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A HISTORY OF VIOLENCE
scheda tecnica
durata: 95 minuti
nazionalità: Stati Uniti
anno: 2005
regia: DAVID CRONENBERG
soggetto: Tratto da ROMANZO A FUMETTI "UNA STORIA VIOLENTA" DI JOHN
WAGNER CON DISEGNI DI VINCE LOCKE (ED. MAGIC PRESS)
sceneggiatura: JOSH OLSON
produzione: NEW LINE PRODUCTIONS INC., BENDER-SPINK INC.
fotografia: PETER SUSCHITZKY
montaggio: RONALD SANDERS
scenografia: CAROL SPIER
costumi: DENISE CRONENBERG
effetti: NEIL TRIFUNOVICH, AARON WEINTRAUB, MR. X INC.
musiche: HOWARD SHORE
interpreti: VIGGO MORTENSEN (TOM STALL), MARIA BELLO (EDIE STALL), ED
HARRIS (CARL FOGARTY), WILLIAM HURT (RICHIE CUSACK), ASHTON HOLMES
(JACK STALL), HEIDI HAYES (SARAH STALL), STEVE ARBUCKLE (JARED), KYLE
SCHMID (BOBBY JORDAN), SUMELA KAY (JUDY), APRIL MULLEN (LISA), GREG
BRYK (WILLIAM "BILLY" ORSER), MORGAN
KELLY (AMICO DI BOB), IAN
MATTHEWS (RUBEN), CONNOR PRICE (KID), EVAN ROSE ('HULK' BOY)
la parola ai protagonisti
David Cronenberg
Ho avuto modo di vedere il tuo ultimo A Hystory of Violence al Festival di Cannes ed è un film che
mi ha colpito ed affascinato molto. Ma prima di addentrarcene approfonditamente, vorrei la tua
opinione su una tendenza tipica che caratterizza il mondo con cui le tue opere vengono recepite.
Essendo tu, un autore dall' impronta formale e contenutistica molto forte, ogni tuo film - e
quest'ultimo in particolare - alimenta un dibattito a mio avviso alquanto ozioso, sul quanto sia
cronenbergheriano o meno. Cosa ne pensi?
Ad essere sincero non ho una posizione in merito, perché dopotutto è una mia creatura.
Per me è un film cronenberghiano per il semplice fatto che l'ho realizzato io. E nessun altro
l'avrebbe fatto allo stesso modo. Per una banale questione di sangue, quando faccio un
film, quel film diventa automaticamente un mio, personale, film. Non mi preoccupo mai dei
film che ho fatto in precedenza. Quando sono su un nuovo set a girare, mi preoccupo solo
di quello che sto facendo in quel momento. Il passato non mi infleunza e non mi condiziona,
almeno non nel modo di farmi pensare che per essere un film di David Cronenberg deve
esserci questo elemento e quest'altro.
Sarà un clichè ma, davvero, un film è come un bambino. Hai un figlio, hai un sacco di idee
su come dovrebbe crescere e come vorresti che diventasse, ma alla fine questo bambino
non sarà mai come tu avresti voluto. E non puoi pretendere che sia qualcosa di diverso da
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quello che è. Per essere un bravo genitore, devi dare a tuo figlio quello di cui ha bisogno. E
con un film mi comporto allo stesso modo. Una volta che mi convinco che una storia è
adatta a me e decido di svilupparla, allora mi limito a mettere nel film quello di cui ha
bisogno, quello che sento che mi sta chiedendo. Non sto a pensare se sta rispecchiando un
film di Cronenberg. E sei dei critici pensano che chi ha fatto A History of Violence non è il
Cronenberg di sempre, beh, è quello che dicono loro, è un loro problema. Aver fatto questo
film è stato esattamente come aver fatto Spider, che pure, alcuni, non hanno trovato
all'altezza di altri miei film, o Inseparabili. È sempre così. Una volta che decidi di fare un film
il processo è sempre identico.
Coma mai hai scelto di lavorare su un fumetto? La cosa ha caratterizzato la forma del film?
All'inizio veramente non sapevo che fosse tratto da un fumetto. Pensavo che fosse un
soggetto originale. E solo perché nessuno me l'ha mai detto! Quando poi ho finito di
leggere il racconto, avevamo già finito di sviluppare il soggetto e il fumetto è diventato
irrilevante. Per questo, ancora adesso, quando parlo di A History of Violence, lo faccio
senza considerarlo come un adattamento di qualcos'altro. Non che questo sia un
atteggiamento voluto, semplicemente è andata così.
La resa grafica non era per me così importante, tanto da essere completamente differente
da Sin City, per esempio. Anzi, anche se inavvertitamente, il procedimento è stato
l'opposto. Ho solo trovato che lo script avesse molti spunti per me interessanti, trattati
secondo un'ottica mai affrontata prima. Se ci pensi bene, la maggior parte dei miei film
partono sempre da un personaggio abbastanza eccentrico, grottesco. Spesso è un
outsider, uomini ai margini della società, o ancora più precisamente, come in Crash, in
Spider o nei due gemelli di Inseparabili, personaggi che non consentono l'mmedesimazione
del pubblico. Quello che cerco di fare nei miei film è di sedurre il pubblico, non mi interessa
molto farlo immedesimare. Per fare questo mi interessa farli entrare nella storia e metterli in
relazione con questi personaggi, convincendoli che la tragedia ha inizio da qualcosa di
difficile comprensione, non di riscontroabile nella lorop quotidianeità. In questo caso invece,
sono partito da una famiglia piuttosto ordinaria, una situazione domestica in cui il pubblico
può immedesimarsi facilmente. Il pubblico riconoscendosi in questa famiglia è già dentro il
film sin dall'inizio. Poi all'improvviso, l'imprevisto fa la sua parte ed il pubblico è dentro una
situazione completamente differente, inaspettata. È una sorta di controcampo rispetto a
quello che faccio abitualmente, sebbene devo dire che La zona morta presentava una cosa
abbastanza simile. Anche lì c'era una piccola città della provincia americana, un contesto
famigliare simile. Tra i film che ho fatto ritengo che sia quello che più si avvicini a A History
of Violence.
Puoi approfondire questo interessante parallelismo?
Beh, c'è una connessione narrativa e allo stesso tempo politica. Se da una parte in A
History of Violence, il tema portante è quello della violenza, affrontato su più livelli.
Vedendolo ci chiediamo cosa siano costrette a sopportare questa piccola città e questa
famiglia tranquilla? Cosa rende tutto questo possibile? In tutto questo c'è un sottotesto
politco, per quanto sottile. Questo mi affascinava molto. Anche La zona morta era
ambientato in America in un buon momento politicamente e a livello internazionale. Questo
forniva eccellenti possibilità per rivisitare l'America e in qualche modo giudicarla,
nonostante poi questi giudizi siano applicabili a livello universale. In A History of Violence
tutto questo è meno esplicito ma c'è ed è stato anche materia di confronto tra me e Viggo
Mortensen, che è un attore molto accorto e politicizzato. Per convincerlo a fare il film
abbiamo difatti passato molto tempo a parlare degli aspetti politici.
Ancora a proposito de La zona morta. Hai realizzato questo film in un periodo in cui andava di
moda attingere dai romanzi di Stephen King. Perché hai deciso di fare un film proprio da quel
romanzo?
Credo che sia stata Debra Hill a contattarmi un paio di anni prima, ma io le dissi di non
essere interessato. Non avevo letto il libro e non riesco bene a ricordarmi cosa successe,
ma era un periodo in cui non ero molto sicuro riguardo le mie scelte artistiche, così quando
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lei si rifece viva e mi mostrò ben cinque versioni dello stesso soggetto, tra cui una scritta
dallo stesso Stephen King, presi più in considerazione l'idea. Dopo aver letto il romanzo ci
ripensai definitivamente e decisi che forse avrei potuto farlo. In questo mondo non ci sono
regole: quello che conta è l'intuito. Molti pensano che abbia una lista di cose da fare, ma
non è affatto così. È l'intuito che mi fa scegliere o rifiutare i progetti. Così non ti so dire
esattamente cosa mi abbia fatto cambiare idea. Ricordo che dei cinque soggetti che
avevamo non ce n'era uno che andasse bene, incluso quello di King, che forse era il
peggiore di tutti. Ho lavorato insieme allo sceneggiatore che aveva scritto quello che
secondo me era il miglior soggetto, finché non arrivammo ad una versione che sicuramente
non era fedele al romanzo, ma di cui conservava le atmosfere. Il cinema e la letteratura
sono così distanti l'uno dall'altro e se si vuole adattare un romanzo per il cinema bisogna
saperlo reinventare, proprio per questa loro intrinseca diversità. Mi sono appassionato
durante quella fase, anche perchè era la prima volta che mi trovavo a fare i conti con un
adattamento. In precedenza, a parte Fast Company, che era stato co-scritto, il resto erano
tutti soggetti miei. È stata una grande esperienza e a film finito sono stato molto soddisfatto.
La violenza che caratterizza A History of Violence è visivamente molto forte ed esplicita, ma allo
stesso tempo è contornata dall'ironia. Perché questa scelta ?
Non sono d'accordo che la violenza nel film sia così ironica. Sarebbe stata una scorciatoia
troppo semplice usare troppo humor in questo film. È vero che fino all'arrivo del
personaggio di William Hurt ci si trovi di fronte a un contesto diverso, ma da lì in poi la
violenza diventa molto diretta, ed è rappresentata senza ricorrere allo slow motion, alla
computer graphics o a qualsiasi tecnica che ne elimini troppo il realismo. Questo perché
ero convinto che dovesse essere mostrata in quel modo. Ad ogni modo il punto è sempre lo
stesso: quale che sia la percezione che se ne possa avere, ancora una volta, non mi sono
imposto a priori nulla e quindi nemmeno un tipo ideale di rappresentazione della follia.
Probabilmente in altri film l'uso della slow motion, ad esempio, sarebbe stato più
appropriato, ma in questo ho voluto capire da dove nascesse questa violenza, dove i
personaggi l'avessero appresa e cosa rappresentasse per loro. Non era arte, non era
piacere, ma lavoro. Era funzionale per arrivare all'obiettivo proposto, cosa che per certi
versi è ancora più disturbante di tanta altra violenza. Allo stesso tempo, se si accetta
questo, allora si possono accettare anche le conseguenze della violenza. La violenza
rappresentata nel mio film è molto intima, molto fisica, inflitta a una persona da un'altra
persona; ci sono, è vero, delle sparatorie ma sono molto ravvicinate perché la violenza che
ci circonda è inflitta sul corpo umano, per cui niente scontri automobilistici, niente esplosioni
di edifici, niente di tutto questo.
Tornando solo un momento indietro nella tua carriera, ad un tuo film fondamentale per infinite
ragioni come Videodrome, anche rispetto al tema appena trattato della violenza e della sua forte
connotazione sessuale. Mi incuriosisce sapere cosa pensi a distanza di tempo di quel film rispetto
alla tua visione del mondo attualmente?
A dire il vero a Videodrome non penso. Non ripenso mai ai miei vecchi film.
Perché?
Perché è acqua passata. Posso guardarli in quanto film, ma non posso guardarli come li
vede qualcun altro. Perché ogni inquadratura è come un documento che mostra cosa ho
fatto quel giorno. Quando guardo un mio film mi viene da ricordare quello che è successo
durante quella giornata di lavoro sul set, cosa facevo con mia moglie, cosa facevo con gli
attori e la troupe; per cui non riesco a vedere un film come un film, che comunque è una
cosa che non mi interessa più di tanto. Mi interessa di più pensare a quello che farò in
futuro. Per carità, mi piace l'idea di avere un corpus filmografico alle spalle che mi
distingue, di avere un passato e di certo non mi voglio disconnettere da quello, ma non
devo continuamente guardare i miei vecchi film cercando di perseguire una rete di
connessioni con i miei nuovi lavori. È una cosa innata. Quando faccio un film, non devo
preoccuparmi di rimanere fedele a certe tematiche perché riaffioreranno automaticamente
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in quanto frutto del mio essere. È una cosa che avviene da sola e di cui non devo
preoccuparmi
Mr. Cronenberg, crede che la violenza cinematografica sia in qualche modo responsabile della
violenza reale?
La responsabilità è dovuta solo nei confronti dell'arte. Nessuno fa arte in un vuolo spaziotemporale, ma è alla propria creazione che deve andare il pensiero. Una volta presa la tua
strada, non devi pensare a queste cose. Le persone diventano violente quando assistono
alla violenza ritratta in un film? Si mettono ad ammazzare quando vedono ammazzare in un
film? Beh, francamente credo che se fosse così il mondo si sarebbe spopolato da un
pezzo. Anzi penso che quello che abbiamo fatto in questo film rappresenti una presa di
coscienza eccezionalmente responsabile, perché è una seria discussione sulla natura della
violenza e sull'impatto che ha sulla società.
La società americana?
Sin dall'inizio sono stato consapevole del fatto che si trattasse di una storia decisamente
americana. Si svolge in una cittadina nel cuore tranquillo degli Stati Uniti, quasi un piccolo
paradiso; naturalmente ha funzionato alla perfezione perché il film è stato girato in Canada.
Ha la stessa risonanza dei film western americani: un uomo che mette mano alla pistola per
proteggere la sua famiglia e la sua casa. E' un tipico topos western che ho voluto
approcciare ed esplorare in questo film, ed è molto americano. Ma come ogni artista vi dirà,
se si vuole essere universali, bisogna ritrarre il particolare. Le specifiche sono americane,
ma la riflessione sulla violenza è universale.
Lei parla di una discussione seria, ma il film è costellato di humour nero...
Non credo che questi due aspetti si escludano vicendevolmente. Puoi essere serio e
divertente al tempo stesso. Ci possono essere delle commedie serie e film come questo
mio ultimo che, invece, alla fine risultano piuttosto divertenti. In alcune scene si assiste ad
una vera e propria tensione tra la serietà e il divertimento. Mi piace pensare che il pubblico
si senta un po’ complice di quello che vede sullo schermo. Non mi va di pensare che lo
spettatore possa sentirsi escluso. L’importante è capire che cosa vi sia di tanto attraente
nella violenza.
In sala ci sono state molte risate, e applausi, nelle scene piu' violente. Non crede che esposizione
di tanta violenza rischi di 'abbassare' il tono o di sviare da cio' che aveva in mente in origine?
E' un progetto particolare. Non posso farci molto su come la gente prende il film, ma non
sono sopreso... Voglio comunque che gli spettatori siano coinvolti, dei complici, se
restassero da parte, a un lato della vicenda, io avrei perso un'occasione... La discussione
su cosa sia autodistruttivo e pericoloso e' alla base del film, siamo portati su una sorta di
montagne russe emotive e tutto puo' succedere. Forse una reazione cosi' non e' 'buona'
normalmente, ma e' comunque positivo che si sia una reazione.
Sesso e sangue, violenza e passione, fragilità e determinazione: il suo cinema sembra nascere,
sotto molti profili, attraverso l’incontro di estremi opposti.
Sesso e violenza sono sempre andati d'accordo: un po’ come le uova e la pancetta. Se si
guarda alla storia cinematografica della violenza c’è una pressoché continua relazione tra i
due elementi. C’è una componente violenta nel sesso e c’è dell’erotismo nella violenza. Si
tratta di una relazione abbastanza naturale da esplorare per me. Del resto sono affascinato
dall’interazione di poli opposti: la colonna sonora di Red Cars, se un giorno verrà mai
realizzato come spero, nascerà nel punto di contrasto tra il rumore dei motori delle
macchine e il suono melodioso dell’opera lirica. Del resto Ferrari considerava la sua vita
come quella di un protagonista dell’opera e per un po’ ha considerato la possibilità di
cantare a teatro, sebbene non avesse una voce all’altezza dei professionisti. Al suo
orecchio, poi, i motori delle sue automobili risuonavano come un’aria da qualcuna delle sue
opere preferite.
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Da dove nasce la sua fascinazione per gli oggetti?
Un artista deve avere sempre a che fare con la società e con la natura umana. Credo che
attraverso gli oggetti noi comprendiamo lo zeitgeist, il punto più alto di una cultura. Il design
degli oggetti esprime la fierezza, l’esuberanza, l’ossessione per il potere e per la
grandezza. Comprendere, riutilizzare e perfino inventare per il mio cinema alcuni oggetti ha
un valore al tempo stesso archeologico e creativo. E’ un po’ come lavorare ad uno scavo
nel passato: guardare ad una Cadillac degli anni Cinquanta è come mettere a nudo il
crescente senso di potenza dell’America di quel periodo. Noi amiamo gli oggetti in virtù
della cultura che li ha espressi e il mio fascino per loro deriva dalla mia comprensione di
quello che è la tecnologia. Per me la tecnologia non è né inumana, né deumanizzante.
Anzi: è molto umana, perché deriva da noi uomini. Chi esamina la tecnologia è come se
analizzasse la natura della nostra creatività di uomini. In più credo che nessun artista possa
accettare semplicemente la superficie delle cose. Bisogna andare in profondità per capire
come queste funzionano.
Anche in A History of violence lei sembra flirtare con le icone cinematografiche: i gangster, le
donne fatali come Maria Bello, gli eroi riluttanti. Cosa l’affascina del mostrare questi personaggi
che vivono nel nostro immaginario?
E’ difficile spiegarlo: non è qualcosa che segue un processo intenzionale. Non ne sono del
tutto consapevole, mentre faccio un film. Semmai è tutta una questione di sensibilità, anche
dal punto di vista tecnico: la scelta delle lenti, le inquadrature costruite insieme
all’operatore, la decisione su come illuminare le cose e le persone in base all’angolazione
dell’inquadratura, il montaggio, il movimento che ne deriva…
E’ innegabile, però, che le attrici e gli attori protagonisti dei suoi film risultino particolarmente belli e
affascinanti.
Una componente da non trascurare è quella del suono della voce: parte della bellezza di
una donna o di un uomo sta proprio in questo elemento tutt’altro che trascurabile. Sono
contento di sapere che questo accade, ma, ripeto, non si tratta di una scelta estetica
pianificata in precedenza. Non ho obiettivi predefiniti e non penso di creare immagini che
abbiano un valore iconico. Tutto deve nascere dal film e non intendo mai imporre nulla
dall’esterno.
Questa è la spiegazione per cui i suoi film sono apparentemente così diversi tra loro?
Quando ho deciso di realizzare A history of violence non mi sono detto di dover realizzare
un film ‘alla Cronenberg’. Non ho pensato a seguire uno stile e a disseminare elementi che
lo caratterizzassero come un mio film. Non lo farei mai e ogni volta che lavoro ad un
progetto mi dimentico completamente del mio cinema precedente.
E cosa ricorda, invece?
Di porre a me stesso delle domande cruciali: è un po’ come avere davanti a sé un figlio. Sai
di doverlo crescere, amare, educare e insegnargli a vivere, ma non puoi imporre te stesso
su di lui. Se lo fai sarà un disastro, perché un figlio segue un proprio sviluppo della
personalità e ti dice quello che vuole e ciò che desidera. Do ai miei film quello che
pretendono da me. Se un film mi domanda sesso e sangue, gli do sesso e sangue. Se non
lo vuole, non lo faccio. Non mi dico: mettiamoli lo stesso. Non ci penso nemmeno a farlo,
sarebbe un errore.
A che punto è la sua carriera oggi?
Sinceramente non lo so. Non guardo mai al mio lavoro in termini di una carriera. Penso al
mio cinema film dopo film. Ho fiducia nel fatto che le mie intuizioni e la mia passione mi
guideranno, tenendomi alla larga da qualcosa che non dovrei fare. Non ho, però, un
concetto fondante l’idea riguardo a quello che devo e non devo fare.
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recensioni
Maurizio Porro - Il Corriere della Sera, 16 dicembre 2005
Grande Cronenberg: fa una specie di B western ma con un soggetto alla Camus: c' è sempre lo
straniero in casa. Ispirato a un fumetto, ecco un uomo tranquillo in una piccola città che, molestato
da loschi tipi, diventa un brutto ceffo. Era così? Ha doppia personalità? Aspettate la fine, non
uscirete tranquilli. L'autore insegue il tema delle identità pericolose, mosche o inseparabili, in una
cornice che ne fa risaltare la contemporanea matrice: oggi di sogni siamo sprovvisti, solo incubi.
Occhi sulla famiglia: una bella scena padre-figlio da «Legge del Signore», una di violenza sessualconiugale, la cinica finale tavola imbandita che corona un film tutto doppio, di odio e amore. Va
dritto allo spettatore, sembra facile e semplice, ma dentro racchiude tutta la perfidia complessità di
Cronenberg. Viggo Mortensen è perfetto per l'ambiguità, mentre due fantastici vilain sono Ed
Harris e William Hurt. VOTO: 8,5
Roberto Nepoti - La Repubblica , 16 dicembre 2005
L'uomo David Cronenberg resta di un pessimismo integrale. Cronenberg, il regista, ci fa scoprire di
possedere non solo il talento di giocare coi nervi scoperti dello spettatore, ma anche una solida
vena di humour. Nero inchiostro, naturalmente. Tratto da una graphic novel di John Wagner e
Vince Locke, A history of violence inizia come un classico "abuse movie", immarcescibile (e
perlopiù reazionaria) formula narrativa dove il buono subisce torti e violenze, poi si ribella ai cattivi
che tormentano lui e i suoi cari. Tom Stall gestisce un modesto ristorante in una cittadina della
provincia americana. Minacciato da due stranieri, reagisce come un killer: è solo l'inizio di una
catena di violenze da cui emergerà il cuore di tenebra di Tom. Se il plot ricorda vecchi western
dove l'eroe in ritiro si ritrova faccia a faccia col proprio passato, Cronenberg fa subito piazza pulita
di ogni giustificazionismo per mettere in scena una parabola sulla natura ontologica, genetica della
violenza. Ogni tipo di violenza - legittima, sessuale, scolastica, mentale - è descritta con un
approccio minuzioso, quasi clinico; cui corrisponde l'estrema precisione di ogni dettaglio della
messa in scena, dalle singole inquadrature ai movimenti di macchina, dall'illuminazione al
montaggio. La famiglia del protagonista appare da subito troppo perfetta, troppo ideale, ai limiti del
nauseabondo. Quando l'andamento della vicenda, sapientemente raccontata, si ribalta
trasformando il buon marito-padre in una spietata macchina da guerra, il film innesca un'escalation
di violenza che infetta uno per uno i serafici personaggi: il teen-ager modello si scopre un
massacratore di bulli; mamma e papà si accoppiano sulle scale, con molto più impeto di prima (il
regista realizza la scena di sesso come una scena di combattimento); allorché, all'inizio del film,
facevano all'amore scherzando e vergognandosi un po'. Cronenberg ci suggerisce che la
mostruosità era già insita nella famigliola; solo sonnecchiava, pronta a risvegliarsi all'occasione.
Intelligente, spietatamente lucido, bonificato di qualsivoglia elemento romantico, il film pone
domande complesse e perfino imbarazzanti.
Fulvia Caprara - La Stampa, 17 maggio 2005
Per l'ennesima volta David Cronenberg, maestro di un cinema angoscioso e disturbante, risponde
alla domanda sulla violenza contenuta nei suoi film e sull'eventualità che essa influenzi il
comportamento degli spettatori: «Non credo proprio che la gente vada al cinema, veda scene di
omicidi e poi esca fuori ad uccidere. Se questo fosse vero, nel mondo non ci sarebbe più
nessuno». La verità, dice l'autore, è invece «che la violenza pervade tutti i nostri rapporti, fa parte
della nostra natura, si mescola con tutto, a iniziare dal sesso. Credo che la violenza venga fuori
dall'impossibilità di vivere la realtà che vorremmo. Nonostante tutti i nostri tentativi di evolverci,
anche attaverso la tecnologia, la violenza continua ad essere una malattia universale. Coltiviamo
tutti il sogno di dominarla, così come quello di raggiungere la pace nel mondo, ma per ora tutto
questo resta un sogno». Ispirato alla «graphic novel» di John Wagner e Vince Locke, «A History of
violence» mette in scena «una vicenda tipicamente americana, è un po’come un moderno western,
in cui un uomo normale è costretto a ricorrere alle armi per difendere la sua famiglia». La sua
semplicità, il suo essere, almeno in apparenza, un padre di famiglia come tanti che non vuole
diventare un eroe, provoca «nel pubblico un processo immediato di identificazione, aprendo, di
conseguenza, degli interrogativi sulla necessità della violenza, sulla possibilità o meno di reagire in
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modi diversi». Insomma, aggiunge l'autore, anche se la vicenda è collocata in un contesto molto
americano, le questioni che apre sono «assolutamente universali». Protagonista della storia, nei
panni di Tom Stall, c'è Viggo Mortensen che, dopo essere stato il valoroso Aragorn del «Signore
degli anelli», si ritrova a fare i conti con un passato che si ostina a ritornare: «In tutti e due i film, la
violenza è una scelta obbligata. In questo caso Tom si trova ad usarla perchè vuole proteggere i
suoi affetti, mantenerli lontani e separati da una zona oscura della sua esistenza. Ma più cerca di
nascondere quella parte e più questa gli torna davanti, sempre più forte e soprattutto
incancellabile. In ogni caso nel film la violenza non viene mai mostrata in una luce attraente». Al
fianco di Mortensen c'è l'attrice Maria Bello, nel ruolo della moglie, anche lei coinvolta nel gioco, e
in qualche modo attirata dall'escalation di morte e di sangue: «La natura umana è molto
complessa, mi piace il modo con cui Cronenberg riesce ad andare fino in fondo, a scavare nei
meandri più inconfessabili della nostra personalità». Nel film William Hurt ha un'apparizione breve
e folgorante: «Sono una persona che vive in un mondo dove non c'è posto per il perdono, guidata
solo da una sorta di bestialità che, in fondo, non è che una forma di difesa nei confronti
dell'esistenza». L'intesa tra Hurt e Cronenberg è stata particolarmente soddisfacente: «Sul set
sono abituato a fare tutto quello che posso per sostenere la visione del regista. In questo caso le
indicazioni di David e anche di Viggo sono state preziose».
Lietta Tornabuoni - La Stampa, 16 dicembre 2005
David Cronenberg, 62 anni, maestro di mutazioni e d'orrore, diceva all'ultimo festival di Cannes
che la violenza fa parte della natura umana, che domina tutti i nostri rapporti a cominciare da quelli
sessuali, che ogni tentativo di vincere questa malattia universale rimane un sogno, che cercare di
dividere gli uomini in violenti e non-violenti è soltanto una slealtà ignorante, un ennesimo modo di
discriminazione. Proprio per illustrare queste sue idee, diceva, aveva diretto A History of Violence,
una storia di violenza. Chissà. Il film è tratto da un fumetto di John Wagner e Vince Locke, è un
lavoro su commissione, è superamericano ma girato nell'Ontario perchè il regista detesta lavorare
negli Stati Uniti e «del resto i miei film sono fisicamente e psicologicamente canadesi», è finanziato
dagli americani, gli manca l'impronta di Cronenberg. Eppure è bellissimo: racconta di un criminale
mutatosi in onesto commerciante e padre di famiglia che di nuovo ridiventa criminale, di nuovo
torna a sembrare onesto. Viggo Mortensen gestisce un bar nella cittadina di Mellbrook, Indiana.
Ha una moglie avvocato, due figli. Vive bene, tranquillo. Un giorno entrano minacciosi nel locale
due teppisti; lui li uccide con veloce competenza; la televisione fa di lui un eroe americano, pronto
a difendere i suoi clienti e la sua famiglia. Alla televisione lo riconoscono alcuni ceffi che arrivano al
locale, lo chiamano insistenti con un altro nome, si ostinano a dire che è un'altra persona, lo
assediano: vanno a casa sua, gli portano via un figlio. Lui li uccide; uccide pure il proprio fratello,
che è un delinquente, e quattro suoi dipendenti. Poi tutto si ricompone, come se nulla fosse. La
piccola famiglia siede a tavola e mangia in silenzio, muta ma unita.
Maurizio Cabona - Il Giornale, 16 dicembre 2005
Questa settimana escono film lunghi come King Kong, che fanno apprezzare A History of Violence
di David Cronenberg perché è corto. In più il film ha il pregio d'aver brio e, a tratti, fantasia. Dopo la
noia profonda di Spider, col quale aveva partecipato a un altro Festival di Cannes, quest'anno è
come se Cronenberg tornasse agli albori. Girato in Canada, ambientato nell'Indiana, A History of
Violence narra di due fratelli banditi: il cadetto (Viggo Mortensen) ha lasciato il maggiore (William
Hurt) vent'anni prima, ma viene ritrovato in una cittadina di provincia, dopo che ha ucciso due
rapinatori ed è così diventato un «eroe americano». Sorta di western contemporaneo che ne
echeggia vari d'epoca, A History of Violence mescola comico, drammatico ed erotico: Maria Bello
impersona la delusa moglie del barista Mortensen, ma ritrova ardori da luna di miele scoprendolo
abile assassino. Si vuole che i film da Festival abbiano un significato: si direbbe che quello scelto
da Cronenberg sia evidente, ma certi registi amano confondere le piste: «Voglio far riflettere il
pubblico: che si diverta nelle scene drammatiche, ma rifletta sulla violenza ».E sui suoi pregi
afrodisiaci.
Roberto Escobar - Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2006
Nella reception di un motel un uomo punta la sua pistola contro una bambina. Sbucata da una
porta, la piccola lo guarda muta. Per terra, davanti a lei, ci sono due cadaveri. Lui si abbassa, le
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parla con dolcezza. Intanto, prende la pistola che tiene dietro la schiena: I gesti sono tranquilli.
Pochi minuti prima, uscendo da una camera del motel, con la stessa indifferenza ha rimesso a
posto una sedia. Poi s’è infilato in auto, in attesa che il complice facesse il suo lavoro. Solo per
caso — per prendere un po’ d’acqua — è entrato anche lui nella reception. Ora sorride, e punta la
pistola. Con le immagini “quiete” di questa folle normalità inizia A History of Violence (Usa, 2005,
96’). E subito, con un improvviso taglio di montaggio, senza attendere il rumore dello sparo, David
Cronenberg mostra il primo piano di un’altra bambina, che balza sul letto urlando. Si tratta di Sarah
(Heidi Hayes), figlia di Edie (Maria Bello) e Tom Stail (Viggo Mortensen). L’ha svegliata un incubo,
e ancora ha paura. Il padre la rincuora e il fratello maggiore Jack (Ashton Holmes) le suggerisce
come mettere in fuga i mostri notturni: basta accendere la luce, e scompaiono. Così, tanto tempo
prima, ha fatto anche Tom con i suoi propri. È stato solo con la sua coscienza - «nel deserto», gli
fa dire la sceneggiatura che Josh Olson ha tratto da un racconto di John Wagner e Vince Locke —,
ed è uscito dal buio della sua vita. In questo senso, prima d’ allora la sua è stata una “storia di
violenza”, come quelle degli assassini su cui il film si apre. Ora, invece, c’è solo luce in lui e attorno
a lui. Così, per qualche minuto, ce lo racconta Cronenberg: come un tranquillo piccolo uomo della
provincia americana, in pace con il mondo. D’altra parte, sono troppo perfette per esser vere,
quella luce e quella pace. Sulla loro normalità, poi, incombe l’altra, mostruosa, su cui si apre A
History of Violence. Non ci sono indizi di brutalità, nei giorni e nelle notti di Tom, se non è
quest’eccesso di serenità e, insieme, quell’eccesso di follia. La regia di Cronenberg non ricorre a
ritmi o a fatti esasperati, per creare tensione. Al contrario, si limita a contrapporre i due ‘eccessi”, e
1ascia che siamo noi in platea a sospettare e temere paure nel buio. Quando poi la violenza
irrompe, quando Tom torna a essere quello che è stato, allora tutto avviene all’improvviso.
L’esplosione che lo porta a uccidere non ha niente di psicologico”. Non è crudeltà, e non è paura.
Si direbbe una questione chimica, una questione che si decide da sé nella profondità del corpo. E
infatti la regia la racconta senza lasciarci il tempo di vederla davvero, e nemmeno di
spaventarcene. È solo qualcosa che accade, con la brutalità trasparente e assoluta di un puro fatto
(e lo stesso accade, appunto, anche a Jack, che si ribella a due suoi compagni che lo tormentano).
Così è, in quel motel e poi nel piccolo ristorante di Tom, anche la violenza dei due assassini:
brutale, trasparente, assoluta. La differenza sta nell’atteggiamento, nel giudizio. I primi non ne
hanno e non ne formulano. Aderiscono senza emozioni a quella chimica. Tom invece la teme, la
condanna, cerca di affrancarsene, e persino di dimenticarsene. Insomma, tenta di far di sé un
uomo morale, ossia un individuo della luce e della pace, un individuo della superficie. C’è qui
molto della poetica di Cronenberg, che nel corpo vede le radici profonde e invincibili dell’essere
uomini e donne. Non si tratta solo di violenza distruttiva e omicida, ma di una “verità” più ampia e
decisiva. E la stessa verità che esplode fra Tom ed Edie, fra i loro corpi. Proprio mentre si
affrontano e si fanno del male, all’improvviso l’aggressione reciproca diventa reciproco desiderio e
piacere. Allora, niente più possono e soprattutto niente più possono volere per sottrarsi a quel che
accade. Si annullano in esso insieme, lo subiscono insieme, e però in esso non si incontrano. Dal
buio, dalla cieca sovranità del corpo, per Tom non c’è altra via d’uscita che un paradosso. Dovrà
cedere a quel buio e a quella sovranità, dovrà uccidere senza emozioni. Solo così tornerà ad
affrancarsi dalla sua storia di violenza. D’altra parte, in lui è ben viva anche la ricerca di un giudizio
morale. Tom sceglie la signoria della sua coscienza, ma la raggiunge solo attraverso il buio di una
brutale, trasparente, assoluta violenza. Quello che così riconquista — i suoi giorni tranquilli, in
superficie —, è dunque “esposto” alla possibilità che, d’improvviso il buio torni a vincere. Mentre il
film si chiude, lo vediamo riflesso negli sguardi disperati di Tom ed Edie, questo paradosso fatto di
muscoli e di carne, pronto a esplodere come un colpo di pistola.
Luigi Paini - Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2006
Cerchi di nasconderla, ma è sempre in agguato. E quando pensi di averla vinta, eccola che
riappare, come un drago che nessun San Giorgio sarà mai in grado di sconfiggere definitivamente.
È la parte selvaggia del nostro Io, la vera protagonista del film dl David Cronenberg A History of
Violence. Un film che inizia con un’immersione nell’orrore: un lungo piano sequenza
accompagnato solo da pochi rumori e dialoghi scarni, mentre, fuori campo accade un’orribile
strage. E l’opera di due lupi mascherati da uomini, che girano l’America seminando morte. Ma non
è su di loro che si concentra l’attenzione. Siamo solo al prologo, al piccolo detonatore che sta per
fare scoppiare la bomba atomica della vicenda centrale. Una piccola famiglia tranquilla, padre,
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madre e due figli, uno adolescente, l’altra ancora molto piccola. America felice, che tira avanti
lavorando sodo. Lei fa l’avvocato, lui gestisce una tavola calda. Proprio il locale dove piombano i
due loschi liguri incontrati all’inizio. E una rapina, attuata con estrema, selvaggia violenza. Ma
come in Cane di paglia, di Sam Peckinpah, l’uomo tranquillo si trasforma, diventa una macchina di
morte, stendendo i due assalitori. Ora è un eroe, tutti guardano a lui come a un modello. Perfino il
timido figlio trova Il coraggio di ribellarsi alle angherie di due bulletti della scuola, scoprendo in se
stesso un’insospettata dose di ferocia. Ma le cose si complicano: com’è possibile che una persona
cosi comune sia stata capace di neutralizzare quei due killer assetati di sangue pronti a tutto? C’è
forse qualcosa di sconosciuto nel suo passato? Cronenberg scava, semina gli indizi, ritorna sui
suoi temi più amati: l’angoscia di fronte all’altro. Il peso della colpa, la dialettica eterna, e di per sé
tragica, tra essere e apparire.
Fabio Ferzetti - Il Messaggero, 16 dicembre 2005
L’ultimo film di Cronenberg, Spider, derivava da un romanzo di Patrick McGrath riscritto dallo
stesso autore ed era così rifinito e perfetto da risultare un poco ovvio, quasi accademico. Come se
il grande regista canadese si fosse limitato per una volta a illustrare un testo già interamente
espresso sulla pagina. Tratto da un fumetto di John Wagner, A History of Violence ci riporta
invece al cuore del suo lavoro e delle sue ossessioni: l’identità sempre vacillante, la paranoia, il
contagio, la minaccia espressa non solo dagli esseri animati ma dai semplici oggetti. Come se solo
rielaborando un materiale meno “finito” Cronenberg potesse spalancare gli abissi nascosti sotto la
superficie delle realtà più familiari. Già il titolo, ambiguo e sinistro, ci mette in guardia: Una storia di
violenza o Una storia della violenza? Il racconto di un caso particolare o la genealogia di un male
che riguarda tutti noi? L’orrore squadrato del prologo dà il “la” a una vicenda costruita a cerchi
concentrici. Due brutti ceffi, una spider, una serie di casette basse perdute nel nulla. La strage si è
già consumata ma non siamo in un semplice film di genere, anche se Cronenberg lavora su
personaggi e atmosfere archetipici. Poco dopo i due assassini capitano nel sonnacchioso bar di
provincia di Viggo Mortensen. Ma il pacifico barista riesce a stenderli con riflessi fulminanti e
coraggio da eroe. Eroe o killer? Mentre le tv cavalcano il caso facendone una star (e rovinandogli
la vita), i dubbi si infittiscono. Forse il tranquillo barista che si infuria se il figlio per una volta
ricambia le angherie del bullo della scuola (esagerando un tantino in verità...), non è così pacifico.
Anzi, forse non si chiama nemmeno Tom, come moglie e figli credono, ma Joey. Forse quel ceffo
sfregiato che un giorno viene a cercarlo nel suo locale (Ed Harris, spaventoso e grandioso), non è
un mitomane ma un vero bandito. Forse anche papà Tom era un criminale, di quelli che uccidono
tre uomini in due mosse. Ma il bello è che questa scoperta innesca un crescendo di violenze a
catena (dopo padre e figlio, anche la moglie...) che Cronenberg mette in scena evitando l’enfasi
per concentrarsi invece sul ritmo, sulla sgradevolezza, sulla durezza del segno. Colpi mortali, volti
sfigurati, nessuna coreografia estetizzante degli scontri: malgrado l’ironia il film mette davvero a
disagio. Complice un cast perfetto (la metamorfosi non sarebbe così inquietante senza la quieta
dolcezza della moglie Maria Bello), in testa il fratello gangster William Hurt col suo strepitoso
monologo finale. La morale (e lo spunto) possono ricordare Niente da nascondere: l’America
(l’Occidente) ha la violenza nel Dna, non basta dimenticare per cancellare le colpe dei padri. Se
Haneke lavora sull’invisibile e sul vuoto, all’europea, Cronenberg parte dal cinema di genere. Ma i
due film, così diversi, affondano le radici nello stesso sentimento tragico del presente.
Valerio Caprara - Il Mattino, 24 dicembre 2005
A history of violence del maestro canadese David Cronenberg, autore peraltro abituato alle
tempestose accoglienze (Inseparabili, Crash), dopo aver diviso la platea di Cannes potrebbe
essere consumato come un film di genere qualunque. Sarebbe un vero peccato, però, equivocare
sul fatto che questo thrilling serrato e incalzante, cronenberghiano sino in fondo, ma anche ispirato
da autori come Boorman e Peckinpah e da titoli come Ore disperate e Il promontorio della paura,
non cerca giustifiche intellettualistiche e non risparmia allo spettatore gli effetti più crudi sulla
gamma tra il noir e il gangsteristico. Impiantato a cerchi concentrici nel cuore del sogno americano,
di cui sa esplorare le più inconfessabili angosce, A History of Violence discioglie i soliti e ovvi
fraseggi ideologici nella pura suspense e lavora di stile sulle mutazioni indotte dall'istinto
primordiale della violenza. Quando l'anonimo provinciale Tom (un Viggo Mortensen non del tutto
all'altezza) uccide per legittima difesa due temibili killer, l'opinione pubblica ne fa un eroe
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nazionale; ma, a poco a poco, le ombre del passato rimosso si addensano, provocando una
catena di cortocircuiti fisici e psicologici. L'imprevedibile «contaminazione» determina, così, un
inquietante crescendo drammatico che stringe d'assedio il timorato antieroe e la sua liliale
famiglia... Il discorso (sapientemente indiretto) finisce col riguardare la genealogia universale della
violenza, un mix di transfert paranoici e minacce reali che esclude qualsiasi compiacimento
estetico e corregge la tentazione moralistica con un surplus di tagliente sarcasmo. Attenzione alla
straordinaria scena di sesso tra i coniugi che segue i primi shock: dimostrando che la violenza fa
parte della natura umana e domina tutti i nostri rapporti e che è assai arduo controllare questa vera
e propria «malattia» genetica, il nichilismo di Cronenberg si riafferma nella sua devastante
potenza.
Gian Luigi Rondi - Il Giornale, 17 dicembre 2005
Nel cinema di David Cronenberg si incontra più d’una volta il tema della doppia identità. In
Inseparabili, ad esempio, in M. Butterfly e, di recente, in Spider. Oggi quel tema gliel’ha suggerito
un romanzo a fumetti riscritto per lui da Josh Oljon, un noto sceneggiatore di film indipendenti. A
sostenerlo, però, come il titolo avverte, c’è la violenza, spinta in più momenti quasi agli estremi. Si
comincia, come d’uso, con una famiglia tranquilla, nello sfondo di una tranquilla provincia
americana. Un padre, Tom Stall, che gestisce un ristorante, una madre, Edie, avvocato di
successo, un ragazzetto e una bambina. Un giorno due sbandati irrompono con furia nel ristorante
di Tom e minacciano tutti. Lui, pur essendo un uomo pacifico, si difende, spara, uccide e diventa
l’«eroe americano» del giorno, con foto sui giornali e interviste in Tv. Da qui, però, nuovi guai
perché si fa avanti un tizio, dal volto sfigurato e dai modi bruschi, che chiamando Tom con un altro
nome, gli chiede conto del male che gli ha fatto subire. Tom ha dunque un passato che lì nessuno
conosce? Altro sangue, sconcerto fra i suoi, uno scontro finale altrettanto sanguinoso con persone
improvvisamente emerse dal buio di anni lontani. Con molta difficoltà, adesso, per Tom , di farsi
riaccogliere in quella famiglia che, spinta a dubitare, ha sconvolto. Cronenberg ha condotto tutta
l’azione con mano sicura. Prima all’insegna di un’ambiguità che lascia diffondersi su tutto; sui
personaggi, sui loro reciproci rapporti sulle ragioni di quel protagonista che all’inizio nega, come in
innocente preso in una trappola da cui non riesce più a uscire. Poi, appunto, all’insegna di una
violenza che via via dilaga su ciascuno, non solo su Tom, da uomo adesso quieto a omicida senza
remore come una volta, ma sul figlio che, perseguitato a scuola, trova tutto l’ardire necessario per
difendersi e persino sulla moglie che, nel suo risentimento urlato, accetta una pagina di sesso in
cui domina più il furore del sentimento. Analizzando i caratteri, alternando ai momenti più
duramente espliciti quelli sfumati, con un linguaggio che privilegia, pur in quella provincia rurale e
solare, le luci scure e i ritmi incalzanti pronti nei passaggi più incisivi, a far trattenere il respiro.
Felicemente coadiuvato da interpreti magnifici: Viggo Mortensen, un protagonista dalle multiple
espressioni, Maria Bello, una moglie di una sensualità quasi esasperata, e due «cattivi» di forte
segno, Ed Harris, il primo a farsi vivo, William Hurt, che concluderà quella ridda. La firma di
Cronenberg.
Alberto Crespi - L'Unità, 15 maggio 2005
Un David Cronenberg senza mostri né mutazioni, che coglie clamorosamente nel segno: History of
Violence è un film notevolissimo che scava nella violenza repressa dell'America moderna. Viggo
Mortensen (proprio lui, l'Aragorn del Signore degli anelli) è Tom Stall, un tranquillo padre di
famiglia che gestisce un bar in un paesino dell'Indiana. La sua vita cambia quando diventa un
eroe: ammazza due balordi che volevano rapinare il suo bar, la sua faccia finisce sui giornali e una
banda di gangster arriva in paese, convinti che Tom sia in realtà Joey Cusack, un pericoloso killer
scomparso anni prima. Chi è davvero Tom: un probo cittadino o un ex gangster che ha cambiato
identità? Per scoprirlo, dovremo seguirlo a Philadelphia, dove deve recarsi per fare i conti con il
proprio passato. Impreziosito da un paio di superbi cammei (Ed Harris e William Hurt), History of
Violence procede come un incubo ad occhi aperti. Per Cronenberg è un'opera quasi minimale, che
forse deluderà i fans dei suoi film più visionari; ma che potrebbe segnare una svolta nella sua
carriera, il raggiungimento di una più pacata maturità.
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Mariuccia Ciotta - Il Manifesto, 17 maggio 2005
La violenza non è diabolicamente nascosta nella normalità, ma è «normale». Ha lo sguardo
giovane del ragazzo di Woody Allen in Match Point che si scopre killer tra un tè e una serata
all'Opera nella Londra dell'alta società, e così torna in A History of Violence di David Cronenberg
nella forma di un film classico, rivisitazione hichcockiana, aspirante alla Palma d'oro. E come Allen,
Cronenberg esce da sé per ridisegnare la scena del bene e del male. Il leit-motiv della paternità
nei film di Cannes si salda alla sua assoluta devianza. Tanto protettivo e caldo è il sentimento
paterno tanto si è capaci di uccidere in nome di figli, comunità, patria, religione. Sull'argomento si è
distinto Million Dollar Baby come film insubordinato, politico nella sua negazione totale dei legami
di sangue per una paternità estesa, fluttuante. Una storia di violenza è l'esercizio dell'inclusione
nell'incubo del quotidiano, perfino quello di una famigliola felice, perfetta che vive in una cittadina
del Midwest (anche se il film è girato in Canada) decorata con tutte le segnaletiche folk del genere,
a cominciare dal diner, centro di ristoro della comunità, luogo familiare, rassicurante. Il pericolo non
verrà solo da fuori, dallo straniero, e neppure dalle depravazioni di provincia come in Twin Peaks.
La sua faccia è quella aperta e sorridende di Tom Stall (Viggo Mortensen, Il signore degli anelli)
che sarà costretto a fracassare la testa e a impallinare due «mostri», appena visti, nel prologo del
film, uscire da un motel dopo un orribile massacro, bambina compresa, pur di non pagare il conto.
Tom Stall si trova davanti la coppia di «cattivi», pronti a far fuori i clienti, e reagisce. Diventa l'idolo
del paese, l'eroe nazionale braccato dalle tv... La moglie Edie, dalle pulsioni erotiche
adolescenziali (Maria Bello), è turbata ma felice di aver scoperto il lato coraggioso e macho del
marito, lo stesso vale per il figlio teenager che quasi in simultanea con la performance paterna
stende a pugni un prepotente compagno di scuola. C'è, dunque, una vena audace e imprevedibile
nella dolce famiglia Stall, completata da figlioletta di sei anni, Angelica. A cercare David
Cronenberg e le sue allucinazioni da play-station organica (Existenz, `99) o i suoi incubi schizoidi
(Spider, 2002) niente da fare, Una storia di violenza è un thriller apparentemente regolare, che
ricorda un po' le atmosfere di Cape Fear, il «Promontorio della paura», sequel da Martin Scorsese
con un Robert De Niro diabolico, uscito dal passato per minacciare un'altra famiglia tranquilla. Che
succede però se il padre ha una personalità multipla, e sa torcere colli altrettanto bene di come fa il
caffè? Forse Tom Stall è un altro, forse ha ragione il gangster irlandese (Ed Harris, magnifico) ad
attribuirgli il suo occhio spappolato, forse marito e papà modello hanno un passato selvaggio...
Che succede quando la violenza penetra nel focolare domestico? si chiede Cronenberg, che
questa volta non è l'autore della sceneggiatura, scritta da John Olson, a partire da una storia a
fumetti di John Wagner e Vince Locke. L'alternanza di luci e ombre distingue le zone della gioia
domestica, i mall, le strade ridenti della little town da quelle del «peccato» grazie alla fotografia di
Peter Suschitzky (sette volte con Cronenberg). Ma qui il «castello» buio e maledetto è dentro il
cuore dell'eroe, abitato da consanguinei, anzi da suo fratello Richie, interpretato dal virtuoso del
gesto, William Hurt. Viggo Mortensen, molto gettonato qui sulla Croisette in quanto star di Tolkien,
ce la mette tutta a cambiare espressione, mentre a Hurt, uno dei più grandi di Hollywood, basta
uno sguardo per scollare il testo dalla narrazione e restituire Cronenberg a se stesso. Come in
Fritz Lang, un uomo innocente non può scappare al suo destino, suggerisce il regista: «la violenza
è una cosa cattiva ma reale e inevitabile dell'esistenza umana». È qualcosa che lascia pietrificati e
produce se fuori contesto un effetto paradossale e quindi comico. I festivalieri si sono lasciati
andare a fragorose risate di disappunto di fronte al crescendo di orrore come nei «midnight
movies» esasperati e sanguinari nel tentativo di riprodurre i massacri reali, dal Vietnam alle
carneficine poliziesche per le strade. Senza pudore, Cronenberg forza una struttura di thriller
classico, alla Don Siegel, per immettere virus visuali e, in un decalage micidiale, passa dalla più
rosea delle realtà al mito dell'uomo che si fa giustizia da sé, criminale in quanto Padre, guardiano
della sua proprietà e genia.
Mariarosa Mancuso - Il Foglio, 17 dicembre 2005
La scena di sesso sulle scale di casa pare abbia provocato lividi veri alla schiena di Maria Bello,
ovvero Edie la moglie perfetta, Edie la madre di due figli altrettanto perfetti (e all’occasione Edie la
ragazza pon pon). Per la prima volta un regista ha pensato che era il caso di ricorrere a qualche
cuscinetto per attutire i colpi e smussare gli spigoli, come si fa sul ring. Comunque, ne viene fuori
una sequenza da antologia (quanto a danni collaterali, se l’è passata molto peggio Gorge Clooney,
che per una sediata in testa durante la lavorazione di Syriana si è ritrovato smemorato). David
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Cronenberg racconta che avrebbe voluto intitolare il film “Scene da un matrimonio”. Ma i fan
abituati a spaccare il capello in quattro e a decifrare i significati nascosti dietro le immagini
sarebbero rimasti delusi. Con questo titolo, possono aprire il dibattito sull’America di Bush,
sull’America in generale, sulla violenza che è in noi, sui danni degli omicidi visti da un quindicenne
medio alla televisione, sul passato che ritorna (nell’individuo e nella specie), sulla violenza al
cinema comparata alla violenza del fumetto (con excursus su John Wagner e Vince Locke, gli
stessi di Road to perdition - Era mio padre girato da Sam Mendes). Magari anche sul potenziale
della caffettiera piena come arma d’offesa e di difesa, e sulla pericolosità della staccionata in una
cittadina dell’Indiana. Ebbene sì: esiste gente che, pur di non guardare un film, di passare due ore
senza aggiustare i mali del mondo, farebbe qualsiasi cosa. Gli altri si divertono di più. Possono
ammirare senza distrarsi la bravura di Cronenberg, qui insolitamente mainstream, pronto per girare
o una puntata dei “Soprano” o una delle “Casalinghe disperate”. La famiglia è un capolavoro di
composizione: bambina ricciuta che ha paura del buio, adolescente pacifista in guerra aperta con il
padre Tom. Viggo Mortensen lascia senza parole per bellezza, bravura, ambiguità. La caffetteria
dove sembra non possa succedere niente di male fa da sfondo a una reazione di legittima difesa
fin troppo da manuale. In città cominciano a girare tipi minacciosi, e in famiglia qualche dubbio
viene. L’unico fuori posto è William Hurt, gigione e sopra le righe.
Mauro Gervasini - Film Tv, 20 dicembre 2005
Un uomo tranquillo, Tom Stall. Buon padre di famiglia, ottimo marito, gran lavoratore. Pare di
vederlo un po’ più giovane con il giubbotto da baseball modello Richie Cunningham... Quando
sventa una rapina, ammazzando alla velocità della luce i due banditi, la sua immagine cambia,
sbiadisce, si dissolve in quella di un eroe. Oppure di un killer. Una banda di feroci criminali lo
perseguita, la moglie non lo guarda più con gli occhi di prima, persino il figlio ha una brutta
sensazione. E il mondo crolla. Nuovo film di David Cronenberg, liberamente tratto da una graphic
novel di John Wagner e Vince Locke. Se dell’opera precedente il regista canadese
flaubertianamente diceva «Spider sono io!», questa volta fa un passo indietro per guardare il
mondo da un oblò, quello della macchina da presa. La sua finestra si apre sul cortile al di là della
frontiera: gli Stati Uniti. Che nell’ambito di un’unica matrice anglofona tra cultura canadese e
statunitense ci sia un abisso lo ricordava Michael Moore in Bowling a Colombine, quindi i
“distinguo” sono più che pertinenti. Cronenberg fa i conti prima di tutto con generi non suoi ma
“loro”: il western, esplicitamente citato nella scena della rapina al saloon; e il noir, con i fantasmi di
un passato che ritorna e che imprigiona inesorabile alle catene della colpa. Il collante fra western e
nero è cronenberghiano al centomila per cento, dato che A History of Violence, in seconda lettura,
è l’ennesimo mélo, un Inseparabili in un corpo solo dove si agitano mostri rimossi e demoni sotto la
pelle. A sbattersi come una orrenda creatura lovecraftiana nell’inconscio di una nazione che
ancora parla di destino manifesto quando esporta la democrazia con le bombe al fosforo, è
l’oggetto” del desiderio del film: la violenza. Tom si illude di costruire intorno a sé il mondo perfetto,
impermeabile a qualunque contaminazione dell’altro (i banditi, i gangster, la minaccia che viene da
fuori) e Cronenberg fa quello che ha sempre fatto. Distrugge da dentro. La mutazione di Tom non
lo protegge dalla violenza, la quale, anche se inevitabile come nel suo caso, ti si ritorce contro. La
violenza fa già parte del suo (del “loro”, forse del “nostro”) DNA, quindi che ci si cambi i connotati
come in Dark Passage o si scappi su Marte, non c’è niente da fare. In questo senso il film fa i conti
soprattutto con la cultura Usa, quella espansiva e pionieristica, quella delle “hands that built
America” di Gangs of New York. Cronenberg si toglie un altro sassolino, perché A History of
Violence, anche in virtù dell’umorismo nero che lo pervade, è un film post-pulp. La
rappresentazione così estrema della brutalità è esplicitamente anti-tarantiniana (non è un mistero
che il regista detesti il cinema di Quentin) perché mai estetizzante” o cartoonistica, e invece rozza
e feroce fino al parossismo. La violenza è disturbante e come tale va descritta. Poi è chiaro che
dietro ai film di Tarantino ci sia dell’altro, ma è altresì evidente che Cronenberg prenda le distanze
dai meccanismi di spettacolarizzazione così tipici della Hollywood degli ultimi quindici anni, nelle
sue pratiche “alte” o “basse”. Densissimo di significati, A History of Violence è soprattutto molto
divertente, come se il gioco con i generi avesse addirittura arricchito la poetica del nostro.
Bravissimi tutti gli attori, da Viggo Mortensen (il diavolo, probabilmente) a Maria Bello (una
sorpresa, per chi non è assiduo di E.R.), con una menzione speciale per lo sfregiatissimo e
sublime Ed Harris.
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Mauro Gervasini - Film Tv, n. 50, 13 dicembre 2005
Il titolo é un’arma a doppio taglio. A history of violence infatti, si può intendere alla lettera e allora
rimanda alla “storia” della violenza, quella di ampio respiro e con la “s” maiuscola. Ma
l’espressione “to have a history of violence” significa avere un passato violento. Era, quest’ultimo, il
senso della frase scelto dall’inventore della graphic novel che fa da background all’omonimo film di
David Cronenberg, John Wagner. Il quale Wagner, per descrivere l’avventura di un uomo
qualunque trasformato dai media in un eroe e da qualcun altro in un criminale, si era poi affidato
alle formidabili chine di Vince Locke. Tutto questo per dovere di cronaca. Perché è necessario
mettere un paio di paletti, presentando A History of Violence il film, e lasciamo che sia lo stesso
Cronenberg a farlo. «Non ho minimamente rispettato il fumetto. Anzi, non l’ho neppure preso in
considerazione. Questo è stato un progetto non nato da me, sono stato chiamato in una fase
successiva, a pre-produzione avviata, e ho accettato solo dopo avere letto la sceneggiatura di
Josh Olson. Che era bellissima, sostanzialmente fedele al testo di Wagner e che io invece mi sono
divertito a terremotare qua e là. I primi cambiamenti li ho voluti fare nella definizione dei cattivi. Il
fatto che fossero “dagos” (termine non proprio lusinghiero con il quale si indicano gli italoamericani,
ndr) faceva piombare il tutto nel classico mafia-movie. E siccome non volevo rinunciare alla sottile
ironia già presente nello script di Olson, si rischiava “l’effetto-Soprano”, cosa che volevo evitare a
tutti i costi. Così la criminalità organizzata è diventata irlandese». Velocemente, la storia. Tom Stall
(Viggo Mortensen), sposato con Edie (felicemente, dato che la interpreta Maria Bello) e con un
figlio del quale andare fieri, sventa in modo rocambolesco una rapina e uccide i banditi con
inattesa e micidiale velocità, per essere un ordinary man del Midwest. La sua vita si trasforma in
un incubo un istante dopo. Prima perché i mass media lo trattano suo malgrado come un “eroe
americano”, poi perché un mafioso di città, Ed Harris, piomba in paese con intenti poco chiari, ma
certo non rassicuranti. Epilogo a sorpresa. Cast stellare (tutti davvero bravissimi, compreso William
Hurt nel finale) per una black comedy anomala. Sul fatto che il film sia poco cronenberghiano
risponde, sempre più divertito, il regista. «A chi crede che A History of Violence non sia un film
personale rispondo che è più personale di altri. Ho lavorato con i miei collaboratori abituali e ho
come al solito messo tutto me stesso nella realizzazione. Il fatto che non fosse un progetto mio
non significa niente, dato che poi lo è diventato». Ed è naturalmente il tema principale, quello della
violenza, a passare sotto il tritacarne della sua poetica. «In questo film - sostiene il cineasta
canadese -volevo che la violenza fosse realista e brutale, così come potrebbe essere quella di una
rissa per strada. Tutto fuorché “coreograflca”, perché se uno combatte cerca di essere efficace,
non “bello”. Insomma, l’opposto della rappresentazione estetizzante della violenza al cinema, oggi.
La violenza che esercita Tom sui due rapinatori è inevitabile e giustificata. Fa quello che fa perché
non ha alternativa Ma le conseguenze di quel gesto che ci sembra comprensibile sono terribili.
Con A History of Violence volevo far passare l’idea che la violenza fosse sempre e comunque
esecrabile ma che purtroppo fa parte dell’esperienza umana. Tuttavia saremmo immorali se la
descrivessimo come un fattore seducente di questa esperienza». In seconda lettura, questo è
anche il film più americano (nel senso di “statunitense”) del regista, che tuttavia non si è voluto
allontanare troppo da casa per girano. «Il fatto che le produzioni hollywoodiane si siano spostate in
Canada per convenienza economica ha creato delle condizioni ottime. A History of Violence è
stato girato a Millbrook nell’Ontario e a Toronto, così ho potuto sfruttare tecnici e maestranze che
abitualmente lavorano con me». Molti i progetti di Cronenberg all’orizzonte, tra i quali, ma è solo un
“si dice”, la trasposizione di Io uccido di Giorgio Faletti. E se fino al 23 dicembre prosegue a Torino
“Fotogrammi genericamente modificati”, la retrospettiva completa organizzata dal Museo nazionale
del cinema, dalla Cineteca di Bologna e dal Centro sperimentale di cinematografia di Roma - è
stata spostata a primavera la mostra, prevista sempre a Torino, legata a Red Cars, il suo
bellissimo libro (pubblicato dalla casa editrice italiana Volumina) dedicato alla Ferrari,
all’automobilismo e al progetto di un film mai realizzato.
Stefano Lusardi - Ciak, n. 12, dicembre 2005
David Cronenberg è stato chiaro: «I! mio film ha un rapporto minimo con la graphic nove! di John
Wagner». Eppure, è proprio confrontando il romanzo a fumetti di Wagner e Vince Locke, che la
prima versione della sceneggiatura seguiva quasi fedelmente, con il film voluto dal regista, che si
apprezza ancora di più lo splendido lavoro compiuto da Cronenberg. Del fumetto resta l’incipit: un
uomo tranquillo (Viggo Mortensen), che vive in una piccola città con moglie (Maria Bello) e due
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figli, diventa un eroe dei media quando elimina due sbandati entrati minacciosamente nel suo
locale. Ma l’improvvisa popolarità porta nella sua vita altre minacce e altra violenza. Cronenberg
cancella invece tanto i personaggi secondari quanto il lungo flashback che racconta l’adolescenza
del protagonista (e ne giustifica le scelte). In questo modo, oltre a prendere le distanze
dall’ambiguità politica di Wagner, riafferma i suoi interessi di autore: una riflessione sardonica
sull’identità (già in Inseparabili, M. Butterfly, Spider) e un’analisi entomologica dell’universo
familiare, che diventa il centro stesso del film, aggiungendo anche scene assenti nel fumetto, come
i due momenti erotici fra loro speculari, il dialogo padre/figlio e la notevole sequenza finale intorno
al tavolo di casa, carica di cinismo e disperazione. Solido, rapido ed essenziale nello stile . per
certi versi “diritto” come Una storia vera di Lynch - sottile e complesso nei contenuti, il film
conferma anche la capacità di Cronenberg di ottenere il meglio dai suoi attori, che viaggiano per
coppie contrapposte: tutti tensioni sotterranee ed esplosioni improvvise Mortensen (perfetto) e
Bello (di rara sensualità); disturbanti, eccessivi e caricaturali i magnifici cattivi Ed Harris e William
Hurt. Nomination in arrivo? Ce lo auguriamo.
Liana Messina - D di Repubblica, 17 dicembre 2005
Chi dice che David Cronenberg è cambiato, ha tradito se stesso? In apparenza ha spiazzato i
fedelissimi, perché non è più il “Barone del Sangue”, ma certo continua a essere il Re delle
Mutazioni. Solo che, invece delle possibili, infinite diversità fisiche, fatte di intrecci di cellule umane
e animali, di carne e metallo, oggi si dedica a esplorare le più profonde trasformazioni della mente.
Esattamente questo era Spider, sulla stessa linea è A History of Violence, ultimo film del regista
canadese passato al Festival di Cannes 2006. Parte come un banale thriller, una gangster story
contemporanea, e pian piano sposta il fuoco dentro l’anima dei protagonisti, pronto a scavare
spietatamente, a documentare ogni impercettibile mutamento di personalità. In un attimo, la
tranquilla vita di Tom Stall e famiglia diventa una discesa all’inferno: con, forse, un possibile
ritorno. «È proprio l’iniziale semplicità della storia che mi ha attratto», racconta David con voce
pacata, cortese. «Si parte da un intrigo classico, lineare, che si sviluppa poi pericolosamente,
rivelandosi assai complesso, con agganci a molti temi diversi. Non mi piacciono le definizioni, ma
ci trovo una suspense drammatica vicina allo spirito di Hitchcock, che era maestro nell’arte di
rivelare gli elementi nascosti, le zone d’ombra dei personaggi». Ambientazione alla John Ford, in
una tranquilla cittadina rurale dell’Indiana, dove il protagonista, Tom-Viggo Mortensen, conduce
un’esistenza tranquilla, quasi noiosa: una moglie, due figli, la conduzione di una tavola calda. Tutto
cambia quando una sera, nel locale, entrano due criminali: in un secondo lui tira fuori con
destrezza da vendicatore solitario una pistola e spara ai due, diventando un eroe per i media e la
comunità. Dovrà anche tornare a fare i conti con un altro sé, con una vita che pensava seppellita,
lasciata alle spalle e invece riaffiora, invadendo subdolamente il suo universo. «Ho trovato
interessante porre questa famiglia media in una situazione estrema, e mostrare come riusciva a
uscirne. In generale è una riflessione sulla natura umana e la violenza, ma al tempo stesso una
storia con elementi tipici della mitologia americana, come l’uomo solo che protegge la sua famiglia
con un fucile in mano. C’è un detto nell’arte: per essere universale, devi essere specifico. E anche
se il film non è apertamente politico, si pone domande di carattere esistenziale: è inevitabile vivere
in questo modo? Non c’è via d’uscita da un circolo di violenza? C’è anche, sottintesa, una possibile
lettura più attuale, e riguarda una nazione che ha una storia di violenza, oggi rinverdita
dall’amministrazione Bush. Quanta violenza? Quanto potere militare è richiesto per difendere
quella piccola città, i suoi graziosi steccati?». Quello di Cronenberg continua a essere uno sguardo
critico esterno, il che rende tutto più lucido, inquietante: «I miei film sono psichicamente,
fisicamente canadesi », dice con orgoglio. Può sembrare stra-no ma non ha mai girato una scena
sul suolo americano, né in passato nè oggi, l’Indiana o Philadelphia sono stati ricreati nell’Ontario.
Eppure questo progetto non nasce da un’idea originale sua, è un lavoro su commissione della New
Line. «Spider era stato molto difficile da finanziare, per finirlo rinunciai al mio cachet. Non potevo
continuare in quel modo. Ero alla ricerca di un progetto che avesse un budget confortevole e un
buon distributore, che mi lasciasse però libertà d’azione. Ho letto molti soggetti ma pochi hanno
attirato la mia attenzione. Anzi nessuno fuori di questo. Ho chiesto allo sceneggiatore Josh Olson
di sviluppare alcuni punti, riscriverli insieme: ci siamo subito intesi. Non mi dispiace lavorare con
altri, anzi mi eccita. Posso annoiarmi molto in fretta di me stesso, invece trovo interessante fondere
la mia sensibilità con quella di altri. Possiamo formare una terza entità che non esisteva prima,
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creare esperimenti ibridi». Il regista ha voluto aggiungere due scene di sesso tra Tom e la moglie,
interpretata da Maria Bello: «Non c’erano nel romanzo, e neppure nella prima stesura del film, ma
per me sono importantissime, riflettono la loro trasformazione. La prima, più dolce e romantica, ha
a che fare con la tipizzazione, ciò che le persone sognano di essere: la coppia si cala in
personaggi codificati, la cheerleader, il giocatore di football. L’America in fondo è adolescente
perpetuo. La seconda è più cruda, più vicina alla realtà: Edie vede qualcosa di spaventoso e
insieme attraente in Tom, e allo stesso tempo le repelle questa sua reazione. Tutto ruota intorno al
fatto che la famiglia diventa reale solo quando la violenza entra nelle loro vite. Prima erano
imprigionati in una sorta di Disneyworld, una fantasia così perfetta da essere sinistra». Il film pone
molte domande, lasciando le risposte in sospeso, aperte alle interpretazioni dello spettatore. Ma
Cronenberg non esita a dichiarare il proprio punto di vista: «Penso che tutti, o quasi, possiamo
diventare violenti, se obbligati da certe condizioni. Ma accetto anche l’idea che la nostra identità
non ci venga data geneticamente, come il colore degli occhi. È qualcosa di creato, in cui è
coinvolta anche la volontà. Quindi c’è sempre la possibilità di cambiarla, una specie di rinascita.
Penso che ogni mattina ti svegli e devi reinventare te stesso, ricordarti chi sei, riassemblare quella
persona o diventare qualcun altro». Il suo prossimo impegno avrà di nuovo i colori del giallo,
almeno in superficie. l’adattamento del romanzo London Fields di Martin Amis. Il regista ci sta già
lavorando, in coppia con lo stesso autore. La storia, scurissima, pare perfetta per lui, ma lo
allontanerà per l’ennesima volta dal progetto tante volte annunciato, Painkillers, su un body-artist
che si esprime attraverso tagli, operazioni sul proprio corpo. «Non mi sento pronto, non sono
soddisfatto dello script: c’è ancora molto lavoro da fare. Inconsciamente, come ogni scrittore cerco
ogni scusa per evitarlo. È un soggetto che mi affascina, ma è molto difficile. E a volte mi sembra
che si rivolti contro di me».
Claudia Canziani - Il Mucchio Selvaggio, dicembre 2005
Ogni film di David Cronenberg, anche quello meno riuscito, evade dal suo contenitore: pur
toccando generi che apparentemente sono ben codificabili (fantascienza, noir, thriller) il regista
canadese ha sempre aperto la porta a inquietudini che restano disturbanti e parecchio originali.
Possono essere l’ossessione di due gemelli per la ginecologia e le donne (Inseparabili), la
mutazione degli esseri umani in macchine o in qualcosa di organicamente indefinibile (un vero leit
motiv, che tocca Crash, Il pasto nudo, Shivers...) o ancora considerazioni sulla tecnologia che
mettono assieme George Orwell e Philip K. Dick (su tutti, l’innarivabile Videodrome). Nel recente
Spider (dal romanzo omonimo di Patrick McGrath) andava in scena il ribaltamento del punto di
vista, la follia dei personaggio principale che era vissuta - e condivisa - dallo spettatore in
soggettiva. Per A Histoty Of Violence il fuoco sta nella rimozione del passato, nel suo ritorno
inesorabile e nella violenza da cui non ci si può mai del tutto redimere. La storia è quella di una
graphic novel di John Wagner e Vince Locke: Tom Stall vive una esistenza pacifica nell’indiana,
con moglie, figlio adolescente (e un po’ vessato dai suoi compagni di classe) e una figlioletta
sorridente che sembra un giocattolo di Natale. Gestisce un drugstore e un giorno subisce
l’aggressione di due delinquenti che scorrazzano per la provincia rubando e uccidendo gente come
lui. Subisce non è però la parola giusta: Tom reagisce all’aggressione ammazzando entrambi i
malcapitati come fosse una macchina da guerra. Da quel momento deve fare i conti con un
passato che non vuole ricordare: si faranno avanti parecchi personaggi con conti da saldare con
Joey (così viene chiamato dalle vecchie conoscenze) e il tentativo di mettere assieme i pezzi di
un’altra vita rischierà di far saltare la pax domestica a cui lui e i suoi cari sembravano destinati. La
pellicola procede fra sequenze d’azione mozzafiato e inquadrature serrate e asciutte, che non si
fanno problemi a mostrare fino in fondo la violenza nelle sue connotazioni più fisiche. Movimenti di
macchina stringenti e fortepiano della colonna sonora di Howard Shore che incorniciano assai
efficacemente una delle opere più profondamente americane del regista. Siamo di fronte a una
narrazione di frontiera rovesciata, dove i moduli della suspense vengono utilizzati per stringere lo
spettatore in una tensione, anche affabulatoria, insostenibile. Nel Nuovo Mondo hanno tutti
qualcosa da nascondere oppure, come nel caso del figlio del protagonista, qualcosa da tirare fuori,
e si tratta quasi sempre della propria natura più feroce e imperdonabile. Così i motivi che stanno
dietro alla “perdita di memoria” di Tom e lo svelamento del suo segreto sono meno importanti del
clima che si respira in tutto A History Of Violence: un’atmosfera che ricorda proprio Videodrome,
nel suo togliere progressivamente spazio alla ragionevolezza degli interpreti principali. Se il tema
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che la pellicola affronta non è nuovo nella filmografia cronenbergiana, l’essenzialità con cui
prendono corpo le scene più drammatiche (come quelle erotiche, che hanno una forza visiva a cui
di questi tempi non siamo più abituati) e la bravura degli attori la rendono una delle sue produzioni
maggiori. Viggo Mortensen è tutt’altro che inespressivo, come qualcuno Oltreoceano ha sostenuto:
nella sua faccia desolata che si illumina solo nel momento in cui si inferocisce sta una parte
convincente dell’incubo americano. Ed Harris, poi, ricorda i cattivi di Intrigo internazionale di Alfred
Hitchcock, mentre il cammeo di William Hurt è da antologia del cinema. Senza perdere mai ritmo e
sostanza, il film coniuga cosi intrattenimento - perché anche di questo si tratta - con questioni
tutt’altro che vacue: per esempio, il diritto alla normalità in un mondo impazzito. Una normalità che
viene acquisita solo a costo di rimozioni immense, e che non ha nessun tipo di possibilità di
trionfare, nella vita reale quanto in quella immaginata.
Federico Chiacchiari - Nick, n. 11, novembre 2005
A un cineasta che ha fatto della “mutazione” il cuore pulsante dei suoi film, si può rimproverare
distare trasformando sensibilmente il suo cinema? Sottile paradosso, eppure molti critici presenti
all’ultima edizione del Festival di Cannes, dove A History of Violence è stato presentato in
Concorso, hanno messo l’accento proprio su questo aspetto: è un Cronenberg più
“convenzionale”. Eppure, il regista canadese non ha diretto solo horror dai corpi esplosivi e
cangianti come Rabid, Scanners o La mosca, ma anche pellicole più raffinate e “psicologiche”
come Inseparabili o M. Butterfly, dove la “mutazione” avveniva lungo binari al confine tra il corpo e
la mente. Questo Film è del tutto dentro le dinamiche del “doppio” cronenberghiano e se non si
presenta palesemente come il Cronenberg più estremo - quello de Il pasto nudo e Crash per
capirsi - sono però presenti residui del suo cinema che agiscono in maniera sotterranea pronti a
esplodere, come i volti dei criminali uccisi in cui c’è quella disgregazione epidermica e quella
sporcizia splatter di Rabid - Sete di sangue, o i segni/cicatrici sul corpo di Edie (Maria Bello) che
sembrano prefigurare le metamorfosi di La mosca. A History of Violence racconta gli
sconvolgimenti portati all’interno di un nucleo familiare in conseguenza di un gesto di autodifesa
estremo compiuto da Tom Stall (Viggo Mortensen) nei confronti di. un rapinatore, che rimane
ucciso. A quel punto, le televisioni e i giornali parlano di lui e il suo volto diventa noto. Qualche
giorno dopo giungono nella località tre misteriosi criminali per regolare con Tom alcuni conti in
sospeso. E, improvvisamente, scopriamo che il tranquillo cittadino per bene ha alle spalle storie
piuttosto “nere”... Fotografato da Peter Suschitzky, scritto da Josh Olson (Infested) e tratto da una
graphic novel di Vince Locke (già creatore del personaggio Judge Dredd), l’ultimo Cronenberg è un
viaggio all’interno delle metamorfosi della normalità, questa volta inserite all’interno di un genere, il
noir, storicamente luogo privilegiato delle ambiguità narrative. Ma è anche l’occasione per vedere
Viggo Mortensen in un ruolo molto diverso dall’eroe integerrimo che lo ha reso famoso nel ciclo de
Il Signore degli Anelli.
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