free - I sognatori edizioni
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Rossana Mitolo IL CEFALO DAI CAPELLI ROSSICCI A mio padre Tic tic L’idea non venne a un orologiaio impazzito o a un cultore dei polsi senza quadrante. No, la bizzarra idea venne a una donna che con il tempo aveva semplicemente litigato. Dopo un’intesa durata almeno trent’anni, dopo una sfilza di appuntamenti non mancati, dopo innumerevoli incastri perfetti e prove di altissima fedeltà reciproca, i due avevano deciso di rompere. Come sempre accade, le responsabilità potevano essere imputate a entrambi, ma a soffrirne di più fu sicuramente lui. Perché a prendere la decisione di lasciarsi fu sostanzialmente lei. E lui riuscì a mettersi un po’ l’anima in pace solo quando venne a sapere del suo folle progetto, e della nuova relazione che la donna aveva intrapreso. A far placare il suo dolore, quindi, fu esclusivamente l’assoluta convinzione che alla sua amata fosse andato di volta il cervello. Un’idea così pericolosa, infatti, poteva venir in mente soltanto a chi, oltre a litigare con il tempo, aveva rotto anche con se stessa. Per i primi tempi, Marta aveva deciso di mettere su soltanto un paio di stanze il cui allestimento, davvero spartano in quella fase, potesse anche essere modificato nel corso del5 la giornata, a seconda delle richieste del cliente. Però non la convinceva molto l’ipotesi del cambio d’abito nel contesto del medesimo giorno, perché ogni tempo ha il suo odore e le sue impronte restano impresse un po’ dappertutto. Poteva pertanto diventare fuorviante, per il cliente, avvertire aromi confusi e mescolare le impressioni. Fu così che fin da subito decise che le stanze a disposizione sarebbero state soltanto due. Scelse, in base alle personali preferenze, due ore precise della giornata e comprò i primi due orologi da parete. Vi tolse le pile che aveva avuto in omaggio, sistemò ben bene le lancette e, individuati gli spicchi di parete più adatti, li appese ognuno nella sua stanza. Erano perfetti. Intorno ai due simulacri del tempo costruì poi tutto il contorno, andando esclusivamente incontro ai propri gusti. Se il progetto non avesse riscosso successo, infatti, avrebbe almeno usato quegli spazi per sé. Come orari, aveva individuato le 22.45 e le 06.50, ora locale. Preso quel tempo, lo aveva fermato. In un tic. Fermati tempo, perché mi hai stancato. Tic. E poi zitto. Non devi andare oltre il tuo tic. Almeno qui. Nella casa. L’ora della felicità non deve passare mai. Ore 22.45 di un giorno qualunque, primo momento da immacolare. Il trucco è tolto, i denti sono puliti, il pigiama è comodo, le lenzuola sono state appena cambiate e profumano 6 di lavanda, le coperte sono già con le braccia spalancate, la luce del lampadario è spenta, il lume sul comodino è acceso, la tivù tace, il palazzo dorme, il gas è staccato, il libro è sul comodino che attende sorridente, il cellulare è finalmente morto e l’orologio sulla parete continua a fare solo tic. Intorno, l’ambientazione di una camera da letto come tante. Sobria, ma accogliente. La scelta era ricaduta sul vimini e su un paio di tonalità di arancio chiaro. Il tappetino morbido ai piedi del letto, le pantofole calde, la musica di sottofondo (facoltativa). È il momento della resa quotidiana, quando tutti i guazzabugli della testa vengono portati a nanna, e si assapora l’impareggiabile gusto di una fragrante pagina da leggere. I due metri che separano il bagno dal letto diventano allora la leggendaria strada d’oro che conduce al paradiso, al Nirvana, alla pace dei sensi. E si assapora ogni passo, presi dall’estasi per ciò che presto sarà. Le fatiche del giorno restano indietro, come i sassolini di Pollicino. E si incede verso il letto, con la dolcezza del primo bacio. Il cuore zampilla di gioia, da ciò che c’è intorno arrivano soltanto carezze per l’anima. È proprio questo il momento magico da immortalare. Poi, la testa si affida al cuscino e sprofonda nel profumato lattice. La luce è puntata dritta sui protagonisti della scena. La star sei tu. E lui il tuo uomo. Il feltro del segnalibro ti porta all’esatto punto in cui vi eravate lasciati. La pagina, la parola, l’incontro. Il primo pia7 cevolissimo abbraccio. Che felicità ritrovarsi, con la gioia di sempre. Le pagine scorrono lente lente. E tutto, in un solo perpetuo tic. 22.45, ora locale. La permanenza nella stanza è decisa a priori e, pertanto, allo scadere del tempo stabilito fuori dall’angolo di paradiso, Marta bussa dolcemente alla porta e avvisa il cliente che è ora di rituffarsi nei flussi di sempre. Le espressioni degli occhi di chi abbandona la camera sono per lei momento di grande gratificazione. In pochi parlano, desiderosi come sono di non rendere troppo brusco l’impatto con il frastuono del tempo che va. Ma lei sa bene com’è andata perché, già dopo il primo appuntamento fissato solo per curiosità, la maggior parte della gente si premura di accaparrarsi almeno un’ora alla settimana per immergersi nella malia di quel perpetuo tic. Una volta fuori, si corre, muniti del prezioso pezzo di felicità, verso il consueto ufficio o dai bimbi o a pagare le bollette. Sei giorni e poi di nuovo da Marta, puntuali. Spogliati del tempo-macigno. A differenza della paradisiaca ora di lettura, la scelta del momento della colazione non riscosse invece molto successo tra i clienti. Forse perché, nonostante l’indiscutibile piacere del primo sorso di caffè e delle coccole che spesso ci si concede agli albori del giorno, la gente non trovava sufficientemente affascinante quel tic, o meglio, reputava che altri tic potessero avere la priorità su quello. E così, do8 po un breve ma attento sondaggio, Marta fu costretta a rimettersi al lavoro per creare un nuovo allestimento. La cucina fu lasciata intatta ma invece di puntare sull’arredamento, fece leva su profumi ben precisi. Ad avanzare la bizzarra richiesta furono soprattutto uomini sulla cinquantina o anche più. Il desiderio espresso fu quello di riassaporare il gusto della raccolta: bustina da strappare, figurina da scollare, album da aprire, cartina da incollare. Regressione allo stato puro, abbandono infantile all’inimitabile profumo di colla e carta, insomma. Ciascuno aveva il suo album, la sua raccolta, i suoi miti. A volte chiedevano a Marta anche di procurarsi materiale ormai fuori mercato da anni. Personaggi dei cartoni di quando erano bambini o, nella maggior parte dei casi, calciatori che avevano reso unica la loro infanzia. Poche bustine alla volta, per un piacere breve ma intenso. Loro arrivavano, si sedevano e giocavano con lei al gioco dell’edicolante. Non potevano prendere più di dieci pacchetti per volta e potevano pagare solo con gli spicciolini, che non tenevano nel portafogli griffato o nella tasca della giacca elegante, ma in un borsellino a parte. Alcuni, durante il gioco dell’acquisto, cambiavano anche la voce, cercando di renderla simile a quella di un tempo. A volte Marta aveva paura. Perché qualcuno trascendeva. L’avvocato De Marchi, per esempio, si era procurato un vestito largo a pois colorati e quando arrivava nella stanza lo indossava, si 9 pettinava i capelli che aveva lasciato un po’ lunghetti, prendeva il sacchetto colorato dei soldini e chiedeva le figurine della bella bambina bionda che, negli anni addietro, non aveva mai potuto seguire in tivù liberamente. Quando Marta gli porgeva la serie dei pacchetti, gli occhi gli si accendevano. L’omone si sedeva e, gustando fino in fondo il suono prodotto dalla carta strappata, guardava poi le immagini che gli erano toccate in sorte, quasi in uno stato di visibilio. I respiri si facevano via via più profondi e impercettibili sorrisi facevano capolino sul volto. Con estrema delicatezza apriva e sfogliava l’album e poi, con pazienza e precisione certosina, incollava le figurine rispettando i margini alla perfezione. Nel frattempo, canticchiava con la voce da bimba. Anche il dottor Longhi a volte esagerava davvero, con la sua passione smodata per gli insetti e per le farfalle in particolare. Aveva completato già due album e ogni volta finiva per litigare pesantemente con Marta per la questione del limite dei dieci pacchetti. Una volta le aveva perfino tirato uno schiaffo. Ma Marta doveva pur mettere dei paletti. E alla fine, comunque, la spuntava lei, con i suoi baffoni neri e il vocione impostato da edicolante d’altri tempi. Un giorno citofonò invece un signore anziano, a giudicare dalla voce. Marta lo fece salire e lo accolse nel suo ufficio. Portava molto meglio la voce che gli anni. Doveva averne pa10 recchi, ma comunque non tanti quanti le rughe dicevano. Aveva un viso carico di storia, segnato in ogni angolo. Le gambe magrissime sguazzavano nei pantaloni larghi e stretti malamente in vita da una cinta di cuoio cartonato. Le mani gli tremavano e la giacca era del tipo di lana che punge anche solo a guardarla. Le guance erano scavate e il busto spostato all’indietro rispetto al bacino, che invece veniva in avanti. Camminava aiutandosi con un bastone, lui e la sua testa da uccello sotto il cappello grigio a falde strette. Aveva un naso tondo che gli occupava gran parte del viso. Marta lo fece accomodare sulla poltrona meno comoda tra le due, perché non desiderava si trattenesse a lungo. Non aveva la pazienza necessaria per star dietro agli anziani, pensò tra sé. Il tono della voce del signore era piuttosto basso e si faceva fatica a seguire il debole filo del discorso. Ma quando intuì di che cosa si trattasse, il cuore di Marta alzò il capo e prese ad ascoltare con più attenzione. La vita del vecchio non era stata tra le più semplici. Una serie di esperienze negative e qualche incontro sbagliato di troppo avevano segnato il suo cammino, fino a renderlo insidioso, e nell’ultimo tratto assolutamente incolore. Nonostante la personale propensione al bene e all’amore per il prossimo, infatti, non era riuscito a trascorrere il suo tempo migliore con una persona accanto e, aspetto ancor più grave, non aveva mai avuto il tanto ago11 gnato piacere di diventare padre. Al momento, non aveva più nemmeno amici o familiari. Insomma, era rimasto completamente solo. I motivi per continuare a mettere i piedi giù dal letto ogni mattina diventavano via via più esigui, perciò era arrivato il momento di reagire, prima che fosse troppo tardi. E così, venuto a sapere di Marta, capì subito che fosse il caso di rivolgersi a lei. Quando le fu di fronte, dopo le prime e inevitabili chiacchiere, fece su sua richiesta mente locale, riflettendo su ciò che in passato lo aveva reso felice. Ecco, aveva individuato un momento, un unico momento, durante il quale lui sì, era stato veramente felice. E se gli avessero chiesto per cosa fosse valsa la pena di aver vissuto fino a quel giorno, lui avrebbe risposto che il momento era proprio quello. «E allora, mi dica, quale sarebbe questo momento? Vediamo se posso aiutarla.» «Sarò breve. Il fatto risale a diciotto anni fa. Un giorno bussò il mio postino e mi consegnò una lettera delle Forze Armate. Lessi con attenzione, non una ma almeno dieci volte. Una superstite della Guerra aveva contattato l’esercito chiedendo di rintracciarmi perché, se era una superstite, appunto, lo era grazie a me. L’Esercito, fiero del suo uomo, mi convocò per il conferimento di una medaglia al valore e mi chiese nel contempo se volessi rendermi rintracciabile dalla sopravvissuta. Ovviamente non mancai all’appuntamento per la consegna della medaglia. Guardi, la porto 12 sempre appesa qui, alla tasca interna della giacca, ma non detti mai il consenso perché la donna, mia coetanea per giunta, mi potesse rintracciare. Se lo avessi fatto, lei capisce bene, avrei perso definitivamente l’opportunità di sopravvivere io stesso. Senza quest’apertura verso di lei, verso il possibile, l’avrei fatta finita già qualche tempo fa. Incontrarla, sarebbe stato troppo rischioso. Preferisco immaginare, io. Ma veniamo al sodo. Io le chiedo di concedermi, almeno per una volta al mese, la felicità di ricevere e di riaprire quella lettera, con tutti le gioie e le speranze a essa connesse. Poi, con il tempo, se dovessi riuscire a risparmiare qualcosa, le domanderò di raddoppiare la mia felicità nell’arco dei trenta giorni. Un abito da postino e un citofono, le chiedo, gentile signora. Per l’allestimento della camera, poi, le do io qualche dritta. Stia tranquilla, non sarà una cosa complicata.» Gli occhi del vecchio erano carichi di lacrime e poco mancò che qualcuna non scivolasse giù sul pavimento. Marta lo guardò per un attimo e, senza nemmeno prendersi il consueto lasso di tempo per rifletterci su, aveva già entrambe le mani strette alle sue. «Non vedo l’ora di essere il suo postino» disse commossa. «Possiamo cominciare quando le è più comodo. Pietro, vero? Ha detto che si chiama Pietro?» Per lo spazio si sarebbe organizzata e comunque, di lì a poco, avrebbe concluso la trat13 tativa per l’affitto dell’appartamento adiacente al suo. La voce in città cominciava a spargersi e le richieste iniziavano ad aumentare. Si chiamava Lulù, almeno così le disse quando la chiamò. Elvira, quando si presentò. Linda, sul documento d’identità. Solo alla fine Marta comprese il perché dei tre nomi. Se lo avesse capito prima, forse. Aveva trentadue anni e un paio di occhiali spaziali, nel vero senso del termine. Stanghette costellate da stelline colorate e tante piccole lune gialle impresse sulla montatura su cui poggiava, goffa, una pesante frangetta nera modello Spock di “Star Trek”. Si muoveva a scatti e aveva una corporatura estremamente esile. Non era alta, ma i tacchi che abitualmente portava la tiravano parecchio su. Si pettinava spesso tenendo sollevata la coda dei capelli, probabilmente per la questione del velo. Aveva la carnagione molto chiara e lineamenti talmente regolari da renderle il viso assolutamente anonimo. Naso, occhi, bocca, denti, mento nella norma. Difficile anche poterle fare una caricatura, se non giocando sugli occhiali assai inconsueti e sulla frangetta che, in effetti, era un po’ troppo folta. Ma il compito di Marta non era certo quello di badare all’originalità del viso dei clienti. Il vestito lo avrebbe portato lei, ovviamente. Insieme ai due video e alle scarpe. Al tappeto, ai fiori e alla musica ci avrebbe pensato Marta che, per l’occasione, avrebbe indossato uno smoking fumo di Londra. A completare 14 il kit personale di Linda, un televisore. L’allestimento non sarebbe stato molto semplice, soprattutto per la croce e per l’altare. Ma Linda non aveva limiti di budget e ciò permise a Marta di sistemare le cose per bene. La statua della Madonna fu opera di un artigiano cileno. Linda ci teneva che fosse di legno e che avesse un’impronta sudamericana. Il risultato fu al di sopra delle aspettative, tanto da far meritare al manufatto un posto di tutto rispetto nell’ambiente creato. L’altare, dovendo essere in parte coperto da una pregiatissima stoffa ricamata a mano da un’anziana signora pugliese, fu realizzato non in marmo, ma con un materiale dall’effetto molto simile. Sopra, in bella vista, vi furono poggiati un ostensorio antico in filigrana dorata, un calice di argento e una brocca di ceramica finemente decorata. Ai piedi dell’altare, due grandi vasi di roselline rosse al pari del tappeto che, sottile come la lingua di un formichiere, si stendeva lungo fino a raggiungere la soglia della porta da cui Linda avrebbe fatto il suo ingresso. Il televisore da settanta pollici era stato appeso alle spalle dell’altare, in posizione centrale. Alla sua destra, la croce e l’altoparlante per l’audio del video. Anche lo spogliatoio era stato arredato con cura. Un piccolo impianto Hi-Fi per la marcia nuziale di sottofondo, le quattro pareti rivestite quasi interamente di specchi, un piedistallo al centro, una comoda poltrona di velluto bianco, vetrinetta di legno bianco per 15 il bouquet, i guanti, la parure di orecchini di perla, il girocollo di oro bianco e le scarpe alte. Accanto, un appendiabito color avorio, una toilette in ferro battuto bianco per il trucco e, in ultimo, un imponente orologio a pendolo bianco. Fermo, ovviamente. Ore 11.20, ora locale. Le indicazioni di Linda erano state molto precise. La vestizione della sposa avrebbe richiesto ogni volta un’ora e mezza. In quel frangente, Linda sarebbe rimasta sola, a provvedere a se stessa. Dieci minuti prima del suo ingresso, la musica andava sfumata e l’audio del video della sala annessa doveva essere alzato, in modo tale che lei potesse capire quando fosse arrivato il momento esatto per poter entrare. Le porte sarebbero state spalancate in precedenza (non a caso lo spogliatoio, per non rovinare l’effetto sorpresa in chiesa, era stato collocato in posizione un po’ defilata rispetto al resto degli ambienti). I video che Linda aveva portato erano due, e Marta li avrebbe fatti partire in alternanza. Una volta uno, la volta successiva l’altro. Il primo era il cosiddetto prematrimoniale, mentre il secondo raccontava le prime ore del giorno delle nozze. Una volta terminato il make-up, indossato l’abito e sistemata l’acconciatura, la sposa era pronta. Un ultimo ritocco al velo e via, a incedere felice verso il giorno più bello della sua vita. Perché non rivivere a oltranza l’istante magnifico dell’amore che sta per diventare giuramento eterno? 16 Perché non gustare ancora, e ancora, l’infinito piacere di indossare il tanto agognato sogno bianco? L’ultima e fondamentale richiesta che Linda aveva fatto a Marta, riguardava l’atteggiamento da assumere nel momento fatidico del suo ingresso in chiesa. Marta non doveva assolutamente girarsi verso di lei mentre arrivava. Mai girarsi finché, alla fine del suo scivolare lungo il tappeto prima in un senso e poi nell’altro, Marta non avesse sentito, alle sue spalle, la porta d’ingresso chiudersi. Poi doveva lasciarla nuovamente sola, nel suo spogliatoio, per darle il tempo di spogliarsi. Si affaccendarono nel tempo diverse tipologie di clienti e Marta fu chiamata a impersonare i ruoli più disparati. Presidente commissione di Laurea in Ingegneria nucleare, mamma che culla il suo bambino cresciuto di ottanta chili; donna che discute animatamente con la sorella, al cellulare, su come preparare i fagioli, mentre l’auto di quella finisce per schiantarsi contro un pilone di cemento; invitata canterina alla festa del ventesimo compleanno di una signora anziana ormai sola; innamorato che si dichiara al suo migliore amico con tanto di solitario e poesia in rima; medico che rivela a una donna di essere affetta da cancro al seno; eccetera. L’idea iniziale di imbalsamare i momenti di felicità, quindi, non era più rispettata con rigore. E a volte, a dire il vero, alcune richieste prendevano anche una deriva un po’ strana. 17 Marta, intanto, aveva il guardaroba sempre più carico di vestiti e accessori. A ciascun cliente la sua gruccia, e guai a utilizzare le stesse parrucche o gli stessi profumi per più di una persona. Era questione di deontologia professionale e il regolamento era sottoscritto dai clienti già nell’incontro preliminare. Per ciascuno, pertanto, un travestimento diverso. Marta pianse tanto quando riagganciò il telefono e, per quel pomeriggio, cancellò i due appuntamenti rimasti. Non aveva mai avuto nemmeno il piacere di vederla con l’abito bianco. Molte volte aveva pensato di chiederle di poter sbirciare, anche solo per un attimo, ma alla fine aveva sempre rimandato la richiesta. Come poteva immaginare che non fosse quella la vera storia di Linda, e che dietro i tre nomi fosse nascosto lo strappo del suo cuore. E della sua mente. Solo ora capiva perché non doveva assolutamente girarsi. Al terzo appuntamento mancato, Marta aveva digitato il recapito che le era stato lasciato. Si trattava di un fisso. Aveva risposto una donna anziana. L’avevano trovata in macchina, addormentata, con i gas di scarico ad ammorbare l'abitacolo. Sotto un ponte, lungo la tangenziale. Lulù, il nomignolo che per anni lui le aveva dato. Lulù, così la chiamava il suo uomo. E poi sì, c’era stato il giorno delle nozze. Un matrimonio preparato in tutta fretta e in gran segreto, come la più romantica delle fiabe. In una chiesetta piccolissima, tra i monti della Bolivia. Più in là, poi, 18 avrebbero festeggiato a casa, in pompa magna, con amici e parenti. Due testimoni, trovati al volo sul posto. Lui aveva scelto il modo peggiore per dirglielo. Perché non avrebbe avuto il coraggio di farlo davanti a tutti, il codardo. E allora. La messa in scena del matrimonio in Sudamerica. Lei si era preparata, bella e profumata, nel suo vestito di tulle bianco. La donna al telefono si fermò, faceva fatica a parlare. Ma Marta aveva già capito e continuò. A voltarsi non fu lui, ma un emerito estraneo, il testimone. Vero? Il poveretto era rimasto lì fermo, di spalle fino all’ultimo, basito per l’assenza di lui. E quando alla fine si girò... Ultimo tassello. Elvira. La donna con cui lui, nel frattempo, fuggiva via, lontano da lei. Impossibile, per Linda, uscire viva da quel tempo infame. Segnava undici rintocchi e venti l’ora della sua felicità. Tic. Poi. Poche parole ancora. Se solo fosse andata fino in fondo, se solo avesse domandato, anche solo una volta in più. Linda avrebbe detto, avrebbe raccontato e sarebbe uscita da quel tempo nero. Riagganciò, mentre la donna singhiozzava. Prese la sua agenda, la sfogliò rapida e compose di getto il numero che aveva trascritto controvoglia dopo la prima chiamata di contatto. Quel tizio non l’aveva affatto ispirata già per telefono. Marco, aveva detto di chiamarsi. L’appuntamento era fissato per il giorno dopo, quando lui le avrebbe spiegato 19 per bene qual era il tic da perpetrare. Lo riconobbe immediatamente quando lo vide nel videocitofono. Salì. I sette anni passati gli avevano gonfiato il volto e appesantito i lineamenti. Aveva perso quasi tutti i capelli e si portava addosso la puzza rancida di armadio chiuso. «Perché hai detto di chiamarti Marco?» «Perché altrimenti non mi avresti fatto venire. Posso entrare?» «Sì, scusami.» Chiuse la porta e si fece seguire nel suo studio. «A cosa devo la tua visita?» «Sei sempre molto bella.» «Grazie Tony, ma ora non ho tempo né voglia di complimenti. Ho avuto una giornata faticosa, e deve ancora finire» disse Marta accendendosi una sigaretta. Solo perché ricordava bene l’odio di Tony per il fumo, decise di fumare all’interno della stanza, contravvenendo a una delle regole fondamentali per i frequentatori del luogo. «Allora?» «Hai tagliato i capelli e li hai fatti più scuri. Io ti vorrei bionda, di nuovo, e con i capelli fin sulle spalle. Stavi da dio.» «Non sono affari tuoi in che modo porto i capelli.» «Ti offro il doppio. Se non va bene anche il triplo.» Marta spense con decisione la sigaretta nel posacenere, nonostante ne mancasse più della metà. Aveva la marcia nuziale che le risuo20 nava nella testa e le immagini dei video di Linda che le scorrevano davanti agli occhi. «Cosa vuoi da me?» «Voglio la nostra ultima volta, nel letto dell’albergo a Parigi. Voglio il tuo reggicalze, il tuo bustino, il tuo abitino di seta nero sul pavimento, i tuoi ansimi. Voglio tutto, identico.» «Ma quella serata è stata uno strazio. Lo sai.» «Zitta Marta. Ricordo bene l’epilogo. Non c’è bisogno di dire. Io voglio la sera di quel giorno e non la notte. Dammi la sera, scegli tu l’ora esatta. Doveva essere intorno alle nove, se non sbaglio. E voglio il vino e la musica e il tuo profumo. Lo stesso, e non sbagliare. Una volta alla settimana. Ti pago quanto vuoi.» Senza sapere nemmeno come, Marta si ritrovò, la settimana dopo, con in testa i capelli e gli abiti di sette anni prima. La storia con Tony era durata un paio di mesi, giusto il tempo per capire che uomo viscido fosse. Probabilmente lui non aveva mentito quando le aveva detto di amarla davvero. Ma questo, a Marta, non era mai interessato. Tony arrivò puntualissimo, perfettamente a suo agio con il mazzo di orchidee tra le mani. Un bacio schioccante e bagnato sulla guancia destra di lei, e il dopobarba dall’odore nauseabondo. «I capelli sono perfetti» disse compiaciuto. La musica a rimbombarle sempre nella testa. La porticina della casa boliviana ad aprirsi, e le voci delle donne del villaggio ad acco21 gliere giulive la bella sposina europea. I bambini a battere le mani. Il sorriso bianco di Linda. E io. Puttana, per un giorno a settimana. Ecco cosa sono. Una puttana. Dalla romantica colazione delle 6.45 a puttana. Questo è ciò che mi merito. Della fiaba immaginata all’inizio, io sono l’orco. Sono l’orco di un castello stregato. «Entra, quella è la stanza. Ma moltiplica per quattro il costo, non un euro di meno.» «Stasera avrai il primo bonifico» la rassicurò Tony girando su se stesso. «Sei incredibile… hai ricostruito tutto alla perfezione. Hai segnato le 9.05 sull’orologio. Bene. Anche tu, allora, conservi intatto il ricordo della nostra ultima volta. Vieni qui…» e l’abbracciò da dietro. «Anche tu lo sai che non doveva finire, è vero?» Uno strattone e via, a un passo da lui. «È bastato guardare su internet le foto delle camere dell’albergo. So fare anche di meglio. E comunque, non ti fare film. Abbiamo meno di un’ora.» «Nessun film, nessun film. Vieni qui.» Non appena lui le si avvicinò, Marta sentì appiccicarsi addosso le sgradevoli sensazioni di un tempo. Ora erano le voci felici dei due fidanzati a fluire vorticose nella testa, unite al martellante rombo del motore dell’auto di Linda, piena di fumo. Lui la prese, in modo rude e animalesco. Probabilmente non fece neppure caso al corpetto e all’abitino nero. Da puttana. Puttana, della vita degli altri. 22 Malata, come il tempo fermo che hai venduto per anni a peso d’oro. Hai venduto il tempo e il tuo tempo. Vergognati. A travestirti per essere tutti, tranne che te stessa. In questa deriva malata del tempo. Culla, dai culla l’energumeno bavoso con la tua dolce ninna nanna. Vendi pure le figurine allo stuolo di pedofili feticisti malamente mascherati da languidi nostalgici. E permetti alla povera signora Maria di non guarire mai dal suo cancro e concedi a Michela di struggersi ancora nel senso di colpa per la morte della sorella. È lunga la lista, puttana. E ora, dagli tutto, a partire dal tempo. Sono già due ore che siete chiusi qui dentro. E non lamentarti se le corde intorno ai polsi sono troppo strette. E non piangere se le caviglie ti fanno male. L’hai voluto tu. L’ho voluto io. Nudo sopra di lei, a farla sobbalzare con furia. L’ultima corda l’aveva nascosta tra i passanti del pantalone, al posto della cinta. Si alzò per prenderla, e i passi scalzi sul parquet le fecero venire in mente il rullo del tamburo prima dell’esecuzione. Tony intanto bofonchiava qualcosa, quasi rantolando. Non parlava. Marta piangeva, anche lei senza parlare. L’improvviso e insistente suono del citofono non servì a distoglierlo dall’intento. Forse lui non lo sentiva nemmeno. Era Pietro che suonava, Marta ormai lo riconosceva. Ma non poteva aprirgli. E non poteva urlare, con il calzino di lui ficcato nella bocca. Lui, con la corda tesa tra le mani. A guar23 darla, fermo, in piedi, accanto a lei. Solo allora parlò: «Mi hai distrutto la vita.» Peccato non aver risposto al citofono. E peccato pure non aver letto il biglietto che Pietro le aveva infilato nella cassetta della posta. Se solo Pietro fosse arrivato un po’ prima. Se solo. Ma il tempo è un bastardo. Ed è lui che ha lo scettro. Sempre. Gentile Marta, mi sono permesso di venire a farle visita senza previo appuntamento, ma purtroppo non l’ho trovata in casa. Mi sono recato da lei perché mi premeva darle una comunicazione molto importante. Grazie al nostro incontro e ai tanti discorsi fatti durante i nostri caffè, due settimane fa mi sono finalmente deciso a dare il consenso perché la famosa sopravvissuta potesse contattarmi. Ebbene, il cruciale passaggio dallo stato della possibilità a quello, ben più appagante, della certezza, è finalmente avvenuto, e già ieri c’è stato il nostro primo incontro. Il suo nome è Rosetta. I dettagli, al prossimo appuntamento. Magari con lei in borghese, e solo per un buon caffè con torta all’arancia, se non le dispiace. Le racconterò tutto, senza omettere nulla. Mi sono permesso, infine, di inserire nella busta due piccoli omaggi, uno per me e uno per lei. Si tratta di due pile. La prima può già inserirla ora nel mio orologio fermo, perché ormai, così com’è, non mi serve più. La seconda, invece, è per lei, Marta cara. E per il suo tempo. Che forse, e glielo 24 dico con il cuore, farebbe bene a recuperare e a lasciarlo libero di andare. Con sincero affetto, Pietro 25 Catrame Otto ante, quattro e quattro. Quattro sopra e quattro sotto. Pomello a forma di fiore posto a un metro e trenta dalla base. Né troppo su né troppo giù. Tre cassetti per la biancheria. Poco profondi lunghezza media. Calze nel primo, mutandine nel secondo, reggiseni nel terzo. Gli asciugamani a parte, nell’armadietto di riserva. Pianoterra caldo, primo piano freddo e viceversa, a seconda dei brividi del corpo. Sciarpe e cappelli insieme ai pigiami caldi. Cinte e borse incastrati nel quarto cassetto, quello per il cartone compresso. Appesi in lunghe bolle di cellophane trasparente, i vestiti eleganti. Maglie e maglioni sui ripiani, in ordine, come nel gioco delle commesse modello. Cinque orecchini trafitti nei lobi. A farla più bella. Collane di legno a passarsi il testimone ora dopo ora, a seconda dei cieli e degli specchi. Anelli gettati in una scatola, per l’asfissia delle dita. Storte e fredde e leggere, come gli occhi di Gesù. Che si divertiva a stropicciare per non vederli volare più. Verso il cielo che guardava altrove. Di spalle. Ci sono ferite di catrame che neanche valanghe di tempo possono scalfire. Restano lì, ferme, come graffi neri dell’anima. Lucidi, ne27 ri, appiccicaticci. Ogni volta che li tocchi gli umori diventano opachi. Ma poi passa, e le giornate continuano a fluire come nulla fosse. Impari a conviverci e non le vai più nemmeno a curare. Sono ferite che non si curano, quelle. Non le troverai mai belle, questo è chiaro. E non ti troverai mai nemmeno bella, con il cuore così sfregiato. Non sono ferite di guerra, di quelle che possono anche farti onore. No, appartengono a sfere molto diverse. Si tratta di ferite che tu hai permesso che ti infliggessero, non una ma più volte, in stagioni differenti. Sono lo specchio della tua codardia. Sono la voce della tua fragilità. Fai bene a coprirle, fai bene a tenerle nascoste, come fossero un cancro dell’anima. Così si disse, asciugandosi le lacrime, mentre il cuore le bruciava. Era una di quelle giornate in cui si svegliava con il pensiero di andarle a guardare tutte, una a una, per controllarne lo stato. Iniziò a piangere a dirotto. Come se il tempo si fosse fermato a quei giorni di diversi anni prima. Tutto vivo. Stop. Si asciugò le lacrime. Non ci sarebbe tornata per un po’. Non avrebbe spostato nemmeno un tassello del suo castello di polvere. Il ponte levatoio, i finestroni spaziosi, il salone grande grande, il caminetto, la sala riunioni, la musica, le luci, gli applausi. Tutto sarebbe rimasto al proprio posto. Avrebbe continuato ad amarlo comunque. Gli ospiti sarebbero arrivati per l’ora di cena 28 e doveva sbrigarsi. Comprò il latte fresco, intero, per il timballo di zucchine. Le avevano detto che lo avrebbe reso più soffice e meno asciutto. Comprò anche del vin cotto, per dolci che sicuramente non avrebbe mai preparato. E il lievito di birra, per fare una focaccia. Quella le veniva bene, la maggior parte delle volte. Tornò a casa, mise le birre in frigo e le patatine nella credenza. «Hai preso la salsa?» «Sì, e anche i peperoni. Se devi friggere, apri tutto. La puzza di domenica se n’è andata mercoledì.» «Esagerata! Dai, chiudi, così non si sente.» «Okay, io vado ad apparecchiare.» Accese le candele profumate e alzò il volume della musica. Sistemò la tovaglia e tirò fuori i piatti più carini dalla cassapanca di legno. I bicchieri erano in cucina, e li avrebbe presi più tardi. Posate e tovaglioli, in tinta. «Mi faccio la doccia!» «Cosa? Apri, non sento.» Porta leggermente socchiusa. «Doccia. Mi faccio la doccia. Apri tu se citofonano.» «Okay.» «Ti manca molto?» «Così e così.» «Sbrigati!» «Sì…» La serata fu piacevole, con sprazzi di risa sparsi qua e là, a seconda della gradazione 29 delle bottiglie aperte. Il timballo venne soffice con il latte, la cassiera del supermercato le aveva dato un buon consiglio. Dopo l’ultimo ciao beh ora è proprio tardi, la porta si chiuse sulla loro vita. Poi, insieme, sul divano, a ridere delle debolezze di ciascuno dei loro amici e delle loro strane vite. «Buono il tiramisù.» «Ottimo, speravo che avanzasse!» «Sei la solita ingorda, ne hai mangiato tre pezzi!» «Ne avrei mangiati sette.» «Sì, e poi neanche la camicia da notte a sacco ti sarebbe entrata più!» «Pensa al cuscino che sembri avere sotto il maglione!» «Ma vedi che c’è davvero un cuscino… ah ah.» «Zitto, cretino… vado a struccarmi, e poi a nanna.» Entrò nel bagno, accese la luce sotto lo specchio, si struccò gli occhi con un batuffolo di ovatta e lo struccante. Seguiva i movimenti delle mani guardandosi negli occhi tristi. Aprì il rubinetto, si insaponò le dita e prese a massaggiarsi il viso sotto l’acqua. Chiuse il rubinetto, sollevò la testa, si guardò allo specchio. La sua faccia era tutta nera. Ditate di nero sulle guance, sul naso, sulla fronte. Strabuzzò gli occhi. Le mani. Gli occhi sulle mani. Aveva le mani che trasudavano di nero. Nero. Nero catrame. Era catrame. Il catrame era arrivato alle mani. Aveva il volto deva30 stato dal catrame. Anche il volto. Provò a sciacquarsi e a risciacquarsi ancora, ma non andava via. Prese l’asciugamani, strofinò forte, fortissimo. Niente. Sfregiata a vita. Come nascondere, ora. Cosa dire. Tutti avrebbero saputo. Neanche le lacrime grattavano via il catrame. Scendevano, rapide, ma rotolavano come olio sull’acqua. Si asciugò il volto. Non poteva restare chiusa nel bagno per sempre. Quale umiliazione. «Hai finito? Devo lavarmi i denti!» «Sì, ho fatto…» Un respiro. Lo avrebbe affrontato. Avrebbero capito che fare. Avrebbero visto insieme come fare, come cancellare, dove poter andare, una plastica facciale, un dottore, qualcuno l’avrebbe aiutata. Avrebbe pagato, oro. E lui aveva il dovere di aiutarla. Era una questione di responsabilità. Si affacciò nel soggiorno. Entrò. «Ho finito, puoi andare.» Lui sollevò lo sguardo. «Ah, ti entra ancora la camicia da notte?» le chiese sorridendo. Lei seria. «Oh, ho fatto una battuta. Non sei ingrassata, dai… domani ti compro le quattro porzioni che non hai potuto mangiare stasera.» Un mezzo sorriso. Le gambe a tremarle. «Sono proprio stanca. Leggo un attimo e dormo. Notte.» «Okay, arrivo. Notte.» Riprese fiato. Si voltò e passando davanti allo specchio dell’ingresso, sbirciò e incrociò 31 il suo volto di catrame. Ci sono ferite di catrame, che neanche valanghe di tempo possono scalfire. Restano lì, ferme, e a volte, negli anni, fanno anche infezione. Otto ante, quattro e quattro. Quattro sopra e quattro sotto. Pomello a forma di fiore posto a un metro e trenta dalla base. Né troppo su né troppo giù. 32 Mami non m’ami Nascosta sotto il letto spiavo spesso le caviglie di mia madre. Screpolate e ruvide, di pelle e peli. Gonfie di passi sbagliati. Goffi per i salti su un piede, sulla punta di pensieri di vetro. Pensieri a fondo di bottiglia. Mezzi crepati, mezzi rotti. Caviglie brutte, graffiate dalla puzza del tempo. Che a pioggia strofina la pelle, e la stropiccia tutta, fino a farla diventare come i vestiti di lino sotto le cosce d’estate. Hai cambiato il cuscino. Non hai più messo i fiori gialli e blu. Quelli che mi facevi contare. Petali gialli e petali blu. M’ami non m’ami mami non m’ami m’ami non m'ami. Questi nuovi non profumano più della naftalina dei tuoi maglioni di lana, dei pantaloni a palazzo. E delle gonne a pieghe striminzite, come il tuo sorriso cucito, un punto sì e un punto no. Di bassa fattura, facile a sfilarsi. Ancora ferma, oggi, sono stesa sotto il letto. A fissare il materasso. Cinque, sette, dieci capelli. Conto. Capelli doppi e neri. Cappi sfilacciati, impigliati tra rete e materasso. Stanno qui da anni. Sono i miei, di quando piccola giocavo a nascondermi qui. Poi quel pomeriggio di petali gialli e blu. 33 Via le scarpe, mamma grassa e tozza. In ginocchio sul letto con il tuo corpo pesante. Mi hai guardato a lungo, mentre ero accovacciata nel sonno. E mi hai visto bruttina, come non mai. Corta. Tarchiata come te. A vedermi così, non ti piacevo per niente. Non ti piacevi per niente. Come potevi piacerti. E come potevi amarti. Ci avevi provato. Stop. Non era andata. Stop. Soltanto rogne con me. Cuscino tra le mani ferme. Stop. Fissasti i petali e li posasti soffici sul mio respiro bambino. Fuori le cicale cantavano in sincronia, come monaci buddisti. E alberi. E ancora alberi. Niente fiori o cavalli o cani. Alberi, con le mani sulle orecchie. Come poi tutto, intorno. Non m’ami non m’ami. Mami non m’ami. Mangiucchiato il mio respiro. Da petali gialli e blu. Mangiucchiato. E poi giù, nella tua bocca grande, in un sol boccone. Ora l’hai cambiato il cuscino, mami. Cinque, sette, dieci capelli sotto il letto. Io conto. Toc toc, mami. Guarda un po’ giù. Ho dei fiori gialli e blu, sono tutti per te. 34 Acqua di sale Tra i palazzi saliva a galla una fettina liquida di blu. Ne mordeva a bocca contenta un pezzo al giorno. Masticava molto piano, assaporando tutto, per ore e ore. Era stato costretto a viaggiare spesso per riuscire a trovare le scatole giuste. A volte era mancato da casa per giorni, settimane intere. Il prezzo per una, in particolare, era stato altissimo: venti giorni di lontananza dalla sua sedia. Un costo sicuramente eccessivo. Con il senno di poi, ovviamente. Per lui non era importante soltanto la forma dell’oggetto, ma anche la qualità del materiale e l’originalità delle tecniche di lavorazione utilizzate. Più di una volta, infatti, era partito per poi tornare a mani vuote. Con le scatole non si poteva agire alla leggera. Gli sbagli, niente affatto contemplati. Oggi era vecchio. Olive verdi gli occhi del viso, arso. Scoloriti i capelli. I piedi. Aveva le piante dei piedi indurite dai pensieri tristi e le dita come piccoli tronchi di ulivo. Un tappeto di oggetti, la sua casa. Tre stanze e un lungo corridoio. Inciampava a ogni pas35 so, dovendo scavalcare tutto, perfino le proprie gambe. Lo spazio pieno. Tutto a ridosso di tutto. La regola della sovrapposizione a regnare sovrana. Gomito contro gomito, le cose a spingersi tra loro e a cercare dimora perfino su, lungo le pareti. Bottiglie pregiate di vetro, abiti, telecomandi, bicchieri, fotografie, accendini, scarpe. Scarpe, scarpe in quantità. Di quando era stato rivoluzionario, di quando era stato impiegato, di quando era stato marito esemplare e padre di quarta mano, di quando era stato ballerino di tango, di quando era stato un uomo fiero e arrogante. Adesso, invece, spesso scalzo, o quasi sempre, perché il mare si guarda a piedi nudi. Il suo mondo tutto per terra, insomma, sparpagliato e sparso sul fondo della sua dimora. E il suo spazio mangiato in ogni dove, dai dentini laboriosi delle cose. Pochissimi mobili in casa. Un tavolo senza sedie in cucina; l’unica sedia su cui stare, altrove. Nella sua vera casa, il suo piccolo balcone. Dieci mattoni quadrati in tutto e ringhiera con tre ghirigori, di cui uno mezzo saltato. E lui, comodo sulla sedia impagliata con mille e più fili, stretti stretti, a intrecciarsi fitti come gli sguardi degli innamorati. Le sue gambe magre, trespolo per gli uccellini stanchi. Le teneva spesso accavallate, allungate e tese, verso il basso, come pioggia a vento. Lo sguardo, invece, restava sempre fisso sulla bocca del mare. Tutt’intorno, piccoli palazzi lo stavano a 36 guardare, a volte distratti a volte curiosi. Dentro, nella stanza più fresca, il letto a una piazza. Le lenzuola bianche, ogni giorno fresche di vento appena nato. Sopra, un cuscino soffice, profumato di limone. Alle pareti, quadretti azzurri e blu con onde, spiagge e scogliere. Spiagge, scogliere e onde. Accanto, una camera. La sua. Nel buio si intravedeva il lettone sfatto, a due piazze larghe, con il materasso che s'affacciava in più punti da sotto le lenzuola consunte. Le molle, quasi a vista, sfibravano i larghi fiori di lana logora. Intorno, nessun sentiero per arrivarci. Macerie di disordine e incuria rendevano il suo letto un’isola quasi irraggiungibile. Cose ovunque, dappertutto. Sotto il lettone, almeno sei scatole vuote, incastrate tra loro e infilate lì chissà da quando. Nell’armadio, una dozzina in tutto. Tre scatole grandi sul primo ripiano, sette piccole dietro l’anta lunga, quattro medie impilate tra il laterale esterno e la parete. Anche queste erano rigorosamente vuote. La più bella era di legno, dipinta di rosso e viola. Era una scatola realizzata da un falegname indiano. Più che di intarsi, si poteva parlare di ricami. Legno ricamato. Fiorellini microscopici adornati di lumachine e coccinelle. Solo lumachine e coccinelle. Pazienza e fortuna insieme, proprio come ciò che chiedeva al mare. La scatola indiana era per il primo dei suoi figli. Quella preziosa di avorio e smeraldi, invece, 37 ritirata personalmente in Indonesia, era per lei. La più grande era di vimini, rivestita di stoffa all’interno. Seta pura ricamata a mano, per il terzo dei suoi figli. Anche queste scatole erano del tutto vuote. Ma presto avrebbe messo un punto e avrebbe cominciato. I tempi liquidi dell’attesa gli avevano sbiadito entrambi gli occhi. Tutto stava nell’incominciare, così si ripeteva ogni giorno. Aveva aspettato già troppo. In fin dei conti, bisognava fare solo il primo passo, sollevare il primo coperchio, riporre il primo oggetto. A ripeterglielo ogni giorno perfino le etichette, pronte già da anni per essere incollate sui contenitori. Anni e anni di attesa. Perché aveva ancora capelli neri in testa quando aveva cominciato ad aspettare che i cocci tornassero anfora, bicchiere o piatto. Che le chiavi riprendessero a girare più volte al giorno nella toppa di casa. Che il chiasso gli rimbombasse negli occhi. Che la lavatrice si riempisse a oltranza. Che i piatti si sporcassero in pile. Che il citofono suonasse. Che il volume della musica fosse troppo alto. Di corsa la spesa di corsa a mangiare di corsa ad aspettare paziente sul balcone, con la pioggia con il vento con il sole feroce infilzato negli occhi stanchi. Ad aspettare sempre, sotto la luna umida. Severa a guardarlo, con le mani sui fianchi e le sopracciglia alzate. Perennemente fermo, sulla soglia del mare, 38 per non perdere mai di vista le onde. Perché da lì dovevano arrivare. Scivolando lenti, ciascuno sulla propria tavola di legno. Lungo i sentieri salati, disegnati per loro nei giorni di bonaccia. Chi va via, deve tornare. Non può essere diversamente. Una scatola per ciascuno, così aveva deciso, per non far esplodere il dolore nel petto. Scatole per chi era andato. Scatole per chi doveva tornare da lui. Scatole piene dei corpi delle assenze. Scatole-cuccia. Scatole-nido. Chi va via, ha il sacrosanto dovere di tornare, sennò il petto si straccia e gli occhi si sciolgono. Ma intanto, la porta del mare restava serrata, ormai da anni. E lui diventava ogni giorno più vecchio, imbalsamato nel marasma di cose da sistemare. Finché una mattina. La luce era ancora rosa quando uscì sul balcone. Nell’immediato pensò a uno scherzo di cattivo gusto. Poteva essere stato il figlio ingordo del vicino o qualche ragazzino dispettoso del palazzo. Come era possibile. Si era allontanato giusto il tempo per abbassare un po’ le palpebre e mettersi disteso. Questione di ore, quelle più nere. Quelle del letto, insomma, le consuete. Sgranò meglio gli occhi li stropicciò li strabuzzò. Il mare. Qualcuno aveva fatto scomparire il suo mare. Dal suo balcone non si vedeva più il mare. 39 E con il mare, la porta da cui sarebbero tornati. Si gettò incredulo sulla sedia. Gli girava la testa e pure il collo e anche il bacino. Girava e girava tutto e tutto saliva e scendeva. Si guardò le mani e d’istinto si abbracciò. La punta della lingua baciò la sua spalla nuda. Salato. Salato di onde di mare. Sollevò le mani e le guardò. Le dita di acqua, i palmi blu, profondo oceano. Le portò al viso. La faccia di onde. E poi. Le gambe di sale. La pancia di mare. La testa di mare, gli occhi di mare. Si era fatto mare e aveva la luna riflessa nel petto. Allora gocciolò lento sulla sedia e poi sul pavimento, fino ad arrivare lungo il corridoio, dondolando a destra e a sinistra come nell’incavo di un guscio di noce. Raccolse nella pancia di acqua una prima manciata di oggetti e si diresse verso l’armadio. Scelse di cominciare dalla scatola di avorio. Senza pensarci un secondo di più, la scoperchiò, ne annusò il profumo d’incenso e vi rovesciò dentro tutto ciò che aveva infilato nella pancia. L’assenza sgusciò via, infilandosi come ombra nel nero dell’alba. Gli oggetti cadevano e cadevano a riempire il contenitore, la pancia si svuotava, gli occhi piangevano e il suo cuore riprendeva finalmente a respirare. Acqua di sale gocciolò allora verso il suo letto, affollato di tanti pezzi di assenza. Sfilò quindi le scatole, le scoperchiò e le sistemò l’una accanto all’altra, pronte per essere riem40 pite. Fece il giro largo, passando con la pancia aperta per il bagno e per la camera da letto. Ecco, la pancia di nuovo piena, pronta per rovesciare ancora cose. Nel volgere di poche ondate, le tre stanze furono ripulite in largo e in lungo. Ogni oggetto finalmente al suo posto. E la casa piano piano a riprendere fiato, stiracchiando godereccia braccia e gambe come nei risvegli di domenica. Intanto, l’odore acre del suo dolore si sgonfiava man mano che le scatole si riempivano. Adesso, la sua vita poteva finalmente tornare a scorrere nei suoi rassicuranti tempi solidi. Ma quando acqua di sale gocciolò sul balcone per arrampicarsi sulla sedia e tornare in sé, scoprì che intorno aveva solo pesci e alghe e scogli e che la bocca era piena di acqua di mare e che adesso le scatole gli giravano tutte intorno, insieme al balcone, mentre la casa, da lontano, brillava di ordine e di pulito. Il letto buono era rimasto intonso, e le lenzuola perfettamente in ordine, come mai in precedenza. E mentre il forte ronzio del mare batteva furioso nelle orecchie e ormai non vedeva proprio più nulla, una chiave girò timida nella toppa di casa. 41 Eky seduta su un sasso Seduta su un sasso. Sotto un pigro baffo di sole a pulirsi le piante rosse dei piedi con la saliva. Strofina. Terra rossa e sottile. Sputa e strofina, per cancellarne le orme. Proprio Eky, cresciuta con la terra sotto i piedi, a giocarci da sempre facendoci leggere casupole, cunicoli e barche. Terra che brucia, ora che a Eky è successo. E che sporca. Invade bollente le dita nere dei piedi, le unghie e i suoi occhi non più bambini. Polvere. Pesante. In bocca e tra le trecce scomposte dei capelli duri. Male dietro la schiena. Piedi tra le mani di uccello. Poi uno scatto lento e su, quasi dritta. Con le ginocchia contratte che tremano. E a schiaffeggiare da dietro la gonna slabbrata e la maglia a fiori grandi. Colpi secchi venati di sale. Cammina con passo incerto, verso il mare. Tra le eleganti ombre delle palme alte. Sabbia di latte ricopre ogni passo. Proprio come quando giocava felice, nell’ora appena passata. Nessuna voce intorno. Tra le nuvole rotte si insinua il buio. E scende, strisciando, sui tetti muti dei villaggi. Eky ancora a camminare stanca. E poi a tuffarsi nuda, sotto la luna. In un’acqua di 43 spilli. Le alghe le accarezzano i polpacci. Un mucchietto di cenci l'attende sulla spiaggia candida. Pulire. E lavare. In acqua, Eky. Ad abbracciarsi la pancia calda e i fianchi. E a spingere forte con il mento sul petto. Con gli occhi sgranati puntati dritti al suo cuore. Vorrebbe che almeno la luna le sollevasse il mento. Per dirle che non è stata colpa sua. E che dalla spiaggia, una calda onda di latte le sciacquasse il viso segnato. Dal pianto. E dalla vergogna. Una spinta decisa e poi schiacciata sulla sabbia. All’inizio in tre guardavano. Il quarto manteneva. Il quinto chissà. E poi a turno, uno dopo l’altro. E a tratti anche due insieme, a rivoltarla come un pupazzo. Senza sosta, come i colpi spietati di un kalashnikov. Avevano stropicciato il suo sorriso e dato fuoco ai suoi sogni. In un tempo che a lei era parso senza argini. Una donna portava il ritmo a denti gialli. E cantava forte e batteva le mani per coprire i suoi mugugni. A nulla era servito piangere e implorare e dimenarsi e scalciare. Con i piedi e le mani bloccate e la bocca serrata da chissà cosa. Che pensava di poter fare, pidocchia. «Ora è pronta per partire» disse alla fine, soddisfatta, la donna. «E secondo me la ragazzina promette anche bene.» Tutti i pantaloni erano su. Solo qualche cintu44 ra era ancora da sistemare, insieme alle camicie schizzate di sabbia. Di Eky, intanto, solo un mugolio. Aveva ragione la donna, adesso era davvero pronta per partire. Nessun rischio di essere rispedita indietro. Il mestiere lo devi conoscere almeno un po’, soprattutto se il tuo petto è ancora acerbo. E degli uomini conosci solo l’innocenza. L’Europa è grande, ed è bene assaggiarne un pezzetto già qui, a casa. Ma Eky allora non sapeva nemmeno che cosa fosse l’Europa. Per fortuna, la donna pensò anche a questo. Si piegò sulla sua gonna larga e avvicinò il suo alito cattivo alle orecchie della piccola. E le spiegò, con poche ma incisive parole, quali fossero le regole cruciali del patto che avevano appena stretto. La testa reclinata verso il basso e gli occhi ormai vuoti, Eky ascoltava, con il corpo di pietra. La grande barca sarebbe salpata il giorno dopo. Alla fine di quel discorso, Eky sapeva che cosa volesse dire farsi voler bene da un uomo. Anche solo per cinque minuti. E sapeva anche che il viaggio sarebbe stato molto lungo e assai costoso. E che il suo debito doveva pagarlo, fino all’ultima moneta. E che doveva ritenersi una privilegiata. E un giorno l’avrebbe sicuramente chiamata con il suo cellulare, per ringraziarla. E poi chissà, magari in futuro avrebbe scelto lavori diversi. L’Europa è ricca e bella, altro che la sua casa. 45 «Terra bastarda con le sue figlie e con i suoi uomini» disse la donna guardando i neri figuri che le bofonchiavano accanto. Ma quelle bestie non erano mica uomini, pensò Eky. Suo fratello, invece, era un uomo. Perché alla fine aveva saltato il turno. E adesso contava i soldi che gli avevano dato. Le tasche piene di dollari. A casa ne sarebbero stati fieri. Le bruciavano gli occhi quando uscì dall’acqua. L’aria era ancora calda, e la spiaggia era d’argento. Eky pensò di scavare un cunicolo lungo chilometri. Per scendere e poi riemergere nel cuore della savana. E nascondersi nel ventre di un baobab. Ma poi il mare la chiamò di nuovo e le disse che nella sua pancia sarebbe stata più al sicuro. Eky annuì, con un movimento lento del viso. E con gli occhi che colavano ancora. Poi pochi passi con le spalle alle onde. Tamponò l’acqua sul corpo con gli straccetti che pazienti l’avevano aspettata. Coprirsi con le viscere di un elefante sarebbe stato più facile che indossare di nuovo gli abiti del massacro. Ma non aveva scelta, non voleva più restare nuda. Tanto quei vestiti sarebbero stati il suo tatuaggio a vita, qualsiasi cosa le fosse accaduta. Qualche passo ancora. Si piegò sulle ginocchia, quasi sulla riva. Poi, con le piccole mani, prese a costruire la barca di sabbia in cui si sarebbe accovacciata. Per andare nella notte. Dentro la pancia del mare. Non sarebbe mai salita su una barca diversa da quella. Ormai lo aveva 46 deciso. Chiuse gli occhi e si rannicchiò nella conchetta bianca. Il mare avrebbe aspettato prima di arrivare. Così le aveva promesso. Lui sapeva come fare. Si sarebbe prima accertato che il suo respiro fosse stato abbastanza profondo. E l’onda che l’avrebbe mangiata, glielo aveva giurato, sarebbe stata carezza calda sul suo corpo. E lei non avrebbe sofferto, mai più. Eky serrò gli occhi, pregando la luna di farla addormentare presto. Della notte non restava molto. Tra un po’ sarebbero tornati a prenderla. La luna accolse subito la sua preghiera e, dopo poco, le coprì la testa con le sue lenzuola bianche. La piccola ora dormiva, l’acqua le lambiva già il corpo. Poi. Una carezza sul viso, e ancora altre due. E tre. E uno strattone alla spalla. Eky con gli occhi sgranati e il cuore a sobbalzarle all’indietro. Eccoli, pensò. «Eky...» sussurrò Binta, sua sorella grande. Eky la guardò come se la vedesse per la prima volta. Aveva il labbro superiore spaccato e un occhio pesto. Dagli strappi del vestito macchiato di rosso si affacciarono scorci di seno a raccontarle ciò che era stato. Anche per lei, fortunata eletta d’Africa. Binta ingoiò il proprio pianto. «Eky, andiamo. Ora dovrai correre più veloce che puoi.» Eky le strinse forte la mano e muta si tirò su. 47 Non era questo il momento per dire. Perciò, anche lei ingoiò il suo pianto. Un ultimo sguardo al mare. E alla barca d’argento che quella notte l’aveva dolcemente cullata. E poi, bella e fiera, a sfidare a gambe levate tutte le leggi della natura. 48 continua... IL CEFALO DAI CAPELLI ROSSICCI (clicca sulla copertina) © 2015 I sognatori, Lecce ISBN 978-88-95068-73-2 Vietata la riproduzione totale o parziale dell'opera senza previo consenso dell'Editore. Ogni riferimento a fatti o persone esistenti è da intendersi come frutto del caso. Sito: www.casadeisognatori.com Facebook: I Sognatori edizioni