così diverso da quello abitato
da società articolate ed evolute, come quelle mesoamericane, andine e –
per certi versi – caraibiche. Per non appesantire la lettura, ho presentato
una piccola parte del materiale d’archivio studiato – a Roma, a Quito e
a Madrid – la cui discussione mi riprometto di affidare a pubblicazioni
specializzate. Vorrei riservare un ringraziamento particolare a una persona
che non ho mai incontrato, ma che mi ha generosamente ceduto numerose e preziose trascrizioni di documenti di archivio da lei raccolti. Si
tratta di Ann Golob, la cui tesi di dottorato in antropologia, discussa alla
City University of New York nel 1982 (The Upper Amazon in Historical
Perspective, Ann Arbor, University Microfilm International), è un’opera
fondamentale per la conoscenza dell’alta Amazzonia. Ann Golob ha poi
lasciato gli studi antropologici – con rimpianto dei suoi estimatori – per
seguire altri interessi. A lei esprimo la mia riconoscenza più viva.
Firenze, luglio 2012
M.L.B.
I.
Il «mare dolce» del pilota della «Niña».
L’oro di Atahuallpa e un signore chiamato Eldorado.
L’oro del Perú arriva a Siviglia. Oltre l’impero degli Inca,
oltre le Ande. Cani feroci e avidi coloni.
La rivolta dei Quijos
proposta:
numero separato
dal titolo
L’
esistenza del Grande Fiume venne svelata a occhi europei
alla fine di gennaio del 1500. Erano gli occhi attenti di un uomo
di mare tra i più esperti e abili della sua epoca, «l’uomo più capace che c’era tra i piloti del Re di quei tempi», Vicente Yáñez
Pinzón, che al comando della Niña aveva accompagnato Cristoforo
Colombo nel primo epico viaggio di esplorazione nemmeno otto
anni prima1. Nel giro di pochi anni, la febbre della navigazione di
scoperta era giunta al culmine: il 20 maggio 1498 Vasco da Gama
aveva circumnavigato l’Africa ed era approdato a Calicut, sulle
coste del Malabar, nell’India sud-orientale. Nell’agosto dello stesso anno, nel suo terzo viaggio, Colombo aveva esplorato le coste
orientali del Venezuela, l’estuario dell’Orinoco e le isole delle Perle.
Nell’aprile del 1500 la grande spedizione di Pedro Alvares Cabral
diretta verso le Indie approdò in Brasile, forse non casualmente.
Yáñez Pinzón nel 1499 aveva ottenuto licenza per la scoperta di
nuove terre, purché non fossero quelle già toccate da Colombo,
ed era partito da Siviglia al comando di quattro caravelle nel
novembre dello stesso anno. Fatta sosta alle isole di capo Verde,
traversarono l’equatore e «il 26 gennaio avvistano da lontano una
terra»; si presume che si trovassero nelle prossimità della parte
più orientale del Brasile, in Pernambuco o Ceará. Sbarcati, non
riuscirono all’inizio a stabilire un contatto con gli indigeni, per
cui continuarono la loro navigazione lungo la costa in direzione
nordovest. In un successivo approdo il contatto con gli indigeni ci
fu, ma fu drammatico: quattro scialuppe con uomini armati presero
terra. E «da un alto colle, su una spiaggia vicina, videro una gran
folla di indigeni». Ci fu un imprudente tentativo di scambio di doni
che finì con l’uccisione di otto spagnoli e di un non specificato
numero di indios. La spedizione ripartì in fretta e furia.
16 Capitolo primo
Si diressero verso nordovest lungo la stessa spiaggia, mesti per i compagni uccisi. Avevano percorso quaranta miglia quando si imbatterono in un
tratto di mare di acque così dolci che poterono riempire le botti di acqua
fresca. Ricercando la causa di questo fenomeno trovarono che sboccavano
in mare con grande impeto fiumi vorticosi [...] In quel tratto di mare dicono
che sorgono molte isole ridenti per la fertilità del suolo e fittamente abitate.
Riferiscono che gli indios di questi luoghi sono miti e socievoli, ma di poca
utilità, perché non arrecarono ai nostri alcun desiderabile provento, come
oro o pietre preziose. Perciò portarono via trentasei schiavi.
Così racconta, nella prima testimonianza scritta2, il cronista
umanista di corte Pietro Martire di Anghiera – che conobbe
Pinzón – nel suo De Orbe Novo. Sicuramente l’acqua dolce in
mare aperto si trova per lungo tratto nella parte nord dell’estuario
– allo sbocco a sud, nel braccio detto Pará, l’acqua è salata – e
per questa ragione il fiume fu battezzato «Río de Santa Maria
del Mar Dulce». È però incerto se, e quanto a lungo, Pinzón
risalisse l’estuario: alcuni cronisti successivi parlano di trenta o
quaranta leghe, ma i testi sono contraddittori. Poche settimane
dopo Pinzón, un altro navigante, Diego de Lepe, suo parente e
concittadino di Palos, aveva navigato gli stessi mari, traversato lo
stesso estuario, era entrato in conflitto con i nativi subendo gravi
perdite e aveva catturato molti indios che riportò in Spagna.
Il Grande Fiume, e il suo largo e complesso estuario, nei
decenni successivi non suscitò nuovi tentativi di esplorazione o
colonizzazione. Gli interessi degli spagnoli erano attratti dalle
coste del Venezuela e dalle isole delle Perle, e il lungo litorale
fino all’estuario amazzonico era poco adatto agli sbarchi e alle
esplorazioni. Del resto, gli indigeni dell’estuario amazzonico erano
stati giudicati – come riferisce Pietro Martire – «di poca utilità»:
c’erano regioni assai più interessanti sotto il profilo dell’utile
economico nel continente americano. L’unico tentativo di rilievo
di esplorazione e colonizzazione fu quello di Diego de Ordáz, nel
1531, un avventuroso e ricco luogotenente di Cortés nella conquista del Messico, che ebbe licenza di esplorazione e conquista del
Marañon. Armò a sue spese tre navi: la sua capitana fu deviata
dalle correnti lungo la costa a nord dell’estuario, e Ordáz finì
nel golfo di Paria e tentò la risalita dell’Orinoco. Le altre due
navi fecero naufragio, a quanto si seppe, nell’estuario del Grande
Fiume e i superstiti si mescolarono con gli indios; più tardi si
disse, addirittura, che si erano sposati con le Amazzoni3.
Amazzonia 17
Le popolazioni con cui i navigatori dei primi decenni del
secolo vennero in contatto sulle coste del Brasile erano essenzialmente di cultura tupí, vastamente diffusa lungo la costa nelle
sue varianti, dall’estuario del Río de la Plata fino a quello del
Grande Fiume, e lungo il corso di questo. Non dappertutto – e
gli episodi cruenti narrati da Yáñez Pinzón e da Diego de Lepe
lo confermano – essi erano socievoli come quelli incontrati da
Cabral e descritti a lungo nella famosa lettera al re scritta dal
suo scrivano Pero Vaz de Caminha:
Loro non coltivano la terra, né allevano animali. Né ci sono qui bue,
né vacca, né pecora, né gallina, né qualsiasi altro animale che sia abituato
al modo di vivere degli uomini. Non mangiano altro che di questi tuberi,
che qui abbondano, e questi semi e frutti che la terra e gli alberi producono
spontaneamente. E con questo cibo sono tanto forti e ben nutriti, quanto
lo siamo noi con tutto il grano e i legumi che mangiamo.
Encora: «erano tutti così aitanti e così ben fatti ed eleganti nelle
loro tinture, che avevano un bell’aspetto. Raccoglievano quanta
più legna potevano, con molta buona volontà, e la portavano fino
ai battelli»4. Cabral era approdato, è vero, molto più a sud, nella
tranquilla baia che venne chiamata – ed è chiamata ancora oggi –
Porto Seguro. Ma erano questi gli indios mansueti – cooperativi
nel «raccogliere legna» –, insediati vicino ad approdi agevoli, in
territori ricchi di vegetazione, che i portoghesi cercavano per
stabilire i loro commerci e le loro feitorías5.
I portoghesi concentrarono la loro azione sulla regione più
orientale della costa brasiliana, più promettente per il suo sfruttamento commerciale. Erano terre assai più vicine all’Europa, con
una folta selva costiera ricca di «alberi del Brasile» (pau Brasil),
per i quali c’era forte domanda per il legno pregiato e per la
resina, utilizzata come colorante nella manifattura tessile6. Una
costa ricca di approdi per i velieri, dove gli indigeni potevano
essere indotti a cooperare nel taglio degli alberi, il loro trasporto
e carico sulle navi. Nel 1502 e nel 1503 due flotte furono inviate
dal Portogallo al Brasile – nella seconda c’era Amerigo Vespucci
– che ritornarono in patria con i loro carichi di schiavi e alberi
del Brasile. Esiste un rapporto dettagliato relativo alla nave Bretoa che nel 1511 approdò a Bahia, per poi proseguire verso sud
a Cabo Frío, dove gli indios Tupí tagliarono e trasportarono i
tronchi di cinquemila alberi del Brasile alla feitoría lì stabilita,
18 Capitolo primo
dietro il consueto pagamento di utensili e cianfrusaglie varie. La
nave rientrò in Portogallo con il carico di legname, animali esotici
e trentacinque schiavi7. Fino agli anni Trenta del Cinquecento
funzionò il sistema delle feitorías stabilite in punti strategici della
costa, che assicurarono uno scambio pacifico tra commercianti e
indios, utensili contro taglio e trasporto di legname.
Nulla di questo era possibile nella costa a nord dell’estuario
del Grande Fiume, con bassi fondali, lagune, difficili approdi e
rado popolamento costiero. Né le esperienze cruente di Yáñez
Pinzón e di Diego de Lepe nell’estuario o a sud di questo invitavano a nuove intraprese. Del resto, solo la parte orientale del
Brasile risultava legalmente disponibile per la colonizzazione
portoghese, trovandosi a occidente della linea stabilita dal Trattato di Tordesillas (1494) che separava le zone d’influenza della
Spagna e del Portogallo: la costa amazzonica si trovava nettamente a oriente della linea e quindi nella sfera spagnola. Solo
nel 1535 la corona portoghese, preoccupata più dalle ambizioni
francesi e olandesi che da quelle spagnole, organizzò una grande
spedizione nel tentativo di colonizzare il Maranhão: la spedizione fallì per l’impossibilità dei velieri di risalire la corrente del
Grande Fiume, una volta lasciato alle spalle l’estuario9. Bisognerà
attendere il secolo successivo perché i portoghesi vi si insedino
definitivamente.
L’esplorazione del Grande Fiume non avverrà, dunque,
partendo dal «mare del Nord» – l’Atlantico – nonostante che la
grande distesa d’acqua potesse invitare a una tranquilla risalita,
sia pure controcorrente. I tentativi di percorrerlo prenderanno il
via da ponente, dalle sorgenti invece che dall’estuario, valicando
la catena delle Ande, anziché traversando l’oceano, per l’impulso
di Quito o del Cuzco piuttosto che di Lisbona o Siviglia. Ma non
sappiamo quale occhio europeo scrutasse per primo le acque del
Grande Fiume. La prima descrizione del Río delle Amazzoni, là
dove diventa veramente tale, alla confluenza dell’Ucayali con il
Marañon, è dei due cronisti della seconda spedizione che navigò
interamente il fiume (quella di Pedro de Ursúa e di Lope de
Aguirre, cap. III) e che a questa confluenza si fermò per otto
giorni alla fine del 1561: «Assieme, questi tre fiumi tanto poderosi
[lo Huallaga, il Marañon e l’Ucayali] con molti altri minori, e
torrenti e lagune delle quali non ho il conto, ne formano uno a
valle che non credo che nel mondo ce ne sia uno somigliante»10.
Amazzonia 19
ma infra,
spesso,
Madeira
La realtà è che era conoscenza generale tra gli Inca, poi trasmessa
agli spagnoli, che i corsi d’acqua che nascevano dalle cordigliere
confluivano poi in uno o più grandi fiumi, che scorrevano per
plaghe sconosciute fino al mare. Molti tratti di questi fiumi – e
anche del Grande Fiume – erano già stati più volte percorsi.
L’impero degli Inca, che al tempo dell’arrivo degli spagnoli era
alla sua massima espansione, non aveva superato la cresta delle
cordigliere anche se controllava le terre basse dei corsi superiori
dello Huallaga e del Marañon, ben conosciuti e navigati. Oltre
le Ande c’erano le tribù barbare, i Chunchos, con i quali erano
praticati occasionali commerci, ma fuori della sfera Inca.
Ma dove andavano quei fiumi ricchi di acque? Verso il
«mare del Nord», cioè l’oceano Atlantico, sicuramente: un mare
la cui costa americana era già stata abbondantemente esplorata
dall’Orinoco (1498) al Marañon (1500) e al Río de la Plata (1516).
Ma per quali percorsi, questo non si sapeva. Ancora nel 1590
l’autorevole gesuita José de Acosta, che aveva percorso il Perú in
lungo e in largo, nella sua Historia natural y moral de las Indias
affermava del Río delle Amazzoni che il fiume «corre [...] dalle
montagne del Perú, dalle quali raccoglie immensità di acque delle
piogge e dei fiumi [...] esce finalmente nell’oceano e vi sbocca
quasi di fronte alle isole Margarita e Trinidad», confondendolo
con l’Orinoco11.
Quasi vent’anni più tardi, Garcilaso de la Vega, raccontando
la mitica spedizione di conquista dei Musu (o Mojos) da parte
del re Inca Yupanqui narra di una provincia a oriente del Cuzco
oltre le Ande alla quale si poteva accedere seguendo il corso di
un fiume (probabilmente il Madre de Dios) che riceveva numerosi affluenti: «dove questo fiume sbocchi nel mare del Nord
non saprei dire; tuttavia, per la sua vastità e per la direzione
che segue andando verso levante [...] sospetto che confluisca nel
Rio de la Plata»12. Si trattava, invece, con tutta probabilità del
Madera, che fluiva verso nord, il principale affluente di destra
del Río delle Amazzoni. Potremmo stupirci che negli anni in
cui Galileo Galilei esplorava il cosmo, vi fosse ancora ignoranza
sul percorso dei grandissimi fiumi del continente. Ma sarebbe
stupore mal riposto, data l’immensità dei territori, le difficoltà
di percorso e il tenue popolamento.
Anche noi, dunque, seguiremo la corrente del Grande Fiume,
perché la sua conoscenza, nei primi due secoli, procede nello
20 Capitolo primo
stesso senso, da occidente verso oriente. Per l’impulso della
Conquista, della ricerca di ricchezze, di spazi e popolazioni da
colonizzare e da sfruttare, di anime da evangelizzare.
Francisco Pizarro aveva sottomesso un impero civilizzato e
strutturato, prudentemente affacciato sull’immensità amazzonica.
È dunque ragionevole dilungarsi per un po’ sulle forze che produssero la proiezione spagnola oltre le Ande e le prime spedizioni
nei decenni successivi al 1532, quando gli spagnoli entrarono
come un inesorabile cuneo nella compatta società peruviana. È
istruttivo, anzitutto, ricordare la velocità della Conquista, sotto
l’impulso di un paese che, pur dominante in mezza Europa, era
debole sotto il profilo demografico, di dimensioni comparativamente modeste, lontano migliaia di miglia, legato da precarie e
lente comunicazioni marine. Se invochiamo le dimensioni oggettive, la superficie della Spagna di Ferdinando e Isabella era meno
di un decimo di quella dei territori sottomessi alla dominazione
Azteca e Inca; la distanza via mare tra Genova, patria di Colombo, e Siviglia era un decimo di quella percorsa dallo stesso
Colombo da Palos a Hispaniola; la popolazione della penisola
iberica era – presumibilmente – una piccola frazione (azzarderei
tra un quinto e un decimo) di quella degli imperi mesoamericano
e andino; Città del Messico era due o tre volte più grande di
Siviglia. Ma il nanismo fisico fu – come la storia ha dimostrato
– abbondantemente compensato dalla capacità politica e organizzativa, da un’ideologia robusta, dalle conoscenze avanzate e
dalla tecnologia: vela, bussola, ruota, acciaio, polvere da sparo.
La rapidità del contatto e il divario di conoscenze e capacità tra
conquistatori e conquistati, hanno inferto ai secondi le profonde
ferite e i duri traumi che ben conosciamo. Il contatto fra europei
e americani si consumò in uno spazio di tempo rapidissimo, dato
che alla metà del Cinquecento solo in aree marginali (ancorché
vastissime e scarsamente popolate) non erano arrivati gli iberici.
Pedro de Valdivia era penetrato in Cile e nel 1541 tracciava il
piano di Santiago (al 33º parallelo sud); nello stesso anno Francisco de Orellana aveva navigato per tutto il corso del Río delle
Amazzoni sboccando nell’Atlantico; nel 1540 Francisco Vázquez
de Coronado esplorava le distese a nord del Río Grande, fino
al cuore degli attuali Stati Uniti, al margine del Gran Canyon
(38º parallelo nord). Un continente percorso in tre decenni (dal
primo stabile incontro con la terraferma) su un asse nord-sud di
ottomila chilometri ed est-ovest di cinquemila. E al termine di
Amazzonia 21
quel trentennio – verso la metà del secolo – si calcola che fossero
oltre 100 mila gli iberici sparsi in tutta l’America, dai Caraibi al
Pernambuco, dalla costa pacifica messicana a quella cilena. Nel
vastissimo impero Inca la rapidità della Conquista fu altrettanto
stupefacente: è vero che il viceré Francisco de Toledo annullò
l’ultima remota resistenza con l’esecuzione di Tupac Amaru nel
1572. È però un fatto che fino dal 1537 – cinque anni appena
dopo l’approdo di Pizarro in Perú – liberato il Cuzco dall’assedio
degli indios insorti ed esaurita la generale insurrezione, l’impero
era oramai definitivamente caduto in mani spagnole.
Parlare però di «spinta della Conquista» con riferimento alle
esplorazioni degli ignoti territori transandini, vuol dire poco.
Certamente le prime generazioni di conquistatori erano fatte di
una pasta speciale, che aveva forti radici medievali nel processo
di Riconquista, di forte lealtà al signore, di ricompensa al valore e
all’onore. «L’onore e la ricchezza si guadagnavano più facilmente
con la spada e meritavano di formalizzarsi nella concessione, da
parte del sovrano riconoscente, di uno status più alto». Esaurita la spinta della Riconquista, «le forze dinamiche della società
iberica medievale cominciarono a cercare le nuove frontiere oltre
i mari [...] e i castigliani, come i portoghesi, verso l’Africa, e le
isole dell’Atlantico»13 e poi verso l’America. Coloro che presero
avventurosamente la via dell’America andavano incontro a rischi
ignoti ed elevati: furono circa la metà i compagni di Cortés e di
Pizarro che persero la vita in pochi anni. Un rischio così alto,
evidente e chiaramente percepito, si affrontava solo in vista di
grandi ricompense: oro e preziosi, schiavi, territori da signoreggiare e vassalli da sfruttare. Con il sostegno dei sovrani e quello
della Chiesa in cerca di nuovi greggi da convertire e anime da
salvare.
Nella prima fase della Conquista l’oro ebbe un’importanza
fondamentale, per il suo valore, commerciabilità e portabilità. Di
oro se ne era trovato parecchio in Hispaniola e anche a Cuba e a
Portorico, anche se nel secondo decennio del secolo la produzione
antillana andò rapidamente declinando14. Altro oro si era trovato
sulla terraferma atlantica dei Caraibi, detta anche Castilla de Oro.
La ricerca dell’oro era tuttavia costosa in termini di manodopera
e implicava disponibilità di servi o schiavi, da mantenere al lavoro
in zone spesso impervie e isolate, il cui numero si assottigliava
rapidamente per lo sfruttamento, le malattie, la morte e le fughe.
22 Capitolo primo
E il declino della popolazione autoctona – particolarmente rapido
nelle zone aurifere – minacciava questa fonte di ricchezza. L’oro
che arrivava alla Casa de Contratación di Siviglia, era diminuito
dai quasi 1.000 chilogrammi all’anno tra il 1511 e il 1520 a meno
di 500 nel decennio successivo. È negli anni Trenta che gli invii
di oro in Spagna si moltiplicano: 5.639 chilogrammi nel 1533,
3.470 nel 1534, 1649 nel 15.3515. Si trattò però della depredazione
dell’oro tesaurizzato nel tempo dagli Inca, per fini cerimoniali e
religiosi, in monili, oggetti votivi, arredi, sculture, perfino tegole
e coperture dorate di edifici. L’orrendo riscatto di Athauallpa a
Cajamarca non gli valse la vita, ma rese agli spagnoli 1.326.539
pesos di «buon oro» (quasi 6 tonnellate, e il doppio di argento).
Tale fu il risultato contabile (al netto delle frodi) della fusione
avvenuta in nove fornaci accudite da legioni di indios, sotto il
rapace controllo degli spagnoli, fra il 13 maggio e il 25 luglio
153316. L’ammontare era enorme, e superiore a tutto l’oro arrivato
a Siviglia dall’America nel decennio precedente. La suddivisione
del prodotto della fusione arricchì qualche centinaio di spagnoli e
la notizia del tesoro si sparse rapidissimamente in tutto il mondo
ispanico. Non solo c’erano centinaia di testimoni diretti, ma questi
avevano assistito a eventi impensabili, straordinari anche per le
favole più fantasiose: il pellegrinaggio di indios che portavano
a spalla gli oggetti del riscatto – quelli d’oro, aveva promesso e
mantenuto Atauhallpa, avrebbero dovuto riempire una sala lunga
22 piedi e larga 17 (6,6 per 5,1 m) per un’altezza di uno estado
e mezzo (2,35 m) – da luoghi lontani, anche dal Cuzco, a mille
chilometri di distanza. Tre emissari di Pizarro si erano recati a
Cuzco per accelerare la consegna dei tesori, e questi riferirono
l’esistenza di edifici coperti d’oro. E la meraviglia per i tesori
del Perú ebbe per testimoni anche i sivigliani, che assistettero
sbalorditi all’arrivo della nave Santa María del Campo il 9 gennaio 1534, che trasportava 463 mila pesos di oro in barre (circa
due tonnellate), corrispondente al «quinto» del tesoro, riservato
alla Corona, assieme a oggetti di gran pregio e bella fattura che
erano stati sottratti alla fusione riservandoli al re. La nave che
trasportava il prezioso carico aveva come illustre passeggero
Hernando Pizarro, fratello di Francisco, che a corte ricevette
onori, privilegi e ricompense. Si trattava di
trentotto vasi d’oro e quarantotto d’argento e un’aquila d’argento il cui
corpo poteva contenere due cántaros17 d’acqua, e due pentole grandi, una
Amazzonia 23
d’oro e una d’argento, così capienti che in ciascuna poteva starci una vacca
tagliata a pezzi; e due sacchi d’oro, ciascuno dei quali poteva contenere
due fanegas18 di grano; e un idolo d’oro delle dimensioni di un bimbo di
quattro anni [...] Questo carico fu sbarcato al molo e portato alla Casa
de Contratación, il vasellame a spalla e il restante in ventisette casse, che
un par di buoi ne trasportavano due in una carretta19.
Sulla rotta per Siviglia la nave fece sosta a Santo Domingo
e Gonzalo Fernández de Oviedo ne dà precisa testimonianza –
proprio a Santo Domingo dove, oltre alla funzione di cronista
reale, svolgeva anche quella di alcalde della fortezza – avendo
lì incontrato Diego da Molina che aveva presenziato ai fatti di
Cajamarca.
E a conferma dei suoi racconti [di Diego da Molina] stavano in
mostra nella sua posada, e alla vista di tutti, due cántaros, o tinelli, di oro
dell’altezza di quattro palmi, e di dieci palmi e più di circonferenza, con
i loro coperchi, anche questi d’oro. Contenevano sei arrobas di acqua e
pesavano più di 30.500 pesos di oro [16 chilogrammi] cadauna20.
Volavano le leggende, tra gli spagnoli del Perú, di altri tesori
celati o nascosti in luoghi inaccessibili: alla domanda se tutto il
tesoro dell’Inca fosse stato consegnato agli spagnoli, un personaggio inca prese un chicco da un mucchietto di mais e rispose:
«Questo chicco è quello che ha dato Atahuallpa dei suoi tesori,
e il mucchio che rimane è ciò che di questi resta»21.
In un’altra parte del continente, poco tempo dopo i fatti di
Cajamarca, un’altra spedizione di ottocento uomini guidata da
Gonzalo Jiménez de Quesada partì da Santa Marta (sulla costa
caraibica, tra la laguna di Maracaibo e l’istmo di Panamá) il 5
aprile del 1536, e si diresse verso sud, risalendo il Río Grande
(ora Río Magdalena). Le disavventure di questa spedizione furono
assai maggiori di quelle di Pizarro e dei suoi che s’impadronirono
dell’impero senza troppe perdite. Il clima torrido, gli attacchi degli
indios, la fame, le malattie, gli incidenti di percorso ridussero la
spedizione a meno di un quinto dei suoi componenti iniziali22.
Quasi un anno dopo la partenza, arrivarono sulle terre alte, l’altopiano popolato dai Chibchas, etnie più evolute e organizzate,
agricoltori ed eccellenti artigiani dell’oro, dominate dai due
«regni» di Tunja e Bogotá. In particolare la sabana di Bogotá
appariva prospera e ricca di sale, scambiato anche con oro con
24 Capitolo primo
le popolazioni vicine, e lo stesso Quesada visitò una miniera di
smeraldi che vide estrarre sotto i suoi occhi23. L’oro, pur non nelle
quantità viste a Cajamarca, c’era; lo zipa (re) di Bogotá nonché
il capo di Tunja avevano accumulato tesori che però sottrassero
agli spagnoli. Disse Quesada nella relazione scritta per Oviedo
«Utilizzano l’oro per gioielli e per adorno delle persone, e per le
loro armi, e per molte cose ancora, come offerte per i loro templi,
o per fare degli idoli o per adornare i loro morti; e allo stesso
modo utilizzano gli smeraldi che hanno»24. E Cieza de León, che
quella regione aveva percorso in lungo e in largo, scrisse: «Se ci
fosse chi lo estraesse, c’è oro e argento da estrarre per sempre;
perché nelle montagne, nelle pianure e nei fiumi e ovunque si
scavi e cerchi si troveranno oro e argento»25. Gli spagnoli non
avevano certo né tempo, né risorse, né inclinazione per farsi cercatori, ma c’era una via assai più rapida per procurarsi i preziosi.
Quelli tesaurizzati dalla popolazione dovevano essere in grande
quantità e furono rapinati o «riscattati» senza remore dagli uomini di Quesada nei mesi di permanenza nella sabana di Bogotá.
Insomma, la regione era una promettente conquista, un nuovo
Messico, o un nuovo Perú, e Quesada il 6 agosto 1538 fondò la
città di Santa Fe, prima capitale del Regno di Nueva Granada
(in omaggio alla sua patria di origine), l’attuale Colombia.
La storia della spedizione di Quesada – simile, nella sua
eccezionalità, a quella di altri grandi avventurieri – va però
completata per capire l’origine della leggenda dell’Eldorado e
della sua veloce diffusione. A poche settimane dalla fondazione
di Bogotá, quando Quesada si apprestava a partire per la Spagna
per reclamare la signoria della zona, due altre spedizioni si stavano avvicinando. La prima, con centosessanta uomini, veniva giù
dalle montagne che separavano la sabana di Bogotá dai territori
orientali del bacino dell’Orinoco, guidata dal tedesco Nicolaus
Federman, partito da Coro (a est di Maracaibo) due anni prima
con un seguito più che doppio. Federman era uomo dei banchieri
tedeschi Welser, prestatori di grandi somme a Carlo V, cui era stata
assegnata la regione del Venezuela con i diritti di esplorazione.
L’altra era guidata da Sebastián de Benálcazar, uno dei più fidati
e abili compagni di Pizarro, che era risalito da Quito dopo aver
fondato Popayán e Cali, con una forza analoga ma non provata
dalle traversie, ben equipaggiata, con cavalli e greggi di porci.
Circolava, tra gli uomini di Benálcazar, la storia di El Dorado, si
dice ascoltata da un indio a Quito, che aveva acceso la fantasia
Amazzonia 25
di molti nel loro viaggio verso nord, dove si diceva si trovasse.
Quando le tre spedizioni si incontrarono, la favola si sparse anche
tra gli uomini di Quesada e di Federman, che poi a loro volta
diffusero il racconto nelle varie parti del continente. Quesada,
Federman e Benálcazar, invece, portarono alla corte di Carlo V,
nel maggio del 1539, oltre ai loro racconti, oro, smeraldi e preziosi
in quantità. Quesada affermava che dopo la conquista di Bogotá,
settemila smeraldi erano stati distribuiti tra i suoi uomini, e tra
questi «c’erano pezzi di grande valore»26. Lì si recarono assieme
per dirimere precedenze, affermare priorità, richiedere titoli e
benefici. L’entusiasmo per le ricchezze del Perú e di altri regni e
territori – quelle vere, viste e toccate e quelle favoleggiate – era
al massimo, appena offuscato dalla guerra civile già divampata
tra le fazioni spagnole27.
Negli anni 1530-1540 il mito dell’oro americano raggiunse
il suo culmine, proprio quando la sua importanza economica
cominciava un inesorabile declino. In poco tempo vennero depredati gli stock tesaurizzati da generazioni, si esaurirono i depositi
alluvionali conosciuti, scomparve la manodopera indigena ed ebbe
inizio un’attività mineraria che però richiedeva alti investimenti.
Nel 1540-1550 cominciò la crescita della produzione d’argento
con l’entrata in funzione delle miniere messicane e di quella
– poi celeberrima – di Potosí, e l’invenzione dell’amalgama di
mercurio per l’estrazione del metallo. L’argento superò ben presto
l’oro in valore. Fra il 1530 e il 1540, però, la fama dell’oro era
incontrastata, e si alimentava di altri miti e leggende. Tra queste,
appunto, quella di El Dorado.
In cosa consisteva il mito? Esso aveva radici nel territorio dei
Chibchas (o Muiscas), nella cordigliera di Cundinamarca (oggi
Colombia), che abbonda di lagune considerate sacre dagli indigeni, dove venivano gettati preziosi nel corso di cerimonie votive.
Quella di Guatavita, quasi circolare, ai piedi delle montagne,
posta a 2.600 metri di altezza era la più famosa28. La versione
classica della leggenda racconta che il cacico di Guatavita, in
determinate ricorrenze, si recasse alla laguna accompagnato da
un corteo. Spalmato con un unguento speciale, e spolverato di
polvere d’oro soffiata da alcune cannule, risplendeva d’oro. Sulla
riva della laguna lo attendeva un’imbarcazione sulla quale saliva
con alcuni sacerdoti e un carico di gioie; quattro rematori lo
conducevano in mezzo al lago e lì si tuffava in acqua, tornando
26 Capitolo primo
alla superficie lavato. Poi l’imbarcazione veniva affondata insieme
alle gioie. Questo rituale si ripeteva in determinati periodi. Oviedo, uomo di mondo e un poco scettico, ironicamente racconta
la storia così:
Domandando io perché chiamino quel principe o cacico, o re, Dorado,
gli spagnoli che sono stati a Quito e che sono venuti a Santo Domingo
(ce ne sono più di dieci in questa città), dicono che a quel che se ne è
saputo dagli indios è che quel gran signore o principe continuamente
sta coperto di oro in polvere tanto fine come sale macinato; perché egli
ritiene che indossare qualsiasi altro adorno è meno bello, e indossare
pezzi o armi d’oro lavorate col martello o stampate o fatte in altra maniera, è una cosa grossolana e volgare, e che altri ricchi signori e principi
le indossano quando vogliono: invece, incipriarsi d’oro è cosa originale,
inusuale, nuova e più costosa, perché quello che si indossa la mattina,
ci si toglie lavandosi di sera: e questo si fa ogni giorno dell’anno. Ed è
abitudine che andando come va in tal forma vestito e coperto, non gli da
né disturbo né impaccio, né si occulta od offende la bella proporzione
della persona e la sua naturale attitudine, la qual cosa egli tiene in molta
considerazione, cosicché non indossa nessun vestito né indumento alcuno.
Io vorrei piuttosto possedere il «diritto di scopa»29 della camera di questo
gran signore, piuttosto che quello relativo alle fonderie che ci sono in Perú
od in ogni altra parte del mondo. Cosicché, dicono gli indios, che questo
gran signore o re sia ricchissimo, e con un certo tipo di gomma o essenza
assai odorosa, si unge ogni mattina, e sopra quell’unguento si pone e si
attacca quell’oro in polvere e così fine per la funzione che ho detto, e che
tutta la sua persona rimane coperta d’oro dalla pianta dei piedi fino alla
testa, e così risplendente come una pepita d’oro lavorata da un grande
artista. E credo che se un cacico così si adorna deve possedere miniere
molto ricche di oro di somigliante qualità30.
Quella che nel racconto di Oviedo era diventata amena leggenda, nella Nueva Grenada aveva però una sua credibilità. Hernán
Pérez de Quesada, fratello di Gonzalo Jiménez, fece qualche
ricerca ai bordi della laguna non senza risultati apprezzabili. Nel
1572 si tentò un prosciugamento parziale dello specchio d’acqua
e furono trovati preziosi per un valore di 12 mila pesos31. Ma
dov’era veramente il regno del Dorado?
Tutta la storia della Conquista è intessuta di favole e miti,
sia a nord sia a sud del continente. Colombo aveva l’idea fissa
di trovarsi nelle prossimità del Catai; Juan Ponce de León, nel
1512, peregrinò tra le isole Bimini (le Keys, o Cayos, tra Florida
Amazzonia 27
e Cuba) divulgando «la favola della fonte che faceva ringiovanire
e trasformava in giovanotti i vecchi»32; Cabeza de Vaca e i superstiti della fallita spedizione di Pánfilo de Narváez in Florida
alimentarono la leggenda di origine medievale delle «Sette città
d’oro di Cibola», che attrasse in seguito le esplorazioni di Marcos
de Niza e di Coronado verso Sonora e Arizona.
Nel Sudamerica la ricerca dell’Eldorado divenne, per molto
tempo, un motivo animatore di spedizioni di esplorazione e di
conquista. O, per meglio dire, simboleggiava la ricerca di nuove
ricchezze: territori con metalli o pietre preziose, con popolazioni
da asservire, regioni da sottomettere. Ma era anche un pretesto
per ricercare finanziamenti, arruolare avventurieri, motivare gli
ignoranti, i creduloni o i disperati. Gli autoctoni quasi sempre
assecondavano il mito, ponendo la regione di El Dorado al di
là di alte catene di montagne, di selve impercorribili, di pianure
spoglie, oltre una linea di confine che si spostava sempre più avanti
nell’intento di sviare l’incombente pericolo dei barbuti europei. I
visitatori stranieri erano ospiti esigenti, violenti, spesso affamati,
sempre sgraditi; meglio era dirottarli alla ricerca del mito verso
più lontane ed elusive regioni. Un esempio tra mille: i soldati di
Jorge Espira (Hohemut), il governatore tedesco di cui Federman
era capitano, dopo avere invano cercato di risalire il fiume Meta
(affluente dell’Orinoco), per scavalcare la cordigliera, avevano
appreso dagli indios di un’altra nazione, più a sud,
che avevano pentole e orci e tutto il vasellame d’oro e d’argento [...]
finalmente, le notizie che portavano erano tali, che agli spagnoli un’ora
[di attesa] parevano mille, volendo andar avanti essendo sicuri che la
ricchezza era grandissima [...] Uno degli indiani diceva che c’era stato
ed aveva visto con i suoi occhi quelle grandi ricchezze [...] e che c’erano
pochi giorni di cammino33.
Un mito che si situò, in una prima fase, a oriente, nella vastissima regione equatoriale (almeno due milioni di chilometri
quadrati) posta a est della cordigliera e formata dall’alto bacino
dell’Orinoco e dal bacino del Río Negro. Una regione delimitata dalla cordigliera a occidente, il Río delle Amazzoni a sud,
il meridiano (60° ovest) che passa da Manaus, segue parte del
confine tra Guyana e Venezuela e tocca il margine destro del
delta dell’Orinoco. Il grande naturalista tedesco Alexander von
Humboldt, che nel 1799 intraprese il suo lungo viaggio scienti-
28 Capitolo primo
fico «alle regioni equinoziali» e risalì l’Orinoco, fu affascinato
dal mito dell’Eldorado. Con rigore teutonico, confrontando le
cronache delle esplorazioni e dei viaggi, la toponomastica indigena, portoghese e spagnola, le carte geografiche antiche e quelle
contemporanee, ricostruì la localizzazione dell’Eldorado secondo
le convinzioni (o fantasie) dei vari esploratori, da Quesada a
Espira a Walter Raleigh34. Ebbene, durante il Cinquecento la
localizzazione del sito immaginario si spostò gradualmente dalle
pendici della cordigliera orientale colombiana all’attuale confine
tra Brasile e Guyana inglese, millecinquecento chilometri più a
ovest. In seguito, il mito dell’Eldorado trovò altre localizzazioni,
assai più a sud del continente, e le spedizioni non partirono solo
dalla Colombia e dal Venezuela, ma anche da Quito, dal Cuzco
e perfino da Asunción.
Se l’oro era un fine e l’Eldorado una meta vagheggiata ed
elusiva, non mancavano le energie per perseguirli. E alla fine
del decennio 1530-1540 gli uomini disposti a correre i rischi di
nuove avventure non mancavano. Domata la rivolta degli indios,
terminato l’assedio degli spagnoli al Cuzco, si era di nuovo rotto
il precario equilibrio tra i due maggiori protagonisti, e soci, della
Conquista del Perú, Pizarro e Diego de Almagro. Quest’ultimo,
reduce dall’avventurosa spedizione nel Cile, aveva rotto l’assedio
al Cuzco e contendeva a Pizarro il predominio sul paese. La battaglia di Las Salinas (6 aprile 1538) nei pressi del Cuzco vide la
vittoria dei pizarristi, l’esecuzione di Almagro e la sconfitta della
sua fazione. Gli eserciti erano modesti: ottocento uomini d’arme
dalla parte dei Pizarro, seicento dalla parte di Almagro (oltre
a numerose schiere di indios di appoggio). Dopo la battaglia,
il Cuzco ribolliva di uomini scontenti – soldati, capitani e altri
avventurieri – con gli sconfitti desiderosi di rivincita e i vincitori
ansiosi di ricompensa. Hernando Pizarro (Francisco era rimasto a
Lima) cercò di normalizzare una situazione inquieta e pericolosa,
e concesse licenza ai capitani di organizzare spedizioni di pacificazione, scoperta e conquista35. Ciò significava radunare soldati e
indios di servizio e trasporto, cavalli, scorte alimentari e quanto
fosse necessario in queste rischiose imprese. Molte delle spedizioni
si diressero verso oriente: così quelle di Pedro de Candía e di Pedro
de Anzures (Peranzures), che puntarono a valicare le Ande a est
del Cuzco e discesero nelle terre basse, e terminarono entrambe
con perdite disastrose. Pedro de Alvarado, uomo di grande valore
Amazzonia 29
ed esperienza, puntò verso nord, fondò la città di Chachapoyas
ai limiti estremi dell’impero Inca, giunse al fiume Huallaga, alla
vana ricerca di una grande laguna popolata da genti ricche, ma fu
costretto a tornare a Chachapoyas. Alonso de Mercadillo si spinse
ancora più a nord di Alvarado, discese il corso dello Huallaga –
non sappiamo se fino al Marañon – ma i suoi si ribellarono e lo
riportarono in Perú, praticamente prigioniero.
Ritornando indietro nel tempo, e a nord nello spazio, ancor
prima che Federman s’imbattesse in Quesada e Benálcazar, a
Bogotá, i tedeschi concessionari in Venezuela avevano tentato di
addentrarsi nel continente partendo da Coro, sulla costa: prima
Alfinger (Ehinger) dal 1531 al 1533; poi Espira (Hohemuth) dal
1535 al 1538, quindi Federman, partito nel 1536 e approdato
a Bogotá tre anni dopo, l’unico che poté vantare un successo.
È nel solco di questa tradizione che si inscrive la spedizione di
Juan de Utre (Hutten) nel 1541, quando la leggenda dell’Eldorado, esplosa a Bogotá, era ancora pienamente in auge, cosicché
la tragica e fallimentare spedizione partì da Coro con l’incarico
ufficiale di esplorare il paese di Eldorado36.
Tutte le spedizioni ricordate, e altre ancora, entrarono nel
bacino del Grande Fiume e alcune vi giunsero, ma nessuna di
queste lo «scoprì» veramente, e ne riconobbe la vera natura.
Fino, in quello stesso 1541, alla spedizione di Gonzalo Pizarro,
alla ricerca di «Eldorado e del paese della Cannella» e del suo
luogotenente Francisco de Orellana che, quasi accidentalmente,
lo percorse per primo. Ne parleremo nel capitolo che segue.
Occorre adesso fare un salto avanti nel tempo di qualche decennio, perché la spinta alle nuove scoperte cominciò a esaurirsi. I
fallimenti scoraggiarono iniziative di grande portata e dei costi
elevati. Quasi tutte andavano incontro a esiti disastrosi, con grandi
perdite per chi le aveva finanziate. Oltre le Ande c’erano selve
impenetrabili, rade popolazioni arretrate, non c’erano regni o
signori, né ricchezze tesaurizzate da rapinare. Alla metà del secolo
la spinta che incrociava il mito dell’oro con l’energia dei primi
conquistatori si andava esaurendo. Nel 1550, al termine delle
guerre civili, una cédula («decreto») reale vietò la concessione
delle licenze di esplorazione forse anche per evitare un ulteriore
dissanguamento delle risorse del paese, dopo un quarto di secolo
di conflitti – indios contro indios, spagnoli contro indios, spagnoli
contro spagnoli. Questo divieto non fu né assoluto né definitivo,
30 Capitolo primo
ma marca la fine di un’epoca37. Le spedizioni costavano: occorreva
denaro, uomini, portatori, cavalli e animali da soma, animali in
branchi e greggi, scorte di cibo, armi, attrezzi di ogni genere. Il
capitano generale (e i suoi soci, se ne aveva), doveva «anticipare»
tutte le spese della spedizione (per questo si chiamava adelantado,
da adelantar o «anticipare»): decine di migliaia di pesos di oro,
dei quali solo persone ricchissime potevano disporre. L’epoca
eroica dell’esplorazione era quasi conclusa. Cieza de León, che
dalla costa caraibica aveva viaggiato in lungo e in largo fino
all’alto Perú, con esperienza diretta di luoghi, fatti e persone, si
mostrava scettico sui risultati delle esplorazioni verso oriente:
Dallo stretto di Magellano inizia la cordigliera o dorsale di montagne
che chiamiamo Ande, e attraversa molte terre e grandi province, come
scrissi nella descrizione di questa terra, e sappiamo che dalla parte del
Mare del Sud (che è a ponente) si trovano nella maggior parte dei fiumi
e delle valli grandi ricchezze e le terre e province che stanno a levante si
considerano povere di metalli, secondo quello che dicono i conquistatori
che vennero dal Rio de la Plata38.
Insomma, nell’opinione di Cieza de León, oltre le Ande, a
oriente, era inutile cercare l’Eldorado.
Mentre il mito di Eldorado e di ricche e grandi conquiste si
andava dissolvendo man mano che il tempo passava, altri e più
realistici obiettivi andavano precisandosi. Se a oriente non c’erano
tesori da depredare – come tra i Chibchas e gli Inca – c’erano
però zone aurifere che potevano essere sfruttate e altre ancora,
non note, da individuare; c’erano popolazioni, sia pure sparse,
da sottomettere, estendendo le conquiste Inca, per rafforzare il
controllo del territorio; si potevano organizzare spedizioni per
la cattura di schiavi; c’erano altre promettenti risorse, come la
cannella e il cotone.
Le regioni del versante orientale della cordigliera erano certamente marginali rispetto al baricentro del popolamento andino,
ma costituivano anche una delicata cerniera tra le civiltà delle
terre alte e quelle dell’alta Amazzonia, intessuta da una notevole
varietà di etnie. La storia della penetrazione spagnola illustra assai
bene la disastrosa dinamica del contatto con popolazioni meno
strutturate, articolate e coese e per certi aspetti assai più fragili.
Tra il 1540 e il 1580 la penetrazione degli spagnoli verso oriente
si sostanzia nella fondazione di «città» – per lo più miserabili
Amazzonia 31
aggregati abitati da pochi residenti (vecinos) spagnoli, meticci,
indios di servizio – spesso dell’esistenza effimera. Alcuni di questi
insediamenti avvennero in zone aurifere: le prospezioni moderne
hanno confermato che depositi alluvionali di oro si trovano in
buona parte dell’alto corso dei fiumi dell’alta conca amazzonica,
con variabili concentrazioni di metallo e con accesso spesso difficile39. La cronologia della penetrazione è complessa, ma ecco
alcune tappe cruciali: nel 1550 Alonso de Mercadillo e i suoi
fondarono Zamora; nel 1557 e nel 1558 fu la volta di Valladolid
e di Santiago de las Montañas, per opera di Juan de Salinas; nel
1562-1563, vennero fondate Baeza e Ávila; nel 1564 Logroño;
nel 1576 Sevilla de Oro. I nuovi insediamenti, cui veniva dato
il nome di città della madrepatria, erano compresi grossomodo
tra l’equatore (parallelo di Quito) e 5° circa (550 chilometri) di
latitudine sud, ed erano posti sul versante orientale delle cordigliere, dai 2.000 metri di altitudine fino al fondovalle. Juan de
Salinas, con riferimento a Valladolid, scrisse:
In tutte le acque ed i fiumi di questa valle si trova dell’oro, ed in
particolare io avevo scoperto, quando partii, miniere molto ricche, come
si desume dai saggi e campioni che si trovarono in tre diversi posti, che
promettevano grandi ricchezze.
Lo steso Juan de Salinas trovò in Zamora una pepita di
diciotto libbre, che Filippo II conservava nella sua camera da
letto40. La penetrazione spagnola si rivelò presto disastrosa per
le popolazioni locali, asservite e sfruttate per la ricerca dell’oro
e per il sevizio personale. Ribellioni esplosero in varie zone
della vasta regione, alcune localizzate, altre estese. Nel 1578
una sollevazione generale nella regione dei Quijos provocò la
distruzione di Ávila e Archidona e l’assedio di Baeza; nel 1579
Logroño venne salvata dall’attacco dei Jivaros dal soccorso delle
città vicine; nel 1599 ancora i Jivaros si ribellarono in massa, e
questa volta Logroño e Sevilla de Oro vennero distrutte e abbandonate. Verso la fine del secolo l’intrusione spagnola cominciò
a ritrarsi, sia per l’esaurimento dei depositi auriferi sfruttati, sia
per il diradarsi della popolazione indigena – per l’alta mortalità, le fughe, la dispersione in aree meno accessibili – sia per la
debolezza di altre attività economiche quali la coltivazione del
cotone e la tessitura. Inoltre, gli spagnoli non avevano le risorse,
umane e materiali, sufficienti per controllare territori così estesi.
32 Capitolo primo
Le città – come già detto – erano modesti aggregati instabili e
gli scarsi ritorni economici determinarono prontamente la loro
decadenza e l’abbandono. Lo spopolamento degli autoctoni e i
conflitti con gli spagnoli crearono una frattura tra la società andina
e quella amazzonica, e quei legami sia pur tenui che le tenevano
riunite prima del contatto europeo si diradarono e lacerarono42.
La discontinuità e la lontananza tra il mondo andino e il mondo
amazzonico si tradussero in frattura e separatezza.
La breve sintesi delle vicende della penetrazione spagnola
a oriente delle Ande trova un’articolata conferma nella storia
del rapido spopolamento del Governatorato dei Quijos. Con
questo nome gli spagnoli definirono una regione dai confini
incerti – solo quelli a est segnati dalla cresta delle Ande erano
ben definiti – prossima a Quito (ottanta chilometri a est in linea
d’aria si trova Baeza, il suo centro principale), nell’alto bacino
del Grande Fiume; abitato da un’etnia (i Quijos, o Napo-Runa)
fortemente collegata ai più avanzati gruppi Chibchas dell’altopiano43. Si trattava, dunque, di una popolazione con la tipica
funzione di cerniera tra l’altopiano e l’alta Amazzonia: le sue
vicende preludono e anticipano quelle delle altre popolazioni
protagoniste di questo libro. La spedizione di Gonzalo Pizarro
del 1540-1541, che racconteremo nel prossimo capitolo, passò
tra i Quijos. I termini della loro catastrofe sono sintetizzati dal
fatto che nel 1576, a poco più di dieci anni dalla fondazione di
Archidona e di Baeza, e dall’insediamento delle prime famiglie
spagnole, si contavano circa 6.800 indios tributari; poco più di
trent’anni dopo, nel 1608, i tributari erano scesi a 2.300, due
terzi in meno.
Dei Quijos sono giunti fino a noi preziosi documenti: in
particolare la relazione del visitatore della regione, il licenciado
Diego Hortegón, del 1576; il racconto della ribellione del 1577
fatta da Toribio de Ortiguera; una relazione del 1609 del conte
di Lemus44. Nel 1556 il viceré marchese de Cañete incaricò il
governatore di Quito di «pacificare» e sottomettere le popolazioni Quijos; questi cominciò la sua azione all’inizio del 1559 con
trentanove soldati e l’appoggio di un cacico amico che, a sua
volta, attrasse altri capi della regione. Dopo la fondazione delle
«città» di Baeza, Ávila e Archidona, la ricerca e lo sfruttamento
dei giacimenti minerari, la ricerca infruttuosa della cannella, la
coltivazione del cotone e la manifattura tessile, il servizio perso-
Amazzonia 33
nale, determinarono lo scontento generale e localizzate sollevazioni. Gli spagnoli encomenderos sfruttarono all’eccesso le risorse
del territorio e gli indios a loro affidati, e non furono capaci di
creare attività produttive capaci di sostentare autonomamente
le comunità e creare eccedenti commerciabili: insomma, non
riuscirono a adattarsi all’ambiente amazzonico. Hortegón, un
membro (oidor) dell’Audiencia di Quito, nella relazione della
sua visita, durata quaranta giorni, scrisse:
Nelle tre città di Baeza, Ávila e Archidona ho tolto gli obblighi oppressivi di servizio personale, che erano molti, che ricadevano sugli indios,
e detti ordine che si pagasse il servizio degli indios tributari con quello
che si deve loro, che sono pezze di stoffa e mantelli, di modo che prestino
servizio e avanzi loro il tempo per allevare i figli e coltivare i campi45.
Lo stesso Hortegón dispose che si aprisse una strada – transitabile per i cavalli – per collegare i villaggi e alleviare i carichi
che gli indios dovevano trasportare; inoltre, dispose che si indottrinassero gli indios, togliendoli alla totale soggezione degli
encomenderos, perché «molti di questi indios non hanno né capi
né signori principali cui rivolgersi, se non coloro che gli danno
meglio da mangiare e da bere»46.
Le disposizioni di Hortegón non servirono a migliorare le
condizioni degli indios, e lo scontento si accentuò: si disse anzi
che le multe comminate da Hortegón agli spagnoli – e l’uccisione
dei loro cani «che erano fieri nel combattere e nell’addomesticare gli indios» – furono la causa specifica della rivolta. Infatti,
gli encomenderos, per rifarsi delle penalità inflitte (e delle spese
e del salario dello stesso Hortegón e dei suoi accompagnatori)
imposero ulteriori aggravi di lavoro agli indios per filare e tessere
una gran quantità di stoffe. «Questi, vedendosi così oppressi,
colsero l’occasione che si offrì loro [...] per la mancanza dei cani
compagni e guardiani degli spagnoli»: una miccia che scatenò la
rivolta. Il narratore rivela poi lati assai più complessi della rivolta
che covava da tempo sotto la cenere e della quale tirarono le fila
gli sciamani (pendes) delle varie comunità, in particolare tre di
loro, chiamati Guami, Beto e Jumandi. Questi si accordarono
per assaltare Ávila e Archidona con due azioni di sorpresa, il 29
novembre 157847. Tutti gli spagnoli, uomini, donne e bambini dei
due villaggi, vennero trucidati, così come buona parte dei loro
indios di servizio; dopo la strage e il saccheggio, case, fabbricati
34 Capitolo primo
e chiesa vennero incendiati. Ortiguera, che sicuramente si avvalse
delle testimonianze di qualche superstite, riferisce le circostanze
del massacro di Ávila, casa per casa, famiglia per famiglia, persona
per persona, con nomi e cognomi: 47 spagnoli di ogni età uccisi,
dei quali 18 maschi e 29 femmine, più un imprecisato numero
di indios e indios di servizio cristianizzati. Nella «visita» due
anni prima si erano contati 12 capifamiglia spagnoli, 7 dei quali
indicati nominativamente dal cronista tra i massacrati (un altro
si trovava a Quito). Al comando di Jumandi gli indios riunirono
le forze e si rivolsero contro Baeza, il centro maggiore, che però
aveva avuto sentore della rivolta e aveva richiesto aiuto a Quito.
All’assedio di Baeza fu posto fine, qualche giorno dopo, dall’arrivo dei soccorritori da Quito, 300 uomini a piedi e a cavallo; gli
indios vennero dispersi, i capi arrestati e puniti. Jumandi e i tre
pendes a capo della sommossa, inviati a Quito, furono esibiti per
le vie della città, torturati con tenaglie incandescenti, impiccati
e squartati, le testa affissa sulla pubblica piazza, gli arti esposti
lungo le strade come pubblico ammonimento agli indios che affollavano la città48. «I cacichi e gli altri colpevoli della provincia
di Quito vennero esiliati alla costa del mare [...] assai più calda
e di diverso clima delle zone dalle quali furono esiliati [...] e
tutti morirono in poco tempo»49. Gli indios dovettero ricostruire
Ávila e Archidona e furono ripartiti tra i nuovi encomenderos
scelti dall’Audiencia di Quito.
La rivolta del 1578 – qui riportata con qualche dettaglio – è
il paradigma dei rapporti iniziali tra spagnoli e indios in alta
Amazzonia. Non dappertutto prevalse la crudele oppressione o
avvennero rivolte, massacri e cruente repressioni, ma ovunque le
modalità dell’intrusione europea ne predisposero le condizioni.
La visita del 1576, e la relazione del 1608, permettono – come
ricordato più sopra – di fare qualche considerazione circa i
mutamenti che avvennero nel periodi in questione. Nel 1576
nei distretti delle tre «città» vivevano 16.519 indios, dei quali i
tributari erano 6.803; i capifamiglia erano 4.467, e meno della
metà degli indigeni erano cristianizzati. All’entrata degli spagnoli,
meno di vent’anni prima, si valutò il loro numero in 30 mila,
ma non si sa a quale territorio questo numero corrispondesse.
C’erano 3,7 componenti per famiglia – meno del numero medio
trovato in alta Amazzonia due secoli dopo (cap. VII); i bambini
e i giovani non sposati erano il 37% della popolazione (una pro-
Amazzonia 35
porzione assai bassa); e c’erano 1,2 bambini (presumibilmente
sotto i sette anni) per coppia coniugale. L’incertezza circa la
qualità dei dati e il loro scarso dettaglio non permettono certo
di tirare conclusioni solide; essi però non sono incompatibili con
una popolazione sotto stress e in declino, con pochi giovani e
giovanissimi. La relazione del Conde de Lemus (datata 1608)
include, oltre a Baeza, Archidona e Ávila, anche Sevilla de Oro,
non citata nel conteggio del 1576 perché fondata in quell’anno
(e distrutta dalla rivolta dei Jivaros nel 1599 e rifondata in seguito). Gli indios tributari erano 2.335 (– 66% rispetto al 1576)
e l’intera popolazione ammontava a circa 6.000 unità (– 63%).
Repressione della rivolta del 1578? Alta mortalità? Riproduzione
insufficiente? Fughe e migrazioni? Omissioni nei conteggi? Non
è dato saperlo. C’erano però 52 case (famiglie?) di spagnoli,
criollos e meticci, contro i 41 vecinos del 1576 (più o meno lo
stesso numero, se si tiene conto che nel 1608 c’era Sevilla de
Oro). Quel che era fortemente diminuito era il numero medio
di tributari per encomendero, calato da 166 a 42 in trent’anni,
sintomo evidente dell’impoverimento demografico della zona, e
di quello economico degli spagnoli che vi risiedevano50.
Ritorniamo al protagonista, il Grande Fiume, che gli occhi
europei videro per la prima volta nel 1500, ma del quale le orecchie spagnole udirono fin da quando misero piede nel Perú. Quel
Grande Fiume, che per vari decenni sollecitò poca curiosità ed
esercitò scarsa attrattiva dalla parte del suo estuario, ma che a
monte fu meta di grandi e piccole spedizioni sin dalla fine degli
anni Trenta del Cinquecento, spinte le prime da grandi aspettative
di ricchezze e di genti, mosse, le seconde, dalle più mondane necessità di consolidare la colonia nei suoi margini amazzonici e da
più modeste ambizioni di guadagno mediante la difficile ricerca
dell’oro e lo sfruttamento della manodopera india. Il caso della
regione dei Quijos ha reso evidenti i disastri che anche poche
decine di spagnoli poterono infliggere alla società indigena. In
una dimensione assai poco epica ma comunque drammatica che
sarà, però, la cifra del graduale disvelamento del Grande Fiume
agli occhi occidentali, come vedremo più oltre. Adesso ritorniamo
alla dimensione epica e alla narrazione delle prime navigazioni
dell’intera Amazzonia, quella casuale di Orellana, luogotenente
di Gonzalo Pizarro, e quella drammatica di Ursúa e Aguirre, un
ventennio più tardi.
II. Gonzalo Pizarro varca le Ande in cerca di ricchezza.
Niente oro, poca cannella, tanta fame. Cinquantasette rionauti
discendono l’Amazzonia. Doni, razzie e frecce avvelenate.
Un frate perde un occhio e prende la penna. In mare aperto
così invece in
Conquista
I
l 26 dicembre 1541, tra necessità e azzardo, prese il via
l’eccezionale navigazione del Grande Fiume, dai piedi delle Ande
fino al «mare del Nord», cioè l’Atlantico. A intraprenderla fu
Francisco de Orellana, luogotenente di Gonzalo Pizarro, con
una cinquantina di compagni, a bordo di un barcone costruito
con mezzi di fortuna sulle rive del Coca, un affluente del Napo,
uno dei grandi tributari del bacino settentrionale del Río delle
Amazzoni. La navigazione dei 5.000 chilometri di fiume fu
tormentata: dei 57 (o 54, o 51, a seconda delle testimonianze)
improvvisati marinai, 7 (o 8) morirono di febbri e stenti e 3
furono uccisi – 2 colpiti da frecce avvelenate – nei conflitti con
gli indios rivieraschi. Moltissimi furono feriti, tutti soffrirono la
fame a più riprese. La navigazione fu lunga, perché Orellana e i
suoi compagni entrarono nel mare aperto il 26 agosto 1542, 244
giorni dopo la partenza. Avrebbero poi impiegato altri 16 giorni
per approdare nell’isola di Cubagua, di fronte alla costa «delle
perle» del Venezuela, finalmente tra compatrioti spagnoli.
Tra i compagni di Orellana c’era un religioso domenicano,
padre Gaspar de Carvajal, anche lui, come Orellana, nativo di
Trujillo in Estremadura: in una scaramuccia con gli indios si beccò una freccia in un occhio, rimanendo orbo. La menomazione
non gli impedì, al ritorno, di scrivere una Relación [...] del nuevo
descubrimiento del famoso Río Grande... una cronaca dell’avventuroso viaggio, ricca di osservazioni lette, talvolta, attraverso la
lente del mito1. Un mito che sospinse e avvolse le esplorazioni
delle sconosciute immensità oltre la cresta delle Ande nei primi
decenni della Conquista. Carvajal è il primo europeo a vedere
e poi raccontare la società rivierasca amazzonica, involontario
rionauta, affamato e inquieto. Ciò che ha scritto è una testimo-
40 Capitolo secondo
nianza preziosa per la storia e l'antropologia, ma deve essere
depurata dalle scorie del mito, dell’immaginazione e del timore,
e interpretata alla luce di altri fatti consegnati dalla storia e dalle
osservazioni successive.
Il racconto di Carvajal può essere letto e interpretato su tre
piani. Il primo è quello delle dimensioni del mondo amazzonico e
dei «numeri» che egli propone. La molteplicità dei villaggi incontrati, la loro approssimativa popolazione, le distanze percorse, le
canoe – amichevoli o ostili – che vengono incontro ai rionauti, i
«guerrieri» sgominati in scaramucce e battaglie, le leghe percorse
tra rive deserte, oppure animate da insediamenti e villaggi. Sono
numeri che vanno, tutti, interpretati: per esempio, le distanze
sono sicuramente convenzionali: una lega in teoria varrebbe 6,2
chilometri2, ma Carvajal dice di averne percorse nel fiume 1.800
(circa 11 mila chilometri), più del doppio di quelle che separano
il punto di partenza dallo sbocco nell’Atlantico. La lega era anche un’unità «temporale» – il percorso che un contadino poteva
coprire in un’ora di cammino – e non è escluso che per padre
Gaspar la distanza fosse commisurata ai tempi della navigazione
fluviale3. In una giornata di voga in favore di corrente, le imbarcazioni nel fiume potevano percorrere fino a venti leghe nell’arco
delle dodici ore di luce4. Nella relazione appaiono sicuramente
esagerati i numeri degli indios ostili, visti o intravisti o presunti,
o, ancor più, quelli ingaggiati in scaramucce e battaglie.
Il racconto di Carvajal, inoltre, contiene notizie che possono
condurre, sia pure indirettamente, a ipotesi interessanti sulla
natura della società amazzonica. I cinquanta e passa rionauti –
soldati avvezzi a tutto, ma certo non addestrati a sopravvivere
nel difficile ambiente amazzonico – dovevano nutrirsi. Risalta
evidente dal racconto di questa, come di altre avventure, che il
mezzo di sopravvivenza più efficiente, per un gruppo numeroso,
era la razzia di cibo nei villaggi di indios. Nella loro imbarcazione
artigianale c’erano armi, munizioni, polvere da sparo, qualche
utensile, ma non scorte di cibo. Ed era proprio per andare a
procurarsi cibo che il natante era stato costruito dalla stremata
spedizione di Pizarro. Nelle zone disabitate i rionauti patiscono
la fame; nelle zone popolate sopravvivono, procurandosi il cibo
con le buone, ma soprattutto con le cattive. Nelle zone molto
abitate, nelle quali era possibile una convivenza con gli indigeni, sia pure cauta e armata, i rionauti facevano sosta, per giorni
e a volte anche per settimane, vivendo di ciò che riuscivano a
Amazzonia 41
spremere dagli indigeni, riposandosi, attrezzandosi, rifornendosi
di vettovaglie, per poi ripartire.
Infine altre ipotesi possono fondarsi su ulteriori altri indizi,
come l’esistenza di gerarchie nei villaggi; il livello tecnologico
testimoniato dalla fattura delle capanne, delle ceramiche, dei
tessuti e dei manufatti; la presenza di coltivazioni, di depositi e
riserve, perfino di bacini artificiali per le tartarughe catturate per
alimentarsene; l’esistenza di camminamenti, sentieri e pontili. Tutti
elementi che permettono di presumere un’organizzazione sociale
più o meno complessa, e il grado di complessità è spesso legato
alla numerosità dei gruppi sociali. Ancora, le tracce di scambi tra
gruppi e tribù sottintendono la disponibilità a muoversi, l’esistenza
di specializzazioni, la formazione di surplus da barattare.
Perché Orellana iniziò la sua navigazione dalle rive del Coca?
Prima di «leggere» con i nostri occhi il racconto dell’orbo Carvajal, vale la pena ricordare le circostanze della spedizione. Erano
passati appena otto anni dalla spartizione delle sei tonnellate d’oro
e dodici d’argento del riscatto di Atahuallpa, dalla sua nefanda
uccisione, dall’entrata di Francisco Pizarro al Cuzco, e già varie
costose spedizioni erano state intraprese oltre le Ande in cerca
di nuove conquiste (cap. I). In cerca, soprattutto, di oro e del
favoloso El Dorado, un mito che il tesoro di Atahuallpa, i tetti
d’oro dei templi del Cuzco, i gioielli e i monili dei Chibchas in
Colombia, rendevano plausibile5. A «ricercar la cannella e un gran
principe che chiamano Dorado» fu inviato un personaggio illustre,
Gonzalo Pizarro, il più giovane dei fratelli Pizarro, nominato da
Francisco governatore di Quito e incaricato di un’esplorazione
oltre la cordigliera. La cannella (cinnamomum zeylanicum) è un
albero dalla scorza preziosa, del quale si era incontrato qualche
esemplare nella regione quitense: se ne fosse trovata in quantità,
si sarebbe potuto impiantare un commercio lucroso – forse più
dell’oro – come quello con le Molucche.
Giunto a Quito nel dicembre del 1540, Gonzalo impiegò qualche mese a organizzare la spedizione (con un investimento di 50
mila pesos d’oro), che constava di 210 uomini (molti a cavallo),
l’usuale imponente seguito di 4.000 indios, 4-5.000 maiali, 1.000
cani, greggi di lama per alimento e trasporto6. Un’avanguardia partì
alla fine di febbraio del 1541, non molti giorni dopo fu la volta del
grosso della spedizione sotto la guida di Gonzalo, che aveva rivolto
a Orellana, che si trovava a Guayaquil, l’invito a raggiungerlo con
42 Capitolo secondo
rinforzi. Orellana, che aveva trent’anni ed era passato alle Indie
da adolescente, aveva contribuito con un importante contingente
di uomini alla vittoria della fazione pizarrista nella battaglia di
Salinas contro Almagro (la prima guerra civile peruviana), ed era
stato poi incaricato da Francisco Pizarro di rifondare la città di
Santiago di Guayaquil, in posizione strategica sul mare.
La spedizione valicò la cordigliera a oltre 4.000 metri di altezza, a prezzo della vita di molti indios morti di freddo e di stenti
(«cento indios e indias congelati», annota Cieza de León7) e riscese
il versante orientale delle Ande, inoltrandosi nella selva presto
rivelatasi ostile e impraticabile per una spedizione di quelle dimensioni e senza una meta precisa. Gli indios fuggirono o morirono,
così molti cavalli, e si persero animali e vettovaglie. Molto tempo
fu speso in esplorazioni, in avanguardie inviate alla riceca del retto
cammino, in continuo vagare. Di alberi della cannella ne trovarono
pochissimi, e per la verità non di cannella si trattava ma di una
pianta simile (nectandra cinanomoides8). Verso novembre giunsero
sulle rive del Coca e Pizarro incaricò Orellana, che nel frattempo
lo aveva raggiunto con ventitré compagni (trenta, secondo Cieza 9)
dopo un avventuroso viaggio, di costruire un’imbarcazione che
all’inizio serviva a trasportare gli infermi, le scorte e le salmerie
giù per il fiume, mentre il grosso seguiva via terra. Dopo un
tratto di discesa del fiume, la mancanza di approvvigionamenti
si fece drammatica e venne deciso che Orellana continuasse la
navigazione per cercare rifornimenti, con l’impegno di tornare
indietro dopo dodici giorni. Per la verità, non è dato conoscere
esattamente quale fosse l’accordo con Orellana, se questi avesse
dovuto tornare indietro, o attendere Pizarro evitando di risalire
il fiume, o, in caso di avversità, continuare a scendere verso il
«mare del Nord». In ogni caso Pizarro, dopo una lunga e vana
attesa e altri tentativi di esplorazione, volse faticosamente verso
Quito, dove riemerse nell’agosto del 1542; aveva perduto metà
degli uomini e gran parte dei cavalli; tutti gli indios erano morti,
o dispersi o fuggiti. La spedizione era stata un fallimento totale;
era penetrata poco profondamente nei territori incogniti a est
delle Ande, non aveva incontrato né ricchezze, né cannella, né
popolazioni da sottomettere, né territori propizi da conquistare.
Nella lettera al re, nel settembre del 1542 (più o meno quando
Orellana approdava all’isola di Cubagua), Pizarro scrisse che
era rientrato a Quito con i compagni superstiti «con solo le loro
spade e qualche rozzo bastone nelle mani»10.
Amazzonia 43
Questo breve riassunto dell’antefatto non da pieno conto delle
vicissitudini degli spagnoli – ben raccontate da Gonzalo Pizarro
nella sua lettera al re, così come dai contemporanei Oviedo e
Cieza de León. Ma non dà conto nemmeno di ciò che è fondamentale per comprendere il rapporto tra spagnoli e indigeni
nell’esplorazione amazzonica. E cioè delle continue violenze e
uccisioni avvenute nei vari incontri con gli indios della regione
di Quijos. Un episodio citato da Cieza de León vale la pena di
essere riferito. Mentre la spedizione è attestata nella valle nei pressi
del vulcano Sumaco – poco dopo l’arrivo di Orellana – Gonzalo
decide di avviare un’esplorazione con settanta compagni in cerca
dell’albero della cannella, e strada facendo cerca di raccogliere
informazioni dagli indios del luogo. Ritenendo che questi fossero
reticenti – probabilmente non capivano e non sapevano ciò che
veniva loro richiesto – Gonzalo ordinò che fossero torturati con
il fuoco e ne fece morire alcuni.
E il carnefice Gonzalo Pizarro non solo non si peritò di bruciare gli
indios di nulla colpevoli, ma ordinò che altri fossero dati in pasto ai cani,
i quali li sbranarono e divorarono; e tra quelli che bruciò e dette ai cani
ho appreso che ci fossero anche alcune donne, per colmo di malvagità11.
Può darsi che il racconto amplifichi la realtà: la rivolta di
Gonzalo Pizarro era terminata con la sua esecuzione due o tre
anni prima che Cieza raccontasse l’episodio. Ma queste crudeltà
erano comuni e furono a lungo il biglietto da visita dei conquistatori tra le popolazioni amazzoniche.
Torniamo a quel 26 dicembre 1541, quando Orellana si
staccò dal corpo principale di una spedizione sperduta, incerta
e affamata. Si ritiene che la separazione da Pizarro avvenisse alla
confluenza tra il Coca e il Napo, presso la moderna città di Coca
(il cui nome ufficiale è Puerto Francisco de Orellana). I suoi
compagni provenivano, in maggioranza, dalle terre di Estremadura e Andalusia, ma c’erano anche valenziani, baschi, asturiani,
galiziani e portoghesi. Oltre a frate Gaspar, un altro religioso
mercedario, padre Gonzalo de Vera, era addetto alla cura delle
anime dei rionauti e degli indios disposti ad ascoltarne le prediche12. L’imbarcazione, accompagnata da due canoe di appoggio,
discese le prime duecento leghe del Napo tra rive spopolate,
con buona velocità perché il fiume «iba crecido» a causa delle
44 Capitolo secondo
piogge, cosicché venivano percorse venti o venticinque leghe al
giorno. I rionauti, consumate le poche provviste, digiuni, affamati
ed esausti, vanno in cerca di erbe e radici che cuociono bollite
«con cuoio, cinture e suole di calzature»13. Disputano sull’idea di
tornare indietro, ma andare controcorrente sembra impossibile
così come risalire il corso del fiume via terra, per rive impraticabili. Finalmente, la sera dell’8 gennaio odono in lontananza rulli
di tamburi segno che finalmente sono vicini a luoghi abitati; il
giorno successivo incontrano quattro canoe con molti indios, che
fuggono a precipizio segnalando agli abitanti rivieraschi l’arrivo
degli stranieri. Apparentemente gli spagnoli avevano superato la
confluenza con il fiume Aguarico (sulla sinistra) ed erano a circa
venti leghe dalla confluenza col Curaray (sulla destra). Sembra
che gli abitanti di questo villaggio (che Oviedo chiamò Imara)
vincessero la diffidenza e accogliessero i numerosi stranieri senza ostilità, dando luogo a un notevole andirivieni di visitatori
dalle vicinanze. Questa regione fu poi battezzata dai rionauti
«Aparia minore», per distinguerla dalla «maggiore» traversata
in seguito. Ciò che è certo è che trovarono cibo a sufficienza
(yucca, mais, volatili, pesci), almeno all’inizio, e comunque non
furono disturbati dagli indigeni. Poiché il barco era in condizioni
precarie, sorse l’idea di costruire una nuova imbarcazione (un
brigantino, cioè provvisto di albero e coperta14): costruirono una
fucina improvvisata, si approvvigionarono di legna e carbone
e nei giorni successivi riuscirono a produrre duemila chiodi e
altre utili ferramenta. Tuttavia il progetto fu temporaneamente
abbandonato, e i rionauti ripartirono il 2 febbraio, dopo essersi
riforniti di cibo. Nel frattempo, sette compagni erano morti di
stenti e malattie, e l’idea di inviare una pattuglia alla spedizione
di Pizarro fu definitivamente abbandonata, per mancanza di
volontari. Ripreso il viaggio, l’intenzione di prender terra alla
confluenza col Curaray per visitare un altro villaggio venne frustrata per la piena del fiume. Nella versione raccolta da Oviedo,
la partenza fu anche dovuta all’ostilità emergente degli indios,
che avevano sospeso i doni di cibarie.
Passata la confluenza del Curaray, i rionauti ebbero notizia
che di fronte a loro si estendevano terre spopolate e che solo
duecento leghe più avanti avrebbero trovato villaggi abitati. In
effetti, raggiunto il Río delle Amazzoni (confluenza di Santa
Olalla, secondo Oviedo), a fine febbraio raggiunsero una regione
che battezzano «Aparia» dal nome del signore principale. La
Amazzonia 45
comitiva sbarcò in un villaggio, passò poi a un altro dove rimase
tre giorni; gli indios sembravano ospitali e generosi con il cibo.
Passando oltre, scriveva Carvajal: «Navighiamo per il nostro
fiume in vista di buoni villaggi». Furono raggiunti da emissari
del Signore di Aparia e invitati nel villaggio principale. Gli indios
erano ovunque «muchos», il Signore di Aparia era accompagnato
da «muchos principales y señores» e vennero offerte «muchas»
provviste. Orellana contraccambiò doni e cortesie, e si imbarcò in
un lungo discorso (forse in quechua) sull’unico Dio dei cristiani
e su Carlo, imperatore e re di Spagna, e sul fatto di esserne l’inviato15. Secondo Carvajal, il discorso fece ottima impressione. Nei
giorni seguenti gli spagnoli ricevettero la visita di ventisei signori;
Orellana fece costruire una grande croce e prese possesso della
regione in nome di sua maestà, mentre gli indios puntualmente
rifornivano gli spagnoli di cibo. Siamo, più o meno, nella regione
dell’attuale frontiera tra Perú, Colombia e Brasile.
Nel villaggio principale di Aparia, vista la buona disposizione
degli indios e la localizzazione favorevole, Orellana decise di
mettere mano alla costruzione del brigantino. Occorsero sette
giorni per abbattere gli alberi e farne tavole; nei trentacinque
giorni seguenti si fecero altri chiodi e serramenti con una fucina
improvvisata; si costruirono lo scafo e la coperta, si calafatò ed
impeciò, si varò finalmente il manufatto. Misurava 19 goas, ovvero
circa 14 metri16. Nel frattempo venne riparato anche il barco ed
entrambe le imbarcazioni furono rifornite di viveri. La partenza dal
villaggio avvenne il 24 aprile; fino ad allora erano state percorse
circa 400 leghe (conteggio di Carvajal), e per uscire dalla signoria
di Aparia dovettero percorrerne altre 80, mentre si rarefacevano
i villaggi, il cibo scarseggiava e si riaffacciava la fame.
Il 12 maggio i rionauti arrivarono alla «terra dei Machiparos». Questa si trova su un vasto pianoro sulla riva del fiume
(verso la confluenza con il fiume Tefé) e «si compone di molti e
popolosi villaggi che possono mettere insieme 50 mila uomini da
battaglia, tra i trenta e i settant’anni, poiché i giovani non vanno
in guerra»17. I Machiparos si mostrarono assai più scortesi degli
indios di Aparia e dettero furiosa battaglia agli spagnoli, che si
impadronirono del villaggio, ma vennero più volte assaliti dagli
aggressivi indios, poco disposti a farsi depredare del loro cibo.
Che era abbondante «così di tartarughe in recinti con piscine
d’acqua, e molta carne e pesce e biscotto, e tutto questo in tale
46 Capitolo secondo
abbondanza che c’era da dar da mangiare ad un accampamento di
mille uomini per un anno»18. E invero, Orellana e i distaccamenti
di uomini mandati nei dintorni a razziare, furono aggrediti da
schiere ora di «500» ora di «2.000» uomini, in furiose battaglie
nelle quali 18 spagnoli vennero feriti, alcuni gravemente (e uno
morì in seguito)19. La ritirata sul fiume fu difficile e a lungo i brigantini furono inseguiti dagli indios infuriati. Ottanta leghe «durò»
la navigazione per uscire dalla provincia dei Macipharos
che aveva una sola lingua, che era tutta popolata, e non c’era, tra villaggio
e villaggio, più di un tiro di balestra, e i più lontani non distavano mezza
lega, e ci fu un villaggio che durò cinque leghe senza intervalli tra casa e
casa, che era una cosa magnifica da vedersi.
Usciti dalla terra dei Machiparos, gli spagnoli entrarono nelle
terre degli Omaguas, razziando il primo villaggio incontrato. Fino
ad allora «avevano percorso 340 leghe dalla partenza da Aparia, delle quali 200 spopolate». Proseguendo, le soste negli altri
villaggi furono sempre per rifornimenti «forzosi» perché anche
gli Omaguas si mostrarono assai meno amichevoli delle genti
di Aparia, pur avendo ottime scorte di cibo. In uno dei villaggi
trovarono una casa con gran copia di vasellame di ogni misura,
di ceramica dipinta in vivaci colori «che quella di Malaga non
le sta a pari», e due idoli a grandezza naturale; trovarono anche
dell’oro e dell’argento e, soprattutto, diversi sentieri diretti verso
l’interno, indizio di una terra bene insediata20. Nella provincia
di Omagua gli spagnoli percorsero 100 leghe, fino alla terra di
un signore di nome Paguana, terra di indios non bellicosi; nel
primo villaggio di «due leghe di lunghezza» i nostri si rifornirono,
e proseguirono per rive assai popolate «e ci furono giorni che
incontrammo più di venti villaggi». Il 29 maggio giunesro a un
grande villaggio «che aveva molti quartieri, ed ogni quartiere
aveva il suo imbarcadero al fiume, e ad ogni imbarcadero c’era
un gran numero di indios, e questo villaggio era lungo due leghe
e mezzo»21. Ma gli spagnoli preferirono approvvigionarsi in villaggi più piccoli per minimizzare il pericolo di aggressioni. Il 3
giugno venne raggiunta la confluenza con il Río Negro, e Carvajal
descrive realisticamente le acque dei due fiumi, di colore diverso, che scorrono a lungo affiancate senza mescolarsi (una meta
imprescindibile dei turisti a Manaus)22. A questo tratto di fiume
non venne dato nome, ma i rionauti si imbatterono in nuove e
Amazzonia 47
anche bizzarre realtà: un villaggio con una sorta di fortificazione, cintato con grandi tronchi di legno; in un altro villaggio di
dimensione «mediana» un grande spiazzo e nel mezzo una sorta
di grande piattaforma di «10 piedi di lato» istoriata in rilievo e
sorretta da due giaguari; in un’altra abitazione trovarono gran
varietà di indumenti con piume di diversi colori23.
Il viaggio prosegue, e Carvajal menziona un tremendo episodio
(che peraltro non si trova citato in altre versioni della sua relazione):
Orellana ordina l’impiccagione di alcuni piezas (cioè indios) catturati
per diffondere timore e convincere i riluttanti indios a concedere
l’aiuto alimentare agli spagnoli24. Poco oltre, passata la confluenza
del maggiore affluente del Grande Fiume, il Madera, avvistano in
un villaggio che esibisce sette pali sormontati da altrettanti crani:
viene battezzata la «provincia de las picotas» (picche)25 la cui
estensione era di 70 leghe (20 in altre trascrizioni). Carvajal narra
un altro oscuro episodio: l’uccisione di capo villaggio e l’incendio
delle capanne per far fuggire gli indios che oppongono resistenza
per «prendere il cibo che, lodato sia il Signore, in questo villaggio
non mancò»: tartarughe, volatili26. Da un’india apprendono che
in altri villaggi si trovano altri europei, forse i sopravvissuti della
dispersa spedizione di Diego Ordaz alla bocca del fiume di venti
anni prima, ormai mescolati agli indigeni27.
Tra una razzia e l’altra, il 24 giugno i rionauti giunsero a un
altro villaggio dove si svolse l’episodio famoso dell’accanita battaglia con gli indios, soccorsi da una dozzina di Amazzoni, donne
bianche, alte, robuste e forsennate, una giornata che si concluse
con vari feriti tra gli spagnoli e la perdita dell’occhio di Carvajal,
colpito da un dardo. Un episodio dove fantasia e mito – e forse
il trauma della ferita – irrompono in una relazione generalmente
improntata al realismo. Erano state percorse, secondo il conteggio
del frate, 1.400 leghe dalla partenza; e altre 150 ne sarebbero
occorse per traversare la «provincia di San Juan» così battezzata
dal giorno della battaglia con le Amazzoni. Le rive erano molto
popolate, e gli spagnoli non osavano prender terra tra indios
aggressivi. Di nuovo soffrirono la fame, ma non a causa di un
deserto umano. Secondo i geografi storici siamo nella várzea
dell’attuale Santarem, ma la confluenza con il Tapajós non venne
annotata dal frate, forse perché i rionauti procedevano lontano
dalla riva destra, o per la caligine o per l’oscurità28.
Per due giorni navigarono in vista di villaggi insediati sui
bordi rilevati della riva sinistra del fiume; vennero loro incon-
48 Capitolo secondo
tro «gran copia di piroghe» con indios tiznados, cioè dipinti di
nero, dall’aria aggressiva: Carvajal chiama questa «provincia de
los Negros». Due villaggi vennero razziati, uno piccolo e uno
più grande; gli indios si difesero, e un compagno «originario di
Burgos» venne colpito da una freccia «velenosa [...] perché in
capo a ventiquattro ore rese l’anima a Dio». È in seguito a questo
episodio che Orellana dispone la costruzione di parapetti di legno
per difesa dalle frecce avvelenate: a tempo, perché vennero di
nuovo assaliti da un nugolo di canoe; nel conflitto gli spagnoli
ebbero la meglio, ma un altro compagno «originario di Logroño»
rimase ferito «in verità non gli entrò, la freccia, nemmeno mezzo dito, ma siccome era avvelenata, non durò ventiquattro ore
e rese l’anima a Dio». I rionauti si fecero guardinghi: i dardi
avvelenati erano l’unica arma che poteva far loro serio danno29.
Nel contempo ebbero a rallegrarsi, perché si resero conto che il
fiume cambiava di livello, effetto evidente delle maree marine.
L’Atlantico, ormai la loro meta – anche se all’inizio non confessata – era prossimo. Dovevano trovarsi nei pressi di Montealegre
a circa 600 chilometri dall’estuario30.
Ancora un tratto tra rive popolate, e poi il fiume si allarga,
si popola di innumerevoli isole, le terre si fanno basse e pantanose, la ricerca di cibo «dove si poteva fare senza danno» (cioè
senza pericolo) divenne meno agevole. Navigarono tra le isole
dell’estuario per 200 leghe (sicuramente una rotta molto tortuosa),
ed è a questo punto che Carvajal ricapitola le distanze. Oltre alle
200 leghe citate, «per altre 100 sale la marea con molta furia, e
in totale sono 300 leghe di marea e 1.500 senza di essa; cosicché
se si sommano le leghe percorse in questo fiume, dal luogo di
partenza fino al mare, sono 1.800, forse più che meno»31. I nostri
rionauti – è pieno luglio – si aggirarono nell’arcipelago dell’estuario, il mare era sempre più vicino, ma la fame era compagna
giornaliera. In uno dei consueti approdi presso un insediamento,
il barco piccolo cozzò contro un ostacolo e si incagliò in un basso
fondale. Sotto attacco degli indios, venne fatta una riparazione di
fortuna e i rionauti si rifugiarono, il giorno seguente, in un luogo
più tranquillo – dovrebbe essere il 20 o il 21 di luglio – dove
rimisero in sesto l’imbarcazione naufragata. Erano ormai esperti
nel fare chiodi e ferramenta, sempre insidiati dalla fame mangiarono «il mais contando i grani», ma furono soccorsi da un tapiro
(danta) morto «grande come una mula», portato dalla corrente,
Amazzonia 49
che «si ripartì tra tutti i compagni, di modo che a ciascuno gli
toccò da mangiare per cinque o sei giorni».32 In questo luogo
si fermarono quattordici giorni, ma non era il posto adatto per
attrezzare le due imbarcazioni alla navigazione in mare aperto.
Il 6 agosto, giorno di san Salvatore, approdarono a una spiaggia
conveniente, dove venne aperto il cantiere «e facemmo cordami e
gomene di vegetali e vele con le coperte nelle quali dormivamo,
e ponemmo gli alberi»33. Lavorarono quattordici giorni, metà
al cantiere e metà a procacciarsi cibo, soprattutto chiocciole e
granchi di mare. Era la prima volta che le razzie (o i doni) di
cibo non erano la fonte di sopravvivenza dei rionauti. Il 20 agosto
ripartirono, ma ebbero difficoltà nel raggiungere il mare aperto:
per le maree che li respingeva indietro, le rudimentali ancore
che non tenevano il fondo, il governo del natante più difficile.
Le popolazioni rivierasche però non si dimostravano aggressive,
e permisero loro di approvvigionarsi di acqua, mais, radici per
il viaggio in mare. E ciò nonostante fossero già state a contatto
con altri europei. Infine, il 26 agosto uscirono in mare aperto,
«tra due isole, distanti 4 leghe, nel mezzo della [bocca] del fiume, che tutta insieme, come poi lo vedemmo, misura da punta
a punta 50 leghe: immette nel mare acqua dolce per 25 leghe;
sale e scende sei o sette braccia [10-12 metri]»34. Il brigantino
finalmente raggiunse Nueva Cadiz nell’isola di Cubagua, distante
«450 leghe dalla bocca del Rio», dove era già arrivato da due
giorni il brigantino piccolo, che aveva perso contatto con quello
grande. Era l’11 settembre 154235.
Yo, Fray Gaspar Carvajal [...] poiché la prolissità ingenera fastidio, così
superficialmente e sommariamente ho fatto relazione di ciò che è successo
al Capitano Francisco de Orellana, e agli Hidalghi della sua spedizione, e
ai compagni che partirono con lui dal campo di Gonzalo Pizarro, Marchese
e Governatore del Perú, Dio sia lodato. Amen36.
Torniamo al Grande Fiume: 1.800 leghe percorse, secondo
il calcolo del frate, per una navigazione che dalla confluenza
del Coca con il Napo fino al mare aperto si commisura in circa
4.700 chilometri. Ma il percorso fu più lungo di quello che fa
il cursore sulla carta geografica: si passò da una riva all’altra,
si entrò in bracci di fiume senza uscita, si risalì la corrente per
ritrovare attracchi favorevoli, si bordeggiò a lungo nell’estuario:
una «lega-Carvajal» doveva valere mediamente, come già detto,
50 Capitolo secondo
circa 3 chilometri. Se si escludono le lunghe soste riportate (116
giorni, per i vari cantieri di riparazione), e altri giorni di sosta più
breve (solo in parte segnalati), si può pensare che dei 243 giorni
intercorrenti tra la partenza (26 dicembre) e l’uscita in mare (26
agosto) meno della metà fossero impegnati nella navigazione, con
un percorso medio di 16 leghe-Carvajal (circa 50 chilometri) al
giorno. Una buona distanza, se si pensa che delle dodici ore di
luce, non poche dovevano essere impegnate nel procurarsi cibo,
nelle scaramucce, nella ricerca di attracchi favorevoli, in intervalli
di riposo, in tempo perso nei mille contrattempi di percorso. I
58 (o 54, o 51) rionauti persero 10 (o 11) compagni (circa 1 su
5), proporzionalmente assai meno delle perdite di altre spedizioni
per via terra, apparentemente meno rischiose.
Cosa si può dire del popolamento del Napo, e poi del Grande
Fiume dalla confluenza del Napo fino all’estuario? Diciamo subito
cosa è impossibile sapere: non sono fattibili, infatti, valutazioni
numeriche fondate, sia perché gran parte delle osservazioni sul
popolamento sono di natura qualitativa, sia perché quelle numeriche spesso sono palesemente infondate, o impossibili per chi
osservava navigando o con fugaci incursioni a terra. Per esempio,
nella terra dei Machiparos «i molti e popolosi villaggi» avrebbero
avuto 50.000 uomini d’armi fra i trenta e i settant’anni, il che
vorrebbe dire una popolazione totale di almeno cinque volte
superiore, su una lunghezza di 80 leghe, cioè per meno di un
ventesimo dell’itinerario. Estendendo questa popolazione all’intero
percorso, si otterrebbe una popolazione della várzea dell’ordine di
cinque milioni, o di dieci se la stima di Carvajal avesse riguardato
una sola delle sue rive. Ancora in terra dei Machiparos si parla di
una contiguità dei villaggi rivieraschi, i più discosti lontani mezza
lega, altri non più di un «tiro di balestra» (un paio di centinaia
di metri): supponendo villaggi con un paio di centinaia di anime, e discosti mediamente un quarto di lega l’uno dall’altro, ciò
avrebbe significato quattro villaggi e 800 abitanti per lega. E cioè,
su 80 leghe, 64 mila abitanti su una riva e altrettanti sull’altra.
Valori che se estesi a tutto il percorso di venti volte più lungo
darebbero una popolazione totale non superiore ai 2-3 milioni.
Nelle terre di Paguana, Carvajal riferisce che c’erano giorni di
navigazione nei quali avvistavano (su una delle rive, si suppone)
fino a 20 villaggi. Ora, la nozione di villaggio (pueblo) è insicura:
da qualche abitazione a gruppi consistenti di queste, e quindi da
qualche decina a qualche centinaio di persone. Nell’alta Amazzo-
Amazzonia 51
nia l’evangelizzazione dei gesuiti solo in due casi riuscì a creare
villaggi stabili di oltre 1.000 abitanti (aggregando gruppi tribali
diversi), e il valore normale degli insediamenti era di 200-400
anime. Tuttavia le modalità organizzative delle missioni escludeva
i piccoli o piccolissimi aggregati, e le dimensioni normali dei villaggi non evangelizzati doveva essere assai minore. «Venti villaggi»
può dunque significare qualche migliaio di abitanti. Assumendo
come riferimento 200 abitanti per villaggio, e tenendo conto che
i giorni di navigazione furono poco più di un centinaio, e che
solo una delle due sponde fosse tenuta d’occhio dai rionauti, si
otterrebbe un totale di 800 mila abitanti lungo l’intero percorso.
Nella terra di Paguana, un villaggio si estendeva per due leghe, e
un altro per due leghe e mezzo, suddiviso in quartieri, ognuno con
il suo imbarcadero. Un villaggio lungo diversi chilometri suona,
ai nostri orecchi, quasi una metropoli: ma forse Carvajal vedeva
rive insediate da abitazioni, magari distanziate tra di loro, per un
tratto di quella lunghezza, insediato sul margine del fiume e non
in profondità nell’entroterra: potrebbe quindi essersi trattato di
qualche centinaio di famiglie insediate in un continuum. Ma un
continuum, in una navigazione che traversava rive deserte per
decine o centinaia di leghe, ha significato assai diverso che non
in Spagna. Nel Regno di Aparia, vengono chiamati a raccolta
i «signori» di quella terra durante la lunga permanenza per la
costruzione del brigantino, e ventisei di questi accudirono al
campo di Orellana. Supponendo che ciascuno di questi fosse il
principale di un villaggio, e che solo una parte (supponiamo la
metà) rispondesse alla chiamata, possiamo ipotizzare un mezzo
centinaio di insediamenti che difficilmente avrebbe superato le
10 mila persone.
Questi esercizi di aritmetica elementare (che releghiamo all’Appendice 2, per i prossimi capitoli) confermano, però, che anche
all’epoca di Carvajal – un’epoca di primo contatto per l’Amazzonia – la várzea era, sì, popolata, ma che stime di molti milioni di
abitanti (i 5 o i 10 ottenuti poco sopra, estendendo il presunto
popolamento dei Machiparos a tutto il percorso dei rionauti) sono
un limite massimo del tutto virtuale. Lunghe sezioni del Grande
Fiume erano spopolate: le prime 200 leghe, lungo il Napo prima
di raggiungere «Aparia minore», e altre 200 leghe tra la maggiore
Aparia e i Machiparos, oltre a tratti meno estesi. Insomma, in
almeno un quarto del percorso le sponde erano deserte e – di
conseguenza – rimanevano vuoti gli stomaci degli spagnoli.
52 Capitolo secondo
Qualche altro suggerimento proviene dall’organizzazione
sociale delle popolazioni incrociate dai rionauti di Orellana. In
alcune realtà – le popolazioni di «Aparia minore» e di «Aparia
maggiore» – appare un’organizzazione sociale stratificata, con la
predominanza di un capo, o signore, influente, forse non solo
nel proprio villaggio. Tra gli Omaguas, c’è la casa con gli idoli
e buona ceramica, e un’altra casa con ricchi indumenti cerimoniali; e poi qualche oggetto d’oro, e una rete di sentieri che si
inoltrano nell’interno. Insomma, tracce di una vita associata di
qualche complessità, con scambi e livelli tecnologici non elementari. E ancora, «l’acquacultura» delle tartarughe di fiume,
di cui gli amazzonici andavano ghiotti, le coltivazioni di yucca,
di maiz e di cotone, la produzione di tessuti sono testimonianza
di un certo sviluppo.
Un’osservazione finale. I rionauti, si è detto, sopravvivevano
grazie al cibo razziato tra gli indigeni. Spesso gli indios non erano
ostili, e offrivano pesci, volatili, frutti. Ma cinquanta uomini da
sfamare sono tanti, e nutrire la compagnia per un giorno, assorbiva
la produzione di altrettanti indios impegnati nella caccia e nella
pesca. Ancor più se i rionauti – com’era regola – pretendevano
di fare scorte. I villaggi avevano, presumibilmente, poche riserve
e limitata capacità di produzione, caccia o raccolta. Il gravame
dei poco graditi visitatori – uomini rotti a tutto, determinati a
sopravvivere, non usi ad andare per il sottile – diveniva presto
insopportabile. Anche i gruppi più pacifici potevano essere facilmente indotti a diventare ostili. L’informazione poi sicuramente
precedeva i rionauti, predisponendo al sospetto le popolazioni
rivierasche. Sarebbe interessante comprendere se la crescente ostilità
incontrata nella discesa del Grande Fiume non fosse – anche – la
conseguenza della pessima fama che precedeva i naviganti.
Che avvenne dei protagonisti della nostra storia? A Gonzalo
Pizarro, fatto prigioniero dai realisti nello scontro di Sacsahuana a cinque leghe dal Cuzco, fu tagliata la testa per ordine del
tribunale immediatamente costituito dal viceré Pedro de la Gasca. Era l’11 aprile 1548. La testa mozzata fu inviata a Lima e
mostrata al popolo in ammonizione circa il destino dei ribelli37.
«Dei cinque fratelli che erano partiti [...] dall’Estremadura per
conquistare un grande impero, ne sopravviveva uno, prigioniero
in una fortezza in Spagna»38. Gonzalo era sui trentacinque anni
quando fu giustiziato ed era arrivato in Perú giovanissimo. Anche
Amazzonia 53
il destino di Orellana, dopo molti onori in Spagna, fu tragico.
Da Cubagua fece vela per Santo Domingo con dodici compagni,
dove nel dicembre del 1542 incontrò Oviedo, che raccolse la
sua storia assieme ai nomi dei cinuantaquattro componenti della
spedizione39. Da lì proseguì in Spagna, dove ricevette onori e,
in ricompensa, il titolo di «Adelantado e Gobernador» del Río
Marañon in un atto ufficiale della corte del 13 febbraio 1544.
Apprestò una spedizione con quattrocento uomini e quattro
navi, che fu travagliata dalla sfortuna già dalla sosta a capo
Verde, dove un’epidemia falcidiò i suoi uomini; proseguì verso
l’estuario del Grande Fiume, intenzionato a risalirlo, ma fece
naufragio in un fortunale e scomparve con la giovane moglie e
la maggior parte dei suoi alla fine del 1546. Solo un manipolo
si salvò, e arrivò a Santo Domingo a raccontare la triste storia.
Erano passati quattro anni dall’incredibile approdo all’isola di
Cubagua. Aveva trentaquattro anni.
Solo Gaspar de Carvajal ebbe una buona vita e morì nel 1584,
presumibilmente, nel proprio letto, nel convento dei domenicani di Lima. Aveva ottantatré anni. Rientrato in Perú seppe che
sopra Orellana pendeva un’accusa di tradimento e fu questa la
ragione che lo spinse a scrivere la relazione del viaggio, anche
a giustificazione del comportamento dei rionauti. Fu priore del
Cuzco, protettore degli indios a Tucumán e infine venne eletto
provinciale dell’Ordine in Perú40. Una vita intensa e carica di
responsabilità. Pur con un occhio solo.
III. Trecento rionauti scendono il Grande Fiume.
Pedro de Ursúa e Ines de Atienza prime vittime della tragedia.
Aguirre furore di Dio. La lunga scia di sangue fino all’oceano
e al Venezuela. Sfida a Filippo II. Morte di Aguirre
e di Elvira, sua figlia
L
a seconda navigazione amazzonica avvenne quasi vent’anni
dopo quella di Orellana ed è la più celebre e drammatica. Più
celebre perché, nata come esplorazione di conquista di una regione mitica e ignota, continuò con una ribellione e terminò in
tragedia. Ebbe attori di primo piano: il navarro Pedro de Ursúa,
nobile e ricco, organizzatore dell’impresa; la sua bella amante
meticcia, Inés de Atienza; il giovane sivigliano ambizioso e vano,
Fernando de Guzmán; il folle Lope de Aguirre dall’oscuro passato
e sua figlia Elvira. Tutti i protagonisti perirono uno dopo l’altro
di morte violenta, alimentando un mito letterario e politico nei
secoli successivi. Racconteremo il canovaccio del dramma che
si svolse sul proscenio e le storie che si intrecciarono dietro i
protagonisti: la sorte degli oltre trecento spagnoli che accompagnarono Ursúa; quella, ancor più crudele, delle centinaia e
centinaia di indios e schiavi neri che costituivano il sostegno
e il supporto della spedizione; l’effetto sugli indios rivieraschi
che entrarono in contatto con la spedizione. Interessa, infine e
soprattutto, lo sfondo naturale e antropologico della spedizione
quale risulta dai resoconti tramandati. Ce ne sono almeno quattro
di altrettanti partecipanti; l’eco degli eventi riferiti dai superstiti
della spedizione si sparse velocemente in tutto l’impero spagnolo, in Europa e in America, e altre cronache si aggiunsero alle
testimonianze dirette, arricchendole e spesso travisandole. Ma
è sulle testimonianze dirette che ci soffermeremo per leggere
l’Amazzonia di quattro secoli e mezzo fa1.
La storia ha un lungo prologo: all’inizio del 1559 Pedro de
Ursúa, sotto la protezione del viceré del Perú, il marchese di
Cañete, organizza la spedizione alla ricerca di «Omagua e di
Eldorado». Giunto sulle rive del fiume Huallaga con qualche
58 Capitolo terzo
decina di uomini, «taglialegna e carpentieri», Ursúa apre un
cantiere per la costruzione delle imbarcazioni occorrenti per
la lunga navigazione fluviale che avrebbe portato la spedizione
nelle terre di Omagua2. Per un anno e mezzo abbandona il
cantiere per raccogliere denaro, uomini e mezzi, dei quali era a
corto. Riesce così a radunare qualche centinaio di spagnoli (tre
o quattrocento), tra i quali abbondavano i reduci delle guerre
civili che avevano devastato il Perú fino a pochi anni prima e
non pochi personaggi violenti e sediziosi, oltre alle centinaia
di indios e di schiavi neri, uomini e donne, che costituivano
l’indispensabile seguito di questa come di altre spedizioni3. Lo
esigevano, oltre al trasporto di sussistenze e materiali, il servizio
dei nobili e degli hidalgos partecipanti, i numerosi e inutili (se
non a fini alimentari) cavalli, la ricerca e la preparazione del
cibo, il servizio ai remi delle canoe. Fin dall’inizio serpeggia tra
gli uomini il malcontento; la mancanza di viveri e provviste per
una spedizione così complessa costringe a inviare alla loro ricerca
distaccamenti di uomini a valle del fiume, in zone già esplorate.
Il capitano Juan de Vargas, con settanta uomini, è incaricato di
discendere lo Huallaga fino alla confluenza con il Grande Fiume,
navigarlo a valle fino alla confluenza con lo Ucayali e risalirlo (lo
farà «per ventidue giorni») per fare ampie scorte di mais. Risceso
alla confluenza con il Fiume, attenderà circa tre mesi l’arrivo del
grosso della spedizione, attardata da vari contrattempi; nell’attesa sarà costretto a dar fondo alle provviste. Il 26 settembre
1560 parte Ursúa con il suo seguito: l’organizzazione era stata
così maldestra che «tutte le imbarcazioni erano marcite, quando
vennero spinte in acqua, si sfasciarono quasi tutte»4. Resistettero
soltanto due brigantini e tre chiatte che però «facevano acqua
dappertutto». Si perde molto tempo a mettere insieme imbarcazioni sostitutive; molti cavalli rimarranno a terra. Va notato
che la spedizione immaginava di trovare vaste terre percorribili
a cavallo, ma nella foresta amazzonica la loro funzione, anziché
quella di cavalcature di conquistadores carichi d’oro, fu quella di
alimentarne gli stomaci affamati. Facevano parte della spedizione
che si avviò faticosamente, Doña Inés, le sue dame di compagnia,
ed Elvira, figlia di Aguirre; e poi, oltre al tesoriere e al notaio,
alfieri, cavalieri, archibugieri, fanti, schiavi neri, indios, cavalli,
capi di bestiame, cani, armi, piombo e polvere da sparo. Poche
erano le scorte di viveri. Per dare l’idea dell’ingombro del materiale trasportato, il capitano Altamirano riferisce che allo scopo
Amazzonia 59
infra,
spesso, è
Purus
di preparare munizioni c’erano 200 barre di piombo (ciascuna
barra pesava 2 arrobas, cioè circa 25 chili, per un totale di 50
quintali), 80 bottiglioni di salnitro raffinato e altrettanti di zolfo
(ogni bottiglione, o botija pesava più di 30 chili)5. Alla metà di
ottobre la spedizione si ricongiunge con il gruppo di Vargas alla
confluenza del Grande Fiume con l’Ucayali, con una sosta di
otto giorni tra i Cocama, popolazione con «camice di cotone»;
passata la confluenza con il Napo, la spedizione ritrova un altro
distaccamento guidato da Garcia de Arce, inviato mesi prima alla
ricerca di cibo e attestatosi in un’isola (c’erano due villaggi «di 30
case o più») in una «provincia» abitata da indios che «indossano
camiciole dipinte e le loro case sono quadrate e grandi. Le loro
armi sono delle specie di picche di legno di palma, grandi come
giavellotti di Biscaglia, che lanciano con l’aiuto di una sorta di
fionda di legno [...] e le chiamano “estolica”»6. Avevano viaggiato
per oltre «300 leghe completamente deserte» (corrispondenti,
però, a circa 900 chilometri effettivi). Battezzano la regione
«provincia dei Carari», dal nome attribuito a un villaggio; si
tratterebbe dell’«Aparia grande» descritta da Carvajal, successivamente abitata da migranti Omagua. Questa regione si sarebbe
estesa per circa «150 leghe», tra le confluenze del Napo e del
Putumayo, ma non era molto popolata «perché nei villaggi che
vedemmo ci saranno stati sette o ottomila indios, e a dir molto
diecimila»7. Seguono nove giorni di navigazione tra rive deserte
(forse altre 150 leghe nella metrica dei naviganti), fino all’arrivo
nella provincia dei Machifaros, che i geografi storici pongono tra le
confluenze dei fiumi Yurua e Puru8. La provincia dei Machifaros
è costellata di villaggi, e uno di questi «il più grande che avessero
incontrato fino ad allora» diventa il real, il quartier generale della
spedizione. Come i rionauti di vent’anni prima, trovano le piscine
d’acqua artificiali per le tartarughe. Sono passati, secondo uno dei
cronisti, ottantaquattro giorni dalla partenza (saremmo dunque
al 19 dicembre)9. Nella provincia dei Machifaros – spostando il
campo almeno tre volte – si fermeranno fino all’inizio di aprile,
ed è in queste terre che si produrrà la prima parte del dramma.
Ursúa ha la mano debole; la spedizione è stata male organizzata;
gli ordini non vengono rispettati; gli uomini hanno sofferto stenti
e privazioni nei lunghi tragitti despoblados, ma dove le terre sono
abitate viene fatta violenza agli indios e il cibo viene sprecato.
Ma, soprattutto, non si è vista traccia, fino a quel momento,
delle popolazioni da sottomettere e delle favolose ricchezze va-
60 Capitolo terzo
gheggiate. Il dissenso e l’insubordinazione – fomentati da Lope
de Aguirre – montano e si trasformano in aperta rivolta che
culmina con l’uccisione di Ursúa e di alcuni fedeli il 1º gennaio
1561. Viene eletto capo della spedizione il giovane Fernando de
Guzmán, fantoccio nelle mani di Aguirre e dei suoi; si regolano
progressivamente i conti tra le fazioni, eliminando i più pericolosi
dissidenti, distribuendo funzioni, cariche e promesse. E si delinea
un nuovo piano, che è quello di abbandonare le esplorazioni, di
arrivare al mare, risalire a Nombre de Dios sulla costa atlantica
panamense, passare a Panamá, impadronirsene e raccogliere
nuovi accoliti, ridiscendere in Perú e fomentare una rivolta.
Funzionale a questa strategia è la solenne sottoscrizione di un
documento con il quale viene ripudiato il vassallaggio a Filippo
II, proclamando Guzmán principe, in attesa di farlo incoronare
re del Perú. Un piano azzardato e quasi folle, ma guidato da una
lucida strategia. Sul piano pratico è indispensabile attrezzare la
spedizione per continuare la navigazione, dato che le imbarcazioni originali sono ormai inservibili e comunque inadatte ad
affrontare il mare aperto.
Nell’opera si impegnarono quattro ufficiali spagnoli, falegnami e
ferraioli, mentre il resto dell’armata prestò il suo aiuto diviso in squadre
[...] C’erano molte scuri, seghe e altri strumenti di ferro [...] c’era anche
una certa quantità, sebbene scarsa, di catrame e di chiodi10.
Vengono terminati «due brigantini senza ponte superiore né
murate, grandi e belli. Ognuno poteva essere equipaggiato come
un vascello di trecento tonnellate di stazza»11. Da questo villaggio,
che chiameranno dei Brigantini, partono all’inizio di aprile navigando per qualche giorno sul lato sinistro per evitare la terra degli
Omaguas (uno degli obiettivi iniziali della spedizione) situata sulla
riva destra; trascorrono otto giorni e la Pasqua (16 aprile) in un
piccolo villaggio; ripartono e arrivano al più grande insediamento
fino ad allora incontrato dove si fermeranno un mese, fino al 24
maggio. I cronisti lo chiameranno «pueblo de las Matanzas», il
villaggio delle mattanze: qui Aguirre farà uccidere Guzmán, che
aveva cominciato a temere Aguirre e il suo dissennato piano, e
altri suoi fidati; sarà assassinata Doña Inés assieme al suo nuovo
protettore, e anche un «clerigo de misa»: in tutto sette persone.
Aguirre assume, anche formalmente, il comando assoluto. Secondo
Emiliano Jos, il «pueblo de las Matanzas» andrebbe situato sulla
Amazzonia 61
riva sinistra del Grande Fiume, tra le confluenze del Puru e del Río
Negro; qui i due brigantini vengono dotati di coperta12. Lasciato «las
Matanzas» navigano otto giorni «senza arrestarsi»: dopo la strettoia
del fiume (all’attuale Obidos) approdano in un grande villaggio,
abitato da indios armati di frecce avvelenate (forse i Tapajós)13,
e trovano abbondanza di mais e yucca, legname, amache, orci e
giare per l’acqua. Si percepisce la marea (siamo dunque a 600700 chilometri dal mare aperto)14. Qui si fermano quindici giorni;
«furono costruite le vele dei brigantini con coperte di cotone e
lenzuola di Rouen e altri pezzi di tela raccolti fra gli spagnoli e gli
indiani»15; furono poste l’alberatura e il sartiame («pueblo de las
jarcias» o «delle sartie»). Lasciato questo villaggio, dopo cinque o
sei giorni di navigazione che si fa più difficile, tra le isole, i bracci
di fiume, i pantani dell’estuario e le vigorose correnti delle maree,
si fermano in un altro villaggio, deserto per la fuga degli indios,
protetto da strane fortificazioni fatte con tronchi di palma. Qui
si compiono ulteriori riparazioni e rifornimenti (tra l’altro trovano, per la prima volta, del sale). Si procede verso il mare aperto,
non senza compiere un ulteriore atto disumano (altri omicidi,
dopo quelli del «pueblo de las Matanzas», avevano funestato il
percorso): l’abbandono di 100 indios ladinos (cioè spagnolizzati
e cristianizzati) del seguito, per alleggerire i brigantini in mare
aperto «perché era pericoloso andar per mare con tanta gente, e
sarebbe mancato sia il cibo che l’acqua»16. Dopo diciassette giorni
in mare, il 20 luglio 1561 raggiungono l’isola Margarita prossima
alla costa venezuelana. Il viaggio era durato dieci mesi, «dei quali
navigammo per fiume e per mare 3 mesi e 20 giorni, che sono
110 giorni, poco più, poco meno, 93-94 per il fiume, 17 per mare.
Il resto del tempo, che sono 6 mesi, ci fermammo per costruire i
brigantini, nel cercar cibo e riposare»17.
Mi potrei fermare qui, perché in seguito non di Amazzonia
si parla. Ma un accenno al prosieguo del dramma è necessario:
Aguirre e i suoi terrorizzano l’isola Margarita, una delle isole delle
Perle, dai fondali ormai esausti, che ospitava qualche centinaio
di spagnoli con i loro schiavi e servi, uccidendo molti abitanti
e tra questi il governatore18. Nella testa di Aguirre si era fatto
strada un altro progetto, e infatti l’idea di passare a Panamá era
stata abbandonata perché della ribellione si era diffusa la notizia
mettendo in allarme Nombre de Dios e Panamá; immaginò allora
di sollevare le popolazioni del Venezuela e della Nueva Granada
(Colombia) e, via terra, di raggiungere il Perú.
62 Capitolo terzo
Il tiranno partì dall’isola La Margarita una domenica, dopo mezzodì,
ultimo giorno d’agosto dell’anno 1561. Vi era rimasto quaranta giorni e la
lasciò così devastata e spoglia di bestiame, viveri e altre cose, che quanti
vi sono rimasti riescono a stento, ancor oggi, a sostentarsi [...] Prima di
giungere a quest’isola il tiranno aveva ucciso, lungo il fiume, venticinque
persone [...] Nell’isola, uccise quattordici dei suoi Maranoñes, undici
abitanti, di cui due frati e due donne, il che in tutto fa cinquanta persone, senza contare due indios che parlavano lo spagnolo, e tutti senza
confessione19.
Passato alla terraferma venezuelana, all’inizio trovò scarsa
resistenza da parte dei coloni spagnoli, ma nessuna adesione al
suo progetto rivoluzionario; con disperata testardaggine proseguì
mentre si stavano organizzando le forze dei coloni. A Nuova Valenza scrisse la famosa lettera-manifesto al re Filippo II, firmandosi
«Figlio di fedeli vassalli in terra basca e ribelle sino alla morte
per la tua ingratitudine, Lope de Aguirre, il Peregrino»20. L’atto
di ribellione al re, per Aguirre, è giustificato dai diritti negati ai
conquistatori: E bada, re e signore, tu non puoi portare il titolo
di re giusto e, allo stesso tempo, trarre benefici da questo paese
in cui non hai avventurato alcunché, senza aver prima ricompensato quanti vi hanno penato e sudato il loro sangue». La
lettera è una requisitoria contro i funzionari e gli amministratori
del Perú, contro il clero, contro lo sfruttamento di coloro che
avevano conquistato un regno e i cui servizi erano stati misconosciuti. Contro le guerre in Germania, fatte con le ricchezze
estratte dal Perú, contro le responsabilità del re per il fatto che
«tu eccellente re e signore, abbia conquistato la Germania con
le armi e che la Germania abbia conquistato la Spagna con i
suoi vizi». Il 27 ottobre, nei pressi di Barquisimeto, con Aguirre
braccato e circondato, abbandonato da molti dei suoi, si compì
la tragedia: «pugnalò la sua unica figlia, una meticcia molto bella,
per cui nutriva grande affetto e disse che la uccideva affinché
non rimanesse sola con i suoi nemici e non venisse chiamata la
figlia del tiranno». Fu ucciso con due colpi di archibugio. La
testa gli fu mozzata, messa in una gabbia di ferro ed esposta al
pubblico: la mano destra fu inviata a Merida e la sinistra a Nuova
Valenza «come fossero le reliquie di un santo»21. Qui termina la
storia di Aguirre: piccolo di statura, emaciato in volto, zoppo per
un’archibugiata, insonne e instancabile, vivacissimo, perspicace
e instabile. L’uomo Aguirre è poi diventato un mito dalle mille
facce, dal dannato angelo del male al visionario libertario. Non
Amazzonia 63
prendo partito, perché la spedizione interessa per ciò che svelò
agli occhi europei, più che per la personalità del suo sciagurato
condottiero.
Torniamo dunque all’Amazzonia svelata dai resoconti dei
testimoni della spedizione22. Il fatto che le testimonianze siano
plurime, offre un vantaggio rispetto all’unico racconto disponibile della spedizione di Orellana, anche se il quadro generale
che emerge da queste contiene molte più conferme che smentite del racconto di Carvajal. Gli estensori delle relazioni della
spedizione di Ursúa-Aguirre appaiono sovrastati dai drammi di
cui furono testimoni e protagonisti, sui quali si concentrano; la
loro attenzione, e il loro interesse personale, li distolse dalla descrizione e dall’osservazione puntuale dell’ambiente amazzonico.
Carvajal appare, invece, un osservatore più attento della realtà
che si dipanava sotto i suoi occhi e, del resto, fu la natura di tale
realtà (la difficoltà di risalire la corrente per tornare al campo di
Pizarro, le distanze, l’ignoto) che «forzò» i rionauti a continuare
la discesa del fiume fino al mare.
Le due spedizioni ebbero molti punti in comune: ambedue
finirono in mare aperto e in isole prossime alla costa venezuelana:
Cubagua e La Margarita; simile fu la durata: 243 giorni quella
di Orellana, 294 quella di Ursúa-Aguirre; entrambe le spedizioni
furono costrette a sostare frequentemente e a volte a lungo, e i
giorni di navigazione furono circa un centinaio, con una «velocità» di spostamento di circa 50 chilometri al giorno. Ambedue
dovettero costruire e attrezzare nuove imbarcazioni durante il
viaggio, in cantieri di fortuna. Il problema principale delle due
spedizioni non fu l’ostilità degli indios – che quasi sempre fu
difensiva o di reazione – bensì la penuria di cibo, e il metodo
comune per procuraselo fu la razzia.
Due parole vanno dette anche sulle differenze tra le due
spedizioni: quella di Orellana fu casuale e improvvisata, mentre
quella di Ursúa-Aguirre fu pianificata; la prima raggiunse il Grande
Fiume scendendo per il Napo, affluente della riva sinistra o nord,
la seconda scendendo per lo Huallaga, affluente della riva destra
o sud; la prima contava poco più di una cinquantina di uomini, la
seconda ne aveva tre o quattrocento, più un numero forse doppio
di persone al seguito; la prima viaggiò in una vera e propria «terra incognita» per gli spagnoli che avevano messo piede in Perú
solo pochi anni prima, la seconda approfittò delle conoscenze
accumulate nel ventennio precedente; la prima, vulnerabile, evitò,
64 Capitolo terzo
quando possibile, il contatto con i nativi, la seconda, che si definì
«armata», non ne ebbe timore, pur ingaggiando frequenti scaramucce e battaglie con le popolazioni rivierasche. Mi soffermo un
poco sulle maggiori «conoscenze» a disposizione della spedizione
di Ursúa, conoscenze che non derivavano solo dalla relazione di
Carvajal ben nota, ma anche dalle esperienze di altre spedizioni
– spagnole e portoghesi – che avevano cominciato a delineare le
caratteristiche del Grande Fiume e delle popolazioni rivierasche.
Con Ursúa c’era Alonso Esteban, uno dei rionauti di Orellana23;
la spedizione, inoltre, si avvalse delle conoscenze di alcune guide
che avevano fatto parte di una sorprendente migrazione a monte,
in provenienza dal basso corso del Grande Fiume. Si trattava dei
circa 300 indios Brasiles che si materializzarono nella città peruviana di Chachapoyas nel novembre del 1549, avendo risalito il
Río delle Amazzoni prima e lo Huallaga poi, in provenienza dal
Pernambuco. Questi indios dettero origine alla diceria delle grandi
ricchezze delle terre degli Omaguas.
Avevano raccontato, questi indiani, di essere partiti, in numero di
dieci o dodicimila, dalle loro terre sulla costa del Brasile, su molte piroghe
con le loro donne e i loro figli. Avevano impiegato più di dieci anni per
giungere in Perú lungo questo fiume, e, dei dodicimila indiani partiti ne
erano sopravvissuti soltanto un trecento, con alcune donne [...] Dicevano
tali meraviglie del fiume e delle province circostanti, e specialmente della
provincia di Omagua, del suo gran numero di abitanti e di ricchezze che
destarono in molte persone il desiderio di vederle e di scoprirle24.
Già il portoghese Diogo Nunes aveva riferito (in una lettera
al re Giovanni III) di averli incontrati tra i Machifaros nel 1538
discendendo il Fiume al seguito di un mercante. Ebbene, le guide
brasiles fecero parte della spedizione, ma si eclissarono nella parte
finale della navigazione del fiume, nella sosta nel villaggio della
Jarcia forse, ipotizzarono i cronisti, per riunirsi al loro popolo.
Sul popolamento dell’Amazzonia le cronache confermano
quanto già è emerso dal resoconto di Carvajal. In primo luogo
l’esistenza di lunghi tratti apparentemente spopolati, despoblados, come viene spesso riferito. Per esempio, arrivati al villaggio dell’isola Carari si dice che «fu il primo che incontrammo
dai Caperuzos [«Incappucciati» per il curioso copricapo, che
vivevano poco a valle del cantiere di partenza] per più di 300
leghe, tutte spopolate»25. Non avevano sofferto la fame (per le
Amazzonia 65
provviste iniziali, l’abbondante pesca, la quantità di tartarughe
e delle loro uova trovate sulle rive), ma popolazioni e villaggi
non ne avevano incontrati. Un altro tratto spopolato – di circa
150-200 leghe – nel quale la spedizione soffre la fame, è quello
tra la provincia dei Carari e quella dei Machifaros: «senza averlo
previsto andammo per nove giorni in un tratto spopolato»26:
la pesca supplì alle necessità in minima parte, le riserve erano
poche, e Almesto imputa a Ursúa scarsa previdenza e accortezza. In un altro tratto di fiume – dopo la partenza dal villaggio
delle «Matanzas» – navigano otto giorni e sette notti (diverse
centinaia di leghe) «senza fermarsi»27; è da presumere che anche
questa parte del fiume fosse relativamente spopolata, perché la
regola era, dove c’erano villaggi, di accamparsi di notte vicino
a essi. Nella lettera a Filippo II, Aguirre afferma: «È un fiume
grande e terribile: ha una foce di ottanta leghe d’acqua dolce
[...] grandi banchi di sabbia, ottocento leghe di rive disabitate,
come tua Maestà potrà vedere in una relazione, ben veritiera, che
abbiamo fatto»28. Forse Aguirre esagerava (attribuiva all’intero
percorso 1.500 leghe di lunghezza) e se non la metà, per almeno
un buon terzo le rive appaiono spopolate: dico appaiono, perché
la percezione dei naviganti era limitata all’osservazione delle rive
e spesso di una sola di esse data la larghezza del Fiume.
Nelle aree popolate le relazioni non danno molti elementi per
apprezzare la frequenza e l’intensità degli insediamenti. Nell’isola di Garcia (dove si era attestato Garcia de Arce in attesa del
grosso della spedizione) c’erano due villaggi, «ciascuno di 30
case o più». Villaggi abbastanza grandi, dunque, con qualche
centinaio di abitanti. Tutto il tratto di fiume cui viene attribuito
il nome di «provincia dei Carari» appare, come già detto, costellato di villaggi, «tutti sulle rive rialzate del fiume, senza che
ci sia molta distanza l’uno dall’altro». Ma, aggiunge Almesto, in
apparente contraddizione, «nei villaggi che vedemmo, ci saranno
stati sette o ottomila indios abitanti e, a dir tanto, diecimila»29.
E poiché la provincia dei Carari si sarebbe estesa per 150 leghe,
la densità insediativa doveva essere assai modesta: se l’intero
percorso amazzonico fosse stato insediato come lo era Carari,
la popolazione rivierasca totale non avrebbe superato un quinto
di milione!30 Ma il ragionamento può essere rovesciato: poiché
la navigazione percorreva una ventina di leghe al giorno, e gli
insediamenti erano generalmente di qualche decina di abitazioni,
la spedizione avrebbe avvistato – nella provincia dei Carari – una
66 Capitolo terzo
mezza dozzina, o più, di villaggi al giorno31. Non poco, dopo
giorni e giorni di viaggio su rive spopolate. Ma Almesto dice
«nei villaggi che vedemmo», e può ben darsi che volesse dire nei
«villaggi che visitammo», e che i villaggi visti o visitati fossero
una frazione incognita del totale e che la popolazione fosse assai
più numerosa. Assai più generoso è Altamirano che attribuisce
al maggior villaggio dei Carari 8.000 abitanti (una cifra che non
ha rapporto con la realtà amazzonica), e riferisce che nel luogo
dove si erano accampati «per più di quattro leghe a monte e a
valle c’erano campi coltivati a yucca e mais», e tanta frutta, «da
sfamare l’intera armata per sei mesi»32. Cioè, il villaggio avrebbe
potuto ragionevolmente avere dimensioni dello stesso ordine di
grandezza dell’armata, diciamo un migliaio o più di abitanti. Tra
i Carari e i Machifaros – secondo Altamirano – sta il villaggio (o
terra) degli Arimacoa, di 6.000 abitanti, con i recinti acquatici
che ospitano 4.000 tartarughe, catturate d’estate per nutrirsi
d’inverno. Il villaggio delle Matanzas si estendeva per 2 leghe (3,
secondo Altamirano), con case poste in fila poco distanti l’una
dall’altra. Supponendo 10 chilometri di lunghezza, e abitazioni
disposte ogni 25 metri, si tratterebbe di 400 case con altrettante
famiglie, cioè circa 2.000 persone (o un multiplo di 2.000, se ogni
casa ospitava più di una famiglia). L’armata occupa una metà del
villaggio espellendone gli indios. Prima della stretta di Obidos, su
entrambe le rive, si avvistano numerosi villaggi. Il villaggio della
Jarcia, dove i brigantini furono dotati di alberi, vele e sartiame –
abitato dagli indios provvisti di frecce avvelenate – doveva avere
dimensioni notevoli. Il villaggio era ben provvisto di mais e di
yucca, di reti e amache e cordame; c’erano due capanne che i
cronisti ritennero adoratori per riti sacrificali: «dinnanzi alla
porta di queste capanne, ci sono due pietre sacrificali, su cui ci
parve che dovessero sgozzare le loro vittime. Su una sta dipinto
il sole con una faccia d’uomo, la quale rappresenta gli uomini,
e sull’altra, sta dipinta la luna con la faccia di donna, la quale
rappresenta le donne». Sono tutti elementi che riconducono a
una popolazione strutturata e relativamente numerosa33.
Queste considerazioni sono, naturalmente, molto generiche,
ma di più non si può dire dato che disponiamo di relazioni basate
su ricordi, o appunti, di persone più preoccupate di riferire i
dati «politici» della spedizione, piuttosto che quelli geografici o
antropologici. Gli indios in genere appaiono curiosi, inclini allo
scambio e al baratto, abbastanza socievoli. La situazione cambia
Amazzonia 67
quando le soste si protraggono e l’esigenza di nutrirsi muta lo
scambio in requisizione, razzia e violenza. E allora la triste fama
precede la spedizione: quando Ursúa parte dall’isola di Garcia,
nella provincia di Carari per un lungo tratto si incontrano villaggi
abbandonati «e gli indios fuggivano per timore dell’armata e
delle stragi che Garcia de Arce aveva compiuto nell’isola». E ne
avevano ben ragione, perché nel timore di aggressioni da parte
degli indios «per spaventare gli altri ne avevano passati a fil di
spada e di coltello più di quaranta in una capanna, dietro consiglio e ordine di Garcia de Arce, a quanto si disse»34. Sempre
tra i Carari, e tra i Machifaros, c’era sicuramente una struttura
sociale e gerarchica abbastanza sviluppata, con la presenza di
«cacichi». Gli indios non vivono solo di caccia e pesca o raccolta; ci sono campi di mais e di yucca (quasi ovunque), si fa una
sorta di «acquacultura» per nutrirsi di carne e uova di tartarughe
(Machifaros), si preparano e conservano bevande fermentate
(Jarcia), si tengono i lagartos (iguane) legati alle capanne per
nutrirsene. Né la tecnologia è del tutto elementare: si tesse e si
colora il cotone e ci si adorna di piccoli gioielli d’oro (Carari); ci
sono archi ed estolicas e frecce avvelenate (Jarcia); si fanno vasi
di terracotta; si «calzano sandali di pelle di cervo attaccati con
cordicelle, simili a quelli usati in Perú» (estuario)35.
Infine, le dimensioni dell’«armata» esigevano un tributo
pesante dagli indigeni nelle aree più popolate. Non a caso le
lunghe soste vengono fatte presso i maggiori insediamenti, situati
in luoghi presumibilmente favorevoli, con colture poco distanti,
qualche riserva di cibo cui attingere, manodopera da «costringere» nel servizio o nel procurare cibo. Potremmo teorizzare
che un’armata di un migliaio di persone esigeva, giornalmente,
il «prodotto» della coltivazione, e della caccia e della pesca, di
almeno altrettanti indios: non importa se il tributo era volontario,
forzato o ottenuto con scambi. Le rive despobladas generano la
paura della fame; i piccoli insediamenti servono a poco e in genere
gli abitanti sono fuggiti; nei villaggi più grandi e nelle zone più
popolate l’armata fa sosta e la forza delle armi convince i riottosi,
finché ci sono scorte. Va infine detto che l’iniziale, numeroso
seguito della spedizione andò assottigliandosi; nel villaggio dei
Brigantini si patì la fame perché «in quella contrada trovammo
solo manioca selvatica e, per poterla mangiare, bisognava farne
cassava e, per farla bisognava avere servitori indiani mentre quasi
tutti ci erano morti»36. Di certo si esagera, visto che alla fine del
68 Capitolo terzo
viaggio vennero abbandonate cento (o centosettanta) persone di
servizio e che altre se le portarono sicuramente dietro per mare.
Ma uccisioni, morti e fughe dovettero assottigliare notevolmente
la numerosa intendenza.
Per quanto riguarda il popolamento, si possono azzardare alcune
considerazioni. Molti tratti del fiume, forse un terzo del’intero suo
corso, apparivano spopolati. Altri tratti apparvero ai naviganti bene
insediati, con costellazioni di modesti villaggi rivieraschi. C’erano
anche villaggi relativamente grandi, se tali possono considerarsi
insediamenti di varie centinaia, e in qualche caso di qualche migliaia,
di abitanti. Infine, nulla o quasi può desumersi, dalle relazioni di
viaggio, circa il popolamento delle valli dei fiumi affluenti, delle
aree interfluviali e di quelle interne.
dove si aprono
le virgolette?
Almesto e Vázquez, nel riferire dello sbocco in mare della
spedizione, inseriscono alcune pagine sul Grande Fiume, «lungo
più di milleseicento leghe dalla sua sorgente al mare, ossia dal
punto in cui ci imbarcammo». Possiamo far nostre le conclusioni
(mantenendo le riserve sui numeri): «Oltre al calore intollerabile,
questo fiume è malsano e scarsamente popolato, giacché, su un
così lungo tratto e nelle località abitate che incontrammo, non
possono esserci più di quindicimila indiani»37.
Presso queste popolazioni si trovano molte giare d’argilla
assai ben fatte e ben cotte, decorate con notevole finezza, dipinte e lavorate in mille modi, e verniciate come in Spagna.
Non vedemmo né oro né argento, se non in quelle province da
noi chiamate Carari e Manicuri, dove alcuni indiani portavano
orecchini e «caricuries» (adorni) d’oro, del resto rari e molto
piccoli. Comunque, conoscono tali metalli e li stimano più degli
altri, per cui ci parve che dovessero saperne qualcosa. Indossano
tunichette di buona tela, molto decorate, almeno quelli della
zona dei Carari. Per tutta la lunghezza del fiume, dal paese dei
Caperuzos sin presso la foce, non trovammo mai sale. Gli indiani
non ne posseggono, né lo conoscono, né dunque ne mangiano,
né vi paiono interessati»38. Parzialissima sintesi, si dirà, dalla
quale traspare tuttavia un incontrovertibile giudizio: la grande
immensità dell’Amazzonia – o, meglio, delle rive del Grande
Fiume – era poco popolata. Attribuire un numero a questo aggettivo è impossibile, ma l’utilizzo della parola milione potrebbe
giustificarsi, forse, come limite massimo.
IV. Padre Cugia dalla Sardegna alle rapide del Marañon.
Gesuiti alla conquista spirituale del Grande Fiume.
Vangelo, asce e machete. Molto «ingenium»,
poca «prudentia». Caleidoscopio etnico, babele linguistica.
In centrotrent’anni, 161 padri e 152 effimere missioni
I
gesuiti Gaspare Cugia, un sardo animoso, e Lucas de la
Cueva, furono i primi evangelizzatori dell’alta Amazzonia, cioè di
quell’immensa regione nella quale il Marañon, terminato il suo
viaggio di discesa dalle Ande, si distende nelle sterminate pianure
del continente. Partiti da Quito alla fine del 1637, scesero alla città
di Jaen, si imbarcarono sul Marañon e il 6 febbraio arrivarono in
canoa a Borja, un insediamento con qualche decina di residenti
spagnoli fondato diciannove anni prima1. Per arrivarci dovettero
percorrere le pericolose rapide del Pongo («porta») di Manseriche,
dove il fiume si apre uno stretto varco negli ultimi rilievi andini.
[Il] fiume che prima, e dopo, ha le sembianze di un mare, desta
sorpresa e sconcerto precipitandosi in questo stretto passaggio [...] che
viene percorso col nome di Gesù e il Credo sulle labbra perché il rischio
di morte è sempre alla vista [...] il fiume si precipita contro le alte rocce
a strapiombo con tale forza che le acque si rivolgono formando grandi
vuoti e profondi gorghi2.
Così descrisse l’ingresso nella regione dei Mainas padre de la
Cueva , pioniere di un’azione evangelizzatrice che durò centotrenta
anni, impegnò qualche centinaio di religiosi dell’ordine, fondò
oltre centocinquanta insediamenti dalla vita piuttosto effimera
in una regione grande quanto la penisola iberica.
Quel che si sa delle popolazioni amazzoniche, dopo le navigazioni iniziali e prima che, a partire dalla metà del Settecento,
occhi indagatori di cultura moderna ne dessero nuove descrizioni,
deriva quasi esclusivamente dalla penna di missionari come i padri
Cugia e de la Cueva: dai diari, dalle lettere e dai rapporti che
scrissero ai loro superiori, ai confratelli, ai familiari. Il sistema
delle missioni di Mainas – nel territorio che oggi è di Ecuador,
72 Capitolo quarto
il passo non
è chiaro
Perú e Brasile – rientra in quel patto non scritto fra le autorità
coloniali e l’ordine gesuitico che aveva una doppia funzione.
Per le autorità si trattava di consolidare quei territori di confine, lontani dagli stabili insediamenti spagnoli, dove maggiore
era il rischio delle infiltrazioni portoghesi. Per i gesuiti si trattava
di conseguire il primato nell’opera di evangelizzazione e una
sorta di esclusiva rispetto ad altri ordini religiosi. Sorsero così le
missioni del Paraguay (nelle vallate dei fiumi Paraná e Uruguay),
le più fiorenti, popolose e strutturate al confine meridionale
del Brasile; quelle dei Chiquitos e dei Mojos, nell’alto bacino
del fiume Paraguay le prime, e del Madera le seconde; quelle
dei Mainas nell’alto bacino amazzonico, quelle dell’Orinoco. Si
trattava di aree strategiche per il controllo delle comunicazioni
e per arginare le pretese portoghesi, poste anche a protezione
delle vie di accesso alle ricche aree minerarie peruviane3. Per i
gesuiti queste ampie zone di confine rappresentarono il teatro di
un’opera di evangelizzazione, attuata con la «riduzione» – cioè
la concentrazione – degli indios in villaggi (che furono vere e
proprie piccole città nel Paraguay) sotto lo stretto ed esclusivo
governo religioso e temporale dei missionari. Un’opera che riuscì molto bene nel Paraguay, ma che incontrò gravi difficoltà e
insuccessi nelle fluide società amazzoniche.
La spinta colonizzatrice aveva portato gli spagnoli a valicare
le Ande e a penetrare nel versante amazzonico nella seconda
metà del Cinquecento. Riprendiamo brevemente le vicende già
ricordate (cfr. cap. I). L’immigrazione era giunta ai piedi del
versante orientale, con la creazione di diversi insediamenti, quasi
sempre di breve durata, formati da spagnoli e meticci in cerca
di oro – specialmente nella regione di Zamora – e di indios da
incorporare come servi nelle encomiendas o da schiavizzare. Si
trattò di una penetrazione senza regole, che provocò sanguinose
sollevazioni (Quijos nel 1573, Jivaros nel 1599), la fondazione e
l’abbandono degli effimeri centri (Sevilla de Oro, Zamora, Logroño), le fughe degli indios verso le zone meno accessibili, un
generale spopolamento, anche in seguito alle prime incursioni
epidemiche. Si determinò una frattura dello sparso tessuto del
popolamento indigeno che dall’alta montagna si estendeva fino
alla selva amazzonica4. Il rapido declino del distretto di Quijos è
un esempio relativamente ben documentato di questa profonda
crisi. L’arrivo dei padri Cugia e de la Cueva segnò l’inizio di una
nuova fase, che si sovrappose e poi si sostituì alla precedente,
Amazzonia 73
che aveva segnato il fallimento del primo secolo di tentativi
di colonizzazione. Una colonizzazione che aveva impresso un
marchio profondo alle relazioni tra europei e indios, improntate
alla rapina e allo sfruttamento dei primi sui secondi, e favorite
dalla lontananza da quelle regole che la madrepatria e le autorità
coloniali si sforzarono di imporre, con efficacia variabile, a ovest
delle Ande.
Il campo d’azione dei gesuiti fu una vastissima regione chiamata Mainas, che comprendeva popolazioni distinte e diverse.
La possiamo descrivere come un tozzo triangolo, la cui base si
estendeva lungo il piede delle Ande, grosso modo tra l’equatore
e 6° di latitudine sud, cioè tra il basso corso del fiume Aguarico
(affluente del Napo) e il medio corso dell’Ucayali, per un’estensione di circa 700 chilometri. Il vertice del triangolo si situava
alla confluenza del Río delle Amazzoni con il Javarí (dove oggi
si trova il triplice confine tra Brasile, Perú e Colombia), a quasi
1.000 chilometri dalla base del pedemonte andino (grosso modo
tra i 70° e i 78° di longitudine ovest). I due lati del triangolo erano
delimitati, a nord, dal corso del Putumayo e, a sud, da quello
del Javarí. Nel periodo di massima espansione (cioè all’inizio
del Settecento) l’azione dei gesuiti si estese lungo il corso del
Río delle Amazzoni ben oltre la confluenza con il Javarí, e fin
quasi a quella col Río Negro (60° ovest, a 10° di distanza) per un
altro migliaio di chilometri. Possiamo dire che l’estensione della
regione fino al Javarí – ed escludendo la temporanea espansione
a valle verso il Río Negro – fosse equivalente, all’incirca, a quella
della madrepatria spagnola5. Ma il popolamento era assai sparso
e, come vedremo meglio in seguito, poteva aggirarsi attorno a un
centinaio di migliaia di abitanti6. L’accesso a questa regione, da
Quito, la metropoli sede dell’Audiencia, del provinciale dei gesuiti
e delle alte autorità coloniali, era arduo e complicato. Bisognava
scavalcare le Ande a oltre 4.000 metri di altezza, ridiscendere il
versante orientale per lunghi percorsi difficili e impervi anche per
i muli, percorrere lunghi tratti della selva, raggiungere finalmente le vie d’acqua che per la pendenza avevano ancora correnti
assai forti e pericolose nei periodi delle piogge e delle piene, e
raggiungere finalmente il Napo, uno dei maggiori affluenti del
Grande Fiume. Da qui le comunicazioni diventavano assai più
agevoli, e le vie d’acqua permettevano navigazioni più tranquille
nella stagione priva di piogge e il trasporto, relativamente rapido,
di persone e di cose7. Un percorso giornaliero di molte decine
74 Capitolo quarto
di chilometri, procedendo da monte a valle, era possibile, ma
quando occorreva risalire la corrente – per quanto vigorosi e
avvezzi alle fatiche fossero i rematori – ogni lega ne valeva tre o
quattro in discesa. Da Borja8 sul Marañon, sede del governatorato
civile della regione, fino a Loreto non lontano dalla confluenza
col Javarí, c’erano circa 1.200 chilometri che potevano essere
percorsi in due settimane. Più o meno simile era la distanza che
separava Loreto da Puerto Napo, che era l’imbarco normale
per chi proveniva da Quito. Ma per arrivare, per esempio, alla
missione degli Andoas, che stava nel medio corso del Pastaza,
occorrevano quindici o più giorni per risalirne la corrente, partendo dalla confluenza con il Grande Fiume.
Un’idea della lunghezza e della complessità del viaggio si può
desumere da diari e racconti. Il basco padre Manuel J. Uriarte
era passato dalla Spagna alle Americhe nel 1743 e nel 1750 fu
destinato a una Missione sul fiume Napo. Nel suo diario si legge
che partì da Quito il giorno di Natale del 1750, accompagnato
da quattro religiosi destinati alle missioni, con gli indios portatori, essenziali per trasportare i bagagli dei padri (tra questi
non mancava mai un altare portatile)9. Presumiamo – il diario
di Uriarte non ne fa menzione – che portassero anche pezze di
tessuto e asce, cunei, machete, chiodi, utensili di ferro, vale a
dire la dotazione assegnata ai missionari per assicurarsi l’adesione e il consenso degli indios10. Scavalcate le Ande al passo
di Papallacta (4.065 metri di altezza), rimandarono indietro le
cavalcature inutili per l’impervia discesa del versante orientale
fino a Baeza e poi nella valle tra il vulcano Antisana (quasi 6.000
metri) e il massiccio del vulcano Sumaco (quasi 4.000) fino alla
«città» di Archidona, dove arrivarono per l’Epifania tredici giorni
dopo. Lì Uriarte sostò per poi proseguire con i suoi compagni
via terra fino a Puerto Napo, dove il gruppo si imbarcò sulle
canoe il 20 gennaio; superati vari inconvenienti – una bufera, un
indio gravemente ammalato – il 28 fece sosta lungo il fiume alla
piccola missione di San Luís Tiriri. Questa era, allora, in via di
costituzione, abitata da «venti adulti capifamiglia» che stavano
costruendo le loro capanne; da qui i religiosi proseguirono fino
alla destinazione finale di Uriarte, Nombre de Jesús Maria, un
villaggio di sette grandi capanne e trenta famiglie, dove arrivò il
30 gennaio. Erano stati percorsi circa 700 chilometri, ma l’arrivo
non era definitivo perché Uriarte doveva visitare altri insediamenti
nella zona. Prima di farlo, passò un mese e mezzo a Nombre
atten
trasf
Amazzonia 75
de Jesús perché, essendo scoppiata un’epidemia di «catarros y
curso de sangre», dovette dare assistenza, organizzare la ricerca
di cibo che scarseggiava per via del gran numero di infermi e
del timore che i pochi sani avevano di due «tigri» (linci) razziatrici, che avevano ucciso un bambino e ferito un adulto. Dei
centocinquanta abitanti del villaggio l’epidemia uccise ne quaranta («tutti battezzati, meno una donna che ricusò il battesimo
dicendo che tanto non sarebbe morta»), seminando il terrore tra
i sopravviventi. Questi vollero disertare il villaggio ma Uriarte
e i suoi compagni di viaggio si dettero da fare per dissuaderli:
«arredai meglio che potei la chiesa con oggetti portati da Quito,
statue e stampe; avevo portato in due casse due busti, abbigliati,
del Santo Nazareno e della Dolorosa». Finalmente poté ripartire
e visitare il villaggio «annesso» di San Miguel, dove il padre
Francesco Real, genovese, era stato ucciso e gli indios si erano
dispersi nella selva. Risalì il fiume Aguarico per nove giorni,
con varie vicende, riuscendo a convincere un curaca a seguirlo
con quaranta indios e a insediarsi nel semideserto San Miguel.
Da qui ritornò finalmente a Nombre de Jesús, il 18 aprile «con
grande gioia degli abitanti, che mi festeggiarono a dovere»: dopo
quattro mesi dalla partenza da Quito poté iniziare la sua stabile
opera evangelizzatrice che sarebbe terminata solo diciotto anni
dopo con l’espulsione da Mainas11. I trasferimenti di un missionario come Uriarte spesso si allungavano per le visite alle altre
missioni, eventi accidentali o straordinari come un’epidemia, un
conflitto tra indios, un tentativo di trovare nuovi adepti per le
fragili missioni.
Altri aspetti dell’ambiente e della geografia della regione, e
della loro influenza sugli insediamenti, la mobilità, il trasporto
emergeranno in seguito; vale per ora ricordare che l’evangelizzazione della grande regione dei Mainas traeva forza da Quito e
attenzione: nel file dal mantenimento di un flusso, quantitativamente modestissimo,
questo era
l’esponente di notizie, persone, manufatti attraverso la gigantesca barriera
11bis, qui delle Ande12.
trasformato in 12.
L’ingresso, chiamiamolo ufficiale, dei gesuiti in Mainas con i
padri Cugia e de la Cueva, necessita una premessa. Nel febbraio
del 1635 gli indios del distretto di Borja risposero alle vessazioni
subite con una sollevazione cruenta; fecero strage di trentaquattro
spagnoli – encomenderos e loro familiari, ufficiali e soldati – e assaltarono la città costringendo gli scampati ad asserragliarsi nella
chiesa. Gli attaccanti poi si dispersero, e qualche giorno dopo
76 Capitolo quarto
una spedizione di soccorso «pacificò» la regione. I risultati della
repressione – che colpì anche chi non c’entrava con la sollevazione
– furono così descritti dal padre Francisco Figueroa, il gesuita di
maggior spicco della prima fase di evangelizzazione:
[I testimoni] videro tanti indios giustiziati, tanti corpi fatti a pezzi
appesi agli alberi, tanti indios cui erano state tagliate le orecchie, ad altri
il naso, altri mutilati e feriti, le mani e i piedi mozzati a questo e a quello,
piagati e scarnificati fino all’osso dalle frustate quelli che se la cavarono
meglio; e tutto questo non si fermava e continuava con furore: crudeltà
cui nessuno crederebbe se non se ne avesse la prova. E in questa rappresaglia, i soldati [spagnoli] erano aiutati dagli indios Jeveros, feroci quanto
i Mainas, se non di più13.
Questo fu dunque l’immediato antecedente dell’arrivo dei
gesuiti in Mainas, e si capisce bene come tutta l’azione evangelizzatrice si avventurasse su un cammino difficile: è da presumere
che le notizie si diffondessero rapidamente e che il biglietto da
visita degli europei – anche di quelli con il saio o con la tonaca
– non fosse incoraggiante.
I gesuiti erano arrivati in Perú nel 1564, e nel 1586 si erano
stabiliti a Quito; le loro iniziative di evangelizzazione oltre le
Ande furono sporadiche fino all’arrivo a Borja di Cugia e de la
Cueva nel 163814. Più attivi erano stati i francescani, nell’alto
Ucayali alla fine del Cinquecento, e poi quasi contemporaneamente ai gesuiti, nella regione dei Sucumbios, del Putumayo
e dell’Aguarico. Contemporaneamente all’ingresso ufficiale dei
gesuiti, i padri francescani avevano iniziato un’opera missionaria
tra gli Icahuates (o Encabellados) sul Napo, subito fallito15. Ma a
questo fallimento si deve la terza navigazione europea del Grande Fiume a opera di due confratelli in fuga, e immediatamente
dopo la quarta e la quinta, alle quali dedicheremo il capitolo
che segue. Tra l’ingresso e l’espulsione dell’ordine dalle colonie
nel 1768 corrono centotrenta anni. Durante questo periodo si
ha notizia della fondazione di 152 villaggi-missioni, molti dei
quali di effimera vita, normalmente piccoli nuclei di qualche
decina di famiglie. I tentativi interrotti dovettero essere ancora
più numerosi, specialmente nella fase pionieristica dell’azione
evangelizzatrice. In quest’opera furono impegnati 161 sacerdoti
coadiuvati da religiosi non sacerdoti, il cui numero non è dato
conoscere. Il numero dei missionari presenti nella regione fu
attenzione:
nel file
l’esponente
14 mancava.
è giusto qui?
ora è il 15
(vedi nota
corrispondente:
Biedma, La
Conquista...)
Amazzonia 77
sempre molto esiguo: non ce ne furono più di 10 prima della
fine del Seicento, più di 20 fino alla metà del Settecento; e più
di 30 nella fase finale: nel 1768 ne furono espulsi 28. Vi sono
continue richieste da parte dei superiori per l’invio di nuovi
operarios (letteralmente «operai», della vigna del signore), ma
le alte gerarchie civili e religiose a Quito, a Madrid e a Roma
si mostreranno sempre un po’ scettiche circa i successi – veri o
pretesi – dell’evangelizzazione, l’utilità dell’impegno o, quanto
meno, del rafforzamento dell’impegno, a fronte dei costi che
questo imponeva. Desta meraviglia che in un territorio così vasto la tenue presenza dei padri riuscisse a formare un sistema,
una rete certo né fitta né coesa, ma comunque persistente, e
un’azione sia pur approssimativamente coordinata. Certo – come
meglio si vedrà – in questa rete gli indios stabilmente catturati,
se non convertiti, furono pochi: al massimo il numero toccò
le 13 mila unità. Non sappiamo però quale fosse la vera entità
della popolazione di Mainas; sappiamo solo che all’inizio del
periodo era sicuramente assai più grande che alla fine, e che
la quota degli indios delle missioni dovette crescere nel tempo
senza però, presumibilmente, diventare maggioranza. Le buone
comunicazioni per le vie d’acqua e la lontananza da interferenze
dei coloni europei permise sicuramente la costituzione e la «manutenzione» della rete. Ma vi contribuì anche l’organizzazione
gerarchica e quasi militare dell’ordine, il coordinamento delle
azioni, la selezione degli uomini, la loro lunga formazione, le
esperienze acquisite prima di intraprendere l’attività missionaria:
caratteristiche che fecero dei gesuiti l’ordine religioso più capace
nell’opera di conversione dei «barbari». Anche in Amazzonia:
chi vi andava doveva conoscere lo spagnolo, se straniero, e il
quechua, la «lingua dell’inca», come veicolo di comunicazione
con gli indios16.
La pattuglia dei 161 padri aveva caratteristiche interessanti,
che è utile riferire. Quanto all’origine – fino a un terzo potevano
essere stranieri – 62 erano nati nelle colonie, 45 in Spagna, 30
in Germania, 20 in Italia, 2 in Portogallo, 1 in Francia e 1 in
Ungheria17. Tra i superiori che si alternarono alla guida delle missioni di Mainas, i nati in America – che erano 4 su 10 tra i padri
– furono solo 3 su 20, segno (forse) della minor considerazione
nella quale erano tenuti rispetto ai padri di altre provenienze. I
tedeschi, seguiti dagli italiani, erano considerati più motivati e
capaci: può darsi che giocasse un fattore di selezione, connesso
78 Capitolo quarto
alla maggiore distanza dalla cultura spagnola, che veniva superata
solo da chi fosse particolarmente attratto dall’azione missionaria.
I padri venivano singolarmente valutati ogni tre anni dai loro
superiori: Ann Golob ha esaminato e classificato 276 rapporti
individuali con valutazioni (eccellente, buono, mediocre, basso o
nullo) di alcune qualità: ingenium, iuditium, prudentia, experientia,
litera. Le percentuali di giudizi positivi (eccellente e buono) per
le varie qualità furono del 67% per ingenium, 56% per litera,
53% per iuditium, 23% per prudentia e 14% per experientia.
Quest’ultima era sicuramente la qualità più rara, perché pochi
entravano in Mainas con esperienze evangelizzatrici precedenti,
e alla scarsa esperienza era probabilmente legata anche la scarsa
prudentia, figlia della prima. Per 104 padri si ha anche una sorta di
«votazione» media complessiva (da un minimo di 1 a un massimo
di 4) che per appena 9 padri fu superiore a 3 mentre 19 ebbero
meno di 2. In assenza di comparazioni – che pur si potrebbero
fare – con i missionari impegnati in altre parti d’America e del
mondo, questi dati sono più una curiosità che altro18.
Due altri dati sono utili per completare questo ritratto dei
missionari in Mainas: vi entravano, in genere, da uomini fatti,
perché l’età media alla prima assegnazione superava i trent’anni,
e vi restavano oltre dieci anni, in media, un periodo relativamente
lungo tenuto conto dell’alta mortalità dell’epoca, dei rischi di
malattia e di morte (9 rimasero uccisi), dell’usura, dei modi di
vita e dell’isolamento19.
Il drappello dei missionari, durante i centotrenta anni della
loro permanenza in Mainas, esercitò un’azione instancabile di
penetrazione, contatto, convincimento, coazione, organizzazione
delle società indigene – come dimostra l’elevato numero delle fondazioni – in un fare e disfare, con successi, insuccessi e catastrofi
continue. Gli ostacoli maggiori non furono tanto la dimensione
della regione e l’esiguità numerica dei missionari – molti padri
avevano vari villaggi a proprio carico, anche assai distanti gli
uni dagli altri – o la numerosità (non grande) delle popolazioni
indigene. Fu, soprattutto, l’estrema fluidità della società amazzonica, frammentata in decine e decine di gruppi etnici e linguistici
indipendenti, abituati alla mobilità e alla migrazione, che nell’intervento del padre – a volte accompagnato da altri uomini, quasi
sempre militari – vedevano alterare i loro fragili equilibri per
ragioni spesso imperscrutabili dall’esterno. Cosicché la rete delle
Amazzonia 79
missioni, dopo i primi decenni di penetrazione, veniva mantenuta
attraverso un continuo ricambio: comunità che si assottigliavano
o sparivano per l’alta mortalità, la fuga, l’emigrazione; comunità
che venivano ricostituite, magari in altre località, aggregando
nuovi adepti o frammenti di altri gruppi etnici; nuove missioni
presso etnie rimaste ai margini: tutto in un continuo processo di
ricambio. Secondo padre Figueroa, nella regione c’erano almeno
quaranta «province o nazioni», e «le chiamiamo province non
perché siano così grandi da meritarsi questo nome [...] ma perché
parlano distinti idiomi, o sono così separate le une dalle altre
che non si sentono parenti, considerandosi diverse ed estranee
fin dai tempi antichi»20.
In una prima fase dell’evangelizzazione fin verso il 1680, oltre
ai Mainas (che dettero il nome a tutta la regione), che vivevano
nelle zone adiacenti a Borja, prima porta di entrata, l’azione
missionaria si estese ai gruppi insediati nel basso corso dei fiumi
Huallaga e Ucayali (affluenti del versante meridionale del Grande
Fiume), come gli Jeveros e i Cocamas, etnie tra le più popolose,
e negli alti corsi dei fiumi Tigre e Curaray (affluenti del versante
settentrionale). È del 1670 la fondazione di Santiago de la Laguna
sullo Huallaga, a poca distanza della confluenza con il Grande
Fiume, che raggruppò i Cocamas e altre etnie. Santiago divenne
la «capitale» di tutte le missioni, sede del superiore e l’unico villaggio (assieme a Limpia Concepción de los Jeveros) a rimanere
stabilmente sopra i 1.000 abitanti. Nell’ultima parte del Seicento,
i gesuiti si avventurarono nell’alto Ucayali, un’area nella quale
operavano da tempo i francescani provenienti dal Perú, ma dopo
l’uccisione, nel 1695, del missionario padre Richter il tentativo
venne abbandonato. Dal 1681 gli Omaguas che vivevano sulle
isole del Fiume per un lungo tratto dalla confluenza col Napo a
quella con lo Jutai, e che Orellana e Ursúa avevano incontrato
nella loro navigazione, si misero in contatto con Santiago de la
Laguna, in cerca di protezione dalle incursioni dei portoghesi.
Per la verità, per un breve periodo, tra il 1647 e il 1650, avevano
ricevuto la visita dei francescani, uno dei quali, padre Laureano
de la Cruz, incontreremo in seguito. Per un quarto di secolo
padre Fritz tentò avventurosamente l’evangelizzazione di questa
etnia, dispersa in decine di insediamenti, spingendosi a valle del
Fiume, fino a incontrare gli Yurimaguas e gli Ibanomas, questi
ultimi non lontani dalla confluenza col Río Negro. Fu la massima espansione a est, ma fu ricacciata indietro fino allo stabile
80 Capitolo quarto
confine del Javarí dalla pressione portoghese, che nel 1710 era
ormai vincitrice su tutta la linea. Si tenga conto che per i portoghesi era assai più facile risalire il fiume dal Pará che non per
i quitensi varcare le Ande per sostenere le aree di frontiera, un
termine, quest’ultimo, poco appropriato sia per l’estensione del
corso medio del Grande Fiume, sia per il suo tenue popolamento.
«Le canoe portoghesi risalivano [il fiume] ben rifornite di viveri
e di armi. E di tratto in tratto si abbatteva la selva e si fondava
un villaggio, punto di appoggio per successive incursioni» 21.
Ogni sostegno civile e militare all’azione dei missionari spagnoli
doveva invece venire da Borja, e dal drappello di soldati male
armati che vi risiedevano.
Dal 1720 in poi si realizzò una forte espansione, nel bacino
del Napo, dove operò Uriarte (le missioni vennero a chiamarsi
Mision del Río Napo) e nel medio corso del Grande Fiume a
valle della confluenza con il Napo, in quella che poi si chiamò
area della Mision Baja, mentre le aree della prima evangelizzazione (Mision Alta) perdevano popolazione per conflitti, fughe
e alta mortalità22.
Non desta sorpresa che un’opera di evangelizzazione così
dispersa e fluida abbia lasciato dietro di sé un materiale documentario – in termini di quantità e cifre – assai incerto. Per la verità
esiste una documentazione di tipo statistico non trascurabile; una
delle incombenze dei missionari era quella di censire le anime
che avevano in cura e perfino di tenere i registri parrocchiali
dei battesimi, delle sepolture e dei matrimoni (peraltro andati
dispersi e distrutti)23. Ma anche i censimenti (dei quali esiste una
discreta serie per il Settecento) sono di assai mediocre qualità;
i padri avevano spesso a loro carico più di una missione; molti
insediamenti avevano breve durata, altri venivano spostati, altri
ancora venivano fusi; arrivi e partenze erano frequenti. In queste
condizioni di fondo, la documentazione ha uno scarso grado di
affidabilità, soprattutto quando venga messa a confronto con le
solide statistiche delle stabili missioni del Paraguay o dei Mojos
e Chiquitos24. In seguito (cap. VII) cercheremo di desumere da
questo materiale qualche elemento di analisi sulle caratteristiche
demografiche e sociali; per ora interessa conoscere le dimensioni
delle missioni, qualche indicazione sulle tendenze e quale potesse
essere il rapporto tra la popolazione evangelizzata e quella totale
dell’immensa regione.
Nel 1661, a ventitré anni dall’inizio dell’evangelizzazione, pa-
Amazzonia 81
dre Figueroa (che fu ucciso dai Cocamas nel 1666), nella relazione
forse più credibile, meno celebrativa e ben documentata della
sua personale esperienza di quasi vent’anni in Mainas, descrive
dettagliatamente lo stato di Borja e di nove altre missioni con tre
villaggi «annessi», sui fiumi Huallaga, Ucayali, Pastaza e Tigre.
Nel distretto di Borja gli indios vennero distribuiti come tributari
in 21 encomiendas distanti anche 8 leghe; erano circa 700 poco
dopo la fondazione di Borja (1619), ma erano già diminuiti a
400 quando arrivarono Cugia e Cueva, ed erano appena 200 nel
1661, mentre altri (1.000 secondo Figueroa) si trovavano fuggitivi
nella selva25. Una diminuzione rovinosa, a seguito della rivolta
e della repressione, delle fughe, delle epidemie del 1642 e del
1660. Padre Figueroa riferiva che nel 1661 nelle nove missioni
(e i loro annessi) si trovavano 6.880 indios, 3.000 dei quali erano
bambini sotto i sette anni. Gli indios cristiani battezzati erano
3.100, il resto erano catecumeni in attesa di battesimo26. Figueroa
si poneva anche una domanda fondamentale circa la consistenza
della popolazione totale. Poiché – argomenta – sul Marañon e i
principali affluenti fino alla confluenza con il Napo ci sono una
quarantina di etnie – che nomina separatamente – normalmente
composte da un numero di persone attorno al migliaio, con alcune
maggiori di 4-5.000 persone (o anche più), si «possono valutare
nella sfera della Missione [di Mainas] fino a 60 mila le anime
nelle quaranta province ricordate»27. Dunque nel giudizio del
padre gli indios cristianizzati (o in via cristianizzazione) stavano
tra il 10 e il 15% del totale.
Nel 1686 le missioni erano diventate 18: così risulta da
un’indagine ordinata dal vescovo di Quito, Montenegro, che fece
raccogliere anche il numero dei battesimi (di bambini e adulti)
inseriti nei registri dalla fondazione di ciascuna missione al 1686
(circa 103 mila in tutto, ma il loro significato è assai incerto; cfr.
Appendice 2)28. Dal 1719 fino alla fine del secolo sono disponibili una dozzina di conteggi, con copertura geografica, criteri di
raccolta e qualità molto diversi tra loro. Il numero dei villaggi
(alcune missioni controllavano anche piccoli insediamenti annessi)
arriva a un massimo di 41 e la loro popolazione nel 1745 sfiorò
le 13 mila unità, inclusi i catecumeni; nel 1767 erano ancora circa
12 mila in 22 villaggi; dopo l’espulsione il loro numero (sempre
nei 22 villaggi) scese a 9.000 nel 1776 e a poco più di 4.000 nel
179829. L’esiguità della popolazione e il numero variabile dei villaggi impediscono di trarre considerazioni circa la dinamica della
82 Capitolo quarto
popolazione; tra l’altro, a partire dalla metà del Settecento i padri
infittirono le spedizioni nella selva alla ricerca di nuovi adepti.
Ma anche se i dati di base fossero migliori sarebbe assai difficile
accertare se le variazioni fossero imputabili alla dinamica naturale
oppure a quella migratoria. La popolazione dei bambini e degli
adolescenti (di età inferiore ai quattordici-quindici anni) sfiorava
il 50%, percentuali compatibili con gli altissimi livelli di natalità e
mortalità. Se si escludono le due missioni più grandi di cui si è detto
(Santiago de la Laguna, sede del superiore, e Limpia Concepción
de los Jeveros), i villaggi avevano qualche centinaio di abitanti:
mediamente intorno a 300, alcuni meno di 100. Queste modeste
dimensioni erano una causa non ultima della fragilità del sistema
missionario. Un’epidemia, l’allontanamento di qualche famiglia,
qualche marginale conflitto, dissensi con il Padre, potevano facilmente determinare il dissolversi di una comunità. Frequenti furono
gli spostamenti dei villaggi stessi, da siti ritenuti svantaggiosi ad
altri più convenienti. La stessa «città» di Borja, situata sulla riva
del Marañon non lontano dalla confluenza del Santiago, nel 1749
venne spostata a valle tra gli sbocchi del Morona e del Pastaza, in
posizione meno eccentrica rispetto alla regione della quale era la
capitale civile. L’occasione – per così dire – dello spostamento fu
la disastrosa epidemia di vaiolo che aveva colpito il villaggio30. Un
«censimento» degli insediamenti avvenuti nel corso dei centotrenta
anni è inoltre reso difficile dalla loro temporaneità, dai cambi di
nome, dalla mancanza di tracce documentarie. Lo storico Juan de
Velasco, alla fine del Settecento, enumerò 73 missioni (28 nella
Mision Alta, 18 nella Mision Baja, 12 sul Napo, 9 sull’Aguarico, e
6 sul Pastaza), ma aggiunse di non avere incluso villaggi «de poca
consideración» dei quali non era stato in grado di individuare la
data di fondazione, e che dovettero «durar muy poco». Per gli
stessi motivi non incluse 6 fondazioni tra gli Yameos e 9 tra gli
Ucayales, i Piros e i Cunibos abbandonate dopo l’uccisione di padre
Richter che le aveva fondate31. Non sono poi considerati i piccoli
e piccolissimi insediamenti – una quarantina in tutto – nelle isole
dell’Amazzonia nei quali padre Fritz aveva iniziato un’opera di
amichevole contatto e predicazione. Si potrebbe così raddoppiare il
numero dei villaggi che Juan de Velasco aveva elencato con i loro
nomi; secondo un’altra fonte il numero totale degli insediamenti
documentati è di 15232. Se si prende per buona questa cifra, e se
consideriamo che nel secolo precedente all’espulsione il numero
effettivo dei villaggi censiti restò tra le 20 e le 40 unità, si ha
Amazzonia 83
un’idea dell’altissimo ricambio e della breve vita degli esperimenti
missionari (si veda l’Appendice 2).
Nella fase finale i 12 mila cristiani delle missioni dovevano
rappresentare una percentuale assai maggiore di quel 10-15% che
si può stimare in base ai conteggi di Figueroa un secolo prima.
Assumendo che nel frattempo la popolazione totale dell’area di
riferimento si fosse dimezzata (da 60 mila a 30 mila), i cristianizzati sarebbero stati circa il 40% del totale.
Nel 1750 la firma, a Madrid, del Tratado de Limites tra
Spagna e Portogallo aveva posto fine alle loro controversie
territoriali in Sudamerica, stabilendo il confine in Amazzonia
nella posizione attuale33. Veniva così a mancare quella ragione
politica che aveva, sia pure in modo incerto, sostenuto anche
finanziariamente la vita delle missioni. Un costo non trascurabile:
infatti, se nella fase iniziale l’azione missionaria non doveva avere
oneri per l’erario, nel corso del Settecento le casse reali pagavano uno stipendio annuale di 200 pesos per ciascun sacerdote
impegnato in Mainas; l’Ordine contribuiva con risorse proprie al
sostegno dell’azione missionaria per circa un quinto34. Tuttavia,
nonostante le ristrettezze finanziarie, il declino della popolazione
dei barbari gentili, la modesta crescita degli indios convertiti e
l’evidente superficialità delle conversioni, l’azione missionaria si
era intensificata nel tempo.
Il decreto di espulsione di Carlo III mise fine alla secolare
opera dei padri. «Consegnate le Missioni del Marañon ai sacerdoti
secolari segnalati dal Signor Vescovo di Quito, queste decaddero
rapidamente», scrisse Heredia citando le parole di un osservatore
contemporaneo agli eventi:
Confrontate le due situazioni e cioè quella delle missioni anterioremente al 1768 e quella nella quale erano ridotte nel 1788, può dirsi che
attualmente non sono altro che uno scheletro gigante, al quale non restano
se non quarantuno ossi scarnificati, voglio dire quarantuno villaggi, composti delle ultime reliquie di diverse nazioni, e tanto piccoli i più di essi
che, tutti insieme, potrebbero costituire uno di quelli che anticamente si
definivano principali35.
È sicuramente un’esagerazione, perché il declino e la dispersione furono più graduali anche se inesorabili. Se si eccettuano le
aree marginali della selva, nulla restò della missione evangelizzatrice, nemmeno un sottofondo della cultura religiosa, nemmeno
una «cultura popolare» ispirata all’antica predicazione36.
V. Su e giù per l’Amazzonia. Due frati in fuga scendono
il Grande Fiume e allarmano i portoghesi.
Inattesa e sgradita visita a Quito dei coloni del Pará.
Un gesuita colto e attento descrive
l’Amazzonia e riferisce al re
E
ra il 26 settembre 1560 quando la spedizione di Pedro
de Ursúa, inconsapevole del suo destino, si lasciò «alle spalle le
montagne e le cordigliere del Perú» e penetrò «in terra piana,
che si protrae sino al mare del Nord»1. Passarono molti decenni
prima che altri europei replicassero l’impresa, ma quando questo
avvenne, non si trattò di una spedizione organizzata, come quelle
dei primi rionauti, ma di un’iniziativa quasi estemporanea, dettata da circostanze non previste. Furono due fratelli francescani,
Domingo De Brieva e Andrés deToledo, con sei soldati spagnoli,
a imbarcarsi su una canoa sul Napo, il 17 ottobre 1636, per
sbarcare a Curupá, piazzaforte portoghese non lontana dal mare,
il 5 febbraio 1637. Questa terza navigazione europea, a quasi
cento anni dalla prima e quasi ottanta dalla seconda, ha lasciato
tenui testimonianze, determinando però la definitiva conoscenza
del Grande Fiume da parte degli europei2. L’Amazzonia perse
allora definitivamente l’aura di mistero, l’alone mitico intriso di
tragedia che le prime navigazioni non avevano dissolto; entrò
nelle mappe geografiche, venne descritta nei suoi aspetti naturali e antropologici e divenne oggetto di contesa tra Spagnoli e
Portoghesi. Tuttavia, anche durante quel lungo intervallo tra la
seconda e la terza navigazione, le esplorazioni erano continuate;
l’alta Amazzonia, a ovest delle Ande, era stata insediata da pochi
coloni ed encomenderos; gli affluenti del corso superiore del fiume
erano stati percorsi più volte, stabilendo sporadici contatti con le
popolazioni autoctone. Nel corso inferiore del fiume, nel grande
estuario, la contesa tra portoghesi, inglesi, irlandesi, olandesi
e francesi si era risolta a favore dei primi, con la creazione di
insediamenti stabili3. Grandi spedizioni che risalissero il fiume,
alla ricerca di ricchezze da sfruttare, e soprattutto di schiavi,
88 Capitolo quinto
erano state autorizzate dal re, ma non realizzate, e altre furono
limitate al corso inferiore e agli affluenti. Il Grande Fiume si era
– per così dire – «accorciato», sia da ovest che da est, anche se
mancava una sua definitiva e unitaria ricognizione.
Quanto detto vale, naturalmente, per gli europei. Per gli
autoctoni il fiume non era un mistero, particolarmente per i
gruppi più intraprendenti dediti al commercio o alle razzie oppure per quelle popolazioni protagoniste di migrazioni. Del resto,
i trecento indios Brasiles che risalendo il fiume e lo Huallaga
si presentarono agli stupiti coloni di Chachapoyas in Perú nel
1549, erano stati, agli occhi degli spagnoli, la prova del traffico
che più o meno normalmente si svolgeva lungo le vie d’acqua
del bacino amazzonico.
Il viaggio dei due frati e dei sei soldati fu la conseguenza
del fallimento dei tentativi di evangelizzazione organizzati dai
francescani e dai quitensi fin dal 1632 «per la conversione delle
molte anime infedeli e barbare che abitavano nelle estese rive,
isole e terre ferme del Grande Fiume delle Amazzoni – del quale
in quella città e nella provincia di Quito e in altre parti del Perú
si avevano importanti e numerose notizie»4. Questi tentativi erano andati incontro a incidenti e fallimenti, finché fu deciso di
operare tra gli indios Icahuates (detti Encabellados per i capelli
lunghi fino alla vita), sulla sponda nord del fiume Napo, con i
quali erano già stati intrattenuti rapporti pacifici. Tra gli Icahuates
cinque religiosi operarono per vari mesi nel 1636, fin quando
furono raggiunti da una spedizione di trenta spagnoli (con il
solito seguito di indios «amici») al comando del capitano Juan
de Palacios. Non passò molto tempo prima che l’intrusione dei
militari provocasse la sollevazione degli indios «a causa di alcuni
soprusi» e l’uccisione di Juan de Palacios, e quindi l’abbandono
dell’iniziativa da parte di religiosi e militari. Non sappiamo quali
fossero i «soprusi» perpetrati, né quale fosse la reazione degli
spagnoli verso gli Encabellados divenuti ostili: i cronisti che riferirono dell’episodio erano essi stessi religiosi, assai cauti nelle
loro relazioni scritte. Laureano de la Cruz, che era presente, si
limita a dire che «i soldati misero in fuga gli assalitori con una
scarica degli archibugi, uccidendone alcuni»5. Ma l’evangelizzazione appoggiata da militari era quasi sempre destinata a esiti
cruenti. Fatto si è che gli spagnoli abbandonarono la zona e
risalirono il Napo per tornare a Quito. Salvo la pattuglia dei sei
soldati e dei due frati, Brieva e Toledo, che presero la direzione
Amazzonia 89
opposta, i primi attratti dai racconti di ricchezze, i secondi, forse,
da una nuova avventura evangelizzatrice. La canoa sulla quale
erano partiti, con poche provviste approdò al forte portoghese
di Curupá il 5 febbraio 1637, ricevuti dall’attonito comandante
della piazza, Juan Pereira de Caceres. Si profilava anche un
caso politico: nonostante l’unione personale dei regni di Spagna
e Portogallo, l’arrivo di spagnoli dal Perú in zona portoghese
dimostrava la potenzialità della via d’acqua nell’unire l’oceano
alla fonte delle ricchezze minerarie americane (in particolare le
miniere di argento di Potosí, nell’alto Perú) compromettendone
l’isolamento6. Rifornita la canoa, Caceres inviò gli otto alla più
grande «città» di Belém, e da qui vennero rispediti a San Luís del
Maranhão, sede del governatore Jácome Raimundo de Noronha,
perché esaminasse l’intera questione.
Non vi sono resoconti di questo viaggio che ci possano aiutare
a comprendere lo stato dell’Amazzonia, se non qualche raro elemento. Nelle prime duecento leghe (probabilmente ci si riferisce al
basso Napo e al primo tratto amazzonico dopo la confluenza) fino
alle popolazioni Omaguas le rive apparivano deserte7. In generale,
gli otto non ebbero difficoltà di approvvigionamento durante il
viaggio: tra gli Omaguas, grazie a uno dei soldati che parlava la
lingua, furono ben riforniti da un numeroso gruppo di indios8.
Non incontrarono particolari ostilità da parte delle popolazioni
rivierasche: «traversando il territorio di innumerevoli barbari, molti
dei quali cannibali, non fecero loro del male, ma anzi dettero loro
provviste per il viaggio»9. Solo alla confluenza del Tapajós, furono
detenuti e derubati dei loro scarsi averi in un villaggio. A monte
del Tapajós, le rive erano popolate e i due confratelli dissero di
avere avvistato cento o centocinquanta villaggi10.
Se poche informazioni sono giunte a noi, il viaggio dimostrò
ai portoghesi di Belém e di San Luis che la navigazione del fiume
era possibile, che non vi erano ostacoli di rilievo, e che sarebbe
stata agevole per spedizioni bene organizzate. Il governatore
Noronha non ebbe molti dubbi sul da farsi: senza procurarsi
autorizzazioni superiori – del resto il Consiglio delle Indie per
due volte aveva già richiesto, in passato, l’esplorazione del fiume,
ma le iniziative erano poi abortite11 – dispose l’organizzazione di
un’imponente spedizione con il compito di esplorare il fiume,
estendere e consolidare la sovranità del Portogallo bene oltre la
linea di Tordesillas, stabilire il contatto con Quito e il Perú. Va
qui ricordato che secondo il Trattato firmato a Tordesillas da
90 Capitolo quinto
Spagna e Portogallo nel 1494, le terre di pertinenza dei due regni
vennero spartite da un meridiano (approssimativamente localizzato
a 44° 37’ ovest): a ovest del meridano le terre della Spagna, a est
quelle del Portogallo. Secondo la lettera del trattato, tutte le terre
americane – salvo la parte orientale del Brasile, ma escludendo
l’intreo bacino amazzonico) spettavano alla Spagna12. Al comando dell’esplorazione venne posto un veterano dell’Amazzonia, il
comandante Pedro de Teixeira che aveva al suo attivo, tra l’altro,
l’espulsione degli olandesi dalle loro piazzaforti nel fiume Xingu,
quella degli inglesi sulla riva sinistra dell’Amazzonia e una spedizione di «pacificazione» dei Tapajós, fatta risalendo l’omonimo
fiume13. In poco tempo fu allestita un’imponente spedizione,
composta di «70 soldati portoghesi e di 1.200 indios “di voga e
guerra”, che con le donne e i muchachos di servizio saranno stati
in totale, 2.500 persone»14. In 47 grandi canoe, ognuna con 20
rematori, la spedizione prese il via da Belém il 25 luglio 1637;
fece tappa a Cametá (alla confluenza con il Tocantins), da dove
ripartì il 17 ottobre15. Della spedizione faceva parte Domingo de
Brieva, mentre Toledo era stato inviato a Lisbona per diffondere
la notizia del viaggio compiuto16. Dobbiamo la narrazione del
viaggio al gesuita Alonso de Rojas, che non vi partecipò, ma
che avrebbe raccolto la narrazione del piloto mayor, Benito de
Acosta, al quale si dovette anche la prima mappa del fiume; la
relazione sarebbe stata compilata dopo l’arrivo a Quito di Teixeira nel 163817.
Sono da immaginarsi le difficoltà organizzative per mettere
insieme una flotta così imponente, per l’epoca e i luoghi. Belém
era stata fondata nel 1616, e l’intero vasto distretto era abitato da
poche centinaia di famiglie portoghesi, cui venne sottratta forza
di lavoro e di servizio; si temeva inoltre che gli olandesi, bene
insediati nel Pernambuco, potessero attaccare la città, sguarnita
dalla spedizione. Le canoe dovettero essere attrezzate e rifornite
per un lungo viaggio di andata e di ritorno; una complessa catena gerarchica per comandare e guidare la spedizione dovette
essere organizzata. Tutto questo, grazie alla capacità di Teixeira,
venne fatto in pochissimo tempo. Inoltre la flotta doveva risalire
il fiume a forza di remi, contro una corrente mediamente di
quattro o cinque chilometri all’ora: per ogni chilometro di risalita ci voleva il triplo del tempo necessario per ogni chilometro
percorso in discesa. Solo nel tratto inferiore del fiume, il vento
che spirava in direzione est-ovest sostenne la navigazione delle
Amazzonia 91
canoe attrezzate con vele. Per minimizzare lo sforzo, si remava
vicino alle rive, dove la corrente era meno veloce, ma questo
allungava il tragitto e creava altri inconvenienti. La spedizione
dovette essere largamente autosufficiente, procurandosi il cibo
con la pesca e la caccia, con gli scambi con le popolazioni rivierasche ed è da supporre – anche se non si dice – con requisizioni
e razzie. «Mai gli indios aggredirono la spedizione né dentro né
fuori del fiume»; all’inizio mostravano timore, ma poi si facevano
amichevoli, volentieri scambiavano cibo con i consueti doni di
cui ogni spedizione era ben rifornita; se i soldati scendevano a
terra per addentrarsi nelle rive, gli indios prima ostili venivano
poi a più miti consigli. Quanto la pacifica disposizione degli
indios fosse dovuta alla natura, o al numero, all’armamento, e
all’atteggiamento degli inattesi visitatori, non è dato di sapere.
Infine va detto che la spedizione aveva il compito di descrivere
il Grande Fiume, i suoi affluenti, i migliori posti di approdo e
sosta, le distanze, i giorni di navigazione: «il piloto mayor [Benito
de Acosta] che ha registrato tutti i giorni di viaggio e le distanze
dice che si potrebbe navigare il fiume in due mesi» e proprio
questa missione ricognitiva rese lenta la navigazione18.
Seguiamo le vicende del viaggio, prima di raccontarne le osservazioni specifiche d’interesse per comprendere la demografia
e l’antropologia del fiume. Nella sua lenta ascesa, risultò sempre
più difficile mantenere unita la spedizione; c’era irrequietezza tra
gli indios costretti a una lunga assenza dalle loro terre e molti
furono gli abbandoni. Teixeira, come Colombo nella prima traversata atlantica, prometteva prossimo l’arrivo,
i rematori erano alla disperazione per le loro sofferenze ed erano determinati a disertare. Ma Teixeira, dando ulteriore prova della sua anilità,
li persuase che avevano quasi completato l’esplorazione mentre, di fatto,
erano solo a metà strada.
Mandò quindi in avanscoperta una pattuglia di otto canoe,
al comando dell’espertissimo Bento Rodrigues de Oliveira, con
Brieva e due dei quattro soldati spagnoli, e come rematori gli
indios più scontenti e ribelli19. Finalmente il grosso della spedizione, nel luglio del 1638, un anno dopo la partenza da Belém,
dopo aver risalito il Napo ed essere giunto in prossimità della
confluenza con l’Aguarico, fece tappa nelle terre degli Encabellados, da dove erano partiti due anni prima i due francescani e
92 Capitolo quinto
i loro compagni. Da qui Teixeira, lasciato accampato il grosso
della spedizione, proseguì per Quito; raggiunse l’avanguardia
agli ordini di Oliveira nel distretto dei Quijos e via terra raggiunse Quito20. Qui Teixeira e gli altri furono accolti con grandi
festeggiamenti, ma serpeggiava il sospetto per l’arrivo in massa
di una spedizione portoghese in territorio spagnolo. C’era poi il
timore, non infondato, che inglesi e olandesi potessero risalire
in forze la via d’acqua e insidiare la colonia. Una delegazione
– che includeva Brieva e il pilota Benito de Acosta con la sua
mappa – fu inviata dall’Audiencia di Quito a Lima, per ottenere
istruzioni superiori dal viceré conte di Chinchón. La risposta,
il 10 novembre 1638, fu diplomatica ma netta: Teixeira, con i
dovuti onori e aiuti, sarebbe dovuto ripartire al più presto con
tutti i suoi, e ridiscendere il Grande Fiume fino a Belém; due
gesuiti li avrebbero accompagnati, scelti nelle persone di Cristóbal
de Acuña e di Andrés de Artieda, con l’incarico di preparare
una dettagliata relazione di viaggio e di procedere poi alla volta
della Spagna spiegando i complessi termini della questione. Da
questa decisione prende forma la prima dettagliata relazione sul
Grande Fiume, fatta da uomini colti e capaci, non condizionati
dall’ansia di sopravvivere, ma impegnati a osservare, analizzare
e riferire.
La relazione di de Rojas – che fu conosciuta da Acuña prima
della partenza da Quito e dalla quale trasse alcuni passi – ha
diverse considerazioni interessanti, oltre a quelle riguardanti la
geografia. Si nota la grande varietà delle lingue, ma anche che
la lingua «generale» (contaminazione del tupí e del portoghese),
oltre a essere compresa e parlata lungo la costa brasiliana, lo era
anche lungo il fiume, fino a duecento leghe dall’estuario. Sotto
il profilo del popolamento,
tutto questo fiume è disseminato di isole, alcune grandi, altre piccole,
e tante di numero che non si possono contare, cosicché non c’è lega di
navigazione senza che se ne incontri una [...] e queste, anche se grandi,
il fiume le sommerge, quando il livello si alza [...] Le isole grandi sono
abitate da indios in villaggi e frazioni, quelle piccole vengono coltivate e
utilizzate per la semina di yucca e mais in grande quantità, e perché con
le inondazioni non si perda il frutto ed il lavoro delle seminagioni, usano il metodo che segue. Scavano in terra delle buche o cavità profonde
quando la terra inonda le isole, e dentro vi pongono la yucca, coprendole
accuratamente; quando l’acqua si ritira e la terra riemerge, la tolgono e la
mangiano, perché l’umidità non l’ha fatta marcire.
Amazzonia 93
In un altro passaggio si riassume un’impressione generale
sul popolamento:
Lungo le rive di questo gran fiume vi sono popolazioni, alcune grandi,
altre piccole, e che di norma vivono in abitazioni distanziate. I portoghesi
incontrarono un villaggio così grande, su ambedue le rive del fiume, che
navigando tutto il giorno in vista di questo, ed avendo iniziato la navigazione
tre ore prima del sorgere del sole, e fino al tramonto, non arrivarono alla
fine dell’abitato né riuscirono a trovare uno spazio sul quale accamparsi
che non fosse occupato da abitazioni, una di seguito all’altra.
È certo che lo spazio necessario per l’acquartieramento di
una spedizione di oltre duemila persone doveva essere molto
esteso, difficile a trovarsi in un tratto di fiume popolato, anche
se le abitazioni fossero state assai discoste l’una dall’altra. In un
altro passaggio, si ricorre all’iperbole:
Tutto questo Río delle Amazzoni è popolato di indios nelle isole, sulle
rive e nell’entroterra, in tal maniera che per descrivere la moltitudine il
piloto mayor Benito de Acosta, uomo pratico di queste esplorazioni [...]
disse che sono tanti e così innumerevoli questi indios, che se fosse fatto
cadere dall’alto un ago, esso dovrebbe per forza cadere sul capo di un
indio. Tanto è il numero, che non potendo contenerli la terra ferma, si
riversano sulle isole21.
E la popolazione è tanta «che se tutti i sacerdoti che oggi
sono nelle Indie fossero impiegati in questa vigna così estesa,
sarebbero ben occupati, e mancherebbero gli operai». Meno
incredibile è l’affermazione che nel Gran Pará, a San Luís e nel
Maranhão (ma siamo già sulla costa atlantica a sud dell’estuario
stesso), «gli indios insediati nei territori portoghesi e che sono
in amicizia e che potrebbero ricevere la fede cattolica, sono più
di un milione»22.
In questa, come in diverse altre relazioni di religiosi, soprattutto
se di seconda mano come quella di de Rojas, le esagerazioni e le
iperboli sono così frequenti che resta difficile separare il loglio dal
grano, che pure c’è. L’intento propagandistico è spesso evidente:
si esagera il popolamento per invitare le autorità a concedere
autorizzazioni a nuove spedizioni missionarie; si magnificano le
ricchezze potenziali per assicurare il favore delle autorità civili.
Intanto a Quito ci si dava daffare per favorire il ritorno al
Pará dell’insidiosa spedizione di Teixeira. I due «accompagnatori»
94 Capitolo quinto
ufficiali di Teixeira furono due gesuiti di rilievo, Cristóbal de
Acuña, rettore del Collegio di Cuenca (e fratello del corregidor
di Quito, che si era offerto in prima istanza) e Andrés de Artieda, professore di teologia al Collegio di Quito; non mancava
Domingo de Brieva, oramai un habitué, che iniziava così il suo
terzo viaggio transamazzonico nel giro di tre anni. Acuña era
nato a Burgos nel 1597, era a Quito dal 1634, e aveva quindi
quarantadue anni; lui e il suo compagno non erano gli unici
religiosi della spedizione: c’erano anche, oltre a Brieva, quattro
religiosi mercedari, incaricati di fondare un convento nel Pará.
L’Audiencia di Quito, in ossequio alle istruzioni del viceré, in
data 24 gennaio 1639, incaricava formalmente Acuña
di descrivere con diligenza particolare e con la maggiore chiarezza possibile, la distanza in leghe, le province, le popolazioni di indios, i fiumi
e i paraggi particolari che si incontrano dal primo imbarco fino alla città
e porto del Pará23.
La partenza da Quito avvenne il 16 febbraio 1639; da qui
raggiunsero il Napo e poi, a valle della confluenza con l’Aguarico,
il luogo dove attendeva da quasi un anno il grosso della spedizione
portoghese, forte di quaranta soldati e degli indios rematori e
di servizio (probabilmente in numero assai minore che non alla
partenza, per le diserzioni e le morti). Nel frattempo le cose non
erano andate affatto bene: gli Encabellados mal sopportarono i
nuovi numerosi ed esigenti arrivati, continuamente alla ricerca
di cibo. Ben presto sorsero conflitti; tre indios della spedizione
furono uccisi, e la reazione dei portoghesi fu violenta, settanta
indios vennero fatti prigionieri, alcuni furono messi a morte, gli
altri fuggirono. Fu poi guerra continua:
nelle loro imboscate sgozzavano i nostri indios quando capitavano alla loro
portata, ma pagavano poi con le loro vite il triplo di quelle che avevano
tolte. Castigo piccolo in confronto a quanto sono usi fare i portoghesi in
questi casi24.
Perfino dalle caute parole del gesuita traspare il tremendo
conflitto implicito in ogni intrusione violenta nelle società autoctone da parte degli europei.
Nella relazione di Acuña si possono distinguere tre parti. La
prima riguarda gli antecedenti del viaggio, già riassunti sopra.
Nella seconda si offre un quadro geografico del Grande Fiume,
Amazzonia 95
dei suoi affluenti, del clima, della flora e della fauna, dei modi
di pescare e di cacciare. C’è anche un profilo antropologico
delle popolazioni rivierasche, delle loro armi e dei loro utensili,
della navigazione del fiume, dei riti e degli sciamani, della loro
indole. La terza, infine, è una descrizione cronologica delle fasi
del viaggio, delle «province» traversate e dei popoli incontrati.
La relazione di Acuña offre un fondamentale quadro
dell’Amazzonia nel Seicento inoltrato. Il contatto con gli europei
è già avvenuto, a monte e a valle, ma per la maggior parte del
fiume – dalle confluenze dell’Ucayali e del Napo fino a quella del
Tapajós – si tratta (quasi) di un «terreno vergine». Per interpretare
la portata e la veridicità del racconto occorre considerare alcuni
elementi. In primo luogo l’autore, che è persona colta e seria, ha
avuto un incarico specifico dal viceré e dall’Audiencia, e dovrà
poi riferire in Spagna al Consiglio delle Indie e al re. Ma Acuña
è anche un gesuita, con il dovere di obbedienza all’Ordine, un
interesse a promuovere l’evangelizzazione missionaria e a evitare
l’intrusione distruttiva dei coloni; inoltre è diffidente verso i
portoghesi. La tendenza a edulcorare o selezionare fatti e notizie
è evidente. Acuña non è solo; con lui viaggiano Artieda, teologo
e professore, l’ormai espertissimo Brieva, oltreché i lenguas, cioè
gli indios interpreti:, e tanti altri compagni con esperienze amazzoniche: tutti capaci di raccogliere e trasmettere informazioni
e notizie. Inoltre Acuña può dedicarsi con tranquillità al suo
lavoro di osservatore, la sua vita non è in pericolo, la sussistenza
è assicurata, gli indios di servizio gli procurano un certo agio,
compatibilmente con le modalità di viaggio. E infine il viaggio è
lento: la spedizione parte dal porto degli Encabellados nel giugno
1639 e arriva a Belém il 12 dicembre dello stesso anno.
La geografia del fiume è ormai chiara; la lunghezza fissata
(presumiamo dal punto di partenza sul Napo) in 1356 leghe, e
all’intera Amazzonia conosciuta, della quale stima la larghezza in
400 leghe «nel punto più stretto», assegna un circuito di 4.000
leghe: misure non lontane dalla realtà25.
Gli affluenti, sia da nord sia da sud, vengono identificati con
i loro nomi, così come la distanza tra di loro alla confluenza con
il Grande Fiume; si individuano qua e là misure di profondità e
di larghezza, vengono marcate alcune particolarità del corso del
fiume. Benito de Acosta, del resto, ne aveva già fornito una prima
mappa, che probabilmente Acuña aveva visto prima di partire.
La relazione descrive le coltivazioni della yucca e del mais, le
96 Capitolo quinto
curiose modalità di conservazione della yucca (già raccontate da
de Rojas), la fermentazione per ottenerne una bevanda alcolica26.
Racconta della varietà dei pesci, delle caratteristiche di una sorta
di torpedine con le sue scariche elettriche, del pesce vacca, o lamantino, che non è un pesce ma un mammifero e vive nell’acqua,
nutrendosi delle erbe delle rive, e ha la grandezza di un «vitello
di un anno e mezzo». Riferisce della straordinaria abbondanza
delle tartarughe «della grandezza di uno scudo» e del modo di
catturarle, durante il periodo della deposizione delle uova nelle
rive sabbiose del fiume: gli indios praticano un buco nella corazza e vi passano una corda, le rimorchiano nei loro villaggi e le
conservano in stagni cintati da palizzate (già osservati, e descritti,
nelle navigazioni di Orellana e di Ursúa-Aguirre).
Acchiappano queste tartarughe in tale abbondanza, che non c’è recinto
a queste dedicato che non ne contenga almeno cento, ragion per cui questi
barbari non sanno cosa sia la fame, perché una sola basta a satollare una
famiglia per numerosa che sia.
Con una tartaruga si può fare una botija di grasso, che serve
a friggere e cucinare27. Altre sezioni sono dedicate alle piante
medicinali («la migliore officina di semplici»), agli alberi per la
costruzione di imbarcazioni e per le loro attrezzature, alle resine
per calafatare. E poi ci sono le potenzialità del Grande Fiume, in
primo luogo quei prodotti preziosi della terra, come l’ebano, il
cacao, il tabacco, e la canna da zucchero che potrebbero essere
sviluppati o coltivati e che sarebbero «sufficienti per arricchire
non uno, ma molti regni»28. E ancora, il potenziale apporto di
oro di tutti quei fiumi che discendono dalla cordigliera, da Potosí
fino a Quito e alla Nueva Grenada (Colombia), di cui esistono
numerosi indizi per storie e notizie e per i monili qua e là incontrati presso le popolazioni amazzoniche: «qui, finalmente, sta
depositato l’immenso tesoro che la Maestà di Dio tiene custodito
per arricchirne il nostro gran Re e signore Filippo IV»29.
Nel corso della navigazione Acuña si sofferma sulle caratteristiche delle «province» traversate e delle «nazioni» incontrate. Gli
Encabellados (Icahuates) che vivevano tra il Napo e il Putumayo,
a valle della confluenza dell’Aguarico, se nei primi contatti non
si erano dimostrati ostili, lo erano sicuramente diventati dopo
l’arrivo – due anni prima – di Juan de Palacios, la cui morte
aveva dato il via libera ai viaggi transamazzonici, e dopo la lunga
Amazzonia 97
permanenza dei portoghesi. Essi vengono descritti in perenne
conflitto con i popoli vicini; armati di lance e dardi, dimorano
in «strane» case di frasche, e si sostentano come ordinariamente fanno le altre genti del fiume. Occorreranno decenni prima
che nuovi pacifici contatti vengano stabiliti e le ferite dei primi
incontri risultino cicatrizzate30.
Entrati nel Grande Fiume, sessanta leghe a valle inizia la
provincia degli Omaguas, che si estende per duecento leghe «e
i suoi villaggi si susseguono con tale frequenza, che appena se
ne perde uno di vista ne appare un’altro». Gli Omaguas abitano
le numerose isole del fiume, e quasi tutte le isole non insediate
vengono coltivate dai più prossimi abitanti «e si può così fare il
calcolo dei molti indios che si sostentano in un’area tanto estesa».
Passarono pochi anni, e il francescano Laureano de la Cruz (si
veda il cap. VII) fornirà attendibili dettagli di un popolamento
molto sparso che solo in senso figurato e relativo alle immensità
amazzoniche poteva essere definito denso. I rionauti del secolo
precedente avevano visto gli Omaguas insediati anche sulle rive
del fiume, ma sul mutamento avvenuto si possono fare solo congetture. È la popolazione più evoluta di tutto il fiume, anche,
sostiene Acuña, per i contatti con gli spagnoli che alcuni di loro
avevano avuto nel distretto di Quijos, probabilmente al servizio
di encomenderos dai quali poi erano fuggiti per i maltrattamenti
ricevuti, ma riportando conoscenze e, forse, utensili. C’è ordine
e gerarchia e «sono molto obbedienti ai loro cacichi e basta una
loro parola perché venga eseguito ciò che comandano». Coltivano
il cotone e lo tessono finemente con colori diversi e dipingono
i panni, e vanno vestiti con «molta decenza», sia gli uomini sia
le donne. I tessuti vengono anche commerciati con altre nazioni vicine, «che a ragione ambiscono al lavoro di tessitrici così
esperte»; anche gli uomini della spedizione ne acquistano. Le
relazioni con i popoli vicini erano anche parecchio conflittuali
– oltre che commerciali – perché «sono in guerra continua con
le popolazioni estranee» sia della riva sud sia di quella a nord; la
difesa dalle aggressioni è forse la ragione della scelta insediativa
nelle isole. Gli Omaguas hanno schiavi catturati in guerra, ma
che trattano bene poiché vivono nelle loro case e mangiano alla
stessa mensa; che siano cannibali è una frottola dei portoghesi che
così giustificano le loro scorrerie in cerca di schiavi da catturare.
Viene raccolta la testimonianza in questo senso da due indios
della spedizione che avevano disertato ed erano stati catturati
98 Capitolo quinto
dagli Omaguas. Uccidono però ritualmente i capi o i guerrieri
più valorosi delle tribù nemiche, ne buttano i cadaveri nel fiume, e ne conservano i teschi come trofei nelle loro capanne. Per
Acuña il cannibalismo, se esisteva, era del tutto eccezionale tra
i popoli del fiume. Acuña riferisce anche la curiosa abitudine
degli Omaguas di sviluppare delle «fronti piatte», costringendo
la testa dei neonati tra due tavolette legate da cordicelle: la testa
«somiglia più alla mitra di un vescovo mal formata che al capo
di una persona». Una particolarità degli Omaguas, questa, che
non è riferita dalle cronache dei precedenti rionauti. Passata
la confluenza con il Putumayo, e 24 leghe prima di quella con
lo Yurua, la provincia degli Omaguas termina con un villaggio
popoloso, con indios guerrieri, il primo baluardo per eventuali
aggressori che rimontassero il fiume31.
Trascorso l’ultimo insediamento Omagua, la spedizione navigò
per 54 leghe tra rive deserte, fino ad arrivare alla provincia dei
Curuziraris (Asuares secondo Sweet32), 24 leghe a valle della confluenza dello Yurua, affluente della riva destra. Le sponde sono
assai rilevate e per 80 leghe «la successione dei villaggi era tale,
che non trascorrevano quattro ore senza incontrarne uno nuovo,
e a volte, nel corso di mezza giornata, non cessavamo di avere alla
vista le loro abitazioni». I villaggi erano deserti, racconta Acuña,
«per le false notizie secondo le quali noi andavamo distruggendo,
uccidendo e razziando schiavi, quasi tutti erano scappati nella
foresta». Eppure non mancavano evidenti segnali di «gobierno e
policia»; estese coltivazioni e buone scorte di cibo e soprattutto
un’attività specializzata nella preparazione di terrecotte di ogni
genere, per conservare, cuocere, contenere alimenti e bevande e
delle quali facevano intenso commercio con altri popoli. Andavano nudi, uomini e donne, e si adornavano le orecchie e le narici
forate. Ciò che particolarmente interessò i portoghesi – quando
risalirono il fiume con Teixeira – furono gli adorni d’oro che
gli indios esibivano pendenti dalle orecchie e dal naso e che
si fecero dare in cambio delle consuete chincaglierie: quando
riscesero il fiume – nota Acuña – gli indios non ne avevano più,
forse li avevano fatti sparire avendo constatato l’insistenza con la
quale i soldati li pretendevano. «Cosicché, benché incontrassimo
molti indios, solo uno aveva orecchini d’oro, e io me li feci dare
in scambio». Quel villaggio venne chiamato «Aldea del Oro».
Nell’ascesa del fiume i portoghesi non erano riusciti a farsi spiegare da dove provenisse l’oro; al ritorno però Acuña aveva con
Amazzonia 99
nelle relative
note (34-35) è
Yorimanes
sé gli interpreti che raccolsero alcune notizie. Secondo questi, un
po’ più a valle, risalendo lo Yapurá, affluente della riva sinistra,
si poteva comunicare con un altro fiume, chiamato il «Río del
Oro» nel quale, ai piedi di una catena montuosa, si trova oro in
grande quantità. Le genti Manoas ne fanno commercio, mentre
le genti Yurimaguas lo cavano dalle rive del fiume. In questa
direzione, verso la cordigliera della Nueva Granada, starebbe il
mitico «lago dorato», che «rende così inquieti gli animi di tutti
in Perú» e «forse piacerà a Dio che un giorno si esca da questa
incertezza». Le terre della provincia dei Curuzirarís sono tra le
migliori incontrate nella navigazione, sono rilevate, con foreste
non troppo fitte, spazi aperti e ottimi prati per il bestiame, costellate da laghi «e promettono molte comodità a coloro che la
popolassero»33.
Passata la provincia dei Curuzirarís, i naviganti traversarono quella degli Yoriman, «la nazione più bellicosa» di tutto il
Grande Fiume, che si estende su 60 leghe di lunghezza. Bellicosi,
ma anche capaci di commerciare; privi di timidezza, circolavano
a loro agio nell’accampamento. Nella provincia degli Yoriman
s’imbatterono nel
maggior villaggio mai incontrato nel Fiume, poiché le abitazioni si estendono per più di una lega; e in ciascuna casa non vive una sola famiglia,
come avvien da noi in Spagna, ma quelle che vivono sotto ogni tetto sono
almeno quattro o cinque e molte volte di più, dal che si potrà arguire la
popolosità di questo villaggio.
Qui la spedizione si fermò per cinque giorni, e ripartì con
più di «500 fánegas di farina di manioca, con la quale avemmo
da mangiare per il resto del viaggio». Non sappiamo se con le
buone o con le cattive: fatto si è che riuscirono a estrarre dal
villaggio una notevole quantità di farina, capace di nutrire un
migliaio di persone per un paio di mesi34.
Trenta leghe prima della confluenza del Río Negro, la spedizione traversò le terre dei Basururú, alte e non soggette a
inondazioni. Con sorpresa trovarono che i nativi avevano asce,
machete e coltelli: gli interpreti appurarono che queste provenivano dal commercio con uomini «tutti con i capelli gialli», cioè
gli olandesi insediati nella Guyana35.
Il 12 ottobre 1639 la spedizione giunse alla confluenza del
Río Negro – siamo oramai a 1.500 chilometri dal mare – che la
100 Capitolo quinto
voce comune considerava abitato da numerose tribù. La truppa
portoghese, dopo quasi due anni di viaggio, era esausta; aveva
subìto perdite e sopportato stenti, e gli uomini chiesero a Teixeira
l’autorizzazione a compiere una scorreria risarcitoria su per il Río
Negro «perché con i molti schiavi che avrebbero tratto da questo
fiume, anche se non avessero trovato altre ricchezze, sarebbero
bene accolti al loro ritorno nel Pará, mentre senza di essi, senza
dubbio, sarebbero stati considerati uomini dappoco». Teixeira
prima acconsentì, ma i due gesuiti si opposero, e fecero una protesta formale, invocando i ritardi che si sarebbero ulteriormente
accumulati nel compiere la missione, la difficoltà dell’impresa
considerate le distanze e la bellicosità delle popolazioni indigene
(«e constatando la poca forza degli indios amici che ci sono restati,
molti dei quali sono infermi»), i pericoli ulteriori nel caso che si
fossero catturati schiavi in numero tale da rendere difficoltosa
l’ulteriore navigazione. Se però la scorreria fosse stata consentita, i
padri richiedevano a Teixeira imbarcazioni e uomini per permetter
loro di completare autonomamente la loro missione secondo gli
ordini del sovrano. L’intervento dei due gesuiti, a quanto pare,
convinse Teixeira e la spedizione ripartì con la delusa truppa. È
da sottolineare che tra gli argomenti avanzati non vi fosse quello
della barbara ingiustizia della scorreria, o del rispetto del divieto
di fare schiavi uomini che non fossero né cannibali né nemici in
una «giusta guerra»36.
Superato il Río Negro, il convoglio passò la confluenza del
Madera – dal quale, osserva Acuña, erano discesi i Tupinambás –
risalendo il quale si sarebbe arrivati nelle prossimità della regione
di Potosí. Ed è a 28 leghe a valle del Madera che la comitiva
trova «l’isola grande dei Tupinambás», lunga 60 leghe. L’isola
era popolata da indios che erano trasmigrati dal Pernambuco,
spopolandolo («spopolando 84 villaggi», sarebbero stati in 60
mila), fuggendo dai conquistatori portoghesi; avevano traversato
il Brasile fin verso la Cordigliera, avevano avuto contatti con gli
spagnoli (probabilmente nella regione dei Mojos) ed erano poi
ridiscesi per il Madera popolando l’isola una o due generazioni
prima («son figli o nipoti dei primi popolatori»). Durante questo
periplo lungo varie migliaia di chilometri, il gruppo non sarebbe
rimasto compatto, e alcune componenti avrebbero popolato altre
regioni (per esempio, gli indios Brasiles poi giunti in Perú). I
Tupinambás parlavano la lingua generale del Brasile, non c’era
quindi bisogno di interpreti, perché i portoghesi la conosceva-
Amazzonia 101
no e la parlavano. Gente fiera e vivace, molto abili con archi e
frecce, inclini a ulteriori migrazioni verso il Pará, non lesinarono
informazioni di ogni genere. Forse di lingua troppo sciolta, se
Acuña registra, senza evidente incredulità, i racconti di popolazioni di nani e di una regione i cui abitanti «hanno i piedi alla
rovescia, cosicché chi volesse seguire le loro orme, camminerebbe
sempre in direzione contraria». Più avanti, nell’ultimo villaggio
dell’isola, Acuña raccoglie i racconti sulle donne Amazzoni,
donne guerriere che vivono tra «grandi foreste e alti monti» ai
quali si arriva risalendo il Río Canuris, che sbocca nel Grande
Fiume «36 leghe a valle del villaggio». Donne che vivono sole,
ma che ogni anno ricevono la visita di uomini di altre terre, li
ospitano per pochi giorni, e dei figli che nascono allevano le
femmine mentre «dei figli maschi non si sa con certezza che cosa
ne facciano». «Il tempo scoprirà la verità», scrive Acuña, anche
se è disposto a dar credito alla leggenda perché «vi sono indizi
così particolari, e tutti convergenti, che non è credibile che una
menzogna simile si sia affermata in tante lingue e in tante nazioni,
con tanto colore di verità»37.
Continuando la navigazione, Acuña e i suoi compagni passano
la stretta di Obidos – dove comincia a percepirsi la marea – e
arrivano alla confluenza del Tapajós, uno dei maggiori affluenti
della riva sud, una provincia «molto popolata dai barbari, con
buone terre, di abbondanti risorse». Sono i Tapajós, descritti come
gente vivace, molto temuti per l’uso che fanno delle letali frecce
avvelenate (che uccisero alcuni compagni di Orellana e di Aguirre),
che avevano avuto contatti con i portoghesi, ma si erano ritratti
di fronte a ogni tentativo di più o meno amichevole conquista.
Con la spedizione si dimostrano amici «come lo sperimentammo
quando ci accampammo vicino a un loro villaggio, di più di 500
famiglie, dal quale per tutto il giorno non smisero di venire a
scambiare galline, anatre, amache, farina, frutta e altre cose, e
con tanta confidenza che donne e bambini si mescolavano con
noi»38. Più tardi, arrivati al «Forte del Destierro» nell’estuario
oramai saldamente in mano portoghese, Acuña è testimone dell’organizzazione di una scorreria capeggiata da Bento Maciel, figlio
del governatore, per razziare schiavi tra i Tapajós. Maciel non
tiene nel minimo conto l’ammonimento del gesuita a sospendere
l’operazione fino a «nuovo ordine di Sua Maestà». L’operazione
venne compiuta, con la cattura di centinaia di schiavi, inviati poi
a Belém e a San Luís, «che io vidi con i miei occhi»; un successo
102 Capitolo quinto
che li spinse a progettare un’altra scorreria risalendo ancora il
Río delle Amazzoni «dove saranno senza dubbio maggiori le
crudeltà. Col che il Fiume sarà così sconvolto, che quando Sua
Maestà vorrà che si pacifichi, incontrerà gravissime difficoltà».
E così vengono fatte le conquiste dei portoghesi – commenta il
gesuita – ai quali va solo riconosciuto il merito di avere ripulito
il Grande Fiume dagli olandesi39.
Il viaggio è terminato, e con esso il racconto che si conclude
con un’elegia sul Grande Fiume: «al povero offre sostentamento;
al lavoratore soddisfazione per la sua opera; al mercante, occasioni;
al ricco, maggior ricchezza; al nobile, onori; al potente, possedimenti; e allo stesso Re, un nuovo Impero». E, naturalmente,
una moltitudine di fedeli a Dio40.
Dopo avere accompagnato la spedizione, dal Napo fino
all’oceano, occorre riportare altre considerazioni del racconto, di
natura antropologica, sociale e materiale, utili per la ricostruzione
dell’Amazzonia verso la metà Seicento. La narrazione non dice
molto su credenze o religione, se non che i popoli del Fiume
«adorano idoli» che costruiscono essi stessi e che presiedono alle
acque e alla pesca, alle coltivazioni e alle battaglie. Con questi
non fanno riti o cerimonie, si limitano a portarli con sé quando
vanno in battaglia, o se vanno a pescare. Ogni nazione ha i suoi
sciamani, «stregoni» che tengono in grande considerazione non
per l’amore che vogliono loro, ma per il timore dei mali che
possono infliggere; c’è un’abitazione dello stregone in ogni villaggio, dove questi tiene le ossa dei suoi predecessori nelle amache
sospese nelle quali avevano dormito in vita. Questi sono i loro
«maestri, predicatori, consiglieri e guide». I popoli del Fiume
hanno riti diversi per i defunti; alcuni li seppelliscono presso le
proprie abitazioni, altri li bruciano in grandi falò, anche con i
loro averi; tutti «celebrano le loro esequie per molti giorni, con
pianti continui, interrotti da grandi ubriacature»41.
Acuña è meno sbrigativo nel valutare altri aspetti delle comunità incontrate. Anzitutto il numero dei gruppi, nazioni o tribù:
sono più di centocinquanta, «tutti con lingue differenti», tutti sono
localizzabili e hanno un nome, per notizie dirette o acquisite da
altri. Un inventario delle nazioni citate nella relazione assomma,
se ho ben contato, a centoquattro diverse denominazioni. Poi
segnala la grande conflittualità tra i vari popoli, anche se prossimi
tra loro; nell’ultimo villaggio visitato si ode il rumore degli alberi
abbattuti nel villaggio vicino, «senza che la prossimità li induca a
Amazzonia 103
far pace, continuando in guerre perpetue, nelle quali, ogni giorno,
si uccidono e si fanno prigioniere innumerevoli anime. Sbocco
normale per tanta moltitudine, senza il quale quella terra non
potrebbe contenerli»42. Una visione «maltusiana», con la guerra
come regolatrice della crescita!
Gli indios sono espertissimi nella pesca: questa avviene, nel
modo più facile, nelle acque basse lasciate dalle inondazioni, dove
viene gettata una sorta di liana (timbó) tritata, che ha un effetto
di potente sedativo sui pesci i quali, storditi, vengono poi agevolmente pescati con le mani. Altrimenti si pesca molto abilmente
con la fiocina, oppure con arco e frecce. Con le stesse armi, e con
la cerbottana, sono straordinari cacciatori di scimmie, mammiferi
di terra (porci selvatici, hutia, coatí, formichieri, iguane), volatili
di ogni genere. Tra le armi ci sono zagaglie di varie misure, e
dardi, fatti di duro legno con punte ben aguzze, e il propulsore
di dardi (l’atatl degli aztechi, o estolica, precisamente descritto),
oltre ad archi e frecce che in alcune nazioni vengono avvelenate.
Per lavorare il legno, adibito alla costruzione di abitazioni, canoe,
tavole, sedili e altri oggetti, utilizzano asce di pietra; altre asce
vengono costruite innestando su un manico di legno una lama
(«lunga un palmo e larga un poco meno») fatta con la corazza
di tartaruga (la parte resistente, quella ventrale), trattata affumicandola e bene affilata; e oltre alle asce, e sempre con le corazze
delle tartarughe, vengono fatti altri attrezzi, così come vengono
utilizzati affilati denti di animali. Inoltre sono «abilissimi nelle
attività manuali». Poiché la vita di queste popolazioni si svolge
sull’acqua («come i veneziani e i messicani»), sono abili nel fabbricare le loro canoe da tronchi di cedro, spesso appropriandosi
di quelli già sradicati e trascinati dalla corrente; queste moltitudini
hanno bisogno di una o due canoe per famiglia43.
La spedizione fece anche un’altra cosa, che Acuña non
racconta ma del quale fu testimone, e che verosimilmente
censura. Teixeira aveva ricevuto istruzioni da Noronha, prima
della partenza dal Pará, di procedere a demarcare il confine dei
possedimenti portoghesi in Amazzonia. Questo venne fatto, con
una presa di possesso fatta con atto ufficiale, scritto notarile,
segnalazione del luogo con un cippo di legno iscritto, raccolta
delle testimonianze degli ufficiali, in prossimità della «Aldea del
Oro», non lontano dalla confluenza dello Yapurá. La presa di
possesso avvenne il 16 agosto 1639, nel nome di «Filippo IV, Re
del Portogallo» (omettendo che era anche re di Spagna; la località
il passo
non è
chiaro
104 Capitolo quinto
venne battezzata Franciscana in onore dell’Ordine di Brieva e
Toledo, si presume con scorno dei due padri gesuiti44. Poco più
di un anno dopo, nel dicembre del 1640, il Portogallo si ribellò,
incoronando re Giovanni IV, e l’unione tra i due regni si ruppe.
La pubblicazione della relazione di Acuña avvenne nel 1641, a
rottura consumata, ed è comprensibile che di questa presa di
possesso, che legalizzava il dominio portoghese dell’Amazzonia
ben oltre il Río Negro, non si parlasse.
Il 12 dicembre 1639 la spedizione – ciò che di essa restava –
arrivò a Belém, dieci mesi dopo la partenza da Quito, e due anni
e due mesi dopo l’inizio del viaggio dalla stessa città. Acuña e
Artieda rientrarono in Spagna; Acuña dette alle stampe la sua
relazione, e presentò un Memorial, con le proprie raccomandazioni, al Consiglio delle Indie. La ribellione dei portoghesi (rampognati spesso nella relazione stampata) si era già consumata; la
Catalogna era in rivolta e la Spagna era impegnata nella guerra
dei Trent’anni. Dopo aver raccomandato che si rinnovassero le
prerogative e i privilegi ai gesuiti, Acuña formulava una serie
di raccomandazioni e ne illustrava i vantaggi. In sintesi: che si
operasse una conquista evangelizzatrice della valle amazzonica,
dando finalmente corpo alle intenzioni più volte formalizzate
dai regnanti, e che tale conquista si facesse discendendo e non
risalendo il Fiume; una conquista pacificatrice che avrebbe
trovato il consenso delle tribù esauste dalle continue guerre.
Con l’insediamento in Amazzonia si sarebbe potuto controllare
l’utilizzo della via d’acqua per esportare le ricchezze del Perú,
evitando il pagamento dei diritti di dogana a Cartagena, e anche
il rischio delle incursioni dei corsari, frequenti nell’area caraibica.
Si sarebbero così interrotti i rapporti con i portoghesi del Pará,
assai pregiudizievoli; si sarebbe dissolto il rischio di tentativi
di intrusione nel Perú dei lusitani, magari con l’ausilio di altre
nazioni (inglesi o olandesi). Una volta liberato il basso corso del
fiume dai portoghesi si sarebbe aperta una facile via d’acqua dal
Perú alla Spagna, evitando il costoso, lungo e pericoloso tragitto
via Panamá e Cartagena. Ma soprattutto – e questo passo ha un
notevole interesse demografico – Acuña avvertiva
che gli indios di tutto il Perú, e in quasi tutte le regioni scoperte, e specialmente dove ci sono miniere e fattorie importanti, che dipendono dal
loro lavoro personale [...] ogni giorno che passa vanno così velocemente
diminuendo, che in pochi anni, per il loro venir meno, verranno a cessa-
Amazzonia 105
re, o per lo meno a diminuire grandemente, i tanti vantaggi collegati alla
loro esistenza; un danno grande senza dubbio, e che Vostra Maestà deve
prevenire in tempo e rimediare in tutti i modi possibili. E non ce ne sono,
né se ne possono immaginare altri, che prendere di petto la conquista e la
conversione di questo nuovo mondo, nel quale sono tanti gli indigeni che
lo abitano, che potranno popolare tutto lo spopolato Perú: poiché se si
assoggettano al giogo del Santo Vangelo, con la pace generale, cesseranno
le continue guerre nelle quali ogni giorno si consumano gli uni con gli altri,
ed aumenteranno in tale maniera, che rompendo le strette costrizioni che
oggi li ingabbiano, sarà necessario che dilaghino in più spaziosi regni45.
Non risulta che le raccomandazioni di Acuña facessero breccia
nella politica coloniale della Spagna.
Prima che fosse trascorso un decennio dal ritorno di Teixeira
a Belém, un’altra canoa con otto persone a bordo – il francescano Laureano de la Cruz, che già abbiamo incontrato tra gli
Encabellados nel fallito tentativo di evangelizzazione, altri due
frati, due chierichetti e cinque indios rescatados (servi o schiavi) – si staccava dalla riva di una delle isole Omagua. Incerti se
risalire faticosamente il fiume, alla volta di Quito, o farsi trascinare dalla corrente, arrivare al mare e poi in Venezuela, i dieci
optarono all’ultimo momento per quest’ultima soluzione. Era il
15 ottobre 1650; la canoa era stata allestita in fretta e furia nei
giorni precedenti, era lunga tredici metri e larga uno, ed era
stata approvvigionata alla meglio46. Ci mise settanta giorni per
arrivare a Belém, dove approdò alla vigilia di Natale. La partenza
dall’isola (battezzata San Pedro de Alcantara) avvenne perché gli
Omaguas, presso i quali Laureano viveva da anni passando da
un’isola all’altra e impegnato nell’ardua opera di conversione,
erano in stato di pericolosa agitazione. In poche parole, Laureano e i suoi temevano per la loro vita. La sua relazione Nuevo
descubrimiento del Río Marañon, llamado las Amazonas è ricca di
osservazioni preziose sugli Omaguas e ne tratteremo più avanti
(cfr. cap. VII). Limitiamoci qui a trarre dal racconto del viaggio
qualche ulteriore elemento a completamento delle osservazioni
dei precedenti rionauti, che Laureano per lo più conferma.
A valle degli Omaguas, a 52 leghe di distanza, i dieci entrano
nella provincia degli Aysuaris (i Curuziraris da Acuña), lunga
80 leghe, i cui abitanti vanno nudi e vivono sopra alte rive,
disseminate di rancherias distanti l’una dall’altra «più o meno
mezza lega», in abitazioni fatte di legno e frasche, chiuse per
difendersi dalle zanzare, con solo una piccola apertura. Fabbri-
106 Capitolo quinto
cano vasellame che scambiano con altre tribù47. Proseguono poi
per la provincia degli Yoriman, lunga 60 leghe, abitata da indios
anch’essi nudi, «i più numerosi mai incontrati», aggressivi, armati
di archi e frecce, presso i quali non osano fermarsi; passano alle
viste di un villaggio con «20 o 24 case»48. Navigano poi per 70
leghe che appaiono deserte «senza villaggi né genti». Passano la
confluenza del Río Negro, e 60 leghe a valle arrivano all’isola
dei Tupinambarana, «senza avere visto, in tutto quel tratto, gente
alcuna». Qui si fermano in un villaggio di circa sessanta case,
dove viveva un portoghese, con alcuni indios che erano stati
sommariamente evangelizzati. Proseguendo, presso lo sbocco
del fiume Condurises, o «delle Amazzoni», c’è un «luogo con
sei case»: Laureano richiama la storia delle donne guerriere:
«tutto questo, e altre cose che udimmo, sono solo voci, e nulla
vedemmo né si poté accertare, né dagli indios né dai portoghesi
che ordinariamente navigano per questo fiume»49. In compagnia
del portoghese e di altri due indios, riprendono il loro viaggio,
fino allo sbocco del Tapajós, o «Río de los Trapajosos», come li
chiama il frate, dove nei pressi di «un villaggio di dieci case» si
imbattono in una spedizione al comando del capitano Manuel
de los Santos. Questi era una vecchia conoscenza, perché aveva
accompagnato Teixeira con Domingo de Brieva nel viaggio a
Quito quattordici anni prima. I portoghesi informano Laureano
e i suoi compagni dell’impossibilità del loro progetto di arrivare in Venezuela via mare perché la ribellione del Portogallo ha
interrotto ogni commercio tra il Brasile e la colonia spagnola.
Essi dovranno rassegnarsi a raggiungere il Pará e il Maranhão e
da lì – ma non sarebbe stato facile – la Spagna50.
I portoghesi si stanno apprestando a risalire il fiume in cerca
di schiavi, e Laureano con un altro frate accetta di accompagnare
la scorreria. L’esperienza diretta gli permette di spiegare i meccanismi della cattura, che avviene «acquistando» presso un villaggio
dei Tapajós prigionieri di altre nazioni; ciascun prigioniero è
scambiato con tre attrezzi di ferro («tres herramientas»), una
camicia e due coltelli. I portoghesi giustificano questo acquisto
(riscatto) con la scusa che i prigionieri sono destinati a essere
uccisi e quindi cannibalizzati, ma Laureano non ci crede: «può
darsi che nei primi tempi della conquista sia avvenuto qualcosa
del genere [...] però al giorno d’oggi, per quello che vedemmo
e udimmo dagli stessi portoghesi, non esistono più questi indios
di corda, che così si chiamavano quelli destinati a essere uccisi
Amazzonia 107
e mangiati». Nel caso specifico, la spedizione non dette troppe
soddisfazioni ai razziatori, anche per la fuga degli indios che
avevano abbandonato i loro villaggi. Ma spesso avveniva che
gli indios stessi organizzassero le razzie tra nazioni nemiche per
rifornire i portoghesi, che non stavano certo a sottilizzare sulla
liceità del commercio.
Venimmo a sapere come gli indios «amici» o convertiti di recente,
facessero essi stessi bande armate per andare a far prigionieri tra le altre
tribú, per darli poi ai portoghesi o per avidità del riscatto o per sfuggire
alle loro violenze.
La conseguenza è che nelle regioni dell’estuario – Curupá, Pará
e Maranhão – queste spedizioni colpiscono gli indios convertiti,
che sono reclutati come rematori. Per fame, stenti e uccisioni «si
sono consumati e sono spariti [...] così come è avvenuto nelle
provincie degli indios gentili»51. Nel 1647 il frate cappuccino
Cristovão da Lisbona scrisse:
Tutti erano colpiti da quanto numerosi fossero gli indios che vivevano
nel Pará e sui grandi fiumi della regione, ma oggi sono pochi i villaggi che
sopravvivono, perché gli altri sono spariti per le ingiustizie dei razziatori
di schiavi. Quando gli indios si accorsero che erano gradualmente posti
in schiavitù, contrariamente a giustizia e ragione, dettero fuoco ai loro
villaggi e fuggirono nel profondo della selva52.
A Curupá arrivarono alla vigilia di Natale, e il 1º febbraio
1651 giunsero a Belém, ricevuti dai confratelli del convento di
San Francesco; da lì procedettero a San Luís, ospiti di un altro
convento dell’Ordine. Ma dovettero attendere un altro anno
prima che il governatore desse loro licenza di partire per Lisbona su una «nave nuova, con un carico di zucchero», e dopo
cinquantasette giorni di navigazione sbarcarono in Portogallo il
24 marzo 1652; dovettero vincere ancora varie difficoltà prima di
poter fare ritorno in Spagna, un anno e mezzo dopo la partenza
dall’isola del Grande Fiume53.
Fra il 1636 e il 1651 abbiamo notizie e cronache, delle quali
abbiamo riferito, di quattro navigazioni amazzoniche. La prima
e l’ultima – quelle di Brieva e Toledo, e di Laureano de la Cruz
– si assomigliano sotto vari profili: si tratta di frati francescani;
sono in fuga da situazioni di pericolo (tra gli Encabellados e tra
108 Capitolo quinto
gli Omaguas); partono in fretta e senza preparativi; viaggiano con
pochi compagni e in una sola canoa; dal Pará e dal Maranhão
(salvo Brieva) passano in Portogallo e in Spagna. Le altre due
navigazioni, su e giù per il fiume, sono fatte dalla stessa grande
spedizione al comando di Teixeira e, si può dire, che quella di
ritorno descritta da Acuña incorpora anche dati, esperienze e
conoscenze derivate dalla due precedenti.
Alla diversità delle circostanze, della personalità dei narratori
e delle finalità delle relazioni si debbono le incongruenze tra le
narrazioni. Queste riguardano soprattutto le notizie sul popolamento, che stando alle iperboli di de Rojas e di Acuña, sarebbe
straordinario: un ago che cadesse dal cielo cadrebbe necessariamente in testa a un indio, secondo il primo; le innumeri nazioni,
se pacificate smettessero di farsi guerra, potrebbero popolare lo
spopolato Perú e altri regni, osserva il secondo. I gesuiti erano
però alla ricerca del sostegno delle autorità religiose e civili, in
Perú o in Spagna, per avere più missionari per l’opera di evangelizzazione, e questo li spingeva a magnificare le prospettive di
conquista ed evangelizzazione. Ma se evitiamo le considerazioni
generali e restiamo a ciò che i naviganti poterono vedere con i
loro occhi e testimoniare direttamente, le cose stanno diversamente. Il fiume ha molti e lunghi tratti spopolati; i villaggi sono
di poche abitazioni (solo in un caso si parla di «500 famiglie»)
e anche nelle zone più popolate sono, di norma, assai distanziati
gli uni dagli altri. La gran quantità delle nazioni – 150 secondo
Acuña – lungo il fiume e gli affluenti non implica una popolazione né densa né grandemente numerosa, perché le dimensioni
di queste «nazioni» era di massima modesta. Secondo padre
Figueroa, già citato nel capitolo precedente, raramente superavano il migliaio di unità. L’enorme quantità di tartarughe di
fiume – fonte privilegiata di alimenti – evoca un certo equilibrio
con la popolazione di cacciatori che doveva essere forzatamente
limitata. Una popolazione numerosa, data la facilità della cattura, le avrebbe sterminate. In alcuni tratti il popolamento era
sicuramente maggiore, permettendo a una numerosa spedizione
di rifornirsi di vettovaglie di base. Certamente più denso era il
popolamento nella grande area dell’estuario. Ma qui l’insediamento europeo e le scorrerie nel basso corso del Grande Fiume,
divenute sistematiche dopo il 1620, avevano già iniziato l’opera
di distruzione. Nell’alta Amazzonia, fino, e oltre, la confluenza
del Napo, il popolamento era sporadico. Gli stessi Omaguas,
Amazzonia 109
che nelle testimonianze concordi erano il gruppo più strutturato,
dovevano essere poche migliaia, come si desume da altri elementi
che esamineremo in seguito.
Stiamo, naturalmente, utilizzando indizi e costruendo congetture su elementi fragili e sparsi, evitando forzature. Ma due
conclusioni appaiono lecite. La prima è che in una tale immensità – le migliaia di chilometri del Grande Fiume percorse dagli
europei e dai loro compagni di viaggio – il popolamento fosse
relativamente modesto. Il contatto c’era già stato, a monte e a
valle, e lo stesso Laureano de la Cruz fu testimone, nel 1648,
dell’esplodere del vaiolo tra gli Omaguas: ma siamo, se non altro, nella fase iniziale e sporadica dell’interazione fra europei e
indios. La seconda conclusione – più corretto sarebbe chiamarla
ipotesi – si fonda su elementi ancora più tenui. Contrariamente
all’opinione comune, secondo la quale tra la metà del Cinquecento
e la metà del Seicento la popolazione amazzonica ha subìto un
tracollo, l’analisi comparata delle relazioni dei sei viaggi lascia il
lettore con l’impressione che poco fosse cambiato da un secolo
all’altro.
«Sono mansueti e di natura pacifica [...] con grande confidenza
parlano, mangiano e bevono con noialtri»54, e questo era anche il
giudizio degli altri naviganti: del resto, sia Brieva che Laureano
de la Cruz navigarono l’intero fiume senza troppi inconvenienti.
L’ostilità delle popolazioni amazzoniche fu quasi sempre di difesa,
scatenata dalle aggressioni, dalle rapine di cibo, dalle spedizioni
armate, dalle razzie di schiavi. Queste e altre relazioni danno
sicura prova che tali meccanismi portarono a fughe, dislocazioni
e migrazioni. Il segno indelebile di un contatto fra continenti
tremendamente asimmetrico.
VI. Missione impossibile. Pescatori di anime:
maglie larghe e pesci piccoli. Una missione modello.
Gli irriducibili Jivaros e un napoletano scriteriato.
Un bavarese sciamanico predica in quaranta villaggi
nelle isole del fiume. Il fare e disfare dei missionari
L’
opera di evangelizzazione che i padri gesuiti intrapresero
nell’alta Amazzonia a partire dal quarto decennio del Seicento
fu coraggiosa quanto azzardata. La regione che si apriva loro
davanti – passate le rapide del Pongo – era sconfinata; lungo e
impervio il cammino da Quito o da altri sicuri centri spagnoli;
innumeri e dispersi gli abitanti; sconosciute le lingue; disastrosi
gli esiti dei primi contatti, fin dalla prima navigazione di Orellana. Fluidi, mobili e sospettosi gli autoctoni con i quali i padri
si industriavano di instaurare un contatto amichevole, per poi
indurli a raggrupparsi e a radicarsi, ad abbandonare, almeno, le
pratiche più estreme, ad accettare predicazioni oscure. I padri,
e la loro religione, non erano sostenuti dalla maestà principesca di un conquistatore come Cortés, avvolta nel mito quasi
sovrannaturale e dalla forza della sua armata, anche se esigua.
Né dalla forza senza scrupoli di Pizarro, capace di abbattere un
impero, di essere decisivo nelle guerre civili, di imporre un nuovo
ordinamento. Né operavano tra popolazioni evolute, stanziali e
strutturate – come quelle mesoamericane e andine – sulle quali
una nuova religione poteva imporsi e diffondersi, per convinzione,
interesse e opportunità, senza determinare sostanziali modifiche
nei modi e nelle pratiche di vita.
Né, infine, quei pochi e isolati padri, avevano solidi argomenti
di convinzione: qualche sostegno armato che più che timore e
rispetto seminava terrore e repulsione; utensili di ferro e acciaio
che pur ambiti dagli indigeni erano sempre troppo scarsi per le
difficoltà di trasporto e la scarsità dei mezzi; inoltre quei padri
non erano in grado di fornire agli indios né sicura protezione
contro etnie ostili, né certe garanzie di non essere ridotti in
schiavitù dai coloni spagnoli. E dunque, la fede e la caparbia
114 Capitolo sesto
persistenza dei padri, la capacità di molti e l’eroismo di alcuni
raccolsero, nel complesso, pochi e spesso effimeri frutti. E man
mano che ci si allontanava dalla regione – a Quito, a Madrid, a
Roma – cresceva la convinzione delle gerarchie che le aspirazioni
evangelizzatrici fossero sproporzionate rispetto alla realtà, e che
il gioco non valesse la candela. Dall’esperienza dei gesuiti in
Mainas si possono individuare e valutare alcuni dei meccanismi
di attrazione e repulsione che agirono nel contatto tra europei
e autoctoni, condizionando la sorte di questi ultimi. Molto è
noto, dalle lettere, dalle informative, dai racconti degli stessi
protagonisti, dovutamente interpretati e depurati delle componenti edificanti. Questi offrono descrizioni vive e di prima
mano di fatti e vicende relative ai tentativi di contatto, ai loro
esiti, ai successi e ai fallimenti, e indicazioni utilissime per la
comprensione della demografia e dell’antropologia della regione.
Difficile è dare ordine e sistema a queste testimonianze per cui
seguiremo la via più semplice che consiste nel riferire alcune
esperienze, di successo come di insuccesso, trarne gli elementi
principali, discutere se possano estendersi ad altre situazioni, se
non assumere carattere di generalità.
Abbiamo incontrato padre Lucas de la Cueva che, assieme
a padre Cugia, discese il Marañon nel 1638, passò il Pongo e
arrivò a Borja, «città» fondata dagli spagnoli meno di vent’anni
prima. I due padri furono i primi evangelizzatori della regione; vi
giunsero poco più di due anni dopo la sollevazione degli indiani
Mainas, la strage che questi fecero degli encomenderos spagnoli
a Borja e nel suo distretto, la spietata repressione successiva a
opera di forze giunte in soccorso, la dispersione dei superstiti.
Mentre Cugia rimase a Borja avviando una faticosa opera di recristianiazzazione degli spagnoli e di conversione degli indios, de la
Cueva accompagnò una spedizione «pacificatrice» alla ricerca dei
fuggitivi Mainas. Un’operazione nella quale si distinse Bernardino
Lopez «che condusse valorosamente il castigo dei Mainas ribelli,
ne fece uccidere più di duecento e ne giustiziò molti altri e portò
a Moyobamba quanti ne volle»1. Cueva si distaccò da questa spedizione e, accompagnato da una scorta di soldati e da un gruppo
di indios Xeveros, ridiscese il Marañon fino alla confluenza dello
Huallaga, lo risalì per un tratto fino a incontrare l’affluente Apena
sulle cui rive erano insediati gli Xeveros, «dispersi in numerose
rancherias distanti tra di loro due, quattro e sei leghe; alcuni tre
Amazzonia 115
o quattro giorni [di cammino]»2. È all’evangelizzazione degli
Xeveros che si dedica de la Cueva negli anni seguenti, visitato
con frequenza da Cugia che era restato nel capoluogo di Borja
con funzioni di superiore. Un’opera lunga perché «costò molto
tempo e fatica la loro “riduzione”, molte blandizie e regali, di
asce, coltelli, aghi, punzoni, ami e altri oggetti che apprezzano»3.
Cueva riuscirà nell’opera di «ridurre» in villaggi stabili numerosi
Xeveros: la missione di Limpia Concepción, e i suoi tre villaggi
«annessi», sarà tra le meglio organizzate, più stabili e popolose
della regione. Gli Xeveros saranno spesso utilizzati come ausiliari
nelle spedizioni di «pacificazione» di altri gruppi e di «cattura»
dei fuggitivi. Un successore di Cueva, padre Figueroa, dava pieno
merito al suo predecessore del fatto che «gli indios appaiano così
industriosi che non sembrano essere della selva, ma bensì come i
più civili e acculturati del Perú, tanto nel vestirsi come in altro»4.
Tuttavia l’opera di padre Cueva fu piena di ostacoli; nei primi
anni avvenne spesso che quando il Padre si assentava gli indios
se ne tornassero ai loro luoghi di origine e poi occorreva faticare
per convincerli a tornare5. Nel 1643, quando l’opera di riduzione
in villaggio era già iniziata, il fatto che de la Cueva iscrivesse nel
libro il nome dei battezzati fece sorgere il sospetto che si trattasse di liste di persone da «consegnare agli spagnoli», la sorte
più aborrita. Serpeggiò il malcontento, seguì una ribellione, una
fuga generale cui fu posto termine dall’intervento del tenente di
Borja, che minacciò l’asservimento agli spagnoli di coloro che
si fossero rifiutati di ritornare alla missione. Fu così che anche i
Paranapuras e i Cocamillas – che avevano partecipato alla rivolta
– vennero portati alla Limpia Concepción e poi stabiliti in due
insediamenti annessi (San Pablo de Pandabeques e San José de
Ataguate). Gli spagnoli inscenarono una macabra finzione per
terrorizzare gli indios, erigendo forche e simulando la condanna
all’impiccagione dei colpevoli; i Padri Cugia e Cueva si prestarono
a intercedere per la loro vita all’ultimo momento6.
Da allora, osservava padre Figueroa,
sono stati indottrinati e addomesticati così bene [...] che sono i più devoti ai Padri e agli Spagnoli, servendoli con fedeltà nelle armate e nelle
spedizioni che si fanno per pacificare nuove nazioni e convertirle al Santo
Vangelo, e sono esenti dalla mita e dal tributo, e si dedicano solamente
alle cose di guerra e al servizio dei Padri7.
116 Capitolo sesto
Intorno al 1660 Limpia Concepción appariva un esempio
per la regione. Gli indios, che prima giravano nudi, indossano
camicette «che tessono e dipingono, di cotone, come gli indios
del Perú». Hanno una chiesa, bella non per il valore e la ricchezza dei materiali e la preziosità artistica, ma «per l’originalità,
il candore e la pulizia del suo altare, dei suoi ornamenti e delle
decorazioni, che sono in colore sopra fondo bianco, e che vengono
rinfrescate ogni settimana». I tre villaggi annessi hanno «chiese
con campane» nelle quali dice messa il Padre quando va a imparire i sacramenti a qualcuno, e «dai quali vengono gli abitanti
la domenica e le altre feste comandate a sentir messa, dottrina
e predica». Tutti sanno pregare, salvo i più vecchi. «I bambini
e gli adolescenti pregano in chiesa con molta puntualità tutti i
giorni: al mattino nella lingua generale degli Inca, alla sera in
quella materna, e si insegna loro il catechismo». Si insegna anche
agli adulti e si sorveglia la loro pratica religiosa, si fanno processioni e «in quaresima si confessano, e quelli più capaci fanno la
comunione»8. Sulla conversione e religiosità degli Xeveros – al di
là delle apparenze – ci sono parecchi dubbi. I padri sicuramente
avevano delle priorità e anzitutto miravano a sradicare omicidi,
promiscuità, ubriachezza, ma per il resto procedevano con prudenza. Il provinciale padre Sobrino, in una lettera di istruzione
a due religiosi avviati a evangelizzare i Paezes, ammoniva che lo
«zelo eccessivo può causare molto danno e impedire la conversione
di molti, e perciò dovete sposare un principio, nel vostro cuore,
che ai peccati che troverete sia posto rimedio poco a poco con
grande pazienza e magnanimità»9. La prudenza fu esercitata nei
battesimi, che furono somministrati – nei primi cinque anni –
solo ai neonati e ai moribondi. La missione aveva anche la sua
gerarchia civile con «regidores, alcaldes, alguaciles il cui incarico
deve essere confermato dal tenente di Borja, fuorché per i fiscales
[sorveglianti] che vigilano su quanto attiene alla dottrina, nominati
dal Padre». Ma c’erano anche le necessità materiali del Padre, cui
la comunità provvedeva con seminativi di yucca, banane, mais,
barbasco e cotone, costruendo la sua abitazione e incaricando
ogni settimana «due indios, che chiamano mitayos, a cercare
qualcosa nei boschi e sulle rive dei fiumi, per portarli al Padre.
E così fanno, portando ora una scimmia, ora un pappagallo o
altri volatili o animali, o pesce, o cuori di palma»10. I seminativi,
già al secondo raccolto, cominciarono a esaurirsi, e dovettero
essere abbandonati per preparare altri appezzamenti tagliando
Amazzonia 117
il bosco e ripulendoli. Erano stati anche introdotti alcuni capi
di bestiame che venivano fatti pascolare in campi abbandonati,
e che si erano moltiplicati fino a circa cento: poi alcuni erano
stati macellati, altri inviati ad altre missioni, altri ancora uccisi
dagli indios perché devastavano i seminativi. Va notato anche
che gli Xeveros mantenevano già da tempo (anteriormente alla
loro riduzione in missione) contatti con gli spagnoli della città
di Moyobamba, sull’alto corso del fiume Mayo: lo afferma de la
Cueva in una lettera del 1638. Gli Xeveros portavano loro ragazzi
presi in schiavitù da altre tribù e li rivendevano agli spagnoli in
cambio di asce, machete, coltelli e altri utensili; i Cocamas dello
Ucayali – con cui erano stati in feroce lotta – vennero a patti
con gli Xeveros che cedevano loro i preziosi utensili in cambio
di canoe, mantelli e camice11.
Si cercò anche di attrarre a Limpia Concepción altri gruppi:
oltre che con i Paranapuras e i Cocamillas, di cui si è detto, fu
possibile con i Cutinanas, dello stesso ceppo linguistico, che si
insediarono in un terzo villaggio «annesso» (Santo Tomé de los
Cutinanas). Nel 1690 Limpia Concepción e i suoi annessi vennero
accorpati in un nuovo insediamento a quattro giorni di viaggio
a monte sul Río Apena.
In questo luogo si fissarono e formarono tre quartieri di abitazioni.
Nel più alto si insediarono gli Xeveros, un quadrilatero con strade diritte
e una piazza sgombra nel mezzo; nel più basso i Cutinanas, con meno
ordine, pulizia e simmetria, e occupano una fascia lunga con alloggi male
allineati. Il terzo, nel mezzo, dove vivono i restanti abitanti, sta dietro la
chiesa e la casa del Padre e occupa il centro dei tre quartieri»12.
Furono insediati nel nuovo sito anche centoquattro Jivaros
fatti prigionieri nelle drammatiche spedizioni di inizio degli anni
Novanta del Seicento. Non fu questo, però, l’unico spostamento.
All’epoca dell’espulsione, la missione contava circa duemila abitanti – più o meno come all’inizio – ma ci vivevano, oltre che gli
Xeveros, anche Alabonos, Jivaros, Ticunas, Barbudos, Yameos e
Ataguates13, a testimonianza del dinamico processo di mobilità,
fusione e scissione delle etnie della regione.
Lo spirito guerriero degli Xeveros li fece ausiliari dei padri
e degli spagnoli nelle varie spedizioni di conversione, cattura,
repressione. Nel 1666 vennero impiegati nella repressione della
rivolta dei Cocamas, che avevano distrutto la missione di Santa
118 Capitolo sesto
Maria de Huallaga, provocato la morte di Figueroa, ucciso quarantaquattro indios in Limpia Concepción, causato la devastazione della regione14. Gli Xeveros parteciparono all’impiccagione
collettiva di dieci cacichi dei rivoltosi15. Nel 1691 troviamo gli
Xeveros impegnati nella prima fase della disastrosa spedizione
voluta da padre Viva contro gli indomiti Jivaros: ma questi non
poté pagare gli ausiliari con gli utensili promessi e «gli Xeveros,
specialmente, che fino ad allora erano stati molto fedeli e ottimi
soldati, tornarono molto disgustati alle loro terre, e alcuni loro
cacichi minacciarono insubordinazione»16.
Guerrieri, fedeli alleati e ausiliari, con tradizioni di commercio
e di scambi, ben radicati in un villaggio ordinato e relativamente
popoloso, gli Xeveros rappresentarono, per i gesuiti, un esempio
di successo: «gran parte di ciò che ho raccontato si applica anche ad altre riduzioni, perché come ho detto, questa è servita e
serve di esempio per tutte, perché in tutte si cerca di introdurre
ciò che in questa si è fatto»17. Un esempio, però, che ebbe assai
poche repliche.
Questa descrizione è di padre Lucero, superiore della regione, che visse trent’anni in Amazzonia e partecipò alle spedizioni
fallimentari contro i Jivaros:
I Jivaros sono robusti, alti e ben formati di corpo, e superano di gran
lunga le altre nazioni dell’Amazzonia. Si vestono con una specie di tunica
che cadrebbe fino ai piedi se non la raccogliessero alla vita con una larga
cintura intessuta di crini. [...] portano una fascia cremisi attorno alla fronte
a mo’ di ghirlanda intrecciata con conchiglie. Il loro modo di parlare e di
muoversi è molto arrogante. Le loro armi sono lo scudo e la lancia e le
lame affilate delle loro lance e picche son di osso tratto dai cadaveri degli
uomini che uccidono con l’inganno e il tradimento [...] Non conoscono
altra legge se non quella che chi vince sopravvive18.
All’epoca dei primi missionari i Jivaros vivevano dispersi, in
18 valloni, discosti dalle grandi vie d’acque, isolati, ed era assai
difficile entrare in contatto con loro. Se si aggiungono l’abitudine – comune ad altre etnie, anche tra gli Xeveros – di tagliare e
mummificare le teste dei nemici, il loro noto valore in battaglia,
il vivere in zone poco accessibili, la loro conflittualità anche intraetnica, il loro isolamento, durato fino a epoche relativamente
recenti, si ha il quadro che i contemporanei fecero dei Jivaros nel
Seicento. Eppure i tentativi di «pacificarli» ed «evangelizzarli»
Amazzonia 119
furono molti, brutali e tutti, alla fine, disastrosi. Raccontarne le
vicende serve a comprendere – e fu un caso, probabilmente non
unico – le modalità e le conseguenze, immediate e durature, del
contatto.
I Jivaros erano popolo della montaña, cioè, in realtà, del
basso pedemonte orientale delle Ande, degli ultimi bassi rilievi
che si annullano nella grande pianura amazzonica, un ambiente
tropicale della selva e della foresta pluviale. Ancora oggi, come
allora, popolano – in molte decine di migliaia – una vasta area
prevalentemente nei bacini degli affluenti di sinistra del Grande
Fiume: da ovest a est, il Santiago, il Morona e il Pastaza. Essi
vivevano in una regione dove la proiezione transandina degli
spagnoli aveva sfruttato – tramite il lavoro degli indios – l’oro
presente nei depositi fluviali e nel terreno, ragione del sorgere
degli insediamenti fugaci dei colonizzatori. Ma il contatto, con
lo sfruttamento degli autoctoni da parte dei coloni e degli encomenderos – spesso una brutale rapina –, non ebbe vita lunga:
nel 1599 i Jivaros si ribellarono, distrussero l’insediamento di
Logroño e uccisero un numero imprecisato di spagnoli. Nell’epoca
della quale trattiamo si sapeva che essi erano numerosi, bellicosi
e che nel loro territorio si era trovato l’oro. Ragione sufficiente,
quest’ultima, per reiterare tentativi di penetrazione man mano
che il ricordo del passato insuccesso svaniva19.
Vale la pena raccontare succintamente i principali tentativi di
penetrare nelle terre dei Jivaros, dei quali si ha notizia soprattutto
dai prudenti racconti dei padri, che sicuramente attenuavano gli
aspetti più crudi di questi episodi. Del primo di essi – ne conosciamo quattro, durante il Seicento, che hanno lasciato tracce – si
sa poco. Avvenne nel 1631, quando un gruppo di spagnoli (non
sappiamo quanti), guidati dal capitano Juan de Lara, e accompagnati da padre Rugi, penetrarono in territorio Jivaro passando da
Santiago de la Montaña. Dopo aver vagato a lungo, con i Jivaros
che adottavano la tattica di evitare lo scontro ed eventualmente
aggredire di sorpresa, si «trovarono ridotti a mal partito e privi
delle salmerie e del cibo necessario», per cui furono costretti a
battere in ritirata20. Non sappiamo altro.
Assai più dettagliata ed esemplare è invece la storia della
spedizione su grande scala (per i tempi e i luoghi) voluta dal ricco
governatore di Chachapoyas, Martin de la Riva Herrera. Questi
ottenne di diventare governatore di Mainas succedendo al defunto
Pedro Vaca de la Cadena, e nel 1654 organizzò una entrada in
120 Capitolo sesto
grande stile. Lo accompagnavano cento soldati spagnoli – una
forza più che cospicua in quell’epoca – oltre a parecchie centinaia
di indios e tra questi cinquanta Xeveros, che andò aggregando
alla sua compagnia in varie parti della regione. Nel luglio del
1655 giunse al Santiago – alla confluenza col Grande Fiume – e
lo risalì per venti giorni. Stabilì il suo campo base, nel quale era
stata montata una fucina, e si addentrò nel territorio dei Jivaros
che adottarono la loro consueta strategia di guerriglia, ritirandosi,
nascondendosi, organizzando agguati e incursioni, piombando
all’improvviso sugli intrusi e mietendo un gran numero di vittime nella truppa di don Martin. All’inizio del 1656 uno dei tre
religiosi che accompagnavano la spedizione, padre Raimundo de
la Cruz, scrisse una dura lettera a don Martin chiedendogli di
non continuare una spedizione che si stava rivelando fallimentare, in una zona pericolosa e sconosciuta, sparsamente popolata
da gente guerriera e aggressiva. E anche falsa e traditrice; in un
caso sembravano avere accettato di riunirsi per costituire un insediamento, ma poi erano scappati tutti, uccidendo e tagliando
la testa ad alcuni indiani amici.
Gli Jivaros non si lasciavano raggiungere. Secondo il loro costume,
evitavano la battaglia, fuggivano sempre quando fiutavano il pericolo, distruggendo campi e seminativi, bruciando le case [...] Il loro unico modo
di combattere erano le imboscate, delle quali erano espertissimi, e nelle
quali potevano impunemente uccidere i loro nemici21.
Gli «indiani amici vogliono tornare alle loro case e alle loro
famiglie dalle quali sono distanti da cinque mesi e mezzo, la maggior
parte, se non tutti, ammalati, mentre altri sono morti». E, ancora,
i soldati «spagnoli sono quasi tutti ammalati e disfatti». Se poi la
spedizione cercava l’oro che si diceva esserci nella regione, ebbene,
le prospezioni fatte in vari luoghi non avevano reso «nemmeno
un tomino d’oro». Convinto dagli insuccessi, don Martin rientrò
a Borja, ma si lanciò in altre disastrose spedizioni sulle rive del
fiume Pastaza, formando anche un insediamento i cui indios dette
sciaguratamente in encomienda agli spagnoli, una condizione che
gli indios aborrivano sopra ogni cosa. Una catastrofe: erano stati
distrutti vent’anni di evangelizzazione, e de la Cueva chiese, e
ottenne, la destituzione di don Martin dalle autorità di Quito.
La conquista della terra dei Jivaros, che si continuava a pensare ricca di oro, era un’ossessione ricorrente per i governatori di
nelle note è
padre Raimundo
de Santa Cruz
Amazzonia 121
Mainas, e nel 1683 Mauricio Vaca de Vega, nipote del fondatore
di Borja, organizzò una spedizione assai imponente, con cinquanta
soldati spagnoli e più di trecento indios tratti dalle varie missioni.
La via d’ingresso, anche in questo caso, era il fiume Santiago e
il copione non cambiò, anche se della spedizione faceva parte
padre Lucero, dalla lunga esperienza evangelizzatrice nella regione, prima entusiasta del successo apparente degli approcci
iniziali, ma ben presto ricreduotosi dopo aver rischiato di essere
ucciso e constatato la fuga degli indios con una scia di uccisioni.
L’evangelizzazione al traino di un’armata predatrice di spagnoli
e dei loro alleati autoctoni non era sicuramente la via maestra
per condurre a una pacificata intesa i fieri Jivaros.
Ma il peggio doveva ancora venire, e per opera del giovane
ed entusiasta quanto scriteriato gesuita napoletano Francesco
Viva, che nel 1689 divenne superiore dei padri della regione.
Per aggirare le ostilità delle gerarchie civili e religiose di Quito
Viva concepì un piano complicato: la spedizione sarebbe stata
a costo zero per le casse reali, e in un anno e mezzo avrebbe
dovuto penetrare nella terra dei Jivaros e, anziché tentare l’opera
rivelatasi fallimentare di «ridurli» in villaggi, li avrebbe «trasferiti»
nelle varie missioni esistenti facilitando così la loro civilizzazione
e conversione. Sicuramente, sul distratto assenso concesso dalle
gerarchie – contro il parere degli altri missionari e dei civili di
Borja – pesava il mai sopito desiderio di impossessarsi delle
risorse di preziosi che pervicacemente si pensava esistere in
abbondanza nella regione. Nell’ottobre del 1691 la spedizione
partì agli ordini del governatore di Borja, con un seguito di 60
soldati spagnoli, di 800 indios, tre religiosi e 130 canoe; risalì
il Santiago e iniziò le spedizioni di cattura degli indocili Jivaros
nell’interno. Ma già nel gennaio del 1692 le consuete difficoltà
avevano spento gli entusiasmi; Viva era preda della malaria, i
rifornimenti erano scarsi e i Jivaros difficili da raggiungere. Si
decise allora di smobilitare le spedizione. Gli indios alleati tornarono ai loro villaggi senza i promessi utensili, salario standard in
questi casi; dei 370 Jivaros catturati un centinaio furono mandati
a Limpia Concepción degli Xeveros, il resto venne ripartito tra
gli spagnoli. «Piuttosto che assistere a un’altra ripartizione»,
scrisse padre Richter che accompagnava la spedizione, «preferisco ricevere cento frustate»22. L’infaticabile quanto testardo
padre Viva non deflesse dai suoi propositi negli anni successivi,
e continuò a organizzare altre spedizioni di cattura delle quali
122 Capitolo sesto
nel file
l’esponenete
di nota era
il 22bis
si hanno notizie numeriche: si catturarono 110 Jivaros nel 1692,
50 nel 1693, 20 nel 1694, 15 nel 1695, l’ultima che intraprese.
«Di questi prigionieri quasi tutti morirono in breve tempo o si
uccisero per la disperazione»23.
Non fu l’unica follia di padre Viva, che tentò l’insediamento
di un grosso villaggio, che chiamò «losNaranjos», in territorio
Jivaro, presto abbandonato. Vale la pena riportare il durissimo
giudizio di padre Lucero, che pure ne aveva viste di cotte e di
crude:
Il villaggio di «los Naranjos», fondato sul Río Santiago nel secondo
anno della spedizione contro i Jivaros, con lo scopo principale di fungere
da granaio per provvedere alle necessità delle future spedizioni, si trova
completamente distrutto e appena ci rimangono alcuni indios. Se ne
portarono 160 dall’alto Ucayali, e rimangono 7 persone; dai Simimaguas
si trassero 150 famiglie, e ne rimangono 3; vi si portarono 200 Aunalas,
e perirono tutti nel viaggio nel Marañon; si trassero più di 200 Andoas
e sono tutti morti in pochi giorni. I Jivaros restano nei loro monti, più
difficili da conquistare che mai. E ancora, si sono prese con le armi più di
700 persone [Jivaros], e la maggior parte dei prigionieri sono morti nelle
mani dei soldati che li ebbero in pagamento del loro lavoro. E siccome
questi soldati trattano e contrattano i prigionieri Jivaros come fossero
pezze di stoffa, vorrebbero che questa spedizione durasse altri sette anni.
E questo è lo stato del villaggio di los Naranjos, che tanto pregiudizio ha
causato alle nostre Missioni, e in questo si è risolto l’impegno del Padre
Viva, che promise la conquista ma che a conclusione del suo impegno ci
ha portato sul punto di perdere le Missioni24.
Solo nel 1767 un gesuita riuscì a metter piede nel territorio
Jivaro, con la riduzione di un certo numero di famiglie, ma, ahimé,
fu nello stesso anno stesso in cui venne decretata l’espulsione
dell’Ordine dalle colonie.
Il caso dei Jivaros pone in rilievo la fondamentale contraddizione dei tentativi di evangelizzazione in alta Amazzonia. Nella
fase iniziale i padri furono spesso gli accompagnatori di spedizioni
armate di conquista dalle quali nulla di buono poteva arrivare
agli indigeni, che rischiavano la schiavitù di fatto, la privazione
dei loro modi di vita, lo sradicamento dai loro territori. Il Padre
poteva solo agire su gruppi sottomessi ridotti in condizioni di
debolezza, subalternità, diffidenza. L’evangelizzazione non poteva
offrire né protezione dallo sfruttamento, né altri vantaggi, e cadeva
su un terreno reso sterile dall’azione violenta. Le etnie, come i
Amazzonia 123
Jivaros, ammaestrate dalle prime negative esperienze, difesero il
loro isolamento. Nel 1802 Humboldt, che aveva incontrato un
gruppo di Jivaros nei pressi del Marañon, osservava tra l’ingenuo
e il preconcetto: «Quanto l’uomo selvaggio e libero è diverso da
quello delle Missioni, schiavo della dottrina e dell’oppressione
clericale!»25.
Per gli abitatori del Grande Fiume spostamenti e migrazioni
erano abituali forme di vita. Lo consentivano le vie d’acqua,
l’immensità del territorio, la capacità di sfruttarne le varie risorse
vitali, la facilità con cui si costruivano e si abbandonavano gli
alloggi e gli insediamenti, il rilascio dei seminativi dopo pochi
raccolti e la loro preparazione altrove. Le vicende degli Omaguas, che al tempo della navigazione di Acuña e della visita di
Laureano de la Cruz (cfr. il cap. IV), popolavano le isole del
fiume su una lunghezza di molte centinaia di chilometri, tra
la confluenza del Napo e quella del Río Negro, sono un altro
esempio dello sconvolgimento che il contatto iberico causò tra
le popolazioni amazzoniche. Le sporadiche e confuse notizie
provenienti dal secolo precedente assegnavano agli Omaguas
un grado di organizzazione più complesso, opinione confermata
dalle prime cronache seicentesche: «le genti più intelligenti e di
miglior governo che ci siano in tutto il fiume»26. Erano già entrati
in contatto con gli spagnoli (Quijos), ma se ne erano ritratti, forse
portando con sé a valle, oltre alla diffidenza, qualche utensile,
nuove tecniche e conoscenze.
Fino agli anni Ottanta del Seicento gli Omaguas erano rimasti
fuori dal raggio di azione dei missioanri. Vale la pena di raccontare in che modo avvenne il contatto, che fu la conseguenza
dell’azione congiunta dei due maggiori fattori disgreganti delle
comunità amazzoniche: le epidemie e le intrusioni degli iberici.
Un’epidemia di vaiolo era esplosa, alla fine del 1680, tra gli indios
dell’alto Huallaga, presumibilmente in seguito ai contatti con
gli spagnoli di Moyobamba. La notizia si diffuse rapidamente
a valle fino alla missione di Santiago de la Laguna. Questa era
stata fondata una decina di anni prima dall’attivissimo padre
Lorenzo Lucero – diverrà in seguito il capoluogo del sistema
missionario e residenza del padre superiore – e vi vivevano varie
etnie. Gli indios sapevano che l’unica vera protezione contro il
vaiolo era la fuga e i Cocamas della missione decisero di fuggire:
con 65 canoe discesero al Marañon trovando rifugio in territorio
124 Capitolo sesto
Omagua. Passata l’epidemia, ritornarono a La Laguna, dove gli
indios Chepeos e Xitipos, che non avevano seguito l’esempio
dei Cocamas fuggiaschi, erano stati decimati dal morbo. Insieme
a loro c’era un gruppo di Omaguas, con il loro cacico. Questi
chiesero a Lucero l’invio di un Padre, presumibilmente perché
erano disponibili ad accoglierne l’opera, una sorta di protezione
nei confronti delle sempre più frequenti incursioni dei portoghesi
a caccia di schiavi27. Per qualche anno non fu possibile accogliere
la richiesta – il numero dei padri che operavano nelle missioni era
esiguo –, ma venne l’occasione buona con il passaggio alle Indie
di un missionario boemo, Samuel Fritz, che nel 1686 si diresse
da Santiago de la Laguna alle isole degli Omaguas. Padre Fritz
fu un personaggio di indiscusso valore e con grande ascendente,
sia sugli indios sia sugli europei. Un testimone oculare che lo
vide a Lima, in occasione della sua famosa visita al viceré per
sollecitare attenzione e aiuto, così lo descrisse:
Era il Padre Fritz alto, rosso di capelli e magro, di aspetto venerabile,
con una lunga barba, il suo vestito era una tonaca corta fino a mezza gamba,
tessuta con fili di palma, con rustici sandali ai piedi e una croce di chonta.
I nostri, nel vedere all’improvviso quell’uomo apostolico, accompagnato
da indios dalle sembianze e vesti esotiche (peregrino) che aveva portato
con se dal Marañon, rimasero come attoniti, dicendo che avevano visto
un Pacomio che stava uscendo dai deserti della Tebaide28.
L’arrivo di padre Fritz fu assai gradito dagli Omaguas, che
gli si fecero incontro con 30 canoe e grandi festeggiamenti. Egli
fece base nel villaggio più grande, che battezzò San Joaquín de
Omaguas e nel giro di tre anni prese contatto con 38 insediamenti
delle isole di un lungo tratto di Fiume impartendo una sommaria
predicazione. I villaggi visitati – per alcuni dei quali conosciamo
il nome – erano assai piccoli e sono sicuramente eccessive le
indicazioni date da alcuni contemporanei di una popolazione di
più di una decina di migliaia di persone. Tra l’altro, la dispersione
e il depauperamento causato dai portoghesi erano già iniziati da
tempo. Fritz si spinse oltre la zona abitata dagli Omaguas, qualche
centinaio di chilometri a valle della confluenza del Napo, fino
al Río Jutai, raggiungendo gli Yurimaguas insediati tra il Jutai e
il Juruá, gli Aisuares tra il Juruá e il Purús, gli Ibanomas ancora
più a valle fino al Japurá29. Si trattava di etnie culturalmente
affini agli Omaguas, che già da tempo subivano le incursioni dei
nel file questo
era l’esponente
28, poi si passava
all’esponente 29.
ma nelle note
compariva la nota
28 bis (Così Maroni...),
il cui esponente,
però, mancava
nel testo. dove va
posizionato? N.B. sarà
il numero 30.
va
9.
ota
aroni...),
e,
va
.B. sarà
Amazzonia 125
portoghesi ed erano decimate dalla riduzione in schiavitù, dalla
dispersione migratoria e dalle epidemie.
Le vicende di padre Fritz hanno del romanzesco, in accordo
con la sua personalità e con le travagliate vicende degli Omaguas.
Nel 1689 si ammalò di febbri tra gli Yurimaguas, ove rimase
per tre mesi bloccato nel villaggio inondato; decise di scendere
al Pará per curarsi ma anche per perorare la causa delle sue
genti. Qui restò bloccato dalle autorità portoghesi per quasi
due anni. Venne infine «riaccompagnato» dai portoghesi – che
erano anche in cerca del «limite» (cippo di confine) posto da
Teixeira nel 1637 per segnalare il confine del tratto di fiume di
pertinenza dei lusitani. Fritz trovò le sue isole spopolate per
le fughe prodotte da altre incursioni verificatesi durante la sua
assenza. La sua opera instancabile, su e giù per il Grande Fiume
dalla base di San Joaquín de Omagua, era segnata dai tentativi
di scoraggiare le fughe, richiamare i fuggiaschi, insediare nuovi
gruppi migranti, sedare rivolte, contrastare (invano) la pressione
portoghese. Perse poi fiducia nelle lontane autorità spagnole –
nonostante la drammatica visita fatta al viceré a Lima cui abbiamo
accennato – incapaci di reagire sia militarmente sia politicamente
presso la Corona, per conservare la sovranità sul Fiume. Una
raccogliticcia spedizione di contrasto, 50 soldati da Quito – quasi
la metà dei quali morì – e altrettanti da Borja e Moyobamba,
posta al comando di un capitano con l’ausilio di indios amici, e
Fritz come cappellano, ebbe solo effetti effimeri sui portoghesi
che evitarono un confronto, e nel contempo ebbe effetti peggiori
sugli indios del Napo che i Quiteños avevano tentato di portare
indietro come schiavi. Tra il 1707 e il 1711 il territorio Omagua
fu definitivamente perso e il sigillo dell’abbandono fu posto nel
1711 dall’Audiencia di Quito che rinunciò a ogni pretesa territoriale per mancanza di risorse.
Dopo varie spedizioni, i portoghesi si insediarono definitivamente alla
confluenza del Javarí, e il loro bastione più occidentale fu San Pablo de
Omaguas. Ancora dopo il 1710 i gesuiti visitarono il territorio occupato,
ora per raccogliere indios, ora per dimostrare il loro diritto di evangelizzare quelle genti. In incursioni isolate i portoghesi entrarono in Mainas e
– nel 1732 – fino a La Laguna. Ancora nel 1733 era diffuso il timore che
i portoghesi mirassero a controllare il Napo per aprire il commercio con
gli spagnoli e arrivare alle miniere di preziosi. Le relazioni tra Spagna e
Portogallo, comunque, si normalizzarono solo dopo le negoziazioni di pace
del 1762nuovo esponente.
126 Capitolo sesto
Parte delle popolazioni Omagua e delle altre etnie evangelizzate da padre Fritz si ritirarono a monte del Fiume, in territorio
spagnolo.
Sicuramente gli Omaguas, dalle molteplici testimonianze
a noi giunte, erano tra le popolazioni più evolute del Grande
Fiume; la loro lingua apparteneva al ceppo tupí ma molti conoscevano il quechua; erano capaci di filare e tessere, bravi vasai e
carpentieri, abili nel costruire canoe; andavano vestiti. Sentiamo
padre Fritz:
Per lo più gli Omaguas sono uomini di media statura, robusti e più
scuri degli indios della selva; molto curiosi, ciarlieri e superbi; ognuno
ha, nella sua casa, uno o più schiavi o servi di qualche nazione della terra
ferma, avuto in guerra o per scambio di utensili [...] Poiché l’Omagua è
superbo, sdraiato nell’amaca con aria da signore, comanda al servo o alla
serva, allo schiavo o alla schiava che porti da mangiare, porti da bere o
altre cose simili; per lo più li guardano con molto amore, come fossero
propri figli, li provvedono di vestiario, dormono sotto lo stesso tetto, senza
vessarli in alcun modo.
A San Joaquín c’era poi qualcosa di grandissimo valore: valore
di scambio e valore di uso, per tutta la regione:
L’officina del fabbro era utilissima: c’erano tre maestri, un Omagua
abile, che imitava ciò che vedeva, chiamato Pablito, che faceva chiavi,
cardini e altro, un Yameo e un Mayoruna con i loro assistenti, che lavoravano settimanalmente, due a due, e si pagava loro tutto, dandogli carbone,
utensileria e due incudini [...] Venivano da tutte le Missioni basse, del
Napo, del Nanay e del Tigrenuovo esponente.
Poiché gli Omaguas vivevano già in villaggi con un certo ordine,
fu risparmiata ai padri la fatica di Sisifo di radunarli per poi convertirli. Quando padre Uriarte (cfr. il cap. IV) fu posto a capo della
missione di San Joaquín, nel 1756, le complesse vicende avevano
mescolato la popolazione e accanto agli Omaguas c’erano Migueanos, Amaonos, Mayorunas, Masamaes, Yurimaguas e Cocamas;
spesso si trattava di poche famiglie di gruppi dispersi e ormai in
estinzione. Il villaggio era in ripresa: nel 1732 la sua popolazione
era scesa ad appena 360 abitanti, 200 dei quali erano Omaguas
e 160 di altre etnie, «e ce ne sarebbero stati molti di più se non
fosse che molti infedeli tratti dalla selva col loro consenso, o vi
sono ritornati per la loro notoria incostanza, o sono morti»33.
da qui la sequenza
degli esponenti
di nota corrisponde
alle note reali,
vedi pp. 238-239
quenza
enti
isponde
li,
8-239
Amazzonia 127
Uriarte descrive un villaggio ordinato e piacevole:
Posto sulla riva destra del Fiume, che compiva un largo arco a monte
e scorreva diritto verso valle; sulle rive del fiume c'erano campi e frutteti.
Sul fronte una piazza con la Chiesa, la casa del Padre, il Cabildo. Ai due
lati della Chiesa correvano due lunghe strade, con le case tutti uguali,
distanti l’una dall’altra venti varas – per evitare il propagarsi degli incendi – e incrocianti altre due strade; e poiché il villaggio declinava verso il
porto, tutte le abitazioni avevano la vista del fiume.
La chiesa, ricostruita di recente dopo essere stata distrutta
da un fortunale, destava l’ammirazione di Uriarte:
Aveva un grande portico, tre navate con tre porte d’ingresso, grandi
finestre laterali, il coro, un altare preziosamente decorato; lungo le pareti
laterali e quella d’ingresso correva un soppalco dove assistevano alle funzioni
alla sinistra le bambine e a destra i bambini, e al fondo le autorità e una
poltrona di cuoio con finiture di argento per il Governatore di Mainas,
nel caso di una sua visita.
Nulla a che fare con le chiese barocche delle missioni del
Paraguay che non avrebbero sfigurato in una città europea, ma
tuttavia una costruzione gradevole e dignitosa. C’era poi una
complessa organizzazione civile sotto la sorveglianza del Padre.
C’erano un
Governatore generale, che era a vitalizio, un Capitano per ogni parcialidad,
così come un Alfiere o Sergente della Milizia con le sue insegne. Questi
avevano il compito di radunare gli uomini per le entradas, che facevano
col Padre o a volte anche da soli, essendosi confessati, con interpreti e con
le loro armi e canoe, alla ricerca di indios da attrarre nella Missione34.
All’epoca di Uriarte portarono a San Joaquín, per tre volte,
diversi Masamaes, e per due volte dei Mayorunas. Ogni anno
venivano eletti dei dignitari per ogni parcialidad che sotto il
comando di un alcalde maggiore (che era un Omagua) avevano
una serie di incombenze, con turni settimanali, di aiuto al Padre,
ronde nei giorni di festa, sorveglianza, manutenzione delle canoe,
mantenimento dell’ordine pubblico. Essi individuavano i mitayos
per il sostento del missionario e della sua casa; organizzavano
le spedizioni per la raccolta delle uova di tartaruga nell’Ucayali
e quelle per l’estrazione e la raccolta del sale. Infine venivano
eletti dei fiscales per assecondare il Padre nelle attività religiose:
128 Capitolo sesto
coadiuvarlo nell’istruzione dei bambini, nella manutenzione
della chiesa, suonare le campane, soprintendere le processioni.
Dovevano poi informarsi sui moribondi e sui parti, avvisando
il Padre che doveva assisterli o battezzare i neonati; dovevano
poi vegliare che i familiari seppellissero i loro congiunti, e se si
trattava di orfani, dovevano seppellirli loro stessi35.
Nonostante la buona organizzazione e la relativa tranquillità
dei rapporti sociali, San Joaquín, come altre missioni, doveva
di continuo rinnovarsi, cercando di attrarre nuovi adepti, intraprendendo entradas, cercando di recuperare chi abbandonava il
villaggio. La cui popolazione non superò mai il migliaio di anime,
e rischiò, anzi, l’estinzione.
I progressi e i rovesci che subirono i missionari nella regione
non permisero mai alla rada tela dell’evangelizzazione di conseguire risultati stabili e soddisfacenti. In molti casi, la rete fu lacerata
violentemente e l’opera compiuta venne distrutta. Restando ai
gruppi maggiori, il caso dei Cocamas – che vivevano nel basso
corso dell’Ucayali – illustra uno degli episodi più gravi e cruenti.
Si trattava di uno dei gruppi più numerosi, di lingua tupí, già
visitati da Juan de Salinas nel 1559, e che secondo il cronista
della prima spedizione spagnola del 1619 erano circa 20 mila. I
Cocamas erano ritenuti assai pericolosi per le loro scorrerie.
Ogni anno partivano in spedizioni di 40 o 50 canoe [...] passavano al
Río Huallaga e navigando per questo e per il Marañon, per gli affluenti e
le lagune, sgozzavano chi incontravano, portandosi via le teste, che era lo
scopo – assieme a quello di rubare utensili – di queste spedizioni. Per questa
ragione non c’era chi si azzardasse a navigare questi fiumi da gennaio a giugno,
il tempo delle piene, quando usano [...] partire queste spedizioni36.
Padre Cugia visitò tre villaggi con 30, 40 e 80 case, e valutava
l’intera popolazione Cocama in 10-12 mila persone37. Padre Bartolomé Perez vi fondò la missione di Santa Maria de Ucayali che
contava «400 uomini d’armi», cioè, presumibilmente, 1.500-2.000
persone. Nel 1657 subentrò padre Tomás Majano, ma sembra
che gli indios non gradissero il suo eccessivo zelo, per cui nel
1663 cominciarono a verificarsi episodi di insubordinazione e di
rivolta che coinvolsero i Chepeos e altri gruppi etnici vicini. Gli
indios della missione si dispersero, e una spedizione guidata dal
tenente di Borja si risolse in una prima repressione, con l’esecu-
Amazzonia 129
zione di dieci cacichi a capo della sollevazione, di cui già abbiamo
detto. Ma la rivolta non era sedata, e i Cocamas ripresero le loro
scorrerie, e in una di queste, all’inizio del 1666, uccisero padre
Figueroa che discendeva lo Huallaga dalla sua missione di Limpia Concepción; poi risalirono alla missione rimasta orfana del
suo parroco e vi uccisero 44 indios e uno spagnolo. Gli spagnoli
erano lontani e tardarono a intervenire, e in un’altra spedizione
i Cocamas distrussero e incendiarono la missione di Santa Maria
de Huallaga. Fu solamente nel 1669 che il nuovo governatore di
Mainas riuscì a mettere insieme una spedizione con 20 soldati
spagnoli e 200 tra Xeveros e altri indios amici; in uno scontro
sulle rive dell’Ucayali furono uccisi 200 Cocamas, fatti prigionieri
molti altri e «dopo un processo sommario, furono impiccati molti
colpevoli di omicidi e altri delitti». La testa di Figueroa, che era
stata conservata dai Cocamas come trofeo, venne recuperata e
conservata «in Borja come preziosa reliquia»38. Cappellano della
spedizione era stato padre Lucero, che nell’anno successivo fondò
la missione di Santiago de la Laguna, futuro «capoluogo» delle
missioni. Ne divennero residenti molti dei Cocamas domati,
mentre altri già convertiti avevano seguito qualche anno prima
padre Majano nello Huallaga39.
Tutta l’opera di evangelizzazione durante i centotrenta anni
considerati fu caratterizzata dalla precarietà degli insediamenti
e dal susseguirsi di fondazioni, trasferimenti, abbandoni, fughe,
ritorni, aggregazioni e disgregazioni. Le storie sopra riferite riguardano alcuni gruppi più numerosi, ma ognuna delle decine
di etnie incontrate dai missionari ha storie fluide e complicate,
alcune volte dettagliatamente descritte, altre note per brevi e
occasionali accenni. Si sfidavano da un lato la caparbietà degli
evangelizzatori e dall’altro la fluidità delle popolazioni da convertire, e questa difficile sfida era resa ancora più ardua dalla
frequente azione repressiva e militare, e comunque violenta, degli
iberici e dal serpeggiare delle nuove epidemie. Ma anche in assenza di epidemie e di repressioni l’opera di evangelizzazione si
rivelava frustrante. Leggiamo la testimonianza esemplare di un
vero operario, padre BartoloméArauz, nella sua inconcludente
attività pastorale tra i pochi e dispersi Coronados:
Tutto questo anno, Padre mio Rettore, l’ho passato nel tessere e nel
disfare, nel costruire e nel demolire [...] il massimo che ho potuto ottenere
130 Capitolo sesto
da questi barbari cristiani fu che si fissassero in sette frazioni corrispondenti
ai clan dei cacichi. Oggi ne rimangono solo tre. Una è abitata, per le altre
due si sta disboscando per fare seminativi così che possano alimentarsi [...]
Questi bruti con raziocinio si addomesticano solo col rigore e assicuro a
Vostra Eccellenza che per far quel poco che si è fatto è stato necessario
distribuire frustate, mostrarsi esasperato e minaccioso. Tutte le volte invece
che li ho trattati bene, non mi hanno dato retta e hanno ripagato la mia
affabilità scomparendo, beffandomi e assentandosi40.
Sfogo sincero in una storia di ordinaria missione, non turbata
da particolari conflitti e violenze.
Con il passare del tempo e il consolidarsi della rete delle
missioni nell’immenso territorio, apparve anche evidente l’estrema
necessità di «rifornire» le precarie missioni di neofiti per evitarne
il declino o la sparizione. A San Joaquín de Omagua, nel 1755,
si riunirono assieme a padre Uriarte e al superiore padre Iriarte,
arrivato da Santiago de La Laguna, altri tre religiosi incaricati
di missioni circostanti, e tutti quanti convennero – e decisero –
che ogni anno si organizzasse una entrada evangelizzatrice nelle
vicinanze (un termine relativo, data la grande estensione del
territorio) di ciascuna missione. Riferisce lo stesso Uriarte, con
involontaria ironia, che padre Iriarte continuò il suo viaggio nel
Napo con il suo seguito, e catturò un certo numero di indios
che però gli sfuggirono tutti nella selva41
Delle spedizioni militari si è già detto: esse non furono più
frequenti solo perché scarsi erano i mezzi a disposizione; c’era
una modesta e scalcagnata guarnigione agli ordini del tenente a
Borja, e la necessità, in operazioni più impegnative, di soccorsi
provenienti da centri ancora più lontani, come Moyobamba.
Tuttavia il terrore che queste incutevano era tremendo – la memoria delle feroci repressioni si trasmetteva rapidamente ed era
difficile da scordare – e la tattica spesso adottata nelle entradas
pacifiche di avvicinarsi ai villaggi sparando, e lo stesso «odore
della polvere», gettava nello sgomento le popolazioni. Padre de
la Cueva scriveva al padre provinciale:
Chiedo alla Eccellenza Vostra che se il mio insegnamento e la riduzione
degli indios devo farlo [con l’aiuto di soldati] allora mi richiami nel mio
convento, perché non posso ottenere nessun risultato in tale compagnia
[...] Riuscimmo poi a ottenere dal Governatore che nelle nostre riduzioni
i soldati non debbano stare, né essere visti42.
Amazzonia 131
Lo stesso de la Cueva, vent’anni dopo, in un lungo rapporto
a padre Cugia, affermava che i missionari non dovevano andare
in esplorazioni con gli indios, nel corso delle entradas, ma restare
al sicuro al campo base43. Padre Maroni, cui si deve la fondazione di molte nuove missioni, osservava che nei primi tempi le
spedizioni ordinate dai governatori e dai loro luogotenenti erano
di conquista, coinvolgevano una truppa relativamente numerosa
e violenta, e che il frastuono degli spari, l’odore della polvere,
la devastazione dei campi coltivati e le razzie delle provviste
generavano distruzione e morte. Per padre Figueroa le armi da
fuoco provocavano addirittura le epidemie: «Specialmente il
fracasso dei colpi di archibugio, l’odore della polvere e la paura
delle pallottole, ne trasforma e muta gli umori di modo che si
scatenano in acciacchi mortali»44. Era stato un bene per l’evangelizzazione che la popolazione degli spagnoli e le guarnigioni
di soldati nella regione fossero diminuite di numero, e che le
spedizioni ai suoi tempi fossero di qualche decina di indios,
assistite da due o tre soldati spagnoli, agli ordini del Padre. In
ogni caso, fin dal 1683, un ordine reale disponeva che nel caso
di spedizioni con presenza di soldati, questi dovessero essere
agli ordini del cappellano acompagnatore45. Nel 1735, in un
lungo rapporto, padre Nieto Polo analizzava le gravi difficoltà
di ridurre gli indios che ormai vivevano lontani dalle grandi vie
d’acqua più frequentate, in luoghi difficilmente accessibili e che
erano terrorizzati sia dagli spagnoli sia dai portoghesi. D’altro
canto, i religiosi non dovevano avventurarsi in spedizioni con la
scorta di soli indios, che senza la guida e l’appoggio di soldati
spagnoli disertavano o comunque evitavano difficoltà e pericoli;
infatti, gruppi bellicosi come i Jivaros, i Piros, i Cunibos, gli
Abijiras, e altri ancora, avevano ucciso dei missionari. «Invece,
con una scorta di tre o quattro spagnoli con armi da fuoco, gli
indios sono capaci di grande coraggio e sono ubbidienti alle
esortazioni dei Padri»46.
Insomma: senza appoggio militare era difficile, se non impossibile, penetrare nei territori inesplorati e attrarre gli indios nelle
riduzioni; ma le spedizioni militari indiscriminate seminavano
terrore e sospingevano gli indios verso zone interne e inaccessibili.
Occorrevano dunque prudenza ed equilibrio: che i Padri andassero con una piccola scorta, sufficiente a rafforzarne l’autorità,
ma non tale da gettare il panico tra le genti amazzoniche.
132 Capitolo sesto
C’era tuttavia un potente fattore di attrazione a disposizione
dei missionari, ampiamente impiegato, e con successo, nel bacino
amazzonico, e di cui i religiosi si industriavano di ottenere una
buona dotazione sia nelle missioni sia nelle loro spedizioni. Si
trattava di oggetti di acciaio e di ferro, come le asce e i cunei, i
coltelli e i machete, gli aghi e gli ami. La loro disponibilità faceva
compiere alle popolazioni del Grande Fiume un balzo istantaneo, dal Neolitico all’Età del ferro, e per questa ragione erano
enormemente ambiti. Con questi utensili le attività vitali di un
gruppo della foresta diventavano enormemente più agevoli, meno
faticose e meno lunghe. Diremmo oggi: si compiva un enorme
salto in avanti della produttività. Tutte le attività che ruotavano
attorno al legno – la costruzione di una canoa, di una capanna,
di un arco o di una cerbottana – ne venivano notevolmente
agevolate. È stato calcolato che l’abbattimento di un albero dal
tronco di un metro di diametro, adatto a ricavarne una canoa, che
con un’ascia di pietra (oggetto raro ottenuto mediante scambio)
avrebbe richiesto un centinaio di ore di lavoro, ne richiedeva
un decimo o un ventesimo con un’ascia di acciaio47. E analoghi
vantaggi con machete e coltelli si avevano nella preparazione di
un campo, l’apertura di un sentiero, il taglio di rami per coprire
le capanne, la manifattura di utensili di legno. O nella pesca con
gli ami di acciaio, nella confezione di indumenti e nella preparazione di reti con gli aghi. Il gruppo dotato in abbondanza di
questi utensili acquisiva un enorme vantaggio rispetto ai gruppi
che ne erano sprovvisti. Da qui si capisce come potesse diventare
vantaggioso lo scambio tra l’obbedienza al Padre e l’adesione a
una disciplina, se imposta con consapevole e sapiente gradualità,
e il possesso di questi miracolosi strumenti. Il protagonismo degli
utensili di ferro e di acciaio traspare in continuazione nelle lettere
e negli scritti dei religiosi. Si rinuncia a una spedizione se ritenuti
insufficienti o mancanti. Indios amici si estraniano se vengono
a mancare. Si cerca di tenerne una buona scorta nelle missioni
come moneta di scambio. Si cura la costruzione di fucine – come
tra gli Xeveros e gli Omaguas – per fabbricarli e ripararli. Gli
indios ne fanno oggetto di scambio – schiavi contro asce – o
di rapina. Raccontava padre Richter: «Un giorno un indio si
presentò a Padre Lucero. Prendi, ti regalo mio figlio ma tu mi
dai in cambio un’ascia o una vanga»; padre Lucero gli inflisse
un sermone e l’indio rispose: «Padre, di figli ne posso generare
quanti ne voglio, ma un’ascia no»48. Aneddoto probabilmente
Amazzonia 133
apocrifo, ma altri episodi sono indubbiamente veri. Dopo la
disastrosa spedizione tra gli Jivaros di padre Riva, de la Cueva
andò a Quito per chiederne – e ottenerne – la destituzione, ma
anche per cercare un sostegno che gli fu concesso. Ritornò alle
missioni con altri padri e, soprattutto, con molti quintali di ferro
e di acciaio, cinquecento asce e altri utensili, materiale per una
fucina «unica esca con la quale si guadagna la loro volontà [degli
indios] e si attirano questi gentili all’amicizia, alla convivenza,
alla dottrina»49. I selvaggi Jivaros, nella spedizione della quale fu
cappellano Lucero, si avvicinarono agli spagnoli con intenzioni
apparentemente amichevoli ma, una volta ricevuti asce e machete,
fecero dietro front e sparirono nella selva, non senza lasciarsi
dietro una scia di uccisioni50. All’inverso, la prima spedizione
di padre Viva, sempre tra i Jivaros, fallì anche perché non fu in
grado di pagare gli indios alleati con gli utensili promessi, mentre
grande successo aveva avuto de la Cueva con il modesto dono
di dodici asce e dodici coltelli tra gli isolatissimi Abijiras in una
spedizione assai travagliata51. Quando padre Fritz discese tra
gli Omaguas, scrisse a padre Rubio, informandolo della buona
accoglienza ma anche implorando l’invio di utensili «perché sono
le cose più necessarie in questi posti [...] e [gli indios] mi assillano continuamente perché abbisognano di asce e macheti per
ripulire i loro seminativi, e poiché io non ne ho, sono obbligato
a ricorrere a Vostra Eccellenza per chiedere questi doni»52. E
Quito era lontana, oltre le Ande. Nel 1736 le missioni erano in
allarme perché circolava voce che i portoghesi armassero nuove
spedizioni per il controllo del Marañon e del Napo, e aveva
creato sospetto il rientro a Santiago de la Laguna di un gruppo
di Cocamas che avevano vissuto un paio d’anni tra i portoghesi
ed erano tornati con nuove vesti, attrezzature varie, e perfino
«archibugi così nuovi e precisi da non sfigurare nelle mani di
un capitano in Europa». Tornati forse per complottare e spiare,
comprati dal ferro e dall’acciaio53. Ancora nel 1742, nella più
civile San Joaquín de Omaguas, il parroco padre Widman aveva
rinunciato a una spedizione tra vicini indios «gentili» per mancanza di coltelli, asce, machete, aghi, ami «che sono i doni con
i quali le anime dei gentili sono attratte alla cristianità»54.
Naturalmente al ferro e all’acciaio non va attribuita una
funzione sproporzionata nel determinare la natura dei rapporti
tra padri e indios che erano assai complessi e sui quali le qualità
di leadership, convinzione e mediazione del singolo missionario
134 Capitolo sesto
erano spesso decisive, così come le sue capacità organizzative e
tecniche. C’erano altri elementi che avevano un’enorme rilevanza.
Per esempio, la capacità di comunicare in una regione estremamente frammentata per la molteplicità delle lingue parlate, dove
coesistevano assieme ai maggiori ceppi (tupí, arawak, pano) altri
linguaggi isolati, era essenziale. Ma anche all’interno della stessa
famiglia linguistica, i diversi dialetti erano spesso mutuamente
incomprensibili. «Troppe lingue, in questa regione, seminate
dal diavolo per rendere la conversione degli indios più difficile»
scriveva amaramente un missionario55. I padri dovevano anzitutto
conoscere almeno la «lingua dell’Inca», cioè il quechua, e se ne
raccomandava l’insegnamento e la diffusione tra i neofiti. Per
procedere nella loro opera, i religiosi avevano necessità assoluta
di lenguas, cioè interpreti: funzione spesso assolta dai viracochas,
i meticci, oppure da ragazzi rapiti da una comunità e addestrati
come interpreti. La strategia di accostamento a nuovi gruppi
della selva amazzonica consisteva nell’avvicinarsi a un gruppo
di alloggi, circondandoli; inviare un interprete-ambasciatore con
doni a parlamentare; stabilire poi un contatto diretto con il Padre
intavolando le trattative che nei casi più fortunati potevano portare
alla fondazione di una nuova – anche se spesso effimera – riduzione56. Il rapimento di ragazzi era considerato fatto normale e
positivo, sia perché avrebbe facilitato la missione dei padri, sia
perché si sarebbe così salvata un’anima destinata a perdersi. Il
ruolo degli interpreti restò importantissimo anche per assicurare
la comunicazione interetnica quando gruppi diversi – anche linguisticamente – vennero a convivere nella stessa missione.
Nel concludere questo capitolo, la cosa migliore da fare
è ridare la parola al cronista forse più intelligente e attento
dell’epoca: proprio quel padre Figueroa che venne ucciso e decapitato sulle rive dell’Ucayali nel 1666, che era entrato in Mainas
nel 1640 e che era stato uno dei protagonisti della prima fase
dell’evangelizzazione. Le sue opinioni vennero riprese e condivise
dal padre Rodriguez, un quarto di secolo più tardi, e da padre
Maroni, altro missionario di grandissima esperienza, nel secolo
successivo. Nonché da padre Chantre y Herrera, nella sua storia
delle missioni, scritta a Faenza dopo l’espulsione: non aveva mai
messo piede in America ma scrisse con l’assistenza attiva di altri
padri esuli come Uriarte e Iriarte, che nelle missioni avevano
trascorso gran parte della loro vita. Seguiamo dunque Figue-
Amazzonia 135
roa, nei due capitoli intitolati «Dei danni che patiscono queste
nazioni quando si pacificano e si insediano» e «delle altre gravi
difficoltà che incontrano queste missioni»57. In primo luogo, lo
sterminio per mortalità, «perché si è sperimentato che quando
entra nelle loro case la luce del cielo [la vera religione] seguono
le tenebre e gli orrori delle pesti e delle mortalità catastrofiche»;
ne consegue «la perdita della maggior parte [degli indios...] per
le pesti che li colpiscono per i contatti con gli spagnoli e con le
terre fuori della selva», per cui «è necessario che il Padre tenga
in una mano l’ascia e il coltello per aiutare gli indios nelle loro
coltivazioni e la vanga nell’altra per scavare le fosse per seppellire
i morti». In secondo luogo, la scarsità del cibo; e questo avviene
non solo quando vengono distrutti i loro campi in conseguenza
di entradas armate, ma anche quando si obbligano a trasmigrare
«senza criterio, alla barbara», prima che possano procurarsi il
loro sostentamento, oppure in ambienti e climi diversi.
Si cerchi di fare le migrazioni in paraggi più vicini al loro ambiente
naturale, lasciandoli andare a loro modo, come sono usi fare quando
cambiano i loro insediamenti e le loro capanne, che lo fanno di frequente,
preparando prima i loro campi e i loro seminativi; e quando i frutti maturano, allora costruiscano le loro abitazioni, procurando che non arrivino
donne e bambini prima che si disponga di sufficiente cibo.
In terzo luogo, quando si prende contatto con nuove genti
nelle loro terre, non lo si faccia repentinamente, né con soldati,
ma si prenda contatto «con interpreti, o con indios amici e vadano
a poco a poco prendendo confidenza e facendo conoscenza con i
Padri». Tuttavia non sempre questo si può fare «e se non si può
fare altro, si faccia quel che si può, facendo incursioni a mano
armata e catturando qualche indio e questi, acculturandosi in
nostre mani, servono poi per trattare, parlare, acquietare i loro
familiari». Ci sono poi altri ostacoli, come la scarsità dei padri
e la varietà delle lingue «che sono tante quante sono le nazioni
(tribù)», ma è necessario che un padre ne apprenda i rudimenti
per poter comunicare e indottrinare direttamente, senza interpreti, e questo è possibile farlo, «richiede fatica, ma non manca
di seguirne un vantaggio». I padri, poi, dovranno darsi da fare
per insegnare la «lingua dell’Inca», specialmente ai bambini e
agli adolescenti, assai più adatta alla loro cultura dello spagnolo
e, al contempo, dagli effetti civilizzatori. E, infine, la vastità della
136 Capitolo sesto
regione, le enormi distanze dalle città spagnole, l’ostacolo delle
Ande, l’incertezza e pericolosità delle navigazioni, la lentezza
delle comunicazioni, la precarietà dei rifornimenti.
Un’ultima considerazione: l’entrata degli iberici in Amazzonia
ebbe effetti che si ripercossero rapidamente in tutta la sterminata regione. Anzitutto il terrore e il timore degli europei, che si
diffuse velocemente precedendo la loro intrusione fisica. Poi le
patologie e le epidemie, generate da scambi e contatti, le quali,
in molti casi, precedettero l’arrivo degli iberici. Infine le nuove
tecnologie, cioè gli utensili di ferro e di acciaio, che furono fattori
di forte attrazione. Tre forze globalizzanti che condizionarono
notevolmente l’azione dei padri, che il generale dei gesuiti Tirso
Gonzales considerava troppo ambiziosa e inadeguata alle dimensioni reali dell’impresa evangelizzatrice58.
VII. Paradiso dell’antropologo, purgatorio del demografo.
Molti o pochi indios? Un umile frate che faceva di conto.
Fughe e catture; arrivi e partenze; fondazioni, spostamenti
e abbandoni. Le stragi del vaiolo. Vaccinazione nella selva
P
er i padri di Mainas l’instancabile opera di contatto con
le popolazioni indigene, il tentativo di insediarle stabilmente in
villaggi organizzati e di convertirle a modi di vita profondamente
diversi, fu una «missione impossibile»; lo fu per l’estrema frammentazione, la fluidità e la varietà dei gruppi incontrati, per la
loro dispersione su un vastissimo territorio, per l’inadeguatezza
delle risorse umane e materiali messe in campo, per gli errori
compiuti. E missione impossibile appare anche quella di volere
ricostruire, sulla base di elementi evanescenti e frammentari,
le vicende demografiche di queste popolazioni disperse. Se gli
indizi disponibili sono deboli, e gli elementi quantitativi inadeguati, come ricostruire un quadro complessivo delle vicende
demografiche? Come delineare il «funzionamento» del sistema
demografico amazzonico, se di «sistema» si può parlare? Quale
fu l’impatto del contatto con gli europei? Vi fu veramente una
catastrofe demografica in seguito al contatto? E se vi fu catastrofe,
essa fu conseguenza delle nuove malattie importate dagli iberici
o fu anche dovuta agli altri sconvolgimenti subiti dalle società
indigene? Non vi sono risposte certe a queste domande, ma
qualche ipotesi fondata è possibile e altre si possono escludere,
e un ragionevole quadro da consegnare alla ricerca può essere
immaginato. È l’obiettivo di questo capitolo.
Paradossalmente, se le popolazioni del Grande Fiume rappresentano un inferno – o un purgatorio – per il demografo,
esse sono un paradiso per l’antropologo. Pure nell’esiguità dei
documenti, quella frammentazione, fluidità e varietà del popolamento che rende difficile l’analisi demografica, arricchisce quella
antropologica che fa, dell’Amazzonia, un Eden per gli studiosi.
Vedremo però che di questo Eden può avvalersi anche il nostro
140 Capitolo settimo
tentativo di interpretazione demografica. Per tutti coloro che si
avventurano nello studio delle società amazzoniche del passato
si impone la cautela sull’uso delle dettagliate analisi delle società
indigene di oggi – o di un ieri recente – per comprendere le società
indigene dell’epoca coloniale. Queste ultime sono state troppe
volte sconvolte e rimescolate e troppo spesso hanno perduto, o
profondamente mutato, i caratteri originari1.
Con l’inizio dell’evangelizzazione di Mainas nel quinto decennio
del Seicento, iniziano ad accumularsi alcuni indizi, anche quantitativi, sul popolamento amazzonico. Questi possono combinarsi
con le valutazioni circa le capacità potenziali di popolamento
dell’habitat della regione e con altre considerazioni, consentendo
di arrivare a stime «ragionate» della popolazione. Torneremo più
avanti sulla questione, ma prima occorre soffermarsi sulla tesi,
comunemente accettata, che tra Cinque e Seicento si sia prodotto
un vero e proprio tracollo demografico. È opinione comune che fin
dall’inizio, il contatto con gli iberici abbia scatenato effetti distruttivi
e che, verso la metà del Seicento, la popolazione amazzonica si
ritrovasse drammaticamente ridotta. Una tesi diversa sostiene che
lo sporadico contatto con gli iberici e il relativo isolamento della
regione amazzonica non abbiano consentito lo scatenarsi di processi distruttivi e che, a un secolo di distanza dal primo contatto,
la situazione non fosse troppo diversa da quella iniziale. Si tratta
di una questione aperta, da affrontare senza idee preconcette, ma
ulteriormente complicata dal conflitto irrisolto tra un’antropologia
di tipo tradizionale e una di tipo moderno: la prima convinta che
il popolamento al tempo del contatto fosse sparso ed esiguo, anche
in conseguenza delle costrizioni ambientali, la seconda sostenitrice
di un’opinione contraria. Julian Steward, l’influente coordinatore
dello straordinario Handbook of American Indians, alla metà del
secolo scorso, così sintetizzava la differenza tra le culture andine
e quelle della foresta tropicale:
Le civiltà delle terre alte si fondavano su un’agricoltura intensiva su
terre che non dovevano essere disboscate. Una popolazione densa richiede
un’organizzazione sociopolitica elaborata; surplus produttivi permisero
articolazioni elaborate religiose, artistiche e manifatturiere. Le culture
della foresta tropicale erano adattate a un ambiente torrido, umido e con
una densa foresta. La caccia, la pesca e un’agricoltura del taglia e brucia
producevano bassa densità demografica e piccole comunità2.
Amazzonia 141
Nei decenni successivi è emersa una visione assai diversa delle
culture della foresta tropicale. Cito a questo proposito un’altra
autorevole voce, quella di Anna Roosevelt, secondo la quale il
popolamento all’epoca del contatto era assai notevole:
Anziché essere ovunque rado, mutevole e disperso sul territorio, come
è spesso il caso oggi, le popolazioni di molte zone crebbe rapidamente
durante la tarda preistoria, si insediò in grandi villaggi e città [towns]
che in alcuni casi erano più grandi di quelle di alcune precoci civiltà del
Vecchio Mondo.
E ancora:
Sulla base della loro numerosa popolazione, infrastrutture pubbliche,
insediamenti differenziati, elaborata arte cerimoniale, scambi di lunga
distanza e simbolismo elitario queste società sono state spesso considerate
come dei complessi chiefdoms3.
Molti autori hanno visto nelle relazioni dei primi viaggi la
dimostrazione di un popolamento assai vivace ed esteso, con densi
insediamenti rivieraschi che controllavano territori circostanti più
ampi, società stratificate con capi, aristocrazie e schiavi; conflitti
e scambi con popoli vicini4.
Non avendo la competenza per dirimere punti di vista così
distanti, anche sotto il profilo teorico, debbo dire che la lettura
delle relazioni sui viaggi di Orellana e Ursúa-Aguirre (capp.II e
III) non sostengono l’idea di un popolamento intenso all’epoca
del contatto. Molti tratti – forse un terzo – del fiume apparivano
spopolati; altri erano popolati con insediamenti assai distanziati;
in altri ancora c’erano villaggi più consistenti. Almesto e Vázquez
considerarono il fiume «malsano e poco popolato»5. Non appaiono grandi differenze tra il circostanziato racconto di Acuña,
in viaggio con la spedizione di Teixeira, e quelli dei compagni
di viaggio di Orellana e Ursúa-Aguirre quasi un secolo prima.
Naturalmente nessuno è in grado di tradurre le impressioni di
viaggio in cifre, e la questione rimane aperta.
Capire se tra il Cinquecento e il Seicento si sia prodotto un
vero tracollo-catastrofe, oppure no, è fondamentale. Nell’appassionante dibattito sul popolamento americano è emerso il
convincimento che in ogni contrada del continente l’incontro,
anche sporadico, con gli iberici sia stato indubbio motivo di
rovinoso declino demografico anche se questa certezza è messa
142 Capitolo settimo
in dubbio da numerose prove contrarie6. William Denevan, uno
dei più equilibrati studiosi del popolamento amazzonico del
Seicento, anche se non accetta i tassi di spopolamento postcontatto proposti da altri accreditatissimi autori (da 50 a 1 secondo
Dobyns per le zone tropicali, o da 10 a 1 per Borah), propone
un fattore di 3,5 a 1 come stima prudente del rapporto tra la
consistenza della popolazione a metà Cinquecento e a metà Seicento7. Può ben essere che in certe aree del pedemonte andino
e dell’alta Amazzonia, così come della foce del fiume – dove i
contatti con gli europei furono più intensi – lo spopolamento
sia stato molto elevato, come dimostrato dal caso della regione
dei Quijos (cap. I). Ma per le altre popolazioni insediate nelle
migliaia di chilometri del lunghissimo corso del Fiume, l’ipotesi
di una catastrofe appare preconcetta e non giustificata.
A metà Seicento il Grande Fiume era già stato percorso più
volte e qualche valutazione numerica – come si dirà poi – era già
stata fatta per la più popolata area rivierasca, e questo è un fatto
accertato. Queste terre erano regolarmente inondate nella stagione
delle piogge lasciando, al loro ritrarsi, terre fertilizzate dal limo,
adatte ai seminativi di yucca, mais, patate dolci e altro ancora. Il
Grande Fiume, così come i suoi affluenti, era straordinariamente
pescoso. La caccia offriva altre risorse. Viene calcolato che questa
fascia rivierasca, favorevole al popolamento, avesse una larghezza
di 10-20 chilometri oltre la quale si estendeva la tierra firme più
rilevata, non inondata, regno della selva, normalmente non insediata. La fascia rivierasca è chiamata anche várzea, la cui estensione viene variamente stimata tra l’1 e il 2% dell’intero bacino
amazzonico (60 mila - 120 mila chilometri quadrati). Ed è nella
várzea che doveva abitare oltre la metà degli indios dell’intera e
immensa regione8. Alla várzea Denevan assegnava una densità un
poco superiore a 4 abitanti per chilometro quadrato, per un totale
di oltre 400 mila abitanti a metà Seicento: applicando il rapporto
di spopolamento di 3,5 a 1, ottiene circa 1,5 milioni di abitanti
al contatto. Ho detto che quest’ultimo passo è ingiustificato: limitiamoci dunque a considerare una valutazione attorno a mezzo
milione come una stima plausibile della popolazione rivierasca
amazzonica a metà Seicento9. Che è, appunto, la popolazione le
cui vicende sono al centro di questo libro.
Il «mezzo milione» mutuato da Denevan poggia su alcuni
elementi quantificati o quantificabili delle antiche cronache. Per
Amazzonia 143
chi fosse incuriosito dai dettagli e dai fatti contenuti in queste
cronache, e dall’aritmetica elementare utilizzata nelle stime,
raccomandiamo la lettura dell’Appendice 2, limitandoci qui a
un cenno sommario. Quale poteva essere la densità abitativa
della várzea? Ci aiutano le vicende del frate francescano Laureano de la Cruz e del suo soggiorno, tra il 1647 e il 1650, tra gli
Omaguas nelle isole del tratto amazzonico compreso tra la foce
del Napo e quella del Putumayo (ne abbiamo riferito nel cap.
V). Nella sua relazione Laureano fece una breve descrizione dei
villaggi incontrati in sei isole. Il 19 ottobre 1647 il frate e i suoi
compagni approdano sulla prima isola, chiamata Piramota, che
battezzano San Pedro de Alcantara per esservi giunti nel giorno
di quel santo.
Avevano le loro case, che sono 28, sulla riva del fiume, fatte di legno
e coperte di foglie di palma [...] tutte in fila, come galere con la prora
rivolta verso il fiume, accostate l’una all’altra e con due porte, una verso
il fiume e l’altra verso il bosco. Vivevano in ciascuna di queste case due,
tre o quattro capifamiglia, o «indios di lancia», in tutto saranno 80, e le
mogli e i figli saranno 25010.
L’isola misurava «due leghe di lunghezza e di larghezza
meno di mezza lega». La densità dell’isola era dunque di circa
13 abitanti per chilometro quadrato (330/25 kmq = 13,2). È
il villaggio più grande e con maggiore densità che incontrano.
Seguono analoghe indicazioni per le altre cinque isole. Di queste sei isole Antonio Porro, avvalendosi di mappe satellitari, ha
identificato l’ubicazione, e calcolato che, insieme, avessero una
superficie di 255 chilometri quadrati, con 97 case plurifamiliari
che ospitavano 236 famiglie, una popolazione totale tra le 900
e le 1.200 persone, e una densità tra 3,5 e 4,7 abitanti per chilometro quadrato. Lo stesso Porro ha calcolato che nel tratto
di 700 chilometri di fiume abitato dagli Omaguas, ci fossero 60
isole di dimensione abitabile, con una superficie totale di 1.900
chilometri quadrati, e una popolazione «possibile» tra i 6.650
e i 9.000 abitanti. Cifre coerenti con l’indicazione, dello stesso
Laureano, che gli Omaguas avevano 34 villaggi (le dimensioni
dei quali erano, come si sa, modeste); o con i 38 villaggi nei quali
operò padre Fritz mezzo secolo più tardi11.
Gli Omaguas, che a metà Seicento occupavano le isole di un
tratto di Fiume di circa 700 chilometri, costituivano uno dei gruppi
144 Capitolo settimo
più evoluti, capaci e organizzati dell’Amazzonia. È presumibile
che anche la loro densità insediativa fosse superiore a quella
di altri gruppi etnici. L’estensione a tutta la várzea amazzonica
della densità dei «civili» Omaguas, porta al «mezzo milione» del
quale abbiamo detto, forse il limite massimo di una ragionevole
forchetta. Non sappiamo in che rapporto queste stime possano
stare con la popolazione di un secolo prima: sicuramente il popolamento aveva già subìto le conseguenze negative del contatto
nella parte alta dell’Amazzonia – nella regione dei Quijos e altrove
– così come nella regione della foce, ma per il resto l’ipotesi di
un catastrofico tracollo non sembra corroborata dai fatti.
Storia assai diversa è quella che si dipana durante i centotrenta
anni della permanenza dei gesuiti in Mainas, perché i segnali del
tracollo demografico furono molteplici, come abbiamo visto. Padre
Figueroa notava che alla fondazione di Borja (1619) si distribuirono
700 tributari, capifamiglia indios, in encomienda a 21 spagnoli; che
i tributari diminuirono, a seguito delle vessazioni subite, delle fughe
e dell’alta mortalità, a poco più di 400 verso il 1638 («all’arrivo dei
Padri») e poi ancora a 200 nel 166112. A questa data gli indios nel
distretto di Borja erano circa 1.000, e altri 500 erano dispersi nella
selva, a conferma che le fughe erano una componente primaria
della demografia della regione. Sempre Figueroa sosteneva che
nel 1660 gli indios nelle missioni erano circa 10 mila, ma dopo il
vaiolo di quell’anno ne erano rimasti 7.000, dei quali 3.100 battezzati e gli altri catecumeni13: possiamo presumere che una parte
della diminuzione fosse dovuta alle fughe. Nelle missioni, dunque,
risiedeva una proporzione modesta della popolazione totale della
regione, valutata dal religioso in 60 mila persone14. Era opinione
di Figueroa che gli indios della regione si fossero dimezzati dalla
prima entrada degli spagnoli del 1619. Nello sfortunato tentativo
di evangelizzare i Romainas e gli Zaparos, riferiva dello sterminio
causato «dal catarro, moquilla e mal de costado [mal di petto]» e
da altre malattie, e che la popolazione iniziale, che contava 2.000
«uomini di lancia», si sarebbe ridotta ad appena 30015.Nel resto
del secolo altre epidemie, rivolte, repressioni e fughe impedirono
l’espansione della popolazione delle missioni. Nel 1719 28 villaggimissione contavano circa 8.000 indios, compresi qualche centinaio
di catecumeni, solo 1.000 in più di quelli stimati da Figueroa nel
1661, all’indomani della devastante epidemia di vaiolo, sebbene
molte nuove missioni fossero state fondate.
Amazzonia 145
La tabella 1 (si veda Appendice 2) riporta il sommario dei
quadri demografici delle missioni dal 1719 al 1798 reperibili in
varie fonti. Si tratta per lo più di quadri sommari redatti dagli
stessi missionari, o da visitatori della regione, sulla base delle
notizie disponibili per ciascuna missione. Se i criteri generali di
raccolta erano fondamentalmente omogenei – seguendo regole
comuni dettate dalla Chiesa e dall’Ordine – non altrettanto si
può dire della loro applicazione pratica, per le particolari condizioni di vita e ambientali della regione. Nuove missioni venivano
create, altre venivano abbandonate; nuovi gruppi e nuove etnie
venivano aggregati alle missioni e altri se ne distaccavano; molti
padri avevano la responsabilità di più missioni; missioni diverse
venivano fuse, mentre altre si dividevano. I circa 8.000 indios del
1719 stavano in 28 missioni, ma nuovi sforzi di evangelizzazione
nel Río Napo portarono il totale delle missioni a 41 nel 1745 con
quasi 13 mila indios – e questo è un massimo assoluto sia delle
missioni sia degli evangelizzati – per riscendere a 22 all’espulsione del 1767, con meno di 12 mila indios. Successivamente il
numero delle missioni rimase invariato, ma alla chiusa del secolo
il numero dei residenti nei villaggi era sceso a meno di 4.500.
Per le ragioni di scarsa comparabilità sopra indicate, questa
serie non omogenea ci dice poco circa la dinamica intrinseca
della popolazione sotto controllo dei gesuiti, o comunque sotto
controllo religioso dopo la loro cacciata. Va anche notato che nel
corso del secolo il numero dei gesuiti operanti nella regione era
aumentato: erano 28 al momento dell’espulsione 1767, a riprova
dell’intensificazione dell’opera di evangelizzazione16.
Una via per eliminare alcuni motivi di incomparabilità è quella
seguita nella tabella 2, nella quale, per ogni intervallo di tempo,
è stata posta a confronto la popolazione delle stesse missioni –
quelle censite a entrambe le date – escludendo le altre. Così, tra
il 1719 e il 1740 sono poste a confronto 12 missioni, tra il 1740
e il 1745 14 missioni, e così via. Vediamo che la dinamica nel
periodo gesuitico è positiva, con un incremento annuo superiore all’1%, mentre nel periodo successivo il tasso è nettamente
negativo. In quelle missioni «presenti» sia all’inizio (1719) sia
alla fine (1776) del periodo, la popolazione era cresciuta di due
terzi, con un incremento medio annuo dello 0,9%.
Supponiamo che le missioni poste a confronto fossero rappresentative dell’insieme della popolazione evangelizzata. Ora,
146 Capitolo settimo
un incremento attorno all’1% sembrerebbe sintomo di una
florida ed espansiva demografia capace – lo ricordiamo a chi
non è familiare con questi temi – di assicurare un raddoppio
della popolazione in settant’anni. Un ritmo di crescita raramente
conseguito dalle popolazioni pre-moderne, afflitte normalmente
da altissima mortalità, com’era anche il caso delle popolazioni
indigene di America. E qui sorge una domanda fondamentale:
se le popolazioni del bacino amazzonico – nel Seicento come
nel Settecento – furono vittime di un disastro demografico, per
quale ragione esse apparivano prospere nei villaggi delle missioni?
Purtroppo non abbiamo l’informazione che renderebbe possibile
sciogliere il nodo, cioè dati delle nascite e delle morti. Questi
dovettero esistere, perché è noto che i padri dovevano tenere –
e tenevano – i registri parrocchiali dei battesimi, dei matrimoni
e delle sepolture, ma questi non sono giunti fino a noi, e molti
finirono in fumo nell’incendio che consumò l’archivio generale
di Santiago de la Laguna nel 1749. Non possiamo perciò dire
se questo incremento fosse dovuto a un eccesso delle nascite
sulle morti, oppure a un eccesso di neofiti «immigrati» rispetto
a coloro che abbandonavano la «casa del Padre».
Abbiamo tuttavia un’informazione complementare di grande
interesse e utilità e che ci permette di fare qualche passo avanti
nell’analisi. Sappiamo infatti che i padri compivano un’incessante
opera di esplorazione, di contatto con nuovi gruppi, di attrazione
di questi nell’orbita della missione, di recupero di coloro che si
erano allontanati. Abbiamo riferito (cap. VI) come i padri della
Mision Baja avessero più volte convenuto di compiere annualmente entradas evangelizzatrici nelle loro regioni per contrastare il
declino delle missioni. Padre Widman – in un suo rapporto sulle
cose notevoli accadute nelle missioni – dà notizia delle entradas
compiute dai padri tra il 1750 e il 1761, e degli indios catturati
e portati nelle missioni. Si tratta in tutto di 38 spedizioni, che
fruttarono – uso di proposito il termine – 2.692 catture, in media
224 all’anno e 71 per ogni spedizione17. Nella missione di San
Joaquín de Omaguas, del resto, alcuni indios erano espressamente
designati dal Padre per accompagnarlo nelle spedizioni, segno
del carattere abituale di queste azioni di evangelizzazione18. È
significativo notare che nei casi delle missioni del Paraguay, nelle
valli del Paraná e dell’Uruguay, o di quelle dei Mojos, nell’attuale
Bolivia orientale – le imprese di maggior successo dei gesuiti –
dopo il periodo iniziale di fondazione, le spedizioni per proseli-
Amazzonia 147
tismo cessarono o avvennero solo eccezionalmente. Non così in
Mainas, dove la mobilità e la fluidità erano la norma. Infine va
posto in rilievo il fatto che oltre 200 indios indotti dai religiosi,
ogni anno, ad aggregarsi alle missioni, rappresentassero un 2%
dell’intera popolazione: più o meno un immigrato ogni due o tre
nascite. L’alto numero di indios «catturati» annualmente e una
popolazione delle missioni più o meno stazionaria nel periodo
considerato sono la prova indiretta che gli allontanamenti e le
fughe erano davvero una forza dominante del sistema missionario,
continuamente in tensione per compensare le perdite con una
incessante opera di esplorazione, proselitismo e cattura. Come
del resto confermato ripetutamente dalla cronache.
Indios catturati nelle «entradas» dei gesuiti
Anno
1750
1751
1752
1753
1754
1755
1756
1757
1758
1759
1760
1761
Entradas
2
2
4
1
3
5
5
2
2
6
3
3
Catturati
69
71
282
110
76
416
184
172
268
246
257
541
In quasi tutta la storiografia moderna sulle popolazioni
americane dell’epoca postcontatto il vaiolo occupa un posto
centrale, il vero protagonista – assieme ad altre patologie importate dall’Europa – della catastrofe. Le epidemie di vaiolo
terrorizzavano sia le popolazioni amazzoniche che ne avevano
conosciuto l’azione devastante, sia i padri che sapevano che nella
scia dell’intrusione e dell’evangelizzazione iberica seguivano le
«tenebre della pestilenza». Non voglio detronizzare il vaiolo
dal suo ruolo di protagonista delle sventure americane, ma ridisegnarne la sua azione in un quadro più equilibrato. Infatti,
ovunque in America lo sconvolgimento politico, culturale, sociale,
economico del contatto produsse forze potenti di crisi, anche
demografica. Abbiamo visto all’opera, nei capitoli precedenti,
148 Capitolo settimo
repressioni, schiavitù, servaggio, migrazioni più o meno forzate
e i loro effetti.
Considerare il vaiolo un protagonista – anziché il protagonista – della catastrofe, ha anche seri fondamenti epidemiologici19.
In una popolazione cosiddetta «vergine», cioè mai esposta al
virus (come le popolazioni americane)20 e che perciò sia priva di
immunità, l’introduzione del vaiolo genera una mortalità molto
elevata, dell’ordine del 30 o 40%. In pratica, in una popolazione
colpita dal vaiolo non tutti vengono contagiati – per lontananza,
per il caso, per costituzione biogenetica – per cui la mortalità
generale è generalmente più bassa della percentuale sopra indicata.
Si tratta, comunque, di una vera e propria catastrofe, una ferita
demografica profonda, sì, ma consueta in tutte le popolazioni
di «antico regime» (si pensi alla peste, sconosciuta in America,
nelle popolazioni euroasiatiche) e che può essere rimarginata
nel tempo da un supero delle nascite sulle morti tipico delle
fasi postcrisi. Una successiva introduzione del vaiolo – a dieci o
vent’anni di distanza, come frequentemente avveniva in America
nel Seicento e nel Settecento – generava però danni minori per
varie ragioni. Una parte della popolazione, essendo sopravvissuta
all’epidemia precedente, ha acquisito l’immunità; altri evitano il
contagio; malati e convalescenti vengono assistiti e non abbandonati; rimedi empirici vengono selezionati e adottati. Insomma, le
successive epidemie infliggono «ferite» meno gravi e non tali da
compromettere irrimediabilmente l’equilibrio demografico.
Non vi sono prove di un’estensione alla regione della pandemia che nel 1589 e negli anni successivi colpì il Perú e buona
parte del Sudamerica: nella regione di Quito l’epidemia avrebbe fatto 7.000 morti21. È possibile che il relativo isolamento
avesse salvaguardato le popolazioni del pedemonte andino e
dell’alta valle amazzonica22. Ma questo isolamento fu sgretolato
dall’intensificarsi dei contatti con le città abitate dagli spagnoli
– Quito, Jaen, Moyobamba – e successivamente con i portoghesi
che risalivano il fiume dal Pará. Nel 1642 la regione di Borja è
colpita dal vaiolo23, ma non sappiamo se si trattava della prima
volta. Nel 1648 Laureano de la Cruz incontra la popolazione di
un villaggio nell’ultima isola da lui visitata, superstite di un’epidemia. Ritornato all’isola di Caraute, inondata dalla piena del
fiume, vi resta alcuni mesi durante i quali «arrivò la peste da
valle del fiume, e durante la notte si ammalarono un ragazzo e
una vecchia, in due abitazioni diverse, e fu poi diffondendosi e
Amazzonia 149
infettando dappertutto cosicché in capo a poco più di un mese
non restò nell’isola nessuna persona, grande o piccola, che non
cadesse miserabilmente ammalata»24. Laureano descrive le condizioni pietose degli ammalati, il loro «cattivo odore» (sintomo
certo di vaiolo), le pustole e le piaghe, i lamenti e i pianti. Alla sua
partenza «era morta le terza parte di quella gente, e convalescenti
i più»25. La successiva epidemia del 1660 – «ha consumato molta
gente» – avrebbe colpito una popolazione in dottrina dai padri
che Figueroa valutava in 10 mila e che nell’anno successivo 1661
calcolava in 7.000, per le molte morti e, presumibilmente, per
le molte fughe26. Nuova epidemia di vaiolo, anche questa generalizzata, nel 166927. Dell’epidemia del 1680-1681 dà parecchie
notizie padre Lucero, che allora curava la missione di Santiago
de la Laguna: si sparge la notizia che il vaiolo sta colpendo le
popolazioni a monte del fiume Huallaga; i Cocamas del villaggio
decidono di scappare («il 23 di giugno con 75 canoe»), e rimangono nel villaggio solo Xitipos e Chepeos. L’epidemia raggiunge
La Laguna e i villaggi annessi in ottobre, e vi rimane fino all’inizio
del maggio successivo: il religioso si adopera a curare e confortare:
«l’impresa di assistere tanti ammalati [...] per il pestilente fetore
del contagio in terre così sommamente torride è indicibile». Ma
oltre ai cristiani assisteva anche gentili e catecumeni: «In meno
di quindici giorni [...] battezzai e imposi l’olio della cresima a
seicento indios»28. L’epidemia non raggiunse gli Omaguas nel
Marañon, presso i quali si erano rifugiati i fuggitivi Cocamas,
che così salvarono la pelle.
Per lungo tempo non risulta, dalla documentazione esaminata,
altra menzione del vaiolo, salvo incerti accenni per il 1740, senza
vittime29. Nell’Amazzonia portoghese c’è notizia di epidemie di
vaiolo tra il 1690 e il 1700, e poi ancora nel 1724, dovuta a persone contagiate nel seguito del primo vescovo del Pará, arrivato
da Lisbona, via São Luis30. Nel 1749 il vaiolo fa un gran numero
di vittime nelle missioni del Napo, mentre il morbillo infuria nel
Marañon31. Padre Uriarte segnala la presenza del vaiolo nel Nanay nel 1754, ma non sappiamo se questo episodio fosse rimasto
localizzato. Si ha poi notizia di un episodio a Borja nel 1756,
legato alla malattia di un gruppo di persone che si erano recate
a Jaen, e che si risolse nella fuga generalizzata dalla città, che poi
venne spostata più a valle. Queste «trassero il vaiolo, del quale
morirono quaranta viracochas, assieme al tenente; gli indios, col
permesso del Padre Curato scapparono in un luogo chiamato
150 Capitolo settimo
Puca Barranca, e lì fecero i loro seminativi. Così fuggirono il
contagio e dettero inizio al trasferimento della città in un luogo
migliore e più fertile» 32. Non abbiamo però idea della diffusione di questi episodi, che potrebbero essere rimasti localizzati33.
Più documentata è invece l’epidemia del 1762: come nel secolo
precedente, il contagio entra da Moyobamba e Lamas; a Borja
uccide 100 persone, si diffonde lungo il corso dello Huallaga e
giunge a Santiago de la Laguna; come un secolo prima, i Cocamas
fuggono e si rifugiano prima nell’Ucayali e poi tra gli Omaguas,
dove restano un anno. A Santiago morirono più di 200 Cocamillas e Panos. «Ma in Jeveros, villaggio di duemila anime, non
ne morirono molti perché fuggirono per tempo nella selva»34. Le
fughe dalle missioni erano una semplice ed evidente strategia,
la cui efficacia era stata fin dall’inizio comprovata. Sempre dal
diario di Uriarte si ricava una notizia assai interessante: padre
Esquini, un gesuita fiorentino che operava tra i Chamicuros,
salvò molte vite praticando l’inoculazione («disse che facendo
ingerire [!] vaiolo di buona qualità, ne salvò molti»35. Nel bel
mezzo dell’Amazzonia, lontano dall’Europa dei Lumi!)
Il vaiolo, ben inteso, non fu l’unica patologia importata dal
Vecchio mondo: morbillo, varietà influenzali e altre patologie
virali si aggiunsero al complesso quadro che determinava l’alta
mortalità strutturale delle popolazioni amazzoniche. Non ci sono
valide ragioni per ritenere queste più vulnerabili di quanto non
lo fossero i popoli iberici ed europei. Febbri, diarree, catarri
e patologie polmonari furono, senza dubbio, comuni e diffusi
e vengono spesso citati. Ma il vaiolo avrebbe potuto «fare la
differenza», e fu senz’altro così laddove fece la sua prima apparizione. Tuttavia, a parte gli episodi del 1660, del 1680-1681 e
del 1762, che sicuramente ebbero notevoli diffusione e intensità,
non sembra essere stata la causa principale della crisi. Tra le due
gravi pandemie di fine Seicento e quella del 1762 passarono
ottant’anni senza che una catastrofe memorabile sia ricordata
dalle numerose cronache e memorie. Il territorio era immenso e
relativamente isolato; i contatti con gli spagnoli limitati; eventuali
focolai d’infezione erano molto distanti da altre etnie o missioni;
l’arte della fuga era ben conosciuta e praticata.
I dati raccolti dai padri per le diverse missioni offrono, nel
Settecento, qualche ulteriore elemento conoscitivo. Non molto,
per la verità, soprattutto per il fatto che l’intenso ricambio mi-
Amazzonia 151
gratorio delle missioni rende impossibile assimilarle a popolazioni
«stabili», nelle quali la conoscenza di qualche parametro (per
esempio, la struttura per età e il tasso d’incremento) permette
d’inferire i livelli di natalità e mortalità compatibili con quegli
stessi parametri36. I quadri statistici relativi a ciascuna missione
riportavano, normalmente, gli abitanti secondo che fossero
coniugati, vedovi, adolescenti, o bambini, ciascuna categoria
distinta in maschi e femmine. Il numero dei coniugati era per
definizione uguale a quello delle coniugate, e il numero delle
coppie coniugali può essere considerato uguale al numero delle
elementari unità familiari. Gli adolescenti erano compresi tra i
sette anni e l’età all’unione, più o meno coincidente con l’età
alla pubertà; i bambini avevano meno di sette anni. È dubbio
che le definizioni fossero rigorosamente adottate nella pratica: in
alcuni casi, vedovi e vedove confluiscono nella categoria dei «non
coniugati»; non è nota quale fosse effettivamente l’età di confine
tra gli adolescenti e i coniugati (nelle altre missioni americane
le adolescenti andavano spose a quattordici-quindici anni, gli
adolescenti uno o due anni più tardi); né è certo che il settimo
compleanno fosse il discrimine tra bambini e adolescenti37.
Nella tabella 3 sono raccolti i dati relativi a sei missioni, sempre
censite tra il 1740 e il 1776, che rappresentano circa i due quinti
della popolazione di tutte le missioni. Poiché le singole missioni
erano molto piccole, sono state raggruppate per dare maggiore robustezza a dati e indici. Ma anche così, si tratta di una popolazione
esigua, di poche migliaia di abitanti, corrispondente a quella di
due o tre parrocchie italiane durante l’antico regime. Gli indicatori
demografici non recano troppe sorprese e sono simili a quelli di
altre popolazioni indie dell’epoca: li confrontiamo con quelli delle
missioni dei Mojos, nell’alta valle del Madera, il maggiore affluente
del Grande Fiume, relativi allo stesso periodo e riguardanti una
popolazione assai più numerosa38. Le dimensioni medie delle famiglie erano piccole, tra i 4,3 e i 4,7 componenti (tra i Mojos tra
3,9 e 4,2); i bambini per coppia tra 1,2 e 1,8 (tra i Mojos 1,2-1,6);
il rapporto tra maschi e femmine, tra bambini e adolescenti variava
tra 1,02 e 1,18 (tra i Mojos – per i soli bambini – tra 1,07 e 1,18).
I giovani rappresentavano quasi la metà della popolazione , tra il
45 e il 50% (tra i Mojos 46-48%) mentre i coniugati oscillavano
tra il 42 e il 47% (48-52% tra i Mojos).
Sono indicatori compatibili con un sistema demografico ad
«alta pressione», come si dice in gergo, cioè con un’alta natalità
152 Capitolo settimo
e un’alta mortalità, ma anche con buone potenzialità di crescita
in condizioni di normalità che tuttavia, nella turbolenta storia
delle missioni, non dovevano essere né lunghe né frequenti. Tra
i Guaraní del Paraguay, negli anni non perturbati da conflitti o
epidemie, e più o meno alla stessa epoca, la natalità era pari al
55‰ e la natalità era attorno al 45‰ – corrispondenti a un numero medio di figli per donna di 7-8, a una speranza di vita sui
venticinque anni e una capacità di crescita superiore all’1%39. È
presumibile che la demografia dell’Amazzonia non fosse molto
diversa.
Nelle missioni americane la monogamia, l’indissolubilità della
coppia, la separatezza della vita del nucleo familiare e la lotta a
ogni promiscuità furono capisaldi dell’azione dei padri, punti fermi
irrinunciabili per la costruzione di una società ordinata. Ciò era
assai difficile nella fase iniziale, e la strategia generale fu di agire
su bambini e giovanissimi, indottrinandoli e formando schiere di
buoni cristiani obbedienti ai precetti sulla vita familiare. Né per
questo dovevano attendere molto; una volta imposta agli adulti
una «delega educativa», l’indottrinamento dei giovanissimi venne
attuato rapidamente, e poiché le coppie si formavano all’età della
pubertà (e i missionari vigilavano che questo avvenisse), le prime
generazioni di coppie cristianizzate si formarono non molti anni
dopo la fondazione delle missioni. In Amazzonia l’azione dei
Ggesuiti dovette essere assai più ardua, stante la fluidità della
popolazione delle missioni e le scarse forze dei religiosi: solo
nelle missioni più grandi o strutturate, come Limpia Concepción,
Santiago de la Laguna o San Joaquín de Omaguas, si ha notizia
di una regolare dottrina impartita ai bambini, essenziale per il
radicamento della nuova religione.
Molta documentazione scritta attiene alla etno-antropologia
dei vari gruppi, e riguarda i riti e i costumi concernenti i più
vari aspetti della vita sociale, le famiglie e i clan, il cibo e la casa,
i conflitti e il cannibalismo (generalmente rituale), credenze e
tabù, la cura delle malattie, la nascita e la morte, il ruolo degli
sciamani40. Difficile è comprendere se, e in quale misura, l’analisi
sistematica di una ricca congerie di notazioni aiuti a comprendere
le dinamiche sociali e demografiche oggetto di queste pagine.
Riti e usanze riguardanti la malattia e la morte sono interessanti, ma non troppo rilevanti sotto il profilo demografico, salvo
qualche notizia circa episodi di «eutanasia». C’era un grande uso
Amazzonia 153
di piante medicinali, e una ricca e variata farmacopea, la cui efficacia non doveva essere decisiva se non in alcuni casi (morsi di
serpenti velenosi, cura di lesioni e ferite, o come antidolorifico).
I morti venivano spesso sepolti nella stessa abitazione, o nei suoi
pressi, costume che i padri si sforzavano di sradicare: «Chieder
loro il corpo del morto per seppellirlo in chiesa è dar loro una
mazzata [...] ma basta che giri la testa che ne trovo molti sepolti
nelle abitazioni»41. Ebbe sicuramente un forte rilievo la pratica
dell’infanticidio, comune in molte popolazioni oggetto di evangelizzazione e una delle maggiori preoccupazioni dei missionari,
la prima delle barbarie da estirpare. Ci sono molte testimonianze
che ciò avvenisse tra i Mojos, nell’alto bacino del Madera, per
malattia o deformità del neonato, oppure dopo un parto gemellare
o quando moriva la madre e il neonato veniva sepolto con essa42.
Tutte forme di infanticidio legate a strategie di sopravvivenza
in contesti sociali nei quali l’investimento parentale sui figli era
assai elementare. Padre Lucero, con riferimento ai popoli che
gravitavano attorno a Santiago de la Laguna, osservava:
Uccidono i loro figli, a volte perché nascono femmine e non maschi,
che prediligono, altre volte perché la madre non ha voglia di allevarli [...]
Il modo di ucciderli è di mettere i neonati ancora vivi in una buca che
scavano, e poi ci gettano sopra della cenere, molto lentamente, e in questo
consiste la pietà materna43.
A volte le ragioni dell’infanticidio appaiono futili o incomprensibili.
Questa nazione dei Cocamas, e anche altre, hanno un’usanza disumana,
peggiore delle bestie. Ed è quella di uccidere i figli quando nascono, per
non doverne crescere troppi, o per altre ragioni, seppellendoli vivi con la
placenta. Nasce il bambino: arriva il padre a vederlo e dice alla moglie:
«Perché ne dobbiamo crescere tanti? Perché dobbiamo tenerci questo che
piange?». Con questo e altri simili pretesti, nella buca che scavano per la
placenta, con quella seppelliscono l’innocente.
L’eccellente padre Figueroa è anche disorientato, e infatti:
Però se succede che mentre stanno discutendo sulla vita del bambino
arriva qualcuno dei loro parenti e solleva la creatura dal suolo, allora ha
salva la vita e lo crescono [...] Per questa ragione queste genti hanno pochi
figli. E benché siano così disumani quando nascono i bambini, una volta
154 Capitolo settimo
che si decidono a dar loro il seno e a crescerli, è perfino troppo l’amore
che hanno per loro44.
Gli osservatori dell’alta Amazzonia del secolo scorso confermano che la pratica dell’infanticidio era abbastanza diffusa,
ma «retrocedere» le osservazioni moderne ai secoli precedenti
è operazione assai rischiosa45. È ovvio, però, che una cosa è
l’esistenza della pratica, un’altra è conoscere la sua diffusione
e la sua frequenza, e quindi comprendere se l’infanticidio fosse
anche un freno effettivo alla crescita demografica. Analoghe
considerazioni possono valere per l’aborto, pratica conosciuta e
adottata, ma la cui effettiva incidenza non è dato di conoscere.
Non abbiamo notizie sulle pratiche di allattamento e svezzamento: tra i Tupinambás – in epoca più tarda – sembra che lo
svezzamento avvenisse gradualmente all’età di quattro o cinque
anni46. Possiamo solo dire che anche le popolazioni amazzoniche
avevano accesso a pratiche di limitazione della discendenza: ma
ignoriamo con quale frequenza vi facessero ricorso, e con quale
efficacia.
Dei riti di passaggio al raggiungimento della pubertà i missionari danno spesso notizie interessanti quanto varie. Tra gli
Omaguas, secondo padre Fritz, esisteva una pratica piuttosto
curiosa che riguardava le ragazze:
Le sospendono in una rete appesa alla sommità di una capanna e le
tengono lì appese per otto o più giorni, dando loro un poco di yucca secca
e poco da bere per il loro sostentamento, e sufficiente cotone perché così
si intrattengono filando tutto quel tempo. A capo di un mese, le tirano giù,
le portano al fiume, le lavano dai piedi alla testa, poi le dipingono fino
a metà busto e adornate con piume le riportano a braccia alle loro case,
con grande accompagnamento di musiche e danze. Lì le donne presenti
danno loro una misura di bevanda, prescrivendo di bere fino a scoppiare;
quindi un indio, il più vecchio, dando un colpetto con un bastoncino
sulla spalla, impone un nome che poi conservano per tutta la vita. Dopo
questa cerimonia è lecito a qualsiasi uomo di chiederle in moglie ai loro
genitori; prima sarebbe un delitto da punire perché, dicono, non essendo
state trattate in questo modo, le donne non sono di beneficio né a se stesse
né ai loro mariti47.
Ancora più stupito e scandalizzato è padre Widman, allorché
riferisce delle pratiche correnti tra alcune etnie dell’Ucayali: «in
trentatré anni come missionario [...] non avevo mai visto una
Amazzonia 155
cosa tanto incredibile e straordinaria quanto l’uso di circoncidere le donne tra i Panas»; la mutilazione era praticata in una
cerimonia rituale e non solo tra «i gentili», ma anche dopo la
cristianizzazione, sia pure di nascosto48. Spesso le ragazze venivano tenute in isolamento per un limitato periodo di tempo; altre
volte praticavano il digiuno.
Sul matrimonio conviene riferire la sintesi di padre Maroni,
che conosceva la storia della regione ed era bene informato dai
suoi confratelli. Era opinione comune – e preoccupazione continua
dei padri – che nella condizione «barbara», non cristianizzata,
il matrimonio come vincolo monogamico non esistesse, essendo
comune la ripulsa del coniuge, sia da parte dell’uomo che della
donna, e normale una successiva unione. Sebbene cacichi e notabili avessero più di una moglie, la normalità era la coppia, sia
pure instabile. Non c’era preclusione verso l’unione tra affini,
eccetto con una nuora o con una matrigna, mentre erano escluse
le unioni tra consanguinei.
La via ordinaria [nel celebrare un matrimonio] è che l’uomo chieda
in moglie la donna, dando qualcosa ritenuta di valore al padre o a un
parente [...] il padre o il parente più vicino della donna, e più spesso il
cacico, durante una bevuta che organizzano allo scopo, prende la sposa
abbigliata a festa e la depone su di un giaciglio o nell’amaca assieme allo
sposo, e con appena qualche segno di affetto tra i due, rimane concluso
il contratto49.
In altri casi non c’è alcun rito, e l’unione avviene direttamente,
senza l’intermediazione dei genitori. Tra i Mayorunas, invece,
vigeva il costume che il giovane «allevasse fin dalla tenera età la
bambina che sarebbe stata sua sposa, e questi sono i matrimoni
più notevoli, per l’amore che si sviluppa verso la bambina, come
di padre a figlia, e si concludono quando arrivano all’età alla
quale possono coabitare»50.
Le prime testimonianze di viaggio – da Carvajal ad Acuña –
restituiscono l’immagine di un’Amazzonia caleidoscopio di etnie,
tribù o clan, variato e complesso; una miriade di lingue parlate
– anche se riconducibili ad alcuni ceppi matrice – e mutuamente
poco comprensibili; gruppi frammentati con propria autonomia
e spesso in conflitto con i vicini, ma anche inclini a viaggiare,
stabilire contatti e commerciare; modeste dimensioni di ogni etnia,
156 Capitolo settimo
poche centinaia o al più qualche migliaio; frequenti migrazioni.
L’intrusione europea e la diminuzione della popolazione accentuarono questi caratteri e determinarono un ulteriore processo di
frammentazione. Ma anche di ricomposizione di gruppi dispersi;
i Jivaros riconquistarono aree di frontiera abbandonate dagli
spagnoli e mantennero una bellicosa indipendenza, e assieme ai
vicini Zaparos attrassero gruppi dispersi che fuggivano il disastroso sistema dell’encomienda e la sorte degli indios «pacificati»51.
Nelle regioni del Napo e del Tigre gruppi dispersi formarono
eterogenee collettività. Le spedizioni schiavistiche determinarono
fughe e nuove aggregazioni52. In quest’opera di frammentazione
e ricomposizione dettero il loro contributo i padri missionari, sia
dividendo i gruppi, separando i volenterosi neofiti dal gruppo
rimasto nella selva, sia riunendo nella stessa missione etnie già
separate.
È utile, infine, ricordare che un’altra forza, spesso trascurata
dagli studiosi dell’antropologia amazzonica, era continuamente
in azione. In collettività autonome e con forte endogamia, e comunque poco inclini ad aprirsi ad altre etnie, i piccoli numeri
sono fattore di instabilità e di estinzione. I gruppi che scendono
sotto determinate soglie – senza compromettersi con una cifra,
diciamo qualche decina di famiglie – generano un numero troppo
modesto di nascite e rischiano di non assicurare quella variabilità
di caratteri necessaria per assicurare opportunità matrimoniali per
tutti. Ogni trauma esterno – conflitto, epidemia, accidenti – può
compromettere l’instabile equilibrio. Lo stesso effetto può avere
il semplice caso, se produce un forte sbilancio dei sessi in alcune
generazioni, compromettendo la fisiologica scelta matrimoniale.
La fusione tra gruppi diventa dunque necessaria alla continuità
e alla sopravvivenza della collettività.
Per tutti questi motivi i padri non esitarono a riunire, nella
stessa missione, gruppi diversi e in molti casi di diversa lingua.
Abbiamo visto (cap. VI) che a Limpia Concepción oltre agli
Xeveros, vivevano Alabonos, Jivaros, Ticunas, Barbudos, Yameos
e Ataguates; Lucero fondò Santiago de la Laguna con Cocamas,
Chepeos e Xitipos; a San Joaquín de Omaguas, nel 1756, c’erano
Migueanos, Amaonos, Mayorunas, Masamaes, Yurimaguas e Cocamas. Nello stesso anno, la missione dei Pebas risultava formata da
5 etnie, 650 anime in tutto53. Il friburghese padre Magnin riferiva
che a Borja, oltre a spagnoli, meticci e mulatti, si trovavano solo
234 abitanti, appartenenti a 17 etnie (in diversi casi si trattava di
Amazzonia 157
una sola famiglia), nominandole una a una54. Si tratta di esempi
che mostrano bene a quale grado di frammentazione fossero
giunte le popolazioni della regione. Non sempre la convivenza
tra diversi fu pacifica; non sempre essa dette luogo a fusioni.
Non c’è modo di risolvere alcune questioni fondamentali: in che
misura gruppi ridotti a poche decine di famiglie finirono con lo
scomparire? In che percentuale, invece, riuscirono a fondersi con
successo? E, infine, quale effetto ebbe la frammentazione sulla
dinamica della popolazione, riducendo le unioni e indebolendo
i processi riproduttivi? Si sarebbe tentati, pur senza riscontri
empirici sufficienti, di affermare che la frammentazione dovette
essere una causa non secondaria del declino delle popolazioni
amazzoniche.
La storia del popolamento amazzonico in epoca coloniale è
complicata, e vale la pena riprendere alcuni punti essenziali. In
primo luogo, la crisi demografica dell’alta Amazzonia, e forse
anche di gran parte del corso del Grande Fiume, avvenne sicuramente quando il contatto con gli europei da sporadico si fece
sistematico, cioè dal terzo o quarto decennio del Seicento. È
dubbio, e aperto a discussione, salvo che nelle aree al margine
del pedemonte e della foce, che il disastro avvenisse prima, e
soprattutto che avvenisse nelle proporzioni catastrofiche ipotizzate
in gran parte della letteratura. In secondo luogo, è indubbio che
l’estensione alle popolazioni amazzoniche delle nuove patologie
sia stata responsabile di tremende crisi e di forti arretramenti
numerici, ma non tali, di per se, da impedire o paralizzare le
capacità di ripresa demografica. In terzo luogo, il sistematico
contatto con gli iberici provocò uno sconvolgimento del popolamento, con forti migrazioni, fughe dalle aree rivierasche verso
aree più remote e meno adatte alla sopravvivenza. Infine, tale
sconvolgimento provocò la frammentazione dei gruppi, molti
dei quali, se incapaci di fondersi con altre etnie, furono a forte
rischio di estinzione.
VIII. Scienziati sfortunati all’equatore.
Perú-Parigi, via Amazzonia. Buon selvaggio o bruto bestiale?
Vaiolo, caucciù e polli avvelenati. Sociologia delle Amazzoni:
la Condamine e Humboldt. La straordinaria avventura
di Madame Godin
I
l 16 novembre 1735 la nave da guerra Portefaix, partita da
La Rochelle sei mesi prima, attraccava nel porto di Cartagena de
las Indias, nell’attuale Colombia. Sbarcava nella colonia spagnola
un gruppo di interessanti personaggi: dieci scienziati e tecnici
francesi, membri di una spedizione dell’Accademia delle scienze
di Parigi e incaricati di una missione singolare1. Si trattava di
misurare la lunghezza del grado di un arco di meridiano nelle
prossimità dell’equatore. Dopo complesse trattative, la spedizione
aveva ricevuto l’autorizzazione a svolgere la sua missione, superando le numerose interdizioni che impedivano agli stranieri di
viaggiare nei possedimenti spagnoli. La loro meta era lontana,
perché i dieci personaggi, i loro ingombranti bagagli – tra l’altro
undici casse di libri e una complessa strumentazione scientifica
– dovettero passare per mare a Portobello di Panamá, traversare
l’istmo, imbarcarsi di nuovo a Panamá per poi sbarcare sulla
costa pacifica a Manta e a Guayaquil2.
Personalità eminente della spedizione era Charles de la Condamine, un ricco, entusiasta e colto scienziato di trentaquattro
anni, amico di Voltaire. Dopo otto anni di ininterrotta residenza
in Perú, questi iniziò il suo viaggio di ritorno in patria scegliendo
la via più inusuale, la navigazione del Río delle Amazzoni, la
Guyana, e quindi la Francia. E di questa navigazione ha lasciato
una testimonianza di grande interesse perché è la prima motivata dalla curiosità scientifica piuttosto che dall’avventura, dalla
conquista, dall’evangelizzazione o dalla fuga dal pericolo. Con
La Condamine arriva in Europa un’idea dell’Amazzonia assai
diversa da quella, ancora medievale, di Orellana e di Aguirre,
o dalla visione controriformista di Acuña e di Laureano de la
Cruz. È un’Amazzonia osservata, misurata e intepretata da un
162 Capitolo ottavo
europeo dell’età dei Lumi, quella della «Relazione di viaggio»
presentata alla seduta pubblica dell’Accademia delle scienze il
28 aprile 17453.
Il viaggio amazzonico di La Condamine fu la conclusione
accidentale di una missione nata con una finalità specificatamente geodetica, originata dalle ipotesi di Huyghens, e poi di
Newton, che la Terra, a causa del movimento rotatorio attorno
all’asse dei poli, non fosse sferica bensì (lievemente) schiacciata
ai poli. Di conseguenza, la sezione del globo passante per i poli
doveva avere forma ellittica, e forma circolare quella passante
per l’equatore; e, ancora, il raggio dell’ellisse della sezione polare
doveva essere più corto del raggio della sezione equatoriale. Gli
scienziati francesi – tra i quali Jacques Cassini – sostenevano la
tesi contraria, basata su prove poi rivelatesi errate, e cioè che
la Terra avesse forma non schiacciata, ma allungata. Un metodo
empirico per risolvere la questione era quello di comparare la
lunghezza di un grado di un arco di meridiano – misurata con il
metodo della triangolazione geodetica – a due diverse latitudini:
questa sarebbe stata identica a ogni latitudine se la Terra fosse
stata perfettamente sferica, mentre sarebbe stata minore all’equatore e maggiore al polo nel caso di schiacciamento. L’Accademia
di Francia inviò due missioni, una, guidata da Maupertuis, in
Lapponia, l’altra, sotto la direzione scientifica di Louis Godin
(astronomo e matematico) e quella effettiva di La Condamine,
all’equatore (nell’attuale Ecuador). I risultati delle due missioni
dettero ragione alle teorie di Newton e Huyghens: in Lapponia
il grado risultò più lungo che all’equatore, e l’implicita misura
dello schiacciamento della Terra venne stimata in un valore
praticamente identico a quello calcolato con i moderni sistemi
di misurazione. Si risolveva così una controversia scientifica, e
si perfezionavano le conoscenze geodetiche assai utili, tra l’altro,
per la navigazione4.
La spedizione offre – essa stessa – materia di un lungo e
romanzesco dramma, per i dissidi tra i componenti, gli ostacoli
posti dalle autorità coloniali, l’uccisione in una faida familiare di
uno di essi, la morte naturale di altri due, la grave infermità di
un altro, le difficoltà che gli eventi politici e le rocambolesche
vicende frapposero al rientro dei sopravviventi, il matrimonio del
cugino del capomissione con una giovanissima peruviana e gli
incredibili viaggi amazzonici dei due coniugi, separati per venti
Amazzonia 163
anni, cui poi accenneremo. La Condamine, per le sue capacità
scientifiche e organizzative, per l’abilità nell’avvalersi del lavoro
dei compagni e nell’intessere importanti relazioni, emergerà poi
come la personalità più complessa e autorevole del gruppo. Dopo
il suo rientro in Francia, nel 1744, sarà impegnato a diffondere
osservazioni e scoperte dal seggio prestigioso dell’Accademia.
La Condamine iniziò il suo viaggio di ritorno l’11 maggio
1743, partendo da Tarqui, a sud della città di Cuenca, dove
si trovava da mesi per terminare misurazioni e controlli della
lunghezza dell’arco di meridiano; proseguì per Zaruma, Loja e
Jaen assieme ai suoi voluminosi bagagli – inzuppati dalle piogge
e dai capovolgimenti della canoa che li trasportava – e arrivò in
prossimità del Marañon, dove si fece costruire una robusta zattera
per il trasporto di bagagli, viveri e scorte, capace di affrontare
la navigazione del tratto di fiume costellato da rapide. Imboccò
il Marañon il 5 luglio e arrivò alla «città» di Borja (capoluogo
della regione gesuitica di Maynas), dopo l’ultima rapida, quella
temibile del Pongo di Manseriche, il 12 luglio. Da Borja in poi
la navigazione nel mare d’acqua dolce, in pianura, fino all’Atlantico: «I miei occhi [erano] abituati da sette anni a vedere le
montagne perdersi nelle nubi [...] non si stancavano di fare il
giro dell’orizzonte [...] acqua, vegetazione e niente di più»5. Il
23 agosto raggiunse il Río Negro, il 19 settembre Belém (aveva
coperto oltre 4.500 chilometri in poco più di due mesi) da dove
ripartì il 29 dicembre alla volta della Cayenna, raggiunta il 26
febbraio 1744. Qui si fermò per sei mesi; via Surinam raggiunse
poi Amsterdam il 30 novembre e Parigi il 23 febbraio 1745: il
28 aprile successivo presentava la relazione all’Accademia delle
scienze.
A Borja passerà alcuni giorni in compagnia del dotto Padre
Magnin, gesuita friburghese, che lo accompagnerà fino a La Laguna (la missione più popolosa e sede del superiore della regione
dei Mainas) e gli passerà un suo scritto ricco di osservazioni
naturalistiche cui La Condamine non mancherà di attingere a
piene mani6. A La Laguna verrà raggiunto da Pedro Maldonado, un nobile creolo, geografo e naturalista, collaboratore della
spedizione francese, che gli sarà di grande aiuto ma che citerà
solo di passaggio nella relazione7. Maldonado lo accompagnerà
fino a Belém, e i due partono dalla Laguna in due grandi canoe
di 14 metri di lunghezza, i rematori a prua e i viaggiatori e i loro
servi a poppa, protetti da una tettoia di foglie e frasche.
164 Capitolo ottavo
Il viaggio amazzonico è quello di uno scienziato che osserva,
misura, raccoglie, confronta, annota: la latitudine, la temperatura,
la pressione barometrica, la larghezza e la profondità dei fiumi,
la velocità della corrente, le distanze; disegna, traccia itinerari,
appunta per costruire la cartografia del fiume; elenca, descrive,
raccoglie, cattura: flora e fauna, semi, foglie, germogli, pianticelle.
È così impegnato che le ore e i giorni passano troppo rapidamente,
nonostante la lentezza e la monotonia della navigazione.
Essendomi impegnato a rilevare una carta del corso dell’Amazzonia,
mi ero costruito una risorsa contro l’inazione che mi sarebbe stata consentita dalla navigazione tranquilla che la mancanza di varietà del panorama,
pur nella novità, avrebbe potuto anche rendere noiosa. Dovevo essere in
allerta continua per osservare la bussola e, cronografo alla mano, i mutamenti della direzione del corso del fiume e il tempo che impiegavamo
da una deviazione alla seguente, per esaminare la diversa larghezza del
letto del fiume e quella del letto degli affluenti che riceveva, l’angolo che
questi formavano alla confluenza, la lunghezza delle isole incontrate, e
soprattutto per misurare la velocità della corrente e quella della canoa, ora
con riferimento alle rive, ora all’imbarcazione, con diversi metodi la cui
spiegazione sarebbe qui troppo lunga. Tutto il mio tempo era occupato:
spesso ho scandagliato e misurato geometricamente la larghezza del fiume
e quella degli affluenti: ho calcolato l’altezza meridiana del sole quasi tutti
i giorni e spesso ho osservato la sua ampiezza all’alba e al tramonto; in
tutti i luoghi dove ho soggiornato ho anche montato il barometro8.
È un attivismo scientifico che prefigura un modello che troverà il suo punto più alto nel «viaggio alle regioni equinoziali»
di Alexander von Humboldt alla fine del secolo9.
La Condamine è però meno interessato agli aspetti antropologici – o, almeno non li tratta nella relazione («ho creduto [...]
che non mi fosse permesso di estendermi su materie estranee
alle finalità di questa Accademia»), e raramente ci tornerà successivamente. Potremmo addirittura dire che il suo raziocinio
sembra incapace di affrontare gli aspetti più complessi dei comportamenti e della personalità umana. Sul carattere degli indios
così si esprime:
L’insensibilità ne è la base. Lascio decidere se la dobbiamo onorare
col termine di apatia, o avvilirla con quello di stupidità. Questa nasce
senza dubbio dalla pochezza delle loro idee, che non si estende oltre il
limite dei loro bisogni. Ghiottoni fino alla voracità, quando hanno di che
soddisfarsi; sobri, quando la necessità li obbliga, fino a fare a meno di tutto
Amazzonia 165
senza apparentemente niente desiderare; pusillanimi e poltroni all’eccesso,
se l’ubriachezza non li trasporta; nemici del lavoro, indifferenti a ogni idea
di gloria, onore o riconoscenza; unicamente occupati dall’oggetto presente,
e sempre determinati da questo; senza inquietudini per l’avvenire; incapaci
di previdenza e di riflessione; si danno, quando niente li infastidisce, a una
gioia puerile che manifestano con salti e scoppi di risa irrefrenabile, senza
obbiettivi e senza programmi; passano la vita senza pensare e invecchiano
senza uscire dall’infanzia, della quale conservano tutti i difetti10.
È vero che queste caratteristiche si possono trovare tra popoli
in condizione di degradante schiavitù,
ma gli indiani delle missioni e i selvaggi che godono della loro libertà sono
almeno altrettanto limitati, per non dire altrettanto stupidi, degli altri, e
non si può considerare senza umiliazione come l’uomo abbandonato alla
semplice natura, privato d’istruzione e di società, differisca poco dalla
bestia11.
Anche le lingue sono poverissime e «mancano i termini per
esprimere le idee astratte e universali; prova evidente del poco
progresso che hanno fatto gli spiriti di questi popoli. Tempo,
durata, spazio, essere, sostanza, materia, corpo e molti altri non
hanno equivalenti nelle loro lingue». E questo avviene anche
per concetti morali: «Non ci sono termini che corrispondano
a quelli di virtù, giustizia, libertà, riconoscenza, ingratitudine».
Non troppo diversa, anche se espressa con simpatia e pietà, era
l’idea che degli indios si era formato il gesuita Magnin:
Essi vivono così contenti con quel che posseggono, che non desiderano
altro. Fanno poco caso a ciò che hanno, e non desiderano per niente ciò
che non hanno. Se si dà loro qualcosa, non la ricevono con gratitudine. Se
si rifiuta loro qualcosa, si legge nel loro volto che lo si faccia per avarizia.
Se essi perdono qualcosa, non mostrano disappunto; se si rimproverano,
si mettono a ridere. Se si elogiano, ridono ancor di più [...] Vivono senza
preoccupazioni, dormono senza inquietudini, e muoiono senza timore.
Potremmo dirli felici, se la felicità consistesse nell’insensibilità12.
Questo ritratto superficiale e impietoso degli indios è in antitesi
con la visione positiva delle popolazioni primitive che si andava
formando in Europa e che troverà il suo compimento nel mito del
«buon selvaggio» nella seconda metà del Settecento. Un mito anche vigorosamente contestato – non estranea l’opinione di Buffon
circa l’inferiorità naturale e biologica del mondo americano – e
166 Capitolo ottavo
che trova la sua espressione teorica nell’abate de Paw secondo la
sintesi che ne dà Antonello Gerbi: «quegli uomini [gli indiani]
sono anche peggiori degli animali [...] hanno meno sensibilità,
meno umanità meno gusto e meno istinto, meno cuore e meno
intelligenza. Meno tutto, insomma. Sono come bimbi scemi, inguaribilmente pigri e incapaci di qualsiasi progresso mentale»13.
L’antitesi tra il «buon selvaggio» e il «selvaggio insensibile, privo
di intendimento» era, del resto, antica. Due secoli prima Oviedo,
sbrigativo e tagliente, considerava causa persa («come battere
il ferro a freddo») la conversione degli indios. I quali, in realtà
«non hanno la testa fatta come le altre genti, ma grossi e duri
crani, che il principale consiglio da darsi ai cristiani quando
lottano o vengono alle mani con loro è di non dar loro fendenti
in capo perché spezzerebbero la spada. E così come hanno la
testa dura, così hanno il comprendonio delle bestie»14. Giudizi
che facevano fremere di sdegno Bartolomé de las Casas, che dedicò centinaia di pagine per dimostrare la capacità d’intelletto, la
buona disposizione, la prudenza economica e politica degli indios:
insomma, persone capaci di autogoverno, né bambini né bestie.
E José de Acosta si imponeva di smontare «la falsa opinione
che generalmente si ha di loro, come di gente bruta e bestiale
e senza comprendonio, o di comprendonio così limitato da non
meritare questo nome»15. L’opinione dei missionari gesuiti oscillò
fra due estremi: da una parte l’immagine dell’indio-bambino a cui
– appunto – i bambini andavano sottratti «perché se si lasciano
all’attenzione dei loro genitori, questa è di così corta capacità che
crescono come bestioline e rimangono oziosi per tutta la vita»16.
Dall’altra quella dell’indio primitivo, ma provvisto di raziocinio
e suscettibile di essere condotto alla vera fede. Antonello Gerbi
così sintetizzava il pensiero dei padri:
I gesuiti, derisi dal de Paw, han certo contribuito più di ogni altro ordine – con le loro relazioni annuali [...] e con scritti riassuntivi [...] destinati
al gran pubblico – a dare dell’indigeno Americano un ritratto parlante,
simpatico e umano, sia perché tale era il loro sincero atteggiamento verso
i catecumeni, sia per stimolare la generosità dei loro sovventori europei
e persuaderli che i loro denari erano spesi bene, che i convertiti lo erano
davvero, e meritavano d’esserlo. Anche gli aspetti negativi messi in luce
dai gesuiti erano quei tali che meglio facevano risaltare la fermezza, la
pazienza, lo spirito di sacrificio dei buoni padri, erano quelle deplorevoli
tendenze al cannibalismo, alle feroci mutilazioni, alla sodomia, alla voracità
e all’ubriachezza17.
Amazzonia 167
La relazione di La Condamine è interessante non solo per
quello che il suo autore riferisce di aver visto, ma anche per
quello che aveva studiato, raccolto, udito da testimonianze dirette
(Magnin o Maldonado), letto in rapporti e appunti a lui pervenuti durante il lungo soggiorno in Perú. È quindi – insieme – un
saggio e un diario. Alcune parti della relazione hanno rilevanza
demografica, e sono parecchio interessanti se si sovrappongono
a quelle dei rionauti del secolo precedente: de Rojas, Acuña,
de la Cruz. C’è la convinzione che sia in atto un processo di
spopolamento.
Le rive del Marañon, appena un secolo addietro, erano ancora popolate da un gran numero di nazioni, che si sono ritirate nell’interno appena
hanno visto gli europei. Non vi si incontra oggigiorno che un piccolo
numero di villaggi di indigeni, solo recentemente tratti dalla selva, loro o
i loro padri, gli uni dai missionari spagnoli nel settore a monte del fiume,
gli altri dai missionari portoghesi nel corso a valle del fiume18.
Il nostro scienziato ha ben presente l’opera di evangelizzazione compiuta da padre Fritz (conosceva bene la mappa che
Fritz aveva dusegnato del Río delle Amazzoni) tra gli Omaguas,
la loro riduzione in trenta villaggi e la loro dispersione avvenuta
con il procedere a monte dei portoghesi:
[Dei trenta villaggi] non ne abbiamo visto altro che le rovine o piuttosto
il luogo [dove sorgevano]. Tutti i loro abitanti, spaventati dalle incursioni
di qualche brigante del Pará che veniva a razziare schiavi tra di loro, si
sono dispersi nella selva o nelle missioni spagnole e portoghesi19.
La navigazione è tranquilla, perché «non c’è oggigiorno,
sulle rive del Marañon, alcuna nazione guerriera nemica degli
europei, tutte si sono sottomesse o ritirate lontano», anche se ci
sono tratti del fiume lungo i quali è pericoloso dormire a terra20.
Spopolamento, dispersione e fusioni sono il risultato degli sconvolgimenti creati dagli europei, come le vicende dei Tupinambás
hanno dimostrato:
Dei resti della nazione dei Tupinambara, situata un tempo sulla grande
isola alla confluenza del fiume Madera, si è formata quella dei Topayos
[Tapajós], ed i suoi abitanti sono pressoché tutto ciò che resta della valente
nazione dei Tupinambas, dominante due secoli orsono nel Brasile dove
hanno lasciato la loro lingua21.
168 Capitolo ottavo
Avvicinandosi alla foce, La Condamine è ospite per qualche
giorno del comandante della piazzaforte di Curupá, «una piccola
città di portoghesi dove non ci sono altri indiani che gli schiavi
degli abitanti»22. Lo spopolamento non è dovuto, di sicuro, alla
mancanza di risorse: le tartarughe sono infinite e «solo le loro
uova basterebbero a nutrire gli abitanti delle sponde del fiume», e
l’abbondanza dei pesci che rimangono intrappolati dopo le inondazioni in stagni e pantani, e facilmente catturati, fa pensare che
«la natura sembra avere favorito la pigrizia degli indiani»23.
Di una delle cause dello spopolamento amazzonico, La Condamine fu testimone diretto. Dopo l’arrivo a Belém si era dedicato
a esplorare i dintorni e alle consuete osservazioni scientifiche, ma
la fine del 1743 si avvicinava e aumentava il desiderio di lasciare l’Amazzonia. Maldonado era ripartito all’inizio di dicembre
con la flotta per Lisbona, ma il nostro rionauta aveva deciso
di passare in territorio francese – la Guyana – per esplorare,
tra l’altro, il ramo settentrionale dell’estuario. Impresa difficile
non tanto per i venti contrari propri della stagione, ma «per la
difficoltà di mettere insieme un equipaggio di rematori, poiché
il vaiolo che stava facendo stragi aveva messo in fuga la maggior
parte degli indiani dei villaggi vicini»24. Ovunque in America la
fuga – o, meglio, la dispersione nella selva – fu la prima risposta
degli indios all’insorgere dell’epidemia. L’epidemia suggerisce a
La Condamine interessanti osservazioni.
Si è osservato, nel Pará, che questa malattia [il vaiolo] è assai più funesta per gli indiani delle missioni che da poco sono stati tratti dalla selva,
e che vanno nudi, che non per gli indios che vanno vestiti e che sono nati
tra i portoghesi o che con essi convivono da lungo tempo.
Oggi diremmo che i primi erano «suscettibili» al contagio
ed erano privi delle difese immunitarie che invece i secondi
possedevano. Anche se i primi sembravano avere migliori difese,
dato che:
Sono una sorta di animale anfibio, che stanno tanto a lungo
nell’acqua come sulla terra ferma, induriti dall’infanzia dall’esposizione all’aria, hanno la pelle forse più compatta di quella di
altri uomini, e si sarebbe portati a credere che questa sola caratteristica potrebbe rendere più difficile per loro l’esplosione del
Amazzonia 169
vaiolo. L’abitudine che hanno questi stessi indios di stropicciarsi
il corpo con roucou [una liliacea] e genipa [una rubiacea] e con
diversi oli grassi e densi, che alla lunga dovrebbero ostruire i pori,
contribuiscono anche ad aumentare la difficoltà [del contagio].
E così dovrebbe essere, anche perché «gli schiavi neri trasportati dall’Africa, e che non praticano le stesse usanze, resistono
meglio a questa malattia degli indigeni del paese.». Se non ché
«quale ne sia la ragione, un indio selvaggio appena uscito dalla
selva, contagiato da questa malattia, è normalmente un uomo
morto». Nonostante la pelle stagionata dagli elementi, dalle tinture,
dalle sostanze grasse. Questa osservazione non era nuova, ma è
cruciale per interpretare gli effetti distruttivi del vaiolo: elevati per
le popolazioni «vergini» che vivono nella selva, meno gravi per
gli indios cresciuti a contatto con gli europei. Ma se il contagio
è letale, La Condamine non sa darsi la ragione del perché questo
non avvenga nel caso del vaiolo inoculato artificialmente.
Quindici o sedici anni fa, un missionario carmelitano del Pará, vedendo
i propri indios morire l’uno dopo l’altro, e avendo appreso dalla lettura di
una gazzetta il segreto dell’inoculazione, che allora faceva molto rumore
in Europa, giudicò con prudenza che applicando questo rimedio avrebbe
per lo meno resa incerta una morte che, impiegando solo i rimedi ordinari,
sarebbe stata sicura. Un ragionamento così semplice non avrebbe potuto
sfuggire a tutti coloro capaci di riflettere e che, vedendo i disastri della
malattia, avessero sentito parlare del successo del nuovo procedimento;
ma questo religioso fu il primo testimone in America che ebbe il coraggio
di metterlo in opera. Aveva già perduto la metà dei suoi indios; molti altri
venivano colpiti dalla malattia ogni giorno; ebbe il coraggio di inoculare
il vaiolo a tutti coloro che non si erano ancora ammalati, e non ne perdé
uno solo. Un altro missionario del Río Negro seguì lo stesso esempio con
identico successo.
La Condamine è però sorpreso che questo metodo non sia
stato impiegato durante l’epidemia del 1743, poiché si sarebbe
creduto che
tutti coloro che erano proprietari di schiavi avrebbero utilizzato un procedimento così salutare per conservarli in vita. Lo crederei anch’io, se non
fossi stato testimone del contrario. O almeno, non ci si pensava ancora
prima della mia partenza dal Pará. È però vero che la metà degli indiani
restava ancora in vita.
170 Capitolo ottavo
L’esperienza americana farà di La Condamine un accanito sostenitore dell’inoculazione per il resto della sua vita; un sostenitore
con una motivazione in più, dato che nell’infanzia di vaiolo si era
ammalato. Raccoglierà documentazioni e testimonianze, scriverà
saggi e articoli accademici, terrà una fitta corrispondenza con
scienziati e studiosi. La scienza era ancora incapace di capire le
ragioni del successo dell’inoculazione, ma era abbastanza avanzata
per raccogliere l’evidenza empirica25.
Molte pagine sono dedicate alla descrizione della flora e della
fauna, con alcune osservazioni originali. Gli Omaguas inalano le
esalazioni dei semi allucinogeni del floripondio e della curupà,
ridotti in polvere, a mezzo di una cannula fatta a Y e aspirando
violentemente «fanno una smorfia che appare assai ridicola agli
occhi di un europeo che vuole tutto rapportare alle proprie usanze». Degne di essere meglio studiate per valutarne l’utilità sono
la quinquina (chinino), l’ipecacuana, la simaruba, la salsapariglia,
il guaiaco, la vaniglia, il cacao, il cui valore e le cui proprietà
erano già note26. Sulla quinquina presenta all’Accademia delle
scienze – a proprio nome – una memoria che incorpora i risultati
delle ricerche del suo compagno di avventura Jussieu27. La sua
attenzione è particolarmente attratta dal caucciù:
La resina chiamata cahuchu [...] è assai comune ai bordi del Marañon [...] Quando è fresca, uno stampo gli dà la forma che si vuole;
è impermeabile alla pioggia ma, ciò che è ancor più notevole, è la sua
grande elasticità. Se ne fanno bottiglie che non sono fragili, stivali, palle
vuote che si appiattiscono quando pressate e che, quando non vengono
più premute, riprendono la forma originale. I portoghesi del Parà hanno
imparato dagli Omaguas a farne pompe o siringhe che non hanno bisogno
di un pistone; hanno la forma di pere vuote, con un buco all’estremità al
quale si adatta una cannula. Le si riempie d’acqua, e strizzandole quando
sono piene fanno la funzione di una siringa28.
Passato in Guyana, interesserà alla gomma Fresneau, amministratore della colonia e naturalista, che qualche anno più tardi
presenterà una memoria sul caucciù all’Accademia delle scienze.
Le frecce avvelenate avevano destato l’interesse di La Condamine,
e ne aveva conservate alcuni esemplari: arrivato nella Guyana
se ne serve per sperimentare sia la loro letalità sui polli sia le
proprietà dello zucchero come possibile antidoto; esprimenti che
ripete a Leiden, dopo l’arrivo in Olanda29.
Amazzonia 171
Come abbiamo detto, le osservazioni e le misurazioni geografiche impegnarono il tempo della navigazione. Dettagliatissima è
la discesa delle rapide del Pongo di Manseriche, tra la confluenza
del fiume Santiago e l’insediamento di Borja, dopo le quali il
Marañon si distende per migliaia di chilometri nel suo placido
corso di pianura. Nel punto più stretto il fiume è costretto in
un cañon largo appena 25 tese (meno di 50 metri) e le 2 leghe
(circa 11 chilometri) di lunghezza vengono superate dalla pesante
zattera a pieno carico – peraltro ritardata nella sua corsa dai
mulinelli – in 57 minuti30. Netto è poi il giudizio circa la comunicazione tra il bacino dell’Orinoco e quello dell’Amazzonia, la
cui esistenza era ormai generalmente ammessa da molti (anche da
Acuña, un secolo prima). Ma era stata negata da molti geografi
che non l’avevano consegnata alle loro mappe. Il Casiquiare (che
la relazione non nomina) per un singolare accidente geografico
è la via d’acqua percorribile dalle imbarcazioni che mette in
comunicazione l’Orinoco con il Río Negro, e pertanto con il
bacino del Grande Fiume. La raccolta di testimonianze non lascia
a La Condamine dubbi in proposito31. La descrizione moderna
e accurata verrà fatta più di mezzo secolo dopo da Humboldt
che percorse la regione.
A duecento anni dalla prima navigazione, il mito delle Amazzoni che avevano dato il nome al Grande Fiume era ancora vivo
e vegeto, e La Condamine ne era vivamente incuriosito.
Nel corso della nostra navigazione avevamo ovunque interrogato gli
indios di diverse nazioni, e c’eravamo informati con gran cura se essi
sapessero qualcosa di quelle donne bellicose che Orellana pretendeva di
avere incontrato e combattuto, e se fosse vero che esse vivessero lontane
dal commercio con gli uomini, non ricevendoli tra di loro che una volta
all’anno. Tutti ci dissero che così l’avevano sentita raccontare dai loro
padri, aggiungendo mille particolari, troppo lunghi da raccontare, che
concorrono a confermare che, in quella regione, c’è una repubblica di
donne che vivono sole senza uomini tra di loro, e che queste si sono
ritirate verso nord, nell’interno, risalendo il Río Negro o altri fiumi che
confluiscono nel Marañon da quella stessa banda32.
Poiché di Amazzonia trattiamo, vale la pena ripercorrere il
mito in terra di America, fin dalle sue origini. Queste risalgono al
viaggio di Orellana e alla penna di Carvajal, ma occorre ricordare
che mezzo secolo prima lo stesso Colombo narrò della credenza
172 Capitolo ottavo
degli indigeni di Santo Domingo (siamo nel gennaio del 1493,
al ritorno del primo viaggio) circa le strane usanze dell’isola di
Matininó «nella quale c’era molto oro e che era abitata da sole
donne»33. Ma torniamo a Carvajal e alla sua cronaca: questi
mescolò alle notazioni verificabili, e confermate dai successivi
rionauti, miti e invenzioni credibili solo per orecchie ben disposte
e poco sofisticate. Il prologo della storia è una battaglia con gli
indios rivieraschi durante una sosta per approvvigionarsi di cibo,
probabilmente depredando qualche villaggio.
Questa battaglia durò più di un’ora perché gli indios non si perdevano d’animo, ora pareva che dovessero ritirarsi, e benché vedessero morti
molti dei loro, poi li scavalcavano, e non facevano altro che arretrare e
tornare a ritirarsi. Voglio che si sappia quale fosse la causa per la quale
questi indios si difendevano in tal modo. Si deve sapere che questi sono
sudditi e tributari delle amazzoni, e saputo della nostra venuta, andarono
a chieder loro soccorso e ne vennero dieci o dodici, e queste sono quelle
che vedemmo, e andavano combattendo davanti a tutti gli indios come
capitane, e combattevano tanto coraggiosamente che questi non osavano
fuggire, e quelli che osavano scappare di fronte a noi, li uccidevano a
bastonate, e questa è la ragione per la quale gli indios si difesero tanto.
Queste donne sono molto bianche e alte e tengono i capelli lunghi e intrecciati e girati intorno al capo; e sono molto robuste e vanno nude, solo
nascoste le loro vergogne, e con archi e frecce in mano lottano come dieci
indios; e in verità ci fu una di queste donne che conficcò un palmo di
freccia in uno dei brigantini, e altre un poco meno, che i nostri brigantini
parevano dei porcospini34.
Davvero un evento straordinario; qualche giorno dopo, Orellana, che aveva qualche conoscenza linguistica, cercò di saperne
di più da un indio che avevano fatto prigioniero e
gli domandò di dove veniva, e l’indio rispose da quel villaggio dove era
stato catturato; il capitano gli domandò chi fosse il signore di quella terra
e l’indio gli rispose che si chiamava Coyunco, e che era un grandissimo
signore, padrone fin dove noi stavamo, che, come già ho detto, distava 150
leghe. Il capitano gli domandò che donne erano quelle che erano venute
ad aiutarli e a farci guerra: e l’indio disse che erano donne che stavano
all’interno sette giornate dalla riva del fiume e siccome Coyunco era un
loro suddito, erano venute a controllare la riva. Il capitano gli domandò
se quelle indie erano sposate, e l’indio gli rispose di no. Il capitano gli
domandò in che modo vivessero: l’indio rispose che, come aveva detto,
stavano nell’interno, e che lui c’era stato molte volte e aveva visto il loro
modo di vivere e le loro case, perché come vassallo andava a portar loro il
Amazzonia 173
tributo quando lo mandava il suo signore. Il capitano domandò se quelle
donne erano molte e l’indio rispose che sì, che conosceva di nome settanta
villaggi, e li enunciò davanti a coloro che lì stavano, e che ne aveva visitati alcuni. Il capitano gli domandò se questi villaggi fossero di paglia: e
l’indio gli rispose di no, che erano di pietra con le loro porte, e che da un
villaggio all’altro andavano sentieri chiusi da una parte e dall’altra e che a
tratti, in questi, c’erano posti di guardia perché non entrasse nessuno che
non pagasse tributo. Il capitano gli domandò se queste donne partorivano:
e l’indio gli disse di sì. E il capitano gli domandò come fosse che, non
avendo mariti e non essendoci uomini tra di loro, si ingravidassero: l’indio disse che queste indie hanno rapporti con uomini, e quando gli viene
quella voglia radunano gran copia di gente di guerra, e vanno a far guerra
contro un gran signore confinante, e a forza li portano nelle proprie terre,
e lì li tengono per il tempo che gli pare, e dopo che si sono ingravidate
li rimandano alla terra senza fargli alcun male; e dopo, quando viene il
momento di partorire, se è un figlio lo uccidono o lo mandano dal padre,
se è una figlia la allevano con grande solennità e le insegnano l’arte della
guerra. Disse ancora che tra tutte queste donne c’è una signora che le
tiene tutte per suddite e sotto la sua giurisdizione, e che questa signora si
chiama Coñori. Disse che c’è grande ricchezza di oro e d’argento, e che
tutte le signore di rango non si servono se non di oggetti d’oro e d’argento,
mentre la maggioranza plebea utilizza oggetti di legno, eccetto quelli che
mettono al fuoco, che sono di coccio. Disse anche che nel capoluogo e
principale città dove risiede la signora ci sono cinque case molto grandi,
che sono adoratòri e case dedicate al sole, che esse chiamano caranaín e
che dentro, fino a circa mezzo estado dal suolo ci sono tavole di legno
decorate con pitture di vari colori, e che in queste case conservano molti
idoli d’oro e d’argento che rappresentano donne, e molte pietre lavorate
d’oro e d’argento per il servizio del sole, e vanno abbigliate con vestiti
di lana molto fini, perché in questa terra ci sono molte pecore del Perú
[lama]; si vestono con mantelli chiusi dal petto fino a terra, gettati sulle
spalle alcune e altre allacciate davanti con molti cordoni; portano i capelli
sciolti e sulla testa si pongono corone d’oro spesse due dita [...] Dice che
hanno delle regole secondo le quali quando tramonta il sole non deve
rimanere indio maschio in tutte queste città che non esca e se ne vada alle
sue terre; inoltre dice che tengono per sudditi molte province di indios
confinanti, e li sottopongono a tributi e al servizio; e ci sono altre province
con le quali sono in guerra, specialmente con quella della quale abbiamo
già detto, e razziano gli uomini per avere rapporti con loro e questi sono
di grande statura e bianchi e numerosi35.
Nella fantastica storia narrata da Carvajal il mito dell’oro
coesiste con quello delle amazzoni e con il mito di popolazioni
ricche e civili (forse gli incas) emigrate da occidente, oltre la
cordigliera. Mentre il racconto della battaglia, capitanata dalle
174 Capitolo ottavo
donne guerriere, è poco credibile ma relativamente sobrio (né è
da escludersi che delle donne abbiano partecipato allo scontro),
il «racconto» dell’indio catturato appare quasi un «inserto» a sé.
Del resto, quell’indio parlava, probabilmente, un dialetto tupí,
mentre Orellana doveva avere rudimenti della «lingua dell’Inca», cioè il quechua: il dialogo doveva essere assai difficile. Se
Oviedo si burlava della storia (osservando che le Amazzoni di
Orellana non avevano bisogno di bruciarsi il seno per tirare con
l’arco, come quelle della mitologia), è possibile che altri in quello
straordinario mondo ci credessero, o comunque prestassero fede
alla parte del racconto che parlava dell’oro. Certo Orellana volle
riprovarci; tornò in patria, ottenne il governatorato del Marañon,
armò una spedizione con 400 uomini «in cerca di quelle amazzoni che giammai vide ma sbandierò in Spagna»36, ritornò alle
bocche del Fiume e lì perì con buona parte dei suoi compagni.
È una storia che abbiamo già raccontato (cap. II). È certo che
le vicende di Orellana fecero rapidamente il giro del mondo
ispanico, e non solo, entrando nelle narrazioni colte e in quelle
popolari. Sulle Amazzoni riferì estesamente Walter Raleigh, di
ritorno dalla sua esplorazione dell’Orinoco.
Cent’anni dopo, il racconto di Carvajal è ripreso da Acuña,
con contenuti simili, sulla base di discorsi uditi nell’ultimo villaggio dell’isola Tupinambarana, cui il gesuita dà un certo credito:
«vi sono indizi così particolari, e tutti convergenti, che non è
credibile che una menzogna simile si sia affermata in tante lingue
e in tante nazioni, con tanto colore di verità»37.
Torniamo a La Condamine e ai curiosi racconti che raccoglie
con l’aiuto di Maldonado: da un indio di San Joaquín de Omaguas,
da un altro incontrato a Coarì, da un residente di una missione
del Pará, da un vecchio soldato della Guyana, oltre a altre storie
«che passa sotto silenzio» e alle informative di «due governatori
spagnoli della provincia del Venezuela»38. Ed è singolare che i
racconti raccolti in regioni dell’Amazzonia molto distanti tra
loro, affermino, gli uni, che queste donne si sono ritirate verso
est, altri verso nord, altri ancora verso ovest: ma queste diverse
direzioni puntano concordemente verso le «montagne al centro
della Guyana, in una regione dove né i portoghesi del Pará, né
i francesi della Cayenna, sono ancora penetrati». È vero che se
questa società di donne ancora ci vivesse, sarebbe poco credibile
che i popoli vicini e gli stessi europei non ne avessero testimonianze dirette.
Amazzonia 175
Ma questa collettività itinerante potrebbe avere ancora cambiato insediamento e, ciò che pare assai più verosimile di tutto il resto, potrebbero aver
perduto nel tempo le loro antiche usanze, oppure avrebbero potuto essere
soggiogate da altre nazioni; oppure stanche della loro condizione potrebbero
aver perduto l’avversione per gli uomini propria delle loro madri.
Naturalmente la leggenda andrebbe sfrondata dagli aspetti di
favola – per esempio che si tagliassero una mammella – magari
«aggiunti dagli europei». Ed ecco la spiegazione sociologica:
Mi contenterò di fare osservare che semmai vi sono state delle Amazzoni nel mondo, è in America, dove la vita errante delle donne che spesso
seguono i loro mariti alla guerra, e dei quali non sono più felici nella vita
domestica, può aver fatto nascere in loro l’idea, e fornir loro la frequente
occasione, di sfuggire al giogo dei loro tiranni, cercando di costituire una
convivenza dove potessero vivere con indipendenza, e almeno non essere
ridotte alla condizione di schiave e di bestie da soma.
Del resto,
una simile decisione presa ed eseguita non avrebbe niente di più straordinario né di più difficile di quello che avviene di continuo nelle colonie
europee di America, dove è affare corrente che schiavi maltrattati e scontenti fuggano a schiere nella selva, qualche volta da soli se non trovano
altri con cui associarsi, e che vi trascorrano in solitudine molti anni e
talvolta tutta la vita.
Infine, ricordato che miti simili si sono ritrovati in popoli
distanti, La Condamine si domanda retoricamente:
Si potrà credere che dei selvaggi di contrade distanti tra loro si siano
accordati, senza fondamento alcuno, sugli stessi fatti; e che questa pretesa favola sia stata adottata così uniformemente e così universalmente in
Mainas, nel Pará, nella Guyana e in Venezuela, e tra tante nazioni che non
si capiscono tra di loro e che tra loro non comunicano?
Pur nell’ingenuità di credere che i miti non viaggino e non si
diffondano tra popoli lontani fra loro, e che le storie raccontate da
testimoni non fossero, almeno in parte, adattate per compiacere i
viaggiatori etnografi, La Condamine si sforza di dare un’interpretazione dell’origine reale del mito. E il viaggiatore-scienziato per
eccellenza – Alexander von Humboldt – all’inizio dell’Ottocento,
sembra convenire con il suo predecessore (e ispiratore) francese.
176 Capitolo ottavo
Con frequenza a Parigi mi hanno domandato, al mio ritorno dai
viaggi in Orinoco e nel Río delle Amazzoni, se io condividevo l’opinione
di questo saggio [La Condamine] o se io invece la pensavo come molti
contemporanei, che egli avesse assunto la difesa delle Cougnantainsecoiuma [«donne senza mariti»] [...] solo per attrarre, in una seduta pubblica
dell’Accademia, la benevolenza di un uditorio assai avido di novità. Questa
è l’occasione per esprimermi francamente al riguardo39.
Humboldt osserva che negli scrittori del XVI secolo c’era
chiara e netta la propensione e ricercare nelle terre americane
da poco scoperte «tutto ciò che i greci ci hanno insegnato relativamente alle prime età del mondo e alle usanze dei barbari
sciiti e africani», cosicché «le orde americane, nella loro primitiva
semplicità, offrono all’Europa “una sorta di antichità della quale
siamo contemporanei”»40. Ma se il racconto di Carvajal, ripreso
da Raleigh, da Acuña e altri, conteneva esagerazioni, nondimeno
le numerose testimonianze raccolte da La Condamine, e da altri
scienziati dopo di lui, come l’astronomo portoghese Ribeiro, o
raccolte direttamente dal gesuita padre Gili – che Humboldt
incontrò nell’Orinoco – sono qualcosa di più che favole fantasiose. Non occorre pensare che ci siano Amazzoni come quelle
descritte dalla leggenda, ma che
esistono donne che stanche dello stato di schiavitù nel quale erano tenute
dagli uomini, si sono riunite – come facevano gli schiavi neri fuggitivi – in
un palenque (accampamento, villaggio); che il desiderio di conservare l’indipendenza le ha rese guerriere; che hanno ricevuto visite di qualche orda
vicina, magari meno metodicamente di quanto dica la tradizione. Basta che
questa società di donne abbia acquisito forza in qualche parte della Guyana,
perché gli eventi più semplici che si sono ripetuti in luoghi diversi siano
stati descritti in maniera uniforme ed esagerata [...] In altre circostanze, i
conquistatori poterono scambiare per repubbliche delle amazzoni gruppi di
donne che – in assenza dei loro mariti – difendevano le loro abitazioni41.
È dunque da episodi reali – magari avvenuti nel passato e poi
non più ripetuti – che nascono, si consolidano e si diffondono
miti e leggende.
È stato fatto cenno, all’inizio, ai due viaggi amazzonici,
successivi a quello di La Condamine, dei due coniugi Jean e
Isabel Godin des Odonais. Non sono celebri per le osservazioni
scientifiche, ma per l’epopea di Madame Godin, una sorta di
Amazzonia 177
indomita Amazzone, e per le incredibili vicende della coppia.
Jean Godin des Odonais, cugino del capo missione, aveva sposato
a Riobamba la figlia tredicenne di un ricco signore. Nel 1749
decise di rientrare in Francia per questioni di successione, con
l’intesa che avrebbe predisposto le cose per facilitare il successivo
viaggio della moglie. Il viaggio fu regolare, giunse a Belém e poi
a Cayenna. Ma qui gli affari si ingarbugliarono terribilmente; la
guerra interruppe per molti anni le comunicazioni e altre complicazioni e ostacoli, politici e materiali, si posero di mezzo; Godin
rimase bloccato nella Guyana, nella quale diventò un residente
di rilievo. La moglie restò a Riobamba con la famiglia. Solo il 1º
ottobre 1769 (venti anni dopo la partenza del marito), venduta
parte delle proprietà, riuscì a partire con due fratelli e un nipote di dieci anni, tre mulatte, un nero schiavo, due viaggiatori
francesi con un servo, trentuno indios per il trasporto di bagagli
e sussistenze. Avrebbero dovuto raggiungere il villaggio di Canelos e lì imbarcarsi sul Bobonaza, un affluente della riva sud del
Grande Fiume, per iniziarne la discesa. Ma quando raggiunsero
Canelos, trovarono il villaggio quasi deserto perché gli indios lo
avevano abbandonato dopo il manifestarsi del vaiolo; la comitiva
fu abbandonata anche dagli indios del seguito, terrorizzati dal
contagio. Con l’aiuto di due indios del villaggio, che ben presto
si volatilizzarono, decisero di proseguire in canoa fino alla missione di Andoas, 150 leghe a valle, raggiungibile in una diecina
di giorni. Dopo un naufragio, la partenza del francese e del suo
servo in cerca di aiuto, una lunga attesa di varie settimane sulla
riva del fiume, l’impresa di costruire una zattera rudimentale
presto fallito, i superstiti intrapresero una marcia via terra, ma si
persero nella selva nel tentativo di accorciare il cammino tagliando
le larghe anse del fiume. I due fratelli, il nipote, lo schiavo, le
serve morirono uno dopo l’altro – di inedia, infezioni e febbri –
e Isabel Godin, calzate le scarpe di un fratello vagò nella selva
per otto-nove giorni, finché allo stremo riuscì a raggiungere di
nuovo la riva del fiume, e venne soccorsa da due indios fuggiti
da Canelos che la condussero in canoa alla missione di Andoas.
L’intrepida Isabel volle ricompensare i due indios regalando loro
i monili d’oro che ancora indossava, ma glielo impedì il sacerdote
(un secolare, i gesuiti erano stati espulsi) il quale sostituì ai monili della tela di poco valore. La sdegnata Isabel abbandonò la
missione e si fece condurre a La Laguna, dove finalmente venne
affettuosamente soccorsa e curata e poi condotta in territorio
178 Capitolo ottavo
portoghese e finalmente in Guyana, dove giunse a Oyapock,
accolta dal marito il 22 luglio 1770, dopo dieci mesi di traversie.
Tre anni dopo, il 26 giugno 1773 sbarcarono a La Rochelle: il
romanzo dei due coniugi fu descritto da Jean in una lunga lettera
a La Condamine, vecchio e infermo, che aveva saputo del loro
arrivo41. Morirono nel 1792, a pochi mesi l’uno dall’altra. Nessun
romanzo, nessuna opera, è stata scritta sull’epopea di Madame
Godin. Eppure tutti gli ingredienti ci sono: il buon selvaggio
e il selvaggio barbaro, la civiltà corrotta e quella illuminata, la
tragedia familiare e l’amore coniugale, la natura primordiale e
il grande fiume, il viaggio e il mistero dell’inesplorato; la solitudine e la salvezza. Una manna per l’incipiente epoca romantica.
Eppure si trattò di una tragedia fortuita: il Grande Fiume era
sistematicamente solcato da imbarcazioni spagnole e portoghesi,
gli indios rivieraschi più o meno pacificati, il percorso ben noto
e disseminato di stazioni di tappa. Il mistero del Grande Fiume
era definitivamente sepolto.
La Condamine aprì la strada a una serie di viaggiatori animati
da spirito scientifico che tra la metà del Settecento e la metà
dell’Ottocento esplorarono, misurarono, descrissero, catalogarono, la morfologia, le acque, la flora, la fauna, i popoli, le lingue,
dell’immenso territorio amazzonico, che rapidamente perse il
mistero dell’inconoscibile. Il naturalista portoghese Rodrigues
Ferreira (viaggio del 1783-1792) ne catalogò la flora e studiò le
potenzialità per l’agricoltura; il prussiano von Humboldt (17991803) studiò quasi ogni aspetto dello scibile; il bavarese von
Martius (1817-1820) la botanica e le lingue. Questi scienziati
– per citare i più famosi – aprirono l’Amazzonia a un mondo
desideroso di più conoscenza, ma anche avido di sfruttare economicamente un continente ricco di risorse cavalcando la spinta
della rivoluzione industriale. Il capitano Herndon, incaricato
nel 1851 dalla Marina americana di una missione ricognitiva
dell’Amazzonia – dal Perú al Pará – così fantasticava l’incontro
tra il nord e il sud del continente americano:
Posso immaginarmi il risveglio delle popolazioni quando si iniziasse la navigazione amazzonica di bastimenti a vapore. Fantastico di udire il frastuono
della foresta abbattuta per far posto alle coltivazioni di cotone, cacao, riso,
zucchero, e l’acuto stridore delle segherie che riducono in tavole i preziosi
e magnifici alberi della regione; posso vedere i raccoglitori di caucciù e
Amazzonia 179
di copaiba raddoppiare i loro sforzi per risucire ad acquistare i nuovi ed
economici oggetti che si troveranno alla porta delle loro baracche nella
foresta; e perfino gli indios selvaggi trovare il cammino nella selva priva
di sentieri verso i fondaci dei piroscafi per scambiare le loro raccolte di
vaniglia, spezie, coloranti, droghe e resine per quegli oggetti che colpiscono
la loro fantasia – nastri, perline, specchi ed allegre cianfrusaglie42.
Un inno al capitalismo, davvero poco ecologico, ma che
rispecchiava l’animo del tempo.
IX. Francesi, inglesi e olandesi ospiti indesiderati
del Grande Fiume. Uno strano Presepio. Un predicatore
politico. Le ingiuste guerre giuste, i riscatti e i pogrom.
A caccia di schiavi. Fine dell’Amazzonia dei primi rionauti
D
all’inizio del Settecento, la confluenza del Río Javarí con il
Grande Fiume segnò il confine tra l’Amazzonia spagnola e quella
portoghese. Discendendo il Fiume nel 1743, La Condamine sostò
a San Ignacio de Pebas, l’ultima missione dei gesuiti di Mainas,
e dopo tre giorni e tre notti di navigazione giunse al villaggio
di São Paulo, prima missione dei padri camelitani in territorio
portoghese. Il Trattato di Madrid del 1750 rese definitiva questa
separazione di fatto, che sanciva la progressiva penetrazione portoghese verso ovest, oltre quella «linea» meridiana di Tordesillas
che più di due secoli prima aveva riservato alla Spagna la parte
del globo, e del Brasile, che comprendeva l’intera Amazzonia
(della quale, a quell’epoca, non si conosceva l’esistenza!). Si ufficializzava dunque una situazione plasmata più dalla geografia che
dalla politica perché, come più volte si è detto, la barriera delle
Ande era per gli spagnoli assai più dura da valicare di quanto
non fosse per i portoghesi risalire controcorrente il Fiume per
migliaia di chilometri.
Ora è tempo di rimediare – almeno parzialmente – allo squilibrio narrativo dei capitoli precedenti, che hanno approfondito
le vicende della parte spagnola (capp. IV, VI e VII) lasciando
in ombra quella portoghese1. Ci sono almeno due ragioni per
questo squilibrio. La prima riguarda le fonti di conoscenza della
società amazzonica: per la parte spagnola il materiale, se non più
ricco, è certamente più compatto e omogeneo e di derivazione
prevalentemente gesuitica. Esso si riferisce, inoltre, a un territorio che, seppur immenso, è di ampiezza assai minore di quello
portoghese. Dalla «città» di Borja alla confluenza con il Javarí, il
Grande Fiume si estende per 1.400 chilometri, mentre dal Javarí
fino all’oceano il percorso ne misura più del doppio. Inoltre, nella
184 Capitolo nono
parte portoghese, più ordini religiosi (oltre ai gesuiti, i carmelitani,
i francescani, e i mercedari) si divisero l’opera di evangelizzazione, con notevole disparità nel materiale documentario prodotto2.
La seconda ragione è di ordine concettuale. In alta Amazzonia
l’intrusione europea fu modesta numericamente e lo sconvolgimento arrecato alla società indigena può essere direttamente
imputato a ben specificabili modalità del contatto. Nella regione
dei Mainas, sotto la regola dei padri gesuiti, l’insediamento dei
coloni spagnoli fu limitatissimo, e il sistema di encomienda non
si estendeva oltre il distretto di Borja. Al contrario, nella Media
e bassa Amazzonia l’intrusione portoghese fu assai più pesante
perché mirava esplicitamente allo sfruttamento della manodopera – se libera, serva o schiava non fece grande differenza – e
all’assoggettamento della popolazione indigena con metodi quasi
sempre brutali. Gli ordini religiosi, sia pure in modo diverso,
non ebbero un ruolo di «protezione» degli indios ma, semmai,
di intermediari tra gli interessi dei coloni e quelli della Corona.
Sotto il profilo meramente numerico, le spedizioni dei portoghesi
erano assai più numerose, organizzate e potenti. Basti pensare a
quella organizzata da Teixeira nel 1637 – poco più di vent’anni
dopo la fondazione di Belém –, che mobilitò decine di grandi
canoe e oltre 2.000 indios al seguito (cap. V). In altri termini, lo
sconvolgimento dell’Amazzonia portoghese fu profondo e brutale, e prodotto da una pluralità di fattori concorrenti: spedizioni
di cattura, trasmigrazioni forzate, guerre alle tribù «barbare»,
schiavitù, sfruttamento commerciale. Non sorprendono perciò
le conseguenze devastanti sull’ordine delle società indigene di
questa pluralità di fattori distruttivi. Sorprende invece che esse
si siano prodotte, anche se su scala minore, nell’Amazzonia
spagnola, dove l’azione dei padri fu rivolta (almeno in linea di
principio) a preservare la società indigena, e dove non vi furono
né schiavitù né crudeli e indiscriminate razzie.
L’insediamento portoghese in Amazzonia fu relativamente
tardivo perché l’interesse dei colonizzatori si rivolse più a sud,
verso le coste popolate da indigeni non ostili, ricche di alberi del
Brasile, con buone prospettive commerciali e produttive. I circa
30 mila portoghesi che alla fine del Cinquecento erano insediati
lungo la costa, erano concentrati, per otto decimi, nelle regioni
centrali del Pernambuco e della Bahia. Ma all’inizio del Seicento
alcuni modesti avamposti francesi, inglesi e olandesi nell’estuario
Amazzonia 185
del fiume cominciarono a impensierire le autorità di Lisbona; nel
1615 una spedizione militare sloggiò dal Maranhão il villaggio
francese di San Luis fondato qualche anno prima. Nel 1616
Francisco Caldeira do Castelo Branco, con 150 soldati, costruì
un forte di legno battezzato Presépio, sul ramo meridionale del
Grande Fiume3; intorno al forte si sviluppò l’insediamento di
Belém (Betlemme). Nel 1621 venne ufficialmente fondata la
colonia del Maranhão e del Gran Pará, che qualche anno dopo
ricevette il suo primo governatore. Questi rispondeva direttamente a Lisbona ed era indipendente dal Brasile: per le correnti e i
venti prevalenti, il Pará era in più agevole comunicazione con il
Portogallo che non con Salvador de Bahia, capoluogo del Brasile. Tuttavia la situazione non era tranquilla: olandesi e francesi
erano insediati nel Surinam e nella Guyana a nord del Fiume;
a sud di questo, nel 1630, gli olandesi si erano impadroniti del
Pernambuco. C’era il pericolo che il Portogallo perdesse il controllo della grande via di comunicazione fluviale verso l’interno,
verso le Ande e le ricchezze del Perú. Due avamposti fortificati,
Orange e Nassau, erano stati costruiti dagli olandesi nel basso
corso del Río Xingu, affluente di destra del Grande Fiume; altri
avamposti inglesi e olandesi erano stati impiantati sulla costa nord
dell’estuario. Questi pericolosi concorrenti avevano intessuto
relazioni e alleanze con gli indigeni, con i quali intrattenevano
lucrosi scambi: prodotti pregiati della selva contro utensili di ferro
e acciaio, forse armi. Ancora nel 1656 gli indios dell’isola Marajó
(la ben abitata isola, grande come la Svizzera, posta all’imbocco
dell’estuario) approvvigionavano di manatí le navi olandesi di
passaggio4, un quarto di secolo dopo la definitiva espulsione di
questi. Era dunque essenziale il controllo dell’estuario e questo
divenne completo nel decennio successivo alla fondazione della
colonia, contemporaneamente alla sottomissione delle varie comunità indigene, e all’inizio degli anni Trenta l’intero estuario
era sotto sicuro controllo portoghese. Capitani sperimentati come
Pedro Teixeira e Bento Maciel Parente, provetti nelle scorrerie
e assistiti da indios alleati, con poche decine di soldati, furono
decisivi nell’assicurare la bassa Amazzonia al Portogallo5.
La penetrazione verso l’interno amazzonico procedette poi
con notevole continuità. I pochi ma attivi coloni del Pará e del
Maranhão avevano estremo bisogno di manodopera per il servizio
personale, per il trasporto, per le prime piantagioni di canna da
zucchero e tabacco, per la costruzione delle infrastrutture e per
186 Capitolo nono
il supporto delle spedizioni. L’importazione di schiavi dall’Africa
era assai più difficile e costosa della cattura degli indigeni. Nel
frattempo, le popolazioni locali andavano assottigliandosi, non
solo per effetto delle nuove malattie euroasiatiche, ma anche per
le fughe e il progressivo recedere degli indios nel sertão (l’interno
spopolato), risalendo il Fiume e i suoi tributari. Di conseguenza si
rafforzarono e si estesero le spedizioni verso l’interno, e con esse
i tentativi di pacificazione, con le buone o con le cattive, dei vari
gruppi etnici; la fondazione di nuovi villaggi di indios (aldeias);
l’insediamento di avamposti portoghesi. La grande spedizione
di Teixeira (cap. V) del 1737-1739 che raggiunse Quito, con
sconcerto degli spagnoli, fu anche una gigantesca ricognizione
dell’interno amazzonico e delle sue potenzialità. Ricordiamo che
nel viaggio di ritorno la spedizione fece sosta alla confluenza con
il Río Negro, e che Acuña dovette dissuadere i luogotenenti di
Teixeira dal proposito di organizzare una spedizione di cattura di
indios su per il Río Negro, come ricompensa delle loro fatiche.
Dal 1657 iniziano le spedizioni di cattura di schiavi nel basso
e medio Río Negro e nel Río Branco; nel 1660 c’è una prima
entrada nel corso medio del Grande Fiume (nel tratto tra il Río
Negro e l’Ucayali che i portoghesi chiamavano Solimões). Tra il
1680 e il 1710 i portoghesi risalgono il Solimões con numerose
spedizioni, fino ai villaggi degli Omaguas che richiesero la protezione dei gesuiti e propiziarono l’opera di evangelizzazione di
padre Fritz che si spinse fin quasi al Río Negro. Ma si trattò di
un’effimera proiezione dei gesuiti di Mainas, perché nemmeno
la profetica personalità di padre Fritz fu in grado di proteggere
gli Omaguas dalle frequenti, agili e ben organizzate spedizioni
portoghesi. Dal 1710 il Solimões – dal Río Negro al Javarí –
cadde definitivamente in mani portoghesi. Negli anni Venti del
Settecento i gruppi Manaos del Río Negro rimasti indipendenti
– seppure in relazioni di scambio con i portoghesi – vennero
dispersi in una crudelissima guerra. Gli indigeni dei bassi corsi
dello Xingu, del Tapajós e del Madera, erano già entrati da tempo
nell’orbita portoghese.
Nella fase iniziale dell’insediamento portoghese nell’estuario
gli europei erano un numero esiguo, composto da pochi coloni
e da soldati, guide e avventurieri senza famiglia. La graduale
espansione verso l’interno, nel prosieguo del secolo e in quello
successivo, avvenne a opera di una popolazione bianca che
Amazzonia 187
rimase poco numerosa. Secondo Sweet, tra il 1650 e il 1750 i
capifamiglia residenti nel Pará (Belém e qualche altro modesto
insediamento dell’estuario) passarono da 200 a 1.500, più altrettanti uomini singoli (soldati, religiosi, meticci)6. È a questi
pochi che si dovette l’espansione portoghese in Amazzonia, con
i disastri che ne conseguirono. Per quanto lontani dal Portogallo, questi uomini operavano in un quadro politico, normativo e
religioso dal quale spesso prescindevano ma che, nel complesso,
condizionò le loro azioni, e del quale occorre dare breve conto.
Anche sotto questo profilo, l’Amazzonia portoghese si differenziò
profondamente da quella spagnola, le cui vicende furono seguite
dalle distanti gerarchie civili e religiose con relativa indifferenza
e dove il contatto iberico-americano fu limitato alle relazioni tra
missionari e indigeni.
Il governatore era a capo dell’amministrazione coloniale del
Maranhão e del Pará: fino al 1690 risiedeva a San Luis e, successivamente, a Belém, in risposta alla crescente rilevanza del Pará.
Preminenti nel governo erano anche un ouvidor (magistrato) e un
provedor da fazenda (un tesoriere); un capitão mor (capitano maggiore) aveva responsabilità militari. I coloni erano rappresentati dal
Senado da Cámara (consiglio municipale) esistente sia a San Luis
che a Belém, e i loro interessi confliggevano spesso e volentieri
con quelli della Corona, incline a estrarre dalla colonia i maggiori
proventi possibili. L’autorità religiosa era anche rilevante, tanto
che San Luis ebbe il proprio vescovo a partire dal 1687 e Belém
dal 1720. Ma ancor più importanti furono gli ordini religiosi, i
francescani nei primissimi anni e poi i carmelitani, i mercedari e
sopra a tutti, i gesuiti. Questi erano sostenuti dalla Corona che
li riteneva particolarmente capaci di evangelizzare e educare gli
indios e abili nel contemperare l’azione di protezione degli indios
dai peggiori abusi dei coloni con gli interessi della Corona. Esisteva
poi una Junta das Missões, operativa dal 1683, che comprendeva
le autorità civili e religiose e deliberava sulle questioni concernenti
l’azione missionaria, sulla quale la Corona contava per l’accrescimento e la conservazione della popolazione indigena della colonia7.
Man mano che la penetrazione portoghese si estendeva a nuovi
territori, le popolazioni indigene venivano fissate in aldeias la cui
amministrazione era confidata a un religioso di uno dei quattro
ordini missionari. Nel 1693 ai gesuiti furono affidate le popolazioni della riva destra del Grande Fiume e dei suoi affluenti fino al
Madera; ai francescani, assai poco attivi, la riva sinistra nel basso
188 Capitolo nono
corso del Fiume; ai mercedari il residuo della riva sinistra fino al
Río Negro; ai carmelitani le popolazioni del Río Negro e quelle
rivierasche del Solimões. L’azione dei gesuiti – come si è detto i
più attivi, capaci, influenti, con sostegno alla corte e in Europa –
fu frenata solo dalla scarsezza di uomini.
Questo sistema durò fino all’ascesa del marchese di Pombal
e all’affermarsi dei suoi programmi riformatori. Francisco Xavier
de Mendonça Furtado, fratello di Pombal, venne inviato a Belém
nel 1753 come governatore della colonia, un amministratore tanto
dedito quanto bigotto; nel 1757 i gesuiti vennero espulsi e iniziò
la fase cosiddetta «del Direttorio» che introdusse un nuovo ordinamento. Questo rafforzò il governo civile della colonia e sostituì,
nelle aldeias, gli amministratori religiosi con «direttori» civili. Il
nuovo assetto, pur con intenzioni riformatrici lodevoli, spostò
ancora la bilancia del potere e degli interessi a favore dei coloni
e a danno degli indigeni. Al Direttorio fu posto termine nel 1798
e fino all’indipendenza del 1822 prevalse un assetto ondivago e
confuso.
La legislazione, tra la caduta di Pombal (1777) fino all’indipendenza del
Brasile (1822) fu di conio progressivamente antindigeno, reintroducendo
licenze formali e incentivi ufficiali per la riduzione in schiavitù degli indios
e l’organizzazione di azioni armate contro di essi, allo scopo di permettere
l’allargamento del regime coloniale nei territori da loro occupati8.
Ma la colonia aveva ormai annullato i caratteri originari delle
popolazioni del Grande Fiume. L’Amazzonia intravista da Pinzón,
e percorsa da Carvajal e da Acuña, non esisteva più.
Questa succinta narrazione dell’ordinamento coloniale va
completata su due fronti interdipendenti, assai rilevanti per
comprendere meglio in quale contesto agissero le forze distruttrici del contatto. In primo luogo è rilevante il quadro legale
delle relazioni tra europei e indios, che condizionò il processo
di sottomissione delle popolazioni indigene e determinò lo status giuridico e quello sostanziale degli indios sottomessi – servi,
schiavi o liberi – e di quelli ancora fuori della zona d’influenza
dei portoghesi. Il secondo aspetto rilevante riguarda i processi di
insediamento degli indios e lo sfruttamento del loro lavoro.
Lo status legale degli indios fu essenzialmente analogo a
quello che prevalse nell’America spagnola. Fino dalla metà del
Amazzonia 189
Cinquecento gli indios erano considerati liberi, e non potevano
essere posti in schiavitù perché persone «politiche», capaci di
darsi o seguire regole di convivenza e di governo. Facevano eccezione gli indios «barbari», quelli cioè che praticavano delitti
nefandi, come l’incesto o il cannibalismo, oppure gli indios ostili
e guerrieri contro i quali era ammessa una «guerra giusta» che si
concludeva con la schiavitù per i vinti. Questo schema legale era,
tra l’altro, adatto a gran parte dell’impero spagnolo nel quale gli
indigeni «barbari» o irriducibili restarono in aree marginali, e la
gran maggioranza viveva nelle regioni mesoamericane e andine, in
civiltà sedentarie e sicuramente «politiche» assai prima dell’arrivo
degli spagnoli. È chiaro però che il confine tra indio «barbaro»
e indio «politico», tra guerra di difesa e guerra di aggressione,
era labile e mobile a seconda delle convenienze e delle interpretazioni che i più forti ne davano. Nelle popolazioni amazzoniche,
fluide, mobili, disperse, spesso inconoscibili o sconosciute, e
per le quali la distinzione tra aggressione e difesa era sottile,
l’applicazione di criteri e categorie giuridiche astratti si prestava
a ogni manipolazione. Questa labilità definitoria fu complicata,
nell’Amazzonia portoghese, da un quadro giuridico incerto che
subì molti cambiamenti nel corso del tempo. La legislazione
emanata dalla Corona fu ondivaga e contraddittoria: le leggi
del 1609, del 1680 e del 1755 (quest’ultima ispirata da Pombal)
dichiararono la libertà assoluta degli indios, ma furono quasi
immediatamente seguite da altre disposizioni che legalizzavano
la schiavitù o che limitavano la libertà con particolari casistiche,
cosicché restarono, nei fatti, lettera morta9. Ciò avveniva anche
in seguito alle resistenze e alle ribellioni dei coloni per i quali
la manodopera indigena – soprattutto se a libertà limitata o in
schiavitù – costituiva una vitale e irrinunciabile risorsa.
Limitandoci all’essenziale, e senza tener conto delle numerose
varianti avvenute nel tempo, il regime di fatto prevalente era
il seguente. Agli indios aldeados, cioè insediati in abitati sotto
controllo portoghese, e agli indios alleati era garantita la libertà.
Agli aldeados era riconosciuta la proprietà delle loro terre, ma
potevano essere obbligati a lavorare per i residenti portoghesi in
cambio di un salario e di un equo e buon trattamento. Questo
in teoria: nella realtà ciò dipendeva dall’amministrazione dell’aldeia, che prima fu religiosa e poi civile, e dalla discrezionalità e
dall’arbitrio degli amministratori e dei coloni, con gli abusi che
è facile immaginare. Liberi erano anche gli indios alleati, ai quali
190 Capitolo nono
veniva richiesto di accompagnare e sostenere i portoghesi nelle
loro spedizioni di guerra contro gli indios ostili e nemici, nelle
profondità del sertão, cioè in terre inesplorate o non sottomesse.
Gli indios ostili o nemici potevano, invece, essere fatti schiavi e
verso di loro si poteva condurre la «guerra giusta». Le cause della
guerra giusta erano varie: oltre agli atti di ostilità e di guerra,
erano considerati tali anche gli ostacoli posti alla predicazione e,
naturalmente, il cannibalismo. Per frenare l’abuso, o la giustificazione a posteriori di queste spedizioni di guerra, si stabilirono
procedure, testimonianze ufficiali e finanche la necessità che ci
fosse una vera e propria dichiarazione convalidata dal re10. Non
solo potevano essere fatti schiavi i nemici in una guerra giusta,
ma anche coloro che erano tenuti in stato di schiavitù da tribù
barbare e che potevano essere comprati o resgatados, riscattati.
Gli indios così riscattati potevano essere tenuti in schiavitù e
normalmente tornavano in libertà – almeno formalmente – dopo
dieci anni. Spesso le operazioni di resgate e quelle di guerra
si confondevano e sovrapponevano. C’era anche un’attività di
intermediazione fatta da etnie alleate che si procuravano schiavi
con incursioni contro altri gruppi nemici dell’interno e li scambiavano poi con i portoghesi.
Va infine spiegato come avveniva il cosiddetto aldeamento,
cioè il trasferimento di gruppi indigeni dai loro territori verso
il luogo – generalmente nei pressi di un fiume – dove veniva
costituita un’aldeia, o missione. Tale processo era chiamato descimento, cioè «discesa», perché frequentemente si trattava di una
trasmigrazione a valle, non coercitiva, operata (obbligatoriamente,
dal 1687) sotto la guida e la responsabilità di un religioso. Il
religioso guidava le spedizioni e conduceva l’opera di convincimento degli indios e dei loro capi, prestando garanzia circa
l’assegnazione della terra nell’aldeia e il buon trattamento che
sarebbe stato ricevuto. Era il primo passo verso l’evangelizzazione
e l’acculturazione (o deculturazione, a seconda del punto di vista)
degli indigeni. Anche nel caso dei descimentos, il confine tra una
migrazione più o meno volontaria e un trasferimento coatto, fu
sicuramente assai labile.
Guerre giuste, riscatti, descimentos, aldeamento, erano
processi previsti dall’ordinamento della colonia e concorsero a
rivoluzionare l’assetto sociale delle popolazioni amazzoniche,
mutando anche lo status giuridico delle genti coinvolte: dallo
stato di natura alla schiavitù, o alla schiavitù a tempo nel caso
Amazzonia 191
del resgate, o a una sorta di libertà condizionata o di semiservitù,
nel caso di aldeamento.
Ogni irrigidimento della normativa suggerita o adottata
mediante decreti reali, provocava la netta reazione dei coloni e
perfino sommosse. È istruttivo narrare il caso che coinvolse il
gesuita Antonio Vieira, chiamato il Las Casas portoghese, difensore e paladino degli indios, organizzatore dell’evangelizzazione,
predicatore ascoltatissimo e scrittore instancabile, influente nella
colonia e presso la corte, ambasciatore in Francia e Olanda, dalla
lunghissima vita11. Nel 1653 Vieira assunse la carica di superiore
dei gesuiti nel Maranhão, e in quell’anno la corte, sotto l’influenza
di Vieira, aveva ancora una volta decretato la libertà degli indios «qualsiasi fosse la loro condizione»12. La legge incontrò la
violentissima opposizione dei coloni che ne chiesero la revoca.
Vieira si schierò, naturalmente, in sostegno di questa, e nella
terza domenica di quaresima tenne ai coloni un «sermone sopra
la schiavitù nel Marañon» che rimase celeberrimo. In questo
sermone, tuttavia, propose anche una sorta di mediazione, e vale
la pena ascoltare le sue parole ai fedeli.
Tutti gli indios di questo stato o sono nella condizione di servire
come schiavi, o vivono liberi nelle aldeias, o vivono nel sertão nello stato
di natura e con libertà ancora maggiore, e questi si vanno a comprare e
riscattare (come si usa dire) lungo questi fiumi, con il pietoso nome di
riscatto, che spesso avviene con la pistola puntata al petto. Quanto a quelli
che vi servono, tutti in queste terre sono stati ereditati, avuti o posseduti
in mala fede.
Tuttavia, continuava Vieira, se una volta liberati, quelli che
sono cresciuti e che hanno servito nelle vostre case vogliono
restare con voi,
nessuno, se manifesteranno questa volontà, potrà toglierveli. E che sarà di
quelli che non volessero continuare in questo stato di soggezione? Questi
saranno obbligati ad andare a vivere in un’aldeia, dove dovranno servire
come poi diremo [...] Ogni anno si potranno fare delle spedizioni nel
sertão, mediante le quali davvero si riscattino quelli che si trovano (come
si usa dire) em corda, legati, per essere mangiati, ai quali si commuterà
questa crudeltà in schiavitù perpetua. E così saranno schiavi anche quelli
che, senza violenza, siano stati venduti come schiavi dai propri nemici, se
presi in una guerra giusta, della quale cosa saranno giudici il governatore
192 Capitolo nono
generale dello stato, l’uditore generale, il vicario del Marañon e del Pará,
e i prelati delle quattro religioni, carmelitani, francescani, mercedari e
compagnia di Gesù13.
Vieira proseguì, facendo il bilancio dei costi e dei benefici.
Tra i benefici poneva il lavacro del peccato mortale dei coloni e
della maledizione che pesava sulle loro case, il fare cosa gradita
al re, e soprattutto l’utile che sarebbe derivato dal rafforzamento
delle spedizioni per giusti riscatti, che avrebbero compensato le
perdite di indios previste dalla legge.
Il male è uno solo: ci saranno alcuni cittadini che perderanno alcuni
indios, e vi prometto che saranno molto pochi. Ma a coloro che subiranno
queste perdite, domando: non morirono già alcuni indios? Sì, e molti.
Ebbene, quello che fa la morte, perché non può farlo la ragione? Quello
che fa il caso, perché non potrebbe farlo lo scrupolo di coscienza? Se venisse il vaiolo, e ve li togliesse tutti, che potreste mai fare? Dovreste avere
pazienza. E allora, non è forse meglio perderli per servire Dio piuttosto
che per il castigo di Dio?14
Il fervore e la dialettica di Vieira – e la sua proposta di
mediazione – non ebbero successo con i coloni. Dopo una dura
controversia, che incluse un viaggio di Vieira a Lisbona presso
la corte, la legge venne modificata in senso favorevole ai coloni,
quindi ripristinata. Nel 1661 Vieira tornò a Belém, ma i coloni
inscenarono un’altra sommossa e il religioso e altri trentadue gesuiti che operavano in trentotto aldeias vennero arrestati, espulsi
e imbarcati per il Portogallo15.
L’episodio narrato esemplifica bene lo stato di controversia
strisciante tra la Corona, i coloni e i religiosi – i gesuiti in particolare – essendo gli altri ordini o più distaccati o più inclini
a sostenere le richieste dei coloni. Tuttavia anche per Vieira,
riscatti e guerre giuste erano pur sempre una via lecita per rimpiazzare quel lavoro indigeno che le fughe e l’alta mortalità – e
forse una natalità compromessa dalle dislocazioni – rendevano
sempre più scarso.
I residenti bianchi vivevano a una certa distanza dalle aldeiasmissioni degli indios, salvo il religioso cui era affidato il magistero
spirituale e il governo materiale della stessa. Gli indios possedevano la terra, ma erano obbligati a lavorare, dietro mercede,
per i coloni, oltreché per il servizio pubblico. Più precisamente
Amazzonia 193
c’erano tre categorie di aldeias: quelle che servivano alle necessità
dell’ordine religioso (de colegio), quelle per il servizio pubblico
(servicio real) che provvedevano ad alcuni trasporti, alle saline,
alle infrastrutture, e le altre – la maggior parte – nelle quali il
lavoro degli indios era riservato ai coloni. Secondo Porro
gli uomini tra i tredici e i sessant’anni erano inventariati una volta all’anno
per essere ripartiti: un terzo rimaneva nella missione; da un altro terzo
il missionario poteva riservarsi venticinque uomini per il suo servizio e i
restanti erano ripartiti tra i residenti, agricoltori e fazendeiros che li requisivano per i lavori agricoli e il trasporto; l’altra terza parte era riservata
alle autorità per il servizio pubblico o ai capi delle tropas que andavano
nel sertão16.
Tendenzialmente c’era una forbice tra domanda e offerta di
lavoro: da un lato la domanda che aumentava per l’espandersi
della pur modesta popolazione bianca o meticcia, per l’accrescersi
delle sue necessità, per la richiesta di lavoro nelle piantagioni.
Dall’altro l’offerta diminuiva, per il contrarsi della popolazione
indigena. Da questo squilibrio prendevano impulso le spedizioni
in aree sempre più remote alla ricerca di nuova manodopera da
asservire. Alle aldeias, inoltre, spettava il compito di rifornire di
uomini le spedizioni di descimento, resgate e guerra. Là dove la
presenza di coloni bianchi era molto scarsa, l’esperimento delle
aldeias non sarebbe stato negativo: nell’opinione di Moreira Neto,
se confrontato con le condizioni di vita servili a Belém o negli
altri insediamenti portoghesi, «il sistema economico e sociale nelle
aldeias missionarie aveva una certa coerenza e viabilità, perché era
autosufficiente e non competitivo, orientato al proprio sviluppo e
anche, in certa misura, al soddisfacimento delle necessità minime
dei suoi componenti, indios nella stragrande maggioranza»17 in
parte ripetendo il successo delle missioni del Paraguay, almeno
per quanto riguarda una certa stabilità del popolamento.
Oltre all’assoluto controllo interno della missione, i padri detenevano
il monopolio di tutte le operazioni di produzione, trasporto e vendita
dei beni commerciabili. E poiché nel regime missionario non si poneva
la questione del lucro individuale immediato, era possibile ordinare e
dirigere tutte le attività in modo sistematico e razionale. L’inesistenza e
l’estrema rarefazione dei coloni bianchi contribuiva anche alla continuità
dell’ordine missionario18.
194 Capitolo nono
Le azioni che stravolsero maggiormente le popolazioni
dell’Amazzonia portoghese furono le spedizioni di guerra, di
resgate, di trasferimento più o meno consenziente dei gruppi
tribali. Furono azioni che ebbero anche una notevole valenza
demografica anche se non è possibile misurarne la reale incidenza. David Sweet ha ammirabilmente approfondito le complesse
modalità di queste spedizioni, che divennero regolari e continue
a partire dall’ultimo quarto del Seicento, quando la fame di
manodopera nel Pará spinse il governo, nel 1688, a regolarle
ufficialmente, disponendo che fossero promosse e finanziate
dalle casse pubbliche19. In quell’epoca, le aree meno spopolate
erano quelle del medio corso del Grande Fiume, a monte della
confluenza del Madeira, e quelle del basso e medio corso del
Río Negro e del Río Branco, affluente del Negro, ben lontane
da Belém. Nella forma più matura, l’organizzazione delle tropas
de resgate e della loro attività era regolata con il massimo del
dettaglio giuridico iberico. In estrema sintesi: tale truppa era
agli ordini di un capo sperimentato in tali spedizioni, e di uno
o due religiosi (generalmente gesuiti), di uno scrivano e di un
tesoriere; aveva una scorta di soldati e molti indios di supporto –
spesso un centinaio o più – per le canoe, i rifornimenti e le altre
mansioni. Le casse reali pagavano i salari del capo e dei soldati
e fornivano il cibo, le scorte e le merci necessarie per gli scambi
con gli indios. Le aldeias lungo i fiumi erano tenute a fornire
il loro appoggio, se richiesto. Il capo della spedizione prendeva
contatto con i principaes (capi indios) dei vari insediamenti degli
indios «amici» del sertão perché fornissero gli indios prigionieri
(da loro catturati in «guerre giuste») con i consueti pagamenti.
Spesso i principaes potevano essere convinti (con le buone o
con le cattive) a un trasferimento verso un’aldeia. In molti casi
la tropa de resgate operava vere e proprie aggressioni contro
altri gruppi considerati o classificati come nemici e barbari, e
gli indios catturati venivano posti in schiavitù. Al religioso che
accompagnava la spedizione spettava il compito di distribuire
merci e utensili per gli scambi, e di accertare che ogni schiavo
fosse stato catturato «legittimamente». Se risultava il contrario,
il malcapitato veniva inviato nel Pará con l’obbligo di servire per
cinque anni prima di acquistare la libertà. Gli schiavi «legittimi»
venivano inviati a Belém e venduti ai coloni secondo criteri e
prezzi decisi dalle autorità. Verbali, attestazioni, registrazioni,
autorizzazioni, scritture contabili accompagnavano l’azione della
Amazzonia 195
tropa dalla partenza fino alla vendita degli schiavi. In teoria, questo
era il sistema, ma almeno fino alla terza decade del Settecento
funzionò in modo discontinuo e confuso, sovrapponendosi ad
altre analoghe iniziative di natura privata. Le autorità agirono
senza coerenza e i gesuiti spesso si rifiutavano di prender parte
alle spedizioni, preferendo capitanare i descimentos per rifornire
le loro aldeias20.
Purtroppo non esistono notizie precise che permettano di
quantificare i risultati delle spedizioni. Vieira riferisce in una
lettera al re della spedizione iniziata nell’agosto del 1658, con
padre Francisco Gonçalves fino al Río Negro, con la quale vennero riscattati 600 indios, e della missione dell’anno successivo,
con padre Francisco Velloso, che portò al riscatto di altrettante
peças («pezzi», cioè schiavi) «con grande beneficio e aumento
dello Stato»21. Vieira le approvava, visto che si svolgevano con
quelle garanzie minime di cui sopra si è detto. Un’altra spedizione venne effettuata nel Río Tocantins, con padre Manuel
Nunes che era accompagnato da «450 indios di arco e remo, e
45 soldati portoghesi di scorta con un capitano di fanteria»22. In
primo luogo si punì la nazione degli indios Inheiguaras, ribelle
e colpevole dell’uccisione di alcuni cristiani.
Essendosi questi ritirati con le loro armi nei luoghi più nascosti e difendibili del loro territorio a più di 50 leghe di distanza, là furono cercati,
trovati, circondati, costretti alla resa e catturati quasi tutti, senza maggior
danno che la perdita di due indios dei nostri. Vennero fatti prigionieri in
240 i quali, conformemente alle leggi di Vostra Maestà e con l’imputazione di avere impedito la predicazione del Santo Vangelo, furono giudicati
schiavi e distribuiti ai soldati23.
Dopo questa impresa, venne organizzato il descimento dei
Potiguar. «Questa gente era a un mese e mezzo di cammino
dal Fiume, o di non cammino, perché si traversava una selva
inestricabile, percorsa da grandi lagune e colline, e c’erano dieci
villaggi che si dovevano far trasmigrare, con donne, bambini,
poppanti e infermi, e tutti gli impedimenti che si incontrano nella
trasmigrazione di interi popoli». Finalmente giunsero al Fiume e
in 1.000 vennero imbarcati per le aldeias del Pará24.
Nell’insieme – e prendendo in conto i 1.200 Tupinambás
tratti al Pará in una precedente spedizione – in quell’anno la
«Repubblica venne aumentata da più di 2.000 indios schiavi e
196 Capitolo nono
liberi, ma non per questo i suoi cittadini resteranno soddisfatti, né
lo saranno mai, perché, essendo i fiumi di queste terre i maggiori
del mondo, la loro sete è maggiore dell’acqua dei fiumi»24. Nel
1663 Antônio Arnau Veleda venne ucciso in una spedizione sul Río
Urubú. «Pedro da Costa Favela volle vendicarne la morte. Uccise
700 indiani, catturò 400 indios Guaneena e Caboquena, e bruciò
300 villaggi». Betendorf continua riferendo che, in tre mesi di
guerra, poiché gran parte degli Arawaks era fuggito, i portoghesi
presero prigionieri solo 300 indios, soprattutto bambini e vecchi
quando in «quei villaggi normalmente si riscattano 500 indios»,
generalmente già schiavi che gli Arawaks avevano catturato nelle
loro scorrerie; questi 330 prigionieri furono mandati nel Pará, «ma
il maggior numero di questi morì in viaggio per pura necessità».
In un’altra spedizione contemporanea altri 500 indios catturati
come schiavi si ribellarono e, uccisi i soldati che li portavano
prigionieri, fuggirono nella selva»25. Tutta la documentazione
esistente conferma che la cattura di schiavi, sia con le spedizioni
ufficiali promosse dalla Colonia, sia – dopo il 1719 – con quelle
promosse da privati autorizzati, sia per mezzo di quelle illegali
sempre fiorenti e frequenti, riguardasse numeri annuali considerevoli. Un padre gesuita, nel 1719, stimava una media di 1.000
schiavi introdotti annualmente nel Pará da privati autorizzati
che inviavano per queste intraprese fino a 300 canoe all’anno26.
I descimentos verso le aldeias-missioni avrebbero riguardato un
analogo numero annuale27. Nel 1736 le autorizzazioni a privati
per queste intraprese riguardavano spedizioni che impegnavano
un totale di 320 canoe. Hemming ha osservato che ogni canoa
aveva un equipaggio di 25 rematori, e che il numero totale degli
indios coinvolti doveva essere dell’ordine di 8.000 unità. Una
cifra notevole in rapporto all’esiguità della popolazione pacificata
e che rivela la centralità delle operazioni di cattura degli indios
nella società amazzonica28.
Altre spedizioni furono, dichiaratamente, di guerra e quella
portata contro la nazione dei Manaos, nel medio Río Negro è
forse la più conosciuta. Le spedizioni dal Pará, durante il Seicento,
avevano portato all’inclusione nella sfera d’influenza portoghese
le popolazioni del basso corso del Río Negro. Un avamposto era
stato istituito alla Barra del Río Negro, alla confluenza col Grande
Fiume (dove oggi si trova la città di Manaus); gli indios fino alla
confluenza con il Río Branco – dov’era stata fondata una missione
carmelitana – erano stati pacificati, ridotti in aldeias o fatti schiavi.
Amazzonia 197
I Manaos vivevano a monte del Branco; erano noti da tempo a
spagnoli e portoghesi, e di essi ne dettero notizia sia Acuña sia
Fritz. Erano considerati relativamente numerosi, praticavano
l’agricoltura, ed erano attivi commercianti, con attività di scambio
con gli olandesi del Surinam ai quali fornivano schiavi, ottenuti
da tribù vicine, in cambio di utensili, armi e altri generi.
Fu la loro specializzazione come mercanti di schiavi a determinare la
natura dei loro contatti con i portoghesi. E non erano restii a concludere
affari con i mercanti di schiavi del Pará quando se ne presentava l’occasione; verso il 1720 erano attivamente impegnati nello scambio di schiavi
con le mercanzie europee provenienti dal Pará e dagli avamposti [olandesi]
sul fiume Essequibo29.
Avevano però mantenuto la loro indipendenza. Nel 1723
una spedizione portoghese risalì il Negro – che nel suo corso
inferiore era già stato spopolato dalle incursioni dei decenni
precedenti – fino alla bocca del Branco, in cerca di schiavi. Gli
eventi successivi, che portarono alla dichiarazione di una «giusta
guerra» ai Manaos da parte del governatore non sono chiari,
ma furono probabilmente legati al fallimento degli approcci dei
portoghesi, alla volontà dei Manaos di tenere a distanza un invadente e pericoloso popolo, forse a qualche conflitto marginale,
e a un’accresciuta domanda di schiavi da parte dei coloni. La
dichiarazione di guerra fu fatta con le debite procedure legali
che coinvolsero anche Lisbona, ma il conflitto si trascinò a lungo
per le scarse disponibilità di uomini della colonia e si concluse
solo nel 1727, con la morte del più influente dei capi (chiamato
Ajuricaba) e l’invio di una moltitudine (le cifre variano tra 200
e 2.000 indios ) in schiavitù nel Pará30. La sconfitta dei Manaos
aprì la strada – o, meglio, il fiume – a nuove incursioni a monte,
fino, e oltre, le prime rapide del Negro, senza troppe precauzioni
legali, con razzie indiscriminate che sollevarono anche controversie
legali a Belém. «La distruzione, la deportazione o la dispersione
delle potenti tribù dei medio Río Negro, costrinse gli indios
sopravvissuti a cercare la protezione dei missionari rimasti nella
regione, e fece sorgere nuove forme di organizzazione sotto il
controllo dei bianchi»31.
Nelle pagine precedenti è stata abbozzata una sintesi di alcune
vicende dell’Amazzonia portoghese che la moderna storiografia
198 Capitolo nono
sta ricostruendo a fatica. Mentre la ricostruzione delle vicende
politiche della colonia è resa relativamente agevole da una mole
considerevole di documentazione giuridica e cronachistica, è assai
più difficile conoscere le conseguenze di queste sulle società indigene. Conosciamo la cornice, ma il dipinto rimane assai confuso.
In particolare, restano elusivi i dati quantitativi indispensabili per
delineare la demografia delle popolazioni amazzoniche. Abbiamo
già discusso il tema della numerosità della popolazione rivierasca,
sia per le deduzioni possibili dalle impressionistiche relazioni di
viaggio del Cinquecento, sia mediante le stime più ragionate del
secolo successivo. Nell’Amazzonia spagnola le rilevazioni civili,
e soprattutto religiose, hanno permesso alcuni approfondimenti,
che non siamo in grado di replicare per l’Amazzonia portoghese32. Possiamo però affermare con certezza che in quest’ultima
l’azione europea ebbe quell’effetto sconvolgente che mancò invece
nella prima. E ne abbiamo descritto meccanismi e modalità, con
qualche esempio quantitativo, nelle pagine precedenti.
Sappiamo che le popolazioni amazzoniche erano flagellate
dal vaiolo. Il nuovo virus aveva fatto la sua apparizione nel
Maranhão nel 1621 e nel 1644, ma non risulta che risalisse a
nord verso la bocca del Grande Fiume. Il lettore ricorderà la
descrizione che Laureano de la Cruz fece dell’epidemia: questa,
risalendo i corso del fiume, aveva colpito le isole degli Omaguas
nel 1648, uccidendo la «terza parte della popolazione dell’isola»
(cap. VII). Non sappiamo però nulla né sull’origine, né sulla
diffusione del contagio. L’epidemia che colpì il Maranhão nel
1661 giunse sicuramente fino a Belém e nel suo distretto e ci
sono resoconti delle tragiche conseguenze: padre Betendorf scrisse che i missionari erano costretti loro stessi seppellire i morti
«perché non c’era villaggio nel quale restassero due indios in
piedi», mentre i padri abbandonavano i figli fuggendo nella selva
per non contagiarli con un male così pestilenziale»33. Disastrosi
furono anche gli effetti della successiva visita del vaiolo, che
esplose nel Maranhão, passò nel Pará, fece 200 vittime a Belém
e si diffuse nell’estuario. Si salvarono gli indios di alcune aldeias
cui fu consentita la fuga verso l’interno. Le perdite demografiche
spinsero il governatore, nel 1697, a inviare una spedizione nel
Río Negro per rimpiazzare gli indios uccisi dal virus nelle aldeias
spopolate34. Più severo ancora sarebbe stato il vaiolo che colpì
San Luis nel 1724, sembra introdotto con la nave che trasportava
da Lisbona il nuovo vescovo diretto a Belém e che contagiò il
Amazzonia 199
suo seguito nel viaggio da San Luis al Pará35. Furono contagiate,
oltre alla città, molte aldeias della regione e furono prese misure
per contenere la diffusione del contagio; secondo il governatore
le vittime furono circa 1.000 nel Maranhão e 2.000 nella regione
di Belém. Di nuovo, la produzione e i servizi furono profondamente colpiti, e il disastro demografico sarebbe stata una delle
cause della guerra ai Manaos del Río Negro.
Il vaiolo colpì di nuovo Belém nel 1743: abbiamo riportato
(cap. VIII) la testimonianza di La Condamine che, arrivato a
Belém alla fine del 1743, dovette ritardare la sua partenza per
la Guyana per la difficoltà di reclutare i rematori che avrebbero
dovuto accompagnarlo a causa dell’infuriare dell’epidemia. Lo
scienziato riferì anche, in seguito, che aveva avuto notizia di
una nuova epidemia nel Pará qualche anno più tardi, probabilmente nel 1749. Una contabilità relativa alla mortalità indotta
da quell’epidemia del 1749 – che viene indicata come morbillo
(serampião) – si desume però da un documento circa le perdite
subite dalle missioni carmelitane nel Río Negro e nel Solimões.
Si tratta di 17 missioni, 8 nel Negro e 9 nel Solimões, che contabilizzarono un totale di 2.308 decessi, ugualmente distribuiti
nelle due regioni. I documenti indicano anche che 375 indiani
abbandonarono le missioni in fuga dal contagio. Un documento
successivo di un quarto di secolo, attribuì circa 11 mila abitanti
ai villaggi del Río Negro. Non sappiamo se nel corso del tempo
gli indios acculturati fossero diminuiti o aumentati, anche se
propendiamo per la prima delle due ipotesi. Se supponiamo
che la popolazione fosse rimasta invariata, l’epidemia avrebbe
causato la morte di un decimo della popolazione, un dato certo
impressionante, ma coerente con l’incidenza in una popolazione
non immune colpita da morbillo36.
Sulle dimensioni della popolazione sappiamo poco. Ci sono,
è vero, valutazioni della popolazione delle missioni-aldeias dei
religiosi, che – non diversamente, ma di certo più vigorosamente
di quelle dell’alta Amazzonia – erano alimentate in continuazione
dai descimentos. Ma non sappiamo quanti fossero gli indios liberi
che occupavano l'interno, in zone discoste da quelle rivierasche
del Grande Fiume e dei suoi maggiori affluenti depauperati, da
un lato, dai resgates e dai descimentos, e, dall’altro, dagli indios
fuggitivi. Esistono molte notizie a questo riguardo, ma non adatte
a ricostruzioni quantitative.
200 Capitolo nono
Occorre dunque ripiegare sulle poche informazioni esistenti.
Lasciamo da un lato i numeri iperbolici o meramente immaginati,
come quelli del Vicario Manuel Texeira che nel 1654 parlava della
distruzione di due milioni di indios in Amazzonia, in 400 villaggi37.
Lo stesso Vieira, che aveva i piedi per terra, osservava che «il
numero delle anime non si può dire con certezza», pur riferendo
l’opinione che i Nheengaybas dell’isola Marajó, e i Tricujús insediati
sulla terraferma fossero «più di 100 mila anime»38.
Due valutazioni attendibili, ma sommarie, degli indios nelle
aldeias che facevano capo ai gesuiti nel Pará e nel Maranhão,
mostrano un aumento da 11 mila nel 1696 a 21 mila nel 1730:
quasi un raddoppio in un terzo di secolo, che sembra smentire
l’idea che fosse in corso un veloce spopolamento. Non sappiamo
però in che misura questo aumento fosse dovuto all’attività di
proselitismo dei padri – in quel periodo notevolissimo – e quanto
invece alla normale dinamica demografica. Nel documento del
1730 si indica che circa 3.000 dei 21 mila indios erano stati da
poco «tratti dalla selva»: segno che il rinnovo e l’accrescimento
di quelle comunità doveva moltissimo all’instancabile attività
di descimento. Poco più di un terzo erano meninos e meninas,
bambini fino a sette anni: una percentuale compatibile con una
popolazione con adeguato ricambio39.
Un altro documento, di un certo dettaglio, riguarda le popolazioni della Capitanía del Río Negro nel 1777: 38 villaggi
e una vila, Barcelos, che ne era il capoluogo. Prima del Direttorio, questi villaggi erano sotto il controllo dei carmelitani.
Nel complesso, 10.596 indios in 1.301 famiglie (e quindi con
un numero medio di componenti per famiglia pari a 8,2, assai
elevato), e 265 abitanti per villaggio. La proporzione dei giovanissimi sotto i quindici anni non arrivava al 40%, relativamente
bassa per popolazioni ad alto ricambio com’erano quasi tutte le
popolazioni indigene di America. Più di un terzo degli indios
tra i quindici e i sessant’anni erano al servizio del re, dei residenti portoghesi, o erano addetti alle canoe e al trasporto40. Nel
decennio successivo, la spedizione di Rodrigues Ferreira aveva
registrato, nel Río Negro, 28 insediamenti con 6.642 indios (237
abitanti in media): le tre località più popolose (Barcelos, Tomar
e Moura, e Barra, alla confluenza col Negro) totalizzavano 2.946
indios, contro 2.381 nel decennio precedente41. Verso la metà del
Settecento il governatore Furtado stimava in 50 mila gli indios
del Pará (e ciò prima della costituzione della Capitanía del Río
Amazzonia 201
Negro) – suppongo quelli sottomessi delle aldeias e delle città
dei portoghesi –, un dato che si accorda bene con la valutazione
di una forza lavoro maschile di circa 10 mila unità42. Del resto,
abbiamo visto che nelle missioni dei carmelitani del Río Negro,
nel 1777, c’erano 10.600 indios, e un numero all’incirca pari
doveva trovarsi nelle missioni del Solimões; una cifra consimile
popolava le missioni dei gesuiti verso il 1730. Aggiungendo gli
indios nelle missioni dei francescani e dei mercedari, quelli liberi
e schiavi dei residenti di Belém e degli altri modesti insediamenti
portoghesi, la cifra di 50 mila è del tutto plausibile. Attorno al
1776 la Corona organizzò una raccolta di dati da parte delle
autorità ecclesiastiche e secolari: Dauril Alden ha calcolato , per
quella data, 55.315 abitanti per il Pará e 10.386 per il Río Negro43.
Infine, la rilevazione ordinata dal ministro de Negocios nel 1808,
risultò in 78 mila abitanti nel Pará e 19 mila nel Río Negro, un
30% dei quali schiavi44. Belém, la città principale, aveva 6.600
abitanti nel 1749, 10.600 nel 1788 e 12.500 nel 180145.
Il mondo amazzonico portoghese, si avvicinava a 100 mila
abitanti all’inizio dell’Ottocento, una dimensione raddoppiata
rispetto alla metà del secolo precedente. E invero, «durante il
secolo XVIII, in una irradiazione spettacolare, gesuiti e carmelitani
avevano ampliato le frontiere del Portogallo in Amazonia portandole all’alto Madeira, all’alto Solimões, all’alto Río Negro»46. Una
proporzione elevata di questa popolazione risiedeva nell’estuario
e nel basso corso del fiume; il tratto medio – il Solimões – era
spopolato. Cresceva inoltre la popolazione bianca immigrata,
quella nera portata schiava dall’Africa e quella meticcia (mestizos
– bianchi con neri – e mamelucos – bianchi con indios). Nella
seconda metà del Settecento dall’Africa arrivavano ogni anno nel
Pará tra i 500 e i 700 schiavi; i bianchi, a giudicare dagli scarsi
elementi disponibili, dovevano essere poche migliaia47.
Le informazioni quantitative sopra riassunte si riferiscono
alle popolazioni sotto controllo portoghese, ma non agli indios
«liberi», o «tribali», dispersi nelle immensità della regione, dei
quali si avevano vaghe nozioni. La demografia amazzonica se la
deve vedere con due mondi diversi – quello nella sfera portoghese
e quello tribale – tra loro comunicanti: i descimentos, i resgates
e le guerre alimentavano i flussi dal secondo al primo; le fughe
nutrivano i flussi dal primo al secondo. Inoltre, il primo mondo
si alimentava anche dell’immigrazione di bianchi, meticci e di
202 Capitolo nono
schiavi dall’Africa. Del primo abbiamo conoscenza fondate, che
mancano per il secondo; dei flussi che legavano i due mondi
conosciamo i meccanismi e qualche sparso dato.
Cerchiamo, adesso, di sintetizzare alcuni punti fermi. In
primo luogo, trattiamo di popolazioni che, almeno alla fine del
Settecento, erano di entità modesta se rapportate alle immense
estensioni di territorio che occupavano. In secondo luogo, è
evidente che l’intrusione europea creò una profonda alterazione
dei sistemi demografici. Questi erano sicuramente sistemi ad
«alta pressione», ad altissime natalità e mortalità, come tutte le
popolazioni indigene americane. L’arrivo delle patologie virali
euroasiatiche determinò nuovi e forti shock demografici, cui
però la naturale esuberanza demografica avrebbe potuto porre
rimedio se le capacità di recupero avessero potuto esplicarsi
normalmente. Tuttavia è possibile che le numerose dislocazioni
geografiche e migratorie provocate dai portoghesi abbiano potuto
compromettere tali capacità. Non sappiamo però in che misura
e con quale diffusione. In terzo luogo, va detto che l’effetto
più sconvolgente dell’arrivo europeo fu quello di determinare
un’elevata, innaturale e forzata mobilità. Certo, le popolazioni
amazzoniche erano altamente mobili per le numerose vie d’acqua,
il basso costo di fare e disfare un insediamento o di fare e disfare
un seminativo. Ma è verosimile che l’aggressività dei portoghesi
e l’orrore per il servaggio e la schiavitù rendessero assai rischiose
fughe e migrazioni, frammentando i gruppi tribali e sospingendoli
verso aree meno propizie alla sopravvivenza. Gli insediamenti
nelle aldeias andarono di pari passo con lo spopolamento delle
zone rivierasche.
Verso la fine del Settecento, comunque, le popolazioni
amazzoniche avevano perso molte delle caratteristiche originarie.
Bianchi, neri e meticci avevano fortemente intaccato l’omogeneità etnica. Gruppi etnici e tribali si erano estinti, frammentati
e ricomposti e avevano perso le loro identità culturali. Si erano
«detribalizzati», trasformandosi in indios «generici», o in tapuios,
senza più connessione con i luoghi, le culture e lingue di origine,
sostituite, queste ultime, dalla diffusione della lingua geral (sorta
di lingua franca derivata dal tupí); l’amministrazione pombalina
accelerò con metodi brutali questo processo. «Il risultato fu un
indio geneticamente integro, ma profondamente conformato, e
deformato, dai modelli culturali che furono loro imposti, sottomessi ai disegni del mondo coloniale»48.
Amazzonia 203
All’inizio del Settecento lo spopolamento del Grande Fiume
appariva evidente ai viaggiatori. Dico «spopolamento» per indicare
che essi davano per scontato che fosse avvenuto un tracollo o
una qualche catastrofe. Scrive Sweet:
Intorno al 1700, dopo almeno un quarto di secolo di riduzione in
schiavitù dal Pará, il basso Solimões una volta popoloso, era terra desolata.
Le sue popolazioni erano ridotte a pochi pietosi resti, e i viaggiatori tra
le confluenze del Río Negro e del Japurá non trovavano se non rarissimi
insediamenti nei quali fare sosta e scambiare rifornimenti49.
Abbiamo riferito le osservazioni di La Condamine che aveva
incontrato solo qualche sparso villaggio abitato da indios recentemente tratti dalla selva, e che riteneva che il «gran numero di
nazioni» che popolavano le riva un secolo addietro si fossero
«ritirate all’interno appena hanno visto gli europei» (cap. VIII).
Per il naturalista Rodrigues Ferreira, nel viaggio sul Río Negro
negli anni Ottanta del Settecento, «si incontrano luoghi, su quel
fiume che una volta erano abitati da innumerevoli barbari e che
ora non mostrano segni di vita oltre alle ossa dei morti»50.
Mancano le statistiche, ma abbondano le testimonianze.
Appendici
1. Río delle Amazzoni: carta di identità
Il vero protagonista di questo libro è il Grande Fiume, il cui ufficiale
nome di battesimo è Río delle Amazzoni. Ma gli iberici, all’inizio lo battezzarono Marañon, e già Pietro Martire lo designò con quel nome nel
1511?. L’etimologia è ignota: alcuni lo riferiscono al termine castigliano
maraña, o «intrico», con il quale i primi navigatori avrebbero indicato,
appunto, l’intrico dei canali e delle acque dell’estuario. Più verosimile è
che si tratti della corruzione di una parola indigena (c’è l’isola di Marajó
nell’estuario; il Maranhão, più a sud). In ogni caso questo, è il nome che
appare con maggior frequenza nelle prime cronache. Aguirre chiamò i
suoi compagni Marañones. Si trovano anche le denominazioni di «Mar
Dulce di Santa Maria», dopo la prima navigazione nell’estuario di Yáñez
Pinzón; di «Río de Orellana», dopo la navigazione di Orellana, di «Río
de San Francisco», così battezzato dai missionari francescani. Il nome di
Río de las Amazonas, o Río Amazonas, si deve alla popolarizzazione del
racconto di Carvajal sulle battagliere guerriere all’attacco di Orellana e
dei suoi compagni, e diviene di uso comune nel Seicento, in alternanza
o sovrapposizione con Río Marañon1. I portoghesi usano chiamare Marañon il fiume fino alla confluenza con l’Ucayali, denominando Solimões2
il tratto tra quest’ultima e la confluenza con il Río Negro, e battezzando
Río Amazonas l’ultimo tratto dal Negro al mare.
In lunghezza il Río delle Amazzoni se la batte con il Nilo, tra i 6.500
e i 6.800 chilometri: la sorprendente imprecisione sta sia nei metodi di
misura utilizzati, sia nel fatto che il percorso muta continuamente, specialmente nei tratti ricchi di meandri. Le sorgenti più remote sono quelle
dell’Ucayali (che nel suo primo tratto si chiama Apurimac) a 4.000 metri
di altezza, nel dipartimento di Arequipa (a sud del Cuzco), in Perú. Sono
queste, dell’Ucayali, sorgenti più remote di quelle del Marañon, che però
alla confluenza ha maggiore portata e larghezza del primo3.
Per quanto riguarda le dimensioni del bacino e la portata, il Grande
Fiume non ha rivali. L’intero bacino amazzonico – includendo quello del
Tocantins, che sbocca nel ramo inferiore dell’estuario, detto Pará, poco a
208 Appendici
monte di Belém – misura 6,9 milioni di chilometri quadrati, ed è quasi il
doppio del secondo bacino più grande del mondo, che è quello del fiume
Congo4. La portata all’estuario, calcolata in 214 milioni di litri al secondo,
è la maggiore al mondo: ancora il Congo, che si piazza secondo, ha una
portata pari a un quinto, mentre quella del Mississippi è pari ad appena
un dodicesimo. Si calcola che il Grande Fiume contribuisca per quasi
un sesto all’intero volume di acque dolci che si riversano negli oceani
del globo. Tanta è l’acqua riversata in mare, che fino a 160 chilometri
in mare aperto si estende uno strato di qualche metro di acqua dolce. Il
Río Negro da nord e il Madeira da sud contribuiscono (in maniera paritaria) al 30% della portata totale. Il Grande Fiume ha quindici affluenti
lunghi oltre 1.000 chilometri, tre dei quali – Madeira, Purus e Yurua
(tutti e tre affluenti di destra, o sud) – hanno una lunghezza di più di
3.000 chilometri.
Il bacino amazzonico si estende per circa un terzo a nord e per due
terzi a sud del percorso del Grande Fiume; il bacino del Madeira vale
il 20% del totale, quello del Tocantins l’11%, quello del Río Negro il
10%, quelli del Tapajós, dello Xingu e del Purus, combinatamente, il
20%, quelli del Marañon e dell’Ucayali, insieme, il 10%.
Altre dimensioni del Grande Fiume hanno maggiore attinenza con la
vita e le culture delle popolazioni delle sue rive. La piovosità è alta, tra
i 1.500 e i 2.500 millimetri all’anno, ma in aree del pedemonte andino
può superare i 4.000. La stagione delle piogge si estende da gennaio a
giugno-luglio, e la stagione secca da luglio-agosto a dicembre. Con qualche
sfasamento rispetto alla stagione delle piogge, c’è il periodo delle piene e
delle inondazioni; il livello del Grande Fiume raggiunge il suo massimo
tra marzo e giugno nel tratto occidentale; più tardi, verso giugno, nella
parte centrale. Le normali differenze del livello – così come anche nei
maggiori affluenti – è compresa tra i 4 e i 15 metri. Con i fiumi in piena,
le comunicazioni si facevano più difficili e pericolose. Il Grande Fiume
trascina con se enormi quantità di sedimenti, erosi dalle Ande e trasportati
verso valle dai tributari, particolarmente quelli della sponda destra. Si è
calcolato che dalla stretta di Obidos (a circa 800 chilometri dal mare)
transitino 1,2 miliardi di tonnellate di sedimenti e che un 25% di questi
venga trascinato in mare, e dalle correnti marine sud-nord depositato
lungo le coste delle Guiane, del Surinam, fino al Venezuela. Il Grande
Fiume ha un colore marrone, motoso, e così gli affluenti meridionali: non
confonda il termine portoghese água branca (acqua bianca, chiara), dato
alle loro acque. Quella del Río Negro è, sì, água negra o preta (acqua nera)
perché tale è il colore dato da componenti di piante non completamente
decomposti: quando questi si depositano il colore diventa piuttosto chiaro.
Il limo depositato sul suolo quando le acque del fiume si ritraggono dai
territori inondati è ricchissimo in nutrienti e rende fertilissimo il suolo.
Appendici 209
Della navigazione in canoa, si è detto nel libro: la corrente a seconda
del regime del fiume, delle stagioni e dei tratti, era compresa tra i 4 e
gli 8 chilometri all’ora. Se, normalmente, si potevano coprire in favore
di corrente fino a 80-100 chilometri al giorno, controcorrente i tempi si
triplicavano. Ricordiamo che la spedizione di Orellana, nei giorni di navigazione, coprì mediamente 50 chilometri al giorno (compresa la giornata
della battaglia con le Amazzoni!). All’incirca uguale fu la distanza giornaliera coperta dalla molto più numerosa spedizione di Ursúa-Aguirre.
Alla metà dell’Ottocento, Herndon misurò la velocità della corrente
nella discesa dello Huallaga (5,5 km/ora) che si componeva con la velocità
dei rematori della canoa (2,5 km) per una velocità totale di 8 km/ora5.
Nell’escursione sul basso Ucayali impegò ventitré giorni a rimontare 430
chilometri di fiume e 8 a discenderli, e stimò la velocità della corrente in
5 chilometri/ora6. Infine, stimava che una canoa carica di merci avrebbe
impiegato ottanta giorni a risalire il Marañon per 800 miglia, da Loreto
(alla frontiera con il Brasile) a Chasuta, cioè 10 miglia al giorno7.
Diamo alcune distanze, tenendo conto che si tratta di approssimazioni, perché le navigazioni in canoa non avvenivano lungo il teorico filo
della via più breve.
Da Borja, nella sua primitiva localizzazione dopo il Pongo di Manseriche, all’oceano, ci sono circa 4.700 chilometri; da Borja alla confluenza
(poi «c.») del Huallaga, 390; da qui alla c. del Tigre, 300; da qui alla c.
dell’Ucayali, 90; da qui alla c. del Napo, 250; da qui alla c. del Putumayo,
800; da qui alla c. del Japurá, 570; da qui alla c. del Purus, 520; da qui
alla c. del Negro, 230; da qui alla c. del Madeira, 190; da qui alla c. del
Tapajós, 610; da qui alla c. del Xingu, 400; da qui al mare aperto, 380.
Le distanze approssimative tra le località, invece, sono le seguenti: da
Borja a Iquitos, 800; da Iquitos a Leticia, 530; da qui a San Antonio Iça,
900; da qui a Manaus, 1.190; da qui a Obidos, 630; da qui a Santarem,
130; da qui a Montealegre, 120; da qui a Macapá, 490; da qui a Ponta
do Santarem, 150.
Dividendo il percorso considerato dal libro in tre tratti: da Borja
(Pongo di Manseriche) all’attuale confine con il Brasile, 1.400 chilometri;
da questo a Manaus, 1.610; da Manaus a Belém, 1.650.
2. Aritmetica amazzonica
1. Sul numero, la durata e il ricambio delle missioni
Juan de Velasco aveva identificato 73 missioni, a esclusione di alcune
fondazioni presto abbandonate o di altre di «poca consideración» (tra le
altre: 6 tra gli Yameos, 9 tra gli Ucayales) nonché quelle varie decine di
insediamenti nei quali padre Fritz aveva condotto la sua predicazione.
Secondo Heredia1 la contabilità delle missioni si sintetizza in centotrenta
anni (1638-1768) di vita, 161 padri gesuiti (dei quali 9 uccisi) e 152 «fondazioni» di missioni, tra effimere e durature. Nel 1686 le missioni in essere
erano 18 (così attesta il vescovo di Quito Monte Negro); nel 1719, 28; nel
1740, 32; nel 1760, 34. Possiamo azzardare che, in ogni anno, ci fossero in
attività 25 missioni (in media), e che in Mainas l’opera evangelizzatrice si
sia svolta in 3.250 «anni missione» o «anni villaggio» (130 × 25 = 3.250).
Poiché le fondazioni furono 152, ciascuna delle missioni fondate operò (o,
se si preferisce «durò»), mediamente, per 21,4 anni (3.250 : 152 = 21,4).
In altre parole, la vita media delle missioni, prendendo per buoni questi
calcoli, fu di poco superiore a un paio di decenni: alcune si dissolsero
l’anno successivo alla loro fondazione; Limpia Concepción de Jeveros,
d’altro canto, durò l’intero periodo di centotrenta anni.
Possiamo anche aggiungere che in media i 161 missionari contribuirono a poco più di venti anni-missione ciascuno (3.250 : 161 = 20,2 anni).
Questo dato sembrerebbe contrastare con quanto affermato circa una
durata media di poco superiore a dieci anni della permanenza in Mainas
dei padri: ma il contrasto è solo apparente, perché molti ebbero la cura
di due o più missioni contemporaneamente.
2. I battesimi del Vescovo di Quito, 1687
Nel 1687 il vescovo di Quito, Don Alonso de la Peña y Monte Negro,
poco convinto dell’azione evangelizzatrice dei gesuiti fece raccogliere
dai libri parrocchiali delle varie missioni il numero dei battesimi, dalla
212 Appendici
fondazione fino a tutto il 16862. Il numero totale ammontava a 103.320
battesimi in 18 missioni, includendo Borja, che missione propriamente
non fu. Il periodo di raccolta (fino a tutto il 1686) è variabile, datando
dalla fondazione di ogni missione. Poiché molti dati sono forniti in cifra
tonda – e sicuramente data la precarietà è assai dubbio che i registri ci
fossero ovunque – molte incognite gravano sul significato di questi dati:
se contenessero tutti i battesimi, quando i dati erano desunti dai registri;
se fossero iscritti anche gli adulti (probabilmente sì, quasi sempre); se
fossero iscritti anche indios non propriamente insediati ma battezzati
durante predicazioni in viaggio; in che misura si trattasse invece di valutazioni approssimative dei padri. Insomma, circondiamo i dati di tutte
le cautele e dubbi possibili: tuttavia questi esistono, e in un documento
ufficiale.
Prendiamo due esempi: il primo, quello di Limpia Concepción de
Jeveros, la missione più curata e avanzata (è menzionata la tenuta dei
registri parrocchiali), la cui popolazione era valutata attorno alle 2.000
persone, e che nei quarantasette anni di osservazione avrebbe avuto
22.320 battesimi. Assumendo un tasso di natalità del 60‰, ci sarebbero
stati 120 battesimi di neonati all’anno e 5.640 (cioè 120 × 47) nell’intero
periodo, cioè un quarto del totale. Supponiamo anche che tutta la popolazione (circa 2.000) all’inizio, fosse stata battezzata, e arriviamo a 7.640.
E gli altri 14.680 (cioè 22.320 – 7.640), pari a 312 all’anno? Un’ipotesi
potrebbe essere che si fosse trattato di «barbari» convertiti e poi ritornati
nella selva, e che quindi, annualmente, un settimo circa della popolazione
si rinnovasse per fughe e nuovi arrivi (312 : 2.000 = 15,6%), una prova
dell’altissimi mobilità della popolazione evangelizzata. Un ragionamento
simile può valere per le altre 17 missioni, il cui numero di battesimi dichiarati è un multiplo – come a Limpia Concepción – di quelli attesi in
base alla loro (modesta) popolazione.
San Francisco de Borja, invece, era una parrocchia che comprendeva l’intera regione circostante, con i 21 encomenderos e gli indios loro
assegnati. Il numero dei tributari, secondo Figueroa, era pari a 400 nel
1638, e si era ridotto a 200 nel 1661 (altri erano fuggiti nella selva). Una
popolazione totale, quindi, di 1.000-2.000 abitanti, che in cinquantuno
anni (1636-1686) avrebbe avuto 22.800 battesimi. Anche in questo caso
il numero dei battesimi attesi (60‰ all’anno, per cinquantuno anni, in
una popolazione media di 1.500 abitanti) sarebbe stato di 4.590, più altri
1.500 battesimi corrispondenti allo stock medio, per un totale di 6.090,
pari al 26,7% della cifra dichiarata al vescovo. I 16.710 battesimi che
mancano al conteggio (22.800 – 6.090), ovvero 328 all’anno, darebbero la
misura di un ricambio annuale della popolazione pari a più di un quinto
(328 : 1500 = 21,9%).
Appendici 213
3. Mezzo milione nel 1648... quanti un secolo prima?
Nel VII capitolo la cifra di «mezzo milione» è stata assunta come cifra
plausibile della popolazione della várzea a metà Seicento. Naturalmente
gli indizi sono tenui, e riportiamo qui per esteso l’articolata utilizzazione
della cronaca di Laureano de la Cruz. Dopo l’approdo nella prima isola
di Piramota, con le sue 80 famiglie e «330 persone» su una superficie
di due leghe per «meno» di mezza lega e una densità di 13 chilometri
quadrati, il frate e i suoi compagni procedono oltre.
Nei giorni successivi visitano Sacayey, delle stesse dimensioni della
prima ma con una densità assai minore di circa 5 abitanti per chilometro
quadrato (30 indios con moglie e figli, in 14 case, circa 120-130 persone)
e poi l’isola di Maity, più grande delle prime due e con pochi abitanti (8
case con 20 capifamiglia: meno di 100 persone) e con una densità pari a
2-3 abitanti per chilometro quadrato. L’isola di Caraute, anch’essa grande
come la precedente (16 case, 40 capifamiglia «e in tutto saranno state
120 anime») avrà avuto una densità appena maggiore di Mayti (3-4 per
kmq). Seguivano altre due isole di cui non riferisce il nome: la prima,
molto grande, con circa 200 o 250 abitanti (50 capifamiglia, in 22 case),
con una densità simile a quella di Sacayey, e la seconda con 9 case e
pochi abitanti (16, non è chiaro se persone o capifamiglia), perché era
stata colpita dal vaiolo e molti erano morti o fuggiti. Le sei isole avevano
– complessivamente – 97 case plurifamiliari che ospitavano 236 famiglie,
ciascuna casa con due o tre famiglie, per un totale di 1.000-1.200 persone.
Supponendo che tre isole avessero le dimensioni di Piramota (per un
totale di 75 kmq)e che le altre tre avessero dimensione doppia (per un
totale di 150 kmq), la densità delle sei isole sarebbe stata compresa tra 4
e 5,3 abitanti per chilometro quadrato. Antonio Porro, che per primo ha
sfruttato le indicazioni di Laureano, ha cercato di individuare – sulla base
di mappe satellitari – l’ubicazione delle sei isole nel tratto del Fiume di
circa 200 chilometri descritto da Laureano, tra il confine approssimativo
di Perú e Colombia (Loreto) e la foce del Igarapé3. Le isole individuate da
Porro come quelle corrispondenti a quelle visitate da Laureano avrebbero
una superficie totale più alta (255 kmq), e quindi una densità lievemente
minore, tra 3,5 e 4,7 abitanti per chilometro quadrato. Le testimonianze
dei padri Acuña, Cruz e Fritz sono concordi nell’affermare che gli Omaguas, abilissimi navigatori, vivevano nelle isole del fiume e non sulle rive;
che guerreggiavano spesso e volentieri con le tribù rivierasche. Porro ha
individuato una sessantina di isole di una certa consistenza nel tratto di
fiume di circa 700 chilometri abitato dagli Omaguas, per una superficie
totale di 1. 900 chilometri quadrati: applicando la densità massima di
5,3, la popolazione totale di questa potente tribù sarebbe stata pari a
10.070 abitanti, quella minima, con densità 3,5, a 66.504. Questi numeri
sono compatibili con un’altra considerazione di Laureano, che in un altro
214 Appendici
passo della sua relazione dice che l’intero territorio Omagua contava 34
villaggi: se assumiamo una media di 200 abitanti a villaggio, la popolazione totale ammonterebbe a quasi 7.000 abitanti. Padre Fritz, come
abbiamo ricordato (cap. VI) aveva predicato ed evangelizzato 38 villaggi
in altrettante isole, mezzo secolo dopo. Nel 1686, al primo contatto con
gli Omaguas, aveva visitato 9 villaggi, due soli dei quali con oltre 100
anime, su un tratto di fiume di 80 leghe: è plausibile che la popolazione
totale fosse scesa a poche migliaia di abitanti, incalzata dai portoghesi e
dai loro raid e colpita dal vaiolo5.
Questo pedante e tedioso excursus è importante perché riguarda uno
dei pochi ancoraggi relativamente solidi per le valutazioni seicentesche
della consistenza del popolamento amazzonico. C’è però un altro elemento
assai utile al discorso, e cioè la stima della superficie sulle rive, destra e
sinistra, nel tratto di 700 chilometri abitato dagli Omaguas (insediati nel
fiume). Di questa area, pari a 17.500 chilometri quadrati, sappiamo molto
poco, se non che parte delle rive servivano agli Omaguas delle isole per i
loro seminativi; che gli Omaguas erano assai aggressivi con le altre tribù
rivierasche; che le rive non erano però disabitate perché c’erano villaggi
non troppo distanziati tra loro. Ne abbiamo già parlato descrivendo il
viaggio di Acuña. Se si attribuisse a quest’area la stessa densità delle isole
occorrerebbe aggiungere, oltre ai 7-10 mila Omaguas, altri 61-93 mila
abitanti rivieraschi. Ma sicuramente la densità era assai minore di quella
degli evoluti Omaguas isolani: quanto minore non è dato di sapere,
azzardare la metà è ragionevole, e una popolazione totale superiore a
100 mila sembra assai improbabile. Per Porro, la densità lungo le rive
era assai inferiore a un abitante per chilometro quadrato, seguendo un
ragionamento analogo a quello svolto in capitoli precedenti (cfr. i capp.
II e III). Acuña, nella sua cronaca, aveva detto che nelle terre Omagua i
villaggi si susseguivano in modo che appena se ne perdeva di vista uno,
se ne scorgeva un altro: offre come distanza plausibile 10-20 chilometri:
poiché dei 1.400 chilometri delle due rive, circa 1.000 erano abitabili (gli
altri 400 avevano alte rive, barrancas, generalmente non insediate), i villaggi
sarebbero stati tra 50 e 100, con una popolazione totale (considerando
200 abitanti a villaggio) non superiore a 20 mila6.
4. Ancora sul ricambio delle popolazioni delle missioni
I censimenti di Mainas informano che nel 1745 furono conteggiati
12.912 indios nelle missioni e 12.229 nel 1761. Assumiamo una cifra
media di 12.500 nell’intervallo per il quale disponiamo dei dati sulle spedizioni in cerca di «gentili», raccolti da padre Widman (cfr. p. ??). Non
conosciamo quali fossero la natalità e la mortalità, ma possiamo avvalerci
dei dati raccolti per i Guaraní delle missioni del Paraguay verso la stessa
Appendici 215
epoca: nel decennio 1750-1759, la natalità fu pari al 58‰ e la mortalità
a 43‰7. Non sorprenda l’elevatissima natalità, tipica di società – come
quella amazzonica – in cui l’unione matrimoniale avveniva alla pubertà
e la struttura per età era giovanissima. Facciamo adesso due calcoli. Una
popolazione di 12.500 abitanti avrebbe avuto, ogni anno, 725 nascite e
538 decessi, e un incremento naturale pari a 187 unità all’anno. Il bilancio
delle missioni nel decennio sarebbe stato il seguente: nascite = 7.250;
decessi = 5.380; incremento naturale = 1.870.
In più erano entrati nelle missioni 224 indios (media annuale) per
mezzo delle spedizioni dei padri, cioè 2.240 nel decennio. La popolazione
avrebbe dovuto aumentare di (1.870 + 2.240 = 4.110) di oltre 4.000 unità,
ma invece restò costante (anzi diminuì di qualche centinaio di unità). È
assai plausibile che ciò fosse dovuto a uscite assai più numerose delle
entrate, che i missionari non riuscivano a compensare con le loro spedizioni. Può anche darsi che la mortalità fosse stata assai più alta di quella
ipotizzata – e in effetti nel 1762 il vaiolo imperversò nell’Alto Marañon
– mentre è meno plausibile che la natalità fosse più bassa, per le ragioni
sopra indicate; può darsi, infine, che i dati dei conteggi censuari fossero
fortemente distorti. Tuttavia è ragionevole ritenere che gli allontanamenti
e le fughe fossero davvero una forza dominante del sistema missionario,
continuamente in tensione per compensare le perdite con un incessante
opera di esplorazione, proselitismo e cattura. Come del resto confermato
ripetutamente dalla cronache.
3. Popolazione di Mainas (XVIII secolo)
Tab. 1. Popolazione delle Missioni di Mainas, 1719-1798
Indios
Indios
Popolazione
Numero
Popolazione
Anno
battezzati
neofiti
totale
villaggi
media dei
villaggi
1719
1727
1740
1745
1760
1767
1769
1776
1786
1798
7.586
5.194
9.549
9.976
380
748
1.487
2.939
11.620
9.131
8.857
154
32
70
7.966
5.942
11.036
12.915
12.229
11.774
9.163
8.927
9.111
4.455
28
22
32
41
34
22
22
22
22
22
285
270
345
315
360
535
417
406
414
203
Fonte: Ann Golob, The Upper Amazon in Historical Perspective, tesi di dottorato, Ann
Arbor (Mich.), City University New York, 1982, tabb. 17, 20, 21 e 22, pp. 203-204
1740
1745
1767
1769
1776
1776
8.443
4.964
5.991
7.998
8.243
3.406
Popolazione
alla data
iniziale
10.623
5.355
7.817
7.670
7.909
5.738
Popolazione
alla data
finale
12
14
13
14
17
25,8
7,9
30,5
– 4,1
– 4,1
68,5
popolazione
iniziale
e popolazione
finale
missioni poste
a confronto
704
355
461
571
485
704
885
383
601
548
465
465
per missione
alla data
finale
per missione
alla data
iniziale
tra popolazione
iniziale
e popolazione
finale
1,09
1,52
1,21
– 2,09
– 0,59
1,03*
Popolazione
media
Popolazione
media
Variazione
% annua tra
Nota: Per ogni «coppia» di date (iniziale e finale) sono messe a confronto le stesse missioni. Nel periodo 1719-1740, la popolazione fu in
aumento in 7 missioni, in diminuzione in 4 e invariata in 1; negli altri periodi furono – rispettivamente in aumento, diminuzione e invariate:
1740-1745: 6,7 e 1; 1745-1767: 9,4 e 0; 1767-1769: 8,6 e 0; 1769-1776: 3,14 e 0.
* Il valore del tasso d’incremento (1,03) tra il 1719 e il 1767 è la media ponberata dei tassi d’incremento tra le varie date con pesi proporzionali al numero degli anni di ciascun intervallo
1719,
1740,
1745,
1767,
1769,
1719,
Date
a confronto
Variazione
% tra
Numero
delle
Tab. 2. Variazione della popolazione delle missioni di Mainas, 1719-1776
744
744
–
–
256
398
312
491
499
91
3530
4,74
1,33
2,28
1,10
17,2
28,0
48,2
42,2
2,08
Coniugati
Coniugate
Vedovi
Vedove
Non coniugati, Maschi e Femmine
Adolescenti Maschi
Adolescenti Femmine
Bambini Maschi
Bambine Femmine
Neofiti
TOTALE
Componenti per famiglia (a)
Bambini per famiglia
Bambini e adolescenti per famiglia
Rapporto tra maschi e femmine (b)
Vedovi per 100 coniugati (c)
Bambini per 100 abitanti
Giovani per 100 abitanti (d)
Coniugati per 100 abitanti
Variazione % media annua popolazione
1740
4,64
1,18
2,08
1,02
18,0
25,5
44,8
43,1
1,11
804
804
104
186
–
348
372
486
466
161
3731
1745
Tab. 3. Popolazione di 6 missioni di Mainas, sempre censite, 1740-1776, e sua composizione
4,32
1,17
2,14
1,18
7,9
27,0
49,7
46,3
1,35
1163
1163
51
132
–
686
453
662
693
20
5023
1767
4,29
1,75
2,06
1,10
11,2
40,9
48,1
46,6
2,06
1221
1221
76
198
–
233
147
1088
1052
–
5236
1769
4,30
1,80
2,09
1,12
10,6
41,9
48,5
46,5
-0,10
1209
1209
59
197
–
218
129
1113
1063
–
5198
1776
Note
Note
Capitolo primo
Gonzalo Fernández de Oviedo, Historia general y natural de las Indias come in
(1551-1555), 5 voll., Madrid, Atlas, 1992, vol. II, libro XXIV, cap. I, p. 399; Conquista
sono state
trad. it. parz. Le scoperte di Cristoforo Colombo nei testi di Fernandez de Oviedo, aggiunte
Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1990.
le trad. it.
2
Pietro Martire di Anghiera, Il Nuovo Mondo, a cura di Piera Forni Bisogniero, Logart Press, 1991, pp. 87-88. La navigazione di Pinzón all’estuario
amazzonico è narrata anche da Bartolomé de las Casas, Historia de las Indias,
2 voll., México, Fondo de Cultura Económica, 1991, vol. I, pp. 154-158; da
Antonio de Herrera, Historia general de los hechos de los castellanos en las islas
y tierrafirme del mar Océano, Decada I (1601-1615), 10 voll., Madrid, Emprenta
Real, 1601, vol. IV, pp. 135-137.
3
Oviedo, Historia, cit., pp. 390-392.
4
Pero Vaz de Caminha, Lettera sulla scoperta del Brasile, Palermo, Sellerio,
1992, pp. 34, 36.
5
Le feitorías erano fondaci commerciali, generalmente fortificati e insediati
in zone costiere dell’Africa, dove si centralizzava e si dirigeva verso la madrepatria il commercio dei prodotti locali e degli schiavi. Il modello fu replicato
sulle coste del Brasile e dell’India.
6
Il pau brasil (Caesalpinia echinata, o pernambuco) è un albero della foresta
vergine (Mata Atlântica) che ricopriva le regioni litoranee del Brasile.
7
H.B. Johnson, La colonización portuguesa del Brasil, 1500-1580, in Leslie
Bethell (a cura di), Historia de América Latina, 16 voll., Barcelona, Cambridge
University Press - Editorial Crítica, 1992, vol. I, pp. 208-209.
8
Ibidem, p. 208.
9
John Hemming, Red Gold. The Conquest of Brazilian Indians, Cambridge
(Mass.), Harvard University Press, 1978, p. 184; trad. it. Storia della conquista
del Brasile, Milano, Rizzoli, 1982.
10
Pedro Arias de Almesto, Jornada de Omagua y Dorado, in Fray Gaspar
de Carvajal, Pedro Arias de Almesto e Alonso de Rojas, La aventura del Amazonas, Madrid, Dastin, 2002, p. 102
11
José de Acosta, Historia natural y moral de las Indias, México, Fondo
de Cultura Económica, 1986, p. 80.
1
224 Note
12
Inca Garcilaso de la Vega, Commentari reali degli Incas, Milano, Rusconi,
1977, libro VI, cap. XIII, p. 581.
13
J.H. Elliott, La Conquista española y las colonias de América, in Bethell
(a cura di), Historia de América, cit., vol. ?, p. 128.
14
Pierre Vilar, Or et monnaie dans l’histoire, Paris, Flammarion, 1974,
p. 81; trad. it. Oro e moneta nella storia: 1450-1920, Bari, Laterza, 1971.
L’opera fondamentale è quella di Earl Hamilton, American Treasure and the
Price Revolution in Spain, 1501-1650, Cambridge (Mass.), Harvard University
Press, 1934.
15
Vilar, Or et monnaie dans l’histoire, cit., p. 133.
16
Una storia completa dei compagni di Pizarro e della loro sorte, nonché
della ripartizione del tesoro di Cajamarca, si trova in James Lockhart, Los de
Cajamarca, 2 voll., Lima, Editorial Milla Batres, 1982; ed. orig. The Men of
Cajamarca. A Social and Biographical Study of the Conquers of Peru, Austin,
University of Texas, 1972.
17
Il cántaro, misura di capacità, valeva 16 litri.
18
La fanega, misura di capacità, valeva 58 litri.
19
Francisco de Xeres, cit. in Costantino Bayle, El Dorado fantasma, Madrid,
Publicaciones del Consejo de la Hispanidad, 1943, p. 21. Si veda anche Oviedo,
Historia, cit., vol. V, libro VIII, cap. X, p. 65; Frederick A. Kirkpatrick, Los
Conquistadores Españoles, Madrid, Espasa Calpe, 1986, p. 115; ed. orig. The
Spanish Conquistadores, London, A&C Black, 1946.
20
Oviedo, Historia, cit., vol. V, libro VIII, cap. XVI, p. 91.
20
Ibidem, vol. V, libro VIII, cap. XXII, p. 123.
22
Bayle, El Dorado, cit., p. 21.
23
Juan Rodríguez Freyle, Conquista y descubrimiento del Nuevo Reyno de
Granada, Madrid, Dastin Historia, 2000; Manuel Lucena Salmoral, Ximénez
de Quesada, el caballero de El Dorado, Madrid, Anaya, 1988.
24
Oviedo, Historia, cit., vol. III, p. 124; Lucena Salmoral, Ximénez, cit.,
pp. 46-47.
25
Pedro Cieza de León, La crónica del Perú, Madrid, Historia 16, 1984, pp.
387-388; trad. it. Pedro Cieza de León e il Descubrimiento y conquista del Perú,
Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1979.
26
Crónicas de Eldorado, a cura di Horacio Jorge Becco, Caracas, Biblioteca
Ayacucho, 2003, p. 10.
27
Già nel 1538 Diego de Almagro con i suoi reduci della spedizione in Cile
aveva affrontato vicino al Cuzco i seguaci di Pizarro al comando di Hernando,
ed era stato sconfitto nella battaglia de Las Salinas. Una lunga stagione di
guerre civili sanguinose e devastanti, che si concluderà definitivamente solo
nel 1554.
28
Bayle, El Dorado, cit., p. 25.
29
Derecho de escobilla, letteralmente «diritto di scopa», ovvero il ricco
privilegio, concesso dal re, di appropriarsi dei residui o limature d’oro nei
locali dove si fondeva oro o si batteva moneta.
30
Oviedo, Historia, cit., vol. V, libro XI, cap. II, p. 236. La storia è nar-
ins
Frankfur
Note 225
inserire ed. orig.?
Reise in die
AquinoktialGegeden des
Neuen
Kontinents,
a cura di
Ottmar Ette,
Frankfurt a.M.-Leipzig,
Insel, 1991.
rata anche, un secolo più tardi, da Freyle, Conquista y descubrimiento, cit.,
pp. 63-64.
31
Bayle, El Dorado, cit., p. 26.
32
Oviedo, Historia, cit., vol. II, p. 102.
33
Ibidem, vol. III, p. 42.
34
Alexander von Humboldt, Viaje a las Regiones Equinocciales del Nuevo
Continente, 5 voll., Caracas, Monte Avila Editores, 1992; trad. it. Viaggio alle
regioni equinoziali del nuovo continente..., Roma, Palombi, 1986. Le considerazioni sulla localizzazione dell’Eldorado sono sparse nell’intera opera, ma vengono riassunte nel vol. V, pp. 277-305, in una disquisizione che Humboldt fece
nel 1841 come contributo a un libro di viaggio nella Guyana e nell’Orinoco.
35
Kirkpatrick, Los Conquistadores, cit., p. 141.
36
Ibidem, pp. 204-207; Bayle, El Dorado, cit., p. 118.
37
José Chávez Suárez, Historia de Moxos, La Paz, Editorial Don Bosco,
1986, p. 59.
38
Cieza de León, La crónica, cit., p. 386.
cioè
39
Edgar Pillajo, Evaluación del potencial aurífero aluvial en Ecuador, www. ultimo
accesso?
fungeomine.org, estratto il 21 maggio 2012.
40
http://es.wikipedia.org/wiki/Parroquia_Valladolid_(Zamora_Chinchipe)
[estratto 21 maggio 2012]; Bayle, El Dorado, cit., p. 22.
41
Kris Lane, Quito 1499. City and Colony in Transition, Albuquerque,
University of New Mexico Press, 2002; María del Carmen Martínez Marin,
Búsqueda y hallazgo de las ruinas de Logroño en la región de los Jíbaros (siglos
XVI-XIX), in Antonio Gutiérrez Escudero e María Luisa Laviana Cuelos (a
cura di), Estudios sobre América: siglos XVI-XX, Sevilla, AEA, 2005.
42
Anne-Christine Taylor e Philippe Descola, El conjunto Jívaro en los
comienzos de la conquista española del Alto Amazonas, in «Bulletin Institut
Français d’études andines», X, 1981, nn. 3-4; Anne Christine Taylor, Historia
pós-colombiana da alta Amazônia, in Manuela Carneiro da Cunha (a cura di),
História dos Índios no Brasil, São Paulo, Companhia das Letras, 1992; Anne
Christine Taylor, The Western Margin of Amazonia from the Early Sixteenth
to the Early Nineteenth Century, in Frank Salomon e Stuart B. Schwartz, The
Cambridge History of the Native People of the Americas. III: South America,
parte II, Cambridge, Cambridge University Press, 1999.
43
Julian H. Steward e Alfred Métraux, Tribes of the Peruvian and Ecuadorian
Montaña, in Julian H. Steward (a cura di), Handbook of American Indians.
III: The Tropical Forest Tribes, Washington(D.C.), United States Government
Printing Office, 1948, pp. 652-653.
44
Questi e altri documenti sono raccolti in Diego Hortegón, Toribio de
Ortiguera Conde de Lemos et al., La gobernación de los Quijos (1559-1621),
a cura di Cristóbal Landázuri, Quito, Instituto de Historia y Antropología
Andina, 1989. In particolare: Diego Hortegón, Relación del estado en que
se encuentra la gobernación de Quijos y La Canela, pp. 257-272; Toribio de
Ortiguera, Jornada del Río Marañon, pp. 357-380; Pedro Fernández Ruiz de
Castro y Osorio Conde de Lemus y Andrade, Descripción de la provincia de
los Quijos, pp. 399-416.
226 Note
Hortegón, Relación del estado, cit., p. 264.
Ibidem.
47
Ortiguera, Jornada, cit., pp. 361-362.
48
Ibidem, pp. 376-377.
49
Ibidem, p. 377.
50
Fernández Ruiz de Castro, Descripción, cit., p. 407, riporta anche la
distribuzione di 17 encomenderos secondo il numero di indios tributari assegnati: il più ricco aveva assegnati 140 tributari, del valore di 6.700 reali;
il più povero aveva 7 tributari, del valore di 336 reali. Molti encomenderos
vivevano a Quito.
45
46
Capitolo secondo
1
Relación que escribió Fr. Gaspar de Carvajal, fraile de la orden de Santo
Domingo de Guzmán, del nuevo descubrimiento del famoso Río Grande que
descubrió con muy gran ventura el Capitán Francisco de Orellana desde su
nacimiento hasta salir a la mar, con cinquenta y siete hombres que trajo con
sigo y se echó a su ventura por el dicho Río, y por el nombre del capitán que
lo descubrió se llamó el Río de Orellana. Così il titolo della relazione che è
riprodotta in Fray Fray Gaspar de Carvajal, Pedro Arias de Almesto e Alonso
de Rojas, La aventura del Amazonas, Madrid, Dastin, 2002. Il libro contiene
una introduzione a cura di Rafael Díaz Maderuelo. Esistono altre versioni
della relazione di Carvajal, tra le quali quella raccolta da Oviedo (cfr. infra);
mi sono basato però, salvo che in qualche caso espressamente annotato, sulla
versione contenuta in questo libro. Sulle vicende generali della spedizione di
Gonzalo Pizarro e di Francisco Pizarro, abbiamo tenuto conto anche delle
opere di Gonzalo Fernández de Oviedo, Historia general y natural de las Indias
(1551-1555), 5 voll., Madrid, Atlas, 1992; trad. it. parz. Le scoperte di Cristoforo
Colombo nei testi di Fernandez de Oviedo, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca
dello Stato, 1990, e di P. Cieza de León, Obras Completas. II: Las Guerras
civiles Peruanas, Madrid, Consejo Superior de Investigaciones Cientificas,
1985. Due dei massimi autori, contemporanei degli avvenimenti qui narrati.
Per una storia generale della Conquista del Perú si veda John Hemming, La
fine degli Incas, Milano, Rizzoli, 1975.
2
Carvajal, Relación, cit., p. 34, n. 9; cfr. anche infra, nota 25 del cap. V, e da verificare
l’Appendice 1, «Río delle Amazzoni: carta di identità».
3
Ladislao Gil Munilla, Descubrimiento del Marañon, Sevilla, Escuela de
Estudios Hispano-Americanos, 1954, pp. 275-276.
4
Ibidem, p. 274. Si veda l’Appendice 1, «Río delle Amazzoni: carta di
identità».
5
Sul mito dell’oro e dell’Eldorado: M. Livi Bacci, Eldorado nel pantano.
Oro, schiavi e anime tra le Ande e l’Amazzonia, Bologna, Il Mulino, 2008,
pp. 13-39.
6
Sui preparativi della spedizione e altro, si veda Costantino Bayle, El
Dorado fantasma, Madrid, Publicaciones del Consejo de la Hispanidad, 1943,
Note 227
pp. 155-157; Frederick A. Kirkpatrick, Los Conquistadores Españoles, Madrid,
Espasa Calpe, 1986, pp. 156-164; ed. orig. The Spanish Conquistadores, London, A&C Black, 1946. Esistono divergenze sui numeri della spedizione, ma
non sulla sostanza.
7
Cieza de León, Las Guerras, cit., p. 180.
8
Bayle, Eldorado, cit., p. 163.
9
Cieza de León, Las Guerras, cit., p. 180.
10
Carta de Pizarro al Rey fechada en Tomebamba el 3 de Spetiembre de 1542,
www.eldoradocolombia.com/index.htlm, estratto 10 gennaio 2012; Kirkpatrick,
Los Conquistadores, cit., p. 161
11
Cieza de León, Las Guerras, cit., p. 181.
12
Per quanto riguarda il numero dei rionauti, il titolo della relazione di
Carvajal parla di 57 uomini, più lo steso Orellana, (cfr. Carvajal, Relación, cit.,
p. 31), cioè 58 in tutto; Oviedo, che ne raccolse nomi e luogo di provenienza
a Santo Domingo (Oviedo, Historia, cit., vol. v, pp. 237-238), ne nomina 54;
Cieza de Leon (Las Guerras, cit. p. 183) parla dell’ordine di Pizarro a Orellana
di «partire con 70 uomini»; Bayle (Eldorado, cit., p. 168) parla di 50 uomini,
oltre a Orellana. 58, come segnalato da Carvajal, che con loro navigò per otto
mesi, è il numero che qui assumiamo.
13
Carvajal, Relación, cit., p. 37.
14
Il barco costruito sulle rive del Coca sarebbe stata un’imbarcazione senza
coperta, a remi, con la possibilità di armare un albero e una vela. Il brigantino,
come quello che venne costruito in seguito, era provvisto di coperta, albero
e vela.
15
Carvajal, Relación, cit., p. 40.
16
Una goa equivaleva a 3 palmi e a circa 0,75 metri.
17
Carvajal, Relación, cit., p. 52.
18
Ibidem, p. 53.
19
Ibidem, p. 55.
20
Ibidem, p. 61.
21
Ibidem, p. 63.
22
«Vedemmo la bocca di un altro grande fiume a mano sinistra, che entrava
in quello che navigavamo, la cui acqua era nera come tinta, e per questo gli
ponemmo nome Ríio Negro, che correva tanto e con tanta irruenza che per
venti leghe faceva come una striscia nell’altra acqua, senza mescolarsi l’una
con l’altra» (Carvajal, Relación, cit., pp. 63-64).
23
Ibidem, pp. 64-65.
24
Ibidem, p. 67.
25
Ibidem, p. 68.
26
Ibidem, p. 69.
27
La spedizione di Diego de Ordáz – già compagno di Cortés nella conquista
messicana – partì dalla Spagna nel 1531 con l’intenzione di risalire il Río delle
Amazzoni, ma tre delle quattro caravelle fecero naufragio nell’estuario. Fece
poi rotta verso Cubagua, esplorò avventurosamente l’Orinoco, finì incarcerato a
228 Note
Cubagua e morì in circostanze misteriose. La narrazione delle vicende si trova
in Oviedo, Historia, cit., vol. II, pp. 386-410. Sempre secondo Oviedo (vol. V,
p. 390), i dispersi nel naufragio amazzonico furono trecento.
28
Carvajal, Relación, cit., pp. 71-72.
28
Ibidem, pp. 79 e 81.
30
Ibidem, p. 79. Montealegre si trova a circa 600 chilometri dal mare aperto.
«E qui ci rendemmo conto che non stavamo molto lontani dal mare, perché
arrivava la rimonta della marea» (ibidem, p. 81).
31
Ibidem, p. 83.
32
Ibidem, p. 84.
33
Ibidem, p. 85.
34
Ibidem, p. 86.
35
Dopo diversi giorni di navigazione in mare aperto «senza sapere dove ci
trovavamo e dove ci stavamo dirigendo, e cosa sarebbe stato di noi, arrivammo
all’isola di Cubagua» (ibidem, p. 87).
36
Ibidem, p. 88.
37
Oviedo, Historia, cit., vol. V, p. 302. La sentenza dispose che dopo la
decapitazione «la testa venga portata alla Ciudad de los Reyes [Lima], principale città di questo regno, e sia posta e inchiodata alla tribuna di questa
città, con un cartello a lettere grandi che dica “Questa è la testa del traditore
Gonzalo Pizarro, del quale si fece giustizia nella valle di Xaquixaguana, nella
quale dette battaglia campale contro lo stendardo reale di Sua Maestà, volendo
difendere il suo tradimento e la sua tirannia: che nessuno osi toglierla, sotto
pena di morte”».
38
Kirkpatrick, Los Conquistadores, cit., p. 182. In realtà i fratelli Pizarro
coinvolti nella distruzione dell’impero Inca furono quattro: Francisco, il
maggiore (1478-1541) e i tre fratellastri Hernando (1501-1578), l’unico a non
morire di morte violenta, pur dopo una lunga detenzione dorata in Spagna; Juan
(1511-1536) e Gonzalo (?-1548): cfr. Hemming, La fine, cit., pp. 604-605.
39
Scrisse Oviedo: «Io parlai in questa città di Santo Domingo al capitano
Francesco de Orellana: e arrivò qui di lunedì il 22 del mese di novembre del
1542 [...] e parlai ad altri Hidalghi e persone che si trovarono in questa scoperta». Non parlò, almeno in quella occasione, con Carvajal, rimasto nell’isola
di Cubagua. Così Oviedo, Historia, cit., vol. V, p. 401.
40
Carvajal, Relación, cit., p. 23.
Capitolo terzo
1
La narrazione di questo capitolo si rifà, in particolare, alle relazioni del
baccelliere Francisco Vázquez e di Pedro Arias de Almesto, entrambi partecipanti alla spedizione, e che di questa scriveranno al loro rientro in patria.
Le due relazioni sono in gran parte sovrapponibili, ma divergono in alcuni
particolari, poiché Almesto introdusse alcuni riferimenti tendenti a sottolineare
la sua posizione di estraneità e opposizione alla ribellione di Aguirre. Almesto
Note 229
mai cit.
prima
mai cit.
prima
fu autore di un resoconto per il tribunale dell’Audiencia di Santa Fe e poi,
avuta la relazione di Vázquez, la fece propria, integrandola. Si veda: Pedro
Arias de Almesto, Jornada de Omagua y Dorado, in Fray Gaspar de Carvajal,
Pedro Arias de Almesto e Alonso de Rojas, La aventura del Amazonas, Madrid,
Dastin, 2002. Il testo è tratto da un manoscritto della Biblioteca nazionale di
Madrid. Per la relazione di Vásquez, si veda Francisco Vázquez, La veridica
istoria di Lope de Aguirre, Palermo, Sellerio, 1981. Ho citato indifferentemente
le due relazioni, con preferenza per quella di Vázquez per la bella traduzione
che ne ha fatto Angelo Morino, che ha utilizzato l’edizione di Manuel Serrano
y Sanz, del 1909. Una terza relazione, che contiene interessanti particolari non
contenuti nelle relazioni di Almesto e Vázquez, si deve a un altro partecipante
della spedizione, il capitano Diego Francisco Altamirano. La relazione fu consegnata al frate carmelitano Vázquez de Espinosa – che viaggiò per le Americhe
in lungo e in largo e visitò la città di Chachapoyas nella quale Altamirano
risiedeva – dall’autore stesso, che doveva essere assai in là con gli anni. Si veda
Antonio Vázquez de Espinosa, Compendio y descripción de las Indias Occidentales, Madrid, Atlas, 1969, libro III, capp. XVI-XXII («De la entrada que el
gobernador Pedro de Ursua hizo por el Rio de los Motilones por orden del
Virrey Marqués de Cañete»). Un altro testimone diretto, Pedro de Munguia,
riferì sulle vicende della spedizione, ma si concentrò soprattutto sugli eventi
nell’isola Margarita, e interessa marginalmente le questioni amazzoniche. Per
la storiografia della spedizione, si veda Rafael Díaz Maderuelo, Introducción,
in Carvajal, Arias de Almesto e de Rojas, La aventura, cit.
2
Andrés Hurtado de Mendoza, marchese di Cañete, fu il terzo viceré del
Perú, dal 1555 al 1560. «Venticinque uomini, per lo più addetti ai cantieri,
dodici negri falegnami e segatori, molti strumenti di ferro necessari, chiodi
e catrame» (Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 12). Il cantiere si trovava a
valle della confluenza con il Mayo, presso una località denominata Santa Cruz
de Saposoa.
3
Questa, come altre spedizioni spagnole, aveva un largo seguito di indios e
di neri schiavi. Lo esigevano il servizio dei nobili e degli hidalgos partecipanti
e il trasporto delle scorte di viveri, delle armi, degli utensili e di strumenti e
materiali vari. Con 300 (o 370, secondo Altamirano) spagnoli nella spedizione,
è possibile che vi fosse un seguito doppio di personale di servizio. La relazione
Altamirano precisa «370 soldati e più di 500 persone di servizio di indios e
neri, e carpentieri e ferraioli».
4
Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 29.
5
Altamirano, cit., § 1209.
6
Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 27.
7
Almesto, Relación verdadera, cit., p. 107. Sugli Omaguas, Antonio Porro,
História indigena do alto e médio Amazonas, in Manuela Carneiro da Cunha
(a cura di), História dos Índios no Brasil, São Paulo, Companhia das Letras,
1992, p. 182.
8
Emiliano Jos, La expedición de Ursúa al Dorado y la Rebelión de Lope
de Aguirre, Huesca, Campo, 1927, p. 169?. Secondo Porro, situati tra la confluenza e la laguna del Tefé e quella del Coarì, conosciuti a partire dal secolo
successivo come Aisuar: cfr. Porro, História, cit., p. 182.
9
Altamirano, cit., § 1805.
230 Note
Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 50
Ibidem, p. 58. La tonnellata era misura di capacità: in realtà era lo spazio
occupato da un tonel (barile, botte) di vino; la Pinta e la Niña di Colombo
erano caravelle di circa 60 tonnellate, la Santa María circa il doppio: si veda
Samuel E. Morison, Admiral of the Ocean Sea, New York, MJF Books 1970,
pp. 114-119; trad. it. Cristoforo Colombo. Ammiraglio del mare oceano, Bologna, Il Mulino, 1985. I due brigantini vennero battezzati Santiago e Vitoria,
cfr. Maderuelo, Introducción, cit., p. 20.
12
Jos, Expedición, cit. p. 169?.
13
Altamirano riferisce di due spagnoli uccisi con frecce avvelenate (Altamirano, cit., § 1211); Almesto-Vázquez raccontano un altro episodio raccapricciante: in una scaramuccia, viene catturato un indio, che «fu ferito dal
sergente Juan González con una delle sue frecce, per sapere se era unta con
quell’erba cattiva, e morì il giorno dopo, alla stessa ora» (Vázquez, La veridica
istoria, cit., p. 74; anche Porro, História, cit., p. 189).
14
L’effetto delle maree comincia a essere percepibile alla stretta di Obidos, a
circa 800 chilometri dal mare; a 400-500 chilometri dal mare il livello del fiume
cresce di oltre un metro; a 200 chilometri, si arriva a 4 metri («si percepisce a
200 leghe dal mare» secondo Almesto, Relación verdadera, cit., p. 145). Vicino
all’Atlantico si crea un’onda di marea (pororoca o macareo), fino a 2 metri di
altezza («alta come una casa»), con velocità di 10-15 chilometri all’ora che
crea grandi difficoltà alla navigazione, come testimoniano le relazioni delle
prime spedizioni. Si veda Michael Goulding, Ronaldo Barthem ed Efrem J.
Ferreira, The Smithsonian Atlas of the Amazon, Washington (D.C.) - London,
Smithsonian Institution, 2003, p. 38.
15
Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 75.
16
Almesto, Relación verdadera, cit., p 142. Secondo Altamirano (§ 1211)
gli indios abbandonati sarebbero stati 170. Non sappiamo quanti ne venissero
imbarcati nei due brigantini.
17
Almesto, Relación verdadera, cit., p. 144.
18
L’isola Margarita, secondo il cosmografo López de Velasco, che scriveva
negli anni Settanta del Cinquecento, «ha in tutto circa 60 famiglie» (di spagnoli) in due villaggi; la devastazione di Aguirre e dei corsari e l’esaurirsi dei
fondali di perle ne avevano presumibilmente compromesso il popolamento.
L’isola è prossima alla costa nord-orientale del Venezuela. L’isola di Cubagua,
nella quale approdò Orellana, è vicinissima alla Margarita, e secondo López de
Velasco fu abbandonata in seguito alla fine della pesca delle perle. Si veda Juan
López de Velasco, Geografía y descripción universal de las Indias, in «Boletin
de la Sociedad Geográfica de Madrid», 1894, pp. 136-138.
19
Vázquez, La veridica istoria, cit., 109. «Marañones» sono chiamati da
Aguirre i partecipanti alla spedizione, da uno dei nomi del fiume.
20
La lettera a Filippo II è riportata nella relazioni di Almesto e di Vázquez
(cfr. Vázquez, La veridica istoria, cit., pp. 127-135). Aguirre stesso fa la lista
nominativa delle persone della sua spedizione uccise («e io ammazzai...»): 25
lungo il fiume e 14 nell’isola. Su 300 spagnoli, è una bella proporzione! Fa
anche la lista di venti compagni (capitani e ufficiali) che lo seguono: al primo
posto c’è anche «Juan Jerónimo de Espindola, genovese, ammiraglio».
10
11
Note 231
Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 158.
Ho qui di proposito ignorato le ricostruzioni, e le interpretazioni, di
cronisti successivi (Ortiguera, Aguado, Simon e altri).
23
Almesto, Relación verdadera, cit., p. 110, nota 1.
24
Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 12.
25
Almesto, Relación verdadera, cit., p 103.
26
Ibidem, p. 107.
27
Ibidem, p. 138.
28
Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 134.
29
Ibidem.
30
La lunghezza della provincia dei Carari viene valutata in 150 leghe dai
naviganti, cioè un decimo del percorso totale; supponendo che i 10 mila fossero
insediati su una delle due rive, e che l’altra avesse contato altrettanti abitanti
si avrebbe un totale teorico di 20 mila; se anche il resto del fiume fosse stato
abitato come la provincia dei Carari, avremmo 200 mila abitanti in tutto!
31
Diecimila abitanti avrebbero potuto essere distribuiti in una cinquantina di villaggi di 200 abitanti ciascuno; se i naviganti avessero impiegato una
settimana (una ventina di leghe al giorno), avrebbero scorto sette-otto villaggi
lungo il percorso giornaliero.
32
Altamirano o
Altamirano, Relación verdadera, cit., § 1203.
Almesto?
33
Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 73.
34
Ibidem, p. 27.
35
Ibidem, p. 78.
36
Ibidem, p. 50; comunque la fame di servizio doveva essere grande anche
in seguito, visto che alla partenza dall’isola Margarita Aguirre si porta dietro
un centinaio di indios catturati nell’isola (cfr. ibidem, p. 110).
37
Ibidem, p. 81. La cifra di 15 mila non è citata da Almesto. A cosa si
riferisce? A tutto il percorso? Oppure alle province abitate? O alle zone nelle
quali fecero sosta?
38
Ibidem.
21
22
Capitolo quarto
1
Per una storia generale dei gesuiti in Mainas disponiamo di una vasta
bibliografia. Durante il primo periodo delle missioni l’opera più dettagliata è
la Relazione di padre Francisco Figueroa, Informe de las misiones de el Marañon, Gran Pará o Río de las Amazonas, datata 8 agosto 1681: cfr. Francisco
de Figueroa, Cristóbal de Acuña et al., Informes de Jesuitas en el Amazonas,
1600-1684, Iquitos, IIAP-CETA, 1986. Sull’intero periodo, due riferimenti
importanti sono quelle di Juan de Velasco, Historia moderna del reyno de Quito
y crónica de la provincia de la Compañia de Jesús en el mismo Reyno, 3 voll.,
Quito, 1942, e quella di José Chantre y Herrera, Historia de las misiones de
la Compañia de Jesús en el Marañon Español (1637-1767), Madrid, Imp. De
232 Note
A. Aurial, 1901 [1770]. Tra gli storici posteriori, sono affidabili le opere di
Antonio Astrain, Historia de la Compañia de Jesús en la asistencia de España,
vol. V, Madrid, Razon y Fe, 1916, pp. 435-456; vol. VI, Madrid, Razon y
Fe, 1920, pp. 595-632; vol. VII, Madrid, Razón y Fe, 1925, pp. 401-432; e
di José Jouanen, Historia de la Compañia de Jesús en la antigua provincia de
Quito, 1570-1774. I: La vice provincia de Quito, 1570-1696, Quito, Editorial
Ecuatoriana, 1941; II: La vice provincia de Quito, 1696-1773, Quito, Editorial
Ecuatoriana, 1943. Si vedano anche Costantino Bayle, Notas sobre bibliografía
jesuítica de Mainas, in «Missionalia Hispánica», VI, n. 19, 1949, pp. 277-317,
e Francisco Esteve Barba, Historiografia Indiana, Madrid, Gredos, 1992.
2
Lettera di padre Lucas de la Cueva al padre provinciale, 25 ottobre 1640,
in Archivo General de la Compañia de Jesús, Quito, Legajo III, n. 198.
3
José Del Rey Fajardo (a cura di), Misiones Jesuíticas en la Orinoquía
(1625-1767), San Cristóbal, Universidad Católica del Táchira, 1992.
4
Anne Christine Taylor, The Western Margin of Amazonia from the Early
Sixteenth to the Early Nineteenth Century, in Frank Salomon e Stuart B.
Schwartz, The Cambridge History of the Native People of the Americas. III:
South America, parte II, Cambridge, Cambridge University Press, 1999, pp.
217-218.
5
Un’equivalenza del tutto approssimativa: la Spagna ha una superficie
di 506 mila chilometri quadrati; i confini della regione di Mainas non erano
ben definiti.
6
La cifra di 100 mila è indicativa: nel 1681 padre Figueroa stimava la popolazione della regione in 60 mila, ma tutto fa ritenere che nel quarantennio
precedente vi fosse stato un forte declino.
7
Durante la stagione delle piogge, da dicembre-gennaio a maggio-giugno,
i fiumi erano in forte crescita, con aumento della velocità della corrente e
maggiori difficoltà di navigazione. Gli altri ingressi possibili, via Ambato o
Jaen, erano assai più difficoltosi.
8
Borja fu spostata a valle, verso la confluenza del Pastaza, nel 1749. Già
Figueroa, un secolo prima, ne aveva raccomandato lo spostamento a un sito
meno eccentrico rispetto alla regione che doveva governare.
9
Manuel J. Uriarte, Diario de un misionero de Mainas, 2 voll., a cura di
Constantino Bayle, Madrid, Instituto Santo Toribio Mogrovejo, 1952.
10
Una serie di regole riguardava il viaggio: era raccomandato, da Quito,
l’itinerario via Archidona e Napo. Ogni padre aveva diritto a un corredo che
comprendeva i vestiti, le camice, le scarpe, letto, materasso e lenzuola e altri
effetti per uso personale. Era assegnato a ogni padre – a valere sui 200 pesos
di stipendio provvisti dall’erario – l’equivalente di 60 pesos in tessuti e di 30
pesos in asce, machete e chiodi da distribuire agli indios. Cfr. Ann Golob, The
Upper Amazon in Historical Perspective, tesi di dottorato, Ann Arbor (Mich.),
City University New York, 1982, University Microfilm International, pp. 110116. Il lavoro di Ann Golob è il testo moderno più completo e documentato
sulla società Mainas nell’epoca delle Missioni.
11
Uriarte, Diario, cit., pp. 67-73, per questa e le precedenti citazioni.
12
Ogni anno partiva da Quito il despacho per le Missioni, ovvero un attenzione: nel file
trasporto – per via terra, poi via fiume – delle merci richieste dai padri: tela, questo era
l’esponente
11bis, qui
trasformato in 12.
nel file, però, dopo
el file
n 12.
dopo
Note 233
ferro, utensili, farina, oggetti per il culto, nelle quantità compatibili con le
disponibilità del sinodo quitense. Vi si impiegava un alto numero di indios
per i trasporto a spalla, o come rematori delle canoe. Il viaggio durava sei
mesi. Si veda Uriarte, Diario, cit., p. 89, nota.
13
Jouanen, Historia, cit., pp. 336-337.
14
Sui primi tentativi di padre Ferrer, all’inizio del secolo, cfr. il cap. I,
p. 00.
15
Manuel Biedma, La Conquista Francescana del Alto Ucayali, Iquitos,
IIAP-CETA, 1989.
16
Golob, Upper Amazon, cit., pp. 54-67.
17
Ibidem, pp. 78-79.
18
Ibidem, pp. 103-104.
19
José Felix Heredia, La antigua provincia de Quito de la Compañia de Jesús
y sus misiones entre infieles, 1566-1767, Riobamba, Ecuador, 1924, p. 31.
20
Figueroa, Informe, cit., p. 241.
21
Costantino Bayle, Las misiones, defensa de las fronteras Mainas, in «Missionalia Hispánica», VIII, n. 24, 1951, p. 433.
22
Taylor, The Western Margin, cit., p. 223.
23
Nel 1749 un incendio distrusse la chiesa e la casa parrocchiale di La
Laguna, e l’archivio lì conservato. Vi sono abbondanti prove che i registri
parrocchiali venivano tenuti sia nelle Missioni del Paraguay sia in quelle dei
Mojos e dei Chiquitos, ma negli archivi, fino a oggi, non se ne sono trovate
tracce.
24
Sulle fonti demografiche per queste regioni, si veda Massimo Livi Bacci,
Conquista. La distruzione degi indios americani, Bologna, Il Mulino, 2005,
pp. 213 ss., e Id., Eldorado nel pantano. Oro, schiavi e anime tra le Ande e
l’Amazzonia, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 130 ss.
25
Figueroa, Informe, cit., pp. 160-161. Lo stesso Figueroa (ibidem, p. 165),
per Borja, fornisce la cifra di 3.300 battesimi nel periodo 1638-1661 desunta
dai libri parrocchiali; 1.500 erano di bambini. Nella media, si tratterebbe
di 35 battesimi di bambini l’anno, per una popolazione declinante da 700 a
200 tributari (da 3500 a 1.000 persone, con una media di 1.750; la natalità
sarebbe stata quindi pari a 20‰ – probabilmente inferiore della metà a quella
che sarebbe da considerarsi normale. Tuttavia si tratta di cifre non incoerenti,
perché è da presumere che solo una quota degli indios delle encomiendas fosse
stata effettivamente cristianizzata.
26
Ibidem, p. 239.
27
Ibidem, p. 241.
28
Archivo de la Compañia de Jesús, Quito, Legajo XIV, fg. 1294. Il significato di questa cifra è però assai vago e probabilmente si riferisce ai battesimi
sia dei bambini sia degli adulti. Ma è del tutto incoerente la cifra di 22.800
battesimi a Borja, nel periodo 1636-1686, quando Figueroa ne menziona
appena 3.300 fino al 1661. Le cifre per le varie missioni sono arrotondate,
mentre è specificato il periodo di riferimento. Si veda anche Appendice 2,
«Artimetica amazzonica».
attenzione:
nel file
mancava
l’esponente 14
(ora 15)
234 Note
29
Golob, Upper Amazon, cit., p. 193; Jouanen, Historia, cit., p. 426; Paul
Waltraud Grohs-Paul, Los Indios del Alto Amazonas del siglo XVII al siglo
XVIII. Poblaciones y migraciones en la antigua provincia de Maynas, Bonn,
Estudios Americanistas, 1974, p. 35.
30
Heredia, La antigua provincia, cit., p. 31.
31
La lista delle missioni fatta da Velasco è stata ripresa da Bayle, nell’appendice a Uriarte, Diario, cit., vol. II, pp. 244-246.
32
Heredia, La antigua provincia, cit., p. 31.
33
Il Tratado de Limites (Trattato dei confini) tra Spagna e Portogallo venne
firmato nel 1750 e sancì i confini tra le colonie spagnole e quelle portoghesi
stabilite da una commissione mista. I confini – oggi tra Brasile e stati confinanti – sono rimasti da allora invariati.
34
Golob, Upper Amazon, cit., p. 231.
35
Heredia, La antigua provincia, cit., p. 31.
36
Manuel M. Marzal, As reduçoes indigenas na Amazonia do vice-reinado
Peruano, in Eduardo Hornaert (a cura di), Das Reduções latino americanas às
lutas indígenas atuais, Cehila, Paulinas, São Paulo, 1982.
Capitolo quinto
1
Francisco Vázquez, La veridica istoria di Lope de Aguirre, Palermo, Sellerio, 1981, p. 22.
2
Alonso de Rojas, Relación del descubrimiento del Río de las Amazonas,
hoy San Francisco de Quito, y Declaración del mapa donde esta pintado, in Fray
Gaspar de Carvajal, Pedro Arias de Almesto e Alonso de Rojas, La aventura
del Amazonas, Madrid, Dastin, 2002. Sull’attribuzione della Relación, si veda
l’introduzione al volume, a cura di Rafael Díaz Maderuelo.
3
Nel 1616 i portoghesi fondarono sulla riva sud del Pará – così era chiamato
il canale meridionale dell’estuario del Río delle Amazzoni – il forte di Presépio,
poi battezzato Santa Maria de Belém, o Belém (il nome che utilizziamo in
queste pagine), o più volgarmente Pará, che diventerà la città più importante
dell’Amazzonia. L’anno precedente, l’insediamento francese di San Luis, sulla
costa atlantica, a sud di Belém, era stato espugnato dai portoghesi. A partire
dal 1621 le regioni del Maranhão (San Luis) e del Pará (Belém) vennero governate direttamente da Lisbona, e non da San Salvador de Bahia, che era la
capitale della colonia. Questo avvenne anche perché il regime dei venti rendeva
più agevole e spedita la navigazione transoceanica tra Belém e Lisbona, che
non quella lungo costa tra Belém e Bahia. Regina Maria A. Fonseca Gadelha,
Conquista y ocupação da Amazônia: a fronteira Norte do Brazil, in «Estudos
Acançados», 16, 45, 2002.
4
Fray José de Maldonado, Relación del descubrimiento del Río Amazonas,
in Historiadores y Cronistas de las Misiones, Quito, Biblioteca Ecuatoriana
Minima, 1960, p. 65.
5
Fray Laureano de la Cruz, Nuevo descubrimiento del Río de Marañon
llamado de las Amazonas (1651), Madrid, La Irradiación, 1900, p. 49.
Note 235
6
Dal 1580 al 1640 vi fu un’unione personale tra i regni di Spagna e di
Portogallo sotto Filippo II, Filippo III e Filippo IV.
7
de la Cruz, Nuevo descubrimiento, cit., p. 49.
8
de Rojas, Relación, cit., p. 227.
9
Ibidem, p. 221.
10
David G. Sweet, A Rich Realm of Nature Destroyed. The Middle Amazon
Valley, 1640-1750, tesi di dottorato, The University of Wisconsin, 1974, The
University Microfilms, Ann Arbor (Mich.), p. 190.
11
La Corona aveva richiesto ai governatori Bento Maciel Parente, nel 1626, e
Francisco Coelho, nel 1634, di intraprendere le spedizioni esplorative dell’Amazzonia che per varie ragioni non vennero poi intraprese. Nel 1622 il portoghese Luis
Aranha de Vasconcelos risalì il fiume per un lungo tratto, fino al Río Negro. Della
prime due spedizioni ne parla Acuña nei capp. 5 e 6 (cfr. n. 23 qui sotto).
12
Il meridiano 46° 37’ «taglia» il Brasile lungo una linea che sbocca al
mare (approssimativamente) tra Belém e San Luis a nord e nei pressi di Santos a sud. Già l’insediamento di Belém sarebbe stato tecnicamente in terre di
pertinenza della Spagna.
13
Díaz Maderuelo, Introducción, in de Carvajal, Arias de Almesto e de
Rojas, La aventura, cit., p. 28; G. Edmunson, The Voyage of Pedro Teixeira
on the Amazon from Pará to Quito and Back, 1637-39, in «Transactions of the
Royal Historical Society», IV serie, vol. III, 1920.
14
de Rojas, Relación, cit., p. 224, e anche n. 34. Su Teixeira si veda anche
Anete Costa Ferreira, A Expedição de Pedro Teixeira, Lisboa, Ésquilo, 2000.
15
Sweet, A Rich Realm, cit., p. 193.
16
de la Cruz, Nuevo descubrimiento, cit., pp. 62 ss.
17
Díaz Maderuelo, Introducción, cit., pp. 19-20; Edmunson, The Voyage,
cit., p. 61.
18
Le citazioni sono tratte da de Rojas, Relación, cit., pp. 228 e 225.
19
La cronaca della spedizione di Teixeira si trova anche in Annaes Historicos
de Berredo, III ed., Firenze, Barbèra, 1905, pp. 266-267, 271-275. Cfr. anche
John Hemming, Tree of Rivers. The Story of the Amazon, New York, Thames
and Hudson, 2008, p. 55.
20
Sweet, A Rich Realm, cit., pp. 194-195.
21
Per questa e le precedenti citazioni, cfr. de Rojas, Relación, cit., pp.
217, 232, 225.
22
Ibidem, p. 223.
23
Cristóbal de Acuña, Nuevo descubrimiento del gran Río del Amazonas
en el año 1639, in Francisco de Figueroa, Cristóbal de Acuña et al., Informes
Jesuitas en el Amazonas, 1600-1684, Iquitos, IIAP-CETA, 1986, p. 35. Nelle
pagine successive, citazioni e riferimenti sono a questo testo. Un’edizione più
recente estesamente annotata, è quella a cura di Ignacio Arellano, José M.
Díez Borque e Gonzalo Santonja, Nuevo descubrimiento del Gran Río de las
Amazonas, Madrid, Universidad de Navarra - Iberoamericana - Vervuert, 2009.
Il testo di Acuña è suddiviso in 83 brevi capitoli, e nelle note che seguono si
citerà il numero del capitolo anziché la pagina.
236 Note
Acuña, Nuevo descubrimiento, cit., cap. 50.
Ibidem, cap. 20. Va ricordato ancora una volta il significato relativo delle
misure in leghe in questa e altre cronache. Le 1356 «leghe castigliane» di distanza
dalla confluenza dell’Aguarico a Belém corrispondono, a un dipresso, a circa
4.500 chilometri, cosicché la lunghezza media della lega di Acuña corrisponderebbe a 3,3 chilometri. La «lega castigliana» equivaleva a 4,19 chilometri. Prima
del XVII secolo, era pari a 1/17,5 di grado di longitudine (6,3 chilometri), poi
sostituita dalla lega pari a 1/20 di grado (5,56 chilometri). Si tenga poi conto
che la navigazione dei rionauti era complicata dalle molte deviazioni dovute
alla percorrenza di bracci di fiume secondari, alle isole, alle correnti, cosicché
ogni indicazione di misura va considerata in senso relativo.
26
Ibidem, cap. 23.
27
Su pesci e tartarughe, ibidem, capp. 25 e 26. La botija, misura di capacità,
valeva 2 arrobas, 12 libbre e 6 once. Una arroba valeva 25 libbre.
28
Ibidem, cap. 32.
29
Ibidem, cap. 34.
30
Ibidem, cap. 50.
31
Ibidem, capp. 51-55, dedicati agli Omaguas.
32
Sweet, A Rich Realm, cit., p. 209.
33
Acuña, Nuevo descubrimiento, capp. 55-60, dedicati ai Curuziraris e
all’oro.
34
Ibidem, capp. 61-62, dedicati agli Yorimanes. Una fánega corrispondeva
a 55,5 litri; ipotizzando un’equivalenza con 50 chili di farina, si tratterebbe
di 250 quintali. Una razione di mezzo chilo giornaliero avrebbe offerto i due
terzi del fabbisogno calorico di un adulto (facilmente completato da frutta,
caccia e pesca), e avrebbe assicurato il sostentamento di 1.000 persone per
cinquanta giorni.
35
Ibidem, cap. 64. Tra gli Yorimanes e i Bafururú passano la confluenza
del fiume Cuchiguará, e risalendolo per un lungo tratto si sarebbe giunti,
secondo una leggenda che Acuña raccoglie, a una popolazione di giganti alti
16 palmi (un palmo = 20,9 cm).
36
Ibidem, capp. 65-67.
37
Ibidem, capp. 68-71, dedicati ai Tupinambás, capp. 68-71. L’isola è lunga
circa 280 chilometri, «60 leghe» secondo Acuña, con una equivalenza di 4,6
chilometri per ogni lega.
38
Ibidem, cap. 74, dedicato ai Tapajós.
39
Ibidem, cap. 75, dedicato alle malefatte dei portoghesi. Acuña segnala
anche che i portoghesi solevano erigere croci di legno nei villaggi degli indios: la scomparsa o distruzione di queste veniva considerato atto sacrilego
e giustificazione sufficiente per renderli schiavi. Fatto reale, o leggenda antiportoghese?
40
Ibidem, cap. 83.
41
Ibidem, capp. 40-42, su riti, deità, sciamani.
42
Ibidem, cap. 36.
43
Ibidem, cap. 37, sulle armi e gli utensili; cap. 38 su canoe e navigazione.
24
25
Note 237
Sweet, A Rich Realm, cit., p. 210.
Memorial presentado en el Real Consejo de las Indias sobre el dicho descubrimiento después de la rebellión de Portugal, in Acuña, Nuevo descubrimiento,
cit., pp. 102-109.
46
de la Cruz, Nuevo descubrimiento, cit., p 103. La canoa era stata ricavata
da un tronco di «100 palmi» e di 19 palmi di circonferenza, ed era lunga 64
palmi e larga 5 (un palmo = 20,9 cm).
47
Ibidem, p. 107-108.
48
Ibidem, p. 109.
49
Ibidem, pp. 115-117.
50
Ibidem, pp. 118-119.
51
Ibidem, pp. 125-127.
52
Hemming, Tree of Rivers, cit., p. 62.
53
de la Cruz, Nuevo descubrimiento, cit., pp. 126-131.
54
Acuña, Nuevo descubrimiento, cit., cap. 43.
44
45
Capitolo sesto
1
Lettera di Juan Nicolás de Valencia, in AA.VV., Informes Jesuitas en el
Amazonas, 1600-84, Iquitos, IIAP-CETA, 1986, pp. 315-316.
2
Francisco Figueroa, Informe de las misiones de el Marañon, Gran Pará o
Río de las Amazonas, datata 8 agosto 1681: cfr. Francisco de Figueroa, Cristóbal de Acuña et al., Informes de Jesuitas en el Amazonas, 1600-1684, Iquitos,
IIAP-CETA, 1986, p. 177.
3
Ibidem, p. 179.
4
Ibidem, p. 181.
5
Waltraud Grohs-Paul, Los Indios del Alto Amazonas del siglo XVII al
siglo XVIII. Poblaciones y migraciones en la antigua provincia de Maynas, Bonn,
Estudios Americanistas, 1974, p. 48.
6
Figueroa, Informe, cit., p. 185.
7
Ibidem, p. 186.
8
Questa e le citazioni precedenti, ibidem, pp. 188-190.
9
Lettera del provinciale Gaspar Sobrino ai padri Ignacio Navarro e Juan
de Rivera, 1640, in Archivo General de la Compañia de Jesús, Quito, Legajo
III, n. 201.
10
Figueroa, Informe, cit., p. 191. Il Barbasco (Lonchocarpus urucu), della
famiglia delle fabacee, ha radici che ridotte in polvere e gettate in acqua hanno
un effetto paralizzante sui pesci, facilitandone la cattura.
11
Lettera dei padri Gaspar Cugia e Lucas de la Cueva al provinciale,
padre Gaspar Sobrino, 25 ottobre 1640, in Archivo General de la Compañia
de Jesús, Quito, Legajo III, n. 198.
12
José Chantre y Herrera, Historia de las misiones de la Compañia de
238 Note
Jesús en el Marañon Español (1637-1767), Madrid, Imp. De A. Aurial, 1901
[1770], p. 142?.
13
Grohs-Paul, Los Indios, cit., p. 45.
14
Ibidem, p. 45; Chantre y Herrera, Historia, cit., p. 230.
15
Lucas de la Cueva a Sebastian Sedeño, 1º gennaio 1665, in Archivo
General de la Compañia de Jesús, Quito, Legajo IV, n. 341,
16
José Jouanen, Historia de la Compañia de Jesús en la antigua provincia de
Quito, 1570-1774. I: La vice provincia de Quito, 1570-1696, Quito, Editorial
Ecuadoriana, 1941, p. 31.
17
Figueroa, Informe, cit., p. 194.
18
Padre Lorenzo Lucero al viceré de la Palata, in AA.VV., Informes, cit.,
pp. 327-339.
19
Kris Lane, Quito 1499. City and Colony in Transition, Albuquerque,
University of New Mexico Press, 2002.
20
Per le spedizioni tra i Jivaros, si veda Jouanen, Historia, vol. I, cit., pp.
322, 418-423, 481-482, 512-518; si veda anche Chantre y Herrera, Historia,
cit., pp. 176-181, 283, 303-307.
21
Padre Raimundo de Santa Cruz al governatore di Macas, 26 gennaio 1656,
in Archivo General de la Compañia de Jesús, Quito, Legajo IV, n. 306.
22
Citato in Jouanen, Historia, cit., p. 516.
23
Ibidem, p. 517.
24
La lettera di Lucero è trascritta da José Jouanen, Historia de la Compañia
de Jesús en la antigua provincia de Quito, 1570-1774. II: La vice provincia de
Quito, 1696-1773, Quito, Editorial Ecuatoriana, 1943, p. 390.
25
César W. Astuhuamán Gonzáles, Incas, Jivaros y la obra de Humboldt
«Vues des Cordillères», in «HiN», X, n. 19, 2009.
26
Cristóbal de Acuña, Nuevo descubrimiento del gran Río del Amazonas
en el año 1639, in Francisco de Figueroa, Cristóbal de Acuña et al., Informes
Jesuitas en el Amazonas, 1600-1684, Iquitos, IIAP-CETA, 1986, LI, p. 72.
27
Padre Lorenzo Lucero forse al padre Gaspar Vivas, 3 giugno 1681, in
AA.VV., Informes, cit., pp. 321-324.
28
Pablo Maroni, Noticias autenticas del famoso Río Marañon, a cura di Jean
Pierre Chaumeil, Iquitos, IIAP-CETA, 1989, p. 327. La chonta è una palma
dal legno duro. Pacomio, monaco e santo della Tebaide.
29
Grohs-Paul, Los Indios, cit., p. 81.
questa nel file
30
Così Maroni, Archivo General de las Indias, Quito 158, Pastells.
era la nota
28bis
31
Ibidem, p. 77.
32
Manuel J. Uriarte, Diario de un Misionero de Mainas, a cura di Constantino Bayle, Madrid, Consejo Superior de Investigaciones Cientificas - Instituto
Santo Toribio Mogrovejo, 1952, vol. I, p. 149.
33
Padre Julian ....., in Archivo General de la Compañia de Jesús, Quito
....., Legajo..... .
34
Per questa e le precedenti citazioni si veda Uriarte, Diario, cit., pp.
138-142.
Note 239
Ibidem, pp. 146-147.
Figueroa, Informe, cit., p. 205.
37
Ibidem, p. 211.
38
Jouanen, Historia, p. 455. vol. I o II?
39
Ibidem.
40
Antonio Astrain, Historia de la Compañia de Jesús en la asistencia de
España, vol. VI, Madrid, Razon y Fe, 1920, p. 619.
41
Uriarte, Diario, cit., vol. I, p. 195.
42
Lettera dei padri Gaspar Cugia e Lucas de la Cueva al provinciale, padre
Gaspar Sobrino, cit.
43
Padre de la Cueva a padre Cuja, 24 maggio 1665, in Archivo de la Provincia Toletana de la Sociedad de Jesús, M-179, Legajo 406.
44
Figueroa, Informe, cit., p. 42.
45
Maroni, Noticias, cit., p. 202.
46
Rapporto di padre Maroni, 1733, in Archivo General de las Indias,
Quito 158, Pastells.
47
Charles C. Mann, 1491. New Revelations of the Americas before Columbus,
New York, Knopf, 2005, p. 288. Secondo Carneiro, riferisce Mann, il taglio di
un tronco di 4 piedi di diametro richiedeva centoquindici ore di lavoro con
un’ascia di pietra (tre settimane, otto ore al giorno di lavoro), contro tre ore
usando un’ascia di acciaio. In un altro esperimento, il tempo occorrente per
ripulire una supeficie di un acro e mezzo (standard per un campo ripulito con
il taglia e brucia) con un ascia di acciaio fu pari a un ventesimo del tempo
occorrente utilizzando un’ascia di pietra.
48
La lettera di padre Richter del 1º gennaio 1686 è trascritta in Mauro
Matthei, Cartas e informes de misioneros Jesuitas extranjeros en Hispano America,
Santiago, Universidad Católica de Chile, 1972, vol. III, p. 193.
49
Jouanen, Historia, cit., pp. 425-426. vol. I o II?
50
Padre Lorenzo Lucero al viceré Duque de la Palata, cit., pp. 337-339.
51
Padre de la Cueva a padre Cuja, cit.
52
Comunicazione di Ann Golob.
53
Padre Schindler a Padre Zarate, 7 agosto 1736, in Archivo General de
las Indias, Quito 158, Pastells.
54
Rapporto di D. Diego Riofrio y Peralta (1745) in obbedienza della Real
Cédula, 11 dicembre 1742, in Archivo General de las Indias, Quito 191.
55
Da Neto Polo, 30 ottobre 1735, in Archivo General de las Indias, Quito
158, Pastells.
56
Lettera di padre Richter, in Matthei, Cartas, cit., pp. 192-193.
57
Figueroa, Informe, cit., pp. 250-263.
58
Jouanen, Historia, cit., p. 518. vol. I o II?
35
36
240 Note
Capitolo settimo
1
Manuela Carneiro da Cunha (a cura di), História dos Índios no Brasil,
São Paulo, Companhia das Letras, 1992, p. 12.
2
Julian H. Steward, Tribes of the Montaña. An Introduction, in Id. (a cura
di), Handbook of American Indians, 3 voll., Washington (D.C.), United States
Government Printing Office, 1948, p. 508.
3
Anna Roosevelt (a cura di), Amazonian Indians. From Prehistory to the
Present, Tucson, The University of Arizona Press, 1994, pp. 6-7.
4
William H. Denevan, The Native Population of America in 1492, II ed.
Madison, The University of Wisconsin, 1992, pp. 213, 217; Antonio Porro,
História indígena do alto e médio Amazonas: séculos xvi a xviii, in Carneiro da Cunha (a cura di), História, cit., p. 176; Anna Roosevelt, Arqueologia
Amazonica, ibidem, p. 72.
5
Si veda il cap. III, nota 38.
6
È la tesi che ho sostenuto in vari scritti. Si veda, soprattutto, Massimo
Livi Bacci, Conquista. La distruzione degli indios americani, Bologna, Il Mulino, 2005.
7
Denevan, The Native Population, cit., pp. xxvi, 211-213.
8
Ibidem, p. 230. Si tenga conto che il suolo della foresta è povero di
principi nutritivi. La pioggia intensa e il calore erodono la superficie, la
dilavano di minerali e dei componenti organici. Le foglie, i semi e i tronchi caduti al suolo, le componenti nutritive sono rapidamente riassorbite
dall’efficientissimo sistema radicale delle piante tropicali. Charles C. Mann,
1491. New Revelations of the Americas before Columbus, New York, Knopf,
2005, pp. 277-278.
9
Arrotondamento a mezzo milione, aggiungendo l’Amazzonia peruviana
ed ecuadoriana, stimata separatamente da Denevan.
10
Fray Laureano de la Cruz, Nuevo descubrimiento del Río de Marañon
llamado de las Amazonas (1651), Madrid, La Irradiación, 1900, p. 82.
11
La popolazione media dei villaggi era modesta al tempo della visita di
Laureano de la Cruz (il più grande aveva 330 abitanti), e probabilmente si era
ridotta, per le traversie subite, al tempo di Fritz, quarant’anni più tardi. Antonio
Porro, Os Omaguas do Alto Amazonas. Demografia e padrões de povoamento
no século XVII, in Hartman e Pentendo Coelho (a cura di), Contribuções a
antropologia em homenagem ão Professor Egon Schaden, São Paulo, Universidade
de São Paulo, Fundo de Pesquisas do Museu Paulista, 1981.
12
Francisco Figueroa, Informe de las misiones de el Marañon, Gran Pará o
Río de las Amazonas, datata 8 agosto 1681: cfr. Francisco de Figueroa, Cristóbal de Acuña et al., Informes de Jesuitas en el Amazonas, 1600-1684, Iquitos,
IIAP-CETA, 1986, p 160.
13
Ibidem, p. 239.
14
Ibidem, p. 241.
15
Ibidem, p. 233.
Note 241
16
Ann Golob, The Upper Amazon in Historical Perspective, tesi di dottorato,
Ann Arbor (Mich.), City University New York, 1982, University Microfilm
International, p. 76
17
I dati sono contenuti nel rapporto di padre Widman, e riportati ibidem,
p. 275.
18
Manuel J. Uriarte, Diario de un Misionero de Mainas, 2 voll., a cura di
Constantino Bayle, Madrid, Instituto Santo Toribio Mogrovejo, 1952, vol.
??, p. 134
19
Livi Bacci, Conquista, cit., pp. 58-62.
20
Popolazione «vergine», cioè popolazione che non aveva acquisito immunità perché mai esposta in precedenza al virus. Il virus del vaiolo è stato
probabilmente trasmesso agli umani in Eurasia in conseguenza di un lungo
contatto con bestiame domesticato. Ciò non era avvenuto in America.
21
José Felix Heredia, La antigua provincia de Quito de la Compañia de Jesús
y sus misiones entre infieles, 1566-1767, Riobamba, Ecuador, 1924, p. 5
22
Neil Lancelot Whitehead, The Ancient Amerindian Polities of the Amazon, the Orenoco, and the Atlantic Coast, in Roosevelt, Amazonian Indians,
cit., p. 42.
23
Golob, Upper Amazon, cit., p. 198.
24
de la Cruz, Nuevo descubrimiento, cit., p. 89.
25
Ibidem, p. 91
26
Figueroa, Informe, cit., p. 239.
27
Heredia, La antigua provincia, cit., p. 15.
28
Lucero a Gaspar Vivas, 3 giugno 1681, in AA.VV., Informes Jesuitas en
el Amazonas, 1600-84, Iquitos, IIAP-CETA, 1986, pp. 322-323.
29
Golob, Upper Amazon, cit., p. 198
30
David G. Sweet, A Rich Realm of Nature Destroyed. The Middle Amazon
Valley, 1640-1750, tesi di dottorato, The University of Wisconsin, 1974, The
University Microfilms, Ann Arbor (Mich.), p. 82
31
Nella Mision Baja, Heredia, La antigua provincia, cit., p. 27.
32
Uriarte, Diario, cit., vol. I, p. 217.
33
Ibidem, pp. 157, p. 216.
34
Ibidem, p. 265.
35
Ibidem.
36
Il modello «stabile» postula che una popolazione con tassi costanti di
fecondità e mortalità, per età, assume una struttura per età che è fissa, e solamente determinata da quei tassi, e ha anche un tasso d’incremento costante.
In un regime demografico «antico», sul lungo periodo, mortalità e fecondità
(salvo violente fluttuazioni) rispettavano approssimativamente queste condizioni. Ecco perché, conoscendo qualche elemento della struttura per età (la
percentuale dei bambini, o dei giovani) da un conteggio, o da un censimento
(come nel caso delle missioni), nonché il tasso d’incremento (da confronti di
più conteggi ad epoche diversi), è possibile inferire (con cautela) i livelli di
fecondità e di mortalità sottostanti.
242 Note
Figueroa, Informe, cit., p. 230.
Massimo Livi Bacci, Eldorado nel pantano. Oro, schiavi e anime tra le
Ande e l’Amazzonia, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 170. I conteggi presi a
riferimento si riferiscono agli anni 1732, 1736 e 1748.
39
Livi Bacci, Conquista, cit., tabb. 18 e 20, pp. 262 e 264.
40
Steward, Handbook, cit.; Carneiro da Cunha (a cura di), História, cit.,
Roosevelt, Amazonian Indians, cit.
41
Lucero a Gaspar Vivas, 3 giugno 1681, in AA.VV., Informes, cit., pp. 321.
42
Livi Bacci, Eldorado, cit., p. 125
43
Lucero a Gaspar Vivas, cit., p. 321
44
Figueroa, Informe, cit., pp. 211-12
45
Steward, Tribes, cit., p. 529; Julian H. Steward e Alfred Métraux, Tribes
of the Peruvian and Ecuadorian Montaña, in Steward, Handbook, cit., pp.
??-??, 623, 645; Alfred Métraux, Tribes of the Middle and Upper Amazon
River, ibidem, p. 698.
46
Alfred Métraux, The Tupinamba, in Steward, Handbook, cit., p. 116.
47
Samuel Fritz, Mision de los Omaguas, Yurimaguas, Aizuares, Ibanomas y
otras naciones desde Napo al Río Negro, in Pablo Maroni, Noticias autenticas
del famoso Río Marañon, a cura di Jean Pierre Chaumeil, Iquitos, IIAP-CETA,
1989, p. 305.
48
Adam Widman, Notes on Memorable Events that Occurred in the Missions
since the Year 1744 (trad. ingl. cortesemente messa a disposizione da Ann
Golob), Madrid, Pastells Collection, p. 65.
49
Maroni, Noticias autenticas, cit., p. 191.
50
Ibidem.
51
Frank Salomon e Stuart B. Schwartz, New People and New kinds of
People. Adaptation, Readjustment, and Ethnogenesis in South American Indigenous Societies (Colonial Era), in Frank Salomon e Stuart B. Schwartz, The
Cambridge History of the Native People of the Americas. III: South America,
parte II, Cambridge, Cambridge University Press, 1999, p. 460
52
Ibidem, pp. 451, 461.
53
Widman, Notes, cit., p. 17.
54
Juan Magnin, Breve descripción de la provincia de Quito, en la America
meridional, y de sus Missiones de succumbíos de Religiosos de S. Franc.o, y
de Maynas de PP. de la Comp.a de Jhs a las orillas del gran Río Marañon,
hecha para el Mapa que se hizo el año de 1740, por el P. Juan Magnin de dha.
Comp.a, missionero de dichas Missiones, in «Revista de Indias», I, n. 1, 1940,
p. 162. Dopo l’espulsione dei gesuiti, il governatore di Mainas, Francisco
Requena Herrera, censì 22 villaggi, nella maggioranza dei quali conviveano
due o tre diverse etnie, spesso di diverso ceppo linguistico (www.biblioteca.
tv/artman2/publish/1785_342/Descripci_n_de_Francisco_de_Requena_y_Herrera_del__1011.shtml [estratto 15 maggio 2012]).
37
38
in
Frankfu
Note 243
Capitolo ottavo
inserire ed. orig.?
Reise in die
AquinoktialGegeden des
Neuen
Kontinents,
a cura di
Ottmar Ette,
Frankfurt a.M.-Leipzig,
Insel, 1991.
1
I dieci componenti della missione erano, oltre La Condamine, Louis
Godin, matematico e capo scientifico; Pierre Bougeur, astronomo; Joseph de
Jussieu, naturalista e medico; Seniergues, chirurgo; Couplet, geografo; Verguin,
ingegnere; Jean Godin des Odonais e Morainville, tecnici; Hugot, orologiaio.
Allo sbarco a Cartagena le autorità posero al seguito, come accompagnatori e
sorveglianti, due giovani ufficiali di marina spagnoli, Jorge Juan de Santacilia
e Antonio de Ulloa, divenuti poi amici e collaboratori dei francesi. Ambedue
ebbero carriere di rilievo e furono autori di opere importanti: Jorge Juan y
Antonio de Ulloa, Noticias secretas de America (1749), Madrid, Historia 16,
1991.
2
Sulla spedizione scientifica e sul viaggio di La Condamine, si veda Hélène
Minguet, Introduction, in Ch.-M. de La Condamine, Voyage sur l’Amazone,
Paris, Maspero, 1981. Neil Safier, Measuring the New World. Enligthenment,
Science and South America, Chicago (Ill.), University of Chicago Press, 2008. Si
veda anche Anthony Smith, Explorers of the Amazon, Chicago (Ill.), University
of Chicago Press, pp. 159-187.
3
Charles Marie de La Condamine, Relation abrégée d’un voyage fait dans
l’interieure de l’Amérique méridionale, depuis la côte de la mer du Sud jusq’aux
côtes du Brésil et de la Guyane, en descendant la rivière des Amazones, Paris,
Veuve Pissot, 1745. La Relation è stata ristampata dall’editore Maspero (cfr.
n. 2), ed a questa edizione ci rifaremo nelle citazioni che seguono.
4
Safier, Measuring, cit.; Piero Tempesti, Storia della misura dell’unità
astronomica, in «Coelum», novembre-dicembre 1979
5
de La Condamine, Relation, cit., p. 60.
6
Juan Magnin, Breve descripción de la provincia de Quito, en la America
meridional, y de sus Missiones de succumbíos de Religiosos de S. Franc.o, y
de Maynas de PP. de la Comp.a de Jhs a las orillas del gran Río Marañon,
hecha para el Mapa que se hizo el año de 1740, por el P. Juan Magnin de dha.
Comp.a, missionero de dichas Missiones, in «Revista de Indias», I, n. 1, 1940,
pp. 151-185.
7
Pedro Vicente de Maldonado, geografo e naturalista, era governatore del
distretto di Esmeraldas nell’Audiencia di Quito (ora Ecuador).
8
de La Condamine, Relation, cit., p. 67.
9
Alexander von Humboldt, Viaje a las Regiones Equinocciales del Nuevo
Continente, 5 voll., Caracas, Monte Avila Editores, 1992; trad. it. Viaggio alle
regioni equinoziali del nuovo continente..., Roma, Palombi, 1986.
10
de La Condamine, Relation, cit., p. 62. Neil Safier, Como era ardilloso
o meu francệs: Charles-Marie de la Condamine e a Amazônia das Luzes, in
«Revista Brasileira de Historia», XXIX, n. 57, 2009.
11
de La Condamine, Relation, cit., p. 62.
12
Magnin, Breve descripción, cit., pp. 181-182. Opinioni condivise da Figueroa: «Non è davvero poco tormento dover confrontarsi con tronchi animati
e uomini irrazionali. Perché questi sono – comunemente parlando – gli indios
che vivono in queste selve, bruti con apparenze di uomini e uomini dalle azioni
di bruti» (Francisco Figueroa, Informe de las misiones de el Marañon, Gran
244 Note
Pará o Río de las Amazonas, datata 8 agosto 1681: cfr. Francisco de Figueroa,
Cristóbal de Acuña et al., Informes de Jesuitas en el Amazonas, 1600-1684,
Iquitos, IIAP-CETA, 1986, p. 276).
13
Antonello Gerbi, La disputa del Nuovo Mondo, Milano, Adelphi, 2000,
p. 77.
14
Gonzalo Fernández de Oviedo, Historia general y natural de las Indias
(1551-1555), 5 voll., Madrid, Atlas, 1992, vol. I, libro V, proemio, p. 111; trad.
it. parz. Le scoperte di Cristoforo Colombo nei testi di Fernandez de Oviedo,
Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1990
15
Fray Bartolomé de las Casas, Apologetica Historia Sumaria, 3 voll.,
Madrid, Alianza Editorial, 1992, particolarmente nei capitoli 33-43 del vol.
I. José de Acosta, Historia natural y moral de las Indias, Madrid, Historia 16,
1987, p. 389.
16
Guillermo Furlong, José Cardiel S.J. y su Carta de Relación, Buenos Aires,
Libreria del Plata, 1953, p. 172.
17
Gerbi, Disputa, cit., p. 93.
18
de la Condamine, Relation, cit., p. 46.
19
Ibidem, p. 70.
20
Ibidem, p. 79.
21
Ibidem, p. 100.
22
Ibidem, p. 105.
23
Ibidem, p. 109.
24
Ibidem, p. 119. Questa e le citazioni successive sul vaiolo, dalle pp.
119-121.
25
La Condamine farà altre comunicazioni all’Accademia delle scienze sul
vaiolo: Mémoires sur l’inoculation de la petite vérole, lues aux assemblées publiques
de l’Académie Royale des Sciences le 24 avril 1754 et 14 novembre 1758, Paris,
chez Durand, 1758. Alle pp. 10 e 11 parla dell’epidemia che investì America
e Europa nel 1723; ricorda l’inoculazione dei missionari del Río Negro e del
Pará e aggiunge che una stessa lettera dal Pará nel 1750 aveva annunciato una
nuova epidemia e l’adozione della inoculazione.
26
de la Condamine, Relation, cit., p. 71. Il floripondio è una solanacea; la
curupá è l’Anadenanthera peregrina.
27
Id., Sur l’arbre du Quinquina, «Mémoires de l’Académie des Sciences
de Paris», 1738.
28
Id., Relation, cit., p. 75.
29
Ibidem, p. 131.
30
Ibidem, p. 59.
31
Ibidem, pp. 90-93.
32
Ibidem, pp. 84-85.
33
Fray Bartolomé de las Casas, Historia de las Indias, 2 voll., México,
Fondo de Cultura Económica, 1991, vol. I, pp. 303-304.
34
Gaspar de Carvajal, Relación que escribió Fr. Gaspar de Carvajal, fraile de
la orden de Santo Domingo de Guzman, del nuevo descubrimiento del famoso rio
Note 245
grande que descubrió por muy gran ventura el Capitan Francisco de Orellana, in
AA.VV., La aventura del Amazonas, Madrid, Historia 16, 1986, p. 80.
35
Ibidem, pp. 85-86.
36
Oviedo, Historia, cit., vol. V, libro XI, cap. V, p. 242.
37
Si veda cap. V, n. 37.
38
de la Condamine, Relation, cit., p. 86. Le citazioni che seguono sulle
Amazzoni sono alle pp. 86-89.
39
Humboldt, Viaje, cit., vol. IV, p. 264.
40
Ibidem, p. 265.
41
Ibidem, p. 268.
42
Louis Godin Des Odonais, Relation du naufrage de Mme Godin Des
Odonais; Lettre de M. Godin Des Odonais à M. de La Condamine, in «Voyages
merveilleux et imaginaires...». L’avventura dei coniugi Godin è riassunta sulla
base del racconto del marito contenuto nella lettera a de la Condamine.
43
William L. Herndon, Exploration of the Valley of the Amazon, Washington
D.C.), Robert Armstrong, 1854, p. 197. La citazione non fa onore a Herndon,
che scrisse il resoconto del viaggio dal Perú al Pará nel 1851-1852, intrapreso
per ordine del ministro della Marina degli Stati Uniti. Il racconto è ricco di
acute e intelligenti osservazioni. Herndon morì da eroe, nel 1857, salvando
500 uomini e 60 donne nel naufragio della nave Central America, in balia di
un fortunale al largo della costa, senza abbandonare la nave.
Capitolo nono
1
Due opere moderne costituiscono ottime guide alle vicende dell’Amazzonia portoghese in epoca coloniale: David G. Sweet, A Rich Realm of Nature
Destroyed. The Middle Amazon Valley, 1640-1750, tesi di dottorato, University
of Wisconsin, 1974; John Hemming, Tree of Rivers. The Story of the Amazon,
London, Thames & Hudson, 2008. Un’ottima sintesi storica e antropologica è
quella di Robin M. Wright, in collaborazione con Manuela Carneiro da Cunha,
Destruction, Resistance and Transformation. Southern, Coastal and Northern
Brazil, in Frank Salomon e Stuart B. Schwartz (a cura di), The Cambridge
History of the Native People of the Americas. III: South America, II parte,
Cambridge, Cambridge University Press, 1999. Si veda anche, per il periodo
dalla fine della colonia fino al 1850, Carlos de Araúco Moreira Neto, Indios
da Amazônia, de maioria a minoria (1750-1850), Petropolis, Vozes, 1988.
2
Per la verità, anche nell’alta Amazzonia operarono, oltre ai gesuiti, anche
i francescani; tuttavia essi operarono in aree marginali, come l’alto Ucayali
e la regione di Sucumbios, e hanno lasciato materiale documentario molto
meno consistente.
3
Per una cronaca dell’insediamento portoghese nell’estuario, una fonte
dettagliata, ancorché spesso imprecisa, è Annales de Berredo.
4
Antonio Vieira, De una carta para el Rei Nosso Senhor [...] Escripta por
el Padre Antonio Vieira, in «Revista Trimensal de Historia e Geographia», n.
13, apriòe 1842, p. 117. La lettera è datata 11 febbraio 1640.
246 Note
Hemming, Tree of Rivers, cit., pp. 49, 535.
Sweet, Rich realm, cit., p. 91.
7
Ibidem, pp. 49-52.
8
Moreira Neto, Indios da Amazônia, cit., p. 30. Si veda anche Adélia Engrácia De Oliveira, The Evidence for the Nature of the Process of Indigenous
Deculturation and Destabilization in the Brazilian Amazon in the Last Three
Hundred Years, in Anne Roosevelt (a cura di), Amazonian Indians. From Prehistory to the Present, Tucson, The University of Arizona Press, 1994.
9
Beatriz Perrone-Moisés, Indios livres e indios escravos: os principios da
legislação indigenista do periodo colonial (séculos xvi a xviii), in Manuela
Carneiro da Cunha (a cura di), História dos Índios no Brasil, São Paulo, Companhia das Letras, 1992, p. 117.
10
Ibidem, p. 124
11
Antonio Vieira (1608-1697), nato in Portogallo, a sei anni è in Brasile
e a ventitré entra nella Compagnia di Gesù. Dopo un periodo di lavoro
pastorale, dal 1640 al 1652 è chiamato a varie funzioni ufficiali a Lisbona,
con ambascerie in Francia e Olanda. Tra il 1653 e il 1661 è visitatore e
organizzatore delle missioni nel Maranhao e nel Pará; viene espulso e rientra in Portogallo. Nel 1682 rientra in Brasile, a Bahia, dove rimane fino
alla morte. Le sue Obras Completas, pubblicate a Lisbona nel 1854-1858,
constano di 27 volumi.
12
Provisão-Lei. Provisão sobre a Liberdade e Captiverio do gentio do
Maranhão, in Carneiro da Cunha (a cura di), História, cit., p. 531.
13
Antonio Vieira, Sermón sobre la esclavitud en Marañon (1653) , tradotto
in spagnolo in Manuel M. Marzal, La utopia posible. Indios y Jesuitas en la
America colonial (1549-1767), Pontificia Universidad Catolica del Perú, Fondo
Editorial. 1992, pp. 168-169.
14
Ibidem, p. 169
15
Ibidem, p. 161.
16
Antonio Porro, História indígena do alto e médio Amazonas: séculos XVI
a XVII, in Carneiro da Cunha (a cura di), História, cit., p. 161.
17
Moreira Neto, Indios da Amazônia, cit., p. 24.
18
Ibidem, p. 61
19
Sweet, Rich Realm, cit., in part. il cap. 9.
20
Ibidem, p. 467.
21
Vieira, De una carta, cit., p. 113. Padre Vieira nel 1653 aveva accompagnato una spedizione sul Tocantins, e si oppose, inutilmente, alla cattura di 500
schiavi. Si veda Barbara Sommer, Colony of the Sertão. Amazonian Expedition
and the Indian Slave Trade, «The Americas», gennaio 2005, p. 409.
22
Vieira, De una carta, cit., pp. 114-115.
23
Ibidem, p. 115
24
Ibidem; João Felippe Betendorf, Chronica da Missão dos Padres da
Companhia de Jesus no Estado do Maranhão, Revista do Instituto Historico e
Geographico Brazileiro, vol. LXXII, parte I, 1910, p. 113.
25
Forse il numero si riferisce alle abitazioni, e non ai villaggi. João Ca5
6
Note 247
pistrano de Abreu, Chapters of Brazil’s Colonial History. 1500-1800, Oxford,
Oxford University Press, p. 109.
26
Sweet, Rich Realm, cit., p. 469. Lo stesso Sweet fornisce un elenco delle
spedizioni intraprese nel nord-ovest, e particolarmente nella valle del Negro, a
cadenze ravvicinate. Quella di Ignacio Correia de Oliveira, lungo il Solimões
e il Japurá avrebbe fruttato addirittura «migliaia» di schiavi, catturati tra i
Tobacanas, Tumas, Itipunas, Guareicus, Ticunas, e Cayuvicenas. La spedizione
ebbe luogo tra il 1707 e il 1710.
27
Ibidem, p. 495.
28
Hemming, Tree of Rivers, cit., p. 78. Si tratta, ovviamente, di un numero
teorico: gli indios impiegati come rematori lo potevano essere, durante l’anno,
per periodi di varia lunghezza.
29
Sweet, Rich realm, cit., p. 525.
30
Ibidem, p. 544.
31
Ibidem, p. 559.
32
Chi scrive ha fatto parecchie ricognizioni sulle fonti dell’Amazzonia spagnola, raccogliendo una buona massa di dati che – dati i tempi e i luoghi cui si
riferiscono – hanno un modesto grado di precisione. E che saranno presentati e
discussi in pubblicazioni specializzate. Ma non ha avuto il tempo e il coraggio
di compiere analoghe ricognizioni per l’Amazzonia portoghese.
33
Betendorf, Chronica, cit., p. 203.
34
Ibidem, pp. 585-588; Sweet, Rich realm, cit., p. 81.
35
Sweet, Rich realm, cit., p. 82.
36
Ibidem, pp. 734-739. Naturalmente non sappiamo se quella del 1749
sia stata la prima epidemia di morbillo tra le genti del Río Negro: tuttavia,
come abbiamo spiegato altrove (cap. VII), data la giovane struttura per età,
qualora le epidemie fossero state intervallate da dieci-quindici o più anni, la
maggioranza della popolazione sarebbe stata non immune. Di conseguenza,
anche il tasso di mortalità sarebbe stato elevato e non troppo inferiore a quello
che si verifica in popolazioni completamente sprovviste di immunità. Si veda
anche Moreira Neto, Indios da Amazônia, cit., p. 23. Di morbillo e vaiolo nel
triennio 1748-1750 parla Hemming, Tree of Rivers, cit., p. 82.
37
Serafim Leite, Historia da Companhia de Jesus do Brasil, Instituto Rio de
Janeiro, Nacional do Livro, 1943, p. 137.
38
Vieira, De una carta, cit., p. 124.
39
Leite, Historia da Companhia, cit., p. 138. Poco più di un terzo (35%) erano
meninos e meninas, bambini di sette anni o meno: una percentuale compatibile
con una popolazione con adeguato ricambio. Leite riferisce anche che nell’aldeia
di Piraguari (sul fiume Xingu), un terzo esatto dei 921 abitanti del 1730 erano
catecumeni, presumibilmente indios recentemente tratti dal sertão.
40
Questa statistica è ripubblicata da Moreira Neto, Indios da Amazônia,
cit., pp. 214-217: «Mappa dos indios [...] que [...] na Capitania do Rio Negro
observou o Intendente Francisco Xavier de Sampaio...». I dati sono forniti per
ciascun villaggio, distribuiti per sesso, età e altre caratteristiche.
41
Anche la statistica di Rodrigues Ferreira è riprodotta da Moreira Neto,
Indios da Amazônia, cit., pp. 218-219: «Mappa de todos os habitantes que
248 Note
existem nas differentes freguezias e povoações do Rio Negro». Non mancano
esempi di aldeias con sensibili diminuzioni della popolazione: nella citata aldeia
de Piriguari (da 1.078 a 921 abitanti tra il 1730 e il 1756); nella missione di
Baraorá – poi Vila de Tomar – che negli anni Settanta aveva appena 149 indios
tra i quindici e i sessant’anni, ma che ne aveva avuti più di 1.000 (Hemming,
Tree of Rivers, cit. p. 104).
42
Sweet, Reach Realm, cit, p. 92; Moreira Neto, Indios da Amazônia, cit.,
p. 50
43
Dauril Alden, Late Colonial Brazil, in Leslie Bethell (a cura di), Colonial
Brazil, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, p. 286.
44
Tarcisio Botelho e Clotilde Andrade Paiva, Politicas de Populaçao no
Periodo Joanino, XVI Encontro Nacional de Estudos Populacionais, ABEP,
2008, p. 14.
45
Alden, Late Colonial, cit. p. 288.
46
Artur Cesar Reis, A formaçao espiritual da Amazônia, Rio de Janeiro,
SPVEA, 1964, p. 6, citato da Moreira Neto, Indios da Amazônia, cit., p. 22
47
Alden, Late Colonial, cit., p. 288. La rilevazione del 1840 per l’Amazzonia
aveva censito il 9% della popolazione come bianca, con esclusione di Belém e
degli altri insediamenti del Pará. Per Sweet, alla metà del Settecento la proporzione dei bianchi doveva aggirarsi sul 5% (Sweet, Rich Realm, cit., p. 92).
48
Moreira Neto, Indios da Amazônia, cit., p. 47.
49
Sweet, Rich Realm, cit., p. 687.
50
Citato da Hemming, Tree of Rivers, cit., p. 302.
Appendice 1. Río delle Amazzoni: carta di identità
1
Costantino Bayle, Descubridores Jesuitas del Amazonas, «Revista de Indias»,
1, I, 1940, pp. 129-130.
2
Chiamato anche, in spagnolo, «Río de los Venenos».
3
Gran parte delle informazioni sono tratte da Michael Goulding, Ronaldo
Barthem ed Efrem J. Ferreira, The Smithsonian Atlas of the Amazon, Washington (D.C.) - London, Smithsonian Institution, 2003.
4
Il 68% del bacino amazzonico è in Brasile, l’11% in Ecuador, l’11%
in Bolivia, il 6% in Colombia, il 2% in Ecuador, il residuo in Venezuela e
Guyana.
5
William L. Herndon, Exploration of the Valley of the Amazon, 1851-52,
New York, Grove Press, 2000, p. 147.
6
Ibidem, p. 221.
7
Ibidem, p. 191.
Appendice 2. Artimetica amazzonica
Note 249
1
José Felix Heredia, La antigua provincia de Quito de la Compañia de Jesús
y sus misiones entre infieles, 1566-1767, Riobamba, Ecuador, 1924, , p. 31.
2
Razon y Noticias de las reducciones y pueblos de los convertidos y bautizados, segun consta de los autos de visita de dichas Iglesias y Pueblos, de
Antonio Garcia Ceares, cura y vicario de Santiago de la Montañas, por Comision del Sen. Ill.mo Don Alonso de la Peña Monte Negro, Obispo de Quito,
in Archivo General de la Compañia de Jesús, Quito, V, 480. Si veda anche
la n. 28 del Cap. IV.
3
A. Porro, Os Omaguas do Alto Amazonas. Demografia e Padrões de
Povoamento no seculo XVII, in Hartmann e Pentendo Coelho (a cura di),
Contribuçoes a antropologia em homenagem ao Professor E.Schaden, São Paulo,
1981, p. 211.
4
Ibidem, pp. 217-218.
5
Lettera di padre Fritz a padre Juan Martin Rubio da San Joaquín de
Omaguas, 1686 [incerta provenienza; comunicata da Ann Golob].
6
Porro, Os Omaguas, cit., p. 220.
7
Massimo Livi Bacci, Conquista. La distruzione degli indios americani,
Bologna, Il Mulino, 2005, p. 262.
Cronologia
Cronologia
1494 Trattato di Tordesillas tra Portogallo e Spagna
1500 Vicente Yáñez Pinzón naviga la foce del Río delle Amazzoni. La
spedizione di Cabral raggiunge il Brasile e ne prende possesso
in nome della Corona portoghese
1513 Il 25 settembre Balboa avvista il mare del Sud (Pacifico)
1524-25 Primo viaggio di Francisco Pizarro lungo la costa del Pacifico
1526-27 Secondo viaggio di Francisco Pizarro; permanenza nell’isola
del Gallo
1529 Il 26 luglio viene concessa a Pizarro la Capitulación per la
scoperta del Perú
1530 Il 27 dicembre Pizarro parte per il suo terzo viaggio di esplorazione
1531-38 Spedizioni da Coro (Venezuela), nei bacini dell’Orinoco e
dell’Amazzonia, dei tedeschi concessionari dei banchieri Welser:
Alfinger, Espira e Federman
1532 Il 16 maggio Pizarro entra nell’impero Inca da Tumbez e il 16
novembre cattura Atahuallpa a Cajamarca
1533 Dal 13 maggio al 25 luglio fusione dell’oro e dell’argento del
riscatto di Atahuallpa
1533 Il 26 luglio viene ucciso Atahuallpa
1533 Il 15 novembre Pizarro entra in Cuzco
1534 Benálcazar marcia su Quito
1535-37 Spedizione di Diego de Almagro in Cile
1536 Il 6 gennaio Pizarro fonda la Ciudad de los Reyes (Lima)
1536-38 Spedizione di Gonzalo Jiménez de Quesada da Santa Marta
il 5 aprile 1536 e fondazione di Santa Fe (Bogotá) il 6 agosto
1538, capitale del Regno di Nueva Granata (attuale Colombia)
254 Cronologia
1538 Il 26 aprile Hernando Pizarro sconfigge Almagro nella battaglia
di Las Salinas
1538 L’8 luglio esecuzione di Almagro
1538 Incontro di Quesada, Benálcazar e Federman nella sabana di
Bogotá
1538 Spedizione di Pedro de Candía dal Cuzco oltre le Ande; i
superstiti ripartono con Peranzures
1540 Spedizione di Pedro de Valdivia alla conquista del Cile
1540 Paolo III approva formalmente la Compagnia di Gesù
1541 Il 26 luglio gli almagristi uccidono Francisco Pizarro
1541 Spedizione da Coro di Juan o Felipe ? de Utre
1541-42 Disastrosa spedizione di Gonzalo Pizarro da Quito oltre le
Ande; 26 dicembre: inizio della navigazione di Orellana del
Napo e del Río delle Amazzoni
1542 Orellana e compagni arrivano all’isola di Cubagua al largo del
Venezuela l’11 settembre 1542
1548 Pedro de la Gasca sconfigge Gonzalo Pizarro nella battaglia
di Jaquijahuana; Gonzalo è ucciso e la sua ribellione è vinta
1549 Arrivo a Chachapoyas di 300 indios brasiles
1551 Primo Concilio a Lima
1556 Morte di Ignazio di Loyola
1558-60 Spedizione da Asunción di Ñuflo de Chaves verso il paese degli
Xarayes, dei Chiquitos e dei Mojos
1560 Il 26 settembre inizia la spedizione di Pedro de Ursúa che
discende lo Huallaga e il Río delle Amazzoni.
1561 Il 1º gennaio uccisione di Ursúa; al comando di Aguirre la
spedizione raggiunge il mare il 3 luglio, e l’isola Margarita il
20 luglio; uccisione di Aguirre a Barquisimeto il 27 ottobre
1563 Fondazione dell’Audiencia di Quito (attuale Ecuador)
1568-69 Spedizione di Juan Álvarez Maldonado dal Cuzco oltre le Ande,
nel bacino del Madre de Dios
1568 Arrivo dei gesuiti in Perú
1570 Francis Drake nel Maranhão
1580 Unione personale dei regni di Portogallo e di Spagna
1586 I gesuiti si insediano stabilmente a Quito
1596 insediamento degli inglesi nel Maranhão
1602 Padre Ferrer inizia l’evangelizzazione dei Cofanes
1609 I gesuiti danno inizio all’evangelizzazione del Paraguay
Cronologia 255
1611 Uccisione di padre Ferrer
1612-15 I francesi si insediano nel Maranhão e ne vengono espulsi dai
portoghesi
1616 Fondazione di Santa Maria do Belém nel Pará. I primi spagnoli
traversano il Pongo di Manseriche ed entrano in contatto con
gli indios Mainas
1619 Il capitano Diego de Vaca y Vega fonda il villaggio di Borja
tra i Mainas; gli indios vengono distribuiti agli encomenderos
1625 Inizia la fondazione delle missioni negli Llanos dei fiumi Meta
e Casanare (Orinoco)
1630 Gli olandesi occupano il Pernambuco
1635 Sollevazione dei Mainas, strage di spagnoli e feroce repressione
1636 Spedizione di Juan de Palacios con missionari francescani nel
Napo; sua uccisione e fallimento della spedizione; navigazione
dei confratelli Brieda e Toledo fino al Pará
1637 Parte la spedizione di Pedro Teixeira dal Pará e arrivo a Quito
nell’ottobre del 1638
1638 Arrivo a Borja dei padri Cugia e de la Cueva e inizio dell’evangelizzazione dei Mainas; Fondazione della prima missione,
Limpia Concepción de Jeveros
1639 Partenza da Quito dei padri Acuña e Artieda che accompagnano
la spedizione di Teixeira e arrivo a Belém il 12 dicembre
1640 Incoronazione di Giovanni IV in Portogallo e fine dell’unione
personale con la Spagna
1648-50 Prima evangelizzazione degli Omaguas a opera del francescano
Laureano de la Cruz
1650 Laureano de la Cruz scende il Río delle Amazzoni e arriva a
Belém il 1º febbraio 1651
1653 Sermone sulla schiavitù di Antonio Vieira
1654 Definitiva espulsione degli olandesi dal Brasile
1655 Fallimentare spedizione tra i Jivaros di Don Martin de la
Riva
1660-61 Epidemia di vaiolo
1658 Prima ufficiale spedizione di resgates nel Río Negro
1661 Espulsione di Vieira e di trentadue padri gesuiti dal Pará
1666 Uccisione di padre Figueroa
1669 I portoghesi costruisconon il Forte di São José sul Río Negro
(attuale Manaus)
1670 Padre Lucero fonda la missione di Santiago de la Laguna
256 Cronologia
1680-81 Epidemia di vaiolo, fuga dei Cocamas da Santiago de la Laguna
e primi contatti con gli Omaguas che chiedono protezione dai
portoghesi
1682 Fondazione di Nuestra Señora de Loreto, prima missione tra
i Mojos (Bolivia orientale)
1688 Padre Fritz dà inizio all’evangelizzazione degli Omaguas; fondazione di San Joaquín de Omaguas
1691-95 Nuove disastrose spedizioni tra i Jivaros su impulso di padre
Viva
1692 Padre Fritz a Lima per perorare con il viceré la difesa dei
territori Omaguas contro i portoghesi
169 Suddivisione delle zone d’influenza di gesuiti, francescani,
carmelitani e mercedari nell’Amazzonia portoghese
1695 Disastrosa fondazione del villaggio de los Naranjos sul fiume
Santiago
1697 Epidemia di vaiolo nel Pará
1710 Definitiva annessione dei territori Omagua da parte dei portoghesi e dell’ordine dei carmelitani
1711 Padre Fritz sposta la missione di San Joaquín de Omaguas a
monte sul Río delle Amazzoni, fuori dei territori insediati dai
portoghesi
1723-27 Guerra e sterminio degli indios Manaos; morte del capo Ajuricaba; vaiolo nel Pará
1732 Inizio dell’evangelizzazione degli indios del Napo
1738-42 Fondazione di molte missioni nel Napo da parte dei padri
Maroni e Iriarte
1743-45 Viaggio di ritorno in Francia di La Condamine via Río delle
Amazzoni, Belém e Cayenna
1749 Vaiolo nel Napo; vaiolo e morbillo nel Pará; incendio e distruzione dell’archivio di Santiago de la Laguna; spostamento
a valle della «città» di Borja
1750 Firma a Madrid del Tratado de Limites tra Spagna e Portogallo per la determinazione dei confini tra Brasile e America
Ispanica
1753 Mendonça Furtado, fratello di Pombal, governatore del Pará
1757 Inizia il periodo del «Direttorio» nel Pará; espulsione dei gesuiti
dal Portogallo e dal Brasile
1764 Espulsione dei gesuiti dalla Francia
1767 Espulsione dei gesuiti dalla Spagna, da Napoli e dall’America
Cronologia 257
1768 Arriva l’ordine di espulsione nelle missioni in Mainas, 19 padri discendono il Río delle Amazzoni, e via Belém e Lisbona
vengono esiliati negli Stati pontifici in Italia
1769-70 Viaggio amazzonico di Madame Godin
1783-92 Spedizione in Amazzonia del naturalista Rodrigues Ferreira
1798 Fine del Direttorio
1798-1803 Viaggio alle «regioni equinoziali» di Alexander von Humboldt
1821 Indipendenza del Perú
1822 Indipendenza del Brasile; indipendenza dell’Ecuador
Glossario
Glossario
La lettera P significa termine dell’Amazzonia portoghese
adelantado titolo riconosciuto al comandante di una regione di confine,
spesso titolare di una spedizione di scoperta e conquista
adobe materiale da costruzione composto di mattoni di fango, anche
misti a paglia, essiccati
alcalde autorità municipale, presidente del cabildo con funzioni giudiziarie
aldeamento (P) insediamento di indios in una’aldeia. Indios aldeados:
residenti in una aldeia (vedi)
aldeia (P) villaggio di indios amministrato da un religioso missionario
alguacil incaricato di eseguire gli ordini del giudice
anta (P) tapiro, mammifero ruminante dalla pelle dura, impiegata per la
fabbricazione di scudi (vedi anche danta)
arroba misura di peso equivalente a 25 libbre o 11,5 chilogrammi
balsa zattera
bandeira (P) spedizione a fini di razzia di schiavi
bandeirantes (P) componenti di una bandeira
barranca burrone, vallone, cañon: in Amazzonia, rive rilevate sul fiume
barbacoa termine arawak indicante un traliccio o piattaforma
bebedero tettoia rettangolare comunitaria e cerimoniale
bibosi fibra di ficus utilizzata per intrecciare e tessere
botija misura di capacità pari a circa 30 litri
cabildo cunicipalità
chicha bevanda alcolica fatta con la fermentazione del mais o della
yucca
262 Glossario
chonta della famiglia delle palme, varietà dal legno duro
chunchos abitatori di regioni poco conosciute del versante orientale
delle Ande
coatì mammifero della famiglia dei procioni
corregidor autorità municipale
cuartel residenza plurifamiliare nelle missioni, rettangolare, con spazi
separati per ciascuna famiglia
curaca capo di una comunità
danta sorta di tapiro
descimento (P) letteralmente, discesa; operazione di migrazione organizzata per insediare indios dell’interno nelle aldeias missionarie
descubrimiento scoperta; spedizione di scoperta
encomendero titolare di una encomienda
encomienda territorio e popolazione attribuiti a uno spagnolo, sorta di
signore feudale, cui veniva pagato un tributo
entrada spedizione di scoperta, esplorazione e conquista
estado misura lineare equivalente a 1,57 metri
estolica asta con funzione di propulsore di dardi
fánega misura di capacità equivalente a circa 58 litri
fazenda (P) allevamento di bestiame
feitoría (P) fondaci commerciali portoghesi sulle coste africane e brasiliane
fiscal funzionario con funzione di giudice
goa misura lineare equivalente a tre palmi, cioè a circa 0,75 metri
herramienta utensili di ferro o acciaio
indio de corda (P) indio prigioniero legato destinato a un sacrificio
cannibalico
islas aree leggermente rilevate negli Llanos de Mojos al riparo dalle
inondazioni
ladino indio acculturato
legua misura lineare pari a 5,53 chilometri
Glossario 263
lengua indigeno interprete
lingua geral (P) nell’Amazzonia portoghese, lingua franca basata sul
tupí
mal de costado letteralmente, mal di petto, da infezioni respiratorie
maloca (P) spedizioni dei portoghesi brasiliani a fini di razzia di schiavi
mameluco (P) mezzo sangue, generalmente figlio di bianco e india
manatí lamantino amazzonico
meninas, meninos (P) bambini fino ai sette anni di età
mestizo (P) mezzo sangue, generalmente figlio di bianco e con nera
africana.
mita corvée, lavoro obbligato
mitayo da mita, corvée; indio in corvée, obbligato a turno al servizio o
al lavoro
montaña pedemonte andino
morador (P) vedi vecino
operario termine per indicare il personale religioso di missione
ouvidor (P)magistrato
palenque villaggio di schiavi fuggitivi
parcialidad la componente di un villaggio identificata da legami di parentela, di clan o di appartenenza etnica
pau brasil (P) albero della selva atlantica, chiamato anche Pernambuco
(Caesalpinia Echinata), alto 10-15 metri, legno e resina pregiate
peste indicazione generica per designare un’epidemia
peça (P) vdi pieza
pieza anche «pieza de Indias», o schiavo.
planilla prospetto o tabella, contenente un riassunto annuale della popolazione di una missione
poblar termine con il quale si designava la fondazione di un insediamento
o villaggio di spagnoli
pongo corruzione della parola quechua indicante una porta, un’apertura,
e per esteso, una sorta di stretto cañon
principal, principaes (P) capo di gruppo tribale
quechua lingua dominante negli altopiano andini e lingua franca in alta
Amazzonia
264 Glossario
rancheria fattoria, per esteso abitazioni con coltivazioni
real accampamento, quartier generale
regidores consiglieri del cabildo
rescates in genere utensili, oggetti di adorno e cianfrusaglie usati come
moneta di scambio con gli indios. Rescates erano anche spedizioni
che «compravano» o «riscattavano» indios tenuti prigionieri da altri
indios
resgates (P) vedi rescates
riduzione azione di «ridurre», cioè concentrare, indios dispersi in un
villaggio spesso pianificato a scacchiera. Sinonimo di missione
sabana vasto territorio pianeggiante spoglio di alberi in area tropicale
sarampión morbillo
sarampião (P) morbillo
sertão (P) le vaste estensioni dell’interno, lontane dagli insediamenti sotto
controllo portoghese. Sertanista componente di spedizioni nel sertão
surazos venti freddi provenienti dal sud
tapuya, tapuyo parola tupí per indicare indios nemici; nell’uso volgare
successivo, indio docile, detribalizzato.
tierra firme in Amazzonia, terre oltre la várzea, rilevate e non inondabili
tipoy corta gonnella di cotone
tropa (P) spedizione ufficiale di guerra a indios ostili (tropa de guerra), o
per scambiare schiavi di tribù con merci (tropa de resgate)
vara misura lineare equivalente a 83,6 centimetri
várzea (P) fascia rivierasca solitamente inondata durante la stagione
delle piogge
vecino famiglia di spagnoli residenti; un residente
viracocha in Amazzonia, meticcio al servizio dei missionari, ma anche,
in senso spregiativo, spagnolo.
viruela vaiolo
vizinho (P) vedi vecino
yanacona servo nelle case o nelle fattorie degli spagnoli
zapallo vegetale della famiglia delle zucche
zipa cacico, capo
Indice dei nomi