Biblioteca storica
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Biblioteca storica I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it Massimo Livi Bacci Amazzonia L’impero dell’acqua Società editrice il Mulino I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it ISBN 978-88-15-00000-0 Copyright © 2012 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo – elettronico, meccanico, reprografico, digitale – se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie Indice Prologo p. 000 I. Il «mare dolce» del pilota della Niña. L’oro di Atahuallpa e un signore chiamato Eldorado. L’oro del Perú arriva a Siviglia. Oltre l’Impero degli Inca, oltre le Ande. Cani feroci e avidi coloni. La rivolta dei Quijos 000 II. Gonzalo Pizarro varca le Ande in cerca di ricchezza. Niente oro, poca cannella, tanta fame. Cinquantasette rionauti discendono l’Amazzonia. Doni, razzie e frecce avvelenate. Un frate perde un occhio e prende la penna. In mare aperto 000 III. Trecento rionauti scendono il Grande Fiume. Pedro de Ursúa e Ines de Atienza prime vittime della tragedia. Aguirre furore di Dio. La lunga scia di sangue fino all’oceano e al Venezuela. Sfida a Filippo II. Morte di Aguirre e di Elvira, sua figlia 000 IV. Padre Cugia dalla Sardegna alle rapide del Marañon. Gesuiti alla conquista spirituale del Grande Fiume. Vangelo, asce e machete. Molto ingenium, poca prudentia. Caleidoscopio etnico, babele linguistica. In centrotrenta anni, 161 padri e 152 effimere missioni 000 V. Su e giù per l’Amazzonia. Due frati in fuga scendono il Grande Fiume e allarmano i portoghesi. 000 6 Indice Inattesa e sgradita visita a Quito dei coloni del Pará. Un gesuita colto e attento descrive l’Amazzonia e riferisce al re VI. Missione impossibile. Pescatori di anime: maglie larghe e pesci piccoli. Una missione modello. Gli irriducibili Jivaros e un napoletano scriteriato. Un bavarese sciamanico predica in quaranta villaggi nelle isole del fiume. Il fare e disfare dei missionari p. 000 VII. Paradiso dell’antropologo, purgatorio del demografo. Molti o pochi indios? Un umile frate che faceva di conto. Fughe e catture; arrivi e partenze; fondazioni, spostamenti e abbandoni. Le stragi del vaiolo. Vaccinazione nella selva 000 VIII. Scienziati sfortunati all’equatore. Perú-Parigi, via Amazzonia. Buon selvaggio o bruto bestiale? Vaiolo, caucciù e polli avvelenati. Sociologia delle Amazzoni: la Condamine e Humboldt. La straordinaria avventura di Madame Godin 000 IX. Francesi, inglesi e olandesi ospiti indesiderati del Grande Fiume. Uno strano Presepio. Un predicatore politico. Le ingiuste guerre giuste, i riscatti e i pogrom. A caccia di schiavi. Fine dell’Amazzonia dei primi rionauti. 000 Epilogo 000 Appendici 000 1. Rio delle Amazzoni: carta di identità 000 2. Aritmetica Amazzonica 000 3. Popolazione di Mainas (XVIII secolo) 000 Indice 7 Cronologia p. 000 Glossario 000 Illustrazioni 000 Indice dei nomi 000 Indice delle cose notevoli 000 Elenco delle mappe, tabelle e figure 000 Prologo «Vedo una canoa vuota sulla riva, riempiamola di noci di cocco, entriamoci e lasciamoci trasportare dalla corrente. Un fiume conduce sempre ad un luogo abitato...» disse Cacambo. «Andiamo», rispose Candide, «raccomandiamoci alla Provvidenza». Chi non ha sognato di fare come Candide, e il suo servo Cacambo, che partirono dal regno degli Inca in cerca dell’Eldorado? Al sogno ho dato un mio personale seguito nelle pagine di questo libro, dedicate all’Amazzonia e al suo disvelamento agli occhi europei. Dal primo colpo d’occhio che Pinzón, valoroso pilota di Colombo, dette all’estuario all’alba del Cinquecento, alla sua completa navigazione intrapresa casualmente quarant’anni più tardi dal capitano Orellana, dal frate Carvajal suo scrivano, e da cinquanta compagni. Dalla tragica spedizione di Pedro de Ursúa e Lope de Aguirre, intrisa di sangue e tragedia, alla lenta discesa del Grande Fiume di La Condamine, uomo di scienza impegnato nell’osservare, misurare e classificare. Mentre l’immensità amazzonica si rivelava agli europei, i valori e i comportamenti dei nuovi intrusi si manifestavano nella loro crudezza agli occhi delle popolazioni del Fiume. Un incontro, tra iberici e amazzonici, con esiti disastrosi per questi ultimi a causa dell’insostenibile asimmetria dei due mondi. Assai più destabilizzante che in altre parti d’America, dove il contatto, peraltro, ebbe quasi ovunque conseguenze disastrose. Il mondo amazzonico era liquido e mobile, articolato in una molteplicità di lingue ed etnie, plasmato da una natura esuberante. Fragile di fronte alla dura intrusione spagnola che oltrepassava le Ande, prima alla ricerca di ricchezze e regni inesistenti, poi della manodepera indigena per estrarre l’oro nascosto nel letto dei fiumi, per il duro lavoro servile nelle piantagioni, per il trasporto come umane bestie da soma. Fragile 10 Prologo di fronte alle incursioni dei portoghesi, che risalivano il Fiume dall’estuario alla caccia di schiavi da razziare. Asimmetria e fragilità determinarono lo sconvolgimento demografico della società autoctona per il forte declino delle popolazioni e per il profondo mutamento delle caratteristiche insediative, e uno sconvolgimento antropologico per le migrazioni e le dislocazioni, per la frammentazione, la ricomposizione e la scomparsa di etnie, per la perdita spesso traumatica di caratteri culturali originali. Avvenne così che l’Amazzonia – percorsa da migliaia di chilometri di maestose vie d’acqua, immersa nei milioni di chilometri quadrati di selva – venisse sconvolta da un pugno di europei e di meticci, poche centinaia a metà Seicento, qualche migliaio un secolo più tardi. Un impero dell’acqua conteso – spagnoli da ovest, portoghesi da est – e sconvolto da dure genti di guerra, da impietosi cacciatori di schiavi, da abili mercanti, e dalle nuove malattie che portarono con sé. Nel mezzo agì un debole arbitro (gli ordini religiosi, in particolar modo i gesuiti), mediatore tra gli interessi degli europei e quelli degli amazzonici, e poco efficace difensore dei diritti dei secondi. È dagli ordini religiosi, e in misura minore dalle autorità civili, che procedono cronache, racconti e relazioni degli eventi amazzonici che mi sono sforzato di collegare e presentare organicamente, cercando di intuire i fatti dietro il formalismo giuridico dei funzionari, la scrittura edificante dei religiosi, le sbrigative narrazioni degli uomini d’azione. Queste pagine ripercorrono tre secoli, dal primo avvistamento della costa brasiliana alla chiusa del Settecento, quando le autorità civili subentrarono ai gesuiti espulsi nel governo degli immensi territori, e i caratteri originari della società amazzonica si dissolsero per il diradarsi delle popolazioni, la perdita delle identità culturali, l’omologazione ai modelli trasmessi e imposti dagli iberici. Come Candide, l’autore di queste pagine aveva iniziato il suo viaggio con ottimismo e fiducia nella ragione, ma lo chiude con la constatazione – una volta di più – che i peggiori nemici della specie umana non sono le sette piaghe d’Egitto, ma i propri simili. Un naturalista di fine Settecento scrisse: «Si incontrano luoghi, in quel fiume, che una volta erano abitati da innumerevoli barbari e che ora non mostrano segni di vita oltre alle ossa dei morti». La Condamine, che fu amico di Voltaire, con tono meno catastrofico osservò che «le rive del Marañon, appena un secolo addietro, erano ancora popolate da un gran numero di Prologo 11 nazioni, che si sono ritirate nell’interno appena hanno visto gli europei». All’inizio dell’Ottocento, quella società variata e liquida che i primi navigatori avevano osservato con curiosità, sconcerto e timore, non esisteva più. Questo lavoro è diretto, soprattutto, al pubblico italiano, per il quale l’Amazzonia evoca immagini esotiche, ma che ignora la sua travagliata storia. È stato anche un’occasione per analizzare le conseguenze del contatto tra Europa e America, in un contesto così diverso da quello abitato da società articolate ed evolute, come quelle mesoamericane, andine e – per certi versi – caraibiche. Per non appesantire la lettura, ho presentato una piccola parte del materiale d’archivio studiato – a Roma, a Quito e a Madrid – la cui discussione mi riprometto di affidare a pubblicazioni specializzate. Vorrei riservare un ringraziamento particolare a una persona che non ho mai incontrato, ma che mi ha generosamente ceduto numerose e preziose trascrizioni di documenti di archivio da lei raccolti. Si tratta di Ann Golob, la cui tesi di dottorato in antropologia, discussa alla City University of New York nel 1982 (The Upper Amazon in Historical Perspective, Ann Arbor, University Microfilm International), è un’opera fondamentale per la conoscenza dell’alta Amazzonia. Ann Golob ha poi lasciato gli studi antropologici – con rimpianto dei suoi estimatori – per seguire altri interessi. A lei esprimo la mia riconoscenza più viva. Firenze, luglio 2012 M.L.B. I. Il «mare dolce» del pilota della «Niña». L’oro di Atahuallpa e un signore chiamato Eldorado. L’oro del Perú arriva a Siviglia. Oltre l’impero degli Inca, oltre le Ande. Cani feroci e avidi coloni. La rivolta dei Quijos proposta: numero separato dal titolo L’ esistenza del Grande Fiume venne svelata a occhi europei alla fine di gennaio del 1500. Erano gli occhi attenti di un uomo di mare tra i più esperti e abili della sua epoca, «l’uomo più capace che c’era tra i piloti del Re di quei tempi», Vicente Yáñez Pinzón, che al comando della Niña aveva accompagnato Cristoforo Colombo nel primo epico viaggio di esplorazione nemmeno otto anni prima1. Nel giro di pochi anni, la febbre della navigazione di scoperta era giunta al culmine: il 20 maggio 1498 Vasco da Gama aveva circumnavigato l’Africa ed era approdato a Calicut, sulle coste del Malabar, nell’India sud-orientale. Nell’agosto dello stesso anno, nel suo terzo viaggio, Colombo aveva esplorato le coste orientali del Venezuela, l’estuario dell’Orinoco e le isole delle Perle. Nell’aprile del 1500 la grande spedizione di Pedro Alvares Cabral diretta verso le Indie approdò in Brasile, forse non casualmente. Yáñez Pinzón nel 1499 aveva ottenuto licenza per la scoperta di nuove terre, purché non fossero quelle già toccate da Colombo, ed era partito da Siviglia al comando di quattro caravelle nel novembre dello stesso anno. Fatta sosta alle isole di capo Verde, traversarono l’equatore e «il 26 gennaio avvistano da lontano una terra»; si presume che si trovassero nelle prossimità della parte più orientale del Brasile, in Pernambuco o Ceará. Sbarcati, non riuscirono all’inizio a stabilire un contatto con gli indigeni, per cui continuarono la loro navigazione lungo la costa in direzione nordovest. In un successivo approdo il contatto con gli indigeni ci fu, ma fu drammatico: quattro scialuppe con uomini armati presero terra. E «da un alto colle, su una spiaggia vicina, videro una gran folla di indigeni». Ci fu un imprudente tentativo di scambio di doni che finì con l’uccisione di otto spagnoli e di un non specificato numero di indios. La spedizione ripartì in fretta e furia. 16 Capitolo primo Si diressero verso nordovest lungo la stessa spiaggia, mesti per i compagni uccisi. Avevano percorso quaranta miglia quando si imbatterono in un tratto di mare di acque così dolci che poterono riempire le botti di acqua fresca. Ricercando la causa di questo fenomeno trovarono che sboccavano in mare con grande impeto fiumi vorticosi [...] In quel tratto di mare dicono che sorgono molte isole ridenti per la fertilità del suolo e fittamente abitate. Riferiscono che gli indios di questi luoghi sono miti e socievoli, ma di poca utilità, perché non arrecarono ai nostri alcun desiderabile provento, come oro o pietre preziose. Perciò portarono via trentasei schiavi. Così racconta, nella prima testimonianza scritta2, il cronista umanista di corte Pietro Martire di Anghiera – che conobbe Pinzón – nel suo De Orbe Novo. Sicuramente l’acqua dolce in mare aperto si trova per lungo tratto nella parte nord dell’estuario – allo sbocco a sud, nel braccio detto Pará, l’acqua è salata – e per questa ragione il fiume fu battezzato «Río de Santa Maria del Mar Dulce». È però incerto se, e quanto a lungo, Pinzón risalisse l’estuario: alcuni cronisti successivi parlano di trenta o quaranta leghe, ma i testi sono contraddittori. Poche settimane dopo Pinzón, un altro navigante, Diego de Lepe, suo parente e concittadino di Palos, aveva navigato gli stessi mari, traversato lo stesso estuario, era entrato in conflitto con i nativi subendo gravi perdite e aveva catturato molti indios che riportò in Spagna. Il Grande Fiume, e il suo largo e complesso estuario, nei decenni successivi non suscitò nuovi tentativi di esplorazione o colonizzazione. Gli interessi degli spagnoli erano attratti dalle coste del Venezuela e dalle isole delle Perle, e il lungo litorale fino all’estuario amazzonico era poco adatto agli sbarchi e alle esplorazioni. Del resto, gli indigeni dell’estuario amazzonico erano stati giudicati – come riferisce Pietro Martire – «di poca utilità»: c’erano regioni assai più interessanti sotto il profilo dell’utile economico nel continente americano. L’unico tentativo di rilievo di esplorazione e colonizzazione fu quello di Diego de Ordáz, nel 1531, un avventuroso e ricco luogotenente di Cortés nella conquista del Messico, che ebbe licenza di esplorazione e conquista del Marañon. Armò a sue spese tre navi: la sua capitana fu deviata dalle correnti lungo la costa a nord dell’estuario, e Ordáz finì nel golfo di Paria e tentò la risalita dell’Orinoco. Le altre due navi fecero naufragio, a quanto si seppe, nell’estuario del Grande Fiume e i superstiti si mescolarono con gli indios; più tardi si disse, addirittura, che si erano sposati con le Amazzoni3. Amazzonia 17 Le popolazioni con cui i navigatori dei primi decenni del secolo vennero in contatto sulle coste del Brasile erano essenzialmente di cultura tupí, vastamente diffusa lungo la costa nelle sue varianti, dall’estuario del Río de la Plata fino a quello del Grande Fiume, e lungo il corso di questo. Non dappertutto – e gli episodi cruenti narrati da Yáñez Pinzón e da Diego de Lepe lo confermano – essi erano socievoli come quelli incontrati da Cabral e descritti a lungo nella famosa lettera al re scritta dal suo scrivano Pero Vaz de Caminha: Loro non coltivano la terra, né allevano animali. Né ci sono qui bue, né vacca, né pecora, né gallina, né qualsiasi altro animale che sia abituato al modo di vivere degli uomini. Non mangiano altro che di questi tuberi, che qui abbondano, e questi semi e frutti che la terra e gli alberi producono spontaneamente. E con questo cibo sono tanto forti e ben nutriti, quanto lo siamo noi con tutto il grano e i legumi che mangiamo. Encora: «erano tutti così aitanti e così ben fatti ed eleganti nelle loro tinture, che avevano un bell’aspetto. Raccoglievano quanta più legna potevano, con molta buona volontà, e la portavano fino ai battelli»4. Cabral era approdato, è vero, molto più a sud, nella tranquilla baia che venne chiamata – ed è chiamata ancora oggi – Porto Seguro. Ma erano questi gli indios mansueti – cooperativi nel «raccogliere legna» –, insediati vicino ad approdi agevoli, in territori ricchi di vegetazione, che i portoghesi cercavano per stabilire i loro commerci e le loro feitorías5. I portoghesi concentrarono la loro azione sulla regione più orientale della costa brasiliana, più promettente per il suo sfruttamento commerciale. Erano terre assai più vicine all’Europa, con una folta selva costiera ricca di «alberi del Brasile» (pau Brasil), per i quali c’era forte domanda per il legno pregiato e per la resina, utilizzata come colorante nella manifattura tessile6. Una costa ricca di approdi per i velieri, dove gli indigeni potevano essere indotti a cooperare nel taglio degli alberi, il loro trasporto e carico sulle navi. Nel 1502 e nel 1503 due flotte furono inviate dal Portogallo al Brasile – nella seconda c’era Amerigo Vespucci – che ritornarono in patria con i loro carichi di schiavi e alberi del Brasile. Esiste un rapporto dettagliato relativo alla nave Bretoa che nel 1511 approdò a Bahia, per poi proseguire verso sud a Cabo Frío, dove gli indios Tupí tagliarono e trasportarono i tronchi di cinquemila alberi del Brasile alla feitoría lì stabilita, 18 Capitolo primo dietro il consueto pagamento di utensili e cianfrusaglie varie. La nave rientrò in Portogallo con il carico di legname, animali esotici e trentacinque schiavi7. Fino agli anni Trenta del Cinquecento funzionò il sistema delle feitorías stabilite in punti strategici della costa, che assicurarono uno scambio pacifico tra commercianti e indios, utensili contro taglio e trasporto di legname. Nulla di questo era possibile nella costa a nord dell’estuario del Grande Fiume, con bassi fondali, lagune, difficili approdi e rado popolamento costiero. Né le esperienze cruente di Yáñez Pinzón e di Diego de Lepe nell’estuario o a sud di questo invitavano a nuove intraprese. Del resto, solo la parte orientale del Brasile risultava legalmente disponibile per la colonizzazione portoghese, trovandosi a occidente della linea stabilita dal Trattato di Tordesillas (1494) che separava le zone d’influenza della Spagna e del Portogallo: la costa amazzonica si trovava nettamente a oriente della linea e quindi nella sfera spagnola. Solo nel 1535 la corona portoghese, preoccupata più dalle ambizioni francesi e olandesi che da quelle spagnole, organizzò una grande spedizione nel tentativo di colonizzare il Maranhão: la spedizione fallì per l’impossibilità dei velieri di risalire la corrente del Grande Fiume, una volta lasciato alle spalle l’estuario9. Bisognerà attendere il secolo successivo perché i portoghesi vi si insedino definitivamente. L’esplorazione del Grande Fiume non avverrà, dunque, partendo dal «mare del Nord» – l’Atlantico – nonostante che la grande distesa d’acqua potesse invitare a una tranquilla risalita, sia pure controcorrente. I tentativi di percorrerlo prenderanno il via da ponente, dalle sorgenti invece che dall’estuario, valicando la catena delle Ande, anziché traversando l’oceano, per l’impulso di Quito o del Cuzco piuttosto che di Lisbona o Siviglia. Ma non sappiamo quale occhio europeo scrutasse per primo le acque del Grande Fiume. La prima descrizione del Río delle Amazzoni, là dove diventa veramente tale, alla confluenza dell’Ucayali con il Marañon, è dei due cronisti della seconda spedizione che navigò interamente il fiume (quella di Pedro de Ursúa e di Lope de Aguirre, cap. III) e che a questa confluenza si fermò per otto giorni alla fine del 1561: «Assieme, questi tre fiumi tanto poderosi [lo Huallaga, il Marañon e l’Ucayali] con molti altri minori, e torrenti e lagune delle quali non ho il conto, ne formano uno a valle che non credo che nel mondo ce ne sia uno somigliante»10. Amazzonia 19 ma infra, spesso, Madeira La realtà è che era conoscenza generale tra gli Inca, poi trasmessa agli spagnoli, che i corsi d’acqua che nascevano dalle cordigliere confluivano poi in uno o più grandi fiumi, che scorrevano per plaghe sconosciute fino al mare. Molti tratti di questi fiumi – e anche del Grande Fiume – erano già stati più volte percorsi. L’impero degli Inca, che al tempo dell’arrivo degli spagnoli era alla sua massima espansione, non aveva superato la cresta delle cordigliere anche se controllava le terre basse dei corsi superiori dello Huallaga e del Marañon, ben conosciuti e navigati. Oltre le Ande c’erano le tribù barbare, i Chunchos, con i quali erano praticati occasionali commerci, ma fuori della sfera Inca. Ma dove andavano quei fiumi ricchi di acque? Verso il «mare del Nord», cioè l’oceano Atlantico, sicuramente: un mare la cui costa americana era già stata abbondantemente esplorata dall’Orinoco (1498) al Marañon (1500) e al Río de la Plata (1516). Ma per quali percorsi, questo non si sapeva. Ancora nel 1590 l’autorevole gesuita José de Acosta, che aveva percorso il Perú in lungo e in largo, nella sua Historia natural y moral de las Indias affermava del Río delle Amazzoni che il fiume «corre [...] dalle montagne del Perú, dalle quali raccoglie immensità di acque delle piogge e dei fiumi [...] esce finalmente nell’oceano e vi sbocca quasi di fronte alle isole Margarita e Trinidad», confondendolo con l’Orinoco11. Quasi vent’anni più tardi, Garcilaso de la Vega, raccontando la mitica spedizione di conquista dei Musu (o Mojos) da parte del re Inca Yupanqui narra di una provincia a oriente del Cuzco oltre le Ande alla quale si poteva accedere seguendo il corso di un fiume (probabilmente il Madre de Dios) che riceveva numerosi affluenti: «dove questo fiume sbocchi nel mare del Nord non saprei dire; tuttavia, per la sua vastità e per la direzione che segue andando verso levante [...] sospetto che confluisca nel Rio de la Plata»12. Si trattava, invece, con tutta probabilità del Madera, che fluiva verso nord, il principale affluente di destra del Río delle Amazzoni. Potremmo stupirci che negli anni in cui Galileo Galilei esplorava il cosmo, vi fosse ancora ignoranza sul percorso dei grandissimi fiumi del continente. Ma sarebbe stupore mal riposto, data l’immensità dei territori, le difficoltà di percorso e il tenue popolamento. Anche noi, dunque, seguiremo la corrente del Grande Fiume, perché la sua conoscenza, nei primi due secoli, procede nello 20 Capitolo primo stesso senso, da occidente verso oriente. Per l’impulso della Conquista, della ricerca di ricchezze, di spazi e popolazioni da colonizzare e da sfruttare, di anime da evangelizzare. Francisco Pizarro aveva sottomesso un impero civilizzato e strutturato, prudentemente affacciato sull’immensità amazzonica. È dunque ragionevole dilungarsi per un po’ sulle forze che produssero la proiezione spagnola oltre le Ande e le prime spedizioni nei decenni successivi al 1532, quando gli spagnoli entrarono come un inesorabile cuneo nella compatta società peruviana. È istruttivo, anzitutto, ricordare la velocità della Conquista, sotto l’impulso di un paese che, pur dominante in mezza Europa, era debole sotto il profilo demografico, di dimensioni comparativamente modeste, lontano migliaia di miglia, legato da precarie e lente comunicazioni marine. Se invochiamo le dimensioni oggettive, la superficie della Spagna di Ferdinando e Isabella era meno di un decimo di quella dei territori sottomessi alla dominazione Azteca e Inca; la distanza via mare tra Genova, patria di Colombo, e Siviglia era un decimo di quella percorsa dallo stesso Colombo da Palos a Hispaniola; la popolazione della penisola iberica era – presumibilmente – una piccola frazione (azzarderei tra un quinto e un decimo) di quella degli imperi mesoamericano e andino; Città del Messico era due o tre volte più grande di Siviglia. Ma il nanismo fisico fu – come la storia ha dimostrato – abbondantemente compensato dalla capacità politica e organizzativa, da un’ideologia robusta, dalle conoscenze avanzate e dalla tecnologia: vela, bussola, ruota, acciaio, polvere da sparo. La rapidità del contatto e il divario di conoscenze e capacità tra conquistatori e conquistati, hanno inferto ai secondi le profonde ferite e i duri traumi che ben conosciamo. Il contatto fra europei e americani si consumò in uno spazio di tempo rapidissimo, dato che alla metà del Cinquecento solo in aree marginali (ancorché vastissime e scarsamente popolate) non erano arrivati gli iberici. Pedro de Valdivia era penetrato in Cile e nel 1541 tracciava il piano di Santiago (al 33º parallelo sud); nello stesso anno Francisco de Orellana aveva navigato per tutto il corso del Río delle Amazzoni sboccando nell’Atlantico; nel 1540 Francisco Vázquez de Coronado esplorava le distese a nord del Río Grande, fino al cuore degli attuali Stati Uniti, al margine del Gran Canyon (38º parallelo nord). Un continente percorso in tre decenni (dal primo stabile incontro con la terraferma) su un asse nord-sud di ottomila chilometri ed est-ovest di cinquemila. E al termine di Amazzonia 21 quel trentennio – verso la metà del secolo – si calcola che fossero oltre 100 mila gli iberici sparsi in tutta l’America, dai Caraibi al Pernambuco, dalla costa pacifica messicana a quella cilena. Nel vastissimo impero Inca la rapidità della Conquista fu altrettanto stupefacente: è vero che il viceré Francisco de Toledo annullò l’ultima remota resistenza con l’esecuzione di Tupac Amaru nel 1572. È però un fatto che fino dal 1537 – cinque anni appena dopo l’approdo di Pizarro in Perú – liberato il Cuzco dall’assedio degli indios insorti ed esaurita la generale insurrezione, l’impero era oramai definitivamente caduto in mani spagnole. Parlare però di «spinta della Conquista» con riferimento alle esplorazioni degli ignoti territori transandini, vuol dire poco. Certamente le prime generazioni di conquistatori erano fatte di una pasta speciale, che aveva forti radici medievali nel processo di Riconquista, di forte lealtà al signore, di ricompensa al valore e all’onore. «L’onore e la ricchezza si guadagnavano più facilmente con la spada e meritavano di formalizzarsi nella concessione, da parte del sovrano riconoscente, di uno status più alto». Esaurita la spinta della Riconquista, «le forze dinamiche della società iberica medievale cominciarono a cercare le nuove frontiere oltre i mari [...] e i castigliani, come i portoghesi, verso l’Africa, e le isole dell’Atlantico»13 e poi verso l’America. Coloro che presero avventurosamente la via dell’America andavano incontro a rischi ignoti ed elevati: furono circa la metà i compagni di Cortés e di Pizarro che persero la vita in pochi anni. Un rischio così alto, evidente e chiaramente percepito, si affrontava solo in vista di grandi ricompense: oro e preziosi, schiavi, territori da signoreggiare e vassalli da sfruttare. Con il sostegno dei sovrani e quello della Chiesa in cerca di nuovi greggi da convertire e anime da salvare. Nella prima fase della Conquista l’oro ebbe un’importanza fondamentale, per il suo valore, commerciabilità e portabilità. Di oro se ne era trovato parecchio in Hispaniola e anche a Cuba e a Portorico, anche se nel secondo decennio del secolo la produzione antillana andò rapidamente declinando14. Altro oro si era trovato sulla terraferma atlantica dei Caraibi, detta anche Castilla de Oro. La ricerca dell’oro era tuttavia costosa in termini di manodopera e implicava disponibilità di servi o schiavi, da mantenere al lavoro in zone spesso impervie e isolate, il cui numero si assottigliava rapidamente per lo sfruttamento, le malattie, la morte e le fughe. 22 Capitolo primo E il declino della popolazione autoctona – particolarmente rapido nelle zone aurifere – minacciava questa fonte di ricchezza. L’oro che arrivava alla Casa de Contratación di Siviglia, era diminuito dai quasi 1.000 chilogrammi all’anno tra il 1511 e il 1520 a meno di 500 nel decennio successivo. È negli anni Trenta che gli invii di oro in Spagna si moltiplicano: 5.639 chilogrammi nel 1533, 3.470 nel 1534, 1649 nel 15.3515. Si trattò però della depredazione dell’oro tesaurizzato nel tempo dagli Inca, per fini cerimoniali e religiosi, in monili, oggetti votivi, arredi, sculture, perfino tegole e coperture dorate di edifici. L’orrendo riscatto di Athauallpa a Cajamarca non gli valse la vita, ma rese agli spagnoli 1.326.539 pesos di «buon oro» (quasi 6 tonnellate, e il doppio di argento). Tale fu il risultato contabile (al netto delle frodi) della fusione avvenuta in nove fornaci accudite da legioni di indios, sotto il rapace controllo degli spagnoli, fra il 13 maggio e il 25 luglio 153316. L’ammontare era enorme, e superiore a tutto l’oro arrivato a Siviglia dall’America nel decennio precedente. La suddivisione del prodotto della fusione arricchì qualche centinaio di spagnoli e la notizia del tesoro si sparse rapidissimamente in tutto il mondo ispanico. Non solo c’erano centinaia di testimoni diretti, ma questi avevano assistito a eventi impensabili, straordinari anche per le favole più fantasiose: il pellegrinaggio di indios che portavano a spalla gli oggetti del riscatto – quelli d’oro, aveva promesso e mantenuto Atauhallpa, avrebbero dovuto riempire una sala lunga 22 piedi e larga 17 (6,6 per 5,1 m) per un’altezza di uno estado e mezzo (2,35 m) – da luoghi lontani, anche dal Cuzco, a mille chilometri di distanza. Tre emissari di Pizarro si erano recati a Cuzco per accelerare la consegna dei tesori, e questi riferirono l’esistenza di edifici coperti d’oro. E la meraviglia per i tesori del Perú ebbe per testimoni anche i sivigliani, che assistettero sbalorditi all’arrivo della nave Santa María del Campo il 9 gennaio 1534, che trasportava 463 mila pesos di oro in barre (circa due tonnellate), corrispondente al «quinto» del tesoro, riservato alla Corona, assieme a oggetti di gran pregio e bella fattura che erano stati sottratti alla fusione riservandoli al re. La nave che trasportava il prezioso carico aveva come illustre passeggero Hernando Pizarro, fratello di Francisco, che a corte ricevette onori, privilegi e ricompense. Si trattava di trentotto vasi d’oro e quarantotto d’argento e un’aquila d’argento il cui corpo poteva contenere due cántaros17 d’acqua, e due pentole grandi, una Amazzonia 23 d’oro e una d’argento, così capienti che in ciascuna poteva starci una vacca tagliata a pezzi; e due sacchi d’oro, ciascuno dei quali poteva contenere due fanegas18 di grano; e un idolo d’oro delle dimensioni di un bimbo di quattro anni [...] Questo carico fu sbarcato al molo e portato alla Casa de Contratación, il vasellame a spalla e il restante in ventisette casse, che un par di buoi ne trasportavano due in una carretta19. Sulla rotta per Siviglia la nave fece sosta a Santo Domingo e Gonzalo Fernández de Oviedo ne dà precisa testimonianza – proprio a Santo Domingo dove, oltre alla funzione di cronista reale, svolgeva anche quella di alcalde della fortezza – avendo lì incontrato Diego da Molina che aveva presenziato ai fatti di Cajamarca. E a conferma dei suoi racconti [di Diego da Molina] stavano in mostra nella sua posada, e alla vista di tutti, due cántaros, o tinelli, di oro dell’altezza di quattro palmi, e di dieci palmi e più di circonferenza, con i loro coperchi, anche questi d’oro. Contenevano sei arrobas di acqua e pesavano più di 30.500 pesos di oro [16 chilogrammi] cadauna20. Volavano le leggende, tra gli spagnoli del Perú, di altri tesori celati o nascosti in luoghi inaccessibili: alla domanda se tutto il tesoro dell’Inca fosse stato consegnato agli spagnoli, un personaggio inca prese un chicco da un mucchietto di mais e rispose: «Questo chicco è quello che ha dato Atahuallpa dei suoi tesori, e il mucchio che rimane è ciò che di questi resta»21. In un’altra parte del continente, poco tempo dopo i fatti di Cajamarca, un’altra spedizione di ottocento uomini guidata da Gonzalo Jiménez de Quesada partì da Santa Marta (sulla costa caraibica, tra la laguna di Maracaibo e l’istmo di Panamá) il 5 aprile del 1536, e si diresse verso sud, risalendo il Río Grande (ora Río Magdalena). Le disavventure di questa spedizione furono assai maggiori di quelle di Pizarro e dei suoi che s’impadronirono dell’impero senza troppe perdite. Il clima torrido, gli attacchi degli indios, la fame, le malattie, gli incidenti di percorso ridussero la spedizione a meno di un quinto dei suoi componenti iniziali22. Quasi un anno dopo la partenza, arrivarono sulle terre alte, l’altopiano popolato dai Chibchas, etnie più evolute e organizzate, agricoltori ed eccellenti artigiani dell’oro, dominate dai due «regni» di Tunja e Bogotá. In particolare la sabana di Bogotá appariva prospera e ricca di sale, scambiato anche con oro con 24 Capitolo primo le popolazioni vicine, e lo stesso Quesada visitò una miniera di smeraldi che vide estrarre sotto i suoi occhi23. L’oro, pur non nelle quantità viste a Cajamarca, c’era; lo zipa (re) di Bogotá nonché il capo di Tunja avevano accumulato tesori che però sottrassero agli spagnoli. Disse Quesada nella relazione scritta per Oviedo «Utilizzano l’oro per gioielli e per adorno delle persone, e per le loro armi, e per molte cose ancora, come offerte per i loro templi, o per fare degli idoli o per adornare i loro morti; e allo stesso modo utilizzano gli smeraldi che hanno»24. E Cieza de León, che quella regione aveva percorso in lungo e in largo, scrisse: «Se ci fosse chi lo estraesse, c’è oro e argento da estrarre per sempre; perché nelle montagne, nelle pianure e nei fiumi e ovunque si scavi e cerchi si troveranno oro e argento»25. Gli spagnoli non avevano certo né tempo, né risorse, né inclinazione per farsi cercatori, ma c’era una via assai più rapida per procurarsi i preziosi. Quelli tesaurizzati dalla popolazione dovevano essere in grande quantità e furono rapinati o «riscattati» senza remore dagli uomini di Quesada nei mesi di permanenza nella sabana di Bogotá. Insomma, la regione era una promettente conquista, un nuovo Messico, o un nuovo Perú, e Quesada il 6 agosto 1538 fondò la città di Santa Fe, prima capitale del Regno di Nueva Granada (in omaggio alla sua patria di origine), l’attuale Colombia. La storia della spedizione di Quesada – simile, nella sua eccezionalità, a quella di altri grandi avventurieri – va però completata per capire l’origine della leggenda dell’Eldorado e della sua veloce diffusione. A poche settimane dalla fondazione di Bogotá, quando Quesada si apprestava a partire per la Spagna per reclamare la signoria della zona, due altre spedizioni si stavano avvicinando. La prima, con centosessanta uomini, veniva giù dalle montagne che separavano la sabana di Bogotá dai territori orientali del bacino dell’Orinoco, guidata dal tedesco Nicolaus Federman, partito da Coro (a est di Maracaibo) due anni prima con un seguito più che doppio. Federman era uomo dei banchieri tedeschi Welser, prestatori di grandi somme a Carlo V, cui era stata assegnata la regione del Venezuela con i diritti di esplorazione. L’altra era guidata da Sebastián de Benálcazar, uno dei più fidati e abili compagni di Pizarro, che era risalito da Quito dopo aver fondato Popayán e Cali, con una forza analoga ma non provata dalle traversie, ben equipaggiata, con cavalli e greggi di porci. Circolava, tra gli uomini di Benálcazar, la storia di El Dorado, si dice ascoltata da un indio a Quito, che aveva acceso la fantasia Amazzonia 25 di molti nel loro viaggio verso nord, dove si diceva si trovasse. Quando le tre spedizioni si incontrarono, la favola si sparse anche tra gli uomini di Quesada e di Federman, che poi a loro volta diffusero il racconto nelle varie parti del continente. Quesada, Federman e Benálcazar, invece, portarono alla corte di Carlo V, nel maggio del 1539, oltre ai loro racconti, oro, smeraldi e preziosi in quantità. Quesada affermava che dopo la conquista di Bogotá, settemila smeraldi erano stati distribuiti tra i suoi uomini, e tra questi «c’erano pezzi di grande valore»26. Lì si recarono assieme per dirimere precedenze, affermare priorità, richiedere titoli e benefici. L’entusiasmo per le ricchezze del Perú e di altri regni e territori – quelle vere, viste e toccate e quelle favoleggiate – era al massimo, appena offuscato dalla guerra civile già divampata tra le fazioni spagnole27. Negli anni 1530-1540 il mito dell’oro americano raggiunse il suo culmine, proprio quando la sua importanza economica cominciava un inesorabile declino. In poco tempo vennero depredati gli stock tesaurizzati da generazioni, si esaurirono i depositi alluvionali conosciuti, scomparve la manodopera indigena ed ebbe inizio un’attività mineraria che però richiedeva alti investimenti. Nel 1540-1550 cominciò la crescita della produzione d’argento con l’entrata in funzione delle miniere messicane e di quella – poi celeberrima – di Potosí, e l’invenzione dell’amalgama di mercurio per l’estrazione del metallo. L’argento superò ben presto l’oro in valore. Fra il 1530 e il 1540, però, la fama dell’oro era incontrastata, e si alimentava di altri miti e leggende. Tra queste, appunto, quella di El Dorado. In cosa consisteva il mito? Esso aveva radici nel territorio dei Chibchas (o Muiscas), nella cordigliera di Cundinamarca (oggi Colombia), che abbonda di lagune considerate sacre dagli indigeni, dove venivano gettati preziosi nel corso di cerimonie votive. Quella di Guatavita, quasi circolare, ai piedi delle montagne, posta a 2.600 metri di altezza era la più famosa28. La versione classica della leggenda racconta che il cacico di Guatavita, in determinate ricorrenze, si recasse alla laguna accompagnato da un corteo. Spalmato con un unguento speciale, e spolverato di polvere d’oro soffiata da alcune cannule, risplendeva d’oro. Sulla riva della laguna lo attendeva un’imbarcazione sulla quale saliva con alcuni sacerdoti e un carico di gioie; quattro rematori lo conducevano in mezzo al lago e lì si tuffava in acqua, tornando 26 Capitolo primo alla superficie lavato. Poi l’imbarcazione veniva affondata insieme alle gioie. Questo rituale si ripeteva in determinati periodi. Oviedo, uomo di mondo e un poco scettico, ironicamente racconta la storia così: Domandando io perché chiamino quel principe o cacico, o re, Dorado, gli spagnoli che sono stati a Quito e che sono venuti a Santo Domingo (ce ne sono più di dieci in questa città), dicono che a quel che se ne è saputo dagli indios è che quel gran signore o principe continuamente sta coperto di oro in polvere tanto fine come sale macinato; perché egli ritiene che indossare qualsiasi altro adorno è meno bello, e indossare pezzi o armi d’oro lavorate col martello o stampate o fatte in altra maniera, è una cosa grossolana e volgare, e che altri ricchi signori e principi le indossano quando vogliono: invece, incipriarsi d’oro è cosa originale, inusuale, nuova e più costosa, perché quello che si indossa la mattina, ci si toglie lavandosi di sera: e questo si fa ogni giorno dell’anno. Ed è abitudine che andando come va in tal forma vestito e coperto, non gli da né disturbo né impaccio, né si occulta od offende la bella proporzione della persona e la sua naturale attitudine, la qual cosa egli tiene in molta considerazione, cosicché non indossa nessun vestito né indumento alcuno. Io vorrei piuttosto possedere il «diritto di scopa»29 della camera di questo gran signore, piuttosto che quello relativo alle fonderie che ci sono in Perú od in ogni altra parte del mondo. Cosicché, dicono gli indios, che questo gran signore o re sia ricchissimo, e con un certo tipo di gomma o essenza assai odorosa, si unge ogni mattina, e sopra quell’unguento si pone e si attacca quell’oro in polvere e così fine per la funzione che ho detto, e che tutta la sua persona rimane coperta d’oro dalla pianta dei piedi fino alla testa, e così risplendente come una pepita d’oro lavorata da un grande artista. E credo che se un cacico così si adorna deve possedere miniere molto ricche di oro di somigliante qualità30. Quella che nel racconto di Oviedo era diventata amena leggenda, nella Nueva Grenada aveva però una sua credibilità. Hernán Pérez de Quesada, fratello di Gonzalo Jiménez, fece qualche ricerca ai bordi della laguna non senza risultati apprezzabili. Nel 1572 si tentò un prosciugamento parziale dello specchio d’acqua e furono trovati preziosi per un valore di 12 mila pesos31. Ma dov’era veramente il regno del Dorado? Tutta la storia della Conquista è intessuta di favole e miti, sia a nord sia a sud del continente. Colombo aveva l’idea fissa di trovarsi nelle prossimità del Catai; Juan Ponce de León, nel 1512, peregrinò tra le isole Bimini (le Keys, o Cayos, tra Florida Amazzonia 27 e Cuba) divulgando «la favola della fonte che faceva ringiovanire e trasformava in giovanotti i vecchi»32; Cabeza de Vaca e i superstiti della fallita spedizione di Pánfilo de Narváez in Florida alimentarono la leggenda di origine medievale delle «Sette città d’oro di Cibola», che attrasse in seguito le esplorazioni di Marcos de Niza e di Coronado verso Sonora e Arizona. Nel Sudamerica la ricerca dell’Eldorado divenne, per molto tempo, un motivo animatore di spedizioni di esplorazione e di conquista. O, per meglio dire, simboleggiava la ricerca di nuove ricchezze: territori con metalli o pietre preziose, con popolazioni da asservire, regioni da sottomettere. Ma era anche un pretesto per ricercare finanziamenti, arruolare avventurieri, motivare gli ignoranti, i creduloni o i disperati. Gli autoctoni quasi sempre assecondavano il mito, ponendo la regione di El Dorado al di là di alte catene di montagne, di selve impercorribili, di pianure spoglie, oltre una linea di confine che si spostava sempre più avanti nell’intento di sviare l’incombente pericolo dei barbuti europei. I visitatori stranieri erano ospiti esigenti, violenti, spesso affamati, sempre sgraditi; meglio era dirottarli alla ricerca del mito verso più lontane ed elusive regioni. Un esempio tra mille: i soldati di Jorge Espira (Hohemut), il governatore tedesco di cui Federman era capitano, dopo avere invano cercato di risalire il fiume Meta (affluente dell’Orinoco), per scavalcare la cordigliera, avevano appreso dagli indios di un’altra nazione, più a sud, che avevano pentole e orci e tutto il vasellame d’oro e d’argento [...] finalmente, le notizie che portavano erano tali, che agli spagnoli un’ora [di attesa] parevano mille, volendo andar avanti essendo sicuri che la ricchezza era grandissima [...] Uno degli indiani diceva che c’era stato ed aveva visto con i suoi occhi quelle grandi ricchezze [...] e che c’erano pochi giorni di cammino33. Un mito che si situò, in una prima fase, a oriente, nella vastissima regione equatoriale (almeno due milioni di chilometri quadrati) posta a est della cordigliera e formata dall’alto bacino dell’Orinoco e dal bacino del Río Negro. Una regione delimitata dalla cordigliera a occidente, il Río delle Amazzoni a sud, il meridiano (60° ovest) che passa da Manaus, segue parte del confine tra Guyana e Venezuela e tocca il margine destro del delta dell’Orinoco. Il grande naturalista tedesco Alexander von Humboldt, che nel 1799 intraprese il suo lungo viaggio scienti- 28 Capitolo primo fico «alle regioni equinoziali» e risalì l’Orinoco, fu affascinato dal mito dell’Eldorado. Con rigore teutonico, confrontando le cronache delle esplorazioni e dei viaggi, la toponomastica indigena, portoghese e spagnola, le carte geografiche antiche e quelle contemporanee, ricostruì la localizzazione dell’Eldorado secondo le convinzioni (o fantasie) dei vari esploratori, da Quesada a Espira a Walter Raleigh34. Ebbene, durante il Cinquecento la localizzazione del sito immaginario si spostò gradualmente dalle pendici della cordigliera orientale colombiana all’attuale confine tra Brasile e Guyana inglese, millecinquecento chilometri più a ovest. In seguito, il mito dell’Eldorado trovò altre localizzazioni, assai più a sud del continente, e le spedizioni non partirono solo dalla Colombia e dal Venezuela, ma anche da Quito, dal Cuzco e perfino da Asunción. Se l’oro era un fine e l’Eldorado una meta vagheggiata ed elusiva, non mancavano le energie per perseguirli. E alla fine del decennio 1530-1540 gli uomini disposti a correre i rischi di nuove avventure non mancavano. Domata la rivolta degli indios, terminato l’assedio degli spagnoli al Cuzco, si era di nuovo rotto il precario equilibrio tra i due maggiori protagonisti, e soci, della Conquista del Perú, Pizarro e Diego de Almagro. Quest’ultimo, reduce dall’avventurosa spedizione nel Cile, aveva rotto l’assedio al Cuzco e contendeva a Pizarro il predominio sul paese. La battaglia di Las Salinas (6 aprile 1538) nei pressi del Cuzco vide la vittoria dei pizarristi, l’esecuzione di Almagro e la sconfitta della sua fazione. Gli eserciti erano modesti: ottocento uomini d’arme dalla parte dei Pizarro, seicento dalla parte di Almagro (oltre a numerose schiere di indios di appoggio). Dopo la battaglia, il Cuzco ribolliva di uomini scontenti – soldati, capitani e altri avventurieri – con gli sconfitti desiderosi di rivincita e i vincitori ansiosi di ricompensa. Hernando Pizarro (Francisco era rimasto a Lima) cercò di normalizzare una situazione inquieta e pericolosa, e concesse licenza ai capitani di organizzare spedizioni di pacificazione, scoperta e conquista35. Ciò significava radunare soldati e indios di servizio e trasporto, cavalli, scorte alimentari e quanto fosse necessario in queste rischiose imprese. Molte delle spedizioni si diressero verso oriente: così quelle di Pedro de Candía e di Pedro de Anzures (Peranzures), che puntarono a valicare le Ande a est del Cuzco e discesero nelle terre basse, e terminarono entrambe con perdite disastrose. Pedro de Alvarado, uomo di grande valore Amazzonia 29 ed esperienza, puntò verso nord, fondò la città di Chachapoyas ai limiti estremi dell’impero Inca, giunse al fiume Huallaga, alla vana ricerca di una grande laguna popolata da genti ricche, ma fu costretto a tornare a Chachapoyas. Alonso de Mercadillo si spinse ancora più a nord di Alvarado, discese il corso dello Huallaga – non sappiamo se fino al Marañon – ma i suoi si ribellarono e lo riportarono in Perú, praticamente prigioniero. Ritornando indietro nel tempo, e a nord nello spazio, ancor prima che Federman s’imbattesse in Quesada e Benálcazar, a Bogotá, i tedeschi concessionari in Venezuela avevano tentato di addentrarsi nel continente partendo da Coro, sulla costa: prima Alfinger (Ehinger) dal 1531 al 1533; poi Espira (Hohemuth) dal 1535 al 1538, quindi Federman, partito nel 1536 e approdato a Bogotá tre anni dopo, l’unico che poté vantare un successo. È nel solco di questa tradizione che si inscrive la spedizione di Juan de Utre (Hutten) nel 1541, quando la leggenda dell’Eldorado, esplosa a Bogotá, era ancora pienamente in auge, cosicché la tragica e fallimentare spedizione partì da Coro con l’incarico ufficiale di esplorare il paese di Eldorado36. Tutte le spedizioni ricordate, e altre ancora, entrarono nel bacino del Grande Fiume e alcune vi giunsero, ma nessuna di queste lo «scoprì» veramente, e ne riconobbe la vera natura. Fino, in quello stesso 1541, alla spedizione di Gonzalo Pizarro, alla ricerca di «Eldorado e del paese della Cannella» e del suo luogotenente Francisco de Orellana che, quasi accidentalmente, lo percorse per primo. Ne parleremo nel capitolo che segue. Occorre adesso fare un salto avanti nel tempo di qualche decennio, perché la spinta alle nuove scoperte cominciò a esaurirsi. I fallimenti scoraggiarono iniziative di grande portata e dei costi elevati. Quasi tutte andavano incontro a esiti disastrosi, con grandi perdite per chi le aveva finanziate. Oltre le Ande c’erano selve impenetrabili, rade popolazioni arretrate, non c’erano regni o signori, né ricchezze tesaurizzate da rapinare. Alla metà del secolo la spinta che incrociava il mito dell’oro con l’energia dei primi conquistatori si andava esaurendo. Nel 1550, al termine delle guerre civili, una cédula («decreto») reale vietò la concessione delle licenze di esplorazione forse anche per evitare un ulteriore dissanguamento delle risorse del paese, dopo un quarto di secolo di conflitti – indios contro indios, spagnoli contro indios, spagnoli contro spagnoli. Questo divieto non fu né assoluto né definitivo, 30 Capitolo primo ma marca la fine di un’epoca37. Le spedizioni costavano: occorreva denaro, uomini, portatori, cavalli e animali da soma, animali in branchi e greggi, scorte di cibo, armi, attrezzi di ogni genere. Il capitano generale (e i suoi soci, se ne aveva), doveva «anticipare» tutte le spese della spedizione (per questo si chiamava adelantado, da adelantar o «anticipare»): decine di migliaia di pesos di oro, dei quali solo persone ricchissime potevano disporre. L’epoca eroica dell’esplorazione era quasi conclusa. Cieza de León, che dalla costa caraibica aveva viaggiato in lungo e in largo fino all’alto Perú, con esperienza diretta di luoghi, fatti e persone, si mostrava scettico sui risultati delle esplorazioni verso oriente: Dallo stretto di Magellano inizia la cordigliera o dorsale di montagne che chiamiamo Ande, e attraversa molte terre e grandi province, come scrissi nella descrizione di questa terra, e sappiamo che dalla parte del Mare del Sud (che è a ponente) si trovano nella maggior parte dei fiumi e delle valli grandi ricchezze e le terre e province che stanno a levante si considerano povere di metalli, secondo quello che dicono i conquistatori che vennero dal Rio de la Plata38. Insomma, nell’opinione di Cieza de León, oltre le Ande, a oriente, era inutile cercare l’Eldorado. Mentre il mito di Eldorado e di ricche e grandi conquiste si andava dissolvendo man mano che il tempo passava, altri e più realistici obiettivi andavano precisandosi. Se a oriente non c’erano tesori da depredare – come tra i Chibchas e gli Inca – c’erano però zone aurifere che potevano essere sfruttate e altre ancora, non note, da individuare; c’erano popolazioni, sia pure sparse, da sottomettere, estendendo le conquiste Inca, per rafforzare il controllo del territorio; si potevano organizzare spedizioni per la cattura di schiavi; c’erano altre promettenti risorse, come la cannella e il cotone. Le regioni del versante orientale della cordigliera erano certamente marginali rispetto al baricentro del popolamento andino, ma costituivano anche una delicata cerniera tra le civiltà delle terre alte e quelle dell’alta Amazzonia, intessuta da una notevole varietà di etnie. La storia della penetrazione spagnola illustra assai bene la disastrosa dinamica del contatto con popolazioni meno strutturate, articolate e coese e per certi aspetti assai più fragili. Tra il 1540 e il 1580 la penetrazione degli spagnoli verso oriente si sostanzia nella fondazione di «città» – per lo più miserabili Amazzonia 31 aggregati abitati da pochi residenti (vecinos) spagnoli, meticci, indios di servizio – spesso dell’esistenza effimera. Alcuni di questi insediamenti avvennero in zone aurifere: le prospezioni moderne hanno confermato che depositi alluvionali di oro si trovano in buona parte dell’alto corso dei fiumi dell’alta conca amazzonica, con variabili concentrazioni di metallo e con accesso spesso difficile39. La cronologia della penetrazione è complessa, ma ecco alcune tappe cruciali: nel 1550 Alonso de Mercadillo e i suoi fondarono Zamora; nel 1557 e nel 1558 fu la volta di Valladolid e di Santiago de las Montañas, per opera di Juan de Salinas; nel 1562-1563, vennero fondate Baeza e Ávila; nel 1564 Logroño; nel 1576 Sevilla de Oro. I nuovi insediamenti, cui veniva dato il nome di città della madrepatria, erano compresi grossomodo tra l’equatore (parallelo di Quito) e 5° circa (550 chilometri) di latitudine sud, ed erano posti sul versante orientale delle cordigliere, dai 2.000 metri di altitudine fino al fondovalle. Juan de Salinas, con riferimento a Valladolid, scrisse: In tutte le acque ed i fiumi di questa valle si trova dell’oro, ed in particolare io avevo scoperto, quando partii, miniere molto ricche, come si desume dai saggi e campioni che si trovarono in tre diversi posti, che promettevano grandi ricchezze. Lo steso Juan de Salinas trovò in Zamora una pepita di diciotto libbre, che Filippo II conservava nella sua camera da letto40. La penetrazione spagnola si rivelò presto disastrosa per le popolazioni locali, asservite e sfruttate per la ricerca dell’oro e per il sevizio personale. Ribellioni esplosero in varie zone della vasta regione, alcune localizzate, altre estese. Nel 1578 una sollevazione generale nella regione dei Quijos provocò la distruzione di Ávila e Archidona e l’assedio di Baeza; nel 1579 Logroño venne salvata dall’attacco dei Jivaros dal soccorso delle città vicine; nel 1599 ancora i Jivaros si ribellarono in massa, e questa volta Logroño e Sevilla de Oro vennero distrutte e abbandonate. Verso la fine del secolo l’intrusione spagnola cominciò a ritrarsi, sia per l’esaurimento dei depositi auriferi sfruttati, sia per il diradarsi della popolazione indigena – per l’alta mortalità, le fughe, la dispersione in aree meno accessibili – sia per la debolezza di altre attività economiche quali la coltivazione del cotone e la tessitura. Inoltre, gli spagnoli non avevano le risorse, umane e materiali, sufficienti per controllare territori così estesi. 32 Capitolo primo Le città – come già detto – erano modesti aggregati instabili e gli scarsi ritorni economici determinarono prontamente la loro decadenza e l’abbandono. Lo spopolamento degli autoctoni e i conflitti con gli spagnoli crearono una frattura tra la società andina e quella amazzonica, e quei legami sia pur tenui che le tenevano riunite prima del contatto europeo si diradarono e lacerarono42. La discontinuità e la lontananza tra il mondo andino e il mondo amazzonico si tradussero in frattura e separatezza. La breve sintesi delle vicende della penetrazione spagnola a oriente delle Ande trova un’articolata conferma nella storia del rapido spopolamento del Governatorato dei Quijos. Con questo nome gli spagnoli definirono una regione dai confini incerti – solo quelli a est segnati dalla cresta delle Ande erano ben definiti – prossima a Quito (ottanta chilometri a est in linea d’aria si trova Baeza, il suo centro principale), nell’alto bacino del Grande Fiume; abitato da un’etnia (i Quijos, o Napo-Runa) fortemente collegata ai più avanzati gruppi Chibchas dell’altopiano43. Si trattava, dunque, di una popolazione con la tipica funzione di cerniera tra l’altopiano e l’alta Amazzonia: le sue vicende preludono e anticipano quelle delle altre popolazioni protagoniste di questo libro. La spedizione di Gonzalo Pizarro del 1540-1541, che racconteremo nel prossimo capitolo, passò tra i Quijos. I termini della loro catastrofe sono sintetizzati dal fatto che nel 1576, a poco più di dieci anni dalla fondazione di Archidona e di Baeza, e dall’insediamento delle prime famiglie spagnole, si contavano circa 6.800 indios tributari; poco più di trent’anni dopo, nel 1608, i tributari erano scesi a 2.300, due terzi in meno. Dei Quijos sono giunti fino a noi preziosi documenti: in particolare la relazione del visitatore della regione, il licenciado Diego Hortegón, del 1576; il racconto della ribellione del 1577 fatta da Toribio de Ortiguera; una relazione del 1609 del conte di Lemus44. Nel 1556 il viceré marchese de Cañete incaricò il governatore di Quito di «pacificare» e sottomettere le popolazioni Quijos; questi cominciò la sua azione all’inizio del 1559 con trentanove soldati e l’appoggio di un cacico amico che, a sua volta, attrasse altri capi della regione. Dopo la fondazione delle «città» di Baeza, Ávila e Archidona, la ricerca e lo sfruttamento dei giacimenti minerari, la ricerca infruttuosa della cannella, la coltivazione del cotone e la manifattura tessile, il servizio perso- Amazzonia 33 nale, determinarono lo scontento generale e localizzate sollevazioni. Gli spagnoli encomenderos sfruttarono all’eccesso le risorse del territorio e gli indios a loro affidati, e non furono capaci di creare attività produttive capaci di sostentare autonomamente le comunità e creare eccedenti commerciabili: insomma, non riuscirono a adattarsi all’ambiente amazzonico. Hortegón, un membro (oidor) dell’Audiencia di Quito, nella relazione della sua visita, durata quaranta giorni, scrisse: Nelle tre città di Baeza, Ávila e Archidona ho tolto gli obblighi oppressivi di servizio personale, che erano molti, che ricadevano sugli indios, e detti ordine che si pagasse il servizio degli indios tributari con quello che si deve loro, che sono pezze di stoffa e mantelli, di modo che prestino servizio e avanzi loro il tempo per allevare i figli e coltivare i campi45. Lo stesso Hortegón dispose che si aprisse una strada – transitabile per i cavalli – per collegare i villaggi e alleviare i carichi che gli indios dovevano trasportare; inoltre, dispose che si indottrinassero gli indios, togliendoli alla totale soggezione degli encomenderos, perché «molti di questi indios non hanno né capi né signori principali cui rivolgersi, se non coloro che gli danno meglio da mangiare e da bere»46. Le disposizioni di Hortegón non servirono a migliorare le condizioni degli indios, e lo scontento si accentuò: si disse anzi che le multe comminate da Hortegón agli spagnoli – e l’uccisione dei loro cani «che erano fieri nel combattere e nell’addomesticare gli indios» – furono la causa specifica della rivolta. Infatti, gli encomenderos, per rifarsi delle penalità inflitte (e delle spese e del salario dello stesso Hortegón e dei suoi accompagnatori) imposero ulteriori aggravi di lavoro agli indios per filare e tessere una gran quantità di stoffe. «Questi, vedendosi così oppressi, colsero l’occasione che si offrì loro [...] per la mancanza dei cani compagni e guardiani degli spagnoli»: una miccia che scatenò la rivolta. Il narratore rivela poi lati assai più complessi della rivolta che covava da tempo sotto la cenere e della quale tirarono le fila gli sciamani (pendes) delle varie comunità, in particolare tre di loro, chiamati Guami, Beto e Jumandi. Questi si accordarono per assaltare Ávila e Archidona con due azioni di sorpresa, il 29 novembre 157847. Tutti gli spagnoli, uomini, donne e bambini dei due villaggi, vennero trucidati, così come buona parte dei loro indios di servizio; dopo la strage e il saccheggio, case, fabbricati 34 Capitolo primo e chiesa vennero incendiati. Ortiguera, che sicuramente si avvalse delle testimonianze di qualche superstite, riferisce le circostanze del massacro di Ávila, casa per casa, famiglia per famiglia, persona per persona, con nomi e cognomi: 47 spagnoli di ogni età uccisi, dei quali 18 maschi e 29 femmine, più un imprecisato numero di indios e indios di servizio cristianizzati. Nella «visita» due anni prima si erano contati 12 capifamiglia spagnoli, 7 dei quali indicati nominativamente dal cronista tra i massacrati (un altro si trovava a Quito). Al comando di Jumandi gli indios riunirono le forze e si rivolsero contro Baeza, il centro maggiore, che però aveva avuto sentore della rivolta e aveva richiesto aiuto a Quito. All’assedio di Baeza fu posto fine, qualche giorno dopo, dall’arrivo dei soccorritori da Quito, 300 uomini a piedi e a cavallo; gli indios vennero dispersi, i capi arrestati e puniti. Jumandi e i tre pendes a capo della sommossa, inviati a Quito, furono esibiti per le vie della città, torturati con tenaglie incandescenti, impiccati e squartati, le testa affissa sulla pubblica piazza, gli arti esposti lungo le strade come pubblico ammonimento agli indios che affollavano la città48. «I cacichi e gli altri colpevoli della provincia di Quito vennero esiliati alla costa del mare [...] assai più calda e di diverso clima delle zone dalle quali furono esiliati [...] e tutti morirono in poco tempo»49. Gli indios dovettero ricostruire Ávila e Archidona e furono ripartiti tra i nuovi encomenderos scelti dall’Audiencia di Quito. La rivolta del 1578 – qui riportata con qualche dettaglio – è il paradigma dei rapporti iniziali tra spagnoli e indios in alta Amazzonia. Non dappertutto prevalse la crudele oppressione o avvennero rivolte, massacri e cruente repressioni, ma ovunque le modalità dell’intrusione europea ne predisposero le condizioni. La visita del 1576, e la relazione del 1608, permettono – come ricordato più sopra – di fare qualche considerazione circa i mutamenti che avvennero nel periodi in questione. Nel 1576 nei distretti delle tre «città» vivevano 16.519 indios, dei quali i tributari erano 6.803; i capifamiglia erano 4.467, e meno della metà degli indigeni erano cristianizzati. All’entrata degli spagnoli, meno di vent’anni prima, si valutò il loro numero in 30 mila, ma non si sa a quale territorio questo numero corrispondesse. C’erano 3,7 componenti per famiglia – meno del numero medio trovato in alta Amazzonia due secoli dopo (cap. VII); i bambini e i giovani non sposati erano il 37% della popolazione (una pro- Amazzonia 35 porzione assai bassa); e c’erano 1,2 bambini (presumibilmente sotto i sette anni) per coppia coniugale. L’incertezza circa la qualità dei dati e il loro scarso dettaglio non permettono certo di tirare conclusioni solide; essi però non sono incompatibili con una popolazione sotto stress e in declino, con pochi giovani e giovanissimi. La relazione del Conde de Lemus (datata 1608) include, oltre a Baeza, Archidona e Ávila, anche Sevilla de Oro, non citata nel conteggio del 1576 perché fondata in quell’anno (e distrutta dalla rivolta dei Jivaros nel 1599 e rifondata in seguito). Gli indios tributari erano 2.335 (– 66% rispetto al 1576) e l’intera popolazione ammontava a circa 6.000 unità (– 63%). Repressione della rivolta del 1578? Alta mortalità? Riproduzione insufficiente? Fughe e migrazioni? Omissioni nei conteggi? Non è dato saperlo. C’erano però 52 case (famiglie?) di spagnoli, criollos e meticci, contro i 41 vecinos del 1576 (più o meno lo stesso numero, se si tiene conto che nel 1608 c’era Sevilla de Oro). Quel che era fortemente diminuito era il numero medio di tributari per encomendero, calato da 166 a 42 in trent’anni, sintomo evidente dell’impoverimento demografico della zona, e di quello economico degli spagnoli che vi risiedevano50. Ritorniamo al protagonista, il Grande Fiume, che gli occhi europei videro per la prima volta nel 1500, ma del quale le orecchie spagnole udirono fin da quando misero piede nel Perú. Quel Grande Fiume, che per vari decenni sollecitò poca curiosità ed esercitò scarsa attrattiva dalla parte del suo estuario, ma che a monte fu meta di grandi e piccole spedizioni sin dalla fine degli anni Trenta del Cinquecento, spinte le prime da grandi aspettative di ricchezze e di genti, mosse, le seconde, dalle più mondane necessità di consolidare la colonia nei suoi margini amazzonici e da più modeste ambizioni di guadagno mediante la difficile ricerca dell’oro e lo sfruttamento della manodopera india. Il caso della regione dei Quijos ha reso evidenti i disastri che anche poche decine di spagnoli poterono infliggere alla società indigena. In una dimensione assai poco epica ma comunque drammatica che sarà, però, la cifra del graduale disvelamento del Grande Fiume agli occhi occidentali, come vedremo più oltre. Adesso ritorniamo alla dimensione epica e alla narrazione delle prime navigazioni dell’intera Amazzonia, quella casuale di Orellana, luogotenente di Gonzalo Pizarro, e quella drammatica di Ursúa e Aguirre, un ventennio più tardi. II. Gonzalo Pizarro varca le Ande in cerca di ricchezza. Niente oro, poca cannella, tanta fame. Cinquantasette rionauti discendono l’Amazzonia. Doni, razzie e frecce avvelenate. Un frate perde un occhio e prende la penna. In mare aperto così invece in Conquista I l 26 dicembre 1541, tra necessità e azzardo, prese il via l’eccezionale navigazione del Grande Fiume, dai piedi delle Ande fino al «mare del Nord», cioè l’Atlantico. A intraprenderla fu Francisco de Orellana, luogotenente di Gonzalo Pizarro, con una cinquantina di compagni, a bordo di un barcone costruito con mezzi di fortuna sulle rive del Coca, un affluente del Napo, uno dei grandi tributari del bacino settentrionale del Río delle Amazzoni. La navigazione dei 5.000 chilometri di fiume fu tormentata: dei 57 (o 54, o 51, a seconda delle testimonianze) improvvisati marinai, 7 (o 8) morirono di febbri e stenti e 3 furono uccisi – 2 colpiti da frecce avvelenate – nei conflitti con gli indios rivieraschi. Moltissimi furono feriti, tutti soffrirono la fame a più riprese. La navigazione fu lunga, perché Orellana e i suoi compagni entrarono nel mare aperto il 26 agosto 1542, 244 giorni dopo la partenza. Avrebbero poi impiegato altri 16 giorni per approdare nell’isola di Cubagua, di fronte alla costa «delle perle» del Venezuela, finalmente tra compatrioti spagnoli. Tra i compagni di Orellana c’era un religioso domenicano, padre Gaspar de Carvajal, anche lui, come Orellana, nativo di Trujillo in Estremadura: in una scaramuccia con gli indios si beccò una freccia in un occhio, rimanendo orbo. La menomazione non gli impedì, al ritorno, di scrivere una Relación [...] del nuevo descubrimiento del famoso Río Grande... una cronaca dell’avventuroso viaggio, ricca di osservazioni lette, talvolta, attraverso la lente del mito1. Un mito che sospinse e avvolse le esplorazioni delle sconosciute immensità oltre la cresta delle Ande nei primi decenni della Conquista. Carvajal è il primo europeo a vedere e poi raccontare la società rivierasca amazzonica, involontario rionauta, affamato e inquieto. Ciò che ha scritto è una testimo- 40 Capitolo secondo nianza preziosa per la storia e l'antropologia, ma deve essere depurata dalle scorie del mito, dell’immaginazione e del timore, e interpretata alla luce di altri fatti consegnati dalla storia e dalle osservazioni successive. Il racconto di Carvajal può essere letto e interpretato su tre piani. Il primo è quello delle dimensioni del mondo amazzonico e dei «numeri» che egli propone. La molteplicità dei villaggi incontrati, la loro approssimativa popolazione, le distanze percorse, le canoe – amichevoli o ostili – che vengono incontro ai rionauti, i «guerrieri» sgominati in scaramucce e battaglie, le leghe percorse tra rive deserte, oppure animate da insediamenti e villaggi. Sono numeri che vanno, tutti, interpretati: per esempio, le distanze sono sicuramente convenzionali: una lega in teoria varrebbe 6,2 chilometri2, ma Carvajal dice di averne percorse nel fiume 1.800 (circa 11 mila chilometri), più del doppio di quelle che separano il punto di partenza dallo sbocco nell’Atlantico. La lega era anche un’unità «temporale» – il percorso che un contadino poteva coprire in un’ora di cammino – e non è escluso che per padre Gaspar la distanza fosse commisurata ai tempi della navigazione fluviale3. In una giornata di voga in favore di corrente, le imbarcazioni nel fiume potevano percorrere fino a venti leghe nell’arco delle dodici ore di luce4. Nella relazione appaiono sicuramente esagerati i numeri degli indios ostili, visti o intravisti o presunti, o, ancor più, quelli ingaggiati in scaramucce e battaglie. Il racconto di Carvajal, inoltre, contiene notizie che possono condurre, sia pure indirettamente, a ipotesi interessanti sulla natura della società amazzonica. I cinquanta e passa rionauti – soldati avvezzi a tutto, ma certo non addestrati a sopravvivere nel difficile ambiente amazzonico – dovevano nutrirsi. Risalta evidente dal racconto di questa, come di altre avventure, che il mezzo di sopravvivenza più efficiente, per un gruppo numeroso, era la razzia di cibo nei villaggi di indios. Nella loro imbarcazione artigianale c’erano armi, munizioni, polvere da sparo, qualche utensile, ma non scorte di cibo. Ed era proprio per andare a procurarsi cibo che il natante era stato costruito dalla stremata spedizione di Pizarro. Nelle zone disabitate i rionauti patiscono la fame; nelle zone popolate sopravvivono, procurandosi il cibo con le buone, ma soprattutto con le cattive. Nelle zone molto abitate, nelle quali era possibile una convivenza con gli indigeni, sia pure cauta e armata, i rionauti facevano sosta, per giorni e a volte anche per settimane, vivendo di ciò che riuscivano a Amazzonia 41 spremere dagli indigeni, riposandosi, attrezzandosi, rifornendosi di vettovaglie, per poi ripartire. Infine altre ipotesi possono fondarsi su ulteriori altri indizi, come l’esistenza di gerarchie nei villaggi; il livello tecnologico testimoniato dalla fattura delle capanne, delle ceramiche, dei tessuti e dei manufatti; la presenza di coltivazioni, di depositi e riserve, perfino di bacini artificiali per le tartarughe catturate per alimentarsene; l’esistenza di camminamenti, sentieri e pontili. Tutti elementi che permettono di presumere un’organizzazione sociale più o meno complessa, e il grado di complessità è spesso legato alla numerosità dei gruppi sociali. Ancora, le tracce di scambi tra gruppi e tribù sottintendono la disponibilità a muoversi, l’esistenza di specializzazioni, la formazione di surplus da barattare. Perché Orellana iniziò la sua navigazione dalle rive del Coca? Prima di «leggere» con i nostri occhi il racconto dell’orbo Carvajal, vale la pena ricordare le circostanze della spedizione. Erano passati appena otto anni dalla spartizione delle sei tonnellate d’oro e dodici d’argento del riscatto di Atahuallpa, dalla sua nefanda uccisione, dall’entrata di Francisco Pizarro al Cuzco, e già varie costose spedizioni erano state intraprese oltre le Ande in cerca di nuove conquiste (cap. I). In cerca, soprattutto, di oro e del favoloso El Dorado, un mito che il tesoro di Atahuallpa, i tetti d’oro dei templi del Cuzco, i gioielli e i monili dei Chibchas in Colombia, rendevano plausibile5. A «ricercar la cannella e un gran principe che chiamano Dorado» fu inviato un personaggio illustre, Gonzalo Pizarro, il più giovane dei fratelli Pizarro, nominato da Francisco governatore di Quito e incaricato di un’esplorazione oltre la cordigliera. La cannella (cinnamomum zeylanicum) è un albero dalla scorza preziosa, del quale si era incontrato qualche esemplare nella regione quitense: se ne fosse trovata in quantità, si sarebbe potuto impiantare un commercio lucroso – forse più dell’oro – come quello con le Molucche. Giunto a Quito nel dicembre del 1540, Gonzalo impiegò qualche mese a organizzare la spedizione (con un investimento di 50 mila pesos d’oro), che constava di 210 uomini (molti a cavallo), l’usuale imponente seguito di 4.000 indios, 4-5.000 maiali, 1.000 cani, greggi di lama per alimento e trasporto6. Un’avanguardia partì alla fine di febbraio del 1541, non molti giorni dopo fu la volta del grosso della spedizione sotto la guida di Gonzalo, che aveva rivolto a Orellana, che si trovava a Guayaquil, l’invito a raggiungerlo con 42 Capitolo secondo rinforzi. Orellana, che aveva trent’anni ed era passato alle Indie da adolescente, aveva contribuito con un importante contingente di uomini alla vittoria della fazione pizarrista nella battaglia di Salinas contro Almagro (la prima guerra civile peruviana), ed era stato poi incaricato da Francisco Pizarro di rifondare la città di Santiago di Guayaquil, in posizione strategica sul mare. La spedizione valicò la cordigliera a oltre 4.000 metri di altezza, a prezzo della vita di molti indios morti di freddo e di stenti («cento indios e indias congelati», annota Cieza de León7) e riscese il versante orientale delle Ande, inoltrandosi nella selva presto rivelatasi ostile e impraticabile per una spedizione di quelle dimensioni e senza una meta precisa. Gli indios fuggirono o morirono, così molti cavalli, e si persero animali e vettovaglie. Molto tempo fu speso in esplorazioni, in avanguardie inviate alla riceca del retto cammino, in continuo vagare. Di alberi della cannella ne trovarono pochissimi, e per la verità non di cannella si trattava ma di una pianta simile (nectandra cinanomoides8). Verso novembre giunsero sulle rive del Coca e Pizarro incaricò Orellana, che nel frattempo lo aveva raggiunto con ventitré compagni (trenta, secondo Cieza 9) dopo un avventuroso viaggio, di costruire un’imbarcazione che all’inizio serviva a trasportare gli infermi, le scorte e le salmerie giù per il fiume, mentre il grosso seguiva via terra. Dopo un tratto di discesa del fiume, la mancanza di approvvigionamenti si fece drammatica e venne deciso che Orellana continuasse la navigazione per cercare rifornimenti, con l’impegno di tornare indietro dopo dodici giorni. Per la verità, non è dato conoscere esattamente quale fosse l’accordo con Orellana, se questi avesse dovuto tornare indietro, o attendere Pizarro evitando di risalire il fiume, o, in caso di avversità, continuare a scendere verso il «mare del Nord». In ogni caso Pizarro, dopo una lunga e vana attesa e altri tentativi di esplorazione, volse faticosamente verso Quito, dove riemerse nell’agosto del 1542; aveva perduto metà degli uomini e gran parte dei cavalli; tutti gli indios erano morti, o dispersi o fuggiti. La spedizione era stata un fallimento totale; era penetrata poco profondamente nei territori incogniti a est delle Ande, non aveva incontrato né ricchezze, né cannella, né popolazioni da sottomettere, né territori propizi da conquistare. Nella lettera al re, nel settembre del 1542 (più o meno quando Orellana approdava all’isola di Cubagua), Pizarro scrisse che era rientrato a Quito con i compagni superstiti «con solo le loro spade e qualche rozzo bastone nelle mani»10. Amazzonia 43 Questo breve riassunto dell’antefatto non da pieno conto delle vicissitudini degli spagnoli – ben raccontate da Gonzalo Pizarro nella sua lettera al re, così come dai contemporanei Oviedo e Cieza de León. Ma non dà conto nemmeno di ciò che è fondamentale per comprendere il rapporto tra spagnoli e indigeni nell’esplorazione amazzonica. E cioè delle continue violenze e uccisioni avvenute nei vari incontri con gli indios della regione di Quijos. Un episodio citato da Cieza de León vale la pena di essere riferito. Mentre la spedizione è attestata nella valle nei pressi del vulcano Sumaco – poco dopo l’arrivo di Orellana – Gonzalo decide di avviare un’esplorazione con settanta compagni in cerca dell’albero della cannella, e strada facendo cerca di raccogliere informazioni dagli indios del luogo. Ritenendo che questi fossero reticenti – probabilmente non capivano e non sapevano ciò che veniva loro richiesto – Gonzalo ordinò che fossero torturati con il fuoco e ne fece morire alcuni. E il carnefice Gonzalo Pizarro non solo non si peritò di bruciare gli indios di nulla colpevoli, ma ordinò che altri fossero dati in pasto ai cani, i quali li sbranarono e divorarono; e tra quelli che bruciò e dette ai cani ho appreso che ci fossero anche alcune donne, per colmo di malvagità11. Può darsi che il racconto amplifichi la realtà: la rivolta di Gonzalo Pizarro era terminata con la sua esecuzione due o tre anni prima che Cieza raccontasse l’episodio. Ma queste crudeltà erano comuni e furono a lungo il biglietto da visita dei conquistatori tra le popolazioni amazzoniche. Torniamo a quel 26 dicembre 1541, quando Orellana si staccò dal corpo principale di una spedizione sperduta, incerta e affamata. Si ritiene che la separazione da Pizarro avvenisse alla confluenza tra il Coca e il Napo, presso la moderna città di Coca (il cui nome ufficiale è Puerto Francisco de Orellana). I suoi compagni provenivano, in maggioranza, dalle terre di Estremadura e Andalusia, ma c’erano anche valenziani, baschi, asturiani, galiziani e portoghesi. Oltre a frate Gaspar, un altro religioso mercedario, padre Gonzalo de Vera, era addetto alla cura delle anime dei rionauti e degli indios disposti ad ascoltarne le prediche12. L’imbarcazione, accompagnata da due canoe di appoggio, discese le prime duecento leghe del Napo tra rive spopolate, con buona velocità perché il fiume «iba crecido» a causa delle 44 Capitolo secondo piogge, cosicché venivano percorse venti o venticinque leghe al giorno. I rionauti, consumate le poche provviste, digiuni, affamati ed esausti, vanno in cerca di erbe e radici che cuociono bollite «con cuoio, cinture e suole di calzature»13. Disputano sull’idea di tornare indietro, ma andare controcorrente sembra impossibile così come risalire il corso del fiume via terra, per rive impraticabili. Finalmente, la sera dell’8 gennaio odono in lontananza rulli di tamburi segno che finalmente sono vicini a luoghi abitati; il giorno successivo incontrano quattro canoe con molti indios, che fuggono a precipizio segnalando agli abitanti rivieraschi l’arrivo degli stranieri. Apparentemente gli spagnoli avevano superato la confluenza con il fiume Aguarico (sulla sinistra) ed erano a circa venti leghe dalla confluenza col Curaray (sulla destra). Sembra che gli abitanti di questo villaggio (che Oviedo chiamò Imara) vincessero la diffidenza e accogliessero i numerosi stranieri senza ostilità, dando luogo a un notevole andirivieni di visitatori dalle vicinanze. Questa regione fu poi battezzata dai rionauti «Aparia minore», per distinguerla dalla «maggiore» traversata in seguito. Ciò che è certo è che trovarono cibo a sufficienza (yucca, mais, volatili, pesci), almeno all’inizio, e comunque non furono disturbati dagli indigeni. Poiché il barco era in condizioni precarie, sorse l’idea di costruire una nuova imbarcazione (un brigantino, cioè provvisto di albero e coperta14): costruirono una fucina improvvisata, si approvvigionarono di legna e carbone e nei giorni successivi riuscirono a produrre duemila chiodi e altre utili ferramenta. Tuttavia il progetto fu temporaneamente abbandonato, e i rionauti ripartirono il 2 febbraio, dopo essersi riforniti di cibo. Nel frattempo, sette compagni erano morti di stenti e malattie, e l’idea di inviare una pattuglia alla spedizione di Pizarro fu definitivamente abbandonata, per mancanza di volontari. Ripreso il viaggio, l’intenzione di prender terra alla confluenza col Curaray per visitare un altro villaggio venne frustrata per la piena del fiume. Nella versione raccolta da Oviedo, la partenza fu anche dovuta all’ostilità emergente degli indios, che avevano sospeso i doni di cibarie. Passata la confluenza del Curaray, i rionauti ebbero notizia che di fronte a loro si estendevano terre spopolate e che solo duecento leghe più avanti avrebbero trovato villaggi abitati. In effetti, raggiunto il Río delle Amazzoni (confluenza di Santa Olalla, secondo Oviedo), a fine febbraio raggiunsero una regione che battezzano «Aparia» dal nome del signore principale. La Amazzonia 45 comitiva sbarcò in un villaggio, passò poi a un altro dove rimase tre giorni; gli indios sembravano ospitali e generosi con il cibo. Passando oltre, scriveva Carvajal: «Navighiamo per il nostro fiume in vista di buoni villaggi». Furono raggiunti da emissari del Signore di Aparia e invitati nel villaggio principale. Gli indios erano ovunque «muchos», il Signore di Aparia era accompagnato da «muchos principales y señores» e vennero offerte «muchas» provviste. Orellana contraccambiò doni e cortesie, e si imbarcò in un lungo discorso (forse in quechua) sull’unico Dio dei cristiani e su Carlo, imperatore e re di Spagna, e sul fatto di esserne l’inviato15. Secondo Carvajal, il discorso fece ottima impressione. Nei giorni seguenti gli spagnoli ricevettero la visita di ventisei signori; Orellana fece costruire una grande croce e prese possesso della regione in nome di sua maestà, mentre gli indios puntualmente rifornivano gli spagnoli di cibo. Siamo, più o meno, nella regione dell’attuale frontiera tra Perú, Colombia e Brasile. Nel villaggio principale di Aparia, vista la buona disposizione degli indios e la localizzazione favorevole, Orellana decise di mettere mano alla costruzione del brigantino. Occorsero sette giorni per abbattere gli alberi e farne tavole; nei trentacinque giorni seguenti si fecero altri chiodi e serramenti con una fucina improvvisata; si costruirono lo scafo e la coperta, si calafatò ed impeciò, si varò finalmente il manufatto. Misurava 19 goas, ovvero circa 14 metri16. Nel frattempo venne riparato anche il barco ed entrambe le imbarcazioni furono rifornite di viveri. La partenza dal villaggio avvenne il 24 aprile; fino ad allora erano state percorse circa 400 leghe (conteggio di Carvajal), e per uscire dalla signoria di Aparia dovettero percorrerne altre 80, mentre si rarefacevano i villaggi, il cibo scarseggiava e si riaffacciava la fame. Il 12 maggio i rionauti arrivarono alla «terra dei Machiparos». Questa si trova su un vasto pianoro sulla riva del fiume (verso la confluenza con il fiume Tefé) e «si compone di molti e popolosi villaggi che possono mettere insieme 50 mila uomini da battaglia, tra i trenta e i settant’anni, poiché i giovani non vanno in guerra»17. I Machiparos si mostrarono assai più scortesi degli indios di Aparia e dettero furiosa battaglia agli spagnoli, che si impadronirono del villaggio, ma vennero più volte assaliti dagli aggressivi indios, poco disposti a farsi depredare del loro cibo. Che era abbondante «così di tartarughe in recinti con piscine d’acqua, e molta carne e pesce e biscotto, e tutto questo in tale 46 Capitolo secondo abbondanza che c’era da dar da mangiare ad un accampamento di mille uomini per un anno»18. E invero, Orellana e i distaccamenti di uomini mandati nei dintorni a razziare, furono aggrediti da schiere ora di «500» ora di «2.000» uomini, in furiose battaglie nelle quali 18 spagnoli vennero feriti, alcuni gravemente (e uno morì in seguito)19. La ritirata sul fiume fu difficile e a lungo i brigantini furono inseguiti dagli indios infuriati. Ottanta leghe «durò» la navigazione per uscire dalla provincia dei Macipharos che aveva una sola lingua, che era tutta popolata, e non c’era, tra villaggio e villaggio, più di un tiro di balestra, e i più lontani non distavano mezza lega, e ci fu un villaggio che durò cinque leghe senza intervalli tra casa e casa, che era una cosa magnifica da vedersi. Usciti dalla terra dei Machiparos, gli spagnoli entrarono nelle terre degli Omaguas, razziando il primo villaggio incontrato. Fino ad allora «avevano percorso 340 leghe dalla partenza da Aparia, delle quali 200 spopolate». Proseguendo, le soste negli altri villaggi furono sempre per rifornimenti «forzosi» perché anche gli Omaguas si mostrarono assai meno amichevoli delle genti di Aparia, pur avendo ottime scorte di cibo. In uno dei villaggi trovarono una casa con gran copia di vasellame di ogni misura, di ceramica dipinta in vivaci colori «che quella di Malaga non le sta a pari», e due idoli a grandezza naturale; trovarono anche dell’oro e dell’argento e, soprattutto, diversi sentieri diretti verso l’interno, indizio di una terra bene insediata20. Nella provincia di Omagua gli spagnoli percorsero 100 leghe, fino alla terra di un signore di nome Paguana, terra di indios non bellicosi; nel primo villaggio di «due leghe di lunghezza» i nostri si rifornirono, e proseguirono per rive assai popolate «e ci furono giorni che incontrammo più di venti villaggi». Il 29 maggio giunesro a un grande villaggio «che aveva molti quartieri, ed ogni quartiere aveva il suo imbarcadero al fiume, e ad ogni imbarcadero c’era un gran numero di indios, e questo villaggio era lungo due leghe e mezzo»21. Ma gli spagnoli preferirono approvvigionarsi in villaggi più piccoli per minimizzare il pericolo di aggressioni. Il 3 giugno venne raggiunta la confluenza con il Río Negro, e Carvajal descrive realisticamente le acque dei due fiumi, di colore diverso, che scorrono a lungo affiancate senza mescolarsi (una meta imprescindibile dei turisti a Manaus)22. A questo tratto di fiume non venne dato nome, ma i rionauti si imbatterono in nuove e Amazzonia 47 anche bizzarre realtà: un villaggio con una sorta di fortificazione, cintato con grandi tronchi di legno; in un altro villaggio di dimensione «mediana» un grande spiazzo e nel mezzo una sorta di grande piattaforma di «10 piedi di lato» istoriata in rilievo e sorretta da due giaguari; in un’altra abitazione trovarono gran varietà di indumenti con piume di diversi colori23. Il viaggio prosegue, e Carvajal menziona un tremendo episodio (che peraltro non si trova citato in altre versioni della sua relazione): Orellana ordina l’impiccagione di alcuni piezas (cioè indios) catturati per diffondere timore e convincere i riluttanti indios a concedere l’aiuto alimentare agli spagnoli24. Poco oltre, passata la confluenza del maggiore affluente del Grande Fiume, il Madera, avvistano in un villaggio che esibisce sette pali sormontati da altrettanti crani: viene battezzata la «provincia de las picotas» (picche)25 la cui estensione era di 70 leghe (20 in altre trascrizioni). Carvajal narra un altro oscuro episodio: l’uccisione di capo villaggio e l’incendio delle capanne per far fuggire gli indios che oppongono resistenza per «prendere il cibo che, lodato sia il Signore, in questo villaggio non mancò»: tartarughe, volatili26. Da un’india apprendono che in altri villaggi si trovano altri europei, forse i sopravvissuti della dispersa spedizione di Diego Ordaz alla bocca del fiume di venti anni prima, ormai mescolati agli indigeni27. Tra una razzia e l’altra, il 24 giugno i rionauti giunsero a un altro villaggio dove si svolse l’episodio famoso dell’accanita battaglia con gli indios, soccorsi da una dozzina di Amazzoni, donne bianche, alte, robuste e forsennate, una giornata che si concluse con vari feriti tra gli spagnoli e la perdita dell’occhio di Carvajal, colpito da un dardo. Un episodio dove fantasia e mito – e forse il trauma della ferita – irrompono in una relazione generalmente improntata al realismo. Erano state percorse, secondo il conteggio del frate, 1.400 leghe dalla partenza; e altre 150 ne sarebbero occorse per traversare la «provincia di San Juan» così battezzata dal giorno della battaglia con le Amazzoni. Le rive erano molto popolate, e gli spagnoli non osavano prender terra tra indios aggressivi. Di nuovo soffrirono la fame, ma non a causa di un deserto umano. Secondo i geografi storici siamo nella várzea dell’attuale Santarem, ma la confluenza con il Tapajós non venne annotata dal frate, forse perché i rionauti procedevano lontano dalla riva destra, o per la caligine o per l’oscurità28. Per due giorni navigarono in vista di villaggi insediati sui bordi rilevati della riva sinistra del fiume; vennero loro incon- 48 Capitolo secondo tro «gran copia di piroghe» con indios tiznados, cioè dipinti di nero, dall’aria aggressiva: Carvajal chiama questa «provincia de los Negros». Due villaggi vennero razziati, uno piccolo e uno più grande; gli indios si difesero, e un compagno «originario di Burgos» venne colpito da una freccia «velenosa [...] perché in capo a ventiquattro ore rese l’anima a Dio». È in seguito a questo episodio che Orellana dispone la costruzione di parapetti di legno per difesa dalle frecce avvelenate: a tempo, perché vennero di nuovo assaliti da un nugolo di canoe; nel conflitto gli spagnoli ebbero la meglio, ma un altro compagno «originario di Logroño» rimase ferito «in verità non gli entrò, la freccia, nemmeno mezzo dito, ma siccome era avvelenata, non durò ventiquattro ore e rese l’anima a Dio». I rionauti si fecero guardinghi: i dardi avvelenati erano l’unica arma che poteva far loro serio danno29. Nel contempo ebbero a rallegrarsi, perché si resero conto che il fiume cambiava di livello, effetto evidente delle maree marine. L’Atlantico, ormai la loro meta – anche se all’inizio non confessata – era prossimo. Dovevano trovarsi nei pressi di Montealegre a circa 600 chilometri dall’estuario30. Ancora un tratto tra rive popolate, e poi il fiume si allarga, si popola di innumerevoli isole, le terre si fanno basse e pantanose, la ricerca di cibo «dove si poteva fare senza danno» (cioè senza pericolo) divenne meno agevole. Navigarono tra le isole dell’estuario per 200 leghe (sicuramente una rotta molto tortuosa), ed è a questo punto che Carvajal ricapitola le distanze. Oltre alle 200 leghe citate, «per altre 100 sale la marea con molta furia, e in totale sono 300 leghe di marea e 1.500 senza di essa; cosicché se si sommano le leghe percorse in questo fiume, dal luogo di partenza fino al mare, sono 1.800, forse più che meno»31. I nostri rionauti – è pieno luglio – si aggirarono nell’arcipelago dell’estuario, il mare era sempre più vicino, ma la fame era compagna giornaliera. In uno dei consueti approdi presso un insediamento, il barco piccolo cozzò contro un ostacolo e si incagliò in un basso fondale. Sotto attacco degli indios, venne fatta una riparazione di fortuna e i rionauti si rifugiarono, il giorno seguente, in un luogo più tranquillo – dovrebbe essere il 20 o il 21 di luglio – dove rimisero in sesto l’imbarcazione naufragata. Erano ormai esperti nel fare chiodi e ferramenta, sempre insidiati dalla fame mangiarono «il mais contando i grani», ma furono soccorsi da un tapiro (danta) morto «grande come una mula», portato dalla corrente, Amazzonia 49 che «si ripartì tra tutti i compagni, di modo che a ciascuno gli toccò da mangiare per cinque o sei giorni».32 In questo luogo si fermarono quattordici giorni, ma non era il posto adatto per attrezzare le due imbarcazioni alla navigazione in mare aperto. Il 6 agosto, giorno di san Salvatore, approdarono a una spiaggia conveniente, dove venne aperto il cantiere «e facemmo cordami e gomene di vegetali e vele con le coperte nelle quali dormivamo, e ponemmo gli alberi»33. Lavorarono quattordici giorni, metà al cantiere e metà a procacciarsi cibo, soprattutto chiocciole e granchi di mare. Era la prima volta che le razzie (o i doni) di cibo non erano la fonte di sopravvivenza dei rionauti. Il 20 agosto ripartirono, ma ebbero difficoltà nel raggiungere il mare aperto: per le maree che li respingeva indietro, le rudimentali ancore che non tenevano il fondo, il governo del natante più difficile. Le popolazioni rivierasche però non si dimostravano aggressive, e permisero loro di approvvigionarsi di acqua, mais, radici per il viaggio in mare. E ciò nonostante fossero già state a contatto con altri europei. Infine, il 26 agosto uscirono in mare aperto, «tra due isole, distanti 4 leghe, nel mezzo della [bocca] del fiume, che tutta insieme, come poi lo vedemmo, misura da punta a punta 50 leghe: immette nel mare acqua dolce per 25 leghe; sale e scende sei o sette braccia [10-12 metri]»34. Il brigantino finalmente raggiunse Nueva Cadiz nell’isola di Cubagua, distante «450 leghe dalla bocca del Rio», dove era già arrivato da due giorni il brigantino piccolo, che aveva perso contatto con quello grande. Era l’11 settembre 154235. Yo, Fray Gaspar Carvajal [...] poiché la prolissità ingenera fastidio, così superficialmente e sommariamente ho fatto relazione di ciò che è successo al Capitano Francisco de Orellana, e agli Hidalghi della sua spedizione, e ai compagni che partirono con lui dal campo di Gonzalo Pizarro, Marchese e Governatore del Perú, Dio sia lodato. Amen36. Torniamo al Grande Fiume: 1.800 leghe percorse, secondo il calcolo del frate, per una navigazione che dalla confluenza del Coca con il Napo fino al mare aperto si commisura in circa 4.700 chilometri. Ma il percorso fu più lungo di quello che fa il cursore sulla carta geografica: si passò da una riva all’altra, si entrò in bracci di fiume senza uscita, si risalì la corrente per ritrovare attracchi favorevoli, si bordeggiò a lungo nell’estuario: una «lega-Carvajal» doveva valere mediamente, come già detto, 50 Capitolo secondo circa 3 chilometri. Se si escludono le lunghe soste riportate (116 giorni, per i vari cantieri di riparazione), e altri giorni di sosta più breve (solo in parte segnalati), si può pensare che dei 243 giorni intercorrenti tra la partenza (26 dicembre) e l’uscita in mare (26 agosto) meno della metà fossero impegnati nella navigazione, con un percorso medio di 16 leghe-Carvajal (circa 50 chilometri) al giorno. Una buona distanza, se si pensa che delle dodici ore di luce, non poche dovevano essere impegnate nel procurarsi cibo, nelle scaramucce, nella ricerca di attracchi favorevoli, in intervalli di riposo, in tempo perso nei mille contrattempi di percorso. I 58 (o 54, o 51) rionauti persero 10 (o 11) compagni (circa 1 su 5), proporzionalmente assai meno delle perdite di altre spedizioni per via terra, apparentemente meno rischiose. Cosa si può dire del popolamento del Napo, e poi del Grande Fiume dalla confluenza del Napo fino all’estuario? Diciamo subito cosa è impossibile sapere: non sono fattibili, infatti, valutazioni numeriche fondate, sia perché gran parte delle osservazioni sul popolamento sono di natura qualitativa, sia perché quelle numeriche spesso sono palesemente infondate, o impossibili per chi osservava navigando o con fugaci incursioni a terra. Per esempio, nella terra dei Machiparos «i molti e popolosi villaggi» avrebbero avuto 50.000 uomini d’armi fra i trenta e i settant’anni, il che vorrebbe dire una popolazione totale di almeno cinque volte superiore, su una lunghezza di 80 leghe, cioè per meno di un ventesimo dell’itinerario. Estendendo questa popolazione all’intero percorso, si otterrebbe una popolazione della várzea dell’ordine di cinque milioni, o di dieci se la stima di Carvajal avesse riguardato una sola delle sue rive. Ancora in terra dei Machiparos si parla di una contiguità dei villaggi rivieraschi, i più discosti lontani mezza lega, altri non più di un «tiro di balestra» (un paio di centinaia di metri): supponendo villaggi con un paio di centinaia di anime, e discosti mediamente un quarto di lega l’uno dall’altro, ciò avrebbe significato quattro villaggi e 800 abitanti per lega. E cioè, su 80 leghe, 64 mila abitanti su una riva e altrettanti sull’altra. Valori che se estesi a tutto il percorso di venti volte più lungo darebbero una popolazione totale non superiore ai 2-3 milioni. Nelle terre di Paguana, Carvajal riferisce che c’erano giorni di navigazione nei quali avvistavano (su una delle rive, si suppone) fino a 20 villaggi. Ora, la nozione di villaggio (pueblo) è insicura: da qualche abitazione a gruppi consistenti di queste, e quindi da qualche decina a qualche centinaio di persone. Nell’alta Amazzo- Amazzonia 51 nia l’evangelizzazione dei gesuiti solo in due casi riuscì a creare villaggi stabili di oltre 1.000 abitanti (aggregando gruppi tribali diversi), e il valore normale degli insediamenti era di 200-400 anime. Tuttavia le modalità organizzative delle missioni escludeva i piccoli o piccolissimi aggregati, e le dimensioni normali dei villaggi non evangelizzati doveva essere assai minore. «Venti villaggi» può dunque significare qualche migliaio di abitanti. Assumendo come riferimento 200 abitanti per villaggio, e tenendo conto che i giorni di navigazione furono poco più di un centinaio, e che solo una delle due sponde fosse tenuta d’occhio dai rionauti, si otterrebbe un totale di 800 mila abitanti lungo l’intero percorso. Nella terra di Paguana, un villaggio si estendeva per due leghe, e un altro per due leghe e mezzo, suddiviso in quartieri, ognuno con il suo imbarcadero. Un villaggio lungo diversi chilometri suona, ai nostri orecchi, quasi una metropoli: ma forse Carvajal vedeva rive insediate da abitazioni, magari distanziate tra di loro, per un tratto di quella lunghezza, insediato sul margine del fiume e non in profondità nell’entroterra: potrebbe quindi essersi trattato di qualche centinaio di famiglie insediate in un continuum. Ma un continuum, in una navigazione che traversava rive deserte per decine o centinaia di leghe, ha significato assai diverso che non in Spagna. Nel Regno di Aparia, vengono chiamati a raccolta i «signori» di quella terra durante la lunga permanenza per la costruzione del brigantino, e ventisei di questi accudirono al campo di Orellana. Supponendo che ciascuno di questi fosse il principale di un villaggio, e che solo una parte (supponiamo la metà) rispondesse alla chiamata, possiamo ipotizzare un mezzo centinaio di insediamenti che difficilmente avrebbe superato le 10 mila persone. Questi esercizi di aritmetica elementare (che releghiamo all’Appendice 2, per i prossimi capitoli) confermano, però, che anche all’epoca di Carvajal – un’epoca di primo contatto per l’Amazzonia – la várzea era, sì, popolata, ma che stime di molti milioni di abitanti (i 5 o i 10 ottenuti poco sopra, estendendo il presunto popolamento dei Machiparos a tutto il percorso dei rionauti) sono un limite massimo del tutto virtuale. Lunghe sezioni del Grande Fiume erano spopolate: le prime 200 leghe, lungo il Napo prima di raggiungere «Aparia minore», e altre 200 leghe tra la maggiore Aparia e i Machiparos, oltre a tratti meno estesi. Insomma, in almeno un quarto del percorso le sponde erano deserte e – di conseguenza – rimanevano vuoti gli stomaci degli spagnoli. 52 Capitolo secondo Qualche altro suggerimento proviene dall’organizzazione sociale delle popolazioni incrociate dai rionauti di Orellana. In alcune realtà – le popolazioni di «Aparia minore» e di «Aparia maggiore» – appare un’organizzazione sociale stratificata, con la predominanza di un capo, o signore, influente, forse non solo nel proprio villaggio. Tra gli Omaguas, c’è la casa con gli idoli e buona ceramica, e un’altra casa con ricchi indumenti cerimoniali; e poi qualche oggetto d’oro, e una rete di sentieri che si inoltrano nell’interno. Insomma, tracce di una vita associata di qualche complessità, con scambi e livelli tecnologici non elementari. E ancora, «l’acquacultura» delle tartarughe di fiume, di cui gli amazzonici andavano ghiotti, le coltivazioni di yucca, di maiz e di cotone, la produzione di tessuti sono testimonianza di un certo sviluppo. Un’osservazione finale. I rionauti, si è detto, sopravvivevano grazie al cibo razziato tra gli indigeni. Spesso gli indios non erano ostili, e offrivano pesci, volatili, frutti. Ma cinquanta uomini da sfamare sono tanti, e nutrire la compagnia per un giorno, assorbiva la produzione di altrettanti indios impegnati nella caccia e nella pesca. Ancor più se i rionauti – com’era regola – pretendevano di fare scorte. I villaggi avevano, presumibilmente, poche riserve e limitata capacità di produzione, caccia o raccolta. Il gravame dei poco graditi visitatori – uomini rotti a tutto, determinati a sopravvivere, non usi ad andare per il sottile – diveniva presto insopportabile. Anche i gruppi più pacifici potevano essere facilmente indotti a diventare ostili. L’informazione poi sicuramente precedeva i rionauti, predisponendo al sospetto le popolazioni rivierasche. Sarebbe interessante comprendere se la crescente ostilità incontrata nella discesa del Grande Fiume non fosse – anche – la conseguenza della pessima fama che precedeva i naviganti. Che avvenne dei protagonisti della nostra storia? A Gonzalo Pizarro, fatto prigioniero dai realisti nello scontro di Sacsahuana a cinque leghe dal Cuzco, fu tagliata la testa per ordine del tribunale immediatamente costituito dal viceré Pedro de la Gasca. Era l’11 aprile 1548. La testa mozzata fu inviata a Lima e mostrata al popolo in ammonizione circa il destino dei ribelli37. «Dei cinque fratelli che erano partiti [...] dall’Estremadura per conquistare un grande impero, ne sopravviveva uno, prigioniero in una fortezza in Spagna»38. Gonzalo era sui trentacinque anni quando fu giustiziato ed era arrivato in Perú giovanissimo. Anche Amazzonia 53 il destino di Orellana, dopo molti onori in Spagna, fu tragico. Da Cubagua fece vela per Santo Domingo con dodici compagni, dove nel dicembre del 1542 incontrò Oviedo, che raccolse la sua storia assieme ai nomi dei cinuantaquattro componenti della spedizione39. Da lì proseguì in Spagna, dove ricevette onori e, in ricompensa, il titolo di «Adelantado e Gobernador» del Río Marañon in un atto ufficiale della corte del 13 febbraio 1544. Apprestò una spedizione con quattrocento uomini e quattro navi, che fu travagliata dalla sfortuna già dalla sosta a capo Verde, dove un’epidemia falcidiò i suoi uomini; proseguì verso l’estuario del Grande Fiume, intenzionato a risalirlo, ma fece naufragio in un fortunale e scomparve con la giovane moglie e la maggior parte dei suoi alla fine del 1546. Solo un manipolo si salvò, e arrivò a Santo Domingo a raccontare la triste storia. Erano passati quattro anni dall’incredibile approdo all’isola di Cubagua. Aveva trentaquattro anni. Solo Gaspar de Carvajal ebbe una buona vita e morì nel 1584, presumibilmente, nel proprio letto, nel convento dei domenicani di Lima. Aveva ottantatré anni. Rientrato in Perú seppe che sopra Orellana pendeva un’accusa di tradimento e fu questa la ragione che lo spinse a scrivere la relazione del viaggio, anche a giustificazione del comportamento dei rionauti. Fu priore del Cuzco, protettore degli indios a Tucumán e infine venne eletto provinciale dell’Ordine in Perú40. Una vita intensa e carica di responsabilità. Pur con un occhio solo. III. Trecento rionauti scendono il Grande Fiume. Pedro de Ursúa e Ines de Atienza prime vittime della tragedia. Aguirre furore di Dio. La lunga scia di sangue fino all’oceano e al Venezuela. Sfida a Filippo II. Morte di Aguirre e di Elvira, sua figlia L a seconda navigazione amazzonica avvenne quasi vent’anni dopo quella di Orellana ed è la più celebre e drammatica. Più celebre perché, nata come esplorazione di conquista di una regione mitica e ignota, continuò con una ribellione e terminò in tragedia. Ebbe attori di primo piano: il navarro Pedro de Ursúa, nobile e ricco, organizzatore dell’impresa; la sua bella amante meticcia, Inés de Atienza; il giovane sivigliano ambizioso e vano, Fernando de Guzmán; il folle Lope de Aguirre dall’oscuro passato e sua figlia Elvira. Tutti i protagonisti perirono uno dopo l’altro di morte violenta, alimentando un mito letterario e politico nei secoli successivi. Racconteremo il canovaccio del dramma che si svolse sul proscenio e le storie che si intrecciarono dietro i protagonisti: la sorte degli oltre trecento spagnoli che accompagnarono Ursúa; quella, ancor più crudele, delle centinaia e centinaia di indios e schiavi neri che costituivano il sostegno e il supporto della spedizione; l’effetto sugli indios rivieraschi che entrarono in contatto con la spedizione. Interessa, infine e soprattutto, lo sfondo naturale e antropologico della spedizione quale risulta dai resoconti tramandati. Ce ne sono almeno quattro di altrettanti partecipanti; l’eco degli eventi riferiti dai superstiti della spedizione si sparse velocemente in tutto l’impero spagnolo, in Europa e in America, e altre cronache si aggiunsero alle testimonianze dirette, arricchendole e spesso travisandole. Ma è sulle testimonianze dirette che ci soffermeremo per leggere l’Amazzonia di quattro secoli e mezzo fa1. La storia ha un lungo prologo: all’inizio del 1559 Pedro de Ursúa, sotto la protezione del viceré del Perú, il marchese di Cañete, organizza la spedizione alla ricerca di «Omagua e di Eldorado». Giunto sulle rive del fiume Huallaga con qualche 58 Capitolo terzo decina di uomini, «taglialegna e carpentieri», Ursúa apre un cantiere per la costruzione delle imbarcazioni occorrenti per la lunga navigazione fluviale che avrebbe portato la spedizione nelle terre di Omagua2. Per un anno e mezzo abbandona il cantiere per raccogliere denaro, uomini e mezzi, dei quali era a corto. Riesce così a radunare qualche centinaio di spagnoli (tre o quattrocento), tra i quali abbondavano i reduci delle guerre civili che avevano devastato il Perú fino a pochi anni prima e non pochi personaggi violenti e sediziosi, oltre alle centinaia di indios e di schiavi neri, uomini e donne, che costituivano l’indispensabile seguito di questa come di altre spedizioni3. Lo esigevano, oltre al trasporto di sussistenze e materiali, il servizio dei nobili e degli hidalgos partecipanti, i numerosi e inutili (se non a fini alimentari) cavalli, la ricerca e la preparazione del cibo, il servizio ai remi delle canoe. Fin dall’inizio serpeggia tra gli uomini il malcontento; la mancanza di viveri e provviste per una spedizione così complessa costringe a inviare alla loro ricerca distaccamenti di uomini a valle del fiume, in zone già esplorate. Il capitano Juan de Vargas, con settanta uomini, è incaricato di discendere lo Huallaga fino alla confluenza con il Grande Fiume, navigarlo a valle fino alla confluenza con lo Ucayali e risalirlo (lo farà «per ventidue giorni») per fare ampie scorte di mais. Risceso alla confluenza con il Fiume, attenderà circa tre mesi l’arrivo del grosso della spedizione, attardata da vari contrattempi; nell’attesa sarà costretto a dar fondo alle provviste. Il 26 settembre 1560 parte Ursúa con il suo seguito: l’organizzazione era stata così maldestra che «tutte le imbarcazioni erano marcite, quando vennero spinte in acqua, si sfasciarono quasi tutte»4. Resistettero soltanto due brigantini e tre chiatte che però «facevano acqua dappertutto». Si perde molto tempo a mettere insieme imbarcazioni sostitutive; molti cavalli rimarranno a terra. Va notato che la spedizione immaginava di trovare vaste terre percorribili a cavallo, ma nella foresta amazzonica la loro funzione, anziché quella di cavalcature di conquistadores carichi d’oro, fu quella di alimentarne gli stomaci affamati. Facevano parte della spedizione che si avviò faticosamente, Doña Inés, le sue dame di compagnia, ed Elvira, figlia di Aguirre; e poi, oltre al tesoriere e al notaio, alfieri, cavalieri, archibugieri, fanti, schiavi neri, indios, cavalli, capi di bestiame, cani, armi, piombo e polvere da sparo. Poche erano le scorte di viveri. Per dare l’idea dell’ingombro del materiale trasportato, il capitano Altamirano riferisce che allo scopo Amazzonia 59 infra, spesso, è Purus di preparare munizioni c’erano 200 barre di piombo (ciascuna barra pesava 2 arrobas, cioè circa 25 chili, per un totale di 50 quintali), 80 bottiglioni di salnitro raffinato e altrettanti di zolfo (ogni bottiglione, o botija pesava più di 30 chili)5. Alla metà di ottobre la spedizione si ricongiunge con il gruppo di Vargas alla confluenza del Grande Fiume con l’Ucayali, con una sosta di otto giorni tra i Cocama, popolazione con «camice di cotone»; passata la confluenza con il Napo, la spedizione ritrova un altro distaccamento guidato da Garcia de Arce, inviato mesi prima alla ricerca di cibo e attestatosi in un’isola (c’erano due villaggi «di 30 case o più») in una «provincia» abitata da indios che «indossano camiciole dipinte e le loro case sono quadrate e grandi. Le loro armi sono delle specie di picche di legno di palma, grandi come giavellotti di Biscaglia, che lanciano con l’aiuto di una sorta di fionda di legno [...] e le chiamano “estolica”»6. Avevano viaggiato per oltre «300 leghe completamente deserte» (corrispondenti, però, a circa 900 chilometri effettivi). Battezzano la regione «provincia dei Carari», dal nome attribuito a un villaggio; si tratterebbe dell’«Aparia grande» descritta da Carvajal, successivamente abitata da migranti Omagua. Questa regione si sarebbe estesa per circa «150 leghe», tra le confluenze del Napo e del Putumayo, ma non era molto popolata «perché nei villaggi che vedemmo ci saranno stati sette o ottomila indios, e a dir molto diecimila»7. Seguono nove giorni di navigazione tra rive deserte (forse altre 150 leghe nella metrica dei naviganti), fino all’arrivo nella provincia dei Machifaros, che i geografi storici pongono tra le confluenze dei fiumi Yurua e Puru8. La provincia dei Machifaros è costellata di villaggi, e uno di questi «il più grande che avessero incontrato fino ad allora» diventa il real, il quartier generale della spedizione. Come i rionauti di vent’anni prima, trovano le piscine d’acqua artificiali per le tartarughe. Sono passati, secondo uno dei cronisti, ottantaquattro giorni dalla partenza (saremmo dunque al 19 dicembre)9. Nella provincia dei Machifaros – spostando il campo almeno tre volte – si fermeranno fino all’inizio di aprile, ed è in queste terre che si produrrà la prima parte del dramma. Ursúa ha la mano debole; la spedizione è stata male organizzata; gli ordini non vengono rispettati; gli uomini hanno sofferto stenti e privazioni nei lunghi tragitti despoblados, ma dove le terre sono abitate viene fatta violenza agli indios e il cibo viene sprecato. Ma, soprattutto, non si è vista traccia, fino a quel momento, delle popolazioni da sottomettere e delle favolose ricchezze va- 60 Capitolo terzo gheggiate. Il dissenso e l’insubordinazione – fomentati da Lope de Aguirre – montano e si trasformano in aperta rivolta che culmina con l’uccisione di Ursúa e di alcuni fedeli il 1º gennaio 1561. Viene eletto capo della spedizione il giovane Fernando de Guzmán, fantoccio nelle mani di Aguirre e dei suoi; si regolano progressivamente i conti tra le fazioni, eliminando i più pericolosi dissidenti, distribuendo funzioni, cariche e promesse. E si delinea un nuovo piano, che è quello di abbandonare le esplorazioni, di arrivare al mare, risalire a Nombre de Dios sulla costa atlantica panamense, passare a Panamá, impadronirsene e raccogliere nuovi accoliti, ridiscendere in Perú e fomentare una rivolta. Funzionale a questa strategia è la solenne sottoscrizione di un documento con il quale viene ripudiato il vassallaggio a Filippo II, proclamando Guzmán principe, in attesa di farlo incoronare re del Perú. Un piano azzardato e quasi folle, ma guidato da una lucida strategia. Sul piano pratico è indispensabile attrezzare la spedizione per continuare la navigazione, dato che le imbarcazioni originali sono ormai inservibili e comunque inadatte ad affrontare il mare aperto. Nell’opera si impegnarono quattro ufficiali spagnoli, falegnami e ferraioli, mentre il resto dell’armata prestò il suo aiuto diviso in squadre [...] C’erano molte scuri, seghe e altri strumenti di ferro [...] c’era anche una certa quantità, sebbene scarsa, di catrame e di chiodi10. Vengono terminati «due brigantini senza ponte superiore né murate, grandi e belli. Ognuno poteva essere equipaggiato come un vascello di trecento tonnellate di stazza»11. Da questo villaggio, che chiameranno dei Brigantini, partono all’inizio di aprile navigando per qualche giorno sul lato sinistro per evitare la terra degli Omaguas (uno degli obiettivi iniziali della spedizione) situata sulla riva destra; trascorrono otto giorni e la Pasqua (16 aprile) in un piccolo villaggio; ripartono e arrivano al più grande insediamento fino ad allora incontrato dove si fermeranno un mese, fino al 24 maggio. I cronisti lo chiameranno «pueblo de las Matanzas», il villaggio delle mattanze: qui Aguirre farà uccidere Guzmán, che aveva cominciato a temere Aguirre e il suo dissennato piano, e altri suoi fidati; sarà assassinata Doña Inés assieme al suo nuovo protettore, e anche un «clerigo de misa»: in tutto sette persone. Aguirre assume, anche formalmente, il comando assoluto. Secondo Emiliano Jos, il «pueblo de las Matanzas» andrebbe situato sulla Amazzonia 61 riva sinistra del Grande Fiume, tra le confluenze del Puru e del Río Negro; qui i due brigantini vengono dotati di coperta12. Lasciato «las Matanzas» navigano otto giorni «senza arrestarsi»: dopo la strettoia del fiume (all’attuale Obidos) approdano in un grande villaggio, abitato da indios armati di frecce avvelenate (forse i Tapajós)13, e trovano abbondanza di mais e yucca, legname, amache, orci e giare per l’acqua. Si percepisce la marea (siamo dunque a 600700 chilometri dal mare aperto)14. Qui si fermano quindici giorni; «furono costruite le vele dei brigantini con coperte di cotone e lenzuola di Rouen e altri pezzi di tela raccolti fra gli spagnoli e gli indiani»15; furono poste l’alberatura e il sartiame («pueblo de las jarcias» o «delle sartie»). Lasciato questo villaggio, dopo cinque o sei giorni di navigazione che si fa più difficile, tra le isole, i bracci di fiume, i pantani dell’estuario e le vigorose correnti delle maree, si fermano in un altro villaggio, deserto per la fuga degli indios, protetto da strane fortificazioni fatte con tronchi di palma. Qui si compiono ulteriori riparazioni e rifornimenti (tra l’altro trovano, per la prima volta, del sale). Si procede verso il mare aperto, non senza compiere un ulteriore atto disumano (altri omicidi, dopo quelli del «pueblo de las Matanzas», avevano funestato il percorso): l’abbandono di 100 indios ladinos (cioè spagnolizzati e cristianizzati) del seguito, per alleggerire i brigantini in mare aperto «perché era pericoloso andar per mare con tanta gente, e sarebbe mancato sia il cibo che l’acqua»16. Dopo diciassette giorni in mare, il 20 luglio 1561 raggiungono l’isola Margarita prossima alla costa venezuelana. Il viaggio era durato dieci mesi, «dei quali navigammo per fiume e per mare 3 mesi e 20 giorni, che sono 110 giorni, poco più, poco meno, 93-94 per il fiume, 17 per mare. Il resto del tempo, che sono 6 mesi, ci fermammo per costruire i brigantini, nel cercar cibo e riposare»17. Mi potrei fermare qui, perché in seguito non di Amazzonia si parla. Ma un accenno al prosieguo del dramma è necessario: Aguirre e i suoi terrorizzano l’isola Margarita, una delle isole delle Perle, dai fondali ormai esausti, che ospitava qualche centinaio di spagnoli con i loro schiavi e servi, uccidendo molti abitanti e tra questi il governatore18. Nella testa di Aguirre si era fatto strada un altro progetto, e infatti l’idea di passare a Panamá era stata abbandonata perché della ribellione si era diffusa la notizia mettendo in allarme Nombre de Dios e Panamá; immaginò allora di sollevare le popolazioni del Venezuela e della Nueva Granada (Colombia) e, via terra, di raggiungere il Perú. 62 Capitolo terzo Il tiranno partì dall’isola La Margarita una domenica, dopo mezzodì, ultimo giorno d’agosto dell’anno 1561. Vi era rimasto quaranta giorni e la lasciò così devastata e spoglia di bestiame, viveri e altre cose, che quanti vi sono rimasti riescono a stento, ancor oggi, a sostentarsi [...] Prima di giungere a quest’isola il tiranno aveva ucciso, lungo il fiume, venticinque persone [...] Nell’isola, uccise quattordici dei suoi Maranoñes, undici abitanti, di cui due frati e due donne, il che in tutto fa cinquanta persone, senza contare due indios che parlavano lo spagnolo, e tutti senza confessione19. Passato alla terraferma venezuelana, all’inizio trovò scarsa resistenza da parte dei coloni spagnoli, ma nessuna adesione al suo progetto rivoluzionario; con disperata testardaggine proseguì mentre si stavano organizzando le forze dei coloni. A Nuova Valenza scrisse la famosa lettera-manifesto al re Filippo II, firmandosi «Figlio di fedeli vassalli in terra basca e ribelle sino alla morte per la tua ingratitudine, Lope de Aguirre, il Peregrino»20. L’atto di ribellione al re, per Aguirre, è giustificato dai diritti negati ai conquistatori: E bada, re e signore, tu non puoi portare il titolo di re giusto e, allo stesso tempo, trarre benefici da questo paese in cui non hai avventurato alcunché, senza aver prima ricompensato quanti vi hanno penato e sudato il loro sangue». La lettera è una requisitoria contro i funzionari e gli amministratori del Perú, contro il clero, contro lo sfruttamento di coloro che avevano conquistato un regno e i cui servizi erano stati misconosciuti. Contro le guerre in Germania, fatte con le ricchezze estratte dal Perú, contro le responsabilità del re per il fatto che «tu eccellente re e signore, abbia conquistato la Germania con le armi e che la Germania abbia conquistato la Spagna con i suoi vizi». Il 27 ottobre, nei pressi di Barquisimeto, con Aguirre braccato e circondato, abbandonato da molti dei suoi, si compì la tragedia: «pugnalò la sua unica figlia, una meticcia molto bella, per cui nutriva grande affetto e disse che la uccideva affinché non rimanesse sola con i suoi nemici e non venisse chiamata la figlia del tiranno». Fu ucciso con due colpi di archibugio. La testa gli fu mozzata, messa in una gabbia di ferro ed esposta al pubblico: la mano destra fu inviata a Merida e la sinistra a Nuova Valenza «come fossero le reliquie di un santo»21. Qui termina la storia di Aguirre: piccolo di statura, emaciato in volto, zoppo per un’archibugiata, insonne e instancabile, vivacissimo, perspicace e instabile. L’uomo Aguirre è poi diventato un mito dalle mille facce, dal dannato angelo del male al visionario libertario. Non Amazzonia 63 prendo partito, perché la spedizione interessa per ciò che svelò agli occhi europei, più che per la personalità del suo sciagurato condottiero. Torniamo dunque all’Amazzonia svelata dai resoconti dei testimoni della spedizione22. Il fatto che le testimonianze siano plurime, offre un vantaggio rispetto all’unico racconto disponibile della spedizione di Orellana, anche se il quadro generale che emerge da queste contiene molte più conferme che smentite del racconto di Carvajal. Gli estensori delle relazioni della spedizione di Ursúa-Aguirre appaiono sovrastati dai drammi di cui furono testimoni e protagonisti, sui quali si concentrano; la loro attenzione, e il loro interesse personale, li distolse dalla descrizione e dall’osservazione puntuale dell’ambiente amazzonico. Carvajal appare, invece, un osservatore più attento della realtà che si dipanava sotto i suoi occhi e, del resto, fu la natura di tale realtà (la difficoltà di risalire la corrente per tornare al campo di Pizarro, le distanze, l’ignoto) che «forzò» i rionauti a continuare la discesa del fiume fino al mare. Le due spedizioni ebbero molti punti in comune: ambedue finirono in mare aperto e in isole prossime alla costa venezuelana: Cubagua e La Margarita; simile fu la durata: 243 giorni quella di Orellana, 294 quella di Ursúa-Aguirre; entrambe le spedizioni furono costrette a sostare frequentemente e a volte a lungo, e i giorni di navigazione furono circa un centinaio, con una «velocità» di spostamento di circa 50 chilometri al giorno. Ambedue dovettero costruire e attrezzare nuove imbarcazioni durante il viaggio, in cantieri di fortuna. Il problema principale delle due spedizioni non fu l’ostilità degli indios – che quasi sempre fu difensiva o di reazione – bensì la penuria di cibo, e il metodo comune per procuraselo fu la razzia. Due parole vanno dette anche sulle differenze tra le due spedizioni: quella di Orellana fu casuale e improvvisata, mentre quella di Ursúa-Aguirre fu pianificata; la prima raggiunse il Grande Fiume scendendo per il Napo, affluente della riva sinistra o nord, la seconda scendendo per lo Huallaga, affluente della riva destra o sud; la prima contava poco più di una cinquantina di uomini, la seconda ne aveva tre o quattrocento, più un numero forse doppio di persone al seguito; la prima viaggiò in una vera e propria «terra incognita» per gli spagnoli che avevano messo piede in Perú solo pochi anni prima, la seconda approfittò delle conoscenze accumulate nel ventennio precedente; la prima, vulnerabile, evitò, 64 Capitolo terzo quando possibile, il contatto con i nativi, la seconda, che si definì «armata», non ne ebbe timore, pur ingaggiando frequenti scaramucce e battaglie con le popolazioni rivierasche. Mi soffermo un poco sulle maggiori «conoscenze» a disposizione della spedizione di Ursúa, conoscenze che non derivavano solo dalla relazione di Carvajal ben nota, ma anche dalle esperienze di altre spedizioni – spagnole e portoghesi – che avevano cominciato a delineare le caratteristiche del Grande Fiume e delle popolazioni rivierasche. Con Ursúa c’era Alonso Esteban, uno dei rionauti di Orellana23; la spedizione, inoltre, si avvalse delle conoscenze di alcune guide che avevano fatto parte di una sorprendente migrazione a monte, in provenienza dal basso corso del Grande Fiume. Si trattava dei circa 300 indios Brasiles che si materializzarono nella città peruviana di Chachapoyas nel novembre del 1549, avendo risalito il Río delle Amazzoni prima e lo Huallaga poi, in provenienza dal Pernambuco. Questi indios dettero origine alla diceria delle grandi ricchezze delle terre degli Omaguas. Avevano raccontato, questi indiani, di essere partiti, in numero di dieci o dodicimila, dalle loro terre sulla costa del Brasile, su molte piroghe con le loro donne e i loro figli. Avevano impiegato più di dieci anni per giungere in Perú lungo questo fiume, e, dei dodicimila indiani partiti ne erano sopravvissuti soltanto un trecento, con alcune donne [...] Dicevano tali meraviglie del fiume e delle province circostanti, e specialmente della provincia di Omagua, del suo gran numero di abitanti e di ricchezze che destarono in molte persone il desiderio di vederle e di scoprirle24. Già il portoghese Diogo Nunes aveva riferito (in una lettera al re Giovanni III) di averli incontrati tra i Machifaros nel 1538 discendendo il Fiume al seguito di un mercante. Ebbene, le guide brasiles fecero parte della spedizione, ma si eclissarono nella parte finale della navigazione del fiume, nella sosta nel villaggio della Jarcia forse, ipotizzarono i cronisti, per riunirsi al loro popolo. Sul popolamento dell’Amazzonia le cronache confermano quanto già è emerso dal resoconto di Carvajal. In primo luogo l’esistenza di lunghi tratti apparentemente spopolati, despoblados, come viene spesso riferito. Per esempio, arrivati al villaggio dell’isola Carari si dice che «fu il primo che incontrammo dai Caperuzos [«Incappucciati» per il curioso copricapo, che vivevano poco a valle del cantiere di partenza] per più di 300 leghe, tutte spopolate»25. Non avevano sofferto la fame (per le Amazzonia 65 provviste iniziali, l’abbondante pesca, la quantità di tartarughe e delle loro uova trovate sulle rive), ma popolazioni e villaggi non ne avevano incontrati. Un altro tratto spopolato – di circa 150-200 leghe – nel quale la spedizione soffre la fame, è quello tra la provincia dei Carari e quella dei Machifaros: «senza averlo previsto andammo per nove giorni in un tratto spopolato»26: la pesca supplì alle necessità in minima parte, le riserve erano poche, e Almesto imputa a Ursúa scarsa previdenza e accortezza. In un altro tratto di fiume – dopo la partenza dal villaggio delle «Matanzas» – navigano otto giorni e sette notti (diverse centinaia di leghe) «senza fermarsi»27; è da presumere che anche questa parte del fiume fosse relativamente spopolata, perché la regola era, dove c’erano villaggi, di accamparsi di notte vicino a essi. Nella lettera a Filippo II, Aguirre afferma: «È un fiume grande e terribile: ha una foce di ottanta leghe d’acqua dolce [...] grandi banchi di sabbia, ottocento leghe di rive disabitate, come tua Maestà potrà vedere in una relazione, ben veritiera, che abbiamo fatto»28. Forse Aguirre esagerava (attribuiva all’intero percorso 1.500 leghe di lunghezza) e se non la metà, per almeno un buon terzo le rive appaiono spopolate: dico appaiono, perché la percezione dei naviganti era limitata all’osservazione delle rive e spesso di una sola di esse data la larghezza del Fiume. Nelle aree popolate le relazioni non danno molti elementi per apprezzare la frequenza e l’intensità degli insediamenti. Nell’isola di Garcia (dove si era attestato Garcia de Arce in attesa del grosso della spedizione) c’erano due villaggi, «ciascuno di 30 case o più». Villaggi abbastanza grandi, dunque, con qualche centinaio di abitanti. Tutto il tratto di fiume cui viene attribuito il nome di «provincia dei Carari» appare, come già detto, costellato di villaggi, «tutti sulle rive rialzate del fiume, senza che ci sia molta distanza l’uno dall’altro». Ma, aggiunge Almesto, in apparente contraddizione, «nei villaggi che vedemmo, ci saranno stati sette o ottomila indios abitanti e, a dir tanto, diecimila»29. E poiché la provincia dei Carari si sarebbe estesa per 150 leghe, la densità insediativa doveva essere assai modesta: se l’intero percorso amazzonico fosse stato insediato come lo era Carari, la popolazione rivierasca totale non avrebbe superato un quinto di milione!30 Ma il ragionamento può essere rovesciato: poiché la navigazione percorreva una ventina di leghe al giorno, e gli insediamenti erano generalmente di qualche decina di abitazioni, la spedizione avrebbe avvistato – nella provincia dei Carari – una 66 Capitolo terzo mezza dozzina, o più, di villaggi al giorno31. Non poco, dopo giorni e giorni di viaggio su rive spopolate. Ma Almesto dice «nei villaggi che vedemmo», e può ben darsi che volesse dire nei «villaggi che visitammo», e che i villaggi visti o visitati fossero una frazione incognita del totale e che la popolazione fosse assai più numerosa. Assai più generoso è Altamirano che attribuisce al maggior villaggio dei Carari 8.000 abitanti (una cifra che non ha rapporto con la realtà amazzonica), e riferisce che nel luogo dove si erano accampati «per più di quattro leghe a monte e a valle c’erano campi coltivati a yucca e mais», e tanta frutta, «da sfamare l’intera armata per sei mesi»32. Cioè, il villaggio avrebbe potuto ragionevolmente avere dimensioni dello stesso ordine di grandezza dell’armata, diciamo un migliaio o più di abitanti. Tra i Carari e i Machifaros – secondo Altamirano – sta il villaggio (o terra) degli Arimacoa, di 6.000 abitanti, con i recinti acquatici che ospitano 4.000 tartarughe, catturate d’estate per nutrirsi d’inverno. Il villaggio delle Matanzas si estendeva per 2 leghe (3, secondo Altamirano), con case poste in fila poco distanti l’una dall’altra. Supponendo 10 chilometri di lunghezza, e abitazioni disposte ogni 25 metri, si tratterebbe di 400 case con altrettante famiglie, cioè circa 2.000 persone (o un multiplo di 2.000, se ogni casa ospitava più di una famiglia). L’armata occupa una metà del villaggio espellendone gli indios. Prima della stretta di Obidos, su entrambe le rive, si avvistano numerosi villaggi. Il villaggio della Jarcia, dove i brigantini furono dotati di alberi, vele e sartiame – abitato dagli indios provvisti di frecce avvelenate – doveva avere dimensioni notevoli. Il villaggio era ben provvisto di mais e di yucca, di reti e amache e cordame; c’erano due capanne che i cronisti ritennero adoratori per riti sacrificali: «dinnanzi alla porta di queste capanne, ci sono due pietre sacrificali, su cui ci parve che dovessero sgozzare le loro vittime. Su una sta dipinto il sole con una faccia d’uomo, la quale rappresenta gli uomini, e sull’altra, sta dipinta la luna con la faccia di donna, la quale rappresenta le donne». Sono tutti elementi che riconducono a una popolazione strutturata e relativamente numerosa33. Queste considerazioni sono, naturalmente, molto generiche, ma di più non si può dire dato che disponiamo di relazioni basate su ricordi, o appunti, di persone più preoccupate di riferire i dati «politici» della spedizione, piuttosto che quelli geografici o antropologici. Gli indios in genere appaiono curiosi, inclini allo scambio e al baratto, abbastanza socievoli. La situazione cambia Amazzonia 67 quando le soste si protraggono e l’esigenza di nutrirsi muta lo scambio in requisizione, razzia e violenza. E allora la triste fama precede la spedizione: quando Ursúa parte dall’isola di Garcia, nella provincia di Carari per un lungo tratto si incontrano villaggi abbandonati «e gli indios fuggivano per timore dell’armata e delle stragi che Garcia de Arce aveva compiuto nell’isola». E ne avevano ben ragione, perché nel timore di aggressioni da parte degli indios «per spaventare gli altri ne avevano passati a fil di spada e di coltello più di quaranta in una capanna, dietro consiglio e ordine di Garcia de Arce, a quanto si disse»34. Sempre tra i Carari, e tra i Machifaros, c’era sicuramente una struttura sociale e gerarchica abbastanza sviluppata, con la presenza di «cacichi». Gli indios non vivono solo di caccia e pesca o raccolta; ci sono campi di mais e di yucca (quasi ovunque), si fa una sorta di «acquacultura» per nutrirsi di carne e uova di tartarughe (Machifaros), si preparano e conservano bevande fermentate (Jarcia), si tengono i lagartos (iguane) legati alle capanne per nutrirsene. Né la tecnologia è del tutto elementare: si tesse e si colora il cotone e ci si adorna di piccoli gioielli d’oro (Carari); ci sono archi ed estolicas e frecce avvelenate (Jarcia); si fanno vasi di terracotta; si «calzano sandali di pelle di cervo attaccati con cordicelle, simili a quelli usati in Perú» (estuario)35. Infine, le dimensioni dell’«armata» esigevano un tributo pesante dagli indigeni nelle aree più popolate. Non a caso le lunghe soste vengono fatte presso i maggiori insediamenti, situati in luoghi presumibilmente favorevoli, con colture poco distanti, qualche riserva di cibo cui attingere, manodopera da «costringere» nel servizio o nel procurare cibo. Potremmo teorizzare che un’armata di un migliaio di persone esigeva, giornalmente, il «prodotto» della coltivazione, e della caccia e della pesca, di almeno altrettanti indios: non importa se il tributo era volontario, forzato o ottenuto con scambi. Le rive despobladas generano la paura della fame; i piccoli insediamenti servono a poco e in genere gli abitanti sono fuggiti; nei villaggi più grandi e nelle zone più popolate l’armata fa sosta e la forza delle armi convince i riottosi, finché ci sono scorte. Va infine detto che l’iniziale, numeroso seguito della spedizione andò assottigliandosi; nel villaggio dei Brigantini si patì la fame perché «in quella contrada trovammo solo manioca selvatica e, per poterla mangiare, bisognava farne cassava e, per farla bisognava avere servitori indiani mentre quasi tutti ci erano morti»36. Di certo si esagera, visto che alla fine del 68 Capitolo terzo viaggio vennero abbandonate cento (o centosettanta) persone di servizio e che altre se le portarono sicuramente dietro per mare. Ma uccisioni, morti e fughe dovettero assottigliare notevolmente la numerosa intendenza. Per quanto riguarda il popolamento, si possono azzardare alcune considerazioni. Molti tratti del fiume, forse un terzo del’intero suo corso, apparivano spopolati. Altri tratti apparvero ai naviganti bene insediati, con costellazioni di modesti villaggi rivieraschi. C’erano anche villaggi relativamente grandi, se tali possono considerarsi insediamenti di varie centinaia, e in qualche caso di qualche migliaia, di abitanti. Infine, nulla o quasi può desumersi, dalle relazioni di viaggio, circa il popolamento delle valli dei fiumi affluenti, delle aree interfluviali e di quelle interne. dove si aprono le virgolette? Almesto e Vázquez, nel riferire dello sbocco in mare della spedizione, inseriscono alcune pagine sul Grande Fiume, «lungo più di milleseicento leghe dalla sua sorgente al mare, ossia dal punto in cui ci imbarcammo». Possiamo far nostre le conclusioni (mantenendo le riserve sui numeri): «Oltre al calore intollerabile, questo fiume è malsano e scarsamente popolato, giacché, su un così lungo tratto e nelle località abitate che incontrammo, non possono esserci più di quindicimila indiani»37. Presso queste popolazioni si trovano molte giare d’argilla assai ben fatte e ben cotte, decorate con notevole finezza, dipinte e lavorate in mille modi, e verniciate come in Spagna. Non vedemmo né oro né argento, se non in quelle province da noi chiamate Carari e Manicuri, dove alcuni indiani portavano orecchini e «caricuries» (adorni) d’oro, del resto rari e molto piccoli. Comunque, conoscono tali metalli e li stimano più degli altri, per cui ci parve che dovessero saperne qualcosa. Indossano tunichette di buona tela, molto decorate, almeno quelli della zona dei Carari. Per tutta la lunghezza del fiume, dal paese dei Caperuzos sin presso la foce, non trovammo mai sale. Gli indiani non ne posseggono, né lo conoscono, né dunque ne mangiano, né vi paiono interessati»38. Parzialissima sintesi, si dirà, dalla quale traspare tuttavia un incontrovertibile giudizio: la grande immensità dell’Amazzonia – o, meglio, delle rive del Grande Fiume – era poco popolata. Attribuire un numero a questo aggettivo è impossibile, ma l’utilizzo della parola milione potrebbe giustificarsi, forse, come limite massimo. IV. Padre Cugia dalla Sardegna alle rapide del Marañon. Gesuiti alla conquista spirituale del Grande Fiume. Vangelo, asce e machete. Molto «ingenium», poca «prudentia». Caleidoscopio etnico, babele linguistica. In centrotrent’anni, 161 padri e 152 effimere missioni I gesuiti Gaspare Cugia, un sardo animoso, e Lucas de la Cueva, furono i primi evangelizzatori dell’alta Amazzonia, cioè di quell’immensa regione nella quale il Marañon, terminato il suo viaggio di discesa dalle Ande, si distende nelle sterminate pianure del continente. Partiti da Quito alla fine del 1637, scesero alla città di Jaen, si imbarcarono sul Marañon e il 6 febbraio arrivarono in canoa a Borja, un insediamento con qualche decina di residenti spagnoli fondato diciannove anni prima1. Per arrivarci dovettero percorrere le pericolose rapide del Pongo («porta») di Manseriche, dove il fiume si apre uno stretto varco negli ultimi rilievi andini. [Il] fiume che prima, e dopo, ha le sembianze di un mare, desta sorpresa e sconcerto precipitandosi in questo stretto passaggio [...] che viene percorso col nome di Gesù e il Credo sulle labbra perché il rischio di morte è sempre alla vista [...] il fiume si precipita contro le alte rocce a strapiombo con tale forza che le acque si rivolgono formando grandi vuoti e profondi gorghi2. Così descrisse l’ingresso nella regione dei Mainas padre de la Cueva , pioniere di un’azione evangelizzatrice che durò centotrenta anni, impegnò qualche centinaio di religiosi dell’ordine, fondò oltre centocinquanta insediamenti dalla vita piuttosto effimera in una regione grande quanto la penisola iberica. Quel che si sa delle popolazioni amazzoniche, dopo le navigazioni iniziali e prima che, a partire dalla metà del Settecento, occhi indagatori di cultura moderna ne dessero nuove descrizioni, deriva quasi esclusivamente dalla penna di missionari come i padri Cugia e de la Cueva: dai diari, dalle lettere e dai rapporti che scrissero ai loro superiori, ai confratelli, ai familiari. Il sistema delle missioni di Mainas – nel territorio che oggi è di Ecuador, 72 Capitolo quarto il passo non è chiaro Perú e Brasile – rientra in quel patto non scritto fra le autorità coloniali e l’ordine gesuitico che aveva una doppia funzione. Per le autorità si trattava di consolidare quei territori di confine, lontani dagli stabili insediamenti spagnoli, dove maggiore era il rischio delle infiltrazioni portoghesi. Per i gesuiti si trattava di conseguire il primato nell’opera di evangelizzazione e una sorta di esclusiva rispetto ad altri ordini religiosi. Sorsero così le missioni del Paraguay (nelle vallate dei fiumi Paraná e Uruguay), le più fiorenti, popolose e strutturate al confine meridionale del Brasile; quelle dei Chiquitos e dei Mojos, nell’alto bacino del fiume Paraguay le prime, e del Madera le seconde; quelle dei Mainas nell’alto bacino amazzonico, quelle dell’Orinoco. Si trattava di aree strategiche per il controllo delle comunicazioni e per arginare le pretese portoghesi, poste anche a protezione delle vie di accesso alle ricche aree minerarie peruviane3. Per i gesuiti queste ampie zone di confine rappresentarono il teatro di un’opera di evangelizzazione, attuata con la «riduzione» – cioè la concentrazione – degli indios in villaggi (che furono vere e proprie piccole città nel Paraguay) sotto lo stretto ed esclusivo governo religioso e temporale dei missionari. Un’opera che riuscì molto bene nel Paraguay, ma che incontrò gravi difficoltà e insuccessi nelle fluide società amazzoniche. La spinta colonizzatrice aveva portato gli spagnoli a valicare le Ande e a penetrare nel versante amazzonico nella seconda metà del Cinquecento. Riprendiamo brevemente le vicende già ricordate (cfr. cap. I). L’immigrazione era giunta ai piedi del versante orientale, con la creazione di diversi insediamenti, quasi sempre di breve durata, formati da spagnoli e meticci in cerca di oro – specialmente nella regione di Zamora – e di indios da incorporare come servi nelle encomiendas o da schiavizzare. Si trattò di una penetrazione senza regole, che provocò sanguinose sollevazioni (Quijos nel 1573, Jivaros nel 1599), la fondazione e l’abbandono degli effimeri centri (Sevilla de Oro, Zamora, Logroño), le fughe degli indios verso le zone meno accessibili, un generale spopolamento, anche in seguito alle prime incursioni epidemiche. Si determinò una frattura dello sparso tessuto del popolamento indigeno che dall’alta montagna si estendeva fino alla selva amazzonica4. Il rapido declino del distretto di Quijos è un esempio relativamente ben documentato di questa profonda crisi. L’arrivo dei padri Cugia e de la Cueva segnò l’inizio di una nuova fase, che si sovrappose e poi si sostituì alla precedente, Amazzonia 73 che aveva segnato il fallimento del primo secolo di tentativi di colonizzazione. Una colonizzazione che aveva impresso un marchio profondo alle relazioni tra europei e indios, improntate alla rapina e allo sfruttamento dei primi sui secondi, e favorite dalla lontananza da quelle regole che la madrepatria e le autorità coloniali si sforzarono di imporre, con efficacia variabile, a ovest delle Ande. Il campo d’azione dei gesuiti fu una vastissima regione chiamata Mainas, che comprendeva popolazioni distinte e diverse. La possiamo descrivere come un tozzo triangolo, la cui base si estendeva lungo il piede delle Ande, grosso modo tra l’equatore e 6° di latitudine sud, cioè tra il basso corso del fiume Aguarico (affluente del Napo) e il medio corso dell’Ucayali, per un’estensione di circa 700 chilometri. Il vertice del triangolo si situava alla confluenza del Río delle Amazzoni con il Javarí (dove oggi si trova il triplice confine tra Brasile, Perú e Colombia), a quasi 1.000 chilometri dalla base del pedemonte andino (grosso modo tra i 70° e i 78° di longitudine ovest). I due lati del triangolo erano delimitati, a nord, dal corso del Putumayo e, a sud, da quello del Javarí. Nel periodo di massima espansione (cioè all’inizio del Settecento) l’azione dei gesuiti si estese lungo il corso del Río delle Amazzoni ben oltre la confluenza con il Javarí, e fin quasi a quella col Río Negro (60° ovest, a 10° di distanza) per un altro migliaio di chilometri. Possiamo dire che l’estensione della regione fino al Javarí – ed escludendo la temporanea espansione a valle verso il Río Negro – fosse equivalente, all’incirca, a quella della madrepatria spagnola5. Ma il popolamento era assai sparso e, come vedremo meglio in seguito, poteva aggirarsi attorno a un centinaio di migliaia di abitanti6. L’accesso a questa regione, da Quito, la metropoli sede dell’Audiencia, del provinciale dei gesuiti e delle alte autorità coloniali, era arduo e complicato. Bisognava scavalcare le Ande a oltre 4.000 metri di altezza, ridiscendere il versante orientale per lunghi percorsi difficili e impervi anche per i muli, percorrere lunghi tratti della selva, raggiungere finalmente le vie d’acqua che per la pendenza avevano ancora correnti assai forti e pericolose nei periodi delle piogge e delle piene, e raggiungere finalmente il Napo, uno dei maggiori affluenti del Grande Fiume. Da qui le comunicazioni diventavano assai più agevoli, e le vie d’acqua permettevano navigazioni più tranquille nella stagione priva di piogge e il trasporto, relativamente rapido, di persone e di cose7. Un percorso giornaliero di molte decine 74 Capitolo quarto di chilometri, procedendo da monte a valle, era possibile, ma quando occorreva risalire la corrente – per quanto vigorosi e avvezzi alle fatiche fossero i rematori – ogni lega ne valeva tre o quattro in discesa. Da Borja8 sul Marañon, sede del governatorato civile della regione, fino a Loreto non lontano dalla confluenza col Javarí, c’erano circa 1.200 chilometri che potevano essere percorsi in due settimane. Più o meno simile era la distanza che separava Loreto da Puerto Napo, che era l’imbarco normale per chi proveniva da Quito. Ma per arrivare, per esempio, alla missione degli Andoas, che stava nel medio corso del Pastaza, occorrevano quindici o più giorni per risalirne la corrente, partendo dalla confluenza con il Grande Fiume. Un’idea della lunghezza e della complessità del viaggio si può desumere da diari e racconti. Il basco padre Manuel J. Uriarte era passato dalla Spagna alle Americhe nel 1743 e nel 1750 fu destinato a una Missione sul fiume Napo. Nel suo diario si legge che partì da Quito il giorno di Natale del 1750, accompagnato da quattro religiosi destinati alle missioni, con gli indios portatori, essenziali per trasportare i bagagli dei padri (tra questi non mancava mai un altare portatile)9. Presumiamo – il diario di Uriarte non ne fa menzione – che portassero anche pezze di tessuto e asce, cunei, machete, chiodi, utensili di ferro, vale a dire la dotazione assegnata ai missionari per assicurarsi l’adesione e il consenso degli indios10. Scavalcate le Ande al passo di Papallacta (4.065 metri di altezza), rimandarono indietro le cavalcature inutili per l’impervia discesa del versante orientale fino a Baeza e poi nella valle tra il vulcano Antisana (quasi 6.000 metri) e il massiccio del vulcano Sumaco (quasi 4.000) fino alla «città» di Archidona, dove arrivarono per l’Epifania tredici giorni dopo. Lì Uriarte sostò per poi proseguire con i suoi compagni via terra fino a Puerto Napo, dove il gruppo si imbarcò sulle canoe il 20 gennaio; superati vari inconvenienti – una bufera, un indio gravemente ammalato – il 28 fece sosta lungo il fiume alla piccola missione di San Luís Tiriri. Questa era, allora, in via di costituzione, abitata da «venti adulti capifamiglia» che stavano costruendo le loro capanne; da qui i religiosi proseguirono fino alla destinazione finale di Uriarte, Nombre de Jesús Maria, un villaggio di sette grandi capanne e trenta famiglie, dove arrivò il 30 gennaio. Erano stati percorsi circa 700 chilometri, ma l’arrivo non era definitivo perché Uriarte doveva visitare altri insediamenti nella zona. Prima di farlo, passò un mese e mezzo a Nombre atten trasf Amazzonia 75 de Jesús perché, essendo scoppiata un’epidemia di «catarros y curso de sangre», dovette dare assistenza, organizzare la ricerca di cibo che scarseggiava per via del gran numero di infermi e del timore che i pochi sani avevano di due «tigri» (linci) razziatrici, che avevano ucciso un bambino e ferito un adulto. Dei centocinquanta abitanti del villaggio l’epidemia uccise ne quaranta («tutti battezzati, meno una donna che ricusò il battesimo dicendo che tanto non sarebbe morta»), seminando il terrore tra i sopravviventi. Questi vollero disertare il villaggio ma Uriarte e i suoi compagni di viaggio si dettero da fare per dissuaderli: «arredai meglio che potei la chiesa con oggetti portati da Quito, statue e stampe; avevo portato in due casse due busti, abbigliati, del Santo Nazareno e della Dolorosa». Finalmente poté ripartire e visitare il villaggio «annesso» di San Miguel, dove il padre Francesco Real, genovese, era stato ucciso e gli indios si erano dispersi nella selva. Risalì il fiume Aguarico per nove giorni, con varie vicende, riuscendo a convincere un curaca a seguirlo con quaranta indios e a insediarsi nel semideserto San Miguel. Da qui ritornò finalmente a Nombre de Jesús, il 18 aprile «con grande gioia degli abitanti, che mi festeggiarono a dovere»: dopo quattro mesi dalla partenza da Quito poté iniziare la sua stabile opera evangelizzatrice che sarebbe terminata solo diciotto anni dopo con l’espulsione da Mainas11. I trasferimenti di un missionario come Uriarte spesso si allungavano per le visite alle altre missioni, eventi accidentali o straordinari come un’epidemia, un conflitto tra indios, un tentativo di trovare nuovi adepti per le fragili missioni. Altri aspetti dell’ambiente e della geografia della regione, e della loro influenza sugli insediamenti, la mobilità, il trasporto emergeranno in seguito; vale per ora ricordare che l’evangelizzazione della grande regione dei Mainas traeva forza da Quito e attenzione: nel file dal mantenimento di un flusso, quantitativamente modestissimo, questo era l’esponente di notizie, persone, manufatti attraverso la gigantesca barriera 11bis, qui delle Ande12. trasformato in 12. L’ingresso, chiamiamolo ufficiale, dei gesuiti in Mainas con i padri Cugia e de la Cueva, necessita una premessa. Nel febbraio del 1635 gli indios del distretto di Borja risposero alle vessazioni subite con una sollevazione cruenta; fecero strage di trentaquattro spagnoli – encomenderos e loro familiari, ufficiali e soldati – e assaltarono la città costringendo gli scampati ad asserragliarsi nella chiesa. Gli attaccanti poi si dispersero, e qualche giorno dopo 76 Capitolo quarto una spedizione di soccorso «pacificò» la regione. I risultati della repressione – che colpì anche chi non c’entrava con la sollevazione – furono così descritti dal padre Francisco Figueroa, il gesuita di maggior spicco della prima fase di evangelizzazione: [I testimoni] videro tanti indios giustiziati, tanti corpi fatti a pezzi appesi agli alberi, tanti indios cui erano state tagliate le orecchie, ad altri il naso, altri mutilati e feriti, le mani e i piedi mozzati a questo e a quello, piagati e scarnificati fino all’osso dalle frustate quelli che se la cavarono meglio; e tutto questo non si fermava e continuava con furore: crudeltà cui nessuno crederebbe se non se ne avesse la prova. E in questa rappresaglia, i soldati [spagnoli] erano aiutati dagli indios Jeveros, feroci quanto i Mainas, se non di più13. Questo fu dunque l’immediato antecedente dell’arrivo dei gesuiti in Mainas, e si capisce bene come tutta l’azione evangelizzatrice si avventurasse su un cammino difficile: è da presumere che le notizie si diffondessero rapidamente e che il biglietto da visita degli europei – anche di quelli con il saio o con la tonaca – non fosse incoraggiante. I gesuiti erano arrivati in Perú nel 1564, e nel 1586 si erano stabiliti a Quito; le loro iniziative di evangelizzazione oltre le Ande furono sporadiche fino all’arrivo a Borja di Cugia e de la Cueva nel 163814. Più attivi erano stati i francescani, nell’alto Ucayali alla fine del Cinquecento, e poi quasi contemporaneamente ai gesuiti, nella regione dei Sucumbios, del Putumayo e dell’Aguarico. Contemporaneamente all’ingresso ufficiale dei gesuiti, i padri francescani avevano iniziato un’opera missionaria tra gli Icahuates (o Encabellados) sul Napo, subito fallito15. Ma a questo fallimento si deve la terza navigazione europea del Grande Fiume a opera di due confratelli in fuga, e immediatamente dopo la quarta e la quinta, alle quali dedicheremo il capitolo che segue. Tra l’ingresso e l’espulsione dell’ordine dalle colonie nel 1768 corrono centotrenta anni. Durante questo periodo si ha notizia della fondazione di 152 villaggi-missioni, molti dei quali di effimera vita, normalmente piccoli nuclei di qualche decina di famiglie. I tentativi interrotti dovettero essere ancora più numerosi, specialmente nella fase pionieristica dell’azione evangelizzatrice. In quest’opera furono impegnati 161 sacerdoti coadiuvati da religiosi non sacerdoti, il cui numero non è dato conoscere. Il numero dei missionari presenti nella regione fu attenzione: nel file l’esponente 14 mancava. è giusto qui? ora è il 15 (vedi nota corrispondente: Biedma, La Conquista...) Amazzonia 77 sempre molto esiguo: non ce ne furono più di 10 prima della fine del Seicento, più di 20 fino alla metà del Settecento; e più di 30 nella fase finale: nel 1768 ne furono espulsi 28. Vi sono continue richieste da parte dei superiori per l’invio di nuovi operarios (letteralmente «operai», della vigna del signore), ma le alte gerarchie civili e religiose a Quito, a Madrid e a Roma si mostreranno sempre un po’ scettiche circa i successi – veri o pretesi – dell’evangelizzazione, l’utilità dell’impegno o, quanto meno, del rafforzamento dell’impegno, a fronte dei costi che questo imponeva. Desta meraviglia che in un territorio così vasto la tenue presenza dei padri riuscisse a formare un sistema, una rete certo né fitta né coesa, ma comunque persistente, e un’azione sia pur approssimativamente coordinata. Certo – come meglio si vedrà – in questa rete gli indios stabilmente catturati, se non convertiti, furono pochi: al massimo il numero toccò le 13 mila unità. Non sappiamo però quale fosse la vera entità della popolazione di Mainas; sappiamo solo che all’inizio del periodo era sicuramente assai più grande che alla fine, e che la quota degli indios delle missioni dovette crescere nel tempo senza però, presumibilmente, diventare maggioranza. Le buone comunicazioni per le vie d’acqua e la lontananza da interferenze dei coloni europei permise sicuramente la costituzione e la «manutenzione» della rete. Ma vi contribuì anche l’organizzazione gerarchica e quasi militare dell’ordine, il coordinamento delle azioni, la selezione degli uomini, la loro lunga formazione, le esperienze acquisite prima di intraprendere l’attività missionaria: caratteristiche che fecero dei gesuiti l’ordine religioso più capace nell’opera di conversione dei «barbari». Anche in Amazzonia: chi vi andava doveva conoscere lo spagnolo, se straniero, e il quechua, la «lingua dell’inca», come veicolo di comunicazione con gli indios16. La pattuglia dei 161 padri aveva caratteristiche interessanti, che è utile riferire. Quanto all’origine – fino a un terzo potevano essere stranieri – 62 erano nati nelle colonie, 45 in Spagna, 30 in Germania, 20 in Italia, 2 in Portogallo, 1 in Francia e 1 in Ungheria17. Tra i superiori che si alternarono alla guida delle missioni di Mainas, i nati in America – che erano 4 su 10 tra i padri – furono solo 3 su 20, segno (forse) della minor considerazione nella quale erano tenuti rispetto ai padri di altre provenienze. I tedeschi, seguiti dagli italiani, erano considerati più motivati e capaci: può darsi che giocasse un fattore di selezione, connesso 78 Capitolo quarto alla maggiore distanza dalla cultura spagnola, che veniva superata solo da chi fosse particolarmente attratto dall’azione missionaria. I padri venivano singolarmente valutati ogni tre anni dai loro superiori: Ann Golob ha esaminato e classificato 276 rapporti individuali con valutazioni (eccellente, buono, mediocre, basso o nullo) di alcune qualità: ingenium, iuditium, prudentia, experientia, litera. Le percentuali di giudizi positivi (eccellente e buono) per le varie qualità furono del 67% per ingenium, 56% per litera, 53% per iuditium, 23% per prudentia e 14% per experientia. Quest’ultima era sicuramente la qualità più rara, perché pochi entravano in Mainas con esperienze evangelizzatrici precedenti, e alla scarsa esperienza era probabilmente legata anche la scarsa prudentia, figlia della prima. Per 104 padri si ha anche una sorta di «votazione» media complessiva (da un minimo di 1 a un massimo di 4) che per appena 9 padri fu superiore a 3 mentre 19 ebbero meno di 2. In assenza di comparazioni – che pur si potrebbero fare – con i missionari impegnati in altre parti d’America e del mondo, questi dati sono più una curiosità che altro18. Due altri dati sono utili per completare questo ritratto dei missionari in Mainas: vi entravano, in genere, da uomini fatti, perché l’età media alla prima assegnazione superava i trent’anni, e vi restavano oltre dieci anni, in media, un periodo relativamente lungo tenuto conto dell’alta mortalità dell’epoca, dei rischi di malattia e di morte (9 rimasero uccisi), dell’usura, dei modi di vita e dell’isolamento19. Il drappello dei missionari, durante i centotrenta anni della loro permanenza in Mainas, esercitò un’azione instancabile di penetrazione, contatto, convincimento, coazione, organizzazione delle società indigene – come dimostra l’elevato numero delle fondazioni – in un fare e disfare, con successi, insuccessi e catastrofi continue. Gli ostacoli maggiori non furono tanto la dimensione della regione e l’esiguità numerica dei missionari – molti padri avevano vari villaggi a proprio carico, anche assai distanti gli uni dagli altri – o la numerosità (non grande) delle popolazioni indigene. Fu, soprattutto, l’estrema fluidità della società amazzonica, frammentata in decine e decine di gruppi etnici e linguistici indipendenti, abituati alla mobilità e alla migrazione, che nell’intervento del padre – a volte accompagnato da altri uomini, quasi sempre militari – vedevano alterare i loro fragili equilibri per ragioni spesso imperscrutabili dall’esterno. Cosicché la rete delle Amazzonia 79 missioni, dopo i primi decenni di penetrazione, veniva mantenuta attraverso un continuo ricambio: comunità che si assottigliavano o sparivano per l’alta mortalità, la fuga, l’emigrazione; comunità che venivano ricostituite, magari in altre località, aggregando nuovi adepti o frammenti di altri gruppi etnici; nuove missioni presso etnie rimaste ai margini: tutto in un continuo processo di ricambio. Secondo padre Figueroa, nella regione c’erano almeno quaranta «province o nazioni», e «le chiamiamo province non perché siano così grandi da meritarsi questo nome [...] ma perché parlano distinti idiomi, o sono così separate le une dalle altre che non si sentono parenti, considerandosi diverse ed estranee fin dai tempi antichi»20. In una prima fase dell’evangelizzazione fin verso il 1680, oltre ai Mainas (che dettero il nome a tutta la regione), che vivevano nelle zone adiacenti a Borja, prima porta di entrata, l’azione missionaria si estese ai gruppi insediati nel basso corso dei fiumi Huallaga e Ucayali (affluenti del versante meridionale del Grande Fiume), come gli Jeveros e i Cocamas, etnie tra le più popolose, e negli alti corsi dei fiumi Tigre e Curaray (affluenti del versante settentrionale). È del 1670 la fondazione di Santiago de la Laguna sullo Huallaga, a poca distanza della confluenza con il Grande Fiume, che raggruppò i Cocamas e altre etnie. Santiago divenne la «capitale» di tutte le missioni, sede del superiore e l’unico villaggio (assieme a Limpia Concepción de los Jeveros) a rimanere stabilmente sopra i 1.000 abitanti. Nell’ultima parte del Seicento, i gesuiti si avventurarono nell’alto Ucayali, un’area nella quale operavano da tempo i francescani provenienti dal Perú, ma dopo l’uccisione, nel 1695, del missionario padre Richter il tentativo venne abbandonato. Dal 1681 gli Omaguas che vivevano sulle isole del Fiume per un lungo tratto dalla confluenza col Napo a quella con lo Jutai, e che Orellana e Ursúa avevano incontrato nella loro navigazione, si misero in contatto con Santiago de la Laguna, in cerca di protezione dalle incursioni dei portoghesi. Per la verità, per un breve periodo, tra il 1647 e il 1650, avevano ricevuto la visita dei francescani, uno dei quali, padre Laureano de la Cruz, incontreremo in seguito. Per un quarto di secolo padre Fritz tentò avventurosamente l’evangelizzazione di questa etnia, dispersa in decine di insediamenti, spingendosi a valle del Fiume, fino a incontrare gli Yurimaguas e gli Ibanomas, questi ultimi non lontani dalla confluenza col Río Negro. Fu la massima espansione a est, ma fu ricacciata indietro fino allo stabile 80 Capitolo quarto confine del Javarí dalla pressione portoghese, che nel 1710 era ormai vincitrice su tutta la linea. Si tenga conto che per i portoghesi era assai più facile risalire il fiume dal Pará che non per i quitensi varcare le Ande per sostenere le aree di frontiera, un termine, quest’ultimo, poco appropriato sia per l’estensione del corso medio del Grande Fiume, sia per il suo tenue popolamento. «Le canoe portoghesi risalivano [il fiume] ben rifornite di viveri e di armi. E di tratto in tratto si abbatteva la selva e si fondava un villaggio, punto di appoggio per successive incursioni» 21. Ogni sostegno civile e militare all’azione dei missionari spagnoli doveva invece venire da Borja, e dal drappello di soldati male armati che vi risiedevano. Dal 1720 in poi si realizzò una forte espansione, nel bacino del Napo, dove operò Uriarte (le missioni vennero a chiamarsi Mision del Río Napo) e nel medio corso del Grande Fiume a valle della confluenza con il Napo, in quella che poi si chiamò area della Mision Baja, mentre le aree della prima evangelizzazione (Mision Alta) perdevano popolazione per conflitti, fughe e alta mortalità22. Non desta sorpresa che un’opera di evangelizzazione così dispersa e fluida abbia lasciato dietro di sé un materiale documentario – in termini di quantità e cifre – assai incerto. Per la verità esiste una documentazione di tipo statistico non trascurabile; una delle incombenze dei missionari era quella di censire le anime che avevano in cura e perfino di tenere i registri parrocchiali dei battesimi, delle sepolture e dei matrimoni (peraltro andati dispersi e distrutti)23. Ma anche i censimenti (dei quali esiste una discreta serie per il Settecento) sono di assai mediocre qualità; i padri avevano spesso a loro carico più di una missione; molti insediamenti avevano breve durata, altri venivano spostati, altri ancora venivano fusi; arrivi e partenze erano frequenti. In queste condizioni di fondo, la documentazione ha uno scarso grado di affidabilità, soprattutto quando venga messa a confronto con le solide statistiche delle stabili missioni del Paraguay o dei Mojos e Chiquitos24. In seguito (cap. VII) cercheremo di desumere da questo materiale qualche elemento di analisi sulle caratteristiche demografiche e sociali; per ora interessa conoscere le dimensioni delle missioni, qualche indicazione sulle tendenze e quale potesse essere il rapporto tra la popolazione evangelizzata e quella totale dell’immensa regione. Nel 1661, a ventitré anni dall’inizio dell’evangelizzazione, pa- Amazzonia 81 dre Figueroa (che fu ucciso dai Cocamas nel 1666), nella relazione forse più credibile, meno celebrativa e ben documentata della sua personale esperienza di quasi vent’anni in Mainas, descrive dettagliatamente lo stato di Borja e di nove altre missioni con tre villaggi «annessi», sui fiumi Huallaga, Ucayali, Pastaza e Tigre. Nel distretto di Borja gli indios vennero distribuiti come tributari in 21 encomiendas distanti anche 8 leghe; erano circa 700 poco dopo la fondazione di Borja (1619), ma erano già diminuiti a 400 quando arrivarono Cugia e Cueva, ed erano appena 200 nel 1661, mentre altri (1.000 secondo Figueroa) si trovavano fuggitivi nella selva25. Una diminuzione rovinosa, a seguito della rivolta e della repressione, delle fughe, delle epidemie del 1642 e del 1660. Padre Figueroa riferiva che nel 1661 nelle nove missioni (e i loro annessi) si trovavano 6.880 indios, 3.000 dei quali erano bambini sotto i sette anni. Gli indios cristiani battezzati erano 3.100, il resto erano catecumeni in attesa di battesimo26. Figueroa si poneva anche una domanda fondamentale circa la consistenza della popolazione totale. Poiché – argomenta – sul Marañon e i principali affluenti fino alla confluenza con il Napo ci sono una quarantina di etnie – che nomina separatamente – normalmente composte da un numero di persone attorno al migliaio, con alcune maggiori di 4-5.000 persone (o anche più), si «possono valutare nella sfera della Missione [di Mainas] fino a 60 mila le anime nelle quaranta province ricordate»27. Dunque nel giudizio del padre gli indios cristianizzati (o in via cristianizzazione) stavano tra il 10 e il 15% del totale. Nel 1686 le missioni erano diventate 18: così risulta da un’indagine ordinata dal vescovo di Quito, Montenegro, che fece raccogliere anche il numero dei battesimi (di bambini e adulti) inseriti nei registri dalla fondazione di ciascuna missione al 1686 (circa 103 mila in tutto, ma il loro significato è assai incerto; cfr. Appendice 2)28. Dal 1719 fino alla fine del secolo sono disponibili una dozzina di conteggi, con copertura geografica, criteri di raccolta e qualità molto diversi tra loro. Il numero dei villaggi (alcune missioni controllavano anche piccoli insediamenti annessi) arriva a un massimo di 41 e la loro popolazione nel 1745 sfiorò le 13 mila unità, inclusi i catecumeni; nel 1767 erano ancora circa 12 mila in 22 villaggi; dopo l’espulsione il loro numero (sempre nei 22 villaggi) scese a 9.000 nel 1776 e a poco più di 4.000 nel 179829. L’esiguità della popolazione e il numero variabile dei villaggi impediscono di trarre considerazioni circa la dinamica della 82 Capitolo quarto popolazione; tra l’altro, a partire dalla metà del Settecento i padri infittirono le spedizioni nella selva alla ricerca di nuovi adepti. Ma anche se i dati di base fossero migliori sarebbe assai difficile accertare se le variazioni fossero imputabili alla dinamica naturale oppure a quella migratoria. La popolazione dei bambini e degli adolescenti (di età inferiore ai quattordici-quindici anni) sfiorava il 50%, percentuali compatibili con gli altissimi livelli di natalità e mortalità. Se si escludono le due missioni più grandi di cui si è detto (Santiago de la Laguna, sede del superiore, e Limpia Concepción de los Jeveros), i villaggi avevano qualche centinaio di abitanti: mediamente intorno a 300, alcuni meno di 100. Queste modeste dimensioni erano una causa non ultima della fragilità del sistema missionario. Un’epidemia, l’allontanamento di qualche famiglia, qualche marginale conflitto, dissensi con il Padre, potevano facilmente determinare il dissolversi di una comunità. Frequenti furono gli spostamenti dei villaggi stessi, da siti ritenuti svantaggiosi ad altri più convenienti. La stessa «città» di Borja, situata sulla riva del Marañon non lontano dalla confluenza del Santiago, nel 1749 venne spostata a valle tra gli sbocchi del Morona e del Pastaza, in posizione meno eccentrica rispetto alla regione della quale era la capitale civile. L’occasione – per così dire – dello spostamento fu la disastrosa epidemia di vaiolo che aveva colpito il villaggio30. Un «censimento» degli insediamenti avvenuti nel corso dei centotrenta anni è inoltre reso difficile dalla loro temporaneità, dai cambi di nome, dalla mancanza di tracce documentarie. Lo storico Juan de Velasco, alla fine del Settecento, enumerò 73 missioni (28 nella Mision Alta, 18 nella Mision Baja, 12 sul Napo, 9 sull’Aguarico, e 6 sul Pastaza), ma aggiunse di non avere incluso villaggi «de poca consideración» dei quali non era stato in grado di individuare la data di fondazione, e che dovettero «durar muy poco». Per gli stessi motivi non incluse 6 fondazioni tra gli Yameos e 9 tra gli Ucayales, i Piros e i Cunibos abbandonate dopo l’uccisione di padre Richter che le aveva fondate31. Non sono poi considerati i piccoli e piccolissimi insediamenti – una quarantina in tutto – nelle isole dell’Amazzonia nei quali padre Fritz aveva iniziato un’opera di amichevole contatto e predicazione. Si potrebbe così raddoppiare il numero dei villaggi che Juan de Velasco aveva elencato con i loro nomi; secondo un’altra fonte il numero totale degli insediamenti documentati è di 15232. Se si prende per buona questa cifra, e se consideriamo che nel secolo precedente all’espulsione il numero effettivo dei villaggi censiti restò tra le 20 e le 40 unità, si ha Amazzonia 83 un’idea dell’altissimo ricambio e della breve vita degli esperimenti missionari (si veda l’Appendice 2). Nella fase finale i 12 mila cristiani delle missioni dovevano rappresentare una percentuale assai maggiore di quel 10-15% che si può stimare in base ai conteggi di Figueroa un secolo prima. Assumendo che nel frattempo la popolazione totale dell’area di riferimento si fosse dimezzata (da 60 mila a 30 mila), i cristianizzati sarebbero stati circa il 40% del totale. Nel 1750 la firma, a Madrid, del Tratado de Limites tra Spagna e Portogallo aveva posto fine alle loro controversie territoriali in Sudamerica, stabilendo il confine in Amazzonia nella posizione attuale33. Veniva così a mancare quella ragione politica che aveva, sia pure in modo incerto, sostenuto anche finanziariamente la vita delle missioni. Un costo non trascurabile: infatti, se nella fase iniziale l’azione missionaria non doveva avere oneri per l’erario, nel corso del Settecento le casse reali pagavano uno stipendio annuale di 200 pesos per ciascun sacerdote impegnato in Mainas; l’Ordine contribuiva con risorse proprie al sostegno dell’azione missionaria per circa un quinto34. Tuttavia, nonostante le ristrettezze finanziarie, il declino della popolazione dei barbari gentili, la modesta crescita degli indios convertiti e l’evidente superficialità delle conversioni, l’azione missionaria si era intensificata nel tempo. Il decreto di espulsione di Carlo III mise fine alla secolare opera dei padri. «Consegnate le Missioni del Marañon ai sacerdoti secolari segnalati dal Signor Vescovo di Quito, queste decaddero rapidamente», scrisse Heredia citando le parole di un osservatore contemporaneo agli eventi: Confrontate le due situazioni e cioè quella delle missioni anterioremente al 1768 e quella nella quale erano ridotte nel 1788, può dirsi che attualmente non sono altro che uno scheletro gigante, al quale non restano se non quarantuno ossi scarnificati, voglio dire quarantuno villaggi, composti delle ultime reliquie di diverse nazioni, e tanto piccoli i più di essi che, tutti insieme, potrebbero costituire uno di quelli che anticamente si definivano principali35. È sicuramente un’esagerazione, perché il declino e la dispersione furono più graduali anche se inesorabili. Se si eccettuano le aree marginali della selva, nulla restò della missione evangelizzatrice, nemmeno un sottofondo della cultura religiosa, nemmeno una «cultura popolare» ispirata all’antica predicazione36. V. Su e giù per l’Amazzonia. Due frati in fuga scendono il Grande Fiume e allarmano i portoghesi. Inattesa e sgradita visita a Quito dei coloni del Pará. Un gesuita colto e attento descrive l’Amazzonia e riferisce al re E ra il 26 settembre 1560 quando la spedizione di Pedro de Ursúa, inconsapevole del suo destino, si lasciò «alle spalle le montagne e le cordigliere del Perú» e penetrò «in terra piana, che si protrae sino al mare del Nord»1. Passarono molti decenni prima che altri europei replicassero l’impresa, ma quando questo avvenne, non si trattò di una spedizione organizzata, come quelle dei primi rionauti, ma di un’iniziativa quasi estemporanea, dettata da circostanze non previste. Furono due fratelli francescani, Domingo De Brieva e Andrés deToledo, con sei soldati spagnoli, a imbarcarsi su una canoa sul Napo, il 17 ottobre 1636, per sbarcare a Curupá, piazzaforte portoghese non lontana dal mare, il 5 febbraio 1637. Questa terza navigazione europea, a quasi cento anni dalla prima e quasi ottanta dalla seconda, ha lasciato tenui testimonianze, determinando però la definitiva conoscenza del Grande Fiume da parte degli europei2. L’Amazzonia perse allora definitivamente l’aura di mistero, l’alone mitico intriso di tragedia che le prime navigazioni non avevano dissolto; entrò nelle mappe geografiche, venne descritta nei suoi aspetti naturali e antropologici e divenne oggetto di contesa tra Spagnoli e Portoghesi. Tuttavia, anche durante quel lungo intervallo tra la seconda e la terza navigazione, le esplorazioni erano continuate; l’alta Amazzonia, a ovest delle Ande, era stata insediata da pochi coloni ed encomenderos; gli affluenti del corso superiore del fiume erano stati percorsi più volte, stabilendo sporadici contatti con le popolazioni autoctone. Nel corso inferiore del fiume, nel grande estuario, la contesa tra portoghesi, inglesi, irlandesi, olandesi e francesi si era risolta a favore dei primi, con la creazione di insediamenti stabili3. Grandi spedizioni che risalissero il fiume, alla ricerca di ricchezze da sfruttare, e soprattutto di schiavi, 88 Capitolo quinto erano state autorizzate dal re, ma non realizzate, e altre furono limitate al corso inferiore e agli affluenti. Il Grande Fiume si era – per così dire – «accorciato», sia da ovest che da est, anche se mancava una sua definitiva e unitaria ricognizione. Quanto detto vale, naturalmente, per gli europei. Per gli autoctoni il fiume non era un mistero, particolarmente per i gruppi più intraprendenti dediti al commercio o alle razzie oppure per quelle popolazioni protagoniste di migrazioni. Del resto, i trecento indios Brasiles che risalendo il fiume e lo Huallaga si presentarono agli stupiti coloni di Chachapoyas in Perú nel 1549, erano stati, agli occhi degli spagnoli, la prova del traffico che più o meno normalmente si svolgeva lungo le vie d’acqua del bacino amazzonico. Il viaggio dei due frati e dei sei soldati fu la conseguenza del fallimento dei tentativi di evangelizzazione organizzati dai francescani e dai quitensi fin dal 1632 «per la conversione delle molte anime infedeli e barbare che abitavano nelle estese rive, isole e terre ferme del Grande Fiume delle Amazzoni – del quale in quella città e nella provincia di Quito e in altre parti del Perú si avevano importanti e numerose notizie»4. Questi tentativi erano andati incontro a incidenti e fallimenti, finché fu deciso di operare tra gli indios Icahuates (detti Encabellados per i capelli lunghi fino alla vita), sulla sponda nord del fiume Napo, con i quali erano già stati intrattenuti rapporti pacifici. Tra gli Icahuates cinque religiosi operarono per vari mesi nel 1636, fin quando furono raggiunti da una spedizione di trenta spagnoli (con il solito seguito di indios «amici») al comando del capitano Juan de Palacios. Non passò molto tempo prima che l’intrusione dei militari provocasse la sollevazione degli indios «a causa di alcuni soprusi» e l’uccisione di Juan de Palacios, e quindi l’abbandono dell’iniziativa da parte di religiosi e militari. Non sappiamo quali fossero i «soprusi» perpetrati, né quale fosse la reazione degli spagnoli verso gli Encabellados divenuti ostili: i cronisti che riferirono dell’episodio erano essi stessi religiosi, assai cauti nelle loro relazioni scritte. Laureano de la Cruz, che era presente, si limita a dire che «i soldati misero in fuga gli assalitori con una scarica degli archibugi, uccidendone alcuni»5. Ma l’evangelizzazione appoggiata da militari era quasi sempre destinata a esiti cruenti. Fatto si è che gli spagnoli abbandonarono la zona e risalirono il Napo per tornare a Quito. Salvo la pattuglia dei sei soldati e dei due frati, Brieva e Toledo, che presero la direzione Amazzonia 89 opposta, i primi attratti dai racconti di ricchezze, i secondi, forse, da una nuova avventura evangelizzatrice. La canoa sulla quale erano partiti, con poche provviste approdò al forte portoghese di Curupá il 5 febbraio 1637, ricevuti dall’attonito comandante della piazza, Juan Pereira de Caceres. Si profilava anche un caso politico: nonostante l’unione personale dei regni di Spagna e Portogallo, l’arrivo di spagnoli dal Perú in zona portoghese dimostrava la potenzialità della via d’acqua nell’unire l’oceano alla fonte delle ricchezze minerarie americane (in particolare le miniere di argento di Potosí, nell’alto Perú) compromettendone l’isolamento6. Rifornita la canoa, Caceres inviò gli otto alla più grande «città» di Belém, e da qui vennero rispediti a San Luís del Maranhão, sede del governatore Jácome Raimundo de Noronha, perché esaminasse l’intera questione. Non vi sono resoconti di questo viaggio che ci possano aiutare a comprendere lo stato dell’Amazzonia, se non qualche raro elemento. Nelle prime duecento leghe (probabilmente ci si riferisce al basso Napo e al primo tratto amazzonico dopo la confluenza) fino alle popolazioni Omaguas le rive apparivano deserte7. In generale, gli otto non ebbero difficoltà di approvvigionamento durante il viaggio: tra gli Omaguas, grazie a uno dei soldati che parlava la lingua, furono ben riforniti da un numeroso gruppo di indios8. Non incontrarono particolari ostilità da parte delle popolazioni rivierasche: «traversando il territorio di innumerevoli barbari, molti dei quali cannibali, non fecero loro del male, ma anzi dettero loro provviste per il viaggio»9. Solo alla confluenza del Tapajós, furono detenuti e derubati dei loro scarsi averi in un villaggio. A monte del Tapajós, le rive erano popolate e i due confratelli dissero di avere avvistato cento o centocinquanta villaggi10. Se poche informazioni sono giunte a noi, il viaggio dimostrò ai portoghesi di Belém e di San Luis che la navigazione del fiume era possibile, che non vi erano ostacoli di rilievo, e che sarebbe stata agevole per spedizioni bene organizzate. Il governatore Noronha non ebbe molti dubbi sul da farsi: senza procurarsi autorizzazioni superiori – del resto il Consiglio delle Indie per due volte aveva già richiesto, in passato, l’esplorazione del fiume, ma le iniziative erano poi abortite11 – dispose l’organizzazione di un’imponente spedizione con il compito di esplorare il fiume, estendere e consolidare la sovranità del Portogallo bene oltre la linea di Tordesillas, stabilire il contatto con Quito e il Perú. Va qui ricordato che secondo il Trattato firmato a Tordesillas da 90 Capitolo quinto Spagna e Portogallo nel 1494, le terre di pertinenza dei due regni vennero spartite da un meridiano (approssimativamente localizzato a 44° 37’ ovest): a ovest del meridano le terre della Spagna, a est quelle del Portogallo. Secondo la lettera del trattato, tutte le terre americane – salvo la parte orientale del Brasile, ma escludendo l’intreo bacino amazzonico) spettavano alla Spagna12. Al comando dell’esplorazione venne posto un veterano dell’Amazzonia, il comandante Pedro de Teixeira che aveva al suo attivo, tra l’altro, l’espulsione degli olandesi dalle loro piazzaforti nel fiume Xingu, quella degli inglesi sulla riva sinistra dell’Amazzonia e una spedizione di «pacificazione» dei Tapajós, fatta risalendo l’omonimo fiume13. In poco tempo fu allestita un’imponente spedizione, composta di «70 soldati portoghesi e di 1.200 indios “di voga e guerra”, che con le donne e i muchachos di servizio saranno stati in totale, 2.500 persone»14. In 47 grandi canoe, ognuna con 20 rematori, la spedizione prese il via da Belém il 25 luglio 1637; fece tappa a Cametá (alla confluenza con il Tocantins), da dove ripartì il 17 ottobre15. Della spedizione faceva parte Domingo de Brieva, mentre Toledo era stato inviato a Lisbona per diffondere la notizia del viaggio compiuto16. Dobbiamo la narrazione del viaggio al gesuita Alonso de Rojas, che non vi partecipò, ma che avrebbe raccolto la narrazione del piloto mayor, Benito de Acosta, al quale si dovette anche la prima mappa del fiume; la relazione sarebbe stata compilata dopo l’arrivo a Quito di Teixeira nel 163817. Sono da immaginarsi le difficoltà organizzative per mettere insieme una flotta così imponente, per l’epoca e i luoghi. Belém era stata fondata nel 1616, e l’intero vasto distretto era abitato da poche centinaia di famiglie portoghesi, cui venne sottratta forza di lavoro e di servizio; si temeva inoltre che gli olandesi, bene insediati nel Pernambuco, potessero attaccare la città, sguarnita dalla spedizione. Le canoe dovettero essere attrezzate e rifornite per un lungo viaggio di andata e di ritorno; una complessa catena gerarchica per comandare e guidare la spedizione dovette essere organizzata. Tutto questo, grazie alla capacità di Teixeira, venne fatto in pochissimo tempo. Inoltre la flotta doveva risalire il fiume a forza di remi, contro una corrente mediamente di quattro o cinque chilometri all’ora: per ogni chilometro di risalita ci voleva il triplo del tempo necessario per ogni chilometro percorso in discesa. Solo nel tratto inferiore del fiume, il vento che spirava in direzione est-ovest sostenne la navigazione delle Amazzonia 91 canoe attrezzate con vele. Per minimizzare lo sforzo, si remava vicino alle rive, dove la corrente era meno veloce, ma questo allungava il tragitto e creava altri inconvenienti. La spedizione dovette essere largamente autosufficiente, procurandosi il cibo con la pesca e la caccia, con gli scambi con le popolazioni rivierasche ed è da supporre – anche se non si dice – con requisizioni e razzie. «Mai gli indios aggredirono la spedizione né dentro né fuori del fiume»; all’inizio mostravano timore, ma poi si facevano amichevoli, volentieri scambiavano cibo con i consueti doni di cui ogni spedizione era ben rifornita; se i soldati scendevano a terra per addentrarsi nelle rive, gli indios prima ostili venivano poi a più miti consigli. Quanto la pacifica disposizione degli indios fosse dovuta alla natura, o al numero, all’armamento, e all’atteggiamento degli inattesi visitatori, non è dato di sapere. Infine va detto che la spedizione aveva il compito di descrivere il Grande Fiume, i suoi affluenti, i migliori posti di approdo e sosta, le distanze, i giorni di navigazione: «il piloto mayor [Benito de Acosta] che ha registrato tutti i giorni di viaggio e le distanze dice che si potrebbe navigare il fiume in due mesi» e proprio questa missione ricognitiva rese lenta la navigazione18. Seguiamo le vicende del viaggio, prima di raccontarne le osservazioni specifiche d’interesse per comprendere la demografia e l’antropologia del fiume. Nella sua lenta ascesa, risultò sempre più difficile mantenere unita la spedizione; c’era irrequietezza tra gli indios costretti a una lunga assenza dalle loro terre e molti furono gli abbandoni. Teixeira, come Colombo nella prima traversata atlantica, prometteva prossimo l’arrivo, i rematori erano alla disperazione per le loro sofferenze ed erano determinati a disertare. Ma Teixeira, dando ulteriore prova della sua anilità, li persuase che avevano quasi completato l’esplorazione mentre, di fatto, erano solo a metà strada. Mandò quindi in avanscoperta una pattuglia di otto canoe, al comando dell’espertissimo Bento Rodrigues de Oliveira, con Brieva e due dei quattro soldati spagnoli, e come rematori gli indios più scontenti e ribelli19. Finalmente il grosso della spedizione, nel luglio del 1638, un anno dopo la partenza da Belém, dopo aver risalito il Napo ed essere giunto in prossimità della confluenza con l’Aguarico, fece tappa nelle terre degli Encabellados, da dove erano partiti due anni prima i due francescani e 92 Capitolo quinto i loro compagni. Da qui Teixeira, lasciato accampato il grosso della spedizione, proseguì per Quito; raggiunse l’avanguardia agli ordini di Oliveira nel distretto dei Quijos e via terra raggiunse Quito20. Qui Teixeira e gli altri furono accolti con grandi festeggiamenti, ma serpeggiava il sospetto per l’arrivo in massa di una spedizione portoghese in territorio spagnolo. C’era poi il timore, non infondato, che inglesi e olandesi potessero risalire in forze la via d’acqua e insidiare la colonia. Una delegazione – che includeva Brieva e il pilota Benito de Acosta con la sua mappa – fu inviata dall’Audiencia di Quito a Lima, per ottenere istruzioni superiori dal viceré conte di Chinchón. La risposta, il 10 novembre 1638, fu diplomatica ma netta: Teixeira, con i dovuti onori e aiuti, sarebbe dovuto ripartire al più presto con tutti i suoi, e ridiscendere il Grande Fiume fino a Belém; due gesuiti li avrebbero accompagnati, scelti nelle persone di Cristóbal de Acuña e di Andrés de Artieda, con l’incarico di preparare una dettagliata relazione di viaggio e di procedere poi alla volta della Spagna spiegando i complessi termini della questione. Da questa decisione prende forma la prima dettagliata relazione sul Grande Fiume, fatta da uomini colti e capaci, non condizionati dall’ansia di sopravvivere, ma impegnati a osservare, analizzare e riferire. La relazione di de Rojas – che fu conosciuta da Acuña prima della partenza da Quito e dalla quale trasse alcuni passi – ha diverse considerazioni interessanti, oltre a quelle riguardanti la geografia. Si nota la grande varietà delle lingue, ma anche che la lingua «generale» (contaminazione del tupí e del portoghese), oltre a essere compresa e parlata lungo la costa brasiliana, lo era anche lungo il fiume, fino a duecento leghe dall’estuario. Sotto il profilo del popolamento, tutto questo fiume è disseminato di isole, alcune grandi, altre piccole, e tante di numero che non si possono contare, cosicché non c’è lega di navigazione senza che se ne incontri una [...] e queste, anche se grandi, il fiume le sommerge, quando il livello si alza [...] Le isole grandi sono abitate da indios in villaggi e frazioni, quelle piccole vengono coltivate e utilizzate per la semina di yucca e mais in grande quantità, e perché con le inondazioni non si perda il frutto ed il lavoro delle seminagioni, usano il metodo che segue. Scavano in terra delle buche o cavità profonde quando la terra inonda le isole, e dentro vi pongono la yucca, coprendole accuratamente; quando l’acqua si ritira e la terra riemerge, la tolgono e la mangiano, perché l’umidità non l’ha fatta marcire. Amazzonia 93 In un altro passaggio si riassume un’impressione generale sul popolamento: Lungo le rive di questo gran fiume vi sono popolazioni, alcune grandi, altre piccole, e che di norma vivono in abitazioni distanziate. I portoghesi incontrarono un villaggio così grande, su ambedue le rive del fiume, che navigando tutto il giorno in vista di questo, ed avendo iniziato la navigazione tre ore prima del sorgere del sole, e fino al tramonto, non arrivarono alla fine dell’abitato né riuscirono a trovare uno spazio sul quale accamparsi che non fosse occupato da abitazioni, una di seguito all’altra. È certo che lo spazio necessario per l’acquartieramento di una spedizione di oltre duemila persone doveva essere molto esteso, difficile a trovarsi in un tratto di fiume popolato, anche se le abitazioni fossero state assai discoste l’una dall’altra. In un altro passaggio, si ricorre all’iperbole: Tutto questo Río delle Amazzoni è popolato di indios nelle isole, sulle rive e nell’entroterra, in tal maniera che per descrivere la moltitudine il piloto mayor Benito de Acosta, uomo pratico di queste esplorazioni [...] disse che sono tanti e così innumerevoli questi indios, che se fosse fatto cadere dall’alto un ago, esso dovrebbe per forza cadere sul capo di un indio. Tanto è il numero, che non potendo contenerli la terra ferma, si riversano sulle isole21. E la popolazione è tanta «che se tutti i sacerdoti che oggi sono nelle Indie fossero impiegati in questa vigna così estesa, sarebbero ben occupati, e mancherebbero gli operai». Meno incredibile è l’affermazione che nel Gran Pará, a San Luís e nel Maranhão (ma siamo già sulla costa atlantica a sud dell’estuario stesso), «gli indios insediati nei territori portoghesi e che sono in amicizia e che potrebbero ricevere la fede cattolica, sono più di un milione»22. In questa, come in diverse altre relazioni di religiosi, soprattutto se di seconda mano come quella di de Rojas, le esagerazioni e le iperboli sono così frequenti che resta difficile separare il loglio dal grano, che pure c’è. L’intento propagandistico è spesso evidente: si esagera il popolamento per invitare le autorità a concedere autorizzazioni a nuove spedizioni missionarie; si magnificano le ricchezze potenziali per assicurare il favore delle autorità civili. Intanto a Quito ci si dava daffare per favorire il ritorno al Pará dell’insidiosa spedizione di Teixeira. I due «accompagnatori» 94 Capitolo quinto ufficiali di Teixeira furono due gesuiti di rilievo, Cristóbal de Acuña, rettore del Collegio di Cuenca (e fratello del corregidor di Quito, che si era offerto in prima istanza) e Andrés de Artieda, professore di teologia al Collegio di Quito; non mancava Domingo de Brieva, oramai un habitué, che iniziava così il suo terzo viaggio transamazzonico nel giro di tre anni. Acuña era nato a Burgos nel 1597, era a Quito dal 1634, e aveva quindi quarantadue anni; lui e il suo compagno non erano gli unici religiosi della spedizione: c’erano anche, oltre a Brieva, quattro religiosi mercedari, incaricati di fondare un convento nel Pará. L’Audiencia di Quito, in ossequio alle istruzioni del viceré, in data 24 gennaio 1639, incaricava formalmente Acuña di descrivere con diligenza particolare e con la maggiore chiarezza possibile, la distanza in leghe, le province, le popolazioni di indios, i fiumi e i paraggi particolari che si incontrano dal primo imbarco fino alla città e porto del Pará23. La partenza da Quito avvenne il 16 febbraio 1639; da qui raggiunsero il Napo e poi, a valle della confluenza con l’Aguarico, il luogo dove attendeva da quasi un anno il grosso della spedizione portoghese, forte di quaranta soldati e degli indios rematori e di servizio (probabilmente in numero assai minore che non alla partenza, per le diserzioni e le morti). Nel frattempo le cose non erano andate affatto bene: gli Encabellados mal sopportarono i nuovi numerosi ed esigenti arrivati, continuamente alla ricerca di cibo. Ben presto sorsero conflitti; tre indios della spedizione furono uccisi, e la reazione dei portoghesi fu violenta, settanta indios vennero fatti prigionieri, alcuni furono messi a morte, gli altri fuggirono. Fu poi guerra continua: nelle loro imboscate sgozzavano i nostri indios quando capitavano alla loro portata, ma pagavano poi con le loro vite il triplo di quelle che avevano tolte. Castigo piccolo in confronto a quanto sono usi fare i portoghesi in questi casi24. Perfino dalle caute parole del gesuita traspare il tremendo conflitto implicito in ogni intrusione violenta nelle società autoctone da parte degli europei. Nella relazione di Acuña si possono distinguere tre parti. La prima riguarda gli antecedenti del viaggio, già riassunti sopra. Nella seconda si offre un quadro geografico del Grande Fiume, Amazzonia 95 dei suoi affluenti, del clima, della flora e della fauna, dei modi di pescare e di cacciare. C’è anche un profilo antropologico delle popolazioni rivierasche, delle loro armi e dei loro utensili, della navigazione del fiume, dei riti e degli sciamani, della loro indole. La terza, infine, è una descrizione cronologica delle fasi del viaggio, delle «province» traversate e dei popoli incontrati. La relazione di Acuña offre un fondamentale quadro dell’Amazzonia nel Seicento inoltrato. Il contatto con gli europei è già avvenuto, a monte e a valle, ma per la maggior parte del fiume – dalle confluenze dell’Ucayali e del Napo fino a quella del Tapajós – si tratta (quasi) di un «terreno vergine». Per interpretare la portata e la veridicità del racconto occorre considerare alcuni elementi. In primo luogo l’autore, che è persona colta e seria, ha avuto un incarico specifico dal viceré e dall’Audiencia, e dovrà poi riferire in Spagna al Consiglio delle Indie e al re. Ma Acuña è anche un gesuita, con il dovere di obbedienza all’Ordine, un interesse a promuovere l’evangelizzazione missionaria e a evitare l’intrusione distruttiva dei coloni; inoltre è diffidente verso i portoghesi. La tendenza a edulcorare o selezionare fatti e notizie è evidente. Acuña non è solo; con lui viaggiano Artieda, teologo e professore, l’ormai espertissimo Brieva, oltreché i lenguas, cioè gli indios interpreti:, e tanti altri compagni con esperienze amazzoniche: tutti capaci di raccogliere e trasmettere informazioni e notizie. Inoltre Acuña può dedicarsi con tranquillità al suo lavoro di osservatore, la sua vita non è in pericolo, la sussistenza è assicurata, gli indios di servizio gli procurano un certo agio, compatibilmente con le modalità di viaggio. E infine il viaggio è lento: la spedizione parte dal porto degli Encabellados nel giugno 1639 e arriva a Belém il 12 dicembre dello stesso anno. La geografia del fiume è ormai chiara; la lunghezza fissata (presumiamo dal punto di partenza sul Napo) in 1356 leghe, e all’intera Amazzonia conosciuta, della quale stima la larghezza in 400 leghe «nel punto più stretto», assegna un circuito di 4.000 leghe: misure non lontane dalla realtà25. Gli affluenti, sia da nord sia da sud, vengono identificati con i loro nomi, così come la distanza tra di loro alla confluenza con il Grande Fiume; si individuano qua e là misure di profondità e di larghezza, vengono marcate alcune particolarità del corso del fiume. Benito de Acosta, del resto, ne aveva già fornito una prima mappa, che probabilmente Acuña aveva visto prima di partire. La relazione descrive le coltivazioni della yucca e del mais, le 96 Capitolo quinto curiose modalità di conservazione della yucca (già raccontate da de Rojas), la fermentazione per ottenerne una bevanda alcolica26. Racconta della varietà dei pesci, delle caratteristiche di una sorta di torpedine con le sue scariche elettriche, del pesce vacca, o lamantino, che non è un pesce ma un mammifero e vive nell’acqua, nutrendosi delle erbe delle rive, e ha la grandezza di un «vitello di un anno e mezzo». Riferisce della straordinaria abbondanza delle tartarughe «della grandezza di uno scudo» e del modo di catturarle, durante il periodo della deposizione delle uova nelle rive sabbiose del fiume: gli indios praticano un buco nella corazza e vi passano una corda, le rimorchiano nei loro villaggi e le conservano in stagni cintati da palizzate (già osservati, e descritti, nelle navigazioni di Orellana e di Ursúa-Aguirre). Acchiappano queste tartarughe in tale abbondanza, che non c’è recinto a queste dedicato che non ne contenga almeno cento, ragion per cui questi barbari non sanno cosa sia la fame, perché una sola basta a satollare una famiglia per numerosa che sia. Con una tartaruga si può fare una botija di grasso, che serve a friggere e cucinare27. Altre sezioni sono dedicate alle piante medicinali («la migliore officina di semplici»), agli alberi per la costruzione di imbarcazioni e per le loro attrezzature, alle resine per calafatare. E poi ci sono le potenzialità del Grande Fiume, in primo luogo quei prodotti preziosi della terra, come l’ebano, il cacao, il tabacco, e la canna da zucchero che potrebbero essere sviluppati o coltivati e che sarebbero «sufficienti per arricchire non uno, ma molti regni»28. E ancora, il potenziale apporto di oro di tutti quei fiumi che discendono dalla cordigliera, da Potosí fino a Quito e alla Nueva Grenada (Colombia), di cui esistono numerosi indizi per storie e notizie e per i monili qua e là incontrati presso le popolazioni amazzoniche: «qui, finalmente, sta depositato l’immenso tesoro che la Maestà di Dio tiene custodito per arricchirne il nostro gran Re e signore Filippo IV»29. Nel corso della navigazione Acuña si sofferma sulle caratteristiche delle «province» traversate e delle «nazioni» incontrate. Gli Encabellados (Icahuates) che vivevano tra il Napo e il Putumayo, a valle della confluenza dell’Aguarico, se nei primi contatti non si erano dimostrati ostili, lo erano sicuramente diventati dopo l’arrivo – due anni prima – di Juan de Palacios, la cui morte aveva dato il via libera ai viaggi transamazzonici, e dopo la lunga Amazzonia 97 permanenza dei portoghesi. Essi vengono descritti in perenne conflitto con i popoli vicini; armati di lance e dardi, dimorano in «strane» case di frasche, e si sostentano come ordinariamente fanno le altre genti del fiume. Occorreranno decenni prima che nuovi pacifici contatti vengano stabiliti e le ferite dei primi incontri risultino cicatrizzate30. Entrati nel Grande Fiume, sessanta leghe a valle inizia la provincia degli Omaguas, che si estende per duecento leghe «e i suoi villaggi si susseguono con tale frequenza, che appena se ne perde uno di vista ne appare un’altro». Gli Omaguas abitano le numerose isole del fiume, e quasi tutte le isole non insediate vengono coltivate dai più prossimi abitanti «e si può così fare il calcolo dei molti indios che si sostentano in un’area tanto estesa». Passarono pochi anni, e il francescano Laureano de la Cruz (si veda il cap. VII) fornirà attendibili dettagli di un popolamento molto sparso che solo in senso figurato e relativo alle immensità amazzoniche poteva essere definito denso. I rionauti del secolo precedente avevano visto gli Omaguas insediati anche sulle rive del fiume, ma sul mutamento avvenuto si possono fare solo congetture. È la popolazione più evoluta di tutto il fiume, anche, sostiene Acuña, per i contatti con gli spagnoli che alcuni di loro avevano avuto nel distretto di Quijos, probabilmente al servizio di encomenderos dai quali poi erano fuggiti per i maltrattamenti ricevuti, ma riportando conoscenze e, forse, utensili. C’è ordine e gerarchia e «sono molto obbedienti ai loro cacichi e basta una loro parola perché venga eseguito ciò che comandano». Coltivano il cotone e lo tessono finemente con colori diversi e dipingono i panni, e vanno vestiti con «molta decenza», sia gli uomini sia le donne. I tessuti vengono anche commerciati con altre nazioni vicine, «che a ragione ambiscono al lavoro di tessitrici così esperte»; anche gli uomini della spedizione ne acquistano. Le relazioni con i popoli vicini erano anche parecchio conflittuali – oltre che commerciali – perché «sono in guerra continua con le popolazioni estranee» sia della riva sud sia di quella a nord; la difesa dalle aggressioni è forse la ragione della scelta insediativa nelle isole. Gli Omaguas hanno schiavi catturati in guerra, ma che trattano bene poiché vivono nelle loro case e mangiano alla stessa mensa; che siano cannibali è una frottola dei portoghesi che così giustificano le loro scorrerie in cerca di schiavi da catturare. Viene raccolta la testimonianza in questo senso da due indios della spedizione che avevano disertato ed erano stati catturati 98 Capitolo quinto dagli Omaguas. Uccidono però ritualmente i capi o i guerrieri più valorosi delle tribù nemiche, ne buttano i cadaveri nel fiume, e ne conservano i teschi come trofei nelle loro capanne. Per Acuña il cannibalismo, se esisteva, era del tutto eccezionale tra i popoli del fiume. Acuña riferisce anche la curiosa abitudine degli Omaguas di sviluppare delle «fronti piatte», costringendo la testa dei neonati tra due tavolette legate da cordicelle: la testa «somiglia più alla mitra di un vescovo mal formata che al capo di una persona». Una particolarità degli Omaguas, questa, che non è riferita dalle cronache dei precedenti rionauti. Passata la confluenza con il Putumayo, e 24 leghe prima di quella con lo Yurua, la provincia degli Omaguas termina con un villaggio popoloso, con indios guerrieri, il primo baluardo per eventuali aggressori che rimontassero il fiume31. Trascorso l’ultimo insediamento Omagua, la spedizione navigò per 54 leghe tra rive deserte, fino ad arrivare alla provincia dei Curuziraris (Asuares secondo Sweet32), 24 leghe a valle della confluenza dello Yurua, affluente della riva destra. Le sponde sono assai rilevate e per 80 leghe «la successione dei villaggi era tale, che non trascorrevano quattro ore senza incontrarne uno nuovo, e a volte, nel corso di mezza giornata, non cessavamo di avere alla vista le loro abitazioni». I villaggi erano deserti, racconta Acuña, «per le false notizie secondo le quali noi andavamo distruggendo, uccidendo e razziando schiavi, quasi tutti erano scappati nella foresta». Eppure non mancavano evidenti segnali di «gobierno e policia»; estese coltivazioni e buone scorte di cibo e soprattutto un’attività specializzata nella preparazione di terrecotte di ogni genere, per conservare, cuocere, contenere alimenti e bevande e delle quali facevano intenso commercio con altri popoli. Andavano nudi, uomini e donne, e si adornavano le orecchie e le narici forate. Ciò che particolarmente interessò i portoghesi – quando risalirono il fiume con Teixeira – furono gli adorni d’oro che gli indios esibivano pendenti dalle orecchie e dal naso e che si fecero dare in cambio delle consuete chincaglierie: quando riscesero il fiume – nota Acuña – gli indios non ne avevano più, forse li avevano fatti sparire avendo constatato l’insistenza con la quale i soldati li pretendevano. «Cosicché, benché incontrassimo molti indios, solo uno aveva orecchini d’oro, e io me li feci dare in scambio». Quel villaggio venne chiamato «Aldea del Oro». Nell’ascesa del fiume i portoghesi non erano riusciti a farsi spiegare da dove provenisse l’oro; al ritorno però Acuña aveva con Amazzonia 99 nelle relative note (34-35) è Yorimanes sé gli interpreti che raccolsero alcune notizie. Secondo questi, un po’ più a valle, risalendo lo Yapurá, affluente della riva sinistra, si poteva comunicare con un altro fiume, chiamato il «Río del Oro» nel quale, ai piedi di una catena montuosa, si trova oro in grande quantità. Le genti Manoas ne fanno commercio, mentre le genti Yurimaguas lo cavano dalle rive del fiume. In questa direzione, verso la cordigliera della Nueva Granada, starebbe il mitico «lago dorato», che «rende così inquieti gli animi di tutti in Perú» e «forse piacerà a Dio che un giorno si esca da questa incertezza». Le terre della provincia dei Curuzirarís sono tra le migliori incontrate nella navigazione, sono rilevate, con foreste non troppo fitte, spazi aperti e ottimi prati per il bestiame, costellate da laghi «e promettono molte comodità a coloro che la popolassero»33. Passata la provincia dei Curuzirarís, i naviganti traversarono quella degli Yoriman, «la nazione più bellicosa» di tutto il Grande Fiume, che si estende su 60 leghe di lunghezza. Bellicosi, ma anche capaci di commerciare; privi di timidezza, circolavano a loro agio nell’accampamento. Nella provincia degli Yoriman s’imbatterono nel maggior villaggio mai incontrato nel Fiume, poiché le abitazioni si estendono per più di una lega; e in ciascuna casa non vive una sola famiglia, come avvien da noi in Spagna, ma quelle che vivono sotto ogni tetto sono almeno quattro o cinque e molte volte di più, dal che si potrà arguire la popolosità di questo villaggio. Qui la spedizione si fermò per cinque giorni, e ripartì con più di «500 fánegas di farina di manioca, con la quale avemmo da mangiare per il resto del viaggio». Non sappiamo se con le buone o con le cattive: fatto si è che riuscirono a estrarre dal villaggio una notevole quantità di farina, capace di nutrire un migliaio di persone per un paio di mesi34. Trenta leghe prima della confluenza del Río Negro, la spedizione traversò le terre dei Basururú, alte e non soggette a inondazioni. Con sorpresa trovarono che i nativi avevano asce, machete e coltelli: gli interpreti appurarono che queste provenivano dal commercio con uomini «tutti con i capelli gialli», cioè gli olandesi insediati nella Guyana35. Il 12 ottobre 1639 la spedizione giunse alla confluenza del Río Negro – siamo oramai a 1.500 chilometri dal mare – che la 100 Capitolo quinto voce comune considerava abitato da numerose tribù. La truppa portoghese, dopo quasi due anni di viaggio, era esausta; aveva subìto perdite e sopportato stenti, e gli uomini chiesero a Teixeira l’autorizzazione a compiere una scorreria risarcitoria su per il Río Negro «perché con i molti schiavi che avrebbero tratto da questo fiume, anche se non avessero trovato altre ricchezze, sarebbero bene accolti al loro ritorno nel Pará, mentre senza di essi, senza dubbio, sarebbero stati considerati uomini dappoco». Teixeira prima acconsentì, ma i due gesuiti si opposero, e fecero una protesta formale, invocando i ritardi che si sarebbero ulteriormente accumulati nel compiere la missione, la difficoltà dell’impresa considerate le distanze e la bellicosità delle popolazioni indigene («e constatando la poca forza degli indios amici che ci sono restati, molti dei quali sono infermi»), i pericoli ulteriori nel caso che si fossero catturati schiavi in numero tale da rendere difficoltosa l’ulteriore navigazione. Se però la scorreria fosse stata consentita, i padri richiedevano a Teixeira imbarcazioni e uomini per permetter loro di completare autonomamente la loro missione secondo gli ordini del sovrano. L’intervento dei due gesuiti, a quanto pare, convinse Teixeira e la spedizione ripartì con la delusa truppa. È da sottolineare che tra gli argomenti avanzati non vi fosse quello della barbara ingiustizia della scorreria, o del rispetto del divieto di fare schiavi uomini che non fossero né cannibali né nemici in una «giusta guerra»36. Superato il Río Negro, il convoglio passò la confluenza del Madera – dal quale, osserva Acuña, erano discesi i Tupinambás – risalendo il quale si sarebbe arrivati nelle prossimità della regione di Potosí. Ed è a 28 leghe a valle del Madera che la comitiva trova «l’isola grande dei Tupinambás», lunga 60 leghe. L’isola era popolata da indios che erano trasmigrati dal Pernambuco, spopolandolo («spopolando 84 villaggi», sarebbero stati in 60 mila), fuggendo dai conquistatori portoghesi; avevano traversato il Brasile fin verso la Cordigliera, avevano avuto contatti con gli spagnoli (probabilmente nella regione dei Mojos) ed erano poi ridiscesi per il Madera popolando l’isola una o due generazioni prima («son figli o nipoti dei primi popolatori»). Durante questo periplo lungo varie migliaia di chilometri, il gruppo non sarebbe rimasto compatto, e alcune componenti avrebbero popolato altre regioni (per esempio, gli indios Brasiles poi giunti in Perú). I Tupinambás parlavano la lingua generale del Brasile, non c’era quindi bisogno di interpreti, perché i portoghesi la conosceva- Amazzonia 101 no e la parlavano. Gente fiera e vivace, molto abili con archi e frecce, inclini a ulteriori migrazioni verso il Pará, non lesinarono informazioni di ogni genere. Forse di lingua troppo sciolta, se Acuña registra, senza evidente incredulità, i racconti di popolazioni di nani e di una regione i cui abitanti «hanno i piedi alla rovescia, cosicché chi volesse seguire le loro orme, camminerebbe sempre in direzione contraria». Più avanti, nell’ultimo villaggio dell’isola, Acuña raccoglie i racconti sulle donne Amazzoni, donne guerriere che vivono tra «grandi foreste e alti monti» ai quali si arriva risalendo il Río Canuris, che sbocca nel Grande Fiume «36 leghe a valle del villaggio». Donne che vivono sole, ma che ogni anno ricevono la visita di uomini di altre terre, li ospitano per pochi giorni, e dei figli che nascono allevano le femmine mentre «dei figli maschi non si sa con certezza che cosa ne facciano». «Il tempo scoprirà la verità», scrive Acuña, anche se è disposto a dar credito alla leggenda perché «vi sono indizi così particolari, e tutti convergenti, che non è credibile che una menzogna simile si sia affermata in tante lingue e in tante nazioni, con tanto colore di verità»37. Continuando la navigazione, Acuña e i suoi compagni passano la stretta di Obidos – dove comincia a percepirsi la marea – e arrivano alla confluenza del Tapajós, uno dei maggiori affluenti della riva sud, una provincia «molto popolata dai barbari, con buone terre, di abbondanti risorse». Sono i Tapajós, descritti come gente vivace, molto temuti per l’uso che fanno delle letali frecce avvelenate (che uccisero alcuni compagni di Orellana e di Aguirre), che avevano avuto contatti con i portoghesi, ma si erano ritratti di fronte a ogni tentativo di più o meno amichevole conquista. Con la spedizione si dimostrano amici «come lo sperimentammo quando ci accampammo vicino a un loro villaggio, di più di 500 famiglie, dal quale per tutto il giorno non smisero di venire a scambiare galline, anatre, amache, farina, frutta e altre cose, e con tanta confidenza che donne e bambini si mescolavano con noi»38. Più tardi, arrivati al «Forte del Destierro» nell’estuario oramai saldamente in mano portoghese, Acuña è testimone dell’organizzazione di una scorreria capeggiata da Bento Maciel, figlio del governatore, per razziare schiavi tra i Tapajós. Maciel non tiene nel minimo conto l’ammonimento del gesuita a sospendere l’operazione fino a «nuovo ordine di Sua Maestà». L’operazione venne compiuta, con la cattura di centinaia di schiavi, inviati poi a Belém e a San Luís, «che io vidi con i miei occhi»; un successo 102 Capitolo quinto che li spinse a progettare un’altra scorreria risalendo ancora il Río delle Amazzoni «dove saranno senza dubbio maggiori le crudeltà. Col che il Fiume sarà così sconvolto, che quando Sua Maestà vorrà che si pacifichi, incontrerà gravissime difficoltà». E così vengono fatte le conquiste dei portoghesi – commenta il gesuita – ai quali va solo riconosciuto il merito di avere ripulito il Grande Fiume dagli olandesi39. Il viaggio è terminato, e con esso il racconto che si conclude con un’elegia sul Grande Fiume: «al povero offre sostentamento; al lavoratore soddisfazione per la sua opera; al mercante, occasioni; al ricco, maggior ricchezza; al nobile, onori; al potente, possedimenti; e allo stesso Re, un nuovo Impero». E, naturalmente, una moltitudine di fedeli a Dio40. Dopo avere accompagnato la spedizione, dal Napo fino all’oceano, occorre riportare altre considerazioni del racconto, di natura antropologica, sociale e materiale, utili per la ricostruzione dell’Amazzonia verso la metà Seicento. La narrazione non dice molto su credenze o religione, se non che i popoli del Fiume «adorano idoli» che costruiscono essi stessi e che presiedono alle acque e alla pesca, alle coltivazioni e alle battaglie. Con questi non fanno riti o cerimonie, si limitano a portarli con sé quando vanno in battaglia, o se vanno a pescare. Ogni nazione ha i suoi sciamani, «stregoni» che tengono in grande considerazione non per l’amore che vogliono loro, ma per il timore dei mali che possono infliggere; c’è un’abitazione dello stregone in ogni villaggio, dove questi tiene le ossa dei suoi predecessori nelle amache sospese nelle quali avevano dormito in vita. Questi sono i loro «maestri, predicatori, consiglieri e guide». I popoli del Fiume hanno riti diversi per i defunti; alcuni li seppelliscono presso le proprie abitazioni, altri li bruciano in grandi falò, anche con i loro averi; tutti «celebrano le loro esequie per molti giorni, con pianti continui, interrotti da grandi ubriacature»41. Acuña è meno sbrigativo nel valutare altri aspetti delle comunità incontrate. Anzitutto il numero dei gruppi, nazioni o tribù: sono più di centocinquanta, «tutti con lingue differenti», tutti sono localizzabili e hanno un nome, per notizie dirette o acquisite da altri. Un inventario delle nazioni citate nella relazione assomma, se ho ben contato, a centoquattro diverse denominazioni. Poi segnala la grande conflittualità tra i vari popoli, anche se prossimi tra loro; nell’ultimo villaggio visitato si ode il rumore degli alberi abbattuti nel villaggio vicino, «senza che la prossimità li induca a Amazzonia 103 far pace, continuando in guerre perpetue, nelle quali, ogni giorno, si uccidono e si fanno prigioniere innumerevoli anime. Sbocco normale per tanta moltitudine, senza il quale quella terra non potrebbe contenerli»42. Una visione «maltusiana», con la guerra come regolatrice della crescita! Gli indios sono espertissimi nella pesca: questa avviene, nel modo più facile, nelle acque basse lasciate dalle inondazioni, dove viene gettata una sorta di liana (timbó) tritata, che ha un effetto di potente sedativo sui pesci i quali, storditi, vengono poi agevolmente pescati con le mani. Altrimenti si pesca molto abilmente con la fiocina, oppure con arco e frecce. Con le stesse armi, e con la cerbottana, sono straordinari cacciatori di scimmie, mammiferi di terra (porci selvatici, hutia, coatí, formichieri, iguane), volatili di ogni genere. Tra le armi ci sono zagaglie di varie misure, e dardi, fatti di duro legno con punte ben aguzze, e il propulsore di dardi (l’atatl degli aztechi, o estolica, precisamente descritto), oltre ad archi e frecce che in alcune nazioni vengono avvelenate. Per lavorare il legno, adibito alla costruzione di abitazioni, canoe, tavole, sedili e altri oggetti, utilizzano asce di pietra; altre asce vengono costruite innestando su un manico di legno una lama («lunga un palmo e larga un poco meno») fatta con la corazza di tartaruga (la parte resistente, quella ventrale), trattata affumicandola e bene affilata; e oltre alle asce, e sempre con le corazze delle tartarughe, vengono fatti altri attrezzi, così come vengono utilizzati affilati denti di animali. Inoltre sono «abilissimi nelle attività manuali». Poiché la vita di queste popolazioni si svolge sull’acqua («come i veneziani e i messicani»), sono abili nel fabbricare le loro canoe da tronchi di cedro, spesso appropriandosi di quelli già sradicati e trascinati dalla corrente; queste moltitudini hanno bisogno di una o due canoe per famiglia43. La spedizione fece anche un’altra cosa, che Acuña non racconta ma del quale fu testimone, e che verosimilmente censura. Teixeira aveva ricevuto istruzioni da Noronha, prima della partenza dal Pará, di procedere a demarcare il confine dei possedimenti portoghesi in Amazzonia. Questo venne fatto, con una presa di possesso fatta con atto ufficiale, scritto notarile, segnalazione del luogo con un cippo di legno iscritto, raccolta delle testimonianze degli ufficiali, in prossimità della «Aldea del Oro», non lontano dalla confluenza dello Yapurá. La presa di possesso avvenne il 16 agosto 1639, nel nome di «Filippo IV, Re del Portogallo» (omettendo che era anche re di Spagna; la località il passo non è chiaro 104 Capitolo quinto venne battezzata Franciscana in onore dell’Ordine di Brieva e Toledo, si presume con scorno dei due padri gesuiti44. Poco più di un anno dopo, nel dicembre del 1640, il Portogallo si ribellò, incoronando re Giovanni IV, e l’unione tra i due regni si ruppe. La pubblicazione della relazione di Acuña avvenne nel 1641, a rottura consumata, ed è comprensibile che di questa presa di possesso, che legalizzava il dominio portoghese dell’Amazzonia ben oltre il Río Negro, non si parlasse. Il 12 dicembre 1639 la spedizione – ciò che di essa restava – arrivò a Belém, dieci mesi dopo la partenza da Quito, e due anni e due mesi dopo l’inizio del viaggio dalla stessa città. Acuña e Artieda rientrarono in Spagna; Acuña dette alle stampe la sua relazione, e presentò un Memorial, con le proprie raccomandazioni, al Consiglio delle Indie. La ribellione dei portoghesi (rampognati spesso nella relazione stampata) si era già consumata; la Catalogna era in rivolta e la Spagna era impegnata nella guerra dei Trent’anni. Dopo aver raccomandato che si rinnovassero le prerogative e i privilegi ai gesuiti, Acuña formulava una serie di raccomandazioni e ne illustrava i vantaggi. In sintesi: che si operasse una conquista evangelizzatrice della valle amazzonica, dando finalmente corpo alle intenzioni più volte formalizzate dai regnanti, e che tale conquista si facesse discendendo e non risalendo il Fiume; una conquista pacificatrice che avrebbe trovato il consenso delle tribù esauste dalle continue guerre. Con l’insediamento in Amazzonia si sarebbe potuto controllare l’utilizzo della via d’acqua per esportare le ricchezze del Perú, evitando il pagamento dei diritti di dogana a Cartagena, e anche il rischio delle incursioni dei corsari, frequenti nell’area caraibica. Si sarebbero così interrotti i rapporti con i portoghesi del Pará, assai pregiudizievoli; si sarebbe dissolto il rischio di tentativi di intrusione nel Perú dei lusitani, magari con l’ausilio di altre nazioni (inglesi o olandesi). Una volta liberato il basso corso del fiume dai portoghesi si sarebbe aperta una facile via d’acqua dal Perú alla Spagna, evitando il costoso, lungo e pericoloso tragitto via Panamá e Cartagena. Ma soprattutto – e questo passo ha un notevole interesse demografico – Acuña avvertiva che gli indios di tutto il Perú, e in quasi tutte le regioni scoperte, e specialmente dove ci sono miniere e fattorie importanti, che dipendono dal loro lavoro personale [...] ogni giorno che passa vanno così velocemente diminuendo, che in pochi anni, per il loro venir meno, verranno a cessa- Amazzonia 105 re, o per lo meno a diminuire grandemente, i tanti vantaggi collegati alla loro esistenza; un danno grande senza dubbio, e che Vostra Maestà deve prevenire in tempo e rimediare in tutti i modi possibili. E non ce ne sono, né se ne possono immaginare altri, che prendere di petto la conquista e la conversione di questo nuovo mondo, nel quale sono tanti gli indigeni che lo abitano, che potranno popolare tutto lo spopolato Perú: poiché se si assoggettano al giogo del Santo Vangelo, con la pace generale, cesseranno le continue guerre nelle quali ogni giorno si consumano gli uni con gli altri, ed aumenteranno in tale maniera, che rompendo le strette costrizioni che oggi li ingabbiano, sarà necessario che dilaghino in più spaziosi regni45. Non risulta che le raccomandazioni di Acuña facessero breccia nella politica coloniale della Spagna. Prima che fosse trascorso un decennio dal ritorno di Teixeira a Belém, un’altra canoa con otto persone a bordo – il francescano Laureano de la Cruz, che già abbiamo incontrato tra gli Encabellados nel fallito tentativo di evangelizzazione, altri due frati, due chierichetti e cinque indios rescatados (servi o schiavi) – si staccava dalla riva di una delle isole Omagua. Incerti se risalire faticosamente il fiume, alla volta di Quito, o farsi trascinare dalla corrente, arrivare al mare e poi in Venezuela, i dieci optarono all’ultimo momento per quest’ultima soluzione. Era il 15 ottobre 1650; la canoa era stata allestita in fretta e furia nei giorni precedenti, era lunga tredici metri e larga uno, ed era stata approvvigionata alla meglio46. Ci mise settanta giorni per arrivare a Belém, dove approdò alla vigilia di Natale. La partenza dall’isola (battezzata San Pedro de Alcantara) avvenne perché gli Omaguas, presso i quali Laureano viveva da anni passando da un’isola all’altra e impegnato nell’ardua opera di conversione, erano in stato di pericolosa agitazione. In poche parole, Laureano e i suoi temevano per la loro vita. La sua relazione Nuevo descubrimiento del Río Marañon, llamado las Amazonas è ricca di osservazioni preziose sugli Omaguas e ne tratteremo più avanti (cfr. cap. VII). Limitiamoci qui a trarre dal racconto del viaggio qualche ulteriore elemento a completamento delle osservazioni dei precedenti rionauti, che Laureano per lo più conferma. A valle degli Omaguas, a 52 leghe di distanza, i dieci entrano nella provincia degli Aysuaris (i Curuziraris da Acuña), lunga 80 leghe, i cui abitanti vanno nudi e vivono sopra alte rive, disseminate di rancherias distanti l’una dall’altra «più o meno mezza lega», in abitazioni fatte di legno e frasche, chiuse per difendersi dalle zanzare, con solo una piccola apertura. Fabbri- 106 Capitolo quinto cano vasellame che scambiano con altre tribù47. Proseguono poi per la provincia degli Yoriman, lunga 60 leghe, abitata da indios anch’essi nudi, «i più numerosi mai incontrati», aggressivi, armati di archi e frecce, presso i quali non osano fermarsi; passano alle viste di un villaggio con «20 o 24 case»48. Navigano poi per 70 leghe che appaiono deserte «senza villaggi né genti». Passano la confluenza del Río Negro, e 60 leghe a valle arrivano all’isola dei Tupinambarana, «senza avere visto, in tutto quel tratto, gente alcuna». Qui si fermano in un villaggio di circa sessanta case, dove viveva un portoghese, con alcuni indios che erano stati sommariamente evangelizzati. Proseguendo, presso lo sbocco del fiume Condurises, o «delle Amazzoni», c’è un «luogo con sei case»: Laureano richiama la storia delle donne guerriere: «tutto questo, e altre cose che udimmo, sono solo voci, e nulla vedemmo né si poté accertare, né dagli indios né dai portoghesi che ordinariamente navigano per questo fiume»49. In compagnia del portoghese e di altri due indios, riprendono il loro viaggio, fino allo sbocco del Tapajós, o «Río de los Trapajosos», come li chiama il frate, dove nei pressi di «un villaggio di dieci case» si imbattono in una spedizione al comando del capitano Manuel de los Santos. Questi era una vecchia conoscenza, perché aveva accompagnato Teixeira con Domingo de Brieva nel viaggio a Quito quattordici anni prima. I portoghesi informano Laureano e i suoi compagni dell’impossibilità del loro progetto di arrivare in Venezuela via mare perché la ribellione del Portogallo ha interrotto ogni commercio tra il Brasile e la colonia spagnola. Essi dovranno rassegnarsi a raggiungere il Pará e il Maranhão e da lì – ma non sarebbe stato facile – la Spagna50. I portoghesi si stanno apprestando a risalire il fiume in cerca di schiavi, e Laureano con un altro frate accetta di accompagnare la scorreria. L’esperienza diretta gli permette di spiegare i meccanismi della cattura, che avviene «acquistando» presso un villaggio dei Tapajós prigionieri di altre nazioni; ciascun prigioniero è scambiato con tre attrezzi di ferro («tres herramientas»), una camicia e due coltelli. I portoghesi giustificano questo acquisto (riscatto) con la scusa che i prigionieri sono destinati a essere uccisi e quindi cannibalizzati, ma Laureano non ci crede: «può darsi che nei primi tempi della conquista sia avvenuto qualcosa del genere [...] però al giorno d’oggi, per quello che vedemmo e udimmo dagli stessi portoghesi, non esistono più questi indios di corda, che così si chiamavano quelli destinati a essere uccisi Amazzonia 107 e mangiati». Nel caso specifico, la spedizione non dette troppe soddisfazioni ai razziatori, anche per la fuga degli indios che avevano abbandonato i loro villaggi. Ma spesso avveniva che gli indios stessi organizzassero le razzie tra nazioni nemiche per rifornire i portoghesi, che non stavano certo a sottilizzare sulla liceità del commercio. Venimmo a sapere come gli indios «amici» o convertiti di recente, facessero essi stessi bande armate per andare a far prigionieri tra le altre tribú, per darli poi ai portoghesi o per avidità del riscatto o per sfuggire alle loro violenze. La conseguenza è che nelle regioni dell’estuario – Curupá, Pará e Maranhão – queste spedizioni colpiscono gli indios convertiti, che sono reclutati come rematori. Per fame, stenti e uccisioni «si sono consumati e sono spariti [...] così come è avvenuto nelle provincie degli indios gentili»51. Nel 1647 il frate cappuccino Cristovão da Lisbona scrisse: Tutti erano colpiti da quanto numerosi fossero gli indios che vivevano nel Pará e sui grandi fiumi della regione, ma oggi sono pochi i villaggi che sopravvivono, perché gli altri sono spariti per le ingiustizie dei razziatori di schiavi. Quando gli indios si accorsero che erano gradualmente posti in schiavitù, contrariamente a giustizia e ragione, dettero fuoco ai loro villaggi e fuggirono nel profondo della selva52. A Curupá arrivarono alla vigilia di Natale, e il 1º febbraio 1651 giunsero a Belém, ricevuti dai confratelli del convento di San Francesco; da lì procedettero a San Luís, ospiti di un altro convento dell’Ordine. Ma dovettero attendere un altro anno prima che il governatore desse loro licenza di partire per Lisbona su una «nave nuova, con un carico di zucchero», e dopo cinquantasette giorni di navigazione sbarcarono in Portogallo il 24 marzo 1652; dovettero vincere ancora varie difficoltà prima di poter fare ritorno in Spagna, un anno e mezzo dopo la partenza dall’isola del Grande Fiume53. Fra il 1636 e il 1651 abbiamo notizie e cronache, delle quali abbiamo riferito, di quattro navigazioni amazzoniche. La prima e l’ultima – quelle di Brieva e Toledo, e di Laureano de la Cruz – si assomigliano sotto vari profili: si tratta di frati francescani; sono in fuga da situazioni di pericolo (tra gli Encabellados e tra 108 Capitolo quinto gli Omaguas); partono in fretta e senza preparativi; viaggiano con pochi compagni e in una sola canoa; dal Pará e dal Maranhão (salvo Brieva) passano in Portogallo e in Spagna. Le altre due navigazioni, su e giù per il fiume, sono fatte dalla stessa grande spedizione al comando di Teixeira e, si può dire, che quella di ritorno descritta da Acuña incorpora anche dati, esperienze e conoscenze derivate dalla due precedenti. Alla diversità delle circostanze, della personalità dei narratori e delle finalità delle relazioni si debbono le incongruenze tra le narrazioni. Queste riguardano soprattutto le notizie sul popolamento, che stando alle iperboli di de Rojas e di Acuña, sarebbe straordinario: un ago che cadesse dal cielo cadrebbe necessariamente in testa a un indio, secondo il primo; le innumeri nazioni, se pacificate smettessero di farsi guerra, potrebbero popolare lo spopolato Perú e altri regni, osserva il secondo. I gesuiti erano però alla ricerca del sostegno delle autorità religiose e civili, in Perú o in Spagna, per avere più missionari per l’opera di evangelizzazione, e questo li spingeva a magnificare le prospettive di conquista ed evangelizzazione. Ma se evitiamo le considerazioni generali e restiamo a ciò che i naviganti poterono vedere con i loro occhi e testimoniare direttamente, le cose stanno diversamente. Il fiume ha molti e lunghi tratti spopolati; i villaggi sono di poche abitazioni (solo in un caso si parla di «500 famiglie») e anche nelle zone più popolate sono, di norma, assai distanziati gli uni dagli altri. La gran quantità delle nazioni – 150 secondo Acuña – lungo il fiume e gli affluenti non implica una popolazione né densa né grandemente numerosa, perché le dimensioni di queste «nazioni» era di massima modesta. Secondo padre Figueroa, già citato nel capitolo precedente, raramente superavano il migliaio di unità. L’enorme quantità di tartarughe di fiume – fonte privilegiata di alimenti – evoca un certo equilibrio con la popolazione di cacciatori che doveva essere forzatamente limitata. Una popolazione numerosa, data la facilità della cattura, le avrebbe sterminate. In alcuni tratti il popolamento era sicuramente maggiore, permettendo a una numerosa spedizione di rifornirsi di vettovaglie di base. Certamente più denso era il popolamento nella grande area dell’estuario. Ma qui l’insediamento europeo e le scorrerie nel basso corso del Grande Fiume, divenute sistematiche dopo il 1620, avevano già iniziato l’opera di distruzione. Nell’alta Amazzonia, fino, e oltre, la confluenza del Napo, il popolamento era sporadico. Gli stessi Omaguas, Amazzonia 109 che nelle testimonianze concordi erano il gruppo più strutturato, dovevano essere poche migliaia, come si desume da altri elementi che esamineremo in seguito. Stiamo, naturalmente, utilizzando indizi e costruendo congetture su elementi fragili e sparsi, evitando forzature. Ma due conclusioni appaiono lecite. La prima è che in una tale immensità – le migliaia di chilometri del Grande Fiume percorse dagli europei e dai loro compagni di viaggio – il popolamento fosse relativamente modesto. Il contatto c’era già stato, a monte e a valle, e lo stesso Laureano de la Cruz fu testimone, nel 1648, dell’esplodere del vaiolo tra gli Omaguas: ma siamo, se non altro, nella fase iniziale e sporadica dell’interazione fra europei e indios. La seconda conclusione – più corretto sarebbe chiamarla ipotesi – si fonda su elementi ancora più tenui. Contrariamente all’opinione comune, secondo la quale tra la metà del Cinquecento e la metà del Seicento la popolazione amazzonica ha subìto un tracollo, l’analisi comparata delle relazioni dei sei viaggi lascia il lettore con l’impressione che poco fosse cambiato da un secolo all’altro. «Sono mansueti e di natura pacifica [...] con grande confidenza parlano, mangiano e bevono con noialtri»54, e questo era anche il giudizio degli altri naviganti: del resto, sia Brieva che Laureano de la Cruz navigarono l’intero fiume senza troppi inconvenienti. L’ostilità delle popolazioni amazzoniche fu quasi sempre di difesa, scatenata dalle aggressioni, dalle rapine di cibo, dalle spedizioni armate, dalle razzie di schiavi. Queste e altre relazioni danno sicura prova che tali meccanismi portarono a fughe, dislocazioni e migrazioni. Il segno indelebile di un contatto fra continenti tremendamente asimmetrico. VI. Missione impossibile. Pescatori di anime: maglie larghe e pesci piccoli. Una missione modello. Gli irriducibili Jivaros e un napoletano scriteriato. Un bavarese sciamanico predica in quaranta villaggi nelle isole del fiume. Il fare e disfare dei missionari L’ opera di evangelizzazione che i padri gesuiti intrapresero nell’alta Amazzonia a partire dal quarto decennio del Seicento fu coraggiosa quanto azzardata. La regione che si apriva loro davanti – passate le rapide del Pongo – era sconfinata; lungo e impervio il cammino da Quito o da altri sicuri centri spagnoli; innumeri e dispersi gli abitanti; sconosciute le lingue; disastrosi gli esiti dei primi contatti, fin dalla prima navigazione di Orellana. Fluidi, mobili e sospettosi gli autoctoni con i quali i padri si industriavano di instaurare un contatto amichevole, per poi indurli a raggrupparsi e a radicarsi, ad abbandonare, almeno, le pratiche più estreme, ad accettare predicazioni oscure. I padri, e la loro religione, non erano sostenuti dalla maestà principesca di un conquistatore come Cortés, avvolta nel mito quasi sovrannaturale e dalla forza della sua armata, anche se esigua. Né dalla forza senza scrupoli di Pizarro, capace di abbattere un impero, di essere decisivo nelle guerre civili, di imporre un nuovo ordinamento. Né operavano tra popolazioni evolute, stanziali e strutturate – come quelle mesoamericane e andine – sulle quali una nuova religione poteva imporsi e diffondersi, per convinzione, interesse e opportunità, senza determinare sostanziali modifiche nei modi e nelle pratiche di vita. Né, infine, quei pochi e isolati padri, avevano solidi argomenti di convinzione: qualche sostegno armato che più che timore e rispetto seminava terrore e repulsione; utensili di ferro e acciaio che pur ambiti dagli indigeni erano sempre troppo scarsi per le difficoltà di trasporto e la scarsità dei mezzi; inoltre quei padri non erano in grado di fornire agli indios né sicura protezione contro etnie ostili, né certe garanzie di non essere ridotti in schiavitù dai coloni spagnoli. E dunque, la fede e la caparbia 114 Capitolo sesto persistenza dei padri, la capacità di molti e l’eroismo di alcuni raccolsero, nel complesso, pochi e spesso effimeri frutti. E man mano che ci si allontanava dalla regione – a Quito, a Madrid, a Roma – cresceva la convinzione delle gerarchie che le aspirazioni evangelizzatrici fossero sproporzionate rispetto alla realtà, e che il gioco non valesse la candela. Dall’esperienza dei gesuiti in Mainas si possono individuare e valutare alcuni dei meccanismi di attrazione e repulsione che agirono nel contatto tra europei e autoctoni, condizionando la sorte di questi ultimi. Molto è noto, dalle lettere, dalle informative, dai racconti degli stessi protagonisti, dovutamente interpretati e depurati delle componenti edificanti. Questi offrono descrizioni vive e di prima mano di fatti e vicende relative ai tentativi di contatto, ai loro esiti, ai successi e ai fallimenti, e indicazioni utilissime per la comprensione della demografia e dell’antropologia della regione. Difficile è dare ordine e sistema a queste testimonianze per cui seguiremo la via più semplice che consiste nel riferire alcune esperienze, di successo come di insuccesso, trarne gli elementi principali, discutere se possano estendersi ad altre situazioni, se non assumere carattere di generalità. Abbiamo incontrato padre Lucas de la Cueva che, assieme a padre Cugia, discese il Marañon nel 1638, passò il Pongo e arrivò a Borja, «città» fondata dagli spagnoli meno di vent’anni prima. I due padri furono i primi evangelizzatori della regione; vi giunsero poco più di due anni dopo la sollevazione degli indiani Mainas, la strage che questi fecero degli encomenderos spagnoli a Borja e nel suo distretto, la spietata repressione successiva a opera di forze giunte in soccorso, la dispersione dei superstiti. Mentre Cugia rimase a Borja avviando una faticosa opera di recristianiazzazione degli spagnoli e di conversione degli indios, de la Cueva accompagnò una spedizione «pacificatrice» alla ricerca dei fuggitivi Mainas. Un’operazione nella quale si distinse Bernardino Lopez «che condusse valorosamente il castigo dei Mainas ribelli, ne fece uccidere più di duecento e ne giustiziò molti altri e portò a Moyobamba quanti ne volle»1. Cueva si distaccò da questa spedizione e, accompagnato da una scorta di soldati e da un gruppo di indios Xeveros, ridiscese il Marañon fino alla confluenza dello Huallaga, lo risalì per un tratto fino a incontrare l’affluente Apena sulle cui rive erano insediati gli Xeveros, «dispersi in numerose rancherias distanti tra di loro due, quattro e sei leghe; alcuni tre Amazzonia 115 o quattro giorni [di cammino]»2. È all’evangelizzazione degli Xeveros che si dedica de la Cueva negli anni seguenti, visitato con frequenza da Cugia che era restato nel capoluogo di Borja con funzioni di superiore. Un’opera lunga perché «costò molto tempo e fatica la loro “riduzione”, molte blandizie e regali, di asce, coltelli, aghi, punzoni, ami e altri oggetti che apprezzano»3. Cueva riuscirà nell’opera di «ridurre» in villaggi stabili numerosi Xeveros: la missione di Limpia Concepción, e i suoi tre villaggi «annessi», sarà tra le meglio organizzate, più stabili e popolose della regione. Gli Xeveros saranno spesso utilizzati come ausiliari nelle spedizioni di «pacificazione» di altri gruppi e di «cattura» dei fuggitivi. Un successore di Cueva, padre Figueroa, dava pieno merito al suo predecessore del fatto che «gli indios appaiano così industriosi che non sembrano essere della selva, ma bensì come i più civili e acculturati del Perú, tanto nel vestirsi come in altro»4. Tuttavia l’opera di padre Cueva fu piena di ostacoli; nei primi anni avvenne spesso che quando il Padre si assentava gli indios se ne tornassero ai loro luoghi di origine e poi occorreva faticare per convincerli a tornare5. Nel 1643, quando l’opera di riduzione in villaggio era già iniziata, il fatto che de la Cueva iscrivesse nel libro il nome dei battezzati fece sorgere il sospetto che si trattasse di liste di persone da «consegnare agli spagnoli», la sorte più aborrita. Serpeggiò il malcontento, seguì una ribellione, una fuga generale cui fu posto termine dall’intervento del tenente di Borja, che minacciò l’asservimento agli spagnoli di coloro che si fossero rifiutati di ritornare alla missione. Fu così che anche i Paranapuras e i Cocamillas – che avevano partecipato alla rivolta – vennero portati alla Limpia Concepción e poi stabiliti in due insediamenti annessi (San Pablo de Pandabeques e San José de Ataguate). Gli spagnoli inscenarono una macabra finzione per terrorizzare gli indios, erigendo forche e simulando la condanna all’impiccagione dei colpevoli; i Padri Cugia e Cueva si prestarono a intercedere per la loro vita all’ultimo momento6. Da allora, osservava padre Figueroa, sono stati indottrinati e addomesticati così bene [...] che sono i più devoti ai Padri e agli Spagnoli, servendoli con fedeltà nelle armate e nelle spedizioni che si fanno per pacificare nuove nazioni e convertirle al Santo Vangelo, e sono esenti dalla mita e dal tributo, e si dedicano solamente alle cose di guerra e al servizio dei Padri7. 116 Capitolo sesto Intorno al 1660 Limpia Concepción appariva un esempio per la regione. Gli indios, che prima giravano nudi, indossano camicette «che tessono e dipingono, di cotone, come gli indios del Perú». Hanno una chiesa, bella non per il valore e la ricchezza dei materiali e la preziosità artistica, ma «per l’originalità, il candore e la pulizia del suo altare, dei suoi ornamenti e delle decorazioni, che sono in colore sopra fondo bianco, e che vengono rinfrescate ogni settimana». I tre villaggi annessi hanno «chiese con campane» nelle quali dice messa il Padre quando va a imparire i sacramenti a qualcuno, e «dai quali vengono gli abitanti la domenica e le altre feste comandate a sentir messa, dottrina e predica». Tutti sanno pregare, salvo i più vecchi. «I bambini e gli adolescenti pregano in chiesa con molta puntualità tutti i giorni: al mattino nella lingua generale degli Inca, alla sera in quella materna, e si insegna loro il catechismo». Si insegna anche agli adulti e si sorveglia la loro pratica religiosa, si fanno processioni e «in quaresima si confessano, e quelli più capaci fanno la comunione»8. Sulla conversione e religiosità degli Xeveros – al di là delle apparenze – ci sono parecchi dubbi. I padri sicuramente avevano delle priorità e anzitutto miravano a sradicare omicidi, promiscuità, ubriachezza, ma per il resto procedevano con prudenza. Il provinciale padre Sobrino, in una lettera di istruzione a due religiosi avviati a evangelizzare i Paezes, ammoniva che lo «zelo eccessivo può causare molto danno e impedire la conversione di molti, e perciò dovete sposare un principio, nel vostro cuore, che ai peccati che troverete sia posto rimedio poco a poco con grande pazienza e magnanimità»9. La prudenza fu esercitata nei battesimi, che furono somministrati – nei primi cinque anni – solo ai neonati e ai moribondi. La missione aveva anche la sua gerarchia civile con «regidores, alcaldes, alguaciles il cui incarico deve essere confermato dal tenente di Borja, fuorché per i fiscales [sorveglianti] che vigilano su quanto attiene alla dottrina, nominati dal Padre». Ma c’erano anche le necessità materiali del Padre, cui la comunità provvedeva con seminativi di yucca, banane, mais, barbasco e cotone, costruendo la sua abitazione e incaricando ogni settimana «due indios, che chiamano mitayos, a cercare qualcosa nei boschi e sulle rive dei fiumi, per portarli al Padre. E così fanno, portando ora una scimmia, ora un pappagallo o altri volatili o animali, o pesce, o cuori di palma»10. I seminativi, già al secondo raccolto, cominciarono a esaurirsi, e dovettero essere abbandonati per preparare altri appezzamenti tagliando Amazzonia 117 il bosco e ripulendoli. Erano stati anche introdotti alcuni capi di bestiame che venivano fatti pascolare in campi abbandonati, e che si erano moltiplicati fino a circa cento: poi alcuni erano stati macellati, altri inviati ad altre missioni, altri ancora uccisi dagli indios perché devastavano i seminativi. Va notato anche che gli Xeveros mantenevano già da tempo (anteriormente alla loro riduzione in missione) contatti con gli spagnoli della città di Moyobamba, sull’alto corso del fiume Mayo: lo afferma de la Cueva in una lettera del 1638. Gli Xeveros portavano loro ragazzi presi in schiavitù da altre tribù e li rivendevano agli spagnoli in cambio di asce, machete, coltelli e altri utensili; i Cocamas dello Ucayali – con cui erano stati in feroce lotta – vennero a patti con gli Xeveros che cedevano loro i preziosi utensili in cambio di canoe, mantelli e camice11. Si cercò anche di attrarre a Limpia Concepción altri gruppi: oltre che con i Paranapuras e i Cocamillas, di cui si è detto, fu possibile con i Cutinanas, dello stesso ceppo linguistico, che si insediarono in un terzo villaggio «annesso» (Santo Tomé de los Cutinanas). Nel 1690 Limpia Concepción e i suoi annessi vennero accorpati in un nuovo insediamento a quattro giorni di viaggio a monte sul Río Apena. In questo luogo si fissarono e formarono tre quartieri di abitazioni. Nel più alto si insediarono gli Xeveros, un quadrilatero con strade diritte e una piazza sgombra nel mezzo; nel più basso i Cutinanas, con meno ordine, pulizia e simmetria, e occupano una fascia lunga con alloggi male allineati. Il terzo, nel mezzo, dove vivono i restanti abitanti, sta dietro la chiesa e la casa del Padre e occupa il centro dei tre quartieri»12. Furono insediati nel nuovo sito anche centoquattro Jivaros fatti prigionieri nelle drammatiche spedizioni di inizio degli anni Novanta del Seicento. Non fu questo, però, l’unico spostamento. All’epoca dell’espulsione, la missione contava circa duemila abitanti – più o meno come all’inizio – ma ci vivevano, oltre che gli Xeveros, anche Alabonos, Jivaros, Ticunas, Barbudos, Yameos e Ataguates13, a testimonianza del dinamico processo di mobilità, fusione e scissione delle etnie della regione. Lo spirito guerriero degli Xeveros li fece ausiliari dei padri e degli spagnoli nelle varie spedizioni di conversione, cattura, repressione. Nel 1666 vennero impiegati nella repressione della rivolta dei Cocamas, che avevano distrutto la missione di Santa 118 Capitolo sesto Maria de Huallaga, provocato la morte di Figueroa, ucciso quarantaquattro indios in Limpia Concepción, causato la devastazione della regione14. Gli Xeveros parteciparono all’impiccagione collettiva di dieci cacichi dei rivoltosi15. Nel 1691 troviamo gli Xeveros impegnati nella prima fase della disastrosa spedizione voluta da padre Viva contro gli indomiti Jivaros: ma questi non poté pagare gli ausiliari con gli utensili promessi e «gli Xeveros, specialmente, che fino ad allora erano stati molto fedeli e ottimi soldati, tornarono molto disgustati alle loro terre, e alcuni loro cacichi minacciarono insubordinazione»16. Guerrieri, fedeli alleati e ausiliari, con tradizioni di commercio e di scambi, ben radicati in un villaggio ordinato e relativamente popoloso, gli Xeveros rappresentarono, per i gesuiti, un esempio di successo: «gran parte di ciò che ho raccontato si applica anche ad altre riduzioni, perché come ho detto, questa è servita e serve di esempio per tutte, perché in tutte si cerca di introdurre ciò che in questa si è fatto»17. Un esempio, però, che ebbe assai poche repliche. Questa descrizione è di padre Lucero, superiore della regione, che visse trent’anni in Amazzonia e partecipò alle spedizioni fallimentari contro i Jivaros: I Jivaros sono robusti, alti e ben formati di corpo, e superano di gran lunga le altre nazioni dell’Amazzonia. Si vestono con una specie di tunica che cadrebbe fino ai piedi se non la raccogliessero alla vita con una larga cintura intessuta di crini. [...] portano una fascia cremisi attorno alla fronte a mo’ di ghirlanda intrecciata con conchiglie. Il loro modo di parlare e di muoversi è molto arrogante. Le loro armi sono lo scudo e la lancia e le lame affilate delle loro lance e picche son di osso tratto dai cadaveri degli uomini che uccidono con l’inganno e il tradimento [...] Non conoscono altra legge se non quella che chi vince sopravvive18. All’epoca dei primi missionari i Jivaros vivevano dispersi, in 18 valloni, discosti dalle grandi vie d’acque, isolati, ed era assai difficile entrare in contatto con loro. Se si aggiungono l’abitudine – comune ad altre etnie, anche tra gli Xeveros – di tagliare e mummificare le teste dei nemici, il loro noto valore in battaglia, il vivere in zone poco accessibili, la loro conflittualità anche intraetnica, il loro isolamento, durato fino a epoche relativamente recenti, si ha il quadro che i contemporanei fecero dei Jivaros nel Seicento. Eppure i tentativi di «pacificarli» ed «evangelizzarli» Amazzonia 119 furono molti, brutali e tutti, alla fine, disastrosi. Raccontarne le vicende serve a comprendere – e fu un caso, probabilmente non unico – le modalità e le conseguenze, immediate e durature, del contatto. I Jivaros erano popolo della montaña, cioè, in realtà, del basso pedemonte orientale delle Ande, degli ultimi bassi rilievi che si annullano nella grande pianura amazzonica, un ambiente tropicale della selva e della foresta pluviale. Ancora oggi, come allora, popolano – in molte decine di migliaia – una vasta area prevalentemente nei bacini degli affluenti di sinistra del Grande Fiume: da ovest a est, il Santiago, il Morona e il Pastaza. Essi vivevano in una regione dove la proiezione transandina degli spagnoli aveva sfruttato – tramite il lavoro degli indios – l’oro presente nei depositi fluviali e nel terreno, ragione del sorgere degli insediamenti fugaci dei colonizzatori. Ma il contatto, con lo sfruttamento degli autoctoni da parte dei coloni e degli encomenderos – spesso una brutale rapina –, non ebbe vita lunga: nel 1599 i Jivaros si ribellarono, distrussero l’insediamento di Logroño e uccisero un numero imprecisato di spagnoli. Nell’epoca della quale trattiamo si sapeva che essi erano numerosi, bellicosi e che nel loro territorio si era trovato l’oro. Ragione sufficiente, quest’ultima, per reiterare tentativi di penetrazione man mano che il ricordo del passato insuccesso svaniva19. Vale la pena raccontare succintamente i principali tentativi di penetrare nelle terre dei Jivaros, dei quali si ha notizia soprattutto dai prudenti racconti dei padri, che sicuramente attenuavano gli aspetti più crudi di questi episodi. Del primo di essi – ne conosciamo quattro, durante il Seicento, che hanno lasciato tracce – si sa poco. Avvenne nel 1631, quando un gruppo di spagnoli (non sappiamo quanti), guidati dal capitano Juan de Lara, e accompagnati da padre Rugi, penetrarono in territorio Jivaro passando da Santiago de la Montaña. Dopo aver vagato a lungo, con i Jivaros che adottavano la tattica di evitare lo scontro ed eventualmente aggredire di sorpresa, si «trovarono ridotti a mal partito e privi delle salmerie e del cibo necessario», per cui furono costretti a battere in ritirata20. Non sappiamo altro. Assai più dettagliata ed esemplare è invece la storia della spedizione su grande scala (per i tempi e i luoghi) voluta dal ricco governatore di Chachapoyas, Martin de la Riva Herrera. Questi ottenne di diventare governatore di Mainas succedendo al defunto Pedro Vaca de la Cadena, e nel 1654 organizzò una entrada in 120 Capitolo sesto grande stile. Lo accompagnavano cento soldati spagnoli – una forza più che cospicua in quell’epoca – oltre a parecchie centinaia di indios e tra questi cinquanta Xeveros, che andò aggregando alla sua compagnia in varie parti della regione. Nel luglio del 1655 giunse al Santiago – alla confluenza col Grande Fiume – e lo risalì per venti giorni. Stabilì il suo campo base, nel quale era stata montata una fucina, e si addentrò nel territorio dei Jivaros che adottarono la loro consueta strategia di guerriglia, ritirandosi, nascondendosi, organizzando agguati e incursioni, piombando all’improvviso sugli intrusi e mietendo un gran numero di vittime nella truppa di don Martin. All’inizio del 1656 uno dei tre religiosi che accompagnavano la spedizione, padre Raimundo de la Cruz, scrisse una dura lettera a don Martin chiedendogli di non continuare una spedizione che si stava rivelando fallimentare, in una zona pericolosa e sconosciuta, sparsamente popolata da gente guerriera e aggressiva. E anche falsa e traditrice; in un caso sembravano avere accettato di riunirsi per costituire un insediamento, ma poi erano scappati tutti, uccidendo e tagliando la testa ad alcuni indiani amici. Gli Jivaros non si lasciavano raggiungere. Secondo il loro costume, evitavano la battaglia, fuggivano sempre quando fiutavano il pericolo, distruggendo campi e seminativi, bruciando le case [...] Il loro unico modo di combattere erano le imboscate, delle quali erano espertissimi, e nelle quali potevano impunemente uccidere i loro nemici21. Gli «indiani amici vogliono tornare alle loro case e alle loro famiglie dalle quali sono distanti da cinque mesi e mezzo, la maggior parte, se non tutti, ammalati, mentre altri sono morti». E, ancora, i soldati «spagnoli sono quasi tutti ammalati e disfatti». Se poi la spedizione cercava l’oro che si diceva esserci nella regione, ebbene, le prospezioni fatte in vari luoghi non avevano reso «nemmeno un tomino d’oro». Convinto dagli insuccessi, don Martin rientrò a Borja, ma si lanciò in altre disastrose spedizioni sulle rive del fiume Pastaza, formando anche un insediamento i cui indios dette sciaguratamente in encomienda agli spagnoli, una condizione che gli indios aborrivano sopra ogni cosa. Una catastrofe: erano stati distrutti vent’anni di evangelizzazione, e de la Cueva chiese, e ottenne, la destituzione di don Martin dalle autorità di Quito. La conquista della terra dei Jivaros, che si continuava a pensare ricca di oro, era un’ossessione ricorrente per i governatori di nelle note è padre Raimundo de Santa Cruz Amazzonia 121 Mainas, e nel 1683 Mauricio Vaca de Vega, nipote del fondatore di Borja, organizzò una spedizione assai imponente, con cinquanta soldati spagnoli e più di trecento indios tratti dalle varie missioni. La via d’ingresso, anche in questo caso, era il fiume Santiago e il copione non cambiò, anche se della spedizione faceva parte padre Lucero, dalla lunga esperienza evangelizzatrice nella regione, prima entusiasta del successo apparente degli approcci iniziali, ma ben presto ricreduotosi dopo aver rischiato di essere ucciso e constatato la fuga degli indios con una scia di uccisioni. L’evangelizzazione al traino di un’armata predatrice di spagnoli e dei loro alleati autoctoni non era sicuramente la via maestra per condurre a una pacificata intesa i fieri Jivaros. Ma il peggio doveva ancora venire, e per opera del giovane ed entusiasta quanto scriteriato gesuita napoletano Francesco Viva, che nel 1689 divenne superiore dei padri della regione. Per aggirare le ostilità delle gerarchie civili e religiose di Quito Viva concepì un piano complicato: la spedizione sarebbe stata a costo zero per le casse reali, e in un anno e mezzo avrebbe dovuto penetrare nella terra dei Jivaros e, anziché tentare l’opera rivelatasi fallimentare di «ridurli» in villaggi, li avrebbe «trasferiti» nelle varie missioni esistenti facilitando così la loro civilizzazione e conversione. Sicuramente, sul distratto assenso concesso dalle gerarchie – contro il parere degli altri missionari e dei civili di Borja – pesava il mai sopito desiderio di impossessarsi delle risorse di preziosi che pervicacemente si pensava esistere in abbondanza nella regione. Nell’ottobre del 1691 la spedizione partì agli ordini del governatore di Borja, con un seguito di 60 soldati spagnoli, di 800 indios, tre religiosi e 130 canoe; risalì il Santiago e iniziò le spedizioni di cattura degli indocili Jivaros nell’interno. Ma già nel gennaio del 1692 le consuete difficoltà avevano spento gli entusiasmi; Viva era preda della malaria, i rifornimenti erano scarsi e i Jivaros difficili da raggiungere. Si decise allora di smobilitare le spedizione. Gli indios alleati tornarono ai loro villaggi senza i promessi utensili, salario standard in questi casi; dei 370 Jivaros catturati un centinaio furono mandati a Limpia Concepción degli Xeveros, il resto venne ripartito tra gli spagnoli. «Piuttosto che assistere a un’altra ripartizione», scrisse padre Richter che accompagnava la spedizione, «preferisco ricevere cento frustate»22. L’infaticabile quanto testardo padre Viva non deflesse dai suoi propositi negli anni successivi, e continuò a organizzare altre spedizioni di cattura delle quali 122 Capitolo sesto nel file l’esponenete di nota era il 22bis si hanno notizie numeriche: si catturarono 110 Jivaros nel 1692, 50 nel 1693, 20 nel 1694, 15 nel 1695, l’ultima che intraprese. «Di questi prigionieri quasi tutti morirono in breve tempo o si uccisero per la disperazione»23. Non fu l’unica follia di padre Viva, che tentò l’insediamento di un grosso villaggio, che chiamò «losNaranjos», in territorio Jivaro, presto abbandonato. Vale la pena riportare il durissimo giudizio di padre Lucero, che pure ne aveva viste di cotte e di crude: Il villaggio di «los Naranjos», fondato sul Río Santiago nel secondo anno della spedizione contro i Jivaros, con lo scopo principale di fungere da granaio per provvedere alle necessità delle future spedizioni, si trova completamente distrutto e appena ci rimangono alcuni indios. Se ne portarono 160 dall’alto Ucayali, e rimangono 7 persone; dai Simimaguas si trassero 150 famiglie, e ne rimangono 3; vi si portarono 200 Aunalas, e perirono tutti nel viaggio nel Marañon; si trassero più di 200 Andoas e sono tutti morti in pochi giorni. I Jivaros restano nei loro monti, più difficili da conquistare che mai. E ancora, si sono prese con le armi più di 700 persone [Jivaros], e la maggior parte dei prigionieri sono morti nelle mani dei soldati che li ebbero in pagamento del loro lavoro. E siccome questi soldati trattano e contrattano i prigionieri Jivaros come fossero pezze di stoffa, vorrebbero che questa spedizione durasse altri sette anni. E questo è lo stato del villaggio di los Naranjos, che tanto pregiudizio ha causato alle nostre Missioni, e in questo si è risolto l’impegno del Padre Viva, che promise la conquista ma che a conclusione del suo impegno ci ha portato sul punto di perdere le Missioni24. Solo nel 1767 un gesuita riuscì a metter piede nel territorio Jivaro, con la riduzione di un certo numero di famiglie, ma, ahimé, fu nello stesso anno stesso in cui venne decretata l’espulsione dell’Ordine dalle colonie. Il caso dei Jivaros pone in rilievo la fondamentale contraddizione dei tentativi di evangelizzazione in alta Amazzonia. Nella fase iniziale i padri furono spesso gli accompagnatori di spedizioni armate di conquista dalle quali nulla di buono poteva arrivare agli indigeni, che rischiavano la schiavitù di fatto, la privazione dei loro modi di vita, lo sradicamento dai loro territori. Il Padre poteva solo agire su gruppi sottomessi ridotti in condizioni di debolezza, subalternità, diffidenza. L’evangelizzazione non poteva offrire né protezione dallo sfruttamento, né altri vantaggi, e cadeva su un terreno reso sterile dall’azione violenta. Le etnie, come i Amazzonia 123 Jivaros, ammaestrate dalle prime negative esperienze, difesero il loro isolamento. Nel 1802 Humboldt, che aveva incontrato un gruppo di Jivaros nei pressi del Marañon, osservava tra l’ingenuo e il preconcetto: «Quanto l’uomo selvaggio e libero è diverso da quello delle Missioni, schiavo della dottrina e dell’oppressione clericale!»25. Per gli abitatori del Grande Fiume spostamenti e migrazioni erano abituali forme di vita. Lo consentivano le vie d’acqua, l’immensità del territorio, la capacità di sfruttarne le varie risorse vitali, la facilità con cui si costruivano e si abbandonavano gli alloggi e gli insediamenti, il rilascio dei seminativi dopo pochi raccolti e la loro preparazione altrove. Le vicende degli Omaguas, che al tempo della navigazione di Acuña e della visita di Laureano de la Cruz (cfr. il cap. IV), popolavano le isole del fiume su una lunghezza di molte centinaia di chilometri, tra la confluenza del Napo e quella del Río Negro, sono un altro esempio dello sconvolgimento che il contatto iberico causò tra le popolazioni amazzoniche. Le sporadiche e confuse notizie provenienti dal secolo precedente assegnavano agli Omaguas un grado di organizzazione più complesso, opinione confermata dalle prime cronache seicentesche: «le genti più intelligenti e di miglior governo che ci siano in tutto il fiume»26. Erano già entrati in contatto con gli spagnoli (Quijos), ma se ne erano ritratti, forse portando con sé a valle, oltre alla diffidenza, qualche utensile, nuove tecniche e conoscenze. Fino agli anni Ottanta del Seicento gli Omaguas erano rimasti fuori dal raggio di azione dei missioanri. Vale la pena di raccontare in che modo avvenne il contatto, che fu la conseguenza dell’azione congiunta dei due maggiori fattori disgreganti delle comunità amazzoniche: le epidemie e le intrusioni degli iberici. Un’epidemia di vaiolo era esplosa, alla fine del 1680, tra gli indios dell’alto Huallaga, presumibilmente in seguito ai contatti con gli spagnoli di Moyobamba. La notizia si diffuse rapidamente a valle fino alla missione di Santiago de la Laguna. Questa era stata fondata una decina di anni prima dall’attivissimo padre Lorenzo Lucero – diverrà in seguito il capoluogo del sistema missionario e residenza del padre superiore – e vi vivevano varie etnie. Gli indios sapevano che l’unica vera protezione contro il vaiolo era la fuga e i Cocamas della missione decisero di fuggire: con 65 canoe discesero al Marañon trovando rifugio in territorio 124 Capitolo sesto Omagua. Passata l’epidemia, ritornarono a La Laguna, dove gli indios Chepeos e Xitipos, che non avevano seguito l’esempio dei Cocamas fuggiaschi, erano stati decimati dal morbo. Insieme a loro c’era un gruppo di Omaguas, con il loro cacico. Questi chiesero a Lucero l’invio di un Padre, presumibilmente perché erano disponibili ad accoglierne l’opera, una sorta di protezione nei confronti delle sempre più frequenti incursioni dei portoghesi a caccia di schiavi27. Per qualche anno non fu possibile accogliere la richiesta – il numero dei padri che operavano nelle missioni era esiguo –, ma venne l’occasione buona con il passaggio alle Indie di un missionario boemo, Samuel Fritz, che nel 1686 si diresse da Santiago de la Laguna alle isole degli Omaguas. Padre Fritz fu un personaggio di indiscusso valore e con grande ascendente, sia sugli indios sia sugli europei. Un testimone oculare che lo vide a Lima, in occasione della sua famosa visita al viceré per sollecitare attenzione e aiuto, così lo descrisse: Era il Padre Fritz alto, rosso di capelli e magro, di aspetto venerabile, con una lunga barba, il suo vestito era una tonaca corta fino a mezza gamba, tessuta con fili di palma, con rustici sandali ai piedi e una croce di chonta. I nostri, nel vedere all’improvviso quell’uomo apostolico, accompagnato da indios dalle sembianze e vesti esotiche (peregrino) che aveva portato con se dal Marañon, rimasero come attoniti, dicendo che avevano visto un Pacomio che stava uscendo dai deserti della Tebaide28. L’arrivo di padre Fritz fu assai gradito dagli Omaguas, che gli si fecero incontro con 30 canoe e grandi festeggiamenti. Egli fece base nel villaggio più grande, che battezzò San Joaquín de Omaguas e nel giro di tre anni prese contatto con 38 insediamenti delle isole di un lungo tratto di Fiume impartendo una sommaria predicazione. I villaggi visitati – per alcuni dei quali conosciamo il nome – erano assai piccoli e sono sicuramente eccessive le indicazioni date da alcuni contemporanei di una popolazione di più di una decina di migliaia di persone. Tra l’altro, la dispersione e il depauperamento causato dai portoghesi erano già iniziati da tempo. Fritz si spinse oltre la zona abitata dagli Omaguas, qualche centinaio di chilometri a valle della confluenza del Napo, fino al Río Jutai, raggiungendo gli Yurimaguas insediati tra il Jutai e il Juruá, gli Aisuares tra il Juruá e il Purús, gli Ibanomas ancora più a valle fino al Japurá29. Si trattava di etnie culturalmente affini agli Omaguas, che già da tempo subivano le incursioni dei nel file questo era l’esponente 28, poi si passava all’esponente 29. ma nelle note compariva la nota 28 bis (Così Maroni...), il cui esponente, però, mancava nel testo. dove va posizionato? N.B. sarà il numero 30. va 9. ota aroni...), e, va .B. sarà Amazzonia 125 portoghesi ed erano decimate dalla riduzione in schiavitù, dalla dispersione migratoria e dalle epidemie. Le vicende di padre Fritz hanno del romanzesco, in accordo con la sua personalità e con le travagliate vicende degli Omaguas. Nel 1689 si ammalò di febbri tra gli Yurimaguas, ove rimase per tre mesi bloccato nel villaggio inondato; decise di scendere al Pará per curarsi ma anche per perorare la causa delle sue genti. Qui restò bloccato dalle autorità portoghesi per quasi due anni. Venne infine «riaccompagnato» dai portoghesi – che erano anche in cerca del «limite» (cippo di confine) posto da Teixeira nel 1637 per segnalare il confine del tratto di fiume di pertinenza dei lusitani. Fritz trovò le sue isole spopolate per le fughe prodotte da altre incursioni verificatesi durante la sua assenza. La sua opera instancabile, su e giù per il Grande Fiume dalla base di San Joaquín de Omagua, era segnata dai tentativi di scoraggiare le fughe, richiamare i fuggiaschi, insediare nuovi gruppi migranti, sedare rivolte, contrastare (invano) la pressione portoghese. Perse poi fiducia nelle lontane autorità spagnole – nonostante la drammatica visita fatta al viceré a Lima cui abbiamo accennato – incapaci di reagire sia militarmente sia politicamente presso la Corona, per conservare la sovranità sul Fiume. Una raccogliticcia spedizione di contrasto, 50 soldati da Quito – quasi la metà dei quali morì – e altrettanti da Borja e Moyobamba, posta al comando di un capitano con l’ausilio di indios amici, e Fritz come cappellano, ebbe solo effetti effimeri sui portoghesi che evitarono un confronto, e nel contempo ebbe effetti peggiori sugli indios del Napo che i Quiteños avevano tentato di portare indietro come schiavi. Tra il 1707 e il 1711 il territorio Omagua fu definitivamente perso e il sigillo dell’abbandono fu posto nel 1711 dall’Audiencia di Quito che rinunciò a ogni pretesa territoriale per mancanza di risorse. Dopo varie spedizioni, i portoghesi si insediarono definitivamente alla confluenza del Javarí, e il loro bastione più occidentale fu San Pablo de Omaguas. Ancora dopo il 1710 i gesuiti visitarono il territorio occupato, ora per raccogliere indios, ora per dimostrare il loro diritto di evangelizzare quelle genti. In incursioni isolate i portoghesi entrarono in Mainas e – nel 1732 – fino a La Laguna. Ancora nel 1733 era diffuso il timore che i portoghesi mirassero a controllare il Napo per aprire il commercio con gli spagnoli e arrivare alle miniere di preziosi. Le relazioni tra Spagna e Portogallo, comunque, si normalizzarono solo dopo le negoziazioni di pace del 1762nuovo esponente. 126 Capitolo sesto Parte delle popolazioni Omagua e delle altre etnie evangelizzate da padre Fritz si ritirarono a monte del Fiume, in territorio spagnolo. Sicuramente gli Omaguas, dalle molteplici testimonianze a noi giunte, erano tra le popolazioni più evolute del Grande Fiume; la loro lingua apparteneva al ceppo tupí ma molti conoscevano il quechua; erano capaci di filare e tessere, bravi vasai e carpentieri, abili nel costruire canoe; andavano vestiti. Sentiamo padre Fritz: Per lo più gli Omaguas sono uomini di media statura, robusti e più scuri degli indios della selva; molto curiosi, ciarlieri e superbi; ognuno ha, nella sua casa, uno o più schiavi o servi di qualche nazione della terra ferma, avuto in guerra o per scambio di utensili [...] Poiché l’Omagua è superbo, sdraiato nell’amaca con aria da signore, comanda al servo o alla serva, allo schiavo o alla schiava che porti da mangiare, porti da bere o altre cose simili; per lo più li guardano con molto amore, come fossero propri figli, li provvedono di vestiario, dormono sotto lo stesso tetto, senza vessarli in alcun modo. A San Joaquín c’era poi qualcosa di grandissimo valore: valore di scambio e valore di uso, per tutta la regione: L’officina del fabbro era utilissima: c’erano tre maestri, un Omagua abile, che imitava ciò che vedeva, chiamato Pablito, che faceva chiavi, cardini e altro, un Yameo e un Mayoruna con i loro assistenti, che lavoravano settimanalmente, due a due, e si pagava loro tutto, dandogli carbone, utensileria e due incudini [...] Venivano da tutte le Missioni basse, del Napo, del Nanay e del Tigrenuovo esponente. Poiché gli Omaguas vivevano già in villaggi con un certo ordine, fu risparmiata ai padri la fatica di Sisifo di radunarli per poi convertirli. Quando padre Uriarte (cfr. il cap. IV) fu posto a capo della missione di San Joaquín, nel 1756, le complesse vicende avevano mescolato la popolazione e accanto agli Omaguas c’erano Migueanos, Amaonos, Mayorunas, Masamaes, Yurimaguas e Cocamas; spesso si trattava di poche famiglie di gruppi dispersi e ormai in estinzione. Il villaggio era in ripresa: nel 1732 la sua popolazione era scesa ad appena 360 abitanti, 200 dei quali erano Omaguas e 160 di altre etnie, «e ce ne sarebbero stati molti di più se non fosse che molti infedeli tratti dalla selva col loro consenso, o vi sono ritornati per la loro notoria incostanza, o sono morti»33. da qui la sequenza degli esponenti di nota corrisponde alle note reali, vedi pp. 238-239 quenza enti isponde li, 8-239 Amazzonia 127 Uriarte descrive un villaggio ordinato e piacevole: Posto sulla riva destra del Fiume, che compiva un largo arco a monte e scorreva diritto verso valle; sulle rive del fiume c'erano campi e frutteti. Sul fronte una piazza con la Chiesa, la casa del Padre, il Cabildo. Ai due lati della Chiesa correvano due lunghe strade, con le case tutti uguali, distanti l’una dall’altra venti varas – per evitare il propagarsi degli incendi – e incrocianti altre due strade; e poiché il villaggio declinava verso il porto, tutte le abitazioni avevano la vista del fiume. La chiesa, ricostruita di recente dopo essere stata distrutta da un fortunale, destava l’ammirazione di Uriarte: Aveva un grande portico, tre navate con tre porte d’ingresso, grandi finestre laterali, il coro, un altare preziosamente decorato; lungo le pareti laterali e quella d’ingresso correva un soppalco dove assistevano alle funzioni alla sinistra le bambine e a destra i bambini, e al fondo le autorità e una poltrona di cuoio con finiture di argento per il Governatore di Mainas, nel caso di una sua visita. Nulla a che fare con le chiese barocche delle missioni del Paraguay che non avrebbero sfigurato in una città europea, ma tuttavia una costruzione gradevole e dignitosa. C’era poi una complessa organizzazione civile sotto la sorveglianza del Padre. C’erano un Governatore generale, che era a vitalizio, un Capitano per ogni parcialidad, così come un Alfiere o Sergente della Milizia con le sue insegne. Questi avevano il compito di radunare gli uomini per le entradas, che facevano col Padre o a volte anche da soli, essendosi confessati, con interpreti e con le loro armi e canoe, alla ricerca di indios da attrarre nella Missione34. All’epoca di Uriarte portarono a San Joaquín, per tre volte, diversi Masamaes, e per due volte dei Mayorunas. Ogni anno venivano eletti dei dignitari per ogni parcialidad che sotto il comando di un alcalde maggiore (che era un Omagua) avevano una serie di incombenze, con turni settimanali, di aiuto al Padre, ronde nei giorni di festa, sorveglianza, manutenzione delle canoe, mantenimento dell’ordine pubblico. Essi individuavano i mitayos per il sostento del missionario e della sua casa; organizzavano le spedizioni per la raccolta delle uova di tartaruga nell’Ucayali e quelle per l’estrazione e la raccolta del sale. Infine venivano eletti dei fiscales per assecondare il Padre nelle attività religiose: 128 Capitolo sesto coadiuvarlo nell’istruzione dei bambini, nella manutenzione della chiesa, suonare le campane, soprintendere le processioni. Dovevano poi informarsi sui moribondi e sui parti, avvisando il Padre che doveva assisterli o battezzare i neonati; dovevano poi vegliare che i familiari seppellissero i loro congiunti, e se si trattava di orfani, dovevano seppellirli loro stessi35. Nonostante la buona organizzazione e la relativa tranquillità dei rapporti sociali, San Joaquín, come altre missioni, doveva di continuo rinnovarsi, cercando di attrarre nuovi adepti, intraprendendo entradas, cercando di recuperare chi abbandonava il villaggio. La cui popolazione non superò mai il migliaio di anime, e rischiò, anzi, l’estinzione. I progressi e i rovesci che subirono i missionari nella regione non permisero mai alla rada tela dell’evangelizzazione di conseguire risultati stabili e soddisfacenti. In molti casi, la rete fu lacerata violentemente e l’opera compiuta venne distrutta. Restando ai gruppi maggiori, il caso dei Cocamas – che vivevano nel basso corso dell’Ucayali – illustra uno degli episodi più gravi e cruenti. Si trattava di uno dei gruppi più numerosi, di lingua tupí, già visitati da Juan de Salinas nel 1559, e che secondo il cronista della prima spedizione spagnola del 1619 erano circa 20 mila. I Cocamas erano ritenuti assai pericolosi per le loro scorrerie. Ogni anno partivano in spedizioni di 40 o 50 canoe [...] passavano al Río Huallaga e navigando per questo e per il Marañon, per gli affluenti e le lagune, sgozzavano chi incontravano, portandosi via le teste, che era lo scopo – assieme a quello di rubare utensili – di queste spedizioni. Per questa ragione non c’era chi si azzardasse a navigare questi fiumi da gennaio a giugno, il tempo delle piene, quando usano [...] partire queste spedizioni36. Padre Cugia visitò tre villaggi con 30, 40 e 80 case, e valutava l’intera popolazione Cocama in 10-12 mila persone37. Padre Bartolomé Perez vi fondò la missione di Santa Maria de Ucayali che contava «400 uomini d’armi», cioè, presumibilmente, 1.500-2.000 persone. Nel 1657 subentrò padre Tomás Majano, ma sembra che gli indios non gradissero il suo eccessivo zelo, per cui nel 1663 cominciarono a verificarsi episodi di insubordinazione e di rivolta che coinvolsero i Chepeos e altri gruppi etnici vicini. Gli indios della missione si dispersero, e una spedizione guidata dal tenente di Borja si risolse in una prima repressione, con l’esecu- Amazzonia 129 zione di dieci cacichi a capo della sollevazione, di cui già abbiamo detto. Ma la rivolta non era sedata, e i Cocamas ripresero le loro scorrerie, e in una di queste, all’inizio del 1666, uccisero padre Figueroa che discendeva lo Huallaga dalla sua missione di Limpia Concepción; poi risalirono alla missione rimasta orfana del suo parroco e vi uccisero 44 indios e uno spagnolo. Gli spagnoli erano lontani e tardarono a intervenire, e in un’altra spedizione i Cocamas distrussero e incendiarono la missione di Santa Maria de Huallaga. Fu solamente nel 1669 che il nuovo governatore di Mainas riuscì a mettere insieme una spedizione con 20 soldati spagnoli e 200 tra Xeveros e altri indios amici; in uno scontro sulle rive dell’Ucayali furono uccisi 200 Cocamas, fatti prigionieri molti altri e «dopo un processo sommario, furono impiccati molti colpevoli di omicidi e altri delitti». La testa di Figueroa, che era stata conservata dai Cocamas come trofeo, venne recuperata e conservata «in Borja come preziosa reliquia»38. Cappellano della spedizione era stato padre Lucero, che nell’anno successivo fondò la missione di Santiago de la Laguna, futuro «capoluogo» delle missioni. Ne divennero residenti molti dei Cocamas domati, mentre altri già convertiti avevano seguito qualche anno prima padre Majano nello Huallaga39. Tutta l’opera di evangelizzazione durante i centotrenta anni considerati fu caratterizzata dalla precarietà degli insediamenti e dal susseguirsi di fondazioni, trasferimenti, abbandoni, fughe, ritorni, aggregazioni e disgregazioni. Le storie sopra riferite riguardano alcuni gruppi più numerosi, ma ognuna delle decine di etnie incontrate dai missionari ha storie fluide e complicate, alcune volte dettagliatamente descritte, altre note per brevi e occasionali accenni. Si sfidavano da un lato la caparbietà degli evangelizzatori e dall’altro la fluidità delle popolazioni da convertire, e questa difficile sfida era resa ancora più ardua dalla frequente azione repressiva e militare, e comunque violenta, degli iberici e dal serpeggiare delle nuove epidemie. Ma anche in assenza di epidemie e di repressioni l’opera di evangelizzazione si rivelava frustrante. Leggiamo la testimonianza esemplare di un vero operario, padre BartoloméArauz, nella sua inconcludente attività pastorale tra i pochi e dispersi Coronados: Tutto questo anno, Padre mio Rettore, l’ho passato nel tessere e nel disfare, nel costruire e nel demolire [...] il massimo che ho potuto ottenere 130 Capitolo sesto da questi barbari cristiani fu che si fissassero in sette frazioni corrispondenti ai clan dei cacichi. Oggi ne rimangono solo tre. Una è abitata, per le altre due si sta disboscando per fare seminativi così che possano alimentarsi [...] Questi bruti con raziocinio si addomesticano solo col rigore e assicuro a Vostra Eccellenza che per far quel poco che si è fatto è stato necessario distribuire frustate, mostrarsi esasperato e minaccioso. Tutte le volte invece che li ho trattati bene, non mi hanno dato retta e hanno ripagato la mia affabilità scomparendo, beffandomi e assentandosi40. Sfogo sincero in una storia di ordinaria missione, non turbata da particolari conflitti e violenze. Con il passare del tempo e il consolidarsi della rete delle missioni nell’immenso territorio, apparve anche evidente l’estrema necessità di «rifornire» le precarie missioni di neofiti per evitarne il declino o la sparizione. A San Joaquín de Omagua, nel 1755, si riunirono assieme a padre Uriarte e al superiore padre Iriarte, arrivato da Santiago de La Laguna, altri tre religiosi incaricati di missioni circostanti, e tutti quanti convennero – e decisero – che ogni anno si organizzasse una entrada evangelizzatrice nelle vicinanze (un termine relativo, data la grande estensione del territorio) di ciascuna missione. Riferisce lo stesso Uriarte, con involontaria ironia, che padre Iriarte continuò il suo viaggio nel Napo con il suo seguito, e catturò un certo numero di indios che però gli sfuggirono tutti nella selva41 Delle spedizioni militari si è già detto: esse non furono più frequenti solo perché scarsi erano i mezzi a disposizione; c’era una modesta e scalcagnata guarnigione agli ordini del tenente a Borja, e la necessità, in operazioni più impegnative, di soccorsi provenienti da centri ancora più lontani, come Moyobamba. Tuttavia il terrore che queste incutevano era tremendo – la memoria delle feroci repressioni si trasmetteva rapidamente ed era difficile da scordare – e la tattica spesso adottata nelle entradas pacifiche di avvicinarsi ai villaggi sparando, e lo stesso «odore della polvere», gettava nello sgomento le popolazioni. Padre de la Cueva scriveva al padre provinciale: Chiedo alla Eccellenza Vostra che se il mio insegnamento e la riduzione degli indios devo farlo [con l’aiuto di soldati] allora mi richiami nel mio convento, perché non posso ottenere nessun risultato in tale compagnia [...] Riuscimmo poi a ottenere dal Governatore che nelle nostre riduzioni i soldati non debbano stare, né essere visti42. Amazzonia 131 Lo stesso de la Cueva, vent’anni dopo, in un lungo rapporto a padre Cugia, affermava che i missionari non dovevano andare in esplorazioni con gli indios, nel corso delle entradas, ma restare al sicuro al campo base43. Padre Maroni, cui si deve la fondazione di molte nuove missioni, osservava che nei primi tempi le spedizioni ordinate dai governatori e dai loro luogotenenti erano di conquista, coinvolgevano una truppa relativamente numerosa e violenta, e che il frastuono degli spari, l’odore della polvere, la devastazione dei campi coltivati e le razzie delle provviste generavano distruzione e morte. Per padre Figueroa le armi da fuoco provocavano addirittura le epidemie: «Specialmente il fracasso dei colpi di archibugio, l’odore della polvere e la paura delle pallottole, ne trasforma e muta gli umori di modo che si scatenano in acciacchi mortali»44. Era stato un bene per l’evangelizzazione che la popolazione degli spagnoli e le guarnigioni di soldati nella regione fossero diminuite di numero, e che le spedizioni ai suoi tempi fossero di qualche decina di indios, assistite da due o tre soldati spagnoli, agli ordini del Padre. In ogni caso, fin dal 1683, un ordine reale disponeva che nel caso di spedizioni con presenza di soldati, questi dovessero essere agli ordini del cappellano acompagnatore45. Nel 1735, in un lungo rapporto, padre Nieto Polo analizzava le gravi difficoltà di ridurre gli indios che ormai vivevano lontani dalle grandi vie d’acqua più frequentate, in luoghi difficilmente accessibili e che erano terrorizzati sia dagli spagnoli sia dai portoghesi. D’altro canto, i religiosi non dovevano avventurarsi in spedizioni con la scorta di soli indios, che senza la guida e l’appoggio di soldati spagnoli disertavano o comunque evitavano difficoltà e pericoli; infatti, gruppi bellicosi come i Jivaros, i Piros, i Cunibos, gli Abijiras, e altri ancora, avevano ucciso dei missionari. «Invece, con una scorta di tre o quattro spagnoli con armi da fuoco, gli indios sono capaci di grande coraggio e sono ubbidienti alle esortazioni dei Padri»46. Insomma: senza appoggio militare era difficile, se non impossibile, penetrare nei territori inesplorati e attrarre gli indios nelle riduzioni; ma le spedizioni militari indiscriminate seminavano terrore e sospingevano gli indios verso zone interne e inaccessibili. Occorrevano dunque prudenza ed equilibrio: che i Padri andassero con una piccola scorta, sufficiente a rafforzarne l’autorità, ma non tale da gettare il panico tra le genti amazzoniche. 132 Capitolo sesto C’era tuttavia un potente fattore di attrazione a disposizione dei missionari, ampiamente impiegato, e con successo, nel bacino amazzonico, e di cui i religiosi si industriavano di ottenere una buona dotazione sia nelle missioni sia nelle loro spedizioni. Si trattava di oggetti di acciaio e di ferro, come le asce e i cunei, i coltelli e i machete, gli aghi e gli ami. La loro disponibilità faceva compiere alle popolazioni del Grande Fiume un balzo istantaneo, dal Neolitico all’Età del ferro, e per questa ragione erano enormemente ambiti. Con questi utensili le attività vitali di un gruppo della foresta diventavano enormemente più agevoli, meno faticose e meno lunghe. Diremmo oggi: si compiva un enorme salto in avanti della produttività. Tutte le attività che ruotavano attorno al legno – la costruzione di una canoa, di una capanna, di un arco o di una cerbottana – ne venivano notevolmente agevolate. È stato calcolato che l’abbattimento di un albero dal tronco di un metro di diametro, adatto a ricavarne una canoa, che con un’ascia di pietra (oggetto raro ottenuto mediante scambio) avrebbe richiesto un centinaio di ore di lavoro, ne richiedeva un decimo o un ventesimo con un’ascia di acciaio47. E analoghi vantaggi con machete e coltelli si avevano nella preparazione di un campo, l’apertura di un sentiero, il taglio di rami per coprire le capanne, la manifattura di utensili di legno. O nella pesca con gli ami di acciaio, nella confezione di indumenti e nella preparazione di reti con gli aghi. Il gruppo dotato in abbondanza di questi utensili acquisiva un enorme vantaggio rispetto ai gruppi che ne erano sprovvisti. Da qui si capisce come potesse diventare vantaggioso lo scambio tra l’obbedienza al Padre e l’adesione a una disciplina, se imposta con consapevole e sapiente gradualità, e il possesso di questi miracolosi strumenti. Il protagonismo degli utensili di ferro e di acciaio traspare in continuazione nelle lettere e negli scritti dei religiosi. Si rinuncia a una spedizione se ritenuti insufficienti o mancanti. Indios amici si estraniano se vengono a mancare. Si cerca di tenerne una buona scorta nelle missioni come moneta di scambio. Si cura la costruzione di fucine – come tra gli Xeveros e gli Omaguas – per fabbricarli e ripararli. Gli indios ne fanno oggetto di scambio – schiavi contro asce – o di rapina. Raccontava padre Richter: «Un giorno un indio si presentò a Padre Lucero. Prendi, ti regalo mio figlio ma tu mi dai in cambio un’ascia o una vanga»; padre Lucero gli inflisse un sermone e l’indio rispose: «Padre, di figli ne posso generare quanti ne voglio, ma un’ascia no»48. Aneddoto probabilmente Amazzonia 133 apocrifo, ma altri episodi sono indubbiamente veri. Dopo la disastrosa spedizione tra gli Jivaros di padre Riva, de la Cueva andò a Quito per chiederne – e ottenerne – la destituzione, ma anche per cercare un sostegno che gli fu concesso. Ritornò alle missioni con altri padri e, soprattutto, con molti quintali di ferro e di acciaio, cinquecento asce e altri utensili, materiale per una fucina «unica esca con la quale si guadagna la loro volontà [degli indios] e si attirano questi gentili all’amicizia, alla convivenza, alla dottrina»49. I selvaggi Jivaros, nella spedizione della quale fu cappellano Lucero, si avvicinarono agli spagnoli con intenzioni apparentemente amichevoli ma, una volta ricevuti asce e machete, fecero dietro front e sparirono nella selva, non senza lasciarsi dietro una scia di uccisioni50. All’inverso, la prima spedizione di padre Viva, sempre tra i Jivaros, fallì anche perché non fu in grado di pagare gli indios alleati con gli utensili promessi, mentre grande successo aveva avuto de la Cueva con il modesto dono di dodici asce e dodici coltelli tra gli isolatissimi Abijiras in una spedizione assai travagliata51. Quando padre Fritz discese tra gli Omaguas, scrisse a padre Rubio, informandolo della buona accoglienza ma anche implorando l’invio di utensili «perché sono le cose più necessarie in questi posti [...] e [gli indios] mi assillano continuamente perché abbisognano di asce e macheti per ripulire i loro seminativi, e poiché io non ne ho, sono obbligato a ricorrere a Vostra Eccellenza per chiedere questi doni»52. E Quito era lontana, oltre le Ande. Nel 1736 le missioni erano in allarme perché circolava voce che i portoghesi armassero nuove spedizioni per il controllo del Marañon e del Napo, e aveva creato sospetto il rientro a Santiago de la Laguna di un gruppo di Cocamas che avevano vissuto un paio d’anni tra i portoghesi ed erano tornati con nuove vesti, attrezzature varie, e perfino «archibugi così nuovi e precisi da non sfigurare nelle mani di un capitano in Europa». Tornati forse per complottare e spiare, comprati dal ferro e dall’acciaio53. Ancora nel 1742, nella più civile San Joaquín de Omaguas, il parroco padre Widman aveva rinunciato a una spedizione tra vicini indios «gentili» per mancanza di coltelli, asce, machete, aghi, ami «che sono i doni con i quali le anime dei gentili sono attratte alla cristianità»54. Naturalmente al ferro e all’acciaio non va attribuita una funzione sproporzionata nel determinare la natura dei rapporti tra padri e indios che erano assai complessi e sui quali le qualità di leadership, convinzione e mediazione del singolo missionario 134 Capitolo sesto erano spesso decisive, così come le sue capacità organizzative e tecniche. C’erano altri elementi che avevano un’enorme rilevanza. Per esempio, la capacità di comunicare in una regione estremamente frammentata per la molteplicità delle lingue parlate, dove coesistevano assieme ai maggiori ceppi (tupí, arawak, pano) altri linguaggi isolati, era essenziale. Ma anche all’interno della stessa famiglia linguistica, i diversi dialetti erano spesso mutuamente incomprensibili. «Troppe lingue, in questa regione, seminate dal diavolo per rendere la conversione degli indios più difficile» scriveva amaramente un missionario55. I padri dovevano anzitutto conoscere almeno la «lingua dell’Inca», cioè il quechua, e se ne raccomandava l’insegnamento e la diffusione tra i neofiti. Per procedere nella loro opera, i religiosi avevano necessità assoluta di lenguas, cioè interpreti: funzione spesso assolta dai viracochas, i meticci, oppure da ragazzi rapiti da una comunità e addestrati come interpreti. La strategia di accostamento a nuovi gruppi della selva amazzonica consisteva nell’avvicinarsi a un gruppo di alloggi, circondandoli; inviare un interprete-ambasciatore con doni a parlamentare; stabilire poi un contatto diretto con il Padre intavolando le trattative che nei casi più fortunati potevano portare alla fondazione di una nuova – anche se spesso effimera – riduzione56. Il rapimento di ragazzi era considerato fatto normale e positivo, sia perché avrebbe facilitato la missione dei padri, sia perché si sarebbe così salvata un’anima destinata a perdersi. Il ruolo degli interpreti restò importantissimo anche per assicurare la comunicazione interetnica quando gruppi diversi – anche linguisticamente – vennero a convivere nella stessa missione. Nel concludere questo capitolo, la cosa migliore da fare è ridare la parola al cronista forse più intelligente e attento dell’epoca: proprio quel padre Figueroa che venne ucciso e decapitato sulle rive dell’Ucayali nel 1666, che era entrato in Mainas nel 1640 e che era stato uno dei protagonisti della prima fase dell’evangelizzazione. Le sue opinioni vennero riprese e condivise dal padre Rodriguez, un quarto di secolo più tardi, e da padre Maroni, altro missionario di grandissima esperienza, nel secolo successivo. Nonché da padre Chantre y Herrera, nella sua storia delle missioni, scritta a Faenza dopo l’espulsione: non aveva mai messo piede in America ma scrisse con l’assistenza attiva di altri padri esuli come Uriarte e Iriarte, che nelle missioni avevano trascorso gran parte della loro vita. Seguiamo dunque Figue- Amazzonia 135 roa, nei due capitoli intitolati «Dei danni che patiscono queste nazioni quando si pacificano e si insediano» e «delle altre gravi difficoltà che incontrano queste missioni»57. In primo luogo, lo sterminio per mortalità, «perché si è sperimentato che quando entra nelle loro case la luce del cielo [la vera religione] seguono le tenebre e gli orrori delle pesti e delle mortalità catastrofiche»; ne consegue «la perdita della maggior parte [degli indios...] per le pesti che li colpiscono per i contatti con gli spagnoli e con le terre fuori della selva», per cui «è necessario che il Padre tenga in una mano l’ascia e il coltello per aiutare gli indios nelle loro coltivazioni e la vanga nell’altra per scavare le fosse per seppellire i morti». In secondo luogo, la scarsità del cibo; e questo avviene non solo quando vengono distrutti i loro campi in conseguenza di entradas armate, ma anche quando si obbligano a trasmigrare «senza criterio, alla barbara», prima che possano procurarsi il loro sostentamento, oppure in ambienti e climi diversi. Si cerchi di fare le migrazioni in paraggi più vicini al loro ambiente naturale, lasciandoli andare a loro modo, come sono usi fare quando cambiano i loro insediamenti e le loro capanne, che lo fanno di frequente, preparando prima i loro campi e i loro seminativi; e quando i frutti maturano, allora costruiscano le loro abitazioni, procurando che non arrivino donne e bambini prima che si disponga di sufficiente cibo. In terzo luogo, quando si prende contatto con nuove genti nelle loro terre, non lo si faccia repentinamente, né con soldati, ma si prenda contatto «con interpreti, o con indios amici e vadano a poco a poco prendendo confidenza e facendo conoscenza con i Padri». Tuttavia non sempre questo si può fare «e se non si può fare altro, si faccia quel che si può, facendo incursioni a mano armata e catturando qualche indio e questi, acculturandosi in nostre mani, servono poi per trattare, parlare, acquietare i loro familiari». Ci sono poi altri ostacoli, come la scarsità dei padri e la varietà delle lingue «che sono tante quante sono le nazioni (tribù)», ma è necessario che un padre ne apprenda i rudimenti per poter comunicare e indottrinare direttamente, senza interpreti, e questo è possibile farlo, «richiede fatica, ma non manca di seguirne un vantaggio». I padri, poi, dovranno darsi da fare per insegnare la «lingua dell’Inca», specialmente ai bambini e agli adolescenti, assai più adatta alla loro cultura dello spagnolo e, al contempo, dagli effetti civilizzatori. E, infine, la vastità della 136 Capitolo sesto regione, le enormi distanze dalle città spagnole, l’ostacolo delle Ande, l’incertezza e pericolosità delle navigazioni, la lentezza delle comunicazioni, la precarietà dei rifornimenti. Un’ultima considerazione: l’entrata degli iberici in Amazzonia ebbe effetti che si ripercossero rapidamente in tutta la sterminata regione. Anzitutto il terrore e il timore degli europei, che si diffuse velocemente precedendo la loro intrusione fisica. Poi le patologie e le epidemie, generate da scambi e contatti, le quali, in molti casi, precedettero l’arrivo degli iberici. Infine le nuove tecnologie, cioè gli utensili di ferro e di acciaio, che furono fattori di forte attrazione. Tre forze globalizzanti che condizionarono notevolmente l’azione dei padri, che il generale dei gesuiti Tirso Gonzales considerava troppo ambiziosa e inadeguata alle dimensioni reali dell’impresa evangelizzatrice58. VII. Paradiso dell’antropologo, purgatorio del demografo. Molti o pochi indios? Un umile frate che faceva di conto. Fughe e catture; arrivi e partenze; fondazioni, spostamenti e abbandoni. Le stragi del vaiolo. Vaccinazione nella selva P er i padri di Mainas l’instancabile opera di contatto con le popolazioni indigene, il tentativo di insediarle stabilmente in villaggi organizzati e di convertirle a modi di vita profondamente diversi, fu una «missione impossibile»; lo fu per l’estrema frammentazione, la fluidità e la varietà dei gruppi incontrati, per la loro dispersione su un vastissimo territorio, per l’inadeguatezza delle risorse umane e materiali messe in campo, per gli errori compiuti. E missione impossibile appare anche quella di volere ricostruire, sulla base di elementi evanescenti e frammentari, le vicende demografiche di queste popolazioni disperse. Se gli indizi disponibili sono deboli, e gli elementi quantitativi inadeguati, come ricostruire un quadro complessivo delle vicende demografiche? Come delineare il «funzionamento» del sistema demografico amazzonico, se di «sistema» si può parlare? Quale fu l’impatto del contatto con gli europei? Vi fu veramente una catastrofe demografica in seguito al contatto? E se vi fu catastrofe, essa fu conseguenza delle nuove malattie importate dagli iberici o fu anche dovuta agli altri sconvolgimenti subiti dalle società indigene? Non vi sono risposte certe a queste domande, ma qualche ipotesi fondata è possibile e altre si possono escludere, e un ragionevole quadro da consegnare alla ricerca può essere immaginato. È l’obiettivo di questo capitolo. Paradossalmente, se le popolazioni del Grande Fiume rappresentano un inferno – o un purgatorio – per il demografo, esse sono un paradiso per l’antropologo. Pure nell’esiguità dei documenti, quella frammentazione, fluidità e varietà del popolamento che rende difficile l’analisi demografica, arricchisce quella antropologica che fa, dell’Amazzonia, un Eden per gli studiosi. Vedremo però che di questo Eden può avvalersi anche il nostro 140 Capitolo settimo tentativo di interpretazione demografica. Per tutti coloro che si avventurano nello studio delle società amazzoniche del passato si impone la cautela sull’uso delle dettagliate analisi delle società indigene di oggi – o di un ieri recente – per comprendere le società indigene dell’epoca coloniale. Queste ultime sono state troppe volte sconvolte e rimescolate e troppo spesso hanno perduto, o profondamente mutato, i caratteri originari1. Con l’inizio dell’evangelizzazione di Mainas nel quinto decennio del Seicento, iniziano ad accumularsi alcuni indizi, anche quantitativi, sul popolamento amazzonico. Questi possono combinarsi con le valutazioni circa le capacità potenziali di popolamento dell’habitat della regione e con altre considerazioni, consentendo di arrivare a stime «ragionate» della popolazione. Torneremo più avanti sulla questione, ma prima occorre soffermarsi sulla tesi, comunemente accettata, che tra Cinque e Seicento si sia prodotto un vero e proprio tracollo demografico. È opinione comune che fin dall’inizio, il contatto con gli iberici abbia scatenato effetti distruttivi e che, verso la metà del Seicento, la popolazione amazzonica si ritrovasse drammaticamente ridotta. Una tesi diversa sostiene che lo sporadico contatto con gli iberici e il relativo isolamento della regione amazzonica non abbiano consentito lo scatenarsi di processi distruttivi e che, a un secolo di distanza dal primo contatto, la situazione non fosse troppo diversa da quella iniziale. Si tratta di una questione aperta, da affrontare senza idee preconcette, ma ulteriormente complicata dal conflitto irrisolto tra un’antropologia di tipo tradizionale e una di tipo moderno: la prima convinta che il popolamento al tempo del contatto fosse sparso ed esiguo, anche in conseguenza delle costrizioni ambientali, la seconda sostenitrice di un’opinione contraria. Julian Steward, l’influente coordinatore dello straordinario Handbook of American Indians, alla metà del secolo scorso, così sintetizzava la differenza tra le culture andine e quelle della foresta tropicale: Le civiltà delle terre alte si fondavano su un’agricoltura intensiva su terre che non dovevano essere disboscate. Una popolazione densa richiede un’organizzazione sociopolitica elaborata; surplus produttivi permisero articolazioni elaborate religiose, artistiche e manifatturiere. Le culture della foresta tropicale erano adattate a un ambiente torrido, umido e con una densa foresta. La caccia, la pesca e un’agricoltura del taglia e brucia producevano bassa densità demografica e piccole comunità2. Amazzonia 141 Nei decenni successivi è emersa una visione assai diversa delle culture della foresta tropicale. Cito a questo proposito un’altra autorevole voce, quella di Anna Roosevelt, secondo la quale il popolamento all’epoca del contatto era assai notevole: Anziché essere ovunque rado, mutevole e disperso sul territorio, come è spesso il caso oggi, le popolazioni di molte zone crebbe rapidamente durante la tarda preistoria, si insediò in grandi villaggi e città [towns] che in alcuni casi erano più grandi di quelle di alcune precoci civiltà del Vecchio Mondo. E ancora: Sulla base della loro numerosa popolazione, infrastrutture pubbliche, insediamenti differenziati, elaborata arte cerimoniale, scambi di lunga distanza e simbolismo elitario queste società sono state spesso considerate come dei complessi chiefdoms3. Molti autori hanno visto nelle relazioni dei primi viaggi la dimostrazione di un popolamento assai vivace ed esteso, con densi insediamenti rivieraschi che controllavano territori circostanti più ampi, società stratificate con capi, aristocrazie e schiavi; conflitti e scambi con popoli vicini4. Non avendo la competenza per dirimere punti di vista così distanti, anche sotto il profilo teorico, debbo dire che la lettura delle relazioni sui viaggi di Orellana e Ursúa-Aguirre (capp.II e III) non sostengono l’idea di un popolamento intenso all’epoca del contatto. Molti tratti – forse un terzo – del fiume apparivano spopolati; altri erano popolati con insediamenti assai distanziati; in altri ancora c’erano villaggi più consistenti. Almesto e Vázquez considerarono il fiume «malsano e poco popolato»5. Non appaiono grandi differenze tra il circostanziato racconto di Acuña, in viaggio con la spedizione di Teixeira, e quelli dei compagni di viaggio di Orellana e Ursúa-Aguirre quasi un secolo prima. Naturalmente nessuno è in grado di tradurre le impressioni di viaggio in cifre, e la questione rimane aperta. Capire se tra il Cinquecento e il Seicento si sia prodotto un vero tracollo-catastrofe, oppure no, è fondamentale. Nell’appassionante dibattito sul popolamento americano è emerso il convincimento che in ogni contrada del continente l’incontro, anche sporadico, con gli iberici sia stato indubbio motivo di rovinoso declino demografico anche se questa certezza è messa 142 Capitolo settimo in dubbio da numerose prove contrarie6. William Denevan, uno dei più equilibrati studiosi del popolamento amazzonico del Seicento, anche se non accetta i tassi di spopolamento postcontatto proposti da altri accreditatissimi autori (da 50 a 1 secondo Dobyns per le zone tropicali, o da 10 a 1 per Borah), propone un fattore di 3,5 a 1 come stima prudente del rapporto tra la consistenza della popolazione a metà Cinquecento e a metà Seicento7. Può ben essere che in certe aree del pedemonte andino e dell’alta Amazzonia, così come della foce del fiume – dove i contatti con gli europei furono più intensi – lo spopolamento sia stato molto elevato, come dimostrato dal caso della regione dei Quijos (cap. I). Ma per le altre popolazioni insediate nelle migliaia di chilometri del lunghissimo corso del Fiume, l’ipotesi di una catastrofe appare preconcetta e non giustificata. A metà Seicento il Grande Fiume era già stato percorso più volte e qualche valutazione numerica – come si dirà poi – era già stata fatta per la più popolata area rivierasca, e questo è un fatto accertato. Queste terre erano regolarmente inondate nella stagione delle piogge lasciando, al loro ritrarsi, terre fertilizzate dal limo, adatte ai seminativi di yucca, mais, patate dolci e altro ancora. Il Grande Fiume, così come i suoi affluenti, era straordinariamente pescoso. La caccia offriva altre risorse. Viene calcolato che questa fascia rivierasca, favorevole al popolamento, avesse una larghezza di 10-20 chilometri oltre la quale si estendeva la tierra firme più rilevata, non inondata, regno della selva, normalmente non insediata. La fascia rivierasca è chiamata anche várzea, la cui estensione viene variamente stimata tra l’1 e il 2% dell’intero bacino amazzonico (60 mila - 120 mila chilometri quadrati). Ed è nella várzea che doveva abitare oltre la metà degli indios dell’intera e immensa regione8. Alla várzea Denevan assegnava una densità un poco superiore a 4 abitanti per chilometro quadrato, per un totale di oltre 400 mila abitanti a metà Seicento: applicando il rapporto di spopolamento di 3,5 a 1, ottiene circa 1,5 milioni di abitanti al contatto. Ho detto che quest’ultimo passo è ingiustificato: limitiamoci dunque a considerare una valutazione attorno a mezzo milione come una stima plausibile della popolazione rivierasca amazzonica a metà Seicento9. Che è, appunto, la popolazione le cui vicende sono al centro di questo libro. Il «mezzo milione» mutuato da Denevan poggia su alcuni elementi quantificati o quantificabili delle antiche cronache. Per Amazzonia 143 chi fosse incuriosito dai dettagli e dai fatti contenuti in queste cronache, e dall’aritmetica elementare utilizzata nelle stime, raccomandiamo la lettura dell’Appendice 2, limitandoci qui a un cenno sommario. Quale poteva essere la densità abitativa della várzea? Ci aiutano le vicende del frate francescano Laureano de la Cruz e del suo soggiorno, tra il 1647 e il 1650, tra gli Omaguas nelle isole del tratto amazzonico compreso tra la foce del Napo e quella del Putumayo (ne abbiamo riferito nel cap. V). Nella sua relazione Laureano fece una breve descrizione dei villaggi incontrati in sei isole. Il 19 ottobre 1647 il frate e i suoi compagni approdano sulla prima isola, chiamata Piramota, che battezzano San Pedro de Alcantara per esservi giunti nel giorno di quel santo. Avevano le loro case, che sono 28, sulla riva del fiume, fatte di legno e coperte di foglie di palma [...] tutte in fila, come galere con la prora rivolta verso il fiume, accostate l’una all’altra e con due porte, una verso il fiume e l’altra verso il bosco. Vivevano in ciascuna di queste case due, tre o quattro capifamiglia, o «indios di lancia», in tutto saranno 80, e le mogli e i figli saranno 25010. L’isola misurava «due leghe di lunghezza e di larghezza meno di mezza lega». La densità dell’isola era dunque di circa 13 abitanti per chilometro quadrato (330/25 kmq = 13,2). È il villaggio più grande e con maggiore densità che incontrano. Seguono analoghe indicazioni per le altre cinque isole. Di queste sei isole Antonio Porro, avvalendosi di mappe satellitari, ha identificato l’ubicazione, e calcolato che, insieme, avessero una superficie di 255 chilometri quadrati, con 97 case plurifamiliari che ospitavano 236 famiglie, una popolazione totale tra le 900 e le 1.200 persone, e una densità tra 3,5 e 4,7 abitanti per chilometro quadrato. Lo stesso Porro ha calcolato che nel tratto di 700 chilometri di fiume abitato dagli Omaguas, ci fossero 60 isole di dimensione abitabile, con una superficie totale di 1.900 chilometri quadrati, e una popolazione «possibile» tra i 6.650 e i 9.000 abitanti. Cifre coerenti con l’indicazione, dello stesso Laureano, che gli Omaguas avevano 34 villaggi (le dimensioni dei quali erano, come si sa, modeste); o con i 38 villaggi nei quali operò padre Fritz mezzo secolo più tardi11. Gli Omaguas, che a metà Seicento occupavano le isole di un tratto di Fiume di circa 700 chilometri, costituivano uno dei gruppi 144 Capitolo settimo più evoluti, capaci e organizzati dell’Amazzonia. È presumibile che anche la loro densità insediativa fosse superiore a quella di altri gruppi etnici. L’estensione a tutta la várzea amazzonica della densità dei «civili» Omaguas, porta al «mezzo milione» del quale abbiamo detto, forse il limite massimo di una ragionevole forchetta. Non sappiamo in che rapporto queste stime possano stare con la popolazione di un secolo prima: sicuramente il popolamento aveva già subìto le conseguenze negative del contatto nella parte alta dell’Amazzonia – nella regione dei Quijos e altrove – così come nella regione della foce, ma per il resto l’ipotesi di un catastrofico tracollo non sembra corroborata dai fatti. Storia assai diversa è quella che si dipana durante i centotrenta anni della permanenza dei gesuiti in Mainas, perché i segnali del tracollo demografico furono molteplici, come abbiamo visto. Padre Figueroa notava che alla fondazione di Borja (1619) si distribuirono 700 tributari, capifamiglia indios, in encomienda a 21 spagnoli; che i tributari diminuirono, a seguito delle vessazioni subite, delle fughe e dell’alta mortalità, a poco più di 400 verso il 1638 («all’arrivo dei Padri») e poi ancora a 200 nel 166112. A questa data gli indios nel distretto di Borja erano circa 1.000, e altri 500 erano dispersi nella selva, a conferma che le fughe erano una componente primaria della demografia della regione. Sempre Figueroa sosteneva che nel 1660 gli indios nelle missioni erano circa 10 mila, ma dopo il vaiolo di quell’anno ne erano rimasti 7.000, dei quali 3.100 battezzati e gli altri catecumeni13: possiamo presumere che una parte della diminuzione fosse dovuta alle fughe. Nelle missioni, dunque, risiedeva una proporzione modesta della popolazione totale della regione, valutata dal religioso in 60 mila persone14. Era opinione di Figueroa che gli indios della regione si fossero dimezzati dalla prima entrada degli spagnoli del 1619. Nello sfortunato tentativo di evangelizzare i Romainas e gli Zaparos, riferiva dello sterminio causato «dal catarro, moquilla e mal de costado [mal di petto]» e da altre malattie, e che la popolazione iniziale, che contava 2.000 «uomini di lancia», si sarebbe ridotta ad appena 30015.Nel resto del secolo altre epidemie, rivolte, repressioni e fughe impedirono l’espansione della popolazione delle missioni. Nel 1719 28 villaggimissione contavano circa 8.000 indios, compresi qualche centinaio di catecumeni, solo 1.000 in più di quelli stimati da Figueroa nel 1661, all’indomani della devastante epidemia di vaiolo, sebbene molte nuove missioni fossero state fondate. Amazzonia 145 La tabella 1 (si veda Appendice 2) riporta il sommario dei quadri demografici delle missioni dal 1719 al 1798 reperibili in varie fonti. Si tratta per lo più di quadri sommari redatti dagli stessi missionari, o da visitatori della regione, sulla base delle notizie disponibili per ciascuna missione. Se i criteri generali di raccolta erano fondamentalmente omogenei – seguendo regole comuni dettate dalla Chiesa e dall’Ordine – non altrettanto si può dire della loro applicazione pratica, per le particolari condizioni di vita e ambientali della regione. Nuove missioni venivano create, altre venivano abbandonate; nuovi gruppi e nuove etnie venivano aggregati alle missioni e altri se ne distaccavano; molti padri avevano la responsabilità di più missioni; missioni diverse venivano fuse, mentre altre si dividevano. I circa 8.000 indios del 1719 stavano in 28 missioni, ma nuovi sforzi di evangelizzazione nel Río Napo portarono il totale delle missioni a 41 nel 1745 con quasi 13 mila indios – e questo è un massimo assoluto sia delle missioni sia degli evangelizzati – per riscendere a 22 all’espulsione del 1767, con meno di 12 mila indios. Successivamente il numero delle missioni rimase invariato, ma alla chiusa del secolo il numero dei residenti nei villaggi era sceso a meno di 4.500. Per le ragioni di scarsa comparabilità sopra indicate, questa serie non omogenea ci dice poco circa la dinamica intrinseca della popolazione sotto controllo dei gesuiti, o comunque sotto controllo religioso dopo la loro cacciata. Va anche notato che nel corso del secolo il numero dei gesuiti operanti nella regione era aumentato: erano 28 al momento dell’espulsione 1767, a riprova dell’intensificazione dell’opera di evangelizzazione16. Una via per eliminare alcuni motivi di incomparabilità è quella seguita nella tabella 2, nella quale, per ogni intervallo di tempo, è stata posta a confronto la popolazione delle stesse missioni – quelle censite a entrambe le date – escludendo le altre. Così, tra il 1719 e il 1740 sono poste a confronto 12 missioni, tra il 1740 e il 1745 14 missioni, e così via. Vediamo che la dinamica nel periodo gesuitico è positiva, con un incremento annuo superiore all’1%, mentre nel periodo successivo il tasso è nettamente negativo. In quelle missioni «presenti» sia all’inizio (1719) sia alla fine (1776) del periodo, la popolazione era cresciuta di due terzi, con un incremento medio annuo dello 0,9%. Supponiamo che le missioni poste a confronto fossero rappresentative dell’insieme della popolazione evangelizzata. Ora, 146 Capitolo settimo un incremento attorno all’1% sembrerebbe sintomo di una florida ed espansiva demografia capace – lo ricordiamo a chi non è familiare con questi temi – di assicurare un raddoppio della popolazione in settant’anni. Un ritmo di crescita raramente conseguito dalle popolazioni pre-moderne, afflitte normalmente da altissima mortalità, com’era anche il caso delle popolazioni indigene di America. E qui sorge una domanda fondamentale: se le popolazioni del bacino amazzonico – nel Seicento come nel Settecento – furono vittime di un disastro demografico, per quale ragione esse apparivano prospere nei villaggi delle missioni? Purtroppo non abbiamo l’informazione che renderebbe possibile sciogliere il nodo, cioè dati delle nascite e delle morti. Questi dovettero esistere, perché è noto che i padri dovevano tenere – e tenevano – i registri parrocchiali dei battesimi, dei matrimoni e delle sepolture, ma questi non sono giunti fino a noi, e molti finirono in fumo nell’incendio che consumò l’archivio generale di Santiago de la Laguna nel 1749. Non possiamo perciò dire se questo incremento fosse dovuto a un eccesso delle nascite sulle morti, oppure a un eccesso di neofiti «immigrati» rispetto a coloro che abbandonavano la «casa del Padre». Abbiamo tuttavia un’informazione complementare di grande interesse e utilità e che ci permette di fare qualche passo avanti nell’analisi. Sappiamo infatti che i padri compivano un’incessante opera di esplorazione, di contatto con nuovi gruppi, di attrazione di questi nell’orbita della missione, di recupero di coloro che si erano allontanati. Abbiamo riferito (cap. VI) come i padri della Mision Baja avessero più volte convenuto di compiere annualmente entradas evangelizzatrici nelle loro regioni per contrastare il declino delle missioni. Padre Widman – in un suo rapporto sulle cose notevoli accadute nelle missioni – dà notizia delle entradas compiute dai padri tra il 1750 e il 1761, e degli indios catturati e portati nelle missioni. Si tratta in tutto di 38 spedizioni, che fruttarono – uso di proposito il termine – 2.692 catture, in media 224 all’anno e 71 per ogni spedizione17. Nella missione di San Joaquín de Omaguas, del resto, alcuni indios erano espressamente designati dal Padre per accompagnarlo nelle spedizioni, segno del carattere abituale di queste azioni di evangelizzazione18. È significativo notare che nei casi delle missioni del Paraguay, nelle valli del Paraná e dell’Uruguay, o di quelle dei Mojos, nell’attuale Bolivia orientale – le imprese di maggior successo dei gesuiti – dopo il periodo iniziale di fondazione, le spedizioni per proseli- Amazzonia 147 tismo cessarono o avvennero solo eccezionalmente. Non così in Mainas, dove la mobilità e la fluidità erano la norma. Infine va posto in rilievo il fatto che oltre 200 indios indotti dai religiosi, ogni anno, ad aggregarsi alle missioni, rappresentassero un 2% dell’intera popolazione: più o meno un immigrato ogni due o tre nascite. L’alto numero di indios «catturati» annualmente e una popolazione delle missioni più o meno stazionaria nel periodo considerato sono la prova indiretta che gli allontanamenti e le fughe erano davvero una forza dominante del sistema missionario, continuamente in tensione per compensare le perdite con una incessante opera di esplorazione, proselitismo e cattura. Come del resto confermato ripetutamente dalla cronache. Indios catturati nelle «entradas» dei gesuiti Anno 1750 1751 1752 1753 1754 1755 1756 1757 1758 1759 1760 1761 Entradas 2 2 4 1 3 5 5 2 2 6 3 3 Catturati 69 71 282 110 76 416 184 172 268 246 257 541 In quasi tutta la storiografia moderna sulle popolazioni americane dell’epoca postcontatto il vaiolo occupa un posto centrale, il vero protagonista – assieme ad altre patologie importate dall’Europa – della catastrofe. Le epidemie di vaiolo terrorizzavano sia le popolazioni amazzoniche che ne avevano conosciuto l’azione devastante, sia i padri che sapevano che nella scia dell’intrusione e dell’evangelizzazione iberica seguivano le «tenebre della pestilenza». Non voglio detronizzare il vaiolo dal suo ruolo di protagonista delle sventure americane, ma ridisegnarne la sua azione in un quadro più equilibrato. Infatti, ovunque in America lo sconvolgimento politico, culturale, sociale, economico del contatto produsse forze potenti di crisi, anche demografica. Abbiamo visto all’opera, nei capitoli precedenti, 148 Capitolo settimo repressioni, schiavitù, servaggio, migrazioni più o meno forzate e i loro effetti. Considerare il vaiolo un protagonista – anziché il protagonista – della catastrofe, ha anche seri fondamenti epidemiologici19. In una popolazione cosiddetta «vergine», cioè mai esposta al virus (come le popolazioni americane)20 e che perciò sia priva di immunità, l’introduzione del vaiolo genera una mortalità molto elevata, dell’ordine del 30 o 40%. In pratica, in una popolazione colpita dal vaiolo non tutti vengono contagiati – per lontananza, per il caso, per costituzione biogenetica – per cui la mortalità generale è generalmente più bassa della percentuale sopra indicata. Si tratta, comunque, di una vera e propria catastrofe, una ferita demografica profonda, sì, ma consueta in tutte le popolazioni di «antico regime» (si pensi alla peste, sconosciuta in America, nelle popolazioni euroasiatiche) e che può essere rimarginata nel tempo da un supero delle nascite sulle morti tipico delle fasi postcrisi. Una successiva introduzione del vaiolo – a dieci o vent’anni di distanza, come frequentemente avveniva in America nel Seicento e nel Settecento – generava però danni minori per varie ragioni. Una parte della popolazione, essendo sopravvissuta all’epidemia precedente, ha acquisito l’immunità; altri evitano il contagio; malati e convalescenti vengono assistiti e non abbandonati; rimedi empirici vengono selezionati e adottati. Insomma, le successive epidemie infliggono «ferite» meno gravi e non tali da compromettere irrimediabilmente l’equilibrio demografico. Non vi sono prove di un’estensione alla regione della pandemia che nel 1589 e negli anni successivi colpì il Perú e buona parte del Sudamerica: nella regione di Quito l’epidemia avrebbe fatto 7.000 morti21. È possibile che il relativo isolamento avesse salvaguardato le popolazioni del pedemonte andino e dell’alta valle amazzonica22. Ma questo isolamento fu sgretolato dall’intensificarsi dei contatti con le città abitate dagli spagnoli – Quito, Jaen, Moyobamba – e successivamente con i portoghesi che risalivano il fiume dal Pará. Nel 1642 la regione di Borja è colpita dal vaiolo23, ma non sappiamo se si trattava della prima volta. Nel 1648 Laureano de la Cruz incontra la popolazione di un villaggio nell’ultima isola da lui visitata, superstite di un’epidemia. Ritornato all’isola di Caraute, inondata dalla piena del fiume, vi resta alcuni mesi durante i quali «arrivò la peste da valle del fiume, e durante la notte si ammalarono un ragazzo e una vecchia, in due abitazioni diverse, e fu poi diffondendosi e Amazzonia 149 infettando dappertutto cosicché in capo a poco più di un mese non restò nell’isola nessuna persona, grande o piccola, che non cadesse miserabilmente ammalata»24. Laureano descrive le condizioni pietose degli ammalati, il loro «cattivo odore» (sintomo certo di vaiolo), le pustole e le piaghe, i lamenti e i pianti. Alla sua partenza «era morta le terza parte di quella gente, e convalescenti i più»25. La successiva epidemia del 1660 – «ha consumato molta gente» – avrebbe colpito una popolazione in dottrina dai padri che Figueroa valutava in 10 mila e che nell’anno successivo 1661 calcolava in 7.000, per le molte morti e, presumibilmente, per le molte fughe26. Nuova epidemia di vaiolo, anche questa generalizzata, nel 166927. Dell’epidemia del 1680-1681 dà parecchie notizie padre Lucero, che allora curava la missione di Santiago de la Laguna: si sparge la notizia che il vaiolo sta colpendo le popolazioni a monte del fiume Huallaga; i Cocamas del villaggio decidono di scappare («il 23 di giugno con 75 canoe»), e rimangono nel villaggio solo Xitipos e Chepeos. L’epidemia raggiunge La Laguna e i villaggi annessi in ottobre, e vi rimane fino all’inizio del maggio successivo: il religioso si adopera a curare e confortare: «l’impresa di assistere tanti ammalati [...] per il pestilente fetore del contagio in terre così sommamente torride è indicibile». Ma oltre ai cristiani assisteva anche gentili e catecumeni: «In meno di quindici giorni [...] battezzai e imposi l’olio della cresima a seicento indios»28. L’epidemia non raggiunse gli Omaguas nel Marañon, presso i quali si erano rifugiati i fuggitivi Cocamas, che così salvarono la pelle. Per lungo tempo non risulta, dalla documentazione esaminata, altra menzione del vaiolo, salvo incerti accenni per il 1740, senza vittime29. Nell’Amazzonia portoghese c’è notizia di epidemie di vaiolo tra il 1690 e il 1700, e poi ancora nel 1724, dovuta a persone contagiate nel seguito del primo vescovo del Pará, arrivato da Lisbona, via São Luis30. Nel 1749 il vaiolo fa un gran numero di vittime nelle missioni del Napo, mentre il morbillo infuria nel Marañon31. Padre Uriarte segnala la presenza del vaiolo nel Nanay nel 1754, ma non sappiamo se questo episodio fosse rimasto localizzato. Si ha poi notizia di un episodio a Borja nel 1756, legato alla malattia di un gruppo di persone che si erano recate a Jaen, e che si risolse nella fuga generalizzata dalla città, che poi venne spostata più a valle. Queste «trassero il vaiolo, del quale morirono quaranta viracochas, assieme al tenente; gli indios, col permesso del Padre Curato scapparono in un luogo chiamato 150 Capitolo settimo Puca Barranca, e lì fecero i loro seminativi. Così fuggirono il contagio e dettero inizio al trasferimento della città in un luogo migliore e più fertile» 32. Non abbiamo però idea della diffusione di questi episodi, che potrebbero essere rimasti localizzati33. Più documentata è invece l’epidemia del 1762: come nel secolo precedente, il contagio entra da Moyobamba e Lamas; a Borja uccide 100 persone, si diffonde lungo il corso dello Huallaga e giunge a Santiago de la Laguna; come un secolo prima, i Cocamas fuggono e si rifugiano prima nell’Ucayali e poi tra gli Omaguas, dove restano un anno. A Santiago morirono più di 200 Cocamillas e Panos. «Ma in Jeveros, villaggio di duemila anime, non ne morirono molti perché fuggirono per tempo nella selva»34. Le fughe dalle missioni erano una semplice ed evidente strategia, la cui efficacia era stata fin dall’inizio comprovata. Sempre dal diario di Uriarte si ricava una notizia assai interessante: padre Esquini, un gesuita fiorentino che operava tra i Chamicuros, salvò molte vite praticando l’inoculazione («disse che facendo ingerire [!] vaiolo di buona qualità, ne salvò molti»35. Nel bel mezzo dell’Amazzonia, lontano dall’Europa dei Lumi!) Il vaiolo, ben inteso, non fu l’unica patologia importata dal Vecchio mondo: morbillo, varietà influenzali e altre patologie virali si aggiunsero al complesso quadro che determinava l’alta mortalità strutturale delle popolazioni amazzoniche. Non ci sono valide ragioni per ritenere queste più vulnerabili di quanto non lo fossero i popoli iberici ed europei. Febbri, diarree, catarri e patologie polmonari furono, senza dubbio, comuni e diffusi e vengono spesso citati. Ma il vaiolo avrebbe potuto «fare la differenza», e fu senz’altro così laddove fece la sua prima apparizione. Tuttavia, a parte gli episodi del 1660, del 1680-1681 e del 1762, che sicuramente ebbero notevoli diffusione e intensità, non sembra essere stata la causa principale della crisi. Tra le due gravi pandemie di fine Seicento e quella del 1762 passarono ottant’anni senza che una catastrofe memorabile sia ricordata dalle numerose cronache e memorie. Il territorio era immenso e relativamente isolato; i contatti con gli spagnoli limitati; eventuali focolai d’infezione erano molto distanti da altre etnie o missioni; l’arte della fuga era ben conosciuta e praticata. I dati raccolti dai padri per le diverse missioni offrono, nel Settecento, qualche ulteriore elemento conoscitivo. Non molto, per la verità, soprattutto per il fatto che l’intenso ricambio mi- Amazzonia 151 gratorio delle missioni rende impossibile assimilarle a popolazioni «stabili», nelle quali la conoscenza di qualche parametro (per esempio, la struttura per età e il tasso d’incremento) permette d’inferire i livelli di natalità e mortalità compatibili con quegli stessi parametri36. I quadri statistici relativi a ciascuna missione riportavano, normalmente, gli abitanti secondo che fossero coniugati, vedovi, adolescenti, o bambini, ciascuna categoria distinta in maschi e femmine. Il numero dei coniugati era per definizione uguale a quello delle coniugate, e il numero delle coppie coniugali può essere considerato uguale al numero delle elementari unità familiari. Gli adolescenti erano compresi tra i sette anni e l’età all’unione, più o meno coincidente con l’età alla pubertà; i bambini avevano meno di sette anni. È dubbio che le definizioni fossero rigorosamente adottate nella pratica: in alcuni casi, vedovi e vedove confluiscono nella categoria dei «non coniugati»; non è nota quale fosse effettivamente l’età di confine tra gli adolescenti e i coniugati (nelle altre missioni americane le adolescenti andavano spose a quattordici-quindici anni, gli adolescenti uno o due anni più tardi); né è certo che il settimo compleanno fosse il discrimine tra bambini e adolescenti37. Nella tabella 3 sono raccolti i dati relativi a sei missioni, sempre censite tra il 1740 e il 1776, che rappresentano circa i due quinti della popolazione di tutte le missioni. Poiché le singole missioni erano molto piccole, sono state raggruppate per dare maggiore robustezza a dati e indici. Ma anche così, si tratta di una popolazione esigua, di poche migliaia di abitanti, corrispondente a quella di due o tre parrocchie italiane durante l’antico regime. Gli indicatori demografici non recano troppe sorprese e sono simili a quelli di altre popolazioni indie dell’epoca: li confrontiamo con quelli delle missioni dei Mojos, nell’alta valle del Madera, il maggiore affluente del Grande Fiume, relativi allo stesso periodo e riguardanti una popolazione assai più numerosa38. Le dimensioni medie delle famiglie erano piccole, tra i 4,3 e i 4,7 componenti (tra i Mojos tra 3,9 e 4,2); i bambini per coppia tra 1,2 e 1,8 (tra i Mojos 1,2-1,6); il rapporto tra maschi e femmine, tra bambini e adolescenti variava tra 1,02 e 1,18 (tra i Mojos – per i soli bambini – tra 1,07 e 1,18). I giovani rappresentavano quasi la metà della popolazione , tra il 45 e il 50% (tra i Mojos 46-48%) mentre i coniugati oscillavano tra il 42 e il 47% (48-52% tra i Mojos). Sono indicatori compatibili con un sistema demografico ad «alta pressione», come si dice in gergo, cioè con un’alta natalità 152 Capitolo settimo e un’alta mortalità, ma anche con buone potenzialità di crescita in condizioni di normalità che tuttavia, nella turbolenta storia delle missioni, non dovevano essere né lunghe né frequenti. Tra i Guaraní del Paraguay, negli anni non perturbati da conflitti o epidemie, e più o meno alla stessa epoca, la natalità era pari al 55‰ e la natalità era attorno al 45‰ – corrispondenti a un numero medio di figli per donna di 7-8, a una speranza di vita sui venticinque anni e una capacità di crescita superiore all’1%39. È presumibile che la demografia dell’Amazzonia non fosse molto diversa. Nelle missioni americane la monogamia, l’indissolubilità della coppia, la separatezza della vita del nucleo familiare e la lotta a ogni promiscuità furono capisaldi dell’azione dei padri, punti fermi irrinunciabili per la costruzione di una società ordinata. Ciò era assai difficile nella fase iniziale, e la strategia generale fu di agire su bambini e giovanissimi, indottrinandoli e formando schiere di buoni cristiani obbedienti ai precetti sulla vita familiare. Né per questo dovevano attendere molto; una volta imposta agli adulti una «delega educativa», l’indottrinamento dei giovanissimi venne attuato rapidamente, e poiché le coppie si formavano all’età della pubertà (e i missionari vigilavano che questo avvenisse), le prime generazioni di coppie cristianizzate si formarono non molti anni dopo la fondazione delle missioni. In Amazzonia l’azione dei Ggesuiti dovette essere assai più ardua, stante la fluidità della popolazione delle missioni e le scarse forze dei religiosi: solo nelle missioni più grandi o strutturate, come Limpia Concepción, Santiago de la Laguna o San Joaquín de Omaguas, si ha notizia di una regolare dottrina impartita ai bambini, essenziale per il radicamento della nuova religione. Molta documentazione scritta attiene alla etno-antropologia dei vari gruppi, e riguarda i riti e i costumi concernenti i più vari aspetti della vita sociale, le famiglie e i clan, il cibo e la casa, i conflitti e il cannibalismo (generalmente rituale), credenze e tabù, la cura delle malattie, la nascita e la morte, il ruolo degli sciamani40. Difficile è comprendere se, e in quale misura, l’analisi sistematica di una ricca congerie di notazioni aiuti a comprendere le dinamiche sociali e demografiche oggetto di queste pagine. Riti e usanze riguardanti la malattia e la morte sono interessanti, ma non troppo rilevanti sotto il profilo demografico, salvo qualche notizia circa episodi di «eutanasia». C’era un grande uso Amazzonia 153 di piante medicinali, e una ricca e variata farmacopea, la cui efficacia non doveva essere decisiva se non in alcuni casi (morsi di serpenti velenosi, cura di lesioni e ferite, o come antidolorifico). I morti venivano spesso sepolti nella stessa abitazione, o nei suoi pressi, costume che i padri si sforzavano di sradicare: «Chieder loro il corpo del morto per seppellirlo in chiesa è dar loro una mazzata [...] ma basta che giri la testa che ne trovo molti sepolti nelle abitazioni»41. Ebbe sicuramente un forte rilievo la pratica dell’infanticidio, comune in molte popolazioni oggetto di evangelizzazione e una delle maggiori preoccupazioni dei missionari, la prima delle barbarie da estirpare. Ci sono molte testimonianze che ciò avvenisse tra i Mojos, nell’alto bacino del Madera, per malattia o deformità del neonato, oppure dopo un parto gemellare o quando moriva la madre e il neonato veniva sepolto con essa42. Tutte forme di infanticidio legate a strategie di sopravvivenza in contesti sociali nei quali l’investimento parentale sui figli era assai elementare. Padre Lucero, con riferimento ai popoli che gravitavano attorno a Santiago de la Laguna, osservava: Uccidono i loro figli, a volte perché nascono femmine e non maschi, che prediligono, altre volte perché la madre non ha voglia di allevarli [...] Il modo di ucciderli è di mettere i neonati ancora vivi in una buca che scavano, e poi ci gettano sopra della cenere, molto lentamente, e in questo consiste la pietà materna43. A volte le ragioni dell’infanticidio appaiono futili o incomprensibili. Questa nazione dei Cocamas, e anche altre, hanno un’usanza disumana, peggiore delle bestie. Ed è quella di uccidere i figli quando nascono, per non doverne crescere troppi, o per altre ragioni, seppellendoli vivi con la placenta. Nasce il bambino: arriva il padre a vederlo e dice alla moglie: «Perché ne dobbiamo crescere tanti? Perché dobbiamo tenerci questo che piange?». Con questo e altri simili pretesti, nella buca che scavano per la placenta, con quella seppelliscono l’innocente. L’eccellente padre Figueroa è anche disorientato, e infatti: Però se succede che mentre stanno discutendo sulla vita del bambino arriva qualcuno dei loro parenti e solleva la creatura dal suolo, allora ha salva la vita e lo crescono [...] Per questa ragione queste genti hanno pochi figli. E benché siano così disumani quando nascono i bambini, una volta 154 Capitolo settimo che si decidono a dar loro il seno e a crescerli, è perfino troppo l’amore che hanno per loro44. Gli osservatori dell’alta Amazzonia del secolo scorso confermano che la pratica dell’infanticidio era abbastanza diffusa, ma «retrocedere» le osservazioni moderne ai secoli precedenti è operazione assai rischiosa45. È ovvio, però, che una cosa è l’esistenza della pratica, un’altra è conoscere la sua diffusione e la sua frequenza, e quindi comprendere se l’infanticidio fosse anche un freno effettivo alla crescita demografica. Analoghe considerazioni possono valere per l’aborto, pratica conosciuta e adottata, ma la cui effettiva incidenza non è dato di conoscere. Non abbiamo notizie sulle pratiche di allattamento e svezzamento: tra i Tupinambás – in epoca più tarda – sembra che lo svezzamento avvenisse gradualmente all’età di quattro o cinque anni46. Possiamo solo dire che anche le popolazioni amazzoniche avevano accesso a pratiche di limitazione della discendenza: ma ignoriamo con quale frequenza vi facessero ricorso, e con quale efficacia. Dei riti di passaggio al raggiungimento della pubertà i missionari danno spesso notizie interessanti quanto varie. Tra gli Omaguas, secondo padre Fritz, esisteva una pratica piuttosto curiosa che riguardava le ragazze: Le sospendono in una rete appesa alla sommità di una capanna e le tengono lì appese per otto o più giorni, dando loro un poco di yucca secca e poco da bere per il loro sostentamento, e sufficiente cotone perché così si intrattengono filando tutto quel tempo. A capo di un mese, le tirano giù, le portano al fiume, le lavano dai piedi alla testa, poi le dipingono fino a metà busto e adornate con piume le riportano a braccia alle loro case, con grande accompagnamento di musiche e danze. Lì le donne presenti danno loro una misura di bevanda, prescrivendo di bere fino a scoppiare; quindi un indio, il più vecchio, dando un colpetto con un bastoncino sulla spalla, impone un nome che poi conservano per tutta la vita. Dopo questa cerimonia è lecito a qualsiasi uomo di chiederle in moglie ai loro genitori; prima sarebbe un delitto da punire perché, dicono, non essendo state trattate in questo modo, le donne non sono di beneficio né a se stesse né ai loro mariti47. Ancora più stupito e scandalizzato è padre Widman, allorché riferisce delle pratiche correnti tra alcune etnie dell’Ucayali: «in trentatré anni come missionario [...] non avevo mai visto una Amazzonia 155 cosa tanto incredibile e straordinaria quanto l’uso di circoncidere le donne tra i Panas»; la mutilazione era praticata in una cerimonia rituale e non solo tra «i gentili», ma anche dopo la cristianizzazione, sia pure di nascosto48. Spesso le ragazze venivano tenute in isolamento per un limitato periodo di tempo; altre volte praticavano il digiuno. Sul matrimonio conviene riferire la sintesi di padre Maroni, che conosceva la storia della regione ed era bene informato dai suoi confratelli. Era opinione comune – e preoccupazione continua dei padri – che nella condizione «barbara», non cristianizzata, il matrimonio come vincolo monogamico non esistesse, essendo comune la ripulsa del coniuge, sia da parte dell’uomo che della donna, e normale una successiva unione. Sebbene cacichi e notabili avessero più di una moglie, la normalità era la coppia, sia pure instabile. Non c’era preclusione verso l’unione tra affini, eccetto con una nuora o con una matrigna, mentre erano escluse le unioni tra consanguinei. La via ordinaria [nel celebrare un matrimonio] è che l’uomo chieda in moglie la donna, dando qualcosa ritenuta di valore al padre o a un parente [...] il padre o il parente più vicino della donna, e più spesso il cacico, durante una bevuta che organizzano allo scopo, prende la sposa abbigliata a festa e la depone su di un giaciglio o nell’amaca assieme allo sposo, e con appena qualche segno di affetto tra i due, rimane concluso il contratto49. In altri casi non c’è alcun rito, e l’unione avviene direttamente, senza l’intermediazione dei genitori. Tra i Mayorunas, invece, vigeva il costume che il giovane «allevasse fin dalla tenera età la bambina che sarebbe stata sua sposa, e questi sono i matrimoni più notevoli, per l’amore che si sviluppa verso la bambina, come di padre a figlia, e si concludono quando arrivano all’età alla quale possono coabitare»50. Le prime testimonianze di viaggio – da Carvajal ad Acuña – restituiscono l’immagine di un’Amazzonia caleidoscopio di etnie, tribù o clan, variato e complesso; una miriade di lingue parlate – anche se riconducibili ad alcuni ceppi matrice – e mutuamente poco comprensibili; gruppi frammentati con propria autonomia e spesso in conflitto con i vicini, ma anche inclini a viaggiare, stabilire contatti e commerciare; modeste dimensioni di ogni etnia, 156 Capitolo settimo poche centinaia o al più qualche migliaio; frequenti migrazioni. L’intrusione europea e la diminuzione della popolazione accentuarono questi caratteri e determinarono un ulteriore processo di frammentazione. Ma anche di ricomposizione di gruppi dispersi; i Jivaros riconquistarono aree di frontiera abbandonate dagli spagnoli e mantennero una bellicosa indipendenza, e assieme ai vicini Zaparos attrassero gruppi dispersi che fuggivano il disastroso sistema dell’encomienda e la sorte degli indios «pacificati»51. Nelle regioni del Napo e del Tigre gruppi dispersi formarono eterogenee collettività. Le spedizioni schiavistiche determinarono fughe e nuove aggregazioni52. In quest’opera di frammentazione e ricomposizione dettero il loro contributo i padri missionari, sia dividendo i gruppi, separando i volenterosi neofiti dal gruppo rimasto nella selva, sia riunendo nella stessa missione etnie già separate. È utile, infine, ricordare che un’altra forza, spesso trascurata dagli studiosi dell’antropologia amazzonica, era continuamente in azione. In collettività autonome e con forte endogamia, e comunque poco inclini ad aprirsi ad altre etnie, i piccoli numeri sono fattore di instabilità e di estinzione. I gruppi che scendono sotto determinate soglie – senza compromettersi con una cifra, diciamo qualche decina di famiglie – generano un numero troppo modesto di nascite e rischiano di non assicurare quella variabilità di caratteri necessaria per assicurare opportunità matrimoniali per tutti. Ogni trauma esterno – conflitto, epidemia, accidenti – può compromettere l’instabile equilibrio. Lo stesso effetto può avere il semplice caso, se produce un forte sbilancio dei sessi in alcune generazioni, compromettendo la fisiologica scelta matrimoniale. La fusione tra gruppi diventa dunque necessaria alla continuità e alla sopravvivenza della collettività. Per tutti questi motivi i padri non esitarono a riunire, nella stessa missione, gruppi diversi e in molti casi di diversa lingua. Abbiamo visto (cap. VI) che a Limpia Concepción oltre agli Xeveros, vivevano Alabonos, Jivaros, Ticunas, Barbudos, Yameos e Ataguates; Lucero fondò Santiago de la Laguna con Cocamas, Chepeos e Xitipos; a San Joaquín de Omaguas, nel 1756, c’erano Migueanos, Amaonos, Mayorunas, Masamaes, Yurimaguas e Cocamas. Nello stesso anno, la missione dei Pebas risultava formata da 5 etnie, 650 anime in tutto53. Il friburghese padre Magnin riferiva che a Borja, oltre a spagnoli, meticci e mulatti, si trovavano solo 234 abitanti, appartenenti a 17 etnie (in diversi casi si trattava di Amazzonia 157 una sola famiglia), nominandole una a una54. Si tratta di esempi che mostrano bene a quale grado di frammentazione fossero giunte le popolazioni della regione. Non sempre la convivenza tra diversi fu pacifica; non sempre essa dette luogo a fusioni. Non c’è modo di risolvere alcune questioni fondamentali: in che misura gruppi ridotti a poche decine di famiglie finirono con lo scomparire? In che percentuale, invece, riuscirono a fondersi con successo? E, infine, quale effetto ebbe la frammentazione sulla dinamica della popolazione, riducendo le unioni e indebolendo i processi riproduttivi? Si sarebbe tentati, pur senza riscontri empirici sufficienti, di affermare che la frammentazione dovette essere una causa non secondaria del declino delle popolazioni amazzoniche. La storia del popolamento amazzonico in epoca coloniale è complicata, e vale la pena riprendere alcuni punti essenziali. In primo luogo, la crisi demografica dell’alta Amazzonia, e forse anche di gran parte del corso del Grande Fiume, avvenne sicuramente quando il contatto con gli europei da sporadico si fece sistematico, cioè dal terzo o quarto decennio del Seicento. È dubbio, e aperto a discussione, salvo che nelle aree al margine del pedemonte e della foce, che il disastro avvenisse prima, e soprattutto che avvenisse nelle proporzioni catastrofiche ipotizzate in gran parte della letteratura. In secondo luogo, è indubbio che l’estensione alle popolazioni amazzoniche delle nuove patologie sia stata responsabile di tremende crisi e di forti arretramenti numerici, ma non tali, di per se, da impedire o paralizzare le capacità di ripresa demografica. In terzo luogo, il sistematico contatto con gli iberici provocò uno sconvolgimento del popolamento, con forti migrazioni, fughe dalle aree rivierasche verso aree più remote e meno adatte alla sopravvivenza. Infine, tale sconvolgimento provocò la frammentazione dei gruppi, molti dei quali, se incapaci di fondersi con altre etnie, furono a forte rischio di estinzione. VIII. Scienziati sfortunati all’equatore. Perú-Parigi, via Amazzonia. Buon selvaggio o bruto bestiale? Vaiolo, caucciù e polli avvelenati. Sociologia delle Amazzoni: la Condamine e Humboldt. La straordinaria avventura di Madame Godin I l 16 novembre 1735 la nave da guerra Portefaix, partita da La Rochelle sei mesi prima, attraccava nel porto di Cartagena de las Indias, nell’attuale Colombia. Sbarcava nella colonia spagnola un gruppo di interessanti personaggi: dieci scienziati e tecnici francesi, membri di una spedizione dell’Accademia delle scienze di Parigi e incaricati di una missione singolare1. Si trattava di misurare la lunghezza del grado di un arco di meridiano nelle prossimità dell’equatore. Dopo complesse trattative, la spedizione aveva ricevuto l’autorizzazione a svolgere la sua missione, superando le numerose interdizioni che impedivano agli stranieri di viaggiare nei possedimenti spagnoli. La loro meta era lontana, perché i dieci personaggi, i loro ingombranti bagagli – tra l’altro undici casse di libri e una complessa strumentazione scientifica – dovettero passare per mare a Portobello di Panamá, traversare l’istmo, imbarcarsi di nuovo a Panamá per poi sbarcare sulla costa pacifica a Manta e a Guayaquil2. Personalità eminente della spedizione era Charles de la Condamine, un ricco, entusiasta e colto scienziato di trentaquattro anni, amico di Voltaire. Dopo otto anni di ininterrotta residenza in Perú, questi iniziò il suo viaggio di ritorno in patria scegliendo la via più inusuale, la navigazione del Río delle Amazzoni, la Guyana, e quindi la Francia. E di questa navigazione ha lasciato una testimonianza di grande interesse perché è la prima motivata dalla curiosità scientifica piuttosto che dall’avventura, dalla conquista, dall’evangelizzazione o dalla fuga dal pericolo. Con La Condamine arriva in Europa un’idea dell’Amazzonia assai diversa da quella, ancora medievale, di Orellana e di Aguirre, o dalla visione controriformista di Acuña e di Laureano de la Cruz. È un’Amazzonia osservata, misurata e intepretata da un 162 Capitolo ottavo europeo dell’età dei Lumi, quella della «Relazione di viaggio» presentata alla seduta pubblica dell’Accademia delle scienze il 28 aprile 17453. Il viaggio amazzonico di La Condamine fu la conclusione accidentale di una missione nata con una finalità specificatamente geodetica, originata dalle ipotesi di Huyghens, e poi di Newton, che la Terra, a causa del movimento rotatorio attorno all’asse dei poli, non fosse sferica bensì (lievemente) schiacciata ai poli. Di conseguenza, la sezione del globo passante per i poli doveva avere forma ellittica, e forma circolare quella passante per l’equatore; e, ancora, il raggio dell’ellisse della sezione polare doveva essere più corto del raggio della sezione equatoriale. Gli scienziati francesi – tra i quali Jacques Cassini – sostenevano la tesi contraria, basata su prove poi rivelatesi errate, e cioè che la Terra avesse forma non schiacciata, ma allungata. Un metodo empirico per risolvere la questione era quello di comparare la lunghezza di un grado di un arco di meridiano – misurata con il metodo della triangolazione geodetica – a due diverse latitudini: questa sarebbe stata identica a ogni latitudine se la Terra fosse stata perfettamente sferica, mentre sarebbe stata minore all’equatore e maggiore al polo nel caso di schiacciamento. L’Accademia di Francia inviò due missioni, una, guidata da Maupertuis, in Lapponia, l’altra, sotto la direzione scientifica di Louis Godin (astronomo e matematico) e quella effettiva di La Condamine, all’equatore (nell’attuale Ecuador). I risultati delle due missioni dettero ragione alle teorie di Newton e Huyghens: in Lapponia il grado risultò più lungo che all’equatore, e l’implicita misura dello schiacciamento della Terra venne stimata in un valore praticamente identico a quello calcolato con i moderni sistemi di misurazione. Si risolveva così una controversia scientifica, e si perfezionavano le conoscenze geodetiche assai utili, tra l’altro, per la navigazione4. La spedizione offre – essa stessa – materia di un lungo e romanzesco dramma, per i dissidi tra i componenti, gli ostacoli posti dalle autorità coloniali, l’uccisione in una faida familiare di uno di essi, la morte naturale di altri due, la grave infermità di un altro, le difficoltà che gli eventi politici e le rocambolesche vicende frapposero al rientro dei sopravviventi, il matrimonio del cugino del capomissione con una giovanissima peruviana e gli incredibili viaggi amazzonici dei due coniugi, separati per venti Amazzonia 163 anni, cui poi accenneremo. La Condamine, per le sue capacità scientifiche e organizzative, per l’abilità nell’avvalersi del lavoro dei compagni e nell’intessere importanti relazioni, emergerà poi come la personalità più complessa e autorevole del gruppo. Dopo il suo rientro in Francia, nel 1744, sarà impegnato a diffondere osservazioni e scoperte dal seggio prestigioso dell’Accademia. La Condamine iniziò il suo viaggio di ritorno l’11 maggio 1743, partendo da Tarqui, a sud della città di Cuenca, dove si trovava da mesi per terminare misurazioni e controlli della lunghezza dell’arco di meridiano; proseguì per Zaruma, Loja e Jaen assieme ai suoi voluminosi bagagli – inzuppati dalle piogge e dai capovolgimenti della canoa che li trasportava – e arrivò in prossimità del Marañon, dove si fece costruire una robusta zattera per il trasporto di bagagli, viveri e scorte, capace di affrontare la navigazione del tratto di fiume costellato da rapide. Imboccò il Marañon il 5 luglio e arrivò alla «città» di Borja (capoluogo della regione gesuitica di Maynas), dopo l’ultima rapida, quella temibile del Pongo di Manseriche, il 12 luglio. Da Borja in poi la navigazione nel mare d’acqua dolce, in pianura, fino all’Atlantico: «I miei occhi [erano] abituati da sette anni a vedere le montagne perdersi nelle nubi [...] non si stancavano di fare il giro dell’orizzonte [...] acqua, vegetazione e niente di più»5. Il 23 agosto raggiunse il Río Negro, il 19 settembre Belém (aveva coperto oltre 4.500 chilometri in poco più di due mesi) da dove ripartì il 29 dicembre alla volta della Cayenna, raggiunta il 26 febbraio 1744. Qui si fermò per sei mesi; via Surinam raggiunse poi Amsterdam il 30 novembre e Parigi il 23 febbraio 1745: il 28 aprile successivo presentava la relazione all’Accademia delle scienze. A Borja passerà alcuni giorni in compagnia del dotto Padre Magnin, gesuita friburghese, che lo accompagnerà fino a La Laguna (la missione più popolosa e sede del superiore della regione dei Mainas) e gli passerà un suo scritto ricco di osservazioni naturalistiche cui La Condamine non mancherà di attingere a piene mani6. A La Laguna verrà raggiunto da Pedro Maldonado, un nobile creolo, geografo e naturalista, collaboratore della spedizione francese, che gli sarà di grande aiuto ma che citerà solo di passaggio nella relazione7. Maldonado lo accompagnerà fino a Belém, e i due partono dalla Laguna in due grandi canoe di 14 metri di lunghezza, i rematori a prua e i viaggiatori e i loro servi a poppa, protetti da una tettoia di foglie e frasche. 164 Capitolo ottavo Il viaggio amazzonico è quello di uno scienziato che osserva, misura, raccoglie, confronta, annota: la latitudine, la temperatura, la pressione barometrica, la larghezza e la profondità dei fiumi, la velocità della corrente, le distanze; disegna, traccia itinerari, appunta per costruire la cartografia del fiume; elenca, descrive, raccoglie, cattura: flora e fauna, semi, foglie, germogli, pianticelle. È così impegnato che le ore e i giorni passano troppo rapidamente, nonostante la lentezza e la monotonia della navigazione. Essendomi impegnato a rilevare una carta del corso dell’Amazzonia, mi ero costruito una risorsa contro l’inazione che mi sarebbe stata consentita dalla navigazione tranquilla che la mancanza di varietà del panorama, pur nella novità, avrebbe potuto anche rendere noiosa. Dovevo essere in allerta continua per osservare la bussola e, cronografo alla mano, i mutamenti della direzione del corso del fiume e il tempo che impiegavamo da una deviazione alla seguente, per esaminare la diversa larghezza del letto del fiume e quella del letto degli affluenti che riceveva, l’angolo che questi formavano alla confluenza, la lunghezza delle isole incontrate, e soprattutto per misurare la velocità della corrente e quella della canoa, ora con riferimento alle rive, ora all’imbarcazione, con diversi metodi la cui spiegazione sarebbe qui troppo lunga. Tutto il mio tempo era occupato: spesso ho scandagliato e misurato geometricamente la larghezza del fiume e quella degli affluenti: ho calcolato l’altezza meridiana del sole quasi tutti i giorni e spesso ho osservato la sua ampiezza all’alba e al tramonto; in tutti i luoghi dove ho soggiornato ho anche montato il barometro8. È un attivismo scientifico che prefigura un modello che troverà il suo punto più alto nel «viaggio alle regioni equinoziali» di Alexander von Humboldt alla fine del secolo9. La Condamine è però meno interessato agli aspetti antropologici – o, almeno non li tratta nella relazione («ho creduto [...] che non mi fosse permesso di estendermi su materie estranee alle finalità di questa Accademia»), e raramente ci tornerà successivamente. Potremmo addirittura dire che il suo raziocinio sembra incapace di affrontare gli aspetti più complessi dei comportamenti e della personalità umana. Sul carattere degli indios così si esprime: L’insensibilità ne è la base. Lascio decidere se la dobbiamo onorare col termine di apatia, o avvilirla con quello di stupidità. Questa nasce senza dubbio dalla pochezza delle loro idee, che non si estende oltre il limite dei loro bisogni. Ghiottoni fino alla voracità, quando hanno di che soddisfarsi; sobri, quando la necessità li obbliga, fino a fare a meno di tutto Amazzonia 165 senza apparentemente niente desiderare; pusillanimi e poltroni all’eccesso, se l’ubriachezza non li trasporta; nemici del lavoro, indifferenti a ogni idea di gloria, onore o riconoscenza; unicamente occupati dall’oggetto presente, e sempre determinati da questo; senza inquietudini per l’avvenire; incapaci di previdenza e di riflessione; si danno, quando niente li infastidisce, a una gioia puerile che manifestano con salti e scoppi di risa irrefrenabile, senza obbiettivi e senza programmi; passano la vita senza pensare e invecchiano senza uscire dall’infanzia, della quale conservano tutti i difetti10. È vero che queste caratteristiche si possono trovare tra popoli in condizione di degradante schiavitù, ma gli indiani delle missioni e i selvaggi che godono della loro libertà sono almeno altrettanto limitati, per non dire altrettanto stupidi, degli altri, e non si può considerare senza umiliazione come l’uomo abbandonato alla semplice natura, privato d’istruzione e di società, differisca poco dalla bestia11. Anche le lingue sono poverissime e «mancano i termini per esprimere le idee astratte e universali; prova evidente del poco progresso che hanno fatto gli spiriti di questi popoli. Tempo, durata, spazio, essere, sostanza, materia, corpo e molti altri non hanno equivalenti nelle loro lingue». E questo avviene anche per concetti morali: «Non ci sono termini che corrispondano a quelli di virtù, giustizia, libertà, riconoscenza, ingratitudine». Non troppo diversa, anche se espressa con simpatia e pietà, era l’idea che degli indios si era formato il gesuita Magnin: Essi vivono così contenti con quel che posseggono, che non desiderano altro. Fanno poco caso a ciò che hanno, e non desiderano per niente ciò che non hanno. Se si dà loro qualcosa, non la ricevono con gratitudine. Se si rifiuta loro qualcosa, si legge nel loro volto che lo si faccia per avarizia. Se essi perdono qualcosa, non mostrano disappunto; se si rimproverano, si mettono a ridere. Se si elogiano, ridono ancor di più [...] Vivono senza preoccupazioni, dormono senza inquietudini, e muoiono senza timore. Potremmo dirli felici, se la felicità consistesse nell’insensibilità12. Questo ritratto superficiale e impietoso degli indios è in antitesi con la visione positiva delle popolazioni primitive che si andava formando in Europa e che troverà il suo compimento nel mito del «buon selvaggio» nella seconda metà del Settecento. Un mito anche vigorosamente contestato – non estranea l’opinione di Buffon circa l’inferiorità naturale e biologica del mondo americano – e 166 Capitolo ottavo che trova la sua espressione teorica nell’abate de Paw secondo la sintesi che ne dà Antonello Gerbi: «quegli uomini [gli indiani] sono anche peggiori degli animali [...] hanno meno sensibilità, meno umanità meno gusto e meno istinto, meno cuore e meno intelligenza. Meno tutto, insomma. Sono come bimbi scemi, inguaribilmente pigri e incapaci di qualsiasi progresso mentale»13. L’antitesi tra il «buon selvaggio» e il «selvaggio insensibile, privo di intendimento» era, del resto, antica. Due secoli prima Oviedo, sbrigativo e tagliente, considerava causa persa («come battere il ferro a freddo») la conversione degli indios. I quali, in realtà «non hanno la testa fatta come le altre genti, ma grossi e duri crani, che il principale consiglio da darsi ai cristiani quando lottano o vengono alle mani con loro è di non dar loro fendenti in capo perché spezzerebbero la spada. E così come hanno la testa dura, così hanno il comprendonio delle bestie»14. Giudizi che facevano fremere di sdegno Bartolomé de las Casas, che dedicò centinaia di pagine per dimostrare la capacità d’intelletto, la buona disposizione, la prudenza economica e politica degli indios: insomma, persone capaci di autogoverno, né bambini né bestie. E José de Acosta si imponeva di smontare «la falsa opinione che generalmente si ha di loro, come di gente bruta e bestiale e senza comprendonio, o di comprendonio così limitato da non meritare questo nome»15. L’opinione dei missionari gesuiti oscillò fra due estremi: da una parte l’immagine dell’indio-bambino a cui – appunto – i bambini andavano sottratti «perché se si lasciano all’attenzione dei loro genitori, questa è di così corta capacità che crescono come bestioline e rimangono oziosi per tutta la vita»16. Dall’altra quella dell’indio primitivo, ma provvisto di raziocinio e suscettibile di essere condotto alla vera fede. Antonello Gerbi così sintetizzava il pensiero dei padri: I gesuiti, derisi dal de Paw, han certo contribuito più di ogni altro ordine – con le loro relazioni annuali [...] e con scritti riassuntivi [...] destinati al gran pubblico – a dare dell’indigeno Americano un ritratto parlante, simpatico e umano, sia perché tale era il loro sincero atteggiamento verso i catecumeni, sia per stimolare la generosità dei loro sovventori europei e persuaderli che i loro denari erano spesi bene, che i convertiti lo erano davvero, e meritavano d’esserlo. Anche gli aspetti negativi messi in luce dai gesuiti erano quei tali che meglio facevano risaltare la fermezza, la pazienza, lo spirito di sacrificio dei buoni padri, erano quelle deplorevoli tendenze al cannibalismo, alle feroci mutilazioni, alla sodomia, alla voracità e all’ubriachezza17. Amazzonia 167 La relazione di La Condamine è interessante non solo per quello che il suo autore riferisce di aver visto, ma anche per quello che aveva studiato, raccolto, udito da testimonianze dirette (Magnin o Maldonado), letto in rapporti e appunti a lui pervenuti durante il lungo soggiorno in Perú. È quindi – insieme – un saggio e un diario. Alcune parti della relazione hanno rilevanza demografica, e sono parecchio interessanti se si sovrappongono a quelle dei rionauti del secolo precedente: de Rojas, Acuña, de la Cruz. C’è la convinzione che sia in atto un processo di spopolamento. Le rive del Marañon, appena un secolo addietro, erano ancora popolate da un gran numero di nazioni, che si sono ritirate nell’interno appena hanno visto gli europei. Non vi si incontra oggigiorno che un piccolo numero di villaggi di indigeni, solo recentemente tratti dalla selva, loro o i loro padri, gli uni dai missionari spagnoli nel settore a monte del fiume, gli altri dai missionari portoghesi nel corso a valle del fiume18. Il nostro scienziato ha ben presente l’opera di evangelizzazione compiuta da padre Fritz (conosceva bene la mappa che Fritz aveva dusegnato del Río delle Amazzoni) tra gli Omaguas, la loro riduzione in trenta villaggi e la loro dispersione avvenuta con il procedere a monte dei portoghesi: [Dei trenta villaggi] non ne abbiamo visto altro che le rovine o piuttosto il luogo [dove sorgevano]. Tutti i loro abitanti, spaventati dalle incursioni di qualche brigante del Pará che veniva a razziare schiavi tra di loro, si sono dispersi nella selva o nelle missioni spagnole e portoghesi19. La navigazione è tranquilla, perché «non c’è oggigiorno, sulle rive del Marañon, alcuna nazione guerriera nemica degli europei, tutte si sono sottomesse o ritirate lontano», anche se ci sono tratti del fiume lungo i quali è pericoloso dormire a terra20. Spopolamento, dispersione e fusioni sono il risultato degli sconvolgimenti creati dagli europei, come le vicende dei Tupinambás hanno dimostrato: Dei resti della nazione dei Tupinambara, situata un tempo sulla grande isola alla confluenza del fiume Madera, si è formata quella dei Topayos [Tapajós], ed i suoi abitanti sono pressoché tutto ciò che resta della valente nazione dei Tupinambas, dominante due secoli orsono nel Brasile dove hanno lasciato la loro lingua21. 168 Capitolo ottavo Avvicinandosi alla foce, La Condamine è ospite per qualche giorno del comandante della piazzaforte di Curupá, «una piccola città di portoghesi dove non ci sono altri indiani che gli schiavi degli abitanti»22. Lo spopolamento non è dovuto, di sicuro, alla mancanza di risorse: le tartarughe sono infinite e «solo le loro uova basterebbero a nutrire gli abitanti delle sponde del fiume», e l’abbondanza dei pesci che rimangono intrappolati dopo le inondazioni in stagni e pantani, e facilmente catturati, fa pensare che «la natura sembra avere favorito la pigrizia degli indiani»23. Di una delle cause dello spopolamento amazzonico, La Condamine fu testimone diretto. Dopo l’arrivo a Belém si era dedicato a esplorare i dintorni e alle consuete osservazioni scientifiche, ma la fine del 1743 si avvicinava e aumentava il desiderio di lasciare l’Amazzonia. Maldonado era ripartito all’inizio di dicembre con la flotta per Lisbona, ma il nostro rionauta aveva deciso di passare in territorio francese – la Guyana – per esplorare, tra l’altro, il ramo settentrionale dell’estuario. Impresa difficile non tanto per i venti contrari propri della stagione, ma «per la difficoltà di mettere insieme un equipaggio di rematori, poiché il vaiolo che stava facendo stragi aveva messo in fuga la maggior parte degli indiani dei villaggi vicini»24. Ovunque in America la fuga – o, meglio, la dispersione nella selva – fu la prima risposta degli indios all’insorgere dell’epidemia. L’epidemia suggerisce a La Condamine interessanti osservazioni. Si è osservato, nel Pará, che questa malattia [il vaiolo] è assai più funesta per gli indiani delle missioni che da poco sono stati tratti dalla selva, e che vanno nudi, che non per gli indios che vanno vestiti e che sono nati tra i portoghesi o che con essi convivono da lungo tempo. Oggi diremmo che i primi erano «suscettibili» al contagio ed erano privi delle difese immunitarie che invece i secondi possedevano. Anche se i primi sembravano avere migliori difese, dato che: Sono una sorta di animale anfibio, che stanno tanto a lungo nell’acqua come sulla terra ferma, induriti dall’infanzia dall’esposizione all’aria, hanno la pelle forse più compatta di quella di altri uomini, e si sarebbe portati a credere che questa sola caratteristica potrebbe rendere più difficile per loro l’esplosione del Amazzonia 169 vaiolo. L’abitudine che hanno questi stessi indios di stropicciarsi il corpo con roucou [una liliacea] e genipa [una rubiacea] e con diversi oli grassi e densi, che alla lunga dovrebbero ostruire i pori, contribuiscono anche ad aumentare la difficoltà [del contagio]. E così dovrebbe essere, anche perché «gli schiavi neri trasportati dall’Africa, e che non praticano le stesse usanze, resistono meglio a questa malattia degli indigeni del paese.». Se non ché «quale ne sia la ragione, un indio selvaggio appena uscito dalla selva, contagiato da questa malattia, è normalmente un uomo morto». Nonostante la pelle stagionata dagli elementi, dalle tinture, dalle sostanze grasse. Questa osservazione non era nuova, ma è cruciale per interpretare gli effetti distruttivi del vaiolo: elevati per le popolazioni «vergini» che vivono nella selva, meno gravi per gli indios cresciuti a contatto con gli europei. Ma se il contagio è letale, La Condamine non sa darsi la ragione del perché questo non avvenga nel caso del vaiolo inoculato artificialmente. Quindici o sedici anni fa, un missionario carmelitano del Pará, vedendo i propri indios morire l’uno dopo l’altro, e avendo appreso dalla lettura di una gazzetta il segreto dell’inoculazione, che allora faceva molto rumore in Europa, giudicò con prudenza che applicando questo rimedio avrebbe per lo meno resa incerta una morte che, impiegando solo i rimedi ordinari, sarebbe stata sicura. Un ragionamento così semplice non avrebbe potuto sfuggire a tutti coloro capaci di riflettere e che, vedendo i disastri della malattia, avessero sentito parlare del successo del nuovo procedimento; ma questo religioso fu il primo testimone in America che ebbe il coraggio di metterlo in opera. Aveva già perduto la metà dei suoi indios; molti altri venivano colpiti dalla malattia ogni giorno; ebbe il coraggio di inoculare il vaiolo a tutti coloro che non si erano ancora ammalati, e non ne perdé uno solo. Un altro missionario del Río Negro seguì lo stesso esempio con identico successo. La Condamine è però sorpreso che questo metodo non sia stato impiegato durante l’epidemia del 1743, poiché si sarebbe creduto che tutti coloro che erano proprietari di schiavi avrebbero utilizzato un procedimento così salutare per conservarli in vita. Lo crederei anch’io, se non fossi stato testimone del contrario. O almeno, non ci si pensava ancora prima della mia partenza dal Pará. È però vero che la metà degli indiani restava ancora in vita. 170 Capitolo ottavo L’esperienza americana farà di La Condamine un accanito sostenitore dell’inoculazione per il resto della sua vita; un sostenitore con una motivazione in più, dato che nell’infanzia di vaiolo si era ammalato. Raccoglierà documentazioni e testimonianze, scriverà saggi e articoli accademici, terrà una fitta corrispondenza con scienziati e studiosi. La scienza era ancora incapace di capire le ragioni del successo dell’inoculazione, ma era abbastanza avanzata per raccogliere l’evidenza empirica25. Molte pagine sono dedicate alla descrizione della flora e della fauna, con alcune osservazioni originali. Gli Omaguas inalano le esalazioni dei semi allucinogeni del floripondio e della curupà, ridotti in polvere, a mezzo di una cannula fatta a Y e aspirando violentemente «fanno una smorfia che appare assai ridicola agli occhi di un europeo che vuole tutto rapportare alle proprie usanze». Degne di essere meglio studiate per valutarne l’utilità sono la quinquina (chinino), l’ipecacuana, la simaruba, la salsapariglia, il guaiaco, la vaniglia, il cacao, il cui valore e le cui proprietà erano già note26. Sulla quinquina presenta all’Accademia delle scienze – a proprio nome – una memoria che incorpora i risultati delle ricerche del suo compagno di avventura Jussieu27. La sua attenzione è particolarmente attratta dal caucciù: La resina chiamata cahuchu [...] è assai comune ai bordi del Marañon [...] Quando è fresca, uno stampo gli dà la forma che si vuole; è impermeabile alla pioggia ma, ciò che è ancor più notevole, è la sua grande elasticità. Se ne fanno bottiglie che non sono fragili, stivali, palle vuote che si appiattiscono quando pressate e che, quando non vengono più premute, riprendono la forma originale. I portoghesi del Parà hanno imparato dagli Omaguas a farne pompe o siringhe che non hanno bisogno di un pistone; hanno la forma di pere vuote, con un buco all’estremità al quale si adatta una cannula. Le si riempie d’acqua, e strizzandole quando sono piene fanno la funzione di una siringa28. Passato in Guyana, interesserà alla gomma Fresneau, amministratore della colonia e naturalista, che qualche anno più tardi presenterà una memoria sul caucciù all’Accademia delle scienze. Le frecce avvelenate avevano destato l’interesse di La Condamine, e ne aveva conservate alcuni esemplari: arrivato nella Guyana se ne serve per sperimentare sia la loro letalità sui polli sia le proprietà dello zucchero come possibile antidoto; esprimenti che ripete a Leiden, dopo l’arrivo in Olanda29. Amazzonia 171 Come abbiamo detto, le osservazioni e le misurazioni geografiche impegnarono il tempo della navigazione. Dettagliatissima è la discesa delle rapide del Pongo di Manseriche, tra la confluenza del fiume Santiago e l’insediamento di Borja, dopo le quali il Marañon si distende per migliaia di chilometri nel suo placido corso di pianura. Nel punto più stretto il fiume è costretto in un cañon largo appena 25 tese (meno di 50 metri) e le 2 leghe (circa 11 chilometri) di lunghezza vengono superate dalla pesante zattera a pieno carico – peraltro ritardata nella sua corsa dai mulinelli – in 57 minuti30. Netto è poi il giudizio circa la comunicazione tra il bacino dell’Orinoco e quello dell’Amazzonia, la cui esistenza era ormai generalmente ammessa da molti (anche da Acuña, un secolo prima). Ma era stata negata da molti geografi che non l’avevano consegnata alle loro mappe. Il Casiquiare (che la relazione non nomina) per un singolare accidente geografico è la via d’acqua percorribile dalle imbarcazioni che mette in comunicazione l’Orinoco con il Río Negro, e pertanto con il bacino del Grande Fiume. La raccolta di testimonianze non lascia a La Condamine dubbi in proposito31. La descrizione moderna e accurata verrà fatta più di mezzo secolo dopo da Humboldt che percorse la regione. A duecento anni dalla prima navigazione, il mito delle Amazzoni che avevano dato il nome al Grande Fiume era ancora vivo e vegeto, e La Condamine ne era vivamente incuriosito. Nel corso della nostra navigazione avevamo ovunque interrogato gli indios di diverse nazioni, e c’eravamo informati con gran cura se essi sapessero qualcosa di quelle donne bellicose che Orellana pretendeva di avere incontrato e combattuto, e se fosse vero che esse vivessero lontane dal commercio con gli uomini, non ricevendoli tra di loro che una volta all’anno. Tutti ci dissero che così l’avevano sentita raccontare dai loro padri, aggiungendo mille particolari, troppo lunghi da raccontare, che concorrono a confermare che, in quella regione, c’è una repubblica di donne che vivono sole senza uomini tra di loro, e che queste si sono ritirate verso nord, nell’interno, risalendo il Río Negro o altri fiumi che confluiscono nel Marañon da quella stessa banda32. Poiché di Amazzonia trattiamo, vale la pena ripercorrere il mito in terra di America, fin dalle sue origini. Queste risalgono al viaggio di Orellana e alla penna di Carvajal, ma occorre ricordare che mezzo secolo prima lo stesso Colombo narrò della credenza 172 Capitolo ottavo degli indigeni di Santo Domingo (siamo nel gennaio del 1493, al ritorno del primo viaggio) circa le strane usanze dell’isola di Matininó «nella quale c’era molto oro e che era abitata da sole donne»33. Ma torniamo a Carvajal e alla sua cronaca: questi mescolò alle notazioni verificabili, e confermate dai successivi rionauti, miti e invenzioni credibili solo per orecchie ben disposte e poco sofisticate. Il prologo della storia è una battaglia con gli indios rivieraschi durante una sosta per approvvigionarsi di cibo, probabilmente depredando qualche villaggio. Questa battaglia durò più di un’ora perché gli indios non si perdevano d’animo, ora pareva che dovessero ritirarsi, e benché vedessero morti molti dei loro, poi li scavalcavano, e non facevano altro che arretrare e tornare a ritirarsi. Voglio che si sappia quale fosse la causa per la quale questi indios si difendevano in tal modo. Si deve sapere che questi sono sudditi e tributari delle amazzoni, e saputo della nostra venuta, andarono a chieder loro soccorso e ne vennero dieci o dodici, e queste sono quelle che vedemmo, e andavano combattendo davanti a tutti gli indios come capitane, e combattevano tanto coraggiosamente che questi non osavano fuggire, e quelli che osavano scappare di fronte a noi, li uccidevano a bastonate, e questa è la ragione per la quale gli indios si difesero tanto. Queste donne sono molto bianche e alte e tengono i capelli lunghi e intrecciati e girati intorno al capo; e sono molto robuste e vanno nude, solo nascoste le loro vergogne, e con archi e frecce in mano lottano come dieci indios; e in verità ci fu una di queste donne che conficcò un palmo di freccia in uno dei brigantini, e altre un poco meno, che i nostri brigantini parevano dei porcospini34. Davvero un evento straordinario; qualche giorno dopo, Orellana, che aveva qualche conoscenza linguistica, cercò di saperne di più da un indio che avevano fatto prigioniero e gli domandò di dove veniva, e l’indio rispose da quel villaggio dove era stato catturato; il capitano gli domandò chi fosse il signore di quella terra e l’indio gli rispose che si chiamava Coyunco, e che era un grandissimo signore, padrone fin dove noi stavamo, che, come già ho detto, distava 150 leghe. Il capitano gli domandò che donne erano quelle che erano venute ad aiutarli e a farci guerra: e l’indio disse che erano donne che stavano all’interno sette giornate dalla riva del fiume e siccome Coyunco era un loro suddito, erano venute a controllare la riva. Il capitano gli domandò se quelle indie erano sposate, e l’indio gli rispose di no. Il capitano gli domandò in che modo vivessero: l’indio rispose che, come aveva detto, stavano nell’interno, e che lui c’era stato molte volte e aveva visto il loro modo di vivere e le loro case, perché come vassallo andava a portar loro il Amazzonia 173 tributo quando lo mandava il suo signore. Il capitano domandò se quelle donne erano molte e l’indio rispose che sì, che conosceva di nome settanta villaggi, e li enunciò davanti a coloro che lì stavano, e che ne aveva visitati alcuni. Il capitano gli domandò se questi villaggi fossero di paglia: e l’indio gli rispose di no, che erano di pietra con le loro porte, e che da un villaggio all’altro andavano sentieri chiusi da una parte e dall’altra e che a tratti, in questi, c’erano posti di guardia perché non entrasse nessuno che non pagasse tributo. Il capitano gli domandò se queste donne partorivano: e l’indio gli disse di sì. E il capitano gli domandò come fosse che, non avendo mariti e non essendoci uomini tra di loro, si ingravidassero: l’indio disse che queste indie hanno rapporti con uomini, e quando gli viene quella voglia radunano gran copia di gente di guerra, e vanno a far guerra contro un gran signore confinante, e a forza li portano nelle proprie terre, e lì li tengono per il tempo che gli pare, e dopo che si sono ingravidate li rimandano alla terra senza fargli alcun male; e dopo, quando viene il momento di partorire, se è un figlio lo uccidono o lo mandano dal padre, se è una figlia la allevano con grande solennità e le insegnano l’arte della guerra. Disse ancora che tra tutte queste donne c’è una signora che le tiene tutte per suddite e sotto la sua giurisdizione, e che questa signora si chiama Coñori. Disse che c’è grande ricchezza di oro e d’argento, e che tutte le signore di rango non si servono se non di oggetti d’oro e d’argento, mentre la maggioranza plebea utilizza oggetti di legno, eccetto quelli che mettono al fuoco, che sono di coccio. Disse anche che nel capoluogo e principale città dove risiede la signora ci sono cinque case molto grandi, che sono adoratòri e case dedicate al sole, che esse chiamano caranaín e che dentro, fino a circa mezzo estado dal suolo ci sono tavole di legno decorate con pitture di vari colori, e che in queste case conservano molti idoli d’oro e d’argento che rappresentano donne, e molte pietre lavorate d’oro e d’argento per il servizio del sole, e vanno abbigliate con vestiti di lana molto fini, perché in questa terra ci sono molte pecore del Perú [lama]; si vestono con mantelli chiusi dal petto fino a terra, gettati sulle spalle alcune e altre allacciate davanti con molti cordoni; portano i capelli sciolti e sulla testa si pongono corone d’oro spesse due dita [...] Dice che hanno delle regole secondo le quali quando tramonta il sole non deve rimanere indio maschio in tutte queste città che non esca e se ne vada alle sue terre; inoltre dice che tengono per sudditi molte province di indios confinanti, e li sottopongono a tributi e al servizio; e ci sono altre province con le quali sono in guerra, specialmente con quella della quale abbiamo già detto, e razziano gli uomini per avere rapporti con loro e questi sono di grande statura e bianchi e numerosi35. Nella fantastica storia narrata da Carvajal il mito dell’oro coesiste con quello delle amazzoni e con il mito di popolazioni ricche e civili (forse gli incas) emigrate da occidente, oltre la cordigliera. Mentre il racconto della battaglia, capitanata dalle 174 Capitolo ottavo donne guerriere, è poco credibile ma relativamente sobrio (né è da escludersi che delle donne abbiano partecipato allo scontro), il «racconto» dell’indio catturato appare quasi un «inserto» a sé. Del resto, quell’indio parlava, probabilmente, un dialetto tupí, mentre Orellana doveva avere rudimenti della «lingua dell’Inca», cioè il quechua: il dialogo doveva essere assai difficile. Se Oviedo si burlava della storia (osservando che le Amazzoni di Orellana non avevano bisogno di bruciarsi il seno per tirare con l’arco, come quelle della mitologia), è possibile che altri in quello straordinario mondo ci credessero, o comunque prestassero fede alla parte del racconto che parlava dell’oro. Certo Orellana volle riprovarci; tornò in patria, ottenne il governatorato del Marañon, armò una spedizione con 400 uomini «in cerca di quelle amazzoni che giammai vide ma sbandierò in Spagna»36, ritornò alle bocche del Fiume e lì perì con buona parte dei suoi compagni. È una storia che abbiamo già raccontato (cap. II). È certo che le vicende di Orellana fecero rapidamente il giro del mondo ispanico, e non solo, entrando nelle narrazioni colte e in quelle popolari. Sulle Amazzoni riferì estesamente Walter Raleigh, di ritorno dalla sua esplorazione dell’Orinoco. Cent’anni dopo, il racconto di Carvajal è ripreso da Acuña, con contenuti simili, sulla base di discorsi uditi nell’ultimo villaggio dell’isola Tupinambarana, cui il gesuita dà un certo credito: «vi sono indizi così particolari, e tutti convergenti, che non è credibile che una menzogna simile si sia affermata in tante lingue e in tante nazioni, con tanto colore di verità»37. Torniamo a La Condamine e ai curiosi racconti che raccoglie con l’aiuto di Maldonado: da un indio di San Joaquín de Omaguas, da un altro incontrato a Coarì, da un residente di una missione del Pará, da un vecchio soldato della Guyana, oltre a altre storie «che passa sotto silenzio» e alle informative di «due governatori spagnoli della provincia del Venezuela»38. Ed è singolare che i racconti raccolti in regioni dell’Amazzonia molto distanti tra loro, affermino, gli uni, che queste donne si sono ritirate verso est, altri verso nord, altri ancora verso ovest: ma queste diverse direzioni puntano concordemente verso le «montagne al centro della Guyana, in una regione dove né i portoghesi del Pará, né i francesi della Cayenna, sono ancora penetrati». È vero che se questa società di donne ancora ci vivesse, sarebbe poco credibile che i popoli vicini e gli stessi europei non ne avessero testimonianze dirette. Amazzonia 175 Ma questa collettività itinerante potrebbe avere ancora cambiato insediamento e, ciò che pare assai più verosimile di tutto il resto, potrebbero aver perduto nel tempo le loro antiche usanze, oppure avrebbero potuto essere soggiogate da altre nazioni; oppure stanche della loro condizione potrebbero aver perduto l’avversione per gli uomini propria delle loro madri. Naturalmente la leggenda andrebbe sfrondata dagli aspetti di favola – per esempio che si tagliassero una mammella – magari «aggiunti dagli europei». Ed ecco la spiegazione sociologica: Mi contenterò di fare osservare che semmai vi sono state delle Amazzoni nel mondo, è in America, dove la vita errante delle donne che spesso seguono i loro mariti alla guerra, e dei quali non sono più felici nella vita domestica, può aver fatto nascere in loro l’idea, e fornir loro la frequente occasione, di sfuggire al giogo dei loro tiranni, cercando di costituire una convivenza dove potessero vivere con indipendenza, e almeno non essere ridotte alla condizione di schiave e di bestie da soma. Del resto, una simile decisione presa ed eseguita non avrebbe niente di più straordinario né di più difficile di quello che avviene di continuo nelle colonie europee di America, dove è affare corrente che schiavi maltrattati e scontenti fuggano a schiere nella selva, qualche volta da soli se non trovano altri con cui associarsi, e che vi trascorrano in solitudine molti anni e talvolta tutta la vita. Infine, ricordato che miti simili si sono ritrovati in popoli distanti, La Condamine si domanda retoricamente: Si potrà credere che dei selvaggi di contrade distanti tra loro si siano accordati, senza fondamento alcuno, sugli stessi fatti; e che questa pretesa favola sia stata adottata così uniformemente e così universalmente in Mainas, nel Pará, nella Guyana e in Venezuela, e tra tante nazioni che non si capiscono tra di loro e che tra loro non comunicano? Pur nell’ingenuità di credere che i miti non viaggino e non si diffondano tra popoli lontani fra loro, e che le storie raccontate da testimoni non fossero, almeno in parte, adattate per compiacere i viaggiatori etnografi, La Condamine si sforza di dare un’interpretazione dell’origine reale del mito. E il viaggiatore-scienziato per eccellenza – Alexander von Humboldt – all’inizio dell’Ottocento, sembra convenire con il suo predecessore (e ispiratore) francese. 176 Capitolo ottavo Con frequenza a Parigi mi hanno domandato, al mio ritorno dai viaggi in Orinoco e nel Río delle Amazzoni, se io condividevo l’opinione di questo saggio [La Condamine] o se io invece la pensavo come molti contemporanei, che egli avesse assunto la difesa delle Cougnantainsecoiuma [«donne senza mariti»] [...] solo per attrarre, in una seduta pubblica dell’Accademia, la benevolenza di un uditorio assai avido di novità. Questa è l’occasione per esprimermi francamente al riguardo39. Humboldt osserva che negli scrittori del XVI secolo c’era chiara e netta la propensione e ricercare nelle terre americane da poco scoperte «tutto ciò che i greci ci hanno insegnato relativamente alle prime età del mondo e alle usanze dei barbari sciiti e africani», cosicché «le orde americane, nella loro primitiva semplicità, offrono all’Europa “una sorta di antichità della quale siamo contemporanei”»40. Ma se il racconto di Carvajal, ripreso da Raleigh, da Acuña e altri, conteneva esagerazioni, nondimeno le numerose testimonianze raccolte da La Condamine, e da altri scienziati dopo di lui, come l’astronomo portoghese Ribeiro, o raccolte direttamente dal gesuita padre Gili – che Humboldt incontrò nell’Orinoco – sono qualcosa di più che favole fantasiose. Non occorre pensare che ci siano Amazzoni come quelle descritte dalla leggenda, ma che esistono donne che stanche dello stato di schiavitù nel quale erano tenute dagli uomini, si sono riunite – come facevano gli schiavi neri fuggitivi – in un palenque (accampamento, villaggio); che il desiderio di conservare l’indipendenza le ha rese guerriere; che hanno ricevuto visite di qualche orda vicina, magari meno metodicamente di quanto dica la tradizione. Basta che questa società di donne abbia acquisito forza in qualche parte della Guyana, perché gli eventi più semplici che si sono ripetuti in luoghi diversi siano stati descritti in maniera uniforme ed esagerata [...] In altre circostanze, i conquistatori poterono scambiare per repubbliche delle amazzoni gruppi di donne che – in assenza dei loro mariti – difendevano le loro abitazioni41. È dunque da episodi reali – magari avvenuti nel passato e poi non più ripetuti – che nascono, si consolidano e si diffondono miti e leggende. È stato fatto cenno, all’inizio, ai due viaggi amazzonici, successivi a quello di La Condamine, dei due coniugi Jean e Isabel Godin des Odonais. Non sono celebri per le osservazioni scientifiche, ma per l’epopea di Madame Godin, una sorta di Amazzonia 177 indomita Amazzone, e per le incredibili vicende della coppia. Jean Godin des Odonais, cugino del capo missione, aveva sposato a Riobamba la figlia tredicenne di un ricco signore. Nel 1749 decise di rientrare in Francia per questioni di successione, con l’intesa che avrebbe predisposto le cose per facilitare il successivo viaggio della moglie. Il viaggio fu regolare, giunse a Belém e poi a Cayenna. Ma qui gli affari si ingarbugliarono terribilmente; la guerra interruppe per molti anni le comunicazioni e altre complicazioni e ostacoli, politici e materiali, si posero di mezzo; Godin rimase bloccato nella Guyana, nella quale diventò un residente di rilievo. La moglie restò a Riobamba con la famiglia. Solo il 1º ottobre 1769 (venti anni dopo la partenza del marito), venduta parte delle proprietà, riuscì a partire con due fratelli e un nipote di dieci anni, tre mulatte, un nero schiavo, due viaggiatori francesi con un servo, trentuno indios per il trasporto di bagagli e sussistenze. Avrebbero dovuto raggiungere il villaggio di Canelos e lì imbarcarsi sul Bobonaza, un affluente della riva sud del Grande Fiume, per iniziarne la discesa. Ma quando raggiunsero Canelos, trovarono il villaggio quasi deserto perché gli indios lo avevano abbandonato dopo il manifestarsi del vaiolo; la comitiva fu abbandonata anche dagli indios del seguito, terrorizzati dal contagio. Con l’aiuto di due indios del villaggio, che ben presto si volatilizzarono, decisero di proseguire in canoa fino alla missione di Andoas, 150 leghe a valle, raggiungibile in una diecina di giorni. Dopo un naufragio, la partenza del francese e del suo servo in cerca di aiuto, una lunga attesa di varie settimane sulla riva del fiume, l’impresa di costruire una zattera rudimentale presto fallito, i superstiti intrapresero una marcia via terra, ma si persero nella selva nel tentativo di accorciare il cammino tagliando le larghe anse del fiume. I due fratelli, il nipote, lo schiavo, le serve morirono uno dopo l’altro – di inedia, infezioni e febbri – e Isabel Godin, calzate le scarpe di un fratello vagò nella selva per otto-nove giorni, finché allo stremo riuscì a raggiungere di nuovo la riva del fiume, e venne soccorsa da due indios fuggiti da Canelos che la condussero in canoa alla missione di Andoas. L’intrepida Isabel volle ricompensare i due indios regalando loro i monili d’oro che ancora indossava, ma glielo impedì il sacerdote (un secolare, i gesuiti erano stati espulsi) il quale sostituì ai monili della tela di poco valore. La sdegnata Isabel abbandonò la missione e si fece condurre a La Laguna, dove finalmente venne affettuosamente soccorsa e curata e poi condotta in territorio 178 Capitolo ottavo portoghese e finalmente in Guyana, dove giunse a Oyapock, accolta dal marito il 22 luglio 1770, dopo dieci mesi di traversie. Tre anni dopo, il 26 giugno 1773 sbarcarono a La Rochelle: il romanzo dei due coniugi fu descritto da Jean in una lunga lettera a La Condamine, vecchio e infermo, che aveva saputo del loro arrivo41. Morirono nel 1792, a pochi mesi l’uno dall’altra. Nessun romanzo, nessuna opera, è stata scritta sull’epopea di Madame Godin. Eppure tutti gli ingredienti ci sono: il buon selvaggio e il selvaggio barbaro, la civiltà corrotta e quella illuminata, la tragedia familiare e l’amore coniugale, la natura primordiale e il grande fiume, il viaggio e il mistero dell’inesplorato; la solitudine e la salvezza. Una manna per l’incipiente epoca romantica. Eppure si trattò di una tragedia fortuita: il Grande Fiume era sistematicamente solcato da imbarcazioni spagnole e portoghesi, gli indios rivieraschi più o meno pacificati, il percorso ben noto e disseminato di stazioni di tappa. Il mistero del Grande Fiume era definitivamente sepolto. La Condamine aprì la strada a una serie di viaggiatori animati da spirito scientifico che tra la metà del Settecento e la metà dell’Ottocento esplorarono, misurarono, descrissero, catalogarono, la morfologia, le acque, la flora, la fauna, i popoli, le lingue, dell’immenso territorio amazzonico, che rapidamente perse il mistero dell’inconoscibile. Il naturalista portoghese Rodrigues Ferreira (viaggio del 1783-1792) ne catalogò la flora e studiò le potenzialità per l’agricoltura; il prussiano von Humboldt (17991803) studiò quasi ogni aspetto dello scibile; il bavarese von Martius (1817-1820) la botanica e le lingue. Questi scienziati – per citare i più famosi – aprirono l’Amazzonia a un mondo desideroso di più conoscenza, ma anche avido di sfruttare economicamente un continente ricco di risorse cavalcando la spinta della rivoluzione industriale. Il capitano Herndon, incaricato nel 1851 dalla Marina americana di una missione ricognitiva dell’Amazzonia – dal Perú al Pará – così fantasticava l’incontro tra il nord e il sud del continente americano: Posso immaginarmi il risveglio delle popolazioni quando si iniziasse la navigazione amazzonica di bastimenti a vapore. Fantastico di udire il frastuono della foresta abbattuta per far posto alle coltivazioni di cotone, cacao, riso, zucchero, e l’acuto stridore delle segherie che riducono in tavole i preziosi e magnifici alberi della regione; posso vedere i raccoglitori di caucciù e Amazzonia 179 di copaiba raddoppiare i loro sforzi per risucire ad acquistare i nuovi ed economici oggetti che si troveranno alla porta delle loro baracche nella foresta; e perfino gli indios selvaggi trovare il cammino nella selva priva di sentieri verso i fondaci dei piroscafi per scambiare le loro raccolte di vaniglia, spezie, coloranti, droghe e resine per quegli oggetti che colpiscono la loro fantasia – nastri, perline, specchi ed allegre cianfrusaglie42. Un inno al capitalismo, davvero poco ecologico, ma che rispecchiava l’animo del tempo. IX. Francesi, inglesi e olandesi ospiti indesiderati del Grande Fiume. Uno strano Presepio. Un predicatore politico. Le ingiuste guerre giuste, i riscatti e i pogrom. A caccia di schiavi. Fine dell’Amazzonia dei primi rionauti D all’inizio del Settecento, la confluenza del Río Javarí con il Grande Fiume segnò il confine tra l’Amazzonia spagnola e quella portoghese. Discendendo il Fiume nel 1743, La Condamine sostò a San Ignacio de Pebas, l’ultima missione dei gesuiti di Mainas, e dopo tre giorni e tre notti di navigazione giunse al villaggio di São Paulo, prima missione dei padri camelitani in territorio portoghese. Il Trattato di Madrid del 1750 rese definitiva questa separazione di fatto, che sanciva la progressiva penetrazione portoghese verso ovest, oltre quella «linea» meridiana di Tordesillas che più di due secoli prima aveva riservato alla Spagna la parte del globo, e del Brasile, che comprendeva l’intera Amazzonia (della quale, a quell’epoca, non si conosceva l’esistenza!). Si ufficializzava dunque una situazione plasmata più dalla geografia che dalla politica perché, come più volte si è detto, la barriera delle Ande era per gli spagnoli assai più dura da valicare di quanto non fosse per i portoghesi risalire controcorrente il Fiume per migliaia di chilometri. Ora è tempo di rimediare – almeno parzialmente – allo squilibrio narrativo dei capitoli precedenti, che hanno approfondito le vicende della parte spagnola (capp. IV, VI e VII) lasciando in ombra quella portoghese1. Ci sono almeno due ragioni per questo squilibrio. La prima riguarda le fonti di conoscenza della società amazzonica: per la parte spagnola il materiale, se non più ricco, è certamente più compatto e omogeneo e di derivazione prevalentemente gesuitica. Esso si riferisce, inoltre, a un territorio che, seppur immenso, è di ampiezza assai minore di quello portoghese. Dalla «città» di Borja alla confluenza con il Javarí, il Grande Fiume si estende per 1.400 chilometri, mentre dal Javarí fino all’oceano il percorso ne misura più del doppio. Inoltre, nella 184 Capitolo nono parte portoghese, più ordini religiosi (oltre ai gesuiti, i carmelitani, i francescani, e i mercedari) si divisero l’opera di evangelizzazione, con notevole disparità nel materiale documentario prodotto2. La seconda ragione è di ordine concettuale. In alta Amazzonia l’intrusione europea fu modesta numericamente e lo sconvolgimento arrecato alla società indigena può essere direttamente imputato a ben specificabili modalità del contatto. Nella regione dei Mainas, sotto la regola dei padri gesuiti, l’insediamento dei coloni spagnoli fu limitatissimo, e il sistema di encomienda non si estendeva oltre il distretto di Borja. Al contrario, nella Media e bassa Amazzonia l’intrusione portoghese fu assai più pesante perché mirava esplicitamente allo sfruttamento della manodopera – se libera, serva o schiava non fece grande differenza – e all’assoggettamento della popolazione indigena con metodi quasi sempre brutali. Gli ordini religiosi, sia pure in modo diverso, non ebbero un ruolo di «protezione» degli indios ma, semmai, di intermediari tra gli interessi dei coloni e quelli della Corona. Sotto il profilo meramente numerico, le spedizioni dei portoghesi erano assai più numerose, organizzate e potenti. Basti pensare a quella organizzata da Teixeira nel 1637 – poco più di vent’anni dopo la fondazione di Belém –, che mobilitò decine di grandi canoe e oltre 2.000 indios al seguito (cap. V). In altri termini, lo sconvolgimento dell’Amazzonia portoghese fu profondo e brutale, e prodotto da una pluralità di fattori concorrenti: spedizioni di cattura, trasmigrazioni forzate, guerre alle tribù «barbare», schiavitù, sfruttamento commerciale. Non sorprendono perciò le conseguenze devastanti sull’ordine delle società indigene di questa pluralità di fattori distruttivi. Sorprende invece che esse si siano prodotte, anche se su scala minore, nell’Amazzonia spagnola, dove l’azione dei padri fu rivolta (almeno in linea di principio) a preservare la società indigena, e dove non vi furono né schiavitù né crudeli e indiscriminate razzie. L’insediamento portoghese in Amazzonia fu relativamente tardivo perché l’interesse dei colonizzatori si rivolse più a sud, verso le coste popolate da indigeni non ostili, ricche di alberi del Brasile, con buone prospettive commerciali e produttive. I circa 30 mila portoghesi che alla fine del Cinquecento erano insediati lungo la costa, erano concentrati, per otto decimi, nelle regioni centrali del Pernambuco e della Bahia. Ma all’inizio del Seicento alcuni modesti avamposti francesi, inglesi e olandesi nell’estuario Amazzonia 185 del fiume cominciarono a impensierire le autorità di Lisbona; nel 1615 una spedizione militare sloggiò dal Maranhão il villaggio francese di San Luis fondato qualche anno prima. Nel 1616 Francisco Caldeira do Castelo Branco, con 150 soldati, costruì un forte di legno battezzato Presépio, sul ramo meridionale del Grande Fiume3; intorno al forte si sviluppò l’insediamento di Belém (Betlemme). Nel 1621 venne ufficialmente fondata la colonia del Maranhão e del Gran Pará, che qualche anno dopo ricevette il suo primo governatore. Questi rispondeva direttamente a Lisbona ed era indipendente dal Brasile: per le correnti e i venti prevalenti, il Pará era in più agevole comunicazione con il Portogallo che non con Salvador de Bahia, capoluogo del Brasile. Tuttavia la situazione non era tranquilla: olandesi e francesi erano insediati nel Surinam e nella Guyana a nord del Fiume; a sud di questo, nel 1630, gli olandesi si erano impadroniti del Pernambuco. C’era il pericolo che il Portogallo perdesse il controllo della grande via di comunicazione fluviale verso l’interno, verso le Ande e le ricchezze del Perú. Due avamposti fortificati, Orange e Nassau, erano stati costruiti dagli olandesi nel basso corso del Río Xingu, affluente di destra del Grande Fiume; altri avamposti inglesi e olandesi erano stati impiantati sulla costa nord dell’estuario. Questi pericolosi concorrenti avevano intessuto relazioni e alleanze con gli indigeni, con i quali intrattenevano lucrosi scambi: prodotti pregiati della selva contro utensili di ferro e acciaio, forse armi. Ancora nel 1656 gli indios dell’isola Marajó (la ben abitata isola, grande come la Svizzera, posta all’imbocco dell’estuario) approvvigionavano di manatí le navi olandesi di passaggio4, un quarto di secolo dopo la definitiva espulsione di questi. Era dunque essenziale il controllo dell’estuario e questo divenne completo nel decennio successivo alla fondazione della colonia, contemporaneamente alla sottomissione delle varie comunità indigene, e all’inizio degli anni Trenta l’intero estuario era sotto sicuro controllo portoghese. Capitani sperimentati come Pedro Teixeira e Bento Maciel Parente, provetti nelle scorrerie e assistiti da indios alleati, con poche decine di soldati, furono decisivi nell’assicurare la bassa Amazzonia al Portogallo5. La penetrazione verso l’interno amazzonico procedette poi con notevole continuità. I pochi ma attivi coloni del Pará e del Maranhão avevano estremo bisogno di manodopera per il servizio personale, per il trasporto, per le prime piantagioni di canna da zucchero e tabacco, per la costruzione delle infrastrutture e per 186 Capitolo nono il supporto delle spedizioni. L’importazione di schiavi dall’Africa era assai più difficile e costosa della cattura degli indigeni. Nel frattempo, le popolazioni locali andavano assottigliandosi, non solo per effetto delle nuove malattie euroasiatiche, ma anche per le fughe e il progressivo recedere degli indios nel sertão (l’interno spopolato), risalendo il Fiume e i suoi tributari. Di conseguenza si rafforzarono e si estesero le spedizioni verso l’interno, e con esse i tentativi di pacificazione, con le buone o con le cattive, dei vari gruppi etnici; la fondazione di nuovi villaggi di indios (aldeias); l’insediamento di avamposti portoghesi. La grande spedizione di Teixeira (cap. V) del 1737-1739 che raggiunse Quito, con sconcerto degli spagnoli, fu anche una gigantesca ricognizione dell’interno amazzonico e delle sue potenzialità. Ricordiamo che nel viaggio di ritorno la spedizione fece sosta alla confluenza con il Río Negro, e che Acuña dovette dissuadere i luogotenenti di Teixeira dal proposito di organizzare una spedizione di cattura di indios su per il Río Negro, come ricompensa delle loro fatiche. Dal 1657 iniziano le spedizioni di cattura di schiavi nel basso e medio Río Negro e nel Río Branco; nel 1660 c’è una prima entrada nel corso medio del Grande Fiume (nel tratto tra il Río Negro e l’Ucayali che i portoghesi chiamavano Solimões). Tra il 1680 e il 1710 i portoghesi risalgono il Solimões con numerose spedizioni, fino ai villaggi degli Omaguas che richiesero la protezione dei gesuiti e propiziarono l’opera di evangelizzazione di padre Fritz che si spinse fin quasi al Río Negro. Ma si trattò di un’effimera proiezione dei gesuiti di Mainas, perché nemmeno la profetica personalità di padre Fritz fu in grado di proteggere gli Omaguas dalle frequenti, agili e ben organizzate spedizioni portoghesi. Dal 1710 il Solimões – dal Río Negro al Javarí – cadde definitivamente in mani portoghesi. Negli anni Venti del Settecento i gruppi Manaos del Río Negro rimasti indipendenti – seppure in relazioni di scambio con i portoghesi – vennero dispersi in una crudelissima guerra. Gli indigeni dei bassi corsi dello Xingu, del Tapajós e del Madera, erano già entrati da tempo nell’orbita portoghese. Nella fase iniziale dell’insediamento portoghese nell’estuario gli europei erano un numero esiguo, composto da pochi coloni e da soldati, guide e avventurieri senza famiglia. La graduale espansione verso l’interno, nel prosieguo del secolo e in quello successivo, avvenne a opera di una popolazione bianca che Amazzonia 187 rimase poco numerosa. Secondo Sweet, tra il 1650 e il 1750 i capifamiglia residenti nel Pará (Belém e qualche altro modesto insediamento dell’estuario) passarono da 200 a 1.500, più altrettanti uomini singoli (soldati, religiosi, meticci)6. È a questi pochi che si dovette l’espansione portoghese in Amazzonia, con i disastri che ne conseguirono. Per quanto lontani dal Portogallo, questi uomini operavano in un quadro politico, normativo e religioso dal quale spesso prescindevano ma che, nel complesso, condizionò le loro azioni, e del quale occorre dare breve conto. Anche sotto questo profilo, l’Amazzonia portoghese si differenziò profondamente da quella spagnola, le cui vicende furono seguite dalle distanti gerarchie civili e religiose con relativa indifferenza e dove il contatto iberico-americano fu limitato alle relazioni tra missionari e indigeni. Il governatore era a capo dell’amministrazione coloniale del Maranhão e del Pará: fino al 1690 risiedeva a San Luis e, successivamente, a Belém, in risposta alla crescente rilevanza del Pará. Preminenti nel governo erano anche un ouvidor (magistrato) e un provedor da fazenda (un tesoriere); un capitão mor (capitano maggiore) aveva responsabilità militari. I coloni erano rappresentati dal Senado da Cámara (consiglio municipale) esistente sia a San Luis che a Belém, e i loro interessi confliggevano spesso e volentieri con quelli della Corona, incline a estrarre dalla colonia i maggiori proventi possibili. L’autorità religiosa era anche rilevante, tanto che San Luis ebbe il proprio vescovo a partire dal 1687 e Belém dal 1720. Ma ancor più importanti furono gli ordini religiosi, i francescani nei primissimi anni e poi i carmelitani, i mercedari e sopra a tutti, i gesuiti. Questi erano sostenuti dalla Corona che li riteneva particolarmente capaci di evangelizzare e educare gli indios e abili nel contemperare l’azione di protezione degli indios dai peggiori abusi dei coloni con gli interessi della Corona. Esisteva poi una Junta das Missões, operativa dal 1683, che comprendeva le autorità civili e religiose e deliberava sulle questioni concernenti l’azione missionaria, sulla quale la Corona contava per l’accrescimento e la conservazione della popolazione indigena della colonia7. Man mano che la penetrazione portoghese si estendeva a nuovi territori, le popolazioni indigene venivano fissate in aldeias la cui amministrazione era confidata a un religioso di uno dei quattro ordini missionari. Nel 1693 ai gesuiti furono affidate le popolazioni della riva destra del Grande Fiume e dei suoi affluenti fino al Madera; ai francescani, assai poco attivi, la riva sinistra nel basso 188 Capitolo nono corso del Fiume; ai mercedari il residuo della riva sinistra fino al Río Negro; ai carmelitani le popolazioni del Río Negro e quelle rivierasche del Solimões. L’azione dei gesuiti – come si è detto i più attivi, capaci, influenti, con sostegno alla corte e in Europa – fu frenata solo dalla scarsezza di uomini. Questo sistema durò fino all’ascesa del marchese di Pombal e all’affermarsi dei suoi programmi riformatori. Francisco Xavier de Mendonça Furtado, fratello di Pombal, venne inviato a Belém nel 1753 come governatore della colonia, un amministratore tanto dedito quanto bigotto; nel 1757 i gesuiti vennero espulsi e iniziò la fase cosiddetta «del Direttorio» che introdusse un nuovo ordinamento. Questo rafforzò il governo civile della colonia e sostituì, nelle aldeias, gli amministratori religiosi con «direttori» civili. Il nuovo assetto, pur con intenzioni riformatrici lodevoli, spostò ancora la bilancia del potere e degli interessi a favore dei coloni e a danno degli indigeni. Al Direttorio fu posto termine nel 1798 e fino all’indipendenza del 1822 prevalse un assetto ondivago e confuso. La legislazione, tra la caduta di Pombal (1777) fino all’indipendenza del Brasile (1822) fu di conio progressivamente antindigeno, reintroducendo licenze formali e incentivi ufficiali per la riduzione in schiavitù degli indios e l’organizzazione di azioni armate contro di essi, allo scopo di permettere l’allargamento del regime coloniale nei territori da loro occupati8. Ma la colonia aveva ormai annullato i caratteri originari delle popolazioni del Grande Fiume. L’Amazzonia intravista da Pinzón, e percorsa da Carvajal e da Acuña, non esisteva più. Questa succinta narrazione dell’ordinamento coloniale va completata su due fronti interdipendenti, assai rilevanti per comprendere meglio in quale contesto agissero le forze distruttrici del contatto. In primo luogo è rilevante il quadro legale delle relazioni tra europei e indios, che condizionò il processo di sottomissione delle popolazioni indigene e determinò lo status giuridico e quello sostanziale degli indios sottomessi – servi, schiavi o liberi – e di quelli ancora fuori della zona d’influenza dei portoghesi. Il secondo aspetto rilevante riguarda i processi di insediamento degli indios e lo sfruttamento del loro lavoro. Lo status legale degli indios fu essenzialmente analogo a quello che prevalse nell’America spagnola. Fino dalla metà del Amazzonia 189 Cinquecento gli indios erano considerati liberi, e non potevano essere posti in schiavitù perché persone «politiche», capaci di darsi o seguire regole di convivenza e di governo. Facevano eccezione gli indios «barbari», quelli cioè che praticavano delitti nefandi, come l’incesto o il cannibalismo, oppure gli indios ostili e guerrieri contro i quali era ammessa una «guerra giusta» che si concludeva con la schiavitù per i vinti. Questo schema legale era, tra l’altro, adatto a gran parte dell’impero spagnolo nel quale gli indigeni «barbari» o irriducibili restarono in aree marginali, e la gran maggioranza viveva nelle regioni mesoamericane e andine, in civiltà sedentarie e sicuramente «politiche» assai prima dell’arrivo degli spagnoli. È chiaro però che il confine tra indio «barbaro» e indio «politico», tra guerra di difesa e guerra di aggressione, era labile e mobile a seconda delle convenienze e delle interpretazioni che i più forti ne davano. Nelle popolazioni amazzoniche, fluide, mobili, disperse, spesso inconoscibili o sconosciute, e per le quali la distinzione tra aggressione e difesa era sottile, l’applicazione di criteri e categorie giuridiche astratti si prestava a ogni manipolazione. Questa labilità definitoria fu complicata, nell’Amazzonia portoghese, da un quadro giuridico incerto che subì molti cambiamenti nel corso del tempo. La legislazione emanata dalla Corona fu ondivaga e contraddittoria: le leggi del 1609, del 1680 e del 1755 (quest’ultima ispirata da Pombal) dichiararono la libertà assoluta degli indios, ma furono quasi immediatamente seguite da altre disposizioni che legalizzavano la schiavitù o che limitavano la libertà con particolari casistiche, cosicché restarono, nei fatti, lettera morta9. Ciò avveniva anche in seguito alle resistenze e alle ribellioni dei coloni per i quali la manodopera indigena – soprattutto se a libertà limitata o in schiavitù – costituiva una vitale e irrinunciabile risorsa. Limitandoci all’essenziale, e senza tener conto delle numerose varianti avvenute nel tempo, il regime di fatto prevalente era il seguente. Agli indios aldeados, cioè insediati in abitati sotto controllo portoghese, e agli indios alleati era garantita la libertà. Agli aldeados era riconosciuta la proprietà delle loro terre, ma potevano essere obbligati a lavorare per i residenti portoghesi in cambio di un salario e di un equo e buon trattamento. Questo in teoria: nella realtà ciò dipendeva dall’amministrazione dell’aldeia, che prima fu religiosa e poi civile, e dalla discrezionalità e dall’arbitrio degli amministratori e dei coloni, con gli abusi che è facile immaginare. Liberi erano anche gli indios alleati, ai quali 190 Capitolo nono veniva richiesto di accompagnare e sostenere i portoghesi nelle loro spedizioni di guerra contro gli indios ostili e nemici, nelle profondità del sertão, cioè in terre inesplorate o non sottomesse. Gli indios ostili o nemici potevano, invece, essere fatti schiavi e verso di loro si poteva condurre la «guerra giusta». Le cause della guerra giusta erano varie: oltre agli atti di ostilità e di guerra, erano considerati tali anche gli ostacoli posti alla predicazione e, naturalmente, il cannibalismo. Per frenare l’abuso, o la giustificazione a posteriori di queste spedizioni di guerra, si stabilirono procedure, testimonianze ufficiali e finanche la necessità che ci fosse una vera e propria dichiarazione convalidata dal re10. Non solo potevano essere fatti schiavi i nemici in una guerra giusta, ma anche coloro che erano tenuti in stato di schiavitù da tribù barbare e che potevano essere comprati o resgatados, riscattati. Gli indios così riscattati potevano essere tenuti in schiavitù e normalmente tornavano in libertà – almeno formalmente – dopo dieci anni. Spesso le operazioni di resgate e quelle di guerra si confondevano e sovrapponevano. C’era anche un’attività di intermediazione fatta da etnie alleate che si procuravano schiavi con incursioni contro altri gruppi nemici dell’interno e li scambiavano poi con i portoghesi. Va infine spiegato come avveniva il cosiddetto aldeamento, cioè il trasferimento di gruppi indigeni dai loro territori verso il luogo – generalmente nei pressi di un fiume – dove veniva costituita un’aldeia, o missione. Tale processo era chiamato descimento, cioè «discesa», perché frequentemente si trattava di una trasmigrazione a valle, non coercitiva, operata (obbligatoriamente, dal 1687) sotto la guida e la responsabilità di un religioso. Il religioso guidava le spedizioni e conduceva l’opera di convincimento degli indios e dei loro capi, prestando garanzia circa l’assegnazione della terra nell’aldeia e il buon trattamento che sarebbe stato ricevuto. Era il primo passo verso l’evangelizzazione e l’acculturazione (o deculturazione, a seconda del punto di vista) degli indigeni. Anche nel caso dei descimentos, il confine tra una migrazione più o meno volontaria e un trasferimento coatto, fu sicuramente assai labile. Guerre giuste, riscatti, descimentos, aldeamento, erano processi previsti dall’ordinamento della colonia e concorsero a rivoluzionare l’assetto sociale delle popolazioni amazzoniche, mutando anche lo status giuridico delle genti coinvolte: dallo stato di natura alla schiavitù, o alla schiavitù a tempo nel caso Amazzonia 191 del resgate, o a una sorta di libertà condizionata o di semiservitù, nel caso di aldeamento. Ogni irrigidimento della normativa suggerita o adottata mediante decreti reali, provocava la netta reazione dei coloni e perfino sommosse. È istruttivo narrare il caso che coinvolse il gesuita Antonio Vieira, chiamato il Las Casas portoghese, difensore e paladino degli indios, organizzatore dell’evangelizzazione, predicatore ascoltatissimo e scrittore instancabile, influente nella colonia e presso la corte, ambasciatore in Francia e Olanda, dalla lunghissima vita11. Nel 1653 Vieira assunse la carica di superiore dei gesuiti nel Maranhão, e in quell’anno la corte, sotto l’influenza di Vieira, aveva ancora una volta decretato la libertà degli indios «qualsiasi fosse la loro condizione»12. La legge incontrò la violentissima opposizione dei coloni che ne chiesero la revoca. Vieira si schierò, naturalmente, in sostegno di questa, e nella terza domenica di quaresima tenne ai coloni un «sermone sopra la schiavitù nel Marañon» che rimase celeberrimo. In questo sermone, tuttavia, propose anche una sorta di mediazione, e vale la pena ascoltare le sue parole ai fedeli. Tutti gli indios di questo stato o sono nella condizione di servire come schiavi, o vivono liberi nelle aldeias, o vivono nel sertão nello stato di natura e con libertà ancora maggiore, e questi si vanno a comprare e riscattare (come si usa dire) lungo questi fiumi, con il pietoso nome di riscatto, che spesso avviene con la pistola puntata al petto. Quanto a quelli che vi servono, tutti in queste terre sono stati ereditati, avuti o posseduti in mala fede. Tuttavia, continuava Vieira, se una volta liberati, quelli che sono cresciuti e che hanno servito nelle vostre case vogliono restare con voi, nessuno, se manifesteranno questa volontà, potrà toglierveli. E che sarà di quelli che non volessero continuare in questo stato di soggezione? Questi saranno obbligati ad andare a vivere in un’aldeia, dove dovranno servire come poi diremo [...] Ogni anno si potranno fare delle spedizioni nel sertão, mediante le quali davvero si riscattino quelli che si trovano (come si usa dire) em corda, legati, per essere mangiati, ai quali si commuterà questa crudeltà in schiavitù perpetua. E così saranno schiavi anche quelli che, senza violenza, siano stati venduti come schiavi dai propri nemici, se presi in una guerra giusta, della quale cosa saranno giudici il governatore 192 Capitolo nono generale dello stato, l’uditore generale, il vicario del Marañon e del Pará, e i prelati delle quattro religioni, carmelitani, francescani, mercedari e compagnia di Gesù13. Vieira proseguì, facendo il bilancio dei costi e dei benefici. Tra i benefici poneva il lavacro del peccato mortale dei coloni e della maledizione che pesava sulle loro case, il fare cosa gradita al re, e soprattutto l’utile che sarebbe derivato dal rafforzamento delle spedizioni per giusti riscatti, che avrebbero compensato le perdite di indios previste dalla legge. Il male è uno solo: ci saranno alcuni cittadini che perderanno alcuni indios, e vi prometto che saranno molto pochi. Ma a coloro che subiranno queste perdite, domando: non morirono già alcuni indios? Sì, e molti. Ebbene, quello che fa la morte, perché non può farlo la ragione? Quello che fa il caso, perché non potrebbe farlo lo scrupolo di coscienza? Se venisse il vaiolo, e ve li togliesse tutti, che potreste mai fare? Dovreste avere pazienza. E allora, non è forse meglio perderli per servire Dio piuttosto che per il castigo di Dio?14 Il fervore e la dialettica di Vieira – e la sua proposta di mediazione – non ebbero successo con i coloni. Dopo una dura controversia, che incluse un viaggio di Vieira a Lisbona presso la corte, la legge venne modificata in senso favorevole ai coloni, quindi ripristinata. Nel 1661 Vieira tornò a Belém, ma i coloni inscenarono un’altra sommossa e il religioso e altri trentadue gesuiti che operavano in trentotto aldeias vennero arrestati, espulsi e imbarcati per il Portogallo15. L’episodio narrato esemplifica bene lo stato di controversia strisciante tra la Corona, i coloni e i religiosi – i gesuiti in particolare – essendo gli altri ordini o più distaccati o più inclini a sostenere le richieste dei coloni. Tuttavia anche per Vieira, riscatti e guerre giuste erano pur sempre una via lecita per rimpiazzare quel lavoro indigeno che le fughe e l’alta mortalità – e forse una natalità compromessa dalle dislocazioni – rendevano sempre più scarso. I residenti bianchi vivevano a una certa distanza dalle aldeiasmissioni degli indios, salvo il religioso cui era affidato il magistero spirituale e il governo materiale della stessa. Gli indios possedevano la terra, ma erano obbligati a lavorare, dietro mercede, per i coloni, oltreché per il servizio pubblico. Più precisamente Amazzonia 193 c’erano tre categorie di aldeias: quelle che servivano alle necessità dell’ordine religioso (de colegio), quelle per il servizio pubblico (servicio real) che provvedevano ad alcuni trasporti, alle saline, alle infrastrutture, e le altre – la maggior parte – nelle quali il lavoro degli indios era riservato ai coloni. Secondo Porro gli uomini tra i tredici e i sessant’anni erano inventariati una volta all’anno per essere ripartiti: un terzo rimaneva nella missione; da un altro terzo il missionario poteva riservarsi venticinque uomini per il suo servizio e i restanti erano ripartiti tra i residenti, agricoltori e fazendeiros che li requisivano per i lavori agricoli e il trasporto; l’altra terza parte era riservata alle autorità per il servizio pubblico o ai capi delle tropas que andavano nel sertão16. Tendenzialmente c’era una forbice tra domanda e offerta di lavoro: da un lato la domanda che aumentava per l’espandersi della pur modesta popolazione bianca o meticcia, per l’accrescersi delle sue necessità, per la richiesta di lavoro nelle piantagioni. Dall’altro l’offerta diminuiva, per il contrarsi della popolazione indigena. Da questo squilibrio prendevano impulso le spedizioni in aree sempre più remote alla ricerca di nuova manodopera da asservire. Alle aldeias, inoltre, spettava il compito di rifornire di uomini le spedizioni di descimento, resgate e guerra. Là dove la presenza di coloni bianchi era molto scarsa, l’esperimento delle aldeias non sarebbe stato negativo: nell’opinione di Moreira Neto, se confrontato con le condizioni di vita servili a Belém o negli altri insediamenti portoghesi, «il sistema economico e sociale nelle aldeias missionarie aveva una certa coerenza e viabilità, perché era autosufficiente e non competitivo, orientato al proprio sviluppo e anche, in certa misura, al soddisfacimento delle necessità minime dei suoi componenti, indios nella stragrande maggioranza»17 in parte ripetendo il successo delle missioni del Paraguay, almeno per quanto riguarda una certa stabilità del popolamento. Oltre all’assoluto controllo interno della missione, i padri detenevano il monopolio di tutte le operazioni di produzione, trasporto e vendita dei beni commerciabili. E poiché nel regime missionario non si poneva la questione del lucro individuale immediato, era possibile ordinare e dirigere tutte le attività in modo sistematico e razionale. L’inesistenza e l’estrema rarefazione dei coloni bianchi contribuiva anche alla continuità dell’ordine missionario18. 194 Capitolo nono Le azioni che stravolsero maggiormente le popolazioni dell’Amazzonia portoghese furono le spedizioni di guerra, di resgate, di trasferimento più o meno consenziente dei gruppi tribali. Furono azioni che ebbero anche una notevole valenza demografica anche se non è possibile misurarne la reale incidenza. David Sweet ha ammirabilmente approfondito le complesse modalità di queste spedizioni, che divennero regolari e continue a partire dall’ultimo quarto del Seicento, quando la fame di manodopera nel Pará spinse il governo, nel 1688, a regolarle ufficialmente, disponendo che fossero promosse e finanziate dalle casse pubbliche19. In quell’epoca, le aree meno spopolate erano quelle del medio corso del Grande Fiume, a monte della confluenza del Madeira, e quelle del basso e medio corso del Río Negro e del Río Branco, affluente del Negro, ben lontane da Belém. Nella forma più matura, l’organizzazione delle tropas de resgate e della loro attività era regolata con il massimo del dettaglio giuridico iberico. In estrema sintesi: tale truppa era agli ordini di un capo sperimentato in tali spedizioni, e di uno o due religiosi (generalmente gesuiti), di uno scrivano e di un tesoriere; aveva una scorta di soldati e molti indios di supporto – spesso un centinaio o più – per le canoe, i rifornimenti e le altre mansioni. Le casse reali pagavano i salari del capo e dei soldati e fornivano il cibo, le scorte e le merci necessarie per gli scambi con gli indios. Le aldeias lungo i fiumi erano tenute a fornire il loro appoggio, se richiesto. Il capo della spedizione prendeva contatto con i principaes (capi indios) dei vari insediamenti degli indios «amici» del sertão perché fornissero gli indios prigionieri (da loro catturati in «guerre giuste») con i consueti pagamenti. Spesso i principaes potevano essere convinti (con le buone o con le cattive) a un trasferimento verso un’aldeia. In molti casi la tropa de resgate operava vere e proprie aggressioni contro altri gruppi considerati o classificati come nemici e barbari, e gli indios catturati venivano posti in schiavitù. Al religioso che accompagnava la spedizione spettava il compito di distribuire merci e utensili per gli scambi, e di accertare che ogni schiavo fosse stato catturato «legittimamente». Se risultava il contrario, il malcapitato veniva inviato nel Pará con l’obbligo di servire per cinque anni prima di acquistare la libertà. Gli schiavi «legittimi» venivano inviati a Belém e venduti ai coloni secondo criteri e prezzi decisi dalle autorità. Verbali, attestazioni, registrazioni, autorizzazioni, scritture contabili accompagnavano l’azione della Amazzonia 195 tropa dalla partenza fino alla vendita degli schiavi. In teoria, questo era il sistema, ma almeno fino alla terza decade del Settecento funzionò in modo discontinuo e confuso, sovrapponendosi ad altre analoghe iniziative di natura privata. Le autorità agirono senza coerenza e i gesuiti spesso si rifiutavano di prender parte alle spedizioni, preferendo capitanare i descimentos per rifornire le loro aldeias20. Purtroppo non esistono notizie precise che permettano di quantificare i risultati delle spedizioni. Vieira riferisce in una lettera al re della spedizione iniziata nell’agosto del 1658, con padre Francisco Gonçalves fino al Río Negro, con la quale vennero riscattati 600 indios, e della missione dell’anno successivo, con padre Francisco Velloso, che portò al riscatto di altrettante peças («pezzi», cioè schiavi) «con grande beneficio e aumento dello Stato»21. Vieira le approvava, visto che si svolgevano con quelle garanzie minime di cui sopra si è detto. Un’altra spedizione venne effettuata nel Río Tocantins, con padre Manuel Nunes che era accompagnato da «450 indios di arco e remo, e 45 soldati portoghesi di scorta con un capitano di fanteria»22. In primo luogo si punì la nazione degli indios Inheiguaras, ribelle e colpevole dell’uccisione di alcuni cristiani. Essendosi questi ritirati con le loro armi nei luoghi più nascosti e difendibili del loro territorio a più di 50 leghe di distanza, là furono cercati, trovati, circondati, costretti alla resa e catturati quasi tutti, senza maggior danno che la perdita di due indios dei nostri. Vennero fatti prigionieri in 240 i quali, conformemente alle leggi di Vostra Maestà e con l’imputazione di avere impedito la predicazione del Santo Vangelo, furono giudicati schiavi e distribuiti ai soldati23. Dopo questa impresa, venne organizzato il descimento dei Potiguar. «Questa gente era a un mese e mezzo di cammino dal Fiume, o di non cammino, perché si traversava una selva inestricabile, percorsa da grandi lagune e colline, e c’erano dieci villaggi che si dovevano far trasmigrare, con donne, bambini, poppanti e infermi, e tutti gli impedimenti che si incontrano nella trasmigrazione di interi popoli». Finalmente giunsero al Fiume e in 1.000 vennero imbarcati per le aldeias del Pará24. Nell’insieme – e prendendo in conto i 1.200 Tupinambás tratti al Pará in una precedente spedizione – in quell’anno la «Repubblica venne aumentata da più di 2.000 indios schiavi e 196 Capitolo nono liberi, ma non per questo i suoi cittadini resteranno soddisfatti, né lo saranno mai, perché, essendo i fiumi di queste terre i maggiori del mondo, la loro sete è maggiore dell’acqua dei fiumi»24. Nel 1663 Antônio Arnau Veleda venne ucciso in una spedizione sul Río Urubú. «Pedro da Costa Favela volle vendicarne la morte. Uccise 700 indiani, catturò 400 indios Guaneena e Caboquena, e bruciò 300 villaggi». Betendorf continua riferendo che, in tre mesi di guerra, poiché gran parte degli Arawaks era fuggito, i portoghesi presero prigionieri solo 300 indios, soprattutto bambini e vecchi quando in «quei villaggi normalmente si riscattano 500 indios», generalmente già schiavi che gli Arawaks avevano catturato nelle loro scorrerie; questi 330 prigionieri furono mandati nel Pará, «ma il maggior numero di questi morì in viaggio per pura necessità». In un’altra spedizione contemporanea altri 500 indios catturati come schiavi si ribellarono e, uccisi i soldati che li portavano prigionieri, fuggirono nella selva»25. Tutta la documentazione esistente conferma che la cattura di schiavi, sia con le spedizioni ufficiali promosse dalla Colonia, sia – dopo il 1719 – con quelle promosse da privati autorizzati, sia per mezzo di quelle illegali sempre fiorenti e frequenti, riguardasse numeri annuali considerevoli. Un padre gesuita, nel 1719, stimava una media di 1.000 schiavi introdotti annualmente nel Pará da privati autorizzati che inviavano per queste intraprese fino a 300 canoe all’anno26. I descimentos verso le aldeias-missioni avrebbero riguardato un analogo numero annuale27. Nel 1736 le autorizzazioni a privati per queste intraprese riguardavano spedizioni che impegnavano un totale di 320 canoe. Hemming ha osservato che ogni canoa aveva un equipaggio di 25 rematori, e che il numero totale degli indios coinvolti doveva essere dell’ordine di 8.000 unità. Una cifra notevole in rapporto all’esiguità della popolazione pacificata e che rivela la centralità delle operazioni di cattura degli indios nella società amazzonica28. Altre spedizioni furono, dichiaratamente, di guerra e quella portata contro la nazione dei Manaos, nel medio Río Negro è forse la più conosciuta. Le spedizioni dal Pará, durante il Seicento, avevano portato all’inclusione nella sfera d’influenza portoghese le popolazioni del basso corso del Río Negro. Un avamposto era stato istituito alla Barra del Río Negro, alla confluenza col Grande Fiume (dove oggi si trova la città di Manaus); gli indios fino alla confluenza con il Río Branco – dov’era stata fondata una missione carmelitana – erano stati pacificati, ridotti in aldeias o fatti schiavi. Amazzonia 197 I Manaos vivevano a monte del Branco; erano noti da tempo a spagnoli e portoghesi, e di essi ne dettero notizia sia Acuña sia Fritz. Erano considerati relativamente numerosi, praticavano l’agricoltura, ed erano attivi commercianti, con attività di scambio con gli olandesi del Surinam ai quali fornivano schiavi, ottenuti da tribù vicine, in cambio di utensili, armi e altri generi. Fu la loro specializzazione come mercanti di schiavi a determinare la natura dei loro contatti con i portoghesi. E non erano restii a concludere affari con i mercanti di schiavi del Pará quando se ne presentava l’occasione; verso il 1720 erano attivamente impegnati nello scambio di schiavi con le mercanzie europee provenienti dal Pará e dagli avamposti [olandesi] sul fiume Essequibo29. Avevano però mantenuto la loro indipendenza. Nel 1723 una spedizione portoghese risalì il Negro – che nel suo corso inferiore era già stato spopolato dalle incursioni dei decenni precedenti – fino alla bocca del Branco, in cerca di schiavi. Gli eventi successivi, che portarono alla dichiarazione di una «giusta guerra» ai Manaos da parte del governatore non sono chiari, ma furono probabilmente legati al fallimento degli approcci dei portoghesi, alla volontà dei Manaos di tenere a distanza un invadente e pericoloso popolo, forse a qualche conflitto marginale, e a un’accresciuta domanda di schiavi da parte dei coloni. La dichiarazione di guerra fu fatta con le debite procedure legali che coinvolsero anche Lisbona, ma il conflitto si trascinò a lungo per le scarse disponibilità di uomini della colonia e si concluse solo nel 1727, con la morte del più influente dei capi (chiamato Ajuricaba) e l’invio di una moltitudine (le cifre variano tra 200 e 2.000 indios ) in schiavitù nel Pará30. La sconfitta dei Manaos aprì la strada – o, meglio, il fiume – a nuove incursioni a monte, fino, e oltre, le prime rapide del Negro, senza troppe precauzioni legali, con razzie indiscriminate che sollevarono anche controversie legali a Belém. «La distruzione, la deportazione o la dispersione delle potenti tribù dei medio Río Negro, costrinse gli indios sopravvissuti a cercare la protezione dei missionari rimasti nella regione, e fece sorgere nuove forme di organizzazione sotto il controllo dei bianchi»31. Nelle pagine precedenti è stata abbozzata una sintesi di alcune vicende dell’Amazzonia portoghese che la moderna storiografia 198 Capitolo nono sta ricostruendo a fatica. Mentre la ricostruzione delle vicende politiche della colonia è resa relativamente agevole da una mole considerevole di documentazione giuridica e cronachistica, è assai più difficile conoscere le conseguenze di queste sulle società indigene. Conosciamo la cornice, ma il dipinto rimane assai confuso. In particolare, restano elusivi i dati quantitativi indispensabili per delineare la demografia delle popolazioni amazzoniche. Abbiamo già discusso il tema della numerosità della popolazione rivierasca, sia per le deduzioni possibili dalle impressionistiche relazioni di viaggio del Cinquecento, sia mediante le stime più ragionate del secolo successivo. Nell’Amazzonia spagnola le rilevazioni civili, e soprattutto religiose, hanno permesso alcuni approfondimenti, che non siamo in grado di replicare per l’Amazzonia portoghese32. Possiamo però affermare con certezza che in quest’ultima l’azione europea ebbe quell’effetto sconvolgente che mancò invece nella prima. E ne abbiamo descritto meccanismi e modalità, con qualche esempio quantitativo, nelle pagine precedenti. Sappiamo che le popolazioni amazzoniche erano flagellate dal vaiolo. Il nuovo virus aveva fatto la sua apparizione nel Maranhão nel 1621 e nel 1644, ma non risulta che risalisse a nord verso la bocca del Grande Fiume. Il lettore ricorderà la descrizione che Laureano de la Cruz fece dell’epidemia: questa, risalendo i corso del fiume, aveva colpito le isole degli Omaguas nel 1648, uccidendo la «terza parte della popolazione dell’isola» (cap. VII). Non sappiamo però nulla né sull’origine, né sulla diffusione del contagio. L’epidemia che colpì il Maranhão nel 1661 giunse sicuramente fino a Belém e nel suo distretto e ci sono resoconti delle tragiche conseguenze: padre Betendorf scrisse che i missionari erano costretti loro stessi seppellire i morti «perché non c’era villaggio nel quale restassero due indios in piedi», mentre i padri abbandonavano i figli fuggendo nella selva per non contagiarli con un male così pestilenziale»33. Disastrosi furono anche gli effetti della successiva visita del vaiolo, che esplose nel Maranhão, passò nel Pará, fece 200 vittime a Belém e si diffuse nell’estuario. Si salvarono gli indios di alcune aldeias cui fu consentita la fuga verso l’interno. Le perdite demografiche spinsero il governatore, nel 1697, a inviare una spedizione nel Río Negro per rimpiazzare gli indios uccisi dal virus nelle aldeias spopolate34. Più severo ancora sarebbe stato il vaiolo che colpì San Luis nel 1724, sembra introdotto con la nave che trasportava da Lisbona il nuovo vescovo diretto a Belém e che contagiò il Amazzonia 199 suo seguito nel viaggio da San Luis al Pará35. Furono contagiate, oltre alla città, molte aldeias della regione e furono prese misure per contenere la diffusione del contagio; secondo il governatore le vittime furono circa 1.000 nel Maranhão e 2.000 nella regione di Belém. Di nuovo, la produzione e i servizi furono profondamente colpiti, e il disastro demografico sarebbe stata una delle cause della guerra ai Manaos del Río Negro. Il vaiolo colpì di nuovo Belém nel 1743: abbiamo riportato (cap. VIII) la testimonianza di La Condamine che, arrivato a Belém alla fine del 1743, dovette ritardare la sua partenza per la Guyana per la difficoltà di reclutare i rematori che avrebbero dovuto accompagnarlo a causa dell’infuriare dell’epidemia. Lo scienziato riferì anche, in seguito, che aveva avuto notizia di una nuova epidemia nel Pará qualche anno più tardi, probabilmente nel 1749. Una contabilità relativa alla mortalità indotta da quell’epidemia del 1749 – che viene indicata come morbillo (serampião) – si desume però da un documento circa le perdite subite dalle missioni carmelitane nel Río Negro e nel Solimões. Si tratta di 17 missioni, 8 nel Negro e 9 nel Solimões, che contabilizzarono un totale di 2.308 decessi, ugualmente distribuiti nelle due regioni. I documenti indicano anche che 375 indiani abbandonarono le missioni in fuga dal contagio. Un documento successivo di un quarto di secolo, attribuì circa 11 mila abitanti ai villaggi del Río Negro. Non sappiamo se nel corso del tempo gli indios acculturati fossero diminuiti o aumentati, anche se propendiamo per la prima delle due ipotesi. Se supponiamo che la popolazione fosse rimasta invariata, l’epidemia avrebbe causato la morte di un decimo della popolazione, un dato certo impressionante, ma coerente con l’incidenza in una popolazione non immune colpita da morbillo36. Sulle dimensioni della popolazione sappiamo poco. Ci sono, è vero, valutazioni della popolazione delle missioni-aldeias dei religiosi, che – non diversamente, ma di certo più vigorosamente di quelle dell’alta Amazzonia – erano alimentate in continuazione dai descimentos. Ma non sappiamo quanti fossero gli indios liberi che occupavano l'interno, in zone discoste da quelle rivierasche del Grande Fiume e dei suoi maggiori affluenti depauperati, da un lato, dai resgates e dai descimentos, e, dall’altro, dagli indios fuggitivi. Esistono molte notizie a questo riguardo, ma non adatte a ricostruzioni quantitative. 200 Capitolo nono Occorre dunque ripiegare sulle poche informazioni esistenti. Lasciamo da un lato i numeri iperbolici o meramente immaginati, come quelli del Vicario Manuel Texeira che nel 1654 parlava della distruzione di due milioni di indios in Amazzonia, in 400 villaggi37. Lo stesso Vieira, che aveva i piedi per terra, osservava che «il numero delle anime non si può dire con certezza», pur riferendo l’opinione che i Nheengaybas dell’isola Marajó, e i Tricujús insediati sulla terraferma fossero «più di 100 mila anime»38. Due valutazioni attendibili, ma sommarie, degli indios nelle aldeias che facevano capo ai gesuiti nel Pará e nel Maranhão, mostrano un aumento da 11 mila nel 1696 a 21 mila nel 1730: quasi un raddoppio in un terzo di secolo, che sembra smentire l’idea che fosse in corso un veloce spopolamento. Non sappiamo però in che misura questo aumento fosse dovuto all’attività di proselitismo dei padri – in quel periodo notevolissimo – e quanto invece alla normale dinamica demografica. Nel documento del 1730 si indica che circa 3.000 dei 21 mila indios erano stati da poco «tratti dalla selva»: segno che il rinnovo e l’accrescimento di quelle comunità doveva moltissimo all’instancabile attività di descimento. Poco più di un terzo erano meninos e meninas, bambini fino a sette anni: una percentuale compatibile con una popolazione con adeguato ricambio39. Un altro documento, di un certo dettaglio, riguarda le popolazioni della Capitanía del Río Negro nel 1777: 38 villaggi e una vila, Barcelos, che ne era il capoluogo. Prima del Direttorio, questi villaggi erano sotto il controllo dei carmelitani. Nel complesso, 10.596 indios in 1.301 famiglie (e quindi con un numero medio di componenti per famiglia pari a 8,2, assai elevato), e 265 abitanti per villaggio. La proporzione dei giovanissimi sotto i quindici anni non arrivava al 40%, relativamente bassa per popolazioni ad alto ricambio com’erano quasi tutte le popolazioni indigene di America. Più di un terzo degli indios tra i quindici e i sessant’anni erano al servizio del re, dei residenti portoghesi, o erano addetti alle canoe e al trasporto40. Nel decennio successivo, la spedizione di Rodrigues Ferreira aveva registrato, nel Río Negro, 28 insediamenti con 6.642 indios (237 abitanti in media): le tre località più popolose (Barcelos, Tomar e Moura, e Barra, alla confluenza col Negro) totalizzavano 2.946 indios, contro 2.381 nel decennio precedente41. Verso la metà del Settecento il governatore Furtado stimava in 50 mila gli indios del Pará (e ciò prima della costituzione della Capitanía del Río Amazzonia 201 Negro) – suppongo quelli sottomessi delle aldeias e delle città dei portoghesi –, un dato che si accorda bene con la valutazione di una forza lavoro maschile di circa 10 mila unità42. Del resto, abbiamo visto che nelle missioni dei carmelitani del Río Negro, nel 1777, c’erano 10.600 indios, e un numero all’incirca pari doveva trovarsi nelle missioni del Solimões; una cifra consimile popolava le missioni dei gesuiti verso il 1730. Aggiungendo gli indios nelle missioni dei francescani e dei mercedari, quelli liberi e schiavi dei residenti di Belém e degli altri modesti insediamenti portoghesi, la cifra di 50 mila è del tutto plausibile. Attorno al 1776 la Corona organizzò una raccolta di dati da parte delle autorità ecclesiastiche e secolari: Dauril Alden ha calcolato , per quella data, 55.315 abitanti per il Pará e 10.386 per il Río Negro43. Infine, la rilevazione ordinata dal ministro de Negocios nel 1808, risultò in 78 mila abitanti nel Pará e 19 mila nel Río Negro, un 30% dei quali schiavi44. Belém, la città principale, aveva 6.600 abitanti nel 1749, 10.600 nel 1788 e 12.500 nel 180145. Il mondo amazzonico portoghese, si avvicinava a 100 mila abitanti all’inizio dell’Ottocento, una dimensione raddoppiata rispetto alla metà del secolo precedente. E invero, «durante il secolo XVIII, in una irradiazione spettacolare, gesuiti e carmelitani avevano ampliato le frontiere del Portogallo in Amazonia portandole all’alto Madeira, all’alto Solimões, all’alto Río Negro»46. Una proporzione elevata di questa popolazione risiedeva nell’estuario e nel basso corso del fiume; il tratto medio – il Solimões – era spopolato. Cresceva inoltre la popolazione bianca immigrata, quella nera portata schiava dall’Africa e quella meticcia (mestizos – bianchi con neri – e mamelucos – bianchi con indios). Nella seconda metà del Settecento dall’Africa arrivavano ogni anno nel Pará tra i 500 e i 700 schiavi; i bianchi, a giudicare dagli scarsi elementi disponibili, dovevano essere poche migliaia47. Le informazioni quantitative sopra riassunte si riferiscono alle popolazioni sotto controllo portoghese, ma non agli indios «liberi», o «tribali», dispersi nelle immensità della regione, dei quali si avevano vaghe nozioni. La demografia amazzonica se la deve vedere con due mondi diversi – quello nella sfera portoghese e quello tribale – tra loro comunicanti: i descimentos, i resgates e le guerre alimentavano i flussi dal secondo al primo; le fughe nutrivano i flussi dal primo al secondo. Inoltre, il primo mondo si alimentava anche dell’immigrazione di bianchi, meticci e di 202 Capitolo nono schiavi dall’Africa. Del primo abbiamo conoscenza fondate, che mancano per il secondo; dei flussi che legavano i due mondi conosciamo i meccanismi e qualche sparso dato. Cerchiamo, adesso, di sintetizzare alcuni punti fermi. In primo luogo, trattiamo di popolazioni che, almeno alla fine del Settecento, erano di entità modesta se rapportate alle immense estensioni di territorio che occupavano. In secondo luogo, è evidente che l’intrusione europea creò una profonda alterazione dei sistemi demografici. Questi erano sicuramente sistemi ad «alta pressione», ad altissime natalità e mortalità, come tutte le popolazioni indigene americane. L’arrivo delle patologie virali euroasiatiche determinò nuovi e forti shock demografici, cui però la naturale esuberanza demografica avrebbe potuto porre rimedio se le capacità di recupero avessero potuto esplicarsi normalmente. Tuttavia è possibile che le numerose dislocazioni geografiche e migratorie provocate dai portoghesi abbiano potuto compromettere tali capacità. Non sappiamo però in che misura e con quale diffusione. In terzo luogo, va detto che l’effetto più sconvolgente dell’arrivo europeo fu quello di determinare un’elevata, innaturale e forzata mobilità. Certo, le popolazioni amazzoniche erano altamente mobili per le numerose vie d’acqua, il basso costo di fare e disfare un insediamento o di fare e disfare un seminativo. Ma è verosimile che l’aggressività dei portoghesi e l’orrore per il servaggio e la schiavitù rendessero assai rischiose fughe e migrazioni, frammentando i gruppi tribali e sospingendoli verso aree meno propizie alla sopravvivenza. Gli insediamenti nelle aldeias andarono di pari passo con lo spopolamento delle zone rivierasche. Verso la fine del Settecento, comunque, le popolazioni amazzoniche avevano perso molte delle caratteristiche originarie. Bianchi, neri e meticci avevano fortemente intaccato l’omogeneità etnica. Gruppi etnici e tribali si erano estinti, frammentati e ricomposti e avevano perso le loro identità culturali. Si erano «detribalizzati», trasformandosi in indios «generici», o in tapuios, senza più connessione con i luoghi, le culture e lingue di origine, sostituite, queste ultime, dalla diffusione della lingua geral (sorta di lingua franca derivata dal tupí); l’amministrazione pombalina accelerò con metodi brutali questo processo. «Il risultato fu un indio geneticamente integro, ma profondamente conformato, e deformato, dai modelli culturali che furono loro imposti, sottomessi ai disegni del mondo coloniale»48. Amazzonia 203 All’inizio del Settecento lo spopolamento del Grande Fiume appariva evidente ai viaggiatori. Dico «spopolamento» per indicare che essi davano per scontato che fosse avvenuto un tracollo o una qualche catastrofe. Scrive Sweet: Intorno al 1700, dopo almeno un quarto di secolo di riduzione in schiavitù dal Pará, il basso Solimões una volta popoloso, era terra desolata. Le sue popolazioni erano ridotte a pochi pietosi resti, e i viaggiatori tra le confluenze del Río Negro e del Japurá non trovavano se non rarissimi insediamenti nei quali fare sosta e scambiare rifornimenti49. Abbiamo riferito le osservazioni di La Condamine che aveva incontrato solo qualche sparso villaggio abitato da indios recentemente tratti dalla selva, e che riteneva che il «gran numero di nazioni» che popolavano le riva un secolo addietro si fossero «ritirate all’interno appena hanno visto gli europei» (cap. VIII). Per il naturalista Rodrigues Ferreira, nel viaggio sul Río Negro negli anni Ottanta del Settecento, «si incontrano luoghi, su quel fiume che una volta erano abitati da innumerevoli barbari e che ora non mostrano segni di vita oltre alle ossa dei morti»50. Mancano le statistiche, ma abbondano le testimonianze. Appendici 1. Río delle Amazzoni: carta di identità Il vero protagonista di questo libro è il Grande Fiume, il cui ufficiale nome di battesimo è Río delle Amazzoni. Ma gli iberici, all’inizio lo battezzarono Marañon, e già Pietro Martire lo designò con quel nome nel 1511?. L’etimologia è ignota: alcuni lo riferiscono al termine castigliano maraña, o «intrico», con il quale i primi navigatori avrebbero indicato, appunto, l’intrico dei canali e delle acque dell’estuario. Più verosimile è che si tratti della corruzione di una parola indigena (c’è l’isola di Marajó nell’estuario; il Maranhão, più a sud). In ogni caso questo, è il nome che appare con maggior frequenza nelle prime cronache. Aguirre chiamò i suoi compagni Marañones. Si trovano anche le denominazioni di «Mar Dulce di Santa Maria», dopo la prima navigazione nell’estuario di Yáñez Pinzón; di «Río de Orellana», dopo la navigazione di Orellana, di «Río de San Francisco», così battezzato dai missionari francescani. Il nome di Río de las Amazonas, o Río Amazonas, si deve alla popolarizzazione del racconto di Carvajal sulle battagliere guerriere all’attacco di Orellana e dei suoi compagni, e diviene di uso comune nel Seicento, in alternanza o sovrapposizione con Río Marañon1. I portoghesi usano chiamare Marañon il fiume fino alla confluenza con l’Ucayali, denominando Solimões2 il tratto tra quest’ultima e la confluenza con il Río Negro, e battezzando Río Amazonas l’ultimo tratto dal Negro al mare. In lunghezza il Río delle Amazzoni se la batte con il Nilo, tra i 6.500 e i 6.800 chilometri: la sorprendente imprecisione sta sia nei metodi di misura utilizzati, sia nel fatto che il percorso muta continuamente, specialmente nei tratti ricchi di meandri. Le sorgenti più remote sono quelle dell’Ucayali (che nel suo primo tratto si chiama Apurimac) a 4.000 metri di altezza, nel dipartimento di Arequipa (a sud del Cuzco), in Perú. Sono queste, dell’Ucayali, sorgenti più remote di quelle del Marañon, che però alla confluenza ha maggiore portata e larghezza del primo3. Per quanto riguarda le dimensioni del bacino e la portata, il Grande Fiume non ha rivali. L’intero bacino amazzonico – includendo quello del Tocantins, che sbocca nel ramo inferiore dell’estuario, detto Pará, poco a 208 Appendici monte di Belém – misura 6,9 milioni di chilometri quadrati, ed è quasi il doppio del secondo bacino più grande del mondo, che è quello del fiume Congo4. La portata all’estuario, calcolata in 214 milioni di litri al secondo, è la maggiore al mondo: ancora il Congo, che si piazza secondo, ha una portata pari a un quinto, mentre quella del Mississippi è pari ad appena un dodicesimo. Si calcola che il Grande Fiume contribuisca per quasi un sesto all’intero volume di acque dolci che si riversano negli oceani del globo. Tanta è l’acqua riversata in mare, che fino a 160 chilometri in mare aperto si estende uno strato di qualche metro di acqua dolce. Il Río Negro da nord e il Madeira da sud contribuiscono (in maniera paritaria) al 30% della portata totale. Il Grande Fiume ha quindici affluenti lunghi oltre 1.000 chilometri, tre dei quali – Madeira, Purus e Yurua (tutti e tre affluenti di destra, o sud) – hanno una lunghezza di più di 3.000 chilometri. Il bacino amazzonico si estende per circa un terzo a nord e per due terzi a sud del percorso del Grande Fiume; il bacino del Madeira vale il 20% del totale, quello del Tocantins l’11%, quello del Río Negro il 10%, quelli del Tapajós, dello Xingu e del Purus, combinatamente, il 20%, quelli del Marañon e dell’Ucayali, insieme, il 10%. Altre dimensioni del Grande Fiume hanno maggiore attinenza con la vita e le culture delle popolazioni delle sue rive. La piovosità è alta, tra i 1.500 e i 2.500 millimetri all’anno, ma in aree del pedemonte andino può superare i 4.000. La stagione delle piogge si estende da gennaio a giugno-luglio, e la stagione secca da luglio-agosto a dicembre. Con qualche sfasamento rispetto alla stagione delle piogge, c’è il periodo delle piene e delle inondazioni; il livello del Grande Fiume raggiunge il suo massimo tra marzo e giugno nel tratto occidentale; più tardi, verso giugno, nella parte centrale. Le normali differenze del livello – così come anche nei maggiori affluenti – è compresa tra i 4 e i 15 metri. Con i fiumi in piena, le comunicazioni si facevano più difficili e pericolose. Il Grande Fiume trascina con se enormi quantità di sedimenti, erosi dalle Ande e trasportati verso valle dai tributari, particolarmente quelli della sponda destra. Si è calcolato che dalla stretta di Obidos (a circa 800 chilometri dal mare) transitino 1,2 miliardi di tonnellate di sedimenti e che un 25% di questi venga trascinato in mare, e dalle correnti marine sud-nord depositato lungo le coste delle Guiane, del Surinam, fino al Venezuela. Il Grande Fiume ha un colore marrone, motoso, e così gli affluenti meridionali: non confonda il termine portoghese água branca (acqua bianca, chiara), dato alle loro acque. Quella del Río Negro è, sì, água negra o preta (acqua nera) perché tale è il colore dato da componenti di piante non completamente decomposti: quando questi si depositano il colore diventa piuttosto chiaro. Il limo depositato sul suolo quando le acque del fiume si ritraggono dai territori inondati è ricchissimo in nutrienti e rende fertilissimo il suolo. Appendici 209 Della navigazione in canoa, si è detto nel libro: la corrente a seconda del regime del fiume, delle stagioni e dei tratti, era compresa tra i 4 e gli 8 chilometri all’ora. Se, normalmente, si potevano coprire in favore di corrente fino a 80-100 chilometri al giorno, controcorrente i tempi si triplicavano. Ricordiamo che la spedizione di Orellana, nei giorni di navigazione, coprì mediamente 50 chilometri al giorno (compresa la giornata della battaglia con le Amazzoni!). All’incirca uguale fu la distanza giornaliera coperta dalla molto più numerosa spedizione di Ursúa-Aguirre. Alla metà dell’Ottocento, Herndon misurò la velocità della corrente nella discesa dello Huallaga (5,5 km/ora) che si componeva con la velocità dei rematori della canoa (2,5 km) per una velocità totale di 8 km/ora5. Nell’escursione sul basso Ucayali impegò ventitré giorni a rimontare 430 chilometri di fiume e 8 a discenderli, e stimò la velocità della corrente in 5 chilometri/ora6. Infine, stimava che una canoa carica di merci avrebbe impiegato ottanta giorni a risalire il Marañon per 800 miglia, da Loreto (alla frontiera con il Brasile) a Chasuta, cioè 10 miglia al giorno7. Diamo alcune distanze, tenendo conto che si tratta di approssimazioni, perché le navigazioni in canoa non avvenivano lungo il teorico filo della via più breve. Da Borja, nella sua primitiva localizzazione dopo il Pongo di Manseriche, all’oceano, ci sono circa 4.700 chilometri; da Borja alla confluenza (poi «c.») del Huallaga, 390; da qui alla c. del Tigre, 300; da qui alla c. dell’Ucayali, 90; da qui alla c. del Napo, 250; da qui alla c. del Putumayo, 800; da qui alla c. del Japurá, 570; da qui alla c. del Purus, 520; da qui alla c. del Negro, 230; da qui alla c. del Madeira, 190; da qui alla c. del Tapajós, 610; da qui alla c. del Xingu, 400; da qui al mare aperto, 380. Le distanze approssimative tra le località, invece, sono le seguenti: da Borja a Iquitos, 800; da Iquitos a Leticia, 530; da qui a San Antonio Iça, 900; da qui a Manaus, 1.190; da qui a Obidos, 630; da qui a Santarem, 130; da qui a Montealegre, 120; da qui a Macapá, 490; da qui a Ponta do Santarem, 150. Dividendo il percorso considerato dal libro in tre tratti: da Borja (Pongo di Manseriche) all’attuale confine con il Brasile, 1.400 chilometri; da questo a Manaus, 1.610; da Manaus a Belém, 1.650. 2. Aritmetica amazzonica 1. Sul numero, la durata e il ricambio delle missioni Juan de Velasco aveva identificato 73 missioni, a esclusione di alcune fondazioni presto abbandonate o di altre di «poca consideración» (tra le altre: 6 tra gli Yameos, 9 tra gli Ucayales) nonché quelle varie decine di insediamenti nei quali padre Fritz aveva condotto la sua predicazione. Secondo Heredia1 la contabilità delle missioni si sintetizza in centotrenta anni (1638-1768) di vita, 161 padri gesuiti (dei quali 9 uccisi) e 152 «fondazioni» di missioni, tra effimere e durature. Nel 1686 le missioni in essere erano 18 (così attesta il vescovo di Quito Monte Negro); nel 1719, 28; nel 1740, 32; nel 1760, 34. Possiamo azzardare che, in ogni anno, ci fossero in attività 25 missioni (in media), e che in Mainas l’opera evangelizzatrice si sia svolta in 3.250 «anni missione» o «anni villaggio» (130 × 25 = 3.250). Poiché le fondazioni furono 152, ciascuna delle missioni fondate operò (o, se si preferisce «durò»), mediamente, per 21,4 anni (3.250 : 152 = 21,4). In altre parole, la vita media delle missioni, prendendo per buoni questi calcoli, fu di poco superiore a un paio di decenni: alcune si dissolsero l’anno successivo alla loro fondazione; Limpia Concepción de Jeveros, d’altro canto, durò l’intero periodo di centotrenta anni. Possiamo anche aggiungere che in media i 161 missionari contribuirono a poco più di venti anni-missione ciascuno (3.250 : 161 = 20,2 anni). Questo dato sembrerebbe contrastare con quanto affermato circa una durata media di poco superiore a dieci anni della permanenza in Mainas dei padri: ma il contrasto è solo apparente, perché molti ebbero la cura di due o più missioni contemporaneamente. 2. I battesimi del Vescovo di Quito, 1687 Nel 1687 il vescovo di Quito, Don Alonso de la Peña y Monte Negro, poco convinto dell’azione evangelizzatrice dei gesuiti fece raccogliere dai libri parrocchiali delle varie missioni il numero dei battesimi, dalla 212 Appendici fondazione fino a tutto il 16862. Il numero totale ammontava a 103.320 battesimi in 18 missioni, includendo Borja, che missione propriamente non fu. Il periodo di raccolta (fino a tutto il 1686) è variabile, datando dalla fondazione di ogni missione. Poiché molti dati sono forniti in cifra tonda – e sicuramente data la precarietà è assai dubbio che i registri ci fossero ovunque – molte incognite gravano sul significato di questi dati: se contenessero tutti i battesimi, quando i dati erano desunti dai registri; se fossero iscritti anche gli adulti (probabilmente sì, quasi sempre); se fossero iscritti anche indios non propriamente insediati ma battezzati durante predicazioni in viaggio; in che misura si trattasse invece di valutazioni approssimative dei padri. Insomma, circondiamo i dati di tutte le cautele e dubbi possibili: tuttavia questi esistono, e in un documento ufficiale. Prendiamo due esempi: il primo, quello di Limpia Concepción de Jeveros, la missione più curata e avanzata (è menzionata la tenuta dei registri parrocchiali), la cui popolazione era valutata attorno alle 2.000 persone, e che nei quarantasette anni di osservazione avrebbe avuto 22.320 battesimi. Assumendo un tasso di natalità del 60‰, ci sarebbero stati 120 battesimi di neonati all’anno e 5.640 (cioè 120 × 47) nell’intero periodo, cioè un quarto del totale. Supponiamo anche che tutta la popolazione (circa 2.000) all’inizio, fosse stata battezzata, e arriviamo a 7.640. E gli altri 14.680 (cioè 22.320 – 7.640), pari a 312 all’anno? Un’ipotesi potrebbe essere che si fosse trattato di «barbari» convertiti e poi ritornati nella selva, e che quindi, annualmente, un settimo circa della popolazione si rinnovasse per fughe e nuovi arrivi (312 : 2.000 = 15,6%), una prova dell’altissimi mobilità della popolazione evangelizzata. Un ragionamento simile può valere per le altre 17 missioni, il cui numero di battesimi dichiarati è un multiplo – come a Limpia Concepción – di quelli attesi in base alla loro (modesta) popolazione. San Francisco de Borja, invece, era una parrocchia che comprendeva l’intera regione circostante, con i 21 encomenderos e gli indios loro assegnati. Il numero dei tributari, secondo Figueroa, era pari a 400 nel 1638, e si era ridotto a 200 nel 1661 (altri erano fuggiti nella selva). Una popolazione totale, quindi, di 1.000-2.000 abitanti, che in cinquantuno anni (1636-1686) avrebbe avuto 22.800 battesimi. Anche in questo caso il numero dei battesimi attesi (60‰ all’anno, per cinquantuno anni, in una popolazione media di 1.500 abitanti) sarebbe stato di 4.590, più altri 1.500 battesimi corrispondenti allo stock medio, per un totale di 6.090, pari al 26,7% della cifra dichiarata al vescovo. I 16.710 battesimi che mancano al conteggio (22.800 – 6.090), ovvero 328 all’anno, darebbero la misura di un ricambio annuale della popolazione pari a più di un quinto (328 : 1500 = 21,9%). Appendici 213 3. Mezzo milione nel 1648... quanti un secolo prima? Nel VII capitolo la cifra di «mezzo milione» è stata assunta come cifra plausibile della popolazione della várzea a metà Seicento. Naturalmente gli indizi sono tenui, e riportiamo qui per esteso l’articolata utilizzazione della cronaca di Laureano de la Cruz. Dopo l’approdo nella prima isola di Piramota, con le sue 80 famiglie e «330 persone» su una superficie di due leghe per «meno» di mezza lega e una densità di 13 chilometri quadrati, il frate e i suoi compagni procedono oltre. Nei giorni successivi visitano Sacayey, delle stesse dimensioni della prima ma con una densità assai minore di circa 5 abitanti per chilometro quadrato (30 indios con moglie e figli, in 14 case, circa 120-130 persone) e poi l’isola di Maity, più grande delle prime due e con pochi abitanti (8 case con 20 capifamiglia: meno di 100 persone) e con una densità pari a 2-3 abitanti per chilometro quadrato. L’isola di Caraute, anch’essa grande come la precedente (16 case, 40 capifamiglia «e in tutto saranno state 120 anime») avrà avuto una densità appena maggiore di Mayti (3-4 per kmq). Seguivano altre due isole di cui non riferisce il nome: la prima, molto grande, con circa 200 o 250 abitanti (50 capifamiglia, in 22 case), con una densità simile a quella di Sacayey, e la seconda con 9 case e pochi abitanti (16, non è chiaro se persone o capifamiglia), perché era stata colpita dal vaiolo e molti erano morti o fuggiti. Le sei isole avevano – complessivamente – 97 case plurifamiliari che ospitavano 236 famiglie, ciascuna casa con due o tre famiglie, per un totale di 1.000-1.200 persone. Supponendo che tre isole avessero le dimensioni di Piramota (per un totale di 75 kmq)e che le altre tre avessero dimensione doppia (per un totale di 150 kmq), la densità delle sei isole sarebbe stata compresa tra 4 e 5,3 abitanti per chilometro quadrato. Antonio Porro, che per primo ha sfruttato le indicazioni di Laureano, ha cercato di individuare – sulla base di mappe satellitari – l’ubicazione delle sei isole nel tratto del Fiume di circa 200 chilometri descritto da Laureano, tra il confine approssimativo di Perú e Colombia (Loreto) e la foce del Igarapé3. Le isole individuate da Porro come quelle corrispondenti a quelle visitate da Laureano avrebbero una superficie totale più alta (255 kmq), e quindi una densità lievemente minore, tra 3,5 e 4,7 abitanti per chilometro quadrato. Le testimonianze dei padri Acuña, Cruz e Fritz sono concordi nell’affermare che gli Omaguas, abilissimi navigatori, vivevano nelle isole del fiume e non sulle rive; che guerreggiavano spesso e volentieri con le tribù rivierasche. Porro ha individuato una sessantina di isole di una certa consistenza nel tratto di fiume di circa 700 chilometri abitato dagli Omaguas, per una superficie totale di 1. 900 chilometri quadrati: applicando la densità massima di 5,3, la popolazione totale di questa potente tribù sarebbe stata pari a 10.070 abitanti, quella minima, con densità 3,5, a 66.504. Questi numeri sono compatibili con un’altra considerazione di Laureano, che in un altro 214 Appendici passo della sua relazione dice che l’intero territorio Omagua contava 34 villaggi: se assumiamo una media di 200 abitanti a villaggio, la popolazione totale ammonterebbe a quasi 7.000 abitanti. Padre Fritz, come abbiamo ricordato (cap. VI) aveva predicato ed evangelizzato 38 villaggi in altrettante isole, mezzo secolo dopo. Nel 1686, al primo contatto con gli Omaguas, aveva visitato 9 villaggi, due soli dei quali con oltre 100 anime, su un tratto di fiume di 80 leghe: è plausibile che la popolazione totale fosse scesa a poche migliaia di abitanti, incalzata dai portoghesi e dai loro raid e colpita dal vaiolo5. Questo pedante e tedioso excursus è importante perché riguarda uno dei pochi ancoraggi relativamente solidi per le valutazioni seicentesche della consistenza del popolamento amazzonico. C’è però un altro elemento assai utile al discorso, e cioè la stima della superficie sulle rive, destra e sinistra, nel tratto di 700 chilometri abitato dagli Omaguas (insediati nel fiume). Di questa area, pari a 17.500 chilometri quadrati, sappiamo molto poco, se non che parte delle rive servivano agli Omaguas delle isole per i loro seminativi; che gli Omaguas erano assai aggressivi con le altre tribù rivierasche; che le rive non erano però disabitate perché c’erano villaggi non troppo distanziati tra loro. Ne abbiamo già parlato descrivendo il viaggio di Acuña. Se si attribuisse a quest’area la stessa densità delle isole occorrerebbe aggiungere, oltre ai 7-10 mila Omaguas, altri 61-93 mila abitanti rivieraschi. Ma sicuramente la densità era assai minore di quella degli evoluti Omaguas isolani: quanto minore non è dato di sapere, azzardare la metà è ragionevole, e una popolazione totale superiore a 100 mila sembra assai improbabile. Per Porro, la densità lungo le rive era assai inferiore a un abitante per chilometro quadrato, seguendo un ragionamento analogo a quello svolto in capitoli precedenti (cfr. i capp. II e III). Acuña, nella sua cronaca, aveva detto che nelle terre Omagua i villaggi si susseguivano in modo che appena se ne perdeva di vista uno, se ne scorgeva un altro: offre come distanza plausibile 10-20 chilometri: poiché dei 1.400 chilometri delle due rive, circa 1.000 erano abitabili (gli altri 400 avevano alte rive, barrancas, generalmente non insediate), i villaggi sarebbero stati tra 50 e 100, con una popolazione totale (considerando 200 abitanti a villaggio) non superiore a 20 mila6. 4. Ancora sul ricambio delle popolazioni delle missioni I censimenti di Mainas informano che nel 1745 furono conteggiati 12.912 indios nelle missioni e 12.229 nel 1761. Assumiamo una cifra media di 12.500 nell’intervallo per il quale disponiamo dei dati sulle spedizioni in cerca di «gentili», raccolti da padre Widman (cfr. p. ??). Non conosciamo quali fossero la natalità e la mortalità, ma possiamo avvalerci dei dati raccolti per i Guaraní delle missioni del Paraguay verso la stessa Appendici 215 epoca: nel decennio 1750-1759, la natalità fu pari al 58‰ e la mortalità a 43‰7. Non sorprenda l’elevatissima natalità, tipica di società – come quella amazzonica – in cui l’unione matrimoniale avveniva alla pubertà e la struttura per età era giovanissima. Facciamo adesso due calcoli. Una popolazione di 12.500 abitanti avrebbe avuto, ogni anno, 725 nascite e 538 decessi, e un incremento naturale pari a 187 unità all’anno. Il bilancio delle missioni nel decennio sarebbe stato il seguente: nascite = 7.250; decessi = 5.380; incremento naturale = 1.870. In più erano entrati nelle missioni 224 indios (media annuale) per mezzo delle spedizioni dei padri, cioè 2.240 nel decennio. La popolazione avrebbe dovuto aumentare di (1.870 + 2.240 = 4.110) di oltre 4.000 unità, ma invece restò costante (anzi diminuì di qualche centinaio di unità). È assai plausibile che ciò fosse dovuto a uscite assai più numerose delle entrate, che i missionari non riuscivano a compensare con le loro spedizioni. Può anche darsi che la mortalità fosse stata assai più alta di quella ipotizzata – e in effetti nel 1762 il vaiolo imperversò nell’Alto Marañon – mentre è meno plausibile che la natalità fosse più bassa, per le ragioni sopra indicate; può darsi, infine, che i dati dei conteggi censuari fossero fortemente distorti. Tuttavia è ragionevole ritenere che gli allontanamenti e le fughe fossero davvero una forza dominante del sistema missionario, continuamente in tensione per compensare le perdite con un incessante opera di esplorazione, proselitismo e cattura. Come del resto confermato ripetutamente dalla cronache. 3. Popolazione di Mainas (XVIII secolo) Tab. 1. Popolazione delle Missioni di Mainas, 1719-1798 Indios Indios Popolazione Numero Popolazione Anno battezzati neofiti totale villaggi media dei villaggi 1719 1727 1740 1745 1760 1767 1769 1776 1786 1798 7.586 5.194 9.549 9.976 380 748 1.487 2.939 11.620 9.131 8.857 154 32 70 7.966 5.942 11.036 12.915 12.229 11.774 9.163 8.927 9.111 4.455 28 22 32 41 34 22 22 22 22 22 285 270 345 315 360 535 417 406 414 203 Fonte: Ann Golob, The Upper Amazon in Historical Perspective, tesi di dottorato, Ann Arbor (Mich.), City University New York, 1982, tabb. 17, 20, 21 e 22, pp. 203-204 1740 1745 1767 1769 1776 1776 8.443 4.964 5.991 7.998 8.243 3.406 Popolazione alla data iniziale 10.623 5.355 7.817 7.670 7.909 5.738 Popolazione alla data finale 12 14 13 14 17 25,8 7,9 30,5 – 4,1 – 4,1 68,5 popolazione iniziale e popolazione finale missioni poste a confronto 704 355 461 571 485 704 885 383 601 548 465 465 per missione alla data finale per missione alla data iniziale tra popolazione iniziale e popolazione finale 1,09 1,52 1,21 – 2,09 – 0,59 1,03* Popolazione media Popolazione media Variazione % annua tra Nota: Per ogni «coppia» di date (iniziale e finale) sono messe a confronto le stesse missioni. Nel periodo 1719-1740, la popolazione fu in aumento in 7 missioni, in diminuzione in 4 e invariata in 1; negli altri periodi furono – rispettivamente in aumento, diminuzione e invariate: 1740-1745: 6,7 e 1; 1745-1767: 9,4 e 0; 1767-1769: 8,6 e 0; 1769-1776: 3,14 e 0. * Il valore del tasso d’incremento (1,03) tra il 1719 e il 1767 è la media ponberata dei tassi d’incremento tra le varie date con pesi proporzionali al numero degli anni di ciascun intervallo 1719, 1740, 1745, 1767, 1769, 1719, Date a confronto Variazione % tra Numero delle Tab. 2. Variazione della popolazione delle missioni di Mainas, 1719-1776 744 744 – – 256 398 312 491 499 91 3530 4,74 1,33 2,28 1,10 17,2 28,0 48,2 42,2 2,08 Coniugati Coniugate Vedovi Vedove Non coniugati, Maschi e Femmine Adolescenti Maschi Adolescenti Femmine Bambini Maschi Bambine Femmine Neofiti TOTALE Componenti per famiglia (a) Bambini per famiglia Bambini e adolescenti per famiglia Rapporto tra maschi e femmine (b) Vedovi per 100 coniugati (c) Bambini per 100 abitanti Giovani per 100 abitanti (d) Coniugati per 100 abitanti Variazione % media annua popolazione 1740 4,64 1,18 2,08 1,02 18,0 25,5 44,8 43,1 1,11 804 804 104 186 – 348 372 486 466 161 3731 1745 Tab. 3. Popolazione di 6 missioni di Mainas, sempre censite, 1740-1776, e sua composizione 4,32 1,17 2,14 1,18 7,9 27,0 49,7 46,3 1,35 1163 1163 51 132 – 686 453 662 693 20 5023 1767 4,29 1,75 2,06 1,10 11,2 40,9 48,1 46,6 2,06 1221 1221 76 198 – 233 147 1088 1052 – 5236 1769 4,30 1,80 2,09 1,12 10,6 41,9 48,5 46,5 -0,10 1209 1209 59 197 – 218 129 1113 1063 – 5198 1776 Note Note Capitolo primo Gonzalo Fernández de Oviedo, Historia general y natural de las Indias come in (1551-1555), 5 voll., Madrid, Atlas, 1992, vol. II, libro XXIV, cap. I, p. 399; Conquista sono state trad. it. parz. Le scoperte di Cristoforo Colombo nei testi di Fernandez de Oviedo, aggiunte Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1990. le trad. it. 2 Pietro Martire di Anghiera, Il Nuovo Mondo, a cura di Piera Forni Bisogniero, Logart Press, 1991, pp. 87-88. La navigazione di Pinzón all’estuario amazzonico è narrata anche da Bartolomé de las Casas, Historia de las Indias, 2 voll., México, Fondo de Cultura Económica, 1991, vol. I, pp. 154-158; da Antonio de Herrera, Historia general de los hechos de los castellanos en las islas y tierrafirme del mar Océano, Decada I (1601-1615), 10 voll., Madrid, Emprenta Real, 1601, vol. IV, pp. 135-137. 3 Oviedo, Historia, cit., pp. 390-392. 4 Pero Vaz de Caminha, Lettera sulla scoperta del Brasile, Palermo, Sellerio, 1992, pp. 34, 36. 5 Le feitorías erano fondaci commerciali, generalmente fortificati e insediati in zone costiere dell’Africa, dove si centralizzava e si dirigeva verso la madrepatria il commercio dei prodotti locali e degli schiavi. Il modello fu replicato sulle coste del Brasile e dell’India. 6 Il pau brasil (Caesalpinia echinata, o pernambuco) è un albero della foresta vergine (Mata Atlântica) che ricopriva le regioni litoranee del Brasile. 7 H.B. Johnson, La colonización portuguesa del Brasil, 1500-1580, in Leslie Bethell (a cura di), Historia de América Latina, 16 voll., Barcelona, Cambridge University Press - Editorial Crítica, 1992, vol. I, pp. 208-209. 8 Ibidem, p. 208. 9 John Hemming, Red Gold. The Conquest of Brazilian Indians, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1978, p. 184; trad. it. Storia della conquista del Brasile, Milano, Rizzoli, 1982. 10 Pedro Arias de Almesto, Jornada de Omagua y Dorado, in Fray Gaspar de Carvajal, Pedro Arias de Almesto e Alonso de Rojas, La aventura del Amazonas, Madrid, Dastin, 2002, p. 102 11 José de Acosta, Historia natural y moral de las Indias, México, Fondo de Cultura Económica, 1986, p. 80. 1 224 Note 12 Inca Garcilaso de la Vega, Commentari reali degli Incas, Milano, Rusconi, 1977, libro VI, cap. XIII, p. 581. 13 J.H. Elliott, La Conquista española y las colonias de América, in Bethell (a cura di), Historia de América, cit., vol. ?, p. 128. 14 Pierre Vilar, Or et monnaie dans l’histoire, Paris, Flammarion, 1974, p. 81; trad. it. Oro e moneta nella storia: 1450-1920, Bari, Laterza, 1971. L’opera fondamentale è quella di Earl Hamilton, American Treasure and the Price Revolution in Spain, 1501-1650, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1934. 15 Vilar, Or et monnaie dans l’histoire, cit., p. 133. 16 Una storia completa dei compagni di Pizarro e della loro sorte, nonché della ripartizione del tesoro di Cajamarca, si trova in James Lockhart, Los de Cajamarca, 2 voll., Lima, Editorial Milla Batres, 1982; ed. orig. The Men of Cajamarca. A Social and Biographical Study of the Conquers of Peru, Austin, University of Texas, 1972. 17 Il cántaro, misura di capacità, valeva 16 litri. 18 La fanega, misura di capacità, valeva 58 litri. 19 Francisco de Xeres, cit. in Costantino Bayle, El Dorado fantasma, Madrid, Publicaciones del Consejo de la Hispanidad, 1943, p. 21. Si veda anche Oviedo, Historia, cit., vol. V, libro VIII, cap. X, p. 65; Frederick A. Kirkpatrick, Los Conquistadores Españoles, Madrid, Espasa Calpe, 1986, p. 115; ed. orig. The Spanish Conquistadores, London, A&C Black, 1946. 20 Oviedo, Historia, cit., vol. V, libro VIII, cap. XVI, p. 91. 20 Ibidem, vol. V, libro VIII, cap. XXII, p. 123. 22 Bayle, El Dorado, cit., p. 21. 23 Juan Rodríguez Freyle, Conquista y descubrimiento del Nuevo Reyno de Granada, Madrid, Dastin Historia, 2000; Manuel Lucena Salmoral, Ximénez de Quesada, el caballero de El Dorado, Madrid, Anaya, 1988. 24 Oviedo, Historia, cit., vol. III, p. 124; Lucena Salmoral, Ximénez, cit., pp. 46-47. 25 Pedro Cieza de León, La crónica del Perú, Madrid, Historia 16, 1984, pp. 387-388; trad. it. Pedro Cieza de León e il Descubrimiento y conquista del Perú, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1979. 26 Crónicas de Eldorado, a cura di Horacio Jorge Becco, Caracas, Biblioteca Ayacucho, 2003, p. 10. 27 Già nel 1538 Diego de Almagro con i suoi reduci della spedizione in Cile aveva affrontato vicino al Cuzco i seguaci di Pizarro al comando di Hernando, ed era stato sconfitto nella battaglia de Las Salinas. Una lunga stagione di guerre civili sanguinose e devastanti, che si concluderà definitivamente solo nel 1554. 28 Bayle, El Dorado, cit., p. 25. 29 Derecho de escobilla, letteralmente «diritto di scopa», ovvero il ricco privilegio, concesso dal re, di appropriarsi dei residui o limature d’oro nei locali dove si fondeva oro o si batteva moneta. 30 Oviedo, Historia, cit., vol. V, libro XI, cap. II, p. 236. La storia è nar- ins Frankfur Note 225 inserire ed. orig.? Reise in die AquinoktialGegeden des Neuen Kontinents, a cura di Ottmar Ette, Frankfurt a.M.-Leipzig, Insel, 1991. rata anche, un secolo più tardi, da Freyle, Conquista y descubrimiento, cit., pp. 63-64. 31 Bayle, El Dorado, cit., p. 26. 32 Oviedo, Historia, cit., vol. II, p. 102. 33 Ibidem, vol. III, p. 42. 34 Alexander von Humboldt, Viaje a las Regiones Equinocciales del Nuevo Continente, 5 voll., Caracas, Monte Avila Editores, 1992; trad. it. Viaggio alle regioni equinoziali del nuovo continente..., Roma, Palombi, 1986. Le considerazioni sulla localizzazione dell’Eldorado sono sparse nell’intera opera, ma vengono riassunte nel vol. V, pp. 277-305, in una disquisizione che Humboldt fece nel 1841 come contributo a un libro di viaggio nella Guyana e nell’Orinoco. 35 Kirkpatrick, Los Conquistadores, cit., p. 141. 36 Ibidem, pp. 204-207; Bayle, El Dorado, cit., p. 118. 37 José Chávez Suárez, Historia de Moxos, La Paz, Editorial Don Bosco, 1986, p. 59. 38 Cieza de León, La crónica, cit., p. 386. cioè 39 Edgar Pillajo, Evaluación del potencial aurífero aluvial en Ecuador, www. ultimo accesso? fungeomine.org, estratto il 21 maggio 2012. 40 http://es.wikipedia.org/wiki/Parroquia_Valladolid_(Zamora_Chinchipe) [estratto 21 maggio 2012]; Bayle, El Dorado, cit., p. 22. 41 Kris Lane, Quito 1499. City and Colony in Transition, Albuquerque, University of New Mexico Press, 2002; María del Carmen Martínez Marin, Búsqueda y hallazgo de las ruinas de Logroño en la región de los Jíbaros (siglos XVI-XIX), in Antonio Gutiérrez Escudero e María Luisa Laviana Cuelos (a cura di), Estudios sobre América: siglos XVI-XX, Sevilla, AEA, 2005. 42 Anne-Christine Taylor e Philippe Descola, El conjunto Jívaro en los comienzos de la conquista española del Alto Amazonas, in «Bulletin Institut Français d’études andines», X, 1981, nn. 3-4; Anne Christine Taylor, Historia pós-colombiana da alta Amazônia, in Manuela Carneiro da Cunha (a cura di), História dos Índios no Brasil, São Paulo, Companhia das Letras, 1992; Anne Christine Taylor, The Western Margin of Amazonia from the Early Sixteenth to the Early Nineteenth Century, in Frank Salomon e Stuart B. Schwartz, The Cambridge History of the Native People of the Americas. III: South America, parte II, Cambridge, Cambridge University Press, 1999. 43 Julian H. Steward e Alfred Métraux, Tribes of the Peruvian and Ecuadorian Montaña, in Julian H. Steward (a cura di), Handbook of American Indians. III: The Tropical Forest Tribes, Washington(D.C.), United States Government Printing Office, 1948, pp. 652-653. 44 Questi e altri documenti sono raccolti in Diego Hortegón, Toribio de Ortiguera Conde de Lemos et al., La gobernación de los Quijos (1559-1621), a cura di Cristóbal Landázuri, Quito, Instituto de Historia y Antropología Andina, 1989. In particolare: Diego Hortegón, Relación del estado en que se encuentra la gobernación de Quijos y La Canela, pp. 257-272; Toribio de Ortiguera, Jornada del Río Marañon, pp. 357-380; Pedro Fernández Ruiz de Castro y Osorio Conde de Lemus y Andrade, Descripción de la provincia de los Quijos, pp. 399-416. 226 Note Hortegón, Relación del estado, cit., p. 264. Ibidem. 47 Ortiguera, Jornada, cit., pp. 361-362. 48 Ibidem, pp. 376-377. 49 Ibidem, p. 377. 50 Fernández Ruiz de Castro, Descripción, cit., p. 407, riporta anche la distribuzione di 17 encomenderos secondo il numero di indios tributari assegnati: il più ricco aveva assegnati 140 tributari, del valore di 6.700 reali; il più povero aveva 7 tributari, del valore di 336 reali. Molti encomenderos vivevano a Quito. 45 46 Capitolo secondo 1 Relación que escribió Fr. Gaspar de Carvajal, fraile de la orden de Santo Domingo de Guzmán, del nuevo descubrimiento del famoso Río Grande que descubrió con muy gran ventura el Capitán Francisco de Orellana desde su nacimiento hasta salir a la mar, con cinquenta y siete hombres que trajo con sigo y se echó a su ventura por el dicho Río, y por el nombre del capitán que lo descubrió se llamó el Río de Orellana. Così il titolo della relazione che è riprodotta in Fray Fray Gaspar de Carvajal, Pedro Arias de Almesto e Alonso de Rojas, La aventura del Amazonas, Madrid, Dastin, 2002. Il libro contiene una introduzione a cura di Rafael Díaz Maderuelo. Esistono altre versioni della relazione di Carvajal, tra le quali quella raccolta da Oviedo (cfr. infra); mi sono basato però, salvo che in qualche caso espressamente annotato, sulla versione contenuta in questo libro. Sulle vicende generali della spedizione di Gonzalo Pizarro e di Francisco Pizarro, abbiamo tenuto conto anche delle opere di Gonzalo Fernández de Oviedo, Historia general y natural de las Indias (1551-1555), 5 voll., Madrid, Atlas, 1992; trad. it. parz. Le scoperte di Cristoforo Colombo nei testi di Fernandez de Oviedo, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1990, e di P. Cieza de León, Obras Completas. II: Las Guerras civiles Peruanas, Madrid, Consejo Superior de Investigaciones Cientificas, 1985. Due dei massimi autori, contemporanei degli avvenimenti qui narrati. Per una storia generale della Conquista del Perú si veda John Hemming, La fine degli Incas, Milano, Rizzoli, 1975. 2 Carvajal, Relación, cit., p. 34, n. 9; cfr. anche infra, nota 25 del cap. V, e da verificare l’Appendice 1, «Río delle Amazzoni: carta di identità». 3 Ladislao Gil Munilla, Descubrimiento del Marañon, Sevilla, Escuela de Estudios Hispano-Americanos, 1954, pp. 275-276. 4 Ibidem, p. 274. Si veda l’Appendice 1, «Río delle Amazzoni: carta di identità». 5 Sul mito dell’oro e dell’Eldorado: M. Livi Bacci, Eldorado nel pantano. Oro, schiavi e anime tra le Ande e l’Amazzonia, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 13-39. 6 Sui preparativi della spedizione e altro, si veda Costantino Bayle, El Dorado fantasma, Madrid, Publicaciones del Consejo de la Hispanidad, 1943, Note 227 pp. 155-157; Frederick A. Kirkpatrick, Los Conquistadores Españoles, Madrid, Espasa Calpe, 1986, pp. 156-164; ed. orig. The Spanish Conquistadores, London, A&C Black, 1946. Esistono divergenze sui numeri della spedizione, ma non sulla sostanza. 7 Cieza de León, Las Guerras, cit., p. 180. 8 Bayle, Eldorado, cit., p. 163. 9 Cieza de León, Las Guerras, cit., p. 180. 10 Carta de Pizarro al Rey fechada en Tomebamba el 3 de Spetiembre de 1542, www.eldoradocolombia.com/index.htlm, estratto 10 gennaio 2012; Kirkpatrick, Los Conquistadores, cit., p. 161 11 Cieza de León, Las Guerras, cit., p. 181. 12 Per quanto riguarda il numero dei rionauti, il titolo della relazione di Carvajal parla di 57 uomini, più lo steso Orellana, (cfr. Carvajal, Relación, cit., p. 31), cioè 58 in tutto; Oviedo, che ne raccolse nomi e luogo di provenienza a Santo Domingo (Oviedo, Historia, cit., vol. v, pp. 237-238), ne nomina 54; Cieza de Leon (Las Guerras, cit. p. 183) parla dell’ordine di Pizarro a Orellana di «partire con 70 uomini»; Bayle (Eldorado, cit., p. 168) parla di 50 uomini, oltre a Orellana. 58, come segnalato da Carvajal, che con loro navigò per otto mesi, è il numero che qui assumiamo. 13 Carvajal, Relación, cit., p. 37. 14 Il barco costruito sulle rive del Coca sarebbe stata un’imbarcazione senza coperta, a remi, con la possibilità di armare un albero e una vela. Il brigantino, come quello che venne costruito in seguito, era provvisto di coperta, albero e vela. 15 Carvajal, Relación, cit., p. 40. 16 Una goa equivaleva a 3 palmi e a circa 0,75 metri. 17 Carvajal, Relación, cit., p. 52. 18 Ibidem, p. 53. 19 Ibidem, p. 55. 20 Ibidem, p. 61. 21 Ibidem, p. 63. 22 «Vedemmo la bocca di un altro grande fiume a mano sinistra, che entrava in quello che navigavamo, la cui acqua era nera come tinta, e per questo gli ponemmo nome Ríio Negro, che correva tanto e con tanta irruenza che per venti leghe faceva come una striscia nell’altra acqua, senza mescolarsi l’una con l’altra» (Carvajal, Relación, cit., pp. 63-64). 23 Ibidem, pp. 64-65. 24 Ibidem, p. 67. 25 Ibidem, p. 68. 26 Ibidem, p. 69. 27 La spedizione di Diego de Ordáz – già compagno di Cortés nella conquista messicana – partì dalla Spagna nel 1531 con l’intenzione di risalire il Río delle Amazzoni, ma tre delle quattro caravelle fecero naufragio nell’estuario. Fece poi rotta verso Cubagua, esplorò avventurosamente l’Orinoco, finì incarcerato a 228 Note Cubagua e morì in circostanze misteriose. La narrazione delle vicende si trova in Oviedo, Historia, cit., vol. II, pp. 386-410. Sempre secondo Oviedo (vol. V, p. 390), i dispersi nel naufragio amazzonico furono trecento. 28 Carvajal, Relación, cit., pp. 71-72. 28 Ibidem, pp. 79 e 81. 30 Ibidem, p. 79. Montealegre si trova a circa 600 chilometri dal mare aperto. «E qui ci rendemmo conto che non stavamo molto lontani dal mare, perché arrivava la rimonta della marea» (ibidem, p. 81). 31 Ibidem, p. 83. 32 Ibidem, p. 84. 33 Ibidem, p. 85. 34 Ibidem, p. 86. 35 Dopo diversi giorni di navigazione in mare aperto «senza sapere dove ci trovavamo e dove ci stavamo dirigendo, e cosa sarebbe stato di noi, arrivammo all’isola di Cubagua» (ibidem, p. 87). 36 Ibidem, p. 88. 37 Oviedo, Historia, cit., vol. V, p. 302. La sentenza dispose che dopo la decapitazione «la testa venga portata alla Ciudad de los Reyes [Lima], principale città di questo regno, e sia posta e inchiodata alla tribuna di questa città, con un cartello a lettere grandi che dica “Questa è la testa del traditore Gonzalo Pizarro, del quale si fece giustizia nella valle di Xaquixaguana, nella quale dette battaglia campale contro lo stendardo reale di Sua Maestà, volendo difendere il suo tradimento e la sua tirannia: che nessuno osi toglierla, sotto pena di morte”». 38 Kirkpatrick, Los Conquistadores, cit., p. 182. In realtà i fratelli Pizarro coinvolti nella distruzione dell’impero Inca furono quattro: Francisco, il maggiore (1478-1541) e i tre fratellastri Hernando (1501-1578), l’unico a non morire di morte violenta, pur dopo una lunga detenzione dorata in Spagna; Juan (1511-1536) e Gonzalo (?-1548): cfr. Hemming, La fine, cit., pp. 604-605. 39 Scrisse Oviedo: «Io parlai in questa città di Santo Domingo al capitano Francesco de Orellana: e arrivò qui di lunedì il 22 del mese di novembre del 1542 [...] e parlai ad altri Hidalghi e persone che si trovarono in questa scoperta». Non parlò, almeno in quella occasione, con Carvajal, rimasto nell’isola di Cubagua. Così Oviedo, Historia, cit., vol. V, p. 401. 40 Carvajal, Relación, cit., p. 23. Capitolo terzo 1 La narrazione di questo capitolo si rifà, in particolare, alle relazioni del baccelliere Francisco Vázquez e di Pedro Arias de Almesto, entrambi partecipanti alla spedizione, e che di questa scriveranno al loro rientro in patria. Le due relazioni sono in gran parte sovrapponibili, ma divergono in alcuni particolari, poiché Almesto introdusse alcuni riferimenti tendenti a sottolineare la sua posizione di estraneità e opposizione alla ribellione di Aguirre. Almesto Note 229 mai cit. prima mai cit. prima fu autore di un resoconto per il tribunale dell’Audiencia di Santa Fe e poi, avuta la relazione di Vázquez, la fece propria, integrandola. Si veda: Pedro Arias de Almesto, Jornada de Omagua y Dorado, in Fray Gaspar de Carvajal, Pedro Arias de Almesto e Alonso de Rojas, La aventura del Amazonas, Madrid, Dastin, 2002. Il testo è tratto da un manoscritto della Biblioteca nazionale di Madrid. Per la relazione di Vásquez, si veda Francisco Vázquez, La veridica istoria di Lope de Aguirre, Palermo, Sellerio, 1981. Ho citato indifferentemente le due relazioni, con preferenza per quella di Vázquez per la bella traduzione che ne ha fatto Angelo Morino, che ha utilizzato l’edizione di Manuel Serrano y Sanz, del 1909. Una terza relazione, che contiene interessanti particolari non contenuti nelle relazioni di Almesto e Vázquez, si deve a un altro partecipante della spedizione, il capitano Diego Francisco Altamirano. La relazione fu consegnata al frate carmelitano Vázquez de Espinosa – che viaggiò per le Americhe in lungo e in largo e visitò la città di Chachapoyas nella quale Altamirano risiedeva – dall’autore stesso, che doveva essere assai in là con gli anni. Si veda Antonio Vázquez de Espinosa, Compendio y descripción de las Indias Occidentales, Madrid, Atlas, 1969, libro III, capp. XVI-XXII («De la entrada que el gobernador Pedro de Ursua hizo por el Rio de los Motilones por orden del Virrey Marqués de Cañete»). Un altro testimone diretto, Pedro de Munguia, riferì sulle vicende della spedizione, ma si concentrò soprattutto sugli eventi nell’isola Margarita, e interessa marginalmente le questioni amazzoniche. Per la storiografia della spedizione, si veda Rafael Díaz Maderuelo, Introducción, in Carvajal, Arias de Almesto e de Rojas, La aventura, cit. 2 Andrés Hurtado de Mendoza, marchese di Cañete, fu il terzo viceré del Perú, dal 1555 al 1560. «Venticinque uomini, per lo più addetti ai cantieri, dodici negri falegnami e segatori, molti strumenti di ferro necessari, chiodi e catrame» (Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 12). Il cantiere si trovava a valle della confluenza con il Mayo, presso una località denominata Santa Cruz de Saposoa. 3 Questa, come altre spedizioni spagnole, aveva un largo seguito di indios e di neri schiavi. Lo esigevano il servizio dei nobili e degli hidalgos partecipanti e il trasporto delle scorte di viveri, delle armi, degli utensili e di strumenti e materiali vari. Con 300 (o 370, secondo Altamirano) spagnoli nella spedizione, è possibile che vi fosse un seguito doppio di personale di servizio. La relazione Altamirano precisa «370 soldati e più di 500 persone di servizio di indios e neri, e carpentieri e ferraioli». 4 Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 29. 5 Altamirano, cit., § 1209. 6 Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 27. 7 Almesto, Relación verdadera, cit., p. 107. Sugli Omaguas, Antonio Porro, História indigena do alto e médio Amazonas, in Manuela Carneiro da Cunha (a cura di), História dos Índios no Brasil, São Paulo, Companhia das Letras, 1992, p. 182. 8 Emiliano Jos, La expedición de Ursúa al Dorado y la Rebelión de Lope de Aguirre, Huesca, Campo, 1927, p. 169?. Secondo Porro, situati tra la confluenza e la laguna del Tefé e quella del Coarì, conosciuti a partire dal secolo successivo come Aisuar: cfr. Porro, História, cit., p. 182. 9 Altamirano, cit., § 1805. 230 Note Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 50 Ibidem, p. 58. La tonnellata era misura di capacità: in realtà era lo spazio occupato da un tonel (barile, botte) di vino; la Pinta e la Niña di Colombo erano caravelle di circa 60 tonnellate, la Santa María circa il doppio: si veda Samuel E. Morison, Admiral of the Ocean Sea, New York, MJF Books 1970, pp. 114-119; trad. it. Cristoforo Colombo. Ammiraglio del mare oceano, Bologna, Il Mulino, 1985. I due brigantini vennero battezzati Santiago e Vitoria, cfr. Maderuelo, Introducción, cit., p. 20. 12 Jos, Expedición, cit. p. 169?. 13 Altamirano riferisce di due spagnoli uccisi con frecce avvelenate (Altamirano, cit., § 1211); Almesto-Vázquez raccontano un altro episodio raccapricciante: in una scaramuccia, viene catturato un indio, che «fu ferito dal sergente Juan González con una delle sue frecce, per sapere se era unta con quell’erba cattiva, e morì il giorno dopo, alla stessa ora» (Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 74; anche Porro, História, cit., p. 189). 14 L’effetto delle maree comincia a essere percepibile alla stretta di Obidos, a circa 800 chilometri dal mare; a 400-500 chilometri dal mare il livello del fiume cresce di oltre un metro; a 200 chilometri, si arriva a 4 metri («si percepisce a 200 leghe dal mare» secondo Almesto, Relación verdadera, cit., p. 145). Vicino all’Atlantico si crea un’onda di marea (pororoca o macareo), fino a 2 metri di altezza («alta come una casa»), con velocità di 10-15 chilometri all’ora che crea grandi difficoltà alla navigazione, come testimoniano le relazioni delle prime spedizioni. Si veda Michael Goulding, Ronaldo Barthem ed Efrem J. Ferreira, The Smithsonian Atlas of the Amazon, Washington (D.C.) - London, Smithsonian Institution, 2003, p. 38. 15 Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 75. 16 Almesto, Relación verdadera, cit., p 142. Secondo Altamirano (§ 1211) gli indios abbandonati sarebbero stati 170. Non sappiamo quanti ne venissero imbarcati nei due brigantini. 17 Almesto, Relación verdadera, cit., p. 144. 18 L’isola Margarita, secondo il cosmografo López de Velasco, che scriveva negli anni Settanta del Cinquecento, «ha in tutto circa 60 famiglie» (di spagnoli) in due villaggi; la devastazione di Aguirre e dei corsari e l’esaurirsi dei fondali di perle ne avevano presumibilmente compromesso il popolamento. L’isola è prossima alla costa nord-orientale del Venezuela. L’isola di Cubagua, nella quale approdò Orellana, è vicinissima alla Margarita, e secondo López de Velasco fu abbandonata in seguito alla fine della pesca delle perle. Si veda Juan López de Velasco, Geografía y descripción universal de las Indias, in «Boletin de la Sociedad Geográfica de Madrid», 1894, pp. 136-138. 19 Vázquez, La veridica istoria, cit., 109. «Marañones» sono chiamati da Aguirre i partecipanti alla spedizione, da uno dei nomi del fiume. 20 La lettera a Filippo II è riportata nella relazioni di Almesto e di Vázquez (cfr. Vázquez, La veridica istoria, cit., pp. 127-135). Aguirre stesso fa la lista nominativa delle persone della sua spedizione uccise («e io ammazzai...»): 25 lungo il fiume e 14 nell’isola. Su 300 spagnoli, è una bella proporzione! Fa anche la lista di venti compagni (capitani e ufficiali) che lo seguono: al primo posto c’è anche «Juan Jerónimo de Espindola, genovese, ammiraglio». 10 11 Note 231 Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 158. Ho qui di proposito ignorato le ricostruzioni, e le interpretazioni, di cronisti successivi (Ortiguera, Aguado, Simon e altri). 23 Almesto, Relación verdadera, cit., p. 110, nota 1. 24 Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 12. 25 Almesto, Relación verdadera, cit., p 103. 26 Ibidem, p. 107. 27 Ibidem, p. 138. 28 Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 134. 29 Ibidem. 30 La lunghezza della provincia dei Carari viene valutata in 150 leghe dai naviganti, cioè un decimo del percorso totale; supponendo che i 10 mila fossero insediati su una delle due rive, e che l’altra avesse contato altrettanti abitanti si avrebbe un totale teorico di 20 mila; se anche il resto del fiume fosse stato abitato come la provincia dei Carari, avremmo 200 mila abitanti in tutto! 31 Diecimila abitanti avrebbero potuto essere distribuiti in una cinquantina di villaggi di 200 abitanti ciascuno; se i naviganti avessero impiegato una settimana (una ventina di leghe al giorno), avrebbero scorto sette-otto villaggi lungo il percorso giornaliero. 32 Altamirano o Altamirano, Relación verdadera, cit., § 1203. Almesto? 33 Vázquez, La veridica istoria, cit., p. 73. 34 Ibidem, p. 27. 35 Ibidem, p. 78. 36 Ibidem, p. 50; comunque la fame di servizio doveva essere grande anche in seguito, visto che alla partenza dall’isola Margarita Aguirre si porta dietro un centinaio di indios catturati nell’isola (cfr. ibidem, p. 110). 37 Ibidem, p. 81. La cifra di 15 mila non è citata da Almesto. A cosa si riferisce? A tutto il percorso? Oppure alle province abitate? O alle zone nelle quali fecero sosta? 38 Ibidem. 21 22 Capitolo quarto 1 Per una storia generale dei gesuiti in Mainas disponiamo di una vasta bibliografia. Durante il primo periodo delle missioni l’opera più dettagliata è la Relazione di padre Francisco Figueroa, Informe de las misiones de el Marañon, Gran Pará o Río de las Amazonas, datata 8 agosto 1681: cfr. Francisco de Figueroa, Cristóbal de Acuña et al., Informes de Jesuitas en el Amazonas, 1600-1684, Iquitos, IIAP-CETA, 1986. Sull’intero periodo, due riferimenti importanti sono quelle di Juan de Velasco, Historia moderna del reyno de Quito y crónica de la provincia de la Compañia de Jesús en el mismo Reyno, 3 voll., Quito, 1942, e quella di José Chantre y Herrera, Historia de las misiones de la Compañia de Jesús en el Marañon Español (1637-1767), Madrid, Imp. De 232 Note A. Aurial, 1901 [1770]. Tra gli storici posteriori, sono affidabili le opere di Antonio Astrain, Historia de la Compañia de Jesús en la asistencia de España, vol. V, Madrid, Razon y Fe, 1916, pp. 435-456; vol. VI, Madrid, Razon y Fe, 1920, pp. 595-632; vol. VII, Madrid, Razón y Fe, 1925, pp. 401-432; e di José Jouanen, Historia de la Compañia de Jesús en la antigua provincia de Quito, 1570-1774. I: La vice provincia de Quito, 1570-1696, Quito, Editorial Ecuatoriana, 1941; II: La vice provincia de Quito, 1696-1773, Quito, Editorial Ecuatoriana, 1943. Si vedano anche Costantino Bayle, Notas sobre bibliografía jesuítica de Mainas, in «Missionalia Hispánica», VI, n. 19, 1949, pp. 277-317, e Francisco Esteve Barba, Historiografia Indiana, Madrid, Gredos, 1992. 2 Lettera di padre Lucas de la Cueva al padre provinciale, 25 ottobre 1640, in Archivo General de la Compañia de Jesús, Quito, Legajo III, n. 198. 3 José Del Rey Fajardo (a cura di), Misiones Jesuíticas en la Orinoquía (1625-1767), San Cristóbal, Universidad Católica del Táchira, 1992. 4 Anne Christine Taylor, The Western Margin of Amazonia from the Early Sixteenth to the Early Nineteenth Century, in Frank Salomon e Stuart B. Schwartz, The Cambridge History of the Native People of the Americas. III: South America, parte II, Cambridge, Cambridge University Press, 1999, pp. 217-218. 5 Un’equivalenza del tutto approssimativa: la Spagna ha una superficie di 506 mila chilometri quadrati; i confini della regione di Mainas non erano ben definiti. 6 La cifra di 100 mila è indicativa: nel 1681 padre Figueroa stimava la popolazione della regione in 60 mila, ma tutto fa ritenere che nel quarantennio precedente vi fosse stato un forte declino. 7 Durante la stagione delle piogge, da dicembre-gennaio a maggio-giugno, i fiumi erano in forte crescita, con aumento della velocità della corrente e maggiori difficoltà di navigazione. Gli altri ingressi possibili, via Ambato o Jaen, erano assai più difficoltosi. 8 Borja fu spostata a valle, verso la confluenza del Pastaza, nel 1749. Già Figueroa, un secolo prima, ne aveva raccomandato lo spostamento a un sito meno eccentrico rispetto alla regione che doveva governare. 9 Manuel J. Uriarte, Diario de un misionero de Mainas, 2 voll., a cura di Constantino Bayle, Madrid, Instituto Santo Toribio Mogrovejo, 1952. 10 Una serie di regole riguardava il viaggio: era raccomandato, da Quito, l’itinerario via Archidona e Napo. Ogni padre aveva diritto a un corredo che comprendeva i vestiti, le camice, le scarpe, letto, materasso e lenzuola e altri effetti per uso personale. Era assegnato a ogni padre – a valere sui 200 pesos di stipendio provvisti dall’erario – l’equivalente di 60 pesos in tessuti e di 30 pesos in asce, machete e chiodi da distribuire agli indios. Cfr. Ann Golob, The Upper Amazon in Historical Perspective, tesi di dottorato, Ann Arbor (Mich.), City University New York, 1982, University Microfilm International, pp. 110116. Il lavoro di Ann Golob è il testo moderno più completo e documentato sulla società Mainas nell’epoca delle Missioni. 11 Uriarte, Diario, cit., pp. 67-73, per questa e le precedenti citazioni. 12 Ogni anno partiva da Quito il despacho per le Missioni, ovvero un attenzione: nel file trasporto – per via terra, poi via fiume – delle merci richieste dai padri: tela, questo era l’esponente 11bis, qui trasformato in 12. nel file, però, dopo el file n 12. dopo Note 233 ferro, utensili, farina, oggetti per il culto, nelle quantità compatibili con le disponibilità del sinodo quitense. Vi si impiegava un alto numero di indios per i trasporto a spalla, o come rematori delle canoe. Il viaggio durava sei mesi. Si veda Uriarte, Diario, cit., p. 89, nota. 13 Jouanen, Historia, cit., pp. 336-337. 14 Sui primi tentativi di padre Ferrer, all’inizio del secolo, cfr. il cap. I, p. 00. 15 Manuel Biedma, La Conquista Francescana del Alto Ucayali, Iquitos, IIAP-CETA, 1989. 16 Golob, Upper Amazon, cit., pp. 54-67. 17 Ibidem, pp. 78-79. 18 Ibidem, pp. 103-104. 19 José Felix Heredia, La antigua provincia de Quito de la Compañia de Jesús y sus misiones entre infieles, 1566-1767, Riobamba, Ecuador, 1924, p. 31. 20 Figueroa, Informe, cit., p. 241. 21 Costantino Bayle, Las misiones, defensa de las fronteras Mainas, in «Missionalia Hispánica», VIII, n. 24, 1951, p. 433. 22 Taylor, The Western Margin, cit., p. 223. 23 Nel 1749 un incendio distrusse la chiesa e la casa parrocchiale di La Laguna, e l’archivio lì conservato. Vi sono abbondanti prove che i registri parrocchiali venivano tenuti sia nelle Missioni del Paraguay sia in quelle dei Mojos e dei Chiquitos, ma negli archivi, fino a oggi, non se ne sono trovate tracce. 24 Sulle fonti demografiche per queste regioni, si veda Massimo Livi Bacci, Conquista. La distruzione degi indios americani, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 213 ss., e Id., Eldorado nel pantano. Oro, schiavi e anime tra le Ande e l’Amazzonia, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 130 ss. 25 Figueroa, Informe, cit., pp. 160-161. Lo stesso Figueroa (ibidem, p. 165), per Borja, fornisce la cifra di 3.300 battesimi nel periodo 1638-1661 desunta dai libri parrocchiali; 1.500 erano di bambini. Nella media, si tratterebbe di 35 battesimi di bambini l’anno, per una popolazione declinante da 700 a 200 tributari (da 3500 a 1.000 persone, con una media di 1.750; la natalità sarebbe stata quindi pari a 20‰ – probabilmente inferiore della metà a quella che sarebbe da considerarsi normale. Tuttavia si tratta di cifre non incoerenti, perché è da presumere che solo una quota degli indios delle encomiendas fosse stata effettivamente cristianizzata. 26 Ibidem, p. 239. 27 Ibidem, p. 241. 28 Archivo de la Compañia de Jesús, Quito, Legajo XIV, fg. 1294. Il significato di questa cifra è però assai vago e probabilmente si riferisce ai battesimi sia dei bambini sia degli adulti. Ma è del tutto incoerente la cifra di 22.800 battesimi a Borja, nel periodo 1636-1686, quando Figueroa ne menziona appena 3.300 fino al 1661. Le cifre per le varie missioni sono arrotondate, mentre è specificato il periodo di riferimento. Si veda anche Appendice 2, «Artimetica amazzonica». attenzione: nel file mancava l’esponente 14 (ora 15) 234 Note 29 Golob, Upper Amazon, cit., p. 193; Jouanen, Historia, cit., p. 426; Paul Waltraud Grohs-Paul, Los Indios del Alto Amazonas del siglo XVII al siglo XVIII. Poblaciones y migraciones en la antigua provincia de Maynas, Bonn, Estudios Americanistas, 1974, p. 35. 30 Heredia, La antigua provincia, cit., p. 31. 31 La lista delle missioni fatta da Velasco è stata ripresa da Bayle, nell’appendice a Uriarte, Diario, cit., vol. II, pp. 244-246. 32 Heredia, La antigua provincia, cit., p. 31. 33 Il Tratado de Limites (Trattato dei confini) tra Spagna e Portogallo venne firmato nel 1750 e sancì i confini tra le colonie spagnole e quelle portoghesi stabilite da una commissione mista. I confini – oggi tra Brasile e stati confinanti – sono rimasti da allora invariati. 34 Golob, Upper Amazon, cit., p. 231. 35 Heredia, La antigua provincia, cit., p. 31. 36 Manuel M. Marzal, As reduçoes indigenas na Amazonia do vice-reinado Peruano, in Eduardo Hornaert (a cura di), Das Reduções latino americanas às lutas indígenas atuais, Cehila, Paulinas, São Paulo, 1982. Capitolo quinto 1 Francisco Vázquez, La veridica istoria di Lope de Aguirre, Palermo, Sellerio, 1981, p. 22. 2 Alonso de Rojas, Relación del descubrimiento del Río de las Amazonas, hoy San Francisco de Quito, y Declaración del mapa donde esta pintado, in Fray Gaspar de Carvajal, Pedro Arias de Almesto e Alonso de Rojas, La aventura del Amazonas, Madrid, Dastin, 2002. Sull’attribuzione della Relación, si veda l’introduzione al volume, a cura di Rafael Díaz Maderuelo. 3 Nel 1616 i portoghesi fondarono sulla riva sud del Pará – così era chiamato il canale meridionale dell’estuario del Río delle Amazzoni – il forte di Presépio, poi battezzato Santa Maria de Belém, o Belém (il nome che utilizziamo in queste pagine), o più volgarmente Pará, che diventerà la città più importante dell’Amazzonia. L’anno precedente, l’insediamento francese di San Luis, sulla costa atlantica, a sud di Belém, era stato espugnato dai portoghesi. A partire dal 1621 le regioni del Maranhão (San Luis) e del Pará (Belém) vennero governate direttamente da Lisbona, e non da San Salvador de Bahia, che era la capitale della colonia. Questo avvenne anche perché il regime dei venti rendeva più agevole e spedita la navigazione transoceanica tra Belém e Lisbona, che non quella lungo costa tra Belém e Bahia. Regina Maria A. Fonseca Gadelha, Conquista y ocupação da Amazônia: a fronteira Norte do Brazil, in «Estudos Acançados», 16, 45, 2002. 4 Fray José de Maldonado, Relación del descubrimiento del Río Amazonas, in Historiadores y Cronistas de las Misiones, Quito, Biblioteca Ecuatoriana Minima, 1960, p. 65. 5 Fray Laureano de la Cruz, Nuevo descubrimiento del Río de Marañon llamado de las Amazonas (1651), Madrid, La Irradiación, 1900, p. 49. Note 235 6 Dal 1580 al 1640 vi fu un’unione personale tra i regni di Spagna e di Portogallo sotto Filippo II, Filippo III e Filippo IV. 7 de la Cruz, Nuevo descubrimiento, cit., p. 49. 8 de Rojas, Relación, cit., p. 227. 9 Ibidem, p. 221. 10 David G. Sweet, A Rich Realm of Nature Destroyed. The Middle Amazon Valley, 1640-1750, tesi di dottorato, The University of Wisconsin, 1974, The University Microfilms, Ann Arbor (Mich.), p. 190. 11 La Corona aveva richiesto ai governatori Bento Maciel Parente, nel 1626, e Francisco Coelho, nel 1634, di intraprendere le spedizioni esplorative dell’Amazzonia che per varie ragioni non vennero poi intraprese. Nel 1622 il portoghese Luis Aranha de Vasconcelos risalì il fiume per un lungo tratto, fino al Río Negro. Della prime due spedizioni ne parla Acuña nei capp. 5 e 6 (cfr. n. 23 qui sotto). 12 Il meridiano 46° 37’ «taglia» il Brasile lungo una linea che sbocca al mare (approssimativamente) tra Belém e San Luis a nord e nei pressi di Santos a sud. Già l’insediamento di Belém sarebbe stato tecnicamente in terre di pertinenza della Spagna. 13 Díaz Maderuelo, Introducción, in de Carvajal, Arias de Almesto e de Rojas, La aventura, cit., p. 28; G. Edmunson, The Voyage of Pedro Teixeira on the Amazon from Pará to Quito and Back, 1637-39, in «Transactions of the Royal Historical Society», IV serie, vol. III, 1920. 14 de Rojas, Relación, cit., p. 224, e anche n. 34. Su Teixeira si veda anche Anete Costa Ferreira, A Expedição de Pedro Teixeira, Lisboa, Ésquilo, 2000. 15 Sweet, A Rich Realm, cit., p. 193. 16 de la Cruz, Nuevo descubrimiento, cit., pp. 62 ss. 17 Díaz Maderuelo, Introducción, cit., pp. 19-20; Edmunson, The Voyage, cit., p. 61. 18 Le citazioni sono tratte da de Rojas, Relación, cit., pp. 228 e 225. 19 La cronaca della spedizione di Teixeira si trova anche in Annaes Historicos de Berredo, III ed., Firenze, Barbèra, 1905, pp. 266-267, 271-275. Cfr. anche John Hemming, Tree of Rivers. The Story of the Amazon, New York, Thames and Hudson, 2008, p. 55. 20 Sweet, A Rich Realm, cit., pp. 194-195. 21 Per questa e le precedenti citazioni, cfr. de Rojas, Relación, cit., pp. 217, 232, 225. 22 Ibidem, p. 223. 23 Cristóbal de Acuña, Nuevo descubrimiento del gran Río del Amazonas en el año 1639, in Francisco de Figueroa, Cristóbal de Acuña et al., Informes Jesuitas en el Amazonas, 1600-1684, Iquitos, IIAP-CETA, 1986, p. 35. Nelle pagine successive, citazioni e riferimenti sono a questo testo. Un’edizione più recente estesamente annotata, è quella a cura di Ignacio Arellano, José M. Díez Borque e Gonzalo Santonja, Nuevo descubrimiento del Gran Río de las Amazonas, Madrid, Universidad de Navarra - Iberoamericana - Vervuert, 2009. Il testo di Acuña è suddiviso in 83 brevi capitoli, e nelle note che seguono si citerà il numero del capitolo anziché la pagina. 236 Note Acuña, Nuevo descubrimiento, cit., cap. 50. Ibidem, cap. 20. Va ricordato ancora una volta il significato relativo delle misure in leghe in questa e altre cronache. Le 1356 «leghe castigliane» di distanza dalla confluenza dell’Aguarico a Belém corrispondono, a un dipresso, a circa 4.500 chilometri, cosicché la lunghezza media della lega di Acuña corrisponderebbe a 3,3 chilometri. La «lega castigliana» equivaleva a 4,19 chilometri. Prima del XVII secolo, era pari a 1/17,5 di grado di longitudine (6,3 chilometri), poi sostituita dalla lega pari a 1/20 di grado (5,56 chilometri). Si tenga poi conto che la navigazione dei rionauti era complicata dalle molte deviazioni dovute alla percorrenza di bracci di fiume secondari, alle isole, alle correnti, cosicché ogni indicazione di misura va considerata in senso relativo. 26 Ibidem, cap. 23. 27 Su pesci e tartarughe, ibidem, capp. 25 e 26. La botija, misura di capacità, valeva 2 arrobas, 12 libbre e 6 once. Una arroba valeva 25 libbre. 28 Ibidem, cap. 32. 29 Ibidem, cap. 34. 30 Ibidem, cap. 50. 31 Ibidem, capp. 51-55, dedicati agli Omaguas. 32 Sweet, A Rich Realm, cit., p. 209. 33 Acuña, Nuevo descubrimiento, capp. 55-60, dedicati ai Curuziraris e all’oro. 34 Ibidem, capp. 61-62, dedicati agli Yorimanes. Una fánega corrispondeva a 55,5 litri; ipotizzando un’equivalenza con 50 chili di farina, si tratterebbe di 250 quintali. Una razione di mezzo chilo giornaliero avrebbe offerto i due terzi del fabbisogno calorico di un adulto (facilmente completato da frutta, caccia e pesca), e avrebbe assicurato il sostentamento di 1.000 persone per cinquanta giorni. 35 Ibidem, cap. 64. Tra gli Yorimanes e i Bafururú passano la confluenza del fiume Cuchiguará, e risalendolo per un lungo tratto si sarebbe giunti, secondo una leggenda che Acuña raccoglie, a una popolazione di giganti alti 16 palmi (un palmo = 20,9 cm). 36 Ibidem, capp. 65-67. 37 Ibidem, capp. 68-71, dedicati ai Tupinambás, capp. 68-71. L’isola è lunga circa 280 chilometri, «60 leghe» secondo Acuña, con una equivalenza di 4,6 chilometri per ogni lega. 38 Ibidem, cap. 74, dedicato ai Tapajós. 39 Ibidem, cap. 75, dedicato alle malefatte dei portoghesi. Acuña segnala anche che i portoghesi solevano erigere croci di legno nei villaggi degli indios: la scomparsa o distruzione di queste veniva considerato atto sacrilego e giustificazione sufficiente per renderli schiavi. Fatto reale, o leggenda antiportoghese? 40 Ibidem, cap. 83. 41 Ibidem, capp. 40-42, su riti, deità, sciamani. 42 Ibidem, cap. 36. 43 Ibidem, cap. 37, sulle armi e gli utensili; cap. 38 su canoe e navigazione. 24 25 Note 237 Sweet, A Rich Realm, cit., p. 210. Memorial presentado en el Real Consejo de las Indias sobre el dicho descubrimiento después de la rebellión de Portugal, in Acuña, Nuevo descubrimiento, cit., pp. 102-109. 46 de la Cruz, Nuevo descubrimiento, cit., p 103. La canoa era stata ricavata da un tronco di «100 palmi» e di 19 palmi di circonferenza, ed era lunga 64 palmi e larga 5 (un palmo = 20,9 cm). 47 Ibidem, p. 107-108. 48 Ibidem, p. 109. 49 Ibidem, pp. 115-117. 50 Ibidem, pp. 118-119. 51 Ibidem, pp. 125-127. 52 Hemming, Tree of Rivers, cit., p. 62. 53 de la Cruz, Nuevo descubrimiento, cit., pp. 126-131. 54 Acuña, Nuevo descubrimiento, cit., cap. 43. 44 45 Capitolo sesto 1 Lettera di Juan Nicolás de Valencia, in AA.VV., Informes Jesuitas en el Amazonas, 1600-84, Iquitos, IIAP-CETA, 1986, pp. 315-316. 2 Francisco Figueroa, Informe de las misiones de el Marañon, Gran Pará o Río de las Amazonas, datata 8 agosto 1681: cfr. Francisco de Figueroa, Cristóbal de Acuña et al., Informes de Jesuitas en el Amazonas, 1600-1684, Iquitos, IIAP-CETA, 1986, p. 177. 3 Ibidem, p. 179. 4 Ibidem, p. 181. 5 Waltraud Grohs-Paul, Los Indios del Alto Amazonas del siglo XVII al siglo XVIII. Poblaciones y migraciones en la antigua provincia de Maynas, Bonn, Estudios Americanistas, 1974, p. 48. 6 Figueroa, Informe, cit., p. 185. 7 Ibidem, p. 186. 8 Questa e le citazioni precedenti, ibidem, pp. 188-190. 9 Lettera del provinciale Gaspar Sobrino ai padri Ignacio Navarro e Juan de Rivera, 1640, in Archivo General de la Compañia de Jesús, Quito, Legajo III, n. 201. 10 Figueroa, Informe, cit., p. 191. Il Barbasco (Lonchocarpus urucu), della famiglia delle fabacee, ha radici che ridotte in polvere e gettate in acqua hanno un effetto paralizzante sui pesci, facilitandone la cattura. 11 Lettera dei padri Gaspar Cugia e Lucas de la Cueva al provinciale, padre Gaspar Sobrino, 25 ottobre 1640, in Archivo General de la Compañia de Jesús, Quito, Legajo III, n. 198. 12 José Chantre y Herrera, Historia de las misiones de la Compañia de 238 Note Jesús en el Marañon Español (1637-1767), Madrid, Imp. De A. Aurial, 1901 [1770], p. 142?. 13 Grohs-Paul, Los Indios, cit., p. 45. 14 Ibidem, p. 45; Chantre y Herrera, Historia, cit., p. 230. 15 Lucas de la Cueva a Sebastian Sedeño, 1º gennaio 1665, in Archivo General de la Compañia de Jesús, Quito, Legajo IV, n. 341, 16 José Jouanen, Historia de la Compañia de Jesús en la antigua provincia de Quito, 1570-1774. I: La vice provincia de Quito, 1570-1696, Quito, Editorial Ecuadoriana, 1941, p. 31. 17 Figueroa, Informe, cit., p. 194. 18 Padre Lorenzo Lucero al viceré de la Palata, in AA.VV., Informes, cit., pp. 327-339. 19 Kris Lane, Quito 1499. City and Colony in Transition, Albuquerque, University of New Mexico Press, 2002. 20 Per le spedizioni tra i Jivaros, si veda Jouanen, Historia, vol. I, cit., pp. 322, 418-423, 481-482, 512-518; si veda anche Chantre y Herrera, Historia, cit., pp. 176-181, 283, 303-307. 21 Padre Raimundo de Santa Cruz al governatore di Macas, 26 gennaio 1656, in Archivo General de la Compañia de Jesús, Quito, Legajo IV, n. 306. 22 Citato in Jouanen, Historia, cit., p. 516. 23 Ibidem, p. 517. 24 La lettera di Lucero è trascritta da José Jouanen, Historia de la Compañia de Jesús en la antigua provincia de Quito, 1570-1774. II: La vice provincia de Quito, 1696-1773, Quito, Editorial Ecuatoriana, 1943, p. 390. 25 César W. Astuhuamán Gonzáles, Incas, Jivaros y la obra de Humboldt «Vues des Cordillères», in «HiN», X, n. 19, 2009. 26 Cristóbal de Acuña, Nuevo descubrimiento del gran Río del Amazonas en el año 1639, in Francisco de Figueroa, Cristóbal de Acuña et al., Informes Jesuitas en el Amazonas, 1600-1684, Iquitos, IIAP-CETA, 1986, LI, p. 72. 27 Padre Lorenzo Lucero forse al padre Gaspar Vivas, 3 giugno 1681, in AA.VV., Informes, cit., pp. 321-324. 28 Pablo Maroni, Noticias autenticas del famoso Río Marañon, a cura di Jean Pierre Chaumeil, Iquitos, IIAP-CETA, 1989, p. 327. La chonta è una palma dal legno duro. Pacomio, monaco e santo della Tebaide. 29 Grohs-Paul, Los Indios, cit., p. 81. questa nel file 30 Così Maroni, Archivo General de las Indias, Quito 158, Pastells. era la nota 28bis 31 Ibidem, p. 77. 32 Manuel J. Uriarte, Diario de un Misionero de Mainas, a cura di Constantino Bayle, Madrid, Consejo Superior de Investigaciones Cientificas - Instituto Santo Toribio Mogrovejo, 1952, vol. I, p. 149. 33 Padre Julian ....., in Archivo General de la Compañia de Jesús, Quito ....., Legajo..... . 34 Per questa e le precedenti citazioni si veda Uriarte, Diario, cit., pp. 138-142. Note 239 Ibidem, pp. 146-147. Figueroa, Informe, cit., p. 205. 37 Ibidem, p. 211. 38 Jouanen, Historia, p. 455. vol. I o II? 39 Ibidem. 40 Antonio Astrain, Historia de la Compañia de Jesús en la asistencia de España, vol. VI, Madrid, Razon y Fe, 1920, p. 619. 41 Uriarte, Diario, cit., vol. I, p. 195. 42 Lettera dei padri Gaspar Cugia e Lucas de la Cueva al provinciale, padre Gaspar Sobrino, cit. 43 Padre de la Cueva a padre Cuja, 24 maggio 1665, in Archivo de la Provincia Toletana de la Sociedad de Jesús, M-179, Legajo 406. 44 Figueroa, Informe, cit., p. 42. 45 Maroni, Noticias, cit., p. 202. 46 Rapporto di padre Maroni, 1733, in Archivo General de las Indias, Quito 158, Pastells. 47 Charles C. Mann, 1491. New Revelations of the Americas before Columbus, New York, Knopf, 2005, p. 288. Secondo Carneiro, riferisce Mann, il taglio di un tronco di 4 piedi di diametro richiedeva centoquindici ore di lavoro con un’ascia di pietra (tre settimane, otto ore al giorno di lavoro), contro tre ore usando un’ascia di acciaio. In un altro esperimento, il tempo occorrente per ripulire una supeficie di un acro e mezzo (standard per un campo ripulito con il taglia e brucia) con un ascia di acciaio fu pari a un ventesimo del tempo occorrente utilizzando un’ascia di pietra. 48 La lettera di padre Richter del 1º gennaio 1686 è trascritta in Mauro Matthei, Cartas e informes de misioneros Jesuitas extranjeros en Hispano America, Santiago, Universidad Católica de Chile, 1972, vol. III, p. 193. 49 Jouanen, Historia, cit., pp. 425-426. vol. I o II? 50 Padre Lorenzo Lucero al viceré Duque de la Palata, cit., pp. 337-339. 51 Padre de la Cueva a padre Cuja, cit. 52 Comunicazione di Ann Golob. 53 Padre Schindler a Padre Zarate, 7 agosto 1736, in Archivo General de las Indias, Quito 158, Pastells. 54 Rapporto di D. Diego Riofrio y Peralta (1745) in obbedienza della Real Cédula, 11 dicembre 1742, in Archivo General de las Indias, Quito 191. 55 Da Neto Polo, 30 ottobre 1735, in Archivo General de las Indias, Quito 158, Pastells. 56 Lettera di padre Richter, in Matthei, Cartas, cit., pp. 192-193. 57 Figueroa, Informe, cit., pp. 250-263. 58 Jouanen, Historia, cit., p. 518. vol. I o II? 35 36 240 Note Capitolo settimo 1 Manuela Carneiro da Cunha (a cura di), História dos Índios no Brasil, São Paulo, Companhia das Letras, 1992, p. 12. 2 Julian H. Steward, Tribes of the Montaña. An Introduction, in Id. (a cura di), Handbook of American Indians, 3 voll., Washington (D.C.), United States Government Printing Office, 1948, p. 508. 3 Anna Roosevelt (a cura di), Amazonian Indians. From Prehistory to the Present, Tucson, The University of Arizona Press, 1994, pp. 6-7. 4 William H. Denevan, The Native Population of America in 1492, II ed. Madison, The University of Wisconsin, 1992, pp. 213, 217; Antonio Porro, História indígena do alto e médio Amazonas: séculos xvi a xviii, in Carneiro da Cunha (a cura di), História, cit., p. 176; Anna Roosevelt, Arqueologia Amazonica, ibidem, p. 72. 5 Si veda il cap. III, nota 38. 6 È la tesi che ho sostenuto in vari scritti. Si veda, soprattutto, Massimo Livi Bacci, Conquista. La distruzione degli indios americani, Bologna, Il Mulino, 2005. 7 Denevan, The Native Population, cit., pp. xxvi, 211-213. 8 Ibidem, p. 230. Si tenga conto che il suolo della foresta è povero di principi nutritivi. La pioggia intensa e il calore erodono la superficie, la dilavano di minerali e dei componenti organici. Le foglie, i semi e i tronchi caduti al suolo, le componenti nutritive sono rapidamente riassorbite dall’efficientissimo sistema radicale delle piante tropicali. Charles C. Mann, 1491. New Revelations of the Americas before Columbus, New York, Knopf, 2005, pp. 277-278. 9 Arrotondamento a mezzo milione, aggiungendo l’Amazzonia peruviana ed ecuadoriana, stimata separatamente da Denevan. 10 Fray Laureano de la Cruz, Nuevo descubrimiento del Río de Marañon llamado de las Amazonas (1651), Madrid, La Irradiación, 1900, p. 82. 11 La popolazione media dei villaggi era modesta al tempo della visita di Laureano de la Cruz (il più grande aveva 330 abitanti), e probabilmente si era ridotta, per le traversie subite, al tempo di Fritz, quarant’anni più tardi. Antonio Porro, Os Omaguas do Alto Amazonas. Demografia e padrões de povoamento no século XVII, in Hartman e Pentendo Coelho (a cura di), Contribuções a antropologia em homenagem ão Professor Egon Schaden, São Paulo, Universidade de São Paulo, Fundo de Pesquisas do Museu Paulista, 1981. 12 Francisco Figueroa, Informe de las misiones de el Marañon, Gran Pará o Río de las Amazonas, datata 8 agosto 1681: cfr. Francisco de Figueroa, Cristóbal de Acuña et al., Informes de Jesuitas en el Amazonas, 1600-1684, Iquitos, IIAP-CETA, 1986, p 160. 13 Ibidem, p. 239. 14 Ibidem, p. 241. 15 Ibidem, p. 233. Note 241 16 Ann Golob, The Upper Amazon in Historical Perspective, tesi di dottorato, Ann Arbor (Mich.), City University New York, 1982, University Microfilm International, p. 76 17 I dati sono contenuti nel rapporto di padre Widman, e riportati ibidem, p. 275. 18 Manuel J. Uriarte, Diario de un Misionero de Mainas, 2 voll., a cura di Constantino Bayle, Madrid, Instituto Santo Toribio Mogrovejo, 1952, vol. ??, p. 134 19 Livi Bacci, Conquista, cit., pp. 58-62. 20 Popolazione «vergine», cioè popolazione che non aveva acquisito immunità perché mai esposta in precedenza al virus. Il virus del vaiolo è stato probabilmente trasmesso agli umani in Eurasia in conseguenza di un lungo contatto con bestiame domesticato. Ciò non era avvenuto in America. 21 José Felix Heredia, La antigua provincia de Quito de la Compañia de Jesús y sus misiones entre infieles, 1566-1767, Riobamba, Ecuador, 1924, p. 5 22 Neil Lancelot Whitehead, The Ancient Amerindian Polities of the Amazon, the Orenoco, and the Atlantic Coast, in Roosevelt, Amazonian Indians, cit., p. 42. 23 Golob, Upper Amazon, cit., p. 198. 24 de la Cruz, Nuevo descubrimiento, cit., p. 89. 25 Ibidem, p. 91 26 Figueroa, Informe, cit., p. 239. 27 Heredia, La antigua provincia, cit., p. 15. 28 Lucero a Gaspar Vivas, 3 giugno 1681, in AA.VV., Informes Jesuitas en el Amazonas, 1600-84, Iquitos, IIAP-CETA, 1986, pp. 322-323. 29 Golob, Upper Amazon, cit., p. 198 30 David G. Sweet, A Rich Realm of Nature Destroyed. The Middle Amazon Valley, 1640-1750, tesi di dottorato, The University of Wisconsin, 1974, The University Microfilms, Ann Arbor (Mich.), p. 82 31 Nella Mision Baja, Heredia, La antigua provincia, cit., p. 27. 32 Uriarte, Diario, cit., vol. I, p. 217. 33 Ibidem, pp. 157, p. 216. 34 Ibidem, p. 265. 35 Ibidem. 36 Il modello «stabile» postula che una popolazione con tassi costanti di fecondità e mortalità, per età, assume una struttura per età che è fissa, e solamente determinata da quei tassi, e ha anche un tasso d’incremento costante. In un regime demografico «antico», sul lungo periodo, mortalità e fecondità (salvo violente fluttuazioni) rispettavano approssimativamente queste condizioni. Ecco perché, conoscendo qualche elemento della struttura per età (la percentuale dei bambini, o dei giovani) da un conteggio, o da un censimento (come nel caso delle missioni), nonché il tasso d’incremento (da confronti di più conteggi ad epoche diversi), è possibile inferire (con cautela) i livelli di fecondità e di mortalità sottostanti. 242 Note Figueroa, Informe, cit., p. 230. Massimo Livi Bacci, Eldorado nel pantano. Oro, schiavi e anime tra le Ande e l’Amazzonia, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 170. I conteggi presi a riferimento si riferiscono agli anni 1732, 1736 e 1748. 39 Livi Bacci, Conquista, cit., tabb. 18 e 20, pp. 262 e 264. 40 Steward, Handbook, cit.; Carneiro da Cunha (a cura di), História, cit., Roosevelt, Amazonian Indians, cit. 41 Lucero a Gaspar Vivas, 3 giugno 1681, in AA.VV., Informes, cit., pp. 321. 42 Livi Bacci, Eldorado, cit., p. 125 43 Lucero a Gaspar Vivas, cit., p. 321 44 Figueroa, Informe, cit., pp. 211-12 45 Steward, Tribes, cit., p. 529; Julian H. Steward e Alfred Métraux, Tribes of the Peruvian and Ecuadorian Montaña, in Steward, Handbook, cit., pp. ??-??, 623, 645; Alfred Métraux, Tribes of the Middle and Upper Amazon River, ibidem, p. 698. 46 Alfred Métraux, The Tupinamba, in Steward, Handbook, cit., p. 116. 47 Samuel Fritz, Mision de los Omaguas, Yurimaguas, Aizuares, Ibanomas y otras naciones desde Napo al Río Negro, in Pablo Maroni, Noticias autenticas del famoso Río Marañon, a cura di Jean Pierre Chaumeil, Iquitos, IIAP-CETA, 1989, p. 305. 48 Adam Widman, Notes on Memorable Events that Occurred in the Missions since the Year 1744 (trad. ingl. cortesemente messa a disposizione da Ann Golob), Madrid, Pastells Collection, p. 65. 49 Maroni, Noticias autenticas, cit., p. 191. 50 Ibidem. 51 Frank Salomon e Stuart B. Schwartz, New People and New kinds of People. Adaptation, Readjustment, and Ethnogenesis in South American Indigenous Societies (Colonial Era), in Frank Salomon e Stuart B. Schwartz, The Cambridge History of the Native People of the Americas. III: South America, parte II, Cambridge, Cambridge University Press, 1999, p. 460 52 Ibidem, pp. 451, 461. 53 Widman, Notes, cit., p. 17. 54 Juan Magnin, Breve descripción de la provincia de Quito, en la America meridional, y de sus Missiones de succumbíos de Religiosos de S. Franc.o, y de Maynas de PP. de la Comp.a de Jhs a las orillas del gran Río Marañon, hecha para el Mapa que se hizo el año de 1740, por el P. Juan Magnin de dha. Comp.a, missionero de dichas Missiones, in «Revista de Indias», I, n. 1, 1940, p. 162. Dopo l’espulsione dei gesuiti, il governatore di Mainas, Francisco Requena Herrera, censì 22 villaggi, nella maggioranza dei quali conviveano due o tre diverse etnie, spesso di diverso ceppo linguistico (www.biblioteca. tv/artman2/publish/1785_342/Descripci_n_de_Francisco_de_Requena_y_Herrera_del__1011.shtml [estratto 15 maggio 2012]). 37 38 in Frankfu Note 243 Capitolo ottavo inserire ed. orig.? Reise in die AquinoktialGegeden des Neuen Kontinents, a cura di Ottmar Ette, Frankfurt a.M.-Leipzig, Insel, 1991. 1 I dieci componenti della missione erano, oltre La Condamine, Louis Godin, matematico e capo scientifico; Pierre Bougeur, astronomo; Joseph de Jussieu, naturalista e medico; Seniergues, chirurgo; Couplet, geografo; Verguin, ingegnere; Jean Godin des Odonais e Morainville, tecnici; Hugot, orologiaio. Allo sbarco a Cartagena le autorità posero al seguito, come accompagnatori e sorveglianti, due giovani ufficiali di marina spagnoli, Jorge Juan de Santacilia e Antonio de Ulloa, divenuti poi amici e collaboratori dei francesi. Ambedue ebbero carriere di rilievo e furono autori di opere importanti: Jorge Juan y Antonio de Ulloa, Noticias secretas de America (1749), Madrid, Historia 16, 1991. 2 Sulla spedizione scientifica e sul viaggio di La Condamine, si veda Hélène Minguet, Introduction, in Ch.-M. de La Condamine, Voyage sur l’Amazone, Paris, Maspero, 1981. Neil Safier, Measuring the New World. Enligthenment, Science and South America, Chicago (Ill.), University of Chicago Press, 2008. Si veda anche Anthony Smith, Explorers of the Amazon, Chicago (Ill.), University of Chicago Press, pp. 159-187. 3 Charles Marie de La Condamine, Relation abrégée d’un voyage fait dans l’interieure de l’Amérique méridionale, depuis la côte de la mer du Sud jusq’aux côtes du Brésil et de la Guyane, en descendant la rivière des Amazones, Paris, Veuve Pissot, 1745. La Relation è stata ristampata dall’editore Maspero (cfr. n. 2), ed a questa edizione ci rifaremo nelle citazioni che seguono. 4 Safier, Measuring, cit.; Piero Tempesti, Storia della misura dell’unità astronomica, in «Coelum», novembre-dicembre 1979 5 de La Condamine, Relation, cit., p. 60. 6 Juan Magnin, Breve descripción de la provincia de Quito, en la America meridional, y de sus Missiones de succumbíos de Religiosos de S. Franc.o, y de Maynas de PP. de la Comp.a de Jhs a las orillas del gran Río Marañon, hecha para el Mapa que se hizo el año de 1740, por el P. Juan Magnin de dha. Comp.a, missionero de dichas Missiones, in «Revista de Indias», I, n. 1, 1940, pp. 151-185. 7 Pedro Vicente de Maldonado, geografo e naturalista, era governatore del distretto di Esmeraldas nell’Audiencia di Quito (ora Ecuador). 8 de La Condamine, Relation, cit., p. 67. 9 Alexander von Humboldt, Viaje a las Regiones Equinocciales del Nuevo Continente, 5 voll., Caracas, Monte Avila Editores, 1992; trad. it. Viaggio alle regioni equinoziali del nuovo continente..., Roma, Palombi, 1986. 10 de La Condamine, Relation, cit., p. 62. Neil Safier, Como era ardilloso o meu francệs: Charles-Marie de la Condamine e a Amazônia das Luzes, in «Revista Brasileira de Historia», XXIX, n. 57, 2009. 11 de La Condamine, Relation, cit., p. 62. 12 Magnin, Breve descripción, cit., pp. 181-182. Opinioni condivise da Figueroa: «Non è davvero poco tormento dover confrontarsi con tronchi animati e uomini irrazionali. Perché questi sono – comunemente parlando – gli indios che vivono in queste selve, bruti con apparenze di uomini e uomini dalle azioni di bruti» (Francisco Figueroa, Informe de las misiones de el Marañon, Gran 244 Note Pará o Río de las Amazonas, datata 8 agosto 1681: cfr. Francisco de Figueroa, Cristóbal de Acuña et al., Informes de Jesuitas en el Amazonas, 1600-1684, Iquitos, IIAP-CETA, 1986, p. 276). 13 Antonello Gerbi, La disputa del Nuovo Mondo, Milano, Adelphi, 2000, p. 77. 14 Gonzalo Fernández de Oviedo, Historia general y natural de las Indias (1551-1555), 5 voll., Madrid, Atlas, 1992, vol. I, libro V, proemio, p. 111; trad. it. parz. Le scoperte di Cristoforo Colombo nei testi di Fernandez de Oviedo, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1990 15 Fray Bartolomé de las Casas, Apologetica Historia Sumaria, 3 voll., Madrid, Alianza Editorial, 1992, particolarmente nei capitoli 33-43 del vol. I. José de Acosta, Historia natural y moral de las Indias, Madrid, Historia 16, 1987, p. 389. 16 Guillermo Furlong, José Cardiel S.J. y su Carta de Relación, Buenos Aires, Libreria del Plata, 1953, p. 172. 17 Gerbi, Disputa, cit., p. 93. 18 de la Condamine, Relation, cit., p. 46. 19 Ibidem, p. 70. 20 Ibidem, p. 79. 21 Ibidem, p. 100. 22 Ibidem, p. 105. 23 Ibidem, p. 109. 24 Ibidem, p. 119. Questa e le citazioni successive sul vaiolo, dalle pp. 119-121. 25 La Condamine farà altre comunicazioni all’Accademia delle scienze sul vaiolo: Mémoires sur l’inoculation de la petite vérole, lues aux assemblées publiques de l’Académie Royale des Sciences le 24 avril 1754 et 14 novembre 1758, Paris, chez Durand, 1758. Alle pp. 10 e 11 parla dell’epidemia che investì America e Europa nel 1723; ricorda l’inoculazione dei missionari del Río Negro e del Pará e aggiunge che una stessa lettera dal Pará nel 1750 aveva annunciato una nuova epidemia e l’adozione della inoculazione. 26 de la Condamine, Relation, cit., p. 71. Il floripondio è una solanacea; la curupá è l’Anadenanthera peregrina. 27 Id., Sur l’arbre du Quinquina, «Mémoires de l’Académie des Sciences de Paris», 1738. 28 Id., Relation, cit., p. 75. 29 Ibidem, p. 131. 30 Ibidem, p. 59. 31 Ibidem, pp. 90-93. 32 Ibidem, pp. 84-85. 33 Fray Bartolomé de las Casas, Historia de las Indias, 2 voll., México, Fondo de Cultura Económica, 1991, vol. I, pp. 303-304. 34 Gaspar de Carvajal, Relación que escribió Fr. Gaspar de Carvajal, fraile de la orden de Santo Domingo de Guzman, del nuevo descubrimiento del famoso rio Note 245 grande que descubrió por muy gran ventura el Capitan Francisco de Orellana, in AA.VV., La aventura del Amazonas, Madrid, Historia 16, 1986, p. 80. 35 Ibidem, pp. 85-86. 36 Oviedo, Historia, cit., vol. V, libro XI, cap. V, p. 242. 37 Si veda cap. V, n. 37. 38 de la Condamine, Relation, cit., p. 86. Le citazioni che seguono sulle Amazzoni sono alle pp. 86-89. 39 Humboldt, Viaje, cit., vol. IV, p. 264. 40 Ibidem, p. 265. 41 Ibidem, p. 268. 42 Louis Godin Des Odonais, Relation du naufrage de Mme Godin Des Odonais; Lettre de M. Godin Des Odonais à M. de La Condamine, in «Voyages merveilleux et imaginaires...». L’avventura dei coniugi Godin è riassunta sulla base del racconto del marito contenuto nella lettera a de la Condamine. 43 William L. Herndon, Exploration of the Valley of the Amazon, Washington D.C.), Robert Armstrong, 1854, p. 197. La citazione non fa onore a Herndon, che scrisse il resoconto del viaggio dal Perú al Pará nel 1851-1852, intrapreso per ordine del ministro della Marina degli Stati Uniti. Il racconto è ricco di acute e intelligenti osservazioni. Herndon morì da eroe, nel 1857, salvando 500 uomini e 60 donne nel naufragio della nave Central America, in balia di un fortunale al largo della costa, senza abbandonare la nave. Capitolo nono 1 Due opere moderne costituiscono ottime guide alle vicende dell’Amazzonia portoghese in epoca coloniale: David G. Sweet, A Rich Realm of Nature Destroyed. The Middle Amazon Valley, 1640-1750, tesi di dottorato, University of Wisconsin, 1974; John Hemming, Tree of Rivers. The Story of the Amazon, London, Thames & Hudson, 2008. Un’ottima sintesi storica e antropologica è quella di Robin M. Wright, in collaborazione con Manuela Carneiro da Cunha, Destruction, Resistance and Transformation. Southern, Coastal and Northern Brazil, in Frank Salomon e Stuart B. Schwartz (a cura di), The Cambridge History of the Native People of the Americas. III: South America, II parte, Cambridge, Cambridge University Press, 1999. Si veda anche, per il periodo dalla fine della colonia fino al 1850, Carlos de Araúco Moreira Neto, Indios da Amazônia, de maioria a minoria (1750-1850), Petropolis, Vozes, 1988. 2 Per la verità, anche nell’alta Amazzonia operarono, oltre ai gesuiti, anche i francescani; tuttavia essi operarono in aree marginali, come l’alto Ucayali e la regione di Sucumbios, e hanno lasciato materiale documentario molto meno consistente. 3 Per una cronaca dell’insediamento portoghese nell’estuario, una fonte dettagliata, ancorché spesso imprecisa, è Annales de Berredo. 4 Antonio Vieira, De una carta para el Rei Nosso Senhor [...] Escripta por el Padre Antonio Vieira, in «Revista Trimensal de Historia e Geographia», n. 13, apriòe 1842, p. 117. La lettera è datata 11 febbraio 1640. 246 Note Hemming, Tree of Rivers, cit., pp. 49, 535. Sweet, Rich realm, cit., p. 91. 7 Ibidem, pp. 49-52. 8 Moreira Neto, Indios da Amazônia, cit., p. 30. Si veda anche Adélia Engrácia De Oliveira, The Evidence for the Nature of the Process of Indigenous Deculturation and Destabilization in the Brazilian Amazon in the Last Three Hundred Years, in Anne Roosevelt (a cura di), Amazonian Indians. From Prehistory to the Present, Tucson, The University of Arizona Press, 1994. 9 Beatriz Perrone-Moisés, Indios livres e indios escravos: os principios da legislação indigenista do periodo colonial (séculos xvi a xviii), in Manuela Carneiro da Cunha (a cura di), História dos Índios no Brasil, São Paulo, Companhia das Letras, 1992, p. 117. 10 Ibidem, p. 124 11 Antonio Vieira (1608-1697), nato in Portogallo, a sei anni è in Brasile e a ventitré entra nella Compagnia di Gesù. Dopo un periodo di lavoro pastorale, dal 1640 al 1652 è chiamato a varie funzioni ufficiali a Lisbona, con ambascerie in Francia e Olanda. Tra il 1653 e il 1661 è visitatore e organizzatore delle missioni nel Maranhao e nel Pará; viene espulso e rientra in Portogallo. Nel 1682 rientra in Brasile, a Bahia, dove rimane fino alla morte. Le sue Obras Completas, pubblicate a Lisbona nel 1854-1858, constano di 27 volumi. 12 Provisão-Lei. Provisão sobre a Liberdade e Captiverio do gentio do Maranhão, in Carneiro da Cunha (a cura di), História, cit., p. 531. 13 Antonio Vieira, Sermón sobre la esclavitud en Marañon (1653) , tradotto in spagnolo in Manuel M. Marzal, La utopia posible. Indios y Jesuitas en la America colonial (1549-1767), Pontificia Universidad Catolica del Perú, Fondo Editorial. 1992, pp. 168-169. 14 Ibidem, p. 169 15 Ibidem, p. 161. 16 Antonio Porro, História indígena do alto e médio Amazonas: séculos XVI a XVII, in Carneiro da Cunha (a cura di), História, cit., p. 161. 17 Moreira Neto, Indios da Amazônia, cit., p. 24. 18 Ibidem, p. 61 19 Sweet, Rich Realm, cit., in part. il cap. 9. 20 Ibidem, p. 467. 21 Vieira, De una carta, cit., p. 113. Padre Vieira nel 1653 aveva accompagnato una spedizione sul Tocantins, e si oppose, inutilmente, alla cattura di 500 schiavi. Si veda Barbara Sommer, Colony of the Sertão. Amazonian Expedition and the Indian Slave Trade, «The Americas», gennaio 2005, p. 409. 22 Vieira, De una carta, cit., pp. 114-115. 23 Ibidem, p. 115 24 Ibidem; João Felippe Betendorf, Chronica da Missão dos Padres da Companhia de Jesus no Estado do Maranhão, Revista do Instituto Historico e Geographico Brazileiro, vol. LXXII, parte I, 1910, p. 113. 25 Forse il numero si riferisce alle abitazioni, e non ai villaggi. João Ca5 6 Note 247 pistrano de Abreu, Chapters of Brazil’s Colonial History. 1500-1800, Oxford, Oxford University Press, p. 109. 26 Sweet, Rich Realm, cit., p. 469. Lo stesso Sweet fornisce un elenco delle spedizioni intraprese nel nord-ovest, e particolarmente nella valle del Negro, a cadenze ravvicinate. Quella di Ignacio Correia de Oliveira, lungo il Solimões e il Japurá avrebbe fruttato addirittura «migliaia» di schiavi, catturati tra i Tobacanas, Tumas, Itipunas, Guareicus, Ticunas, e Cayuvicenas. La spedizione ebbe luogo tra il 1707 e il 1710. 27 Ibidem, p. 495. 28 Hemming, Tree of Rivers, cit., p. 78. Si tratta, ovviamente, di un numero teorico: gli indios impiegati come rematori lo potevano essere, durante l’anno, per periodi di varia lunghezza. 29 Sweet, Rich realm, cit., p. 525. 30 Ibidem, p. 544. 31 Ibidem, p. 559. 32 Chi scrive ha fatto parecchie ricognizioni sulle fonti dell’Amazzonia spagnola, raccogliendo una buona massa di dati che – dati i tempi e i luoghi cui si riferiscono – hanno un modesto grado di precisione. E che saranno presentati e discussi in pubblicazioni specializzate. Ma non ha avuto il tempo e il coraggio di compiere analoghe ricognizioni per l’Amazzonia portoghese. 33 Betendorf, Chronica, cit., p. 203. 34 Ibidem, pp. 585-588; Sweet, Rich realm, cit., p. 81. 35 Sweet, Rich realm, cit., p. 82. 36 Ibidem, pp. 734-739. Naturalmente non sappiamo se quella del 1749 sia stata la prima epidemia di morbillo tra le genti del Río Negro: tuttavia, come abbiamo spiegato altrove (cap. VII), data la giovane struttura per età, qualora le epidemie fossero state intervallate da dieci-quindici o più anni, la maggioranza della popolazione sarebbe stata non immune. Di conseguenza, anche il tasso di mortalità sarebbe stato elevato e non troppo inferiore a quello che si verifica in popolazioni completamente sprovviste di immunità. Si veda anche Moreira Neto, Indios da Amazônia, cit., p. 23. Di morbillo e vaiolo nel triennio 1748-1750 parla Hemming, Tree of Rivers, cit., p. 82. 37 Serafim Leite, Historia da Companhia de Jesus do Brasil, Instituto Rio de Janeiro, Nacional do Livro, 1943, p. 137. 38 Vieira, De una carta, cit., p. 124. 39 Leite, Historia da Companhia, cit., p. 138. Poco più di un terzo (35%) erano meninos e meninas, bambini di sette anni o meno: una percentuale compatibile con una popolazione con adeguato ricambio. Leite riferisce anche che nell’aldeia di Piraguari (sul fiume Xingu), un terzo esatto dei 921 abitanti del 1730 erano catecumeni, presumibilmente indios recentemente tratti dal sertão. 40 Questa statistica è ripubblicata da Moreira Neto, Indios da Amazônia, cit., pp. 214-217: «Mappa dos indios [...] que [...] na Capitania do Rio Negro observou o Intendente Francisco Xavier de Sampaio...». I dati sono forniti per ciascun villaggio, distribuiti per sesso, età e altre caratteristiche. 41 Anche la statistica di Rodrigues Ferreira è riprodotta da Moreira Neto, Indios da Amazônia, cit., pp. 218-219: «Mappa de todos os habitantes que 248 Note existem nas differentes freguezias e povoações do Rio Negro». Non mancano esempi di aldeias con sensibili diminuzioni della popolazione: nella citata aldeia de Piriguari (da 1.078 a 921 abitanti tra il 1730 e il 1756); nella missione di Baraorá – poi Vila de Tomar – che negli anni Settanta aveva appena 149 indios tra i quindici e i sessant’anni, ma che ne aveva avuti più di 1.000 (Hemming, Tree of Rivers, cit. p. 104). 42 Sweet, Reach Realm, cit, p. 92; Moreira Neto, Indios da Amazônia, cit., p. 50 43 Dauril Alden, Late Colonial Brazil, in Leslie Bethell (a cura di), Colonial Brazil, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, p. 286. 44 Tarcisio Botelho e Clotilde Andrade Paiva, Politicas de Populaçao no Periodo Joanino, XVI Encontro Nacional de Estudos Populacionais, ABEP, 2008, p. 14. 45 Alden, Late Colonial, cit. p. 288. 46 Artur Cesar Reis, A formaçao espiritual da Amazônia, Rio de Janeiro, SPVEA, 1964, p. 6, citato da Moreira Neto, Indios da Amazônia, cit., p. 22 47 Alden, Late Colonial, cit., p. 288. La rilevazione del 1840 per l’Amazzonia aveva censito il 9% della popolazione come bianca, con esclusione di Belém e degli altri insediamenti del Pará. Per Sweet, alla metà del Settecento la proporzione dei bianchi doveva aggirarsi sul 5% (Sweet, Rich Realm, cit., p. 92). 48 Moreira Neto, Indios da Amazônia, cit., p. 47. 49 Sweet, Rich Realm, cit., p. 687. 50 Citato da Hemming, Tree of Rivers, cit., p. 302. Appendice 1. Río delle Amazzoni: carta di identità 1 Costantino Bayle, Descubridores Jesuitas del Amazonas, «Revista de Indias», 1, I, 1940, pp. 129-130. 2 Chiamato anche, in spagnolo, «Río de los Venenos». 3 Gran parte delle informazioni sono tratte da Michael Goulding, Ronaldo Barthem ed Efrem J. Ferreira, The Smithsonian Atlas of the Amazon, Washington (D.C.) - London, Smithsonian Institution, 2003. 4 Il 68% del bacino amazzonico è in Brasile, l’11% in Ecuador, l’11% in Bolivia, il 6% in Colombia, il 2% in Ecuador, il residuo in Venezuela e Guyana. 5 William L. Herndon, Exploration of the Valley of the Amazon, 1851-52, New York, Grove Press, 2000, p. 147. 6 Ibidem, p. 221. 7 Ibidem, p. 191. Appendice 2. Artimetica amazzonica Note 249 1 José Felix Heredia, La antigua provincia de Quito de la Compañia de Jesús y sus misiones entre infieles, 1566-1767, Riobamba, Ecuador, 1924, , p. 31. 2 Razon y Noticias de las reducciones y pueblos de los convertidos y bautizados, segun consta de los autos de visita de dichas Iglesias y Pueblos, de Antonio Garcia Ceares, cura y vicario de Santiago de la Montañas, por Comision del Sen. Ill.mo Don Alonso de la Peña Monte Negro, Obispo de Quito, in Archivo General de la Compañia de Jesús, Quito, V, 480. Si veda anche la n. 28 del Cap. IV. 3 A. Porro, Os Omaguas do Alto Amazonas. Demografia e Padrões de Povoamento no seculo XVII, in Hartmann e Pentendo Coelho (a cura di), Contribuçoes a antropologia em homenagem ao Professor E.Schaden, São Paulo, 1981, p. 211. 4 Ibidem, pp. 217-218. 5 Lettera di padre Fritz a padre Juan Martin Rubio da San Joaquín de Omaguas, 1686 [incerta provenienza; comunicata da Ann Golob]. 6 Porro, Os Omaguas, cit., p. 220. 7 Massimo Livi Bacci, Conquista. La distruzione degli indios americani, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 262. Cronologia Cronologia 1494 Trattato di Tordesillas tra Portogallo e Spagna 1500 Vicente Yáñez Pinzón naviga la foce del Río delle Amazzoni. La spedizione di Cabral raggiunge il Brasile e ne prende possesso in nome della Corona portoghese 1513 Il 25 settembre Balboa avvista il mare del Sud (Pacifico) 1524-25 Primo viaggio di Francisco Pizarro lungo la costa del Pacifico 1526-27 Secondo viaggio di Francisco Pizarro; permanenza nell’isola del Gallo 1529 Il 26 luglio viene concessa a Pizarro la Capitulación per la scoperta del Perú 1530 Il 27 dicembre Pizarro parte per il suo terzo viaggio di esplorazione 1531-38 Spedizioni da Coro (Venezuela), nei bacini dell’Orinoco e dell’Amazzonia, dei tedeschi concessionari dei banchieri Welser: Alfinger, Espira e Federman 1532 Il 16 maggio Pizarro entra nell’impero Inca da Tumbez e il 16 novembre cattura Atahuallpa a Cajamarca 1533 Dal 13 maggio al 25 luglio fusione dell’oro e dell’argento del riscatto di Atahuallpa 1533 Il 26 luglio viene ucciso Atahuallpa 1533 Il 15 novembre Pizarro entra in Cuzco 1534 Benálcazar marcia su Quito 1535-37 Spedizione di Diego de Almagro in Cile 1536 Il 6 gennaio Pizarro fonda la Ciudad de los Reyes (Lima) 1536-38 Spedizione di Gonzalo Jiménez de Quesada da Santa Marta il 5 aprile 1536 e fondazione di Santa Fe (Bogotá) il 6 agosto 1538, capitale del Regno di Nueva Granata (attuale Colombia) 254 Cronologia 1538 Il 26 aprile Hernando Pizarro sconfigge Almagro nella battaglia di Las Salinas 1538 L’8 luglio esecuzione di Almagro 1538 Incontro di Quesada, Benálcazar e Federman nella sabana di Bogotá 1538 Spedizione di Pedro de Candía dal Cuzco oltre le Ande; i superstiti ripartono con Peranzures 1540 Spedizione di Pedro de Valdivia alla conquista del Cile 1540 Paolo III approva formalmente la Compagnia di Gesù 1541 Il 26 luglio gli almagristi uccidono Francisco Pizarro 1541 Spedizione da Coro di Juan o Felipe ? de Utre 1541-42 Disastrosa spedizione di Gonzalo Pizarro da Quito oltre le Ande; 26 dicembre: inizio della navigazione di Orellana del Napo e del Río delle Amazzoni 1542 Orellana e compagni arrivano all’isola di Cubagua al largo del Venezuela l’11 settembre 1542 1548 Pedro de la Gasca sconfigge Gonzalo Pizarro nella battaglia di Jaquijahuana; Gonzalo è ucciso e la sua ribellione è vinta 1549 Arrivo a Chachapoyas di 300 indios brasiles 1551 Primo Concilio a Lima 1556 Morte di Ignazio di Loyola 1558-60 Spedizione da Asunción di Ñuflo de Chaves verso il paese degli Xarayes, dei Chiquitos e dei Mojos 1560 Il 26 settembre inizia la spedizione di Pedro de Ursúa che discende lo Huallaga e il Río delle Amazzoni. 1561 Il 1º gennaio uccisione di Ursúa; al comando di Aguirre la spedizione raggiunge il mare il 3 luglio, e l’isola Margarita il 20 luglio; uccisione di Aguirre a Barquisimeto il 27 ottobre 1563 Fondazione dell’Audiencia di Quito (attuale Ecuador) 1568-69 Spedizione di Juan Álvarez Maldonado dal Cuzco oltre le Ande, nel bacino del Madre de Dios 1568 Arrivo dei gesuiti in Perú 1570 Francis Drake nel Maranhão 1580 Unione personale dei regni di Portogallo e di Spagna 1586 I gesuiti si insediano stabilmente a Quito 1596 insediamento degli inglesi nel Maranhão 1602 Padre Ferrer inizia l’evangelizzazione dei Cofanes 1609 I gesuiti danno inizio all’evangelizzazione del Paraguay Cronologia 255 1611 Uccisione di padre Ferrer 1612-15 I francesi si insediano nel Maranhão e ne vengono espulsi dai portoghesi 1616 Fondazione di Santa Maria do Belém nel Pará. I primi spagnoli traversano il Pongo di Manseriche ed entrano in contatto con gli indios Mainas 1619 Il capitano Diego de Vaca y Vega fonda il villaggio di Borja tra i Mainas; gli indios vengono distribuiti agli encomenderos 1625 Inizia la fondazione delle missioni negli Llanos dei fiumi Meta e Casanare (Orinoco) 1630 Gli olandesi occupano il Pernambuco 1635 Sollevazione dei Mainas, strage di spagnoli e feroce repressione 1636 Spedizione di Juan de Palacios con missionari francescani nel Napo; sua uccisione e fallimento della spedizione; navigazione dei confratelli Brieda e Toledo fino al Pará 1637 Parte la spedizione di Pedro Teixeira dal Pará e arrivo a Quito nell’ottobre del 1638 1638 Arrivo a Borja dei padri Cugia e de la Cueva e inizio dell’evangelizzazione dei Mainas; Fondazione della prima missione, Limpia Concepción de Jeveros 1639 Partenza da Quito dei padri Acuña e Artieda che accompagnano la spedizione di Teixeira e arrivo a Belém il 12 dicembre 1640 Incoronazione di Giovanni IV in Portogallo e fine dell’unione personale con la Spagna 1648-50 Prima evangelizzazione degli Omaguas a opera del francescano Laureano de la Cruz 1650 Laureano de la Cruz scende il Río delle Amazzoni e arriva a Belém il 1º febbraio 1651 1653 Sermone sulla schiavitù di Antonio Vieira 1654 Definitiva espulsione degli olandesi dal Brasile 1655 Fallimentare spedizione tra i Jivaros di Don Martin de la Riva 1660-61 Epidemia di vaiolo 1658 Prima ufficiale spedizione di resgates nel Río Negro 1661 Espulsione di Vieira e di trentadue padri gesuiti dal Pará 1666 Uccisione di padre Figueroa 1669 I portoghesi costruisconon il Forte di São José sul Río Negro (attuale Manaus) 1670 Padre Lucero fonda la missione di Santiago de la Laguna 256 Cronologia 1680-81 Epidemia di vaiolo, fuga dei Cocamas da Santiago de la Laguna e primi contatti con gli Omaguas che chiedono protezione dai portoghesi 1682 Fondazione di Nuestra Señora de Loreto, prima missione tra i Mojos (Bolivia orientale) 1688 Padre Fritz dà inizio all’evangelizzazione degli Omaguas; fondazione di San Joaquín de Omaguas 1691-95 Nuove disastrose spedizioni tra i Jivaros su impulso di padre Viva 1692 Padre Fritz a Lima per perorare con il viceré la difesa dei territori Omaguas contro i portoghesi 169 Suddivisione delle zone d’influenza di gesuiti, francescani, carmelitani e mercedari nell’Amazzonia portoghese 1695 Disastrosa fondazione del villaggio de los Naranjos sul fiume Santiago 1697 Epidemia di vaiolo nel Pará 1710 Definitiva annessione dei territori Omagua da parte dei portoghesi e dell’ordine dei carmelitani 1711 Padre Fritz sposta la missione di San Joaquín de Omaguas a monte sul Río delle Amazzoni, fuori dei territori insediati dai portoghesi 1723-27 Guerra e sterminio degli indios Manaos; morte del capo Ajuricaba; vaiolo nel Pará 1732 Inizio dell’evangelizzazione degli indios del Napo 1738-42 Fondazione di molte missioni nel Napo da parte dei padri Maroni e Iriarte 1743-45 Viaggio di ritorno in Francia di La Condamine via Río delle Amazzoni, Belém e Cayenna 1749 Vaiolo nel Napo; vaiolo e morbillo nel Pará; incendio e distruzione dell’archivio di Santiago de la Laguna; spostamento a valle della «città» di Borja 1750 Firma a Madrid del Tratado de Limites tra Spagna e Portogallo per la determinazione dei confini tra Brasile e America Ispanica 1753 Mendonça Furtado, fratello di Pombal, governatore del Pará 1757 Inizia il periodo del «Direttorio» nel Pará; espulsione dei gesuiti dal Portogallo e dal Brasile 1764 Espulsione dei gesuiti dalla Francia 1767 Espulsione dei gesuiti dalla Spagna, da Napoli e dall’America Cronologia 257 1768 Arriva l’ordine di espulsione nelle missioni in Mainas, 19 padri discendono il Río delle Amazzoni, e via Belém e Lisbona vengono esiliati negli Stati pontifici in Italia 1769-70 Viaggio amazzonico di Madame Godin 1783-92 Spedizione in Amazzonia del naturalista Rodrigues Ferreira 1798 Fine del Direttorio 1798-1803 Viaggio alle «regioni equinoziali» di Alexander von Humboldt 1821 Indipendenza del Perú 1822 Indipendenza del Brasile; indipendenza dell’Ecuador Glossario Glossario La lettera P significa termine dell’Amazzonia portoghese adelantado titolo riconosciuto al comandante di una regione di confine, spesso titolare di una spedizione di scoperta e conquista adobe materiale da costruzione composto di mattoni di fango, anche misti a paglia, essiccati alcalde autorità municipale, presidente del cabildo con funzioni giudiziarie aldeamento (P) insediamento di indios in una’aldeia. Indios aldeados: residenti in una aldeia (vedi) aldeia (P) villaggio di indios amministrato da un religioso missionario alguacil incaricato di eseguire gli ordini del giudice anta (P) tapiro, mammifero ruminante dalla pelle dura, impiegata per la fabbricazione di scudi (vedi anche danta) arroba misura di peso equivalente a 25 libbre o 11,5 chilogrammi balsa zattera bandeira (P) spedizione a fini di razzia di schiavi bandeirantes (P) componenti di una bandeira barranca burrone, vallone, cañon: in Amazzonia, rive rilevate sul fiume barbacoa termine arawak indicante un traliccio o piattaforma bebedero tettoia rettangolare comunitaria e cerimoniale bibosi fibra di ficus utilizzata per intrecciare e tessere botija misura di capacità pari a circa 30 litri cabildo cunicipalità chicha bevanda alcolica fatta con la fermentazione del mais o della yucca 262 Glossario chonta della famiglia delle palme, varietà dal legno duro chunchos abitatori di regioni poco conosciute del versante orientale delle Ande coatì mammifero della famiglia dei procioni corregidor autorità municipale cuartel residenza plurifamiliare nelle missioni, rettangolare, con spazi separati per ciascuna famiglia curaca capo di una comunità danta sorta di tapiro descimento (P) letteralmente, discesa; operazione di migrazione organizzata per insediare indios dell’interno nelle aldeias missionarie descubrimiento scoperta; spedizione di scoperta encomendero titolare di una encomienda encomienda territorio e popolazione attribuiti a uno spagnolo, sorta di signore feudale, cui veniva pagato un tributo entrada spedizione di scoperta, esplorazione e conquista estado misura lineare equivalente a 1,57 metri estolica asta con funzione di propulsore di dardi fánega misura di capacità equivalente a circa 58 litri fazenda (P) allevamento di bestiame feitoría (P) fondaci commerciali portoghesi sulle coste africane e brasiliane fiscal funzionario con funzione di giudice goa misura lineare equivalente a tre palmi, cioè a circa 0,75 metri herramienta utensili di ferro o acciaio indio de corda (P) indio prigioniero legato destinato a un sacrificio cannibalico islas aree leggermente rilevate negli Llanos de Mojos al riparo dalle inondazioni ladino indio acculturato legua misura lineare pari a 5,53 chilometri Glossario 263 lengua indigeno interprete lingua geral (P) nell’Amazzonia portoghese, lingua franca basata sul tupí mal de costado letteralmente, mal di petto, da infezioni respiratorie maloca (P) spedizioni dei portoghesi brasiliani a fini di razzia di schiavi mameluco (P) mezzo sangue, generalmente figlio di bianco e india manatí lamantino amazzonico meninas, meninos (P) bambini fino ai sette anni di età mestizo (P) mezzo sangue, generalmente figlio di bianco e con nera africana. mita corvée, lavoro obbligato mitayo da mita, corvée; indio in corvée, obbligato a turno al servizio o al lavoro montaña pedemonte andino morador (P) vedi vecino operario termine per indicare il personale religioso di missione ouvidor (P)magistrato palenque villaggio di schiavi fuggitivi parcialidad la componente di un villaggio identificata da legami di parentela, di clan o di appartenenza etnica pau brasil (P) albero della selva atlantica, chiamato anche Pernambuco (Caesalpinia Echinata), alto 10-15 metri, legno e resina pregiate peste indicazione generica per designare un’epidemia peça (P) vdi pieza pieza anche «pieza de Indias», o schiavo. planilla prospetto o tabella, contenente un riassunto annuale della popolazione di una missione poblar termine con il quale si designava la fondazione di un insediamento o villaggio di spagnoli pongo corruzione della parola quechua indicante una porta, un’apertura, e per esteso, una sorta di stretto cañon principal, principaes (P) capo di gruppo tribale quechua lingua dominante negli altopiano andini e lingua franca in alta Amazzonia 264 Glossario rancheria fattoria, per esteso abitazioni con coltivazioni real accampamento, quartier generale regidores consiglieri del cabildo rescates in genere utensili, oggetti di adorno e cianfrusaglie usati come moneta di scambio con gli indios. Rescates erano anche spedizioni che «compravano» o «riscattavano» indios tenuti prigionieri da altri indios resgates (P) vedi rescates riduzione azione di «ridurre», cioè concentrare, indios dispersi in un villaggio spesso pianificato a scacchiera. Sinonimo di missione sabana vasto territorio pianeggiante spoglio di alberi in area tropicale sarampión morbillo sarampião (P) morbillo sertão (P) le vaste estensioni dell’interno, lontane dagli insediamenti sotto controllo portoghese. Sertanista componente di spedizioni nel sertão surazos venti freddi provenienti dal sud tapuya, tapuyo parola tupí per indicare indios nemici; nell’uso volgare successivo, indio docile, detribalizzato. tierra firme in Amazzonia, terre oltre la várzea, rilevate e non inondabili tipoy corta gonnella di cotone tropa (P) spedizione ufficiale di guerra a indios ostili (tropa de guerra), o per scambiare schiavi di tribù con merci (tropa de resgate) vara misura lineare equivalente a 83,6 centimetri várzea (P) fascia rivierasca solitamente inondata durante la stagione delle piogge vecino famiglia di spagnoli residenti; un residente viracocha in Amazzonia, meticcio al servizio dei missionari, ma anche, in senso spregiativo, spagnolo. viruela vaiolo vizinho (P) vedi vecino yanacona servo nelle case o nelle fattorie degli spagnoli zapallo vegetale della famiglia delle zucche zipa cacico, capo Indice dei nomi