F. REDI, Materiali, tecniche e cantieri

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F. REDI, Materiali, tecniche e cantieri
autarchiche, o di villaggio, e l’introduzione di tecniche e di
sistemi estrinseci, per opera di maestranze itineranti o appartenenti a ordini monastici d’oltralpe.
MATERIALI, TECNICHE E CANTIERI:
PRIMI DATI DAL TERRITORIO AQUILANO
di
FABIO REDI
1. I MATERIALI
È ancora presto per tirare le conclusioni di una ricerca a
tutto campo e su ampia scala territoriale come quella che è
stata impostata da qualche anno sul territorio aquilano e
marsicano dalla cattedra di Archeologia Medievale dell’Università dell’Aquila. Gli studi esistenti (cfr. Bibliografia), ove
non indirizzati semplicemente verso aspetti formali o problematiche più squisitamente di tipo storico-artistico o storico-architettonico, riguardano prevalentemente il ruolo effettivamente svolto dai Cistercensi e dalle committenze federiciana e angioina all’interno dei cantieri edili della seconda metà del Duecento e degli inizi del Trecento. Di fronte
alla corrente storiografica di cui è portavoce A.M. Romanini (RIGHETTI TOSTI CROCE 1983, p. 122), che vede nei Cistercensi una diretta attività di formazione delle maestranze che
costituivano i principali cantieri-scuola del sec. XIII, specie nell’Italia centrale, si è sviluppata un’altra tesi, rappresentata in prevalenza da architetti, che tende a ridimensionare il ruolo dei monaci cistercensi nella svolta impressa
alla produzione edilizia del periodo, dalla costruzione delle
grandi abbazie dell’ordine alla notevole crescita edilizia di
città e castelli. In realtà, secondo questa corrente (FIORANI
1996, p. 194), i Cistercensi, più che essere portatori di tecniche costruttive innovative e di respiro internazionale,
avrebbero rivelato una più flessibile capacità di adattamento alle tecniche locali.
La fondazione della città dell’Aquila è da attribuirsi,
almeno secondo alcuni (CLEMENTI, PIRODDI 1986, pp. 9-17,
CLEMENTI 1998, pp. 17-43), ormai con buona attendibilità,
a un preciso programma non tanto di Federico II quanto di
Corrado IV, nel 1254, ed è largamente attestata la presenza
sia normanno-sveva nella ricostruzione di numerosi castelli del territorio, sia dell’ordine cistercense nell’attività edilizia e di promozione e razionalizzazione dello sfruttamento delle risorse agro-pastorali.
La città e il territorio aquilano, quindi, anche in considerazione della discreta documentazione archivistica, appaiono un interessante e praticabile osservatorio delle problematiche ora esposte.
La metodologia che applichiamo è, senza dubbio, quella
archeologica, sia nell’analisi e interpretazione dei dati materiali di superficie, sia delle sequenze stratigrafiche da scavo.
In città sono stati aperti gli scavi dei monasteri di
S. Domenico e di S. Basilio e della basilica di Collemaggio;
nel territorio aquilano sono in corso quelli della pieve di S.
Paolo di Barete e della grancia cistercense di S. Maria del
Monte di Paganica, e dei castelli di S. Vittorino di Amiterno,
Ocre e Rocca Calascio; nella Marsica sta per concludersi lo
scavo del monastero benedettino di S. Maria di Luco dei
Marsi e sono in corso lo scavo dell’abbazia cistercense di
S. Maria della Vittoria a Scurcola marsicana e della chiesa
altomedievale di S. Potito, insistente sui ruderi della villa
imperiale omonima nel comune di Ovindoli.
La nostra ricerca, dunque, insieme alle altre problematiche che stanno all’origine degli interventi di scavo, sia
urbano, sia di chiese o monasteri, sia castellano, mediante
il puntuale censimento delle diverse tecniche murarie e il
loro confronto incrociato in direzione urbano-rurale, maggiore-minore, ecclesiastico-civile-militare, ha per obiettivo
la verifica della effettiva incidenza delle diversità di committenza e della presenza cistercense nell’edilizia dei
secc. XIII e XIV a livello locale. Particolare attenzione viene rivolta alla presunta dicotomia fra “cantieri poveri” e
“cantieri ricchi”, cioè alla presenza e al rapporto fra manodopera scarsamente specializzata e altamente specializzata,
fra testimonianze di tradizioni locali di produzioni
L’Abruzzo interno non conosce edifici realizzati interamente con terra cruda (pisé) o con mattoni, come il versante
adriatico; soltanto la produzione di laterizi per la copertura dei
tetti è attestata localmente già a partire dal sec. XIV dagli Statuta
civitatis Aquile, ma l’uso del mattone risulta secondario, cioè
limitato a interventi successivi, come restauri o integrazioni e
risarcimenti di unità stratigrafiche negative. Esistendo giacimenti atti alla produzione di tegole, e quindi, ove richiesto, di
mattoni, dobbiamo attribuire ad altre ragioni la pressoché totale assenza di paramenti murari di laterizi. La natura stessa del
territorio, aspro e sassoso, offriva buoni motivi per la preferenza della pietra. Ragioni culturali, ma specialmente economiche, presiedettero quindi all’impiego quasi esclusivo di
murature di pietra. Non a caso gli Statuti cittadini, al cap. 300,
De domibus costruendis (CLEMENTI 1977, p. 197), non prendono in considerazione alternative all’uso della pietra. Le abitazioni di nuova costruzione, alte almento due canne di nove
palmi e lunghe quattro canne, dovevano essere costruite «de
bonis lapidibus, clace et arena»; soltanto per la copertura dei
tetti era prescritto «eandem coperire de bonis tegulis seu pincis».
Il legname, assai scarsamente attestato anche a causa della sua
deperibilità, appare relegato ai solai e ad altre modeste sovrastrutture come i «gaifi», cioè balconate di legno chiuse o aperte, di tradizione longobarda almeno nel termine lessicale. Del
resto, ai solai di legno si preferivano le volte di pietra, almeno
nei livelli abitativi o di servizio inferiori.
1.1 La pietra
A seconda del tipo di costruzione che s’intendeva realizzare, la pietra, quasi esclusivamente calcarea, era reperibile in sito, da affioramenti superficiali o da raccolta ai piedi dei dirupi, nel greto dei torrenti, mediante spietramento
dei rari e modesti appezzamenti agricoli. Si tratta, quindi,
di materiale abbondante, facilmente reperibile e relativamente economico; ma, forse, anche, più connaturale con
l’ambiente e con la cultura locale. In pratica le costruzioni
di pietra, grezza o semilavorata o ridotta in conci squadrati
di diversa pezzatura, non rappresentavano altro che un surrogato artificiale e un’amplificazione qualitativa degli
atavici ripari sotto roccia o entro cavità naturali.
Dobbiamo, infine, distinguere fra l’uso della pietra a
secco e quello delle murature con legante di malta.
1.2 Cave e calcàre
La ricerca in corso riguarda anche il reperimento e il
censimento delle cave di estrazione dei materiali da costruzione da ridurre in conci, sia da più sottili stratificazioni
naturali, sia da banchi più consistenti.
Uno dei monumenti che dal 1999 è oggetto di scavo
archeologico da parte nostra è l’abbazia regia di S. Maria
della Vittoria, nel territorio di Scurcola marsicana.
Essa, come è noto, fu fatta erigere da Carlo I d’Angiò
per celebrare la sua vittoria su Corradino di Svevia con la
battaglia dei Piani Palentini, o di Tagliacozzo, nel 1268 (PESCE 1988, pp. 46-92).
Per la costruzione della monumentale abbazia risulta
dalle fonti che venne utilizzata la pietra calcarea delle vicine cave di Carce e di Montesecco. Già il toponimo della
prima cava è allusivo al tipo di pietra da essa fornita e alla
sua cottura per la produzione di calce.
Il sito della cava di Carce è ancora ben localizzabile e si
riconoscono i segni della coltivazione antica, durata fino a tempi
recenti, come mostrano le tracce di una fornace settecentesca
ai piedi della montagna, lungo la valle dell’Imele-Salto.
È ancora riconoscibile il cammino di lizza che univa
questa fornace, presso la quale avveniva il caricamento dei
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blocchi di pietra lungo la strada reatina (S.S. 578), e la cava
di estrazione in quota.
La nostra ricerca ha restituito anche due calcare antiche, una tardomedievale, una del sec. XVII, in occasione
degli scavi archeologici che stiamo conducendo rispettivamente in località Villa Imperiale presso S. Potito di Ovindoli
e nelle adiacenze della abbazia suburbana di S. Maria di
Collemaggio. Nel primo caso la calcara taglia il muro laterale settentrionale della chiesa altomedievale che s’impostò sulla rasatura dei muri di una grandiosa villa romana
(REDI 2001a, p. 316).
L’impianto della calcara sembra riferibile a una fase di
abbandono della chiesa altomedievale e a una operazione
di spoliazione dei marmi e dei materiali calcarei della villa
ancora superstiti al fine di una consistente produzione di
calce per i restauri della chiesa stessa o per l’erezione del
non distante castello normanno di S. Potito.
Dalle stratigrafie della calcara risultano evidenti le tracce
di un uso ripetuto, sebbene forse concentrato in un breve
lasso di tempo.
Sono numerosi, infatti, i livelli di calcinazione nel suo
contenuto pluristratificato.
L’altra calcara rinvenuta nel settembre 2002 con lo scavo all’esterno della basilica di Collemaggio, a nord della
regione absidale, taglia il muro laterale settentrionale di una
cappella trecentesca.
La calcara in questione è da mettere in relazione molto
probabilmente con la vicina fossa per lo spegnimento delle
calce rinvenuta in aderenza con il muro ora detto e contestuale
con un livello d’uso riferibile a quello dei pilastri di controscarpa realizzati per rinforzare i muri perimetrali dopo il sisma
del 1703. La fossa risulta scavata nella sequenza, abbastanza
ravvicinata, di strati di riporto successivi ad altrettanti livelli
d’uso dell’aula mononave con abside a semiottagono. Uno
spesso strato di calce bianca fodera le pareti e il fondo della
fossa che, dalla parte opposta alla parete della basilica, verso
nord, era delimitata da una porta a daghe di legno, di recupero,
della quale rimane l’impronta nella calce spenta superstite e
nella parete di terra che essa era destinata a trattenere.
La documentazione archivistica relativa alle fornaci da
calce non manca di offrire dati e spunti interessanti.
Per la più rapida ed efficace realizzazione delle strutture abitative, ecclesiastiche e mercantili della città, di recente fondazione, gli Statuti, al cap. 297 De calcariis faciendis
(CLEMENTI 1977, p. 196), prescrivono il numero delle calcare che ciascuna comunità, chiamata a occupare e a edificare uno spazio cittadino detto Locale, è tenuta ad attuare.
Tralasciando in questa sede il lungo elenco delle comunità
e delle rispettive calcare, il cui numero varia a seconda dell’importanza del castello di origine e della sua quota di partecipazione nell’edificazione entro l’ambito urbano, risulta
significativo il totale.
Ben 38 sono la calcare prescritte dagli Statuti e dalle
postille aggiunte agli stessi (CLEMENTI 1977, p. 334), il cui
alto numero evidenzia eloquentemente il fervore edilizio
cittadino nella prima metà del sec. XIV.
Con ricognizioni rivolte appositamente al censimento delle strutture ancora individuabili, è stato possibile rinvenire strutture produttive che insistono, molto probabilmente, nel sito
delle originarie calcare trecentesche, come quella di Lucoli.
1.3 I laterizi
Oltre al già citato capitolo degli Statuti relativo alle abitazioni di nuova costruzione, in altri cinque troviamo prescrizioni riguardanti la fabbricazione dei pinci. Nel cap. 311, De
pincibus (CLEMENTI, 1977, p. 203), a proposito della loro forma, secondo l’esemplare custodito dal Camerario, risulta che
la lunghezza era di due palmi di canna di nove palmi, mentre
la larghezza all’imboccatura era la metà. Seguono il disegno
di un embrice e l’obbligo per i costruttori di pinci di tenere
nella officina “cancellos”, cioè i telaietti, e la forma marchiati
col sigillo cittadino. In capitoli successivi, nn. 556, 557 (CLE-
1977, p. 320), troviamo indicato che i pinci siano ben
cotti e stagionati; i prezzi fissati, a migliaio, sono 3 fiorini e
mezzo per la produzione cittadina, 4 fiorini per quella suburbana, a Pile, 5 per il prodotto proveniente dalla Campania. Le
postille degli Statuti cittadini, cap. 592 (CLEMENTI 1977, p. 334),
concedono ai produttori di realizzare pinci di forma maggiore
rispetto a quella prescritta, ma non minore rispetto alle forme e
ai telaietti di legno, corrispondenti alla giusta misura, dei quali, con inchiostro diverso, sono raffigurate le immagini. Si distinguono i telaietti per tegole e per embrici e la forma di legno
con impugnatura per embrici insieme con il suo prodotto.
Nel sec. XIV, quindi, all’Aquila le coperture dei tetti in
laterizio (“pinci”) erano correnti e forse avevano soppiantato l’uso di scandole di legno e di piaste di scisto. Mancano, tuttavia, costruzioni che facciano uso di mattoni al di
fuori di modeste porzioni, per di più non originali della prima fase costruttiva.
MENTI
1.4 Fornaci o pinciare
La ricerca toponomastica e lo spoglio sistematico del
primo Catasto spagnolo, iniziato nel 1550 (Archivio di Stato dell’Aquila, Archivio Civico Aquilano, Catasti, T53/14), hanno consentito di localizzare aree urbane o del territorio nelle quali concentrare l’attenzione per la ricerca di strutture produttive di laterizi. Oltre che in città, immediatamente fuori della Porta a Bazzano, è stato possibile localizzare
fornaci da laterizi a Coppito (ben due), al Ponte di Pile, a S.
Vittorino di Amiterno. La ricognizione di superficie che è
seguita ha consentito di rinvenire le struttura superstiti della
“pinciara” di Porta a Bazzano e di una delle due di Coppito,
alla periferia occidentale della città, ovviamente ambedue
nella versione settecentesca.
Anche nell’ipogeo della chiesa di S. Giusta di Bazzano,
alla periferia orientale dell’Aquila, permangono le strutture di
una fornace, ritenuta da alcuni, forse impropriamente, di età
romana. Nella Valle del Salto, a Corvara, sono ben conservate
le strutture di un’altra fornace, del sec. XVIII-XIX, nella quale
rimangono ancora numerosi telaietti e sagome per la produzione di manufatti diversi per forma e per misure.
1.5 Il legname
Come già detto, a causa della deperibilità di questo materiale, non rimangono testimonianze archeologiche di strutture
di legno eccetto quelle dei “gaifi”, nella versione dei rifacimenti postmedievali, e quelle in funzione antisismica, databili
al sec. XIII-XIV, delle quali parleremo nel capitolo successivo.
È da dire, tuttavia, che per questo tipo di materiale la
ricerca nel territorio, a oggi, è meno avanzata rispetto alla
pietra e ai laterizi.
2 – LE TECNICHE
2.1 La tecnica della pietra a secco
Assai numerose nel bacino aquilano, da un primo censimento macroscopico e da un approfondimento della ricerca nel territorio di Castel del Monte, risultano le costruzioni di pietra a secco. Nel saggio che ne è derivato (REDI
2001b, pp. 47-81), ho delineato una prima tipologia di queste costruzioni, estremamente elementari ma assai differenziate, che ho definito “senza tempo”, perché così antiche
nelle forme e nelle tecniche da apparire opere protostoriche, in realtà riferibili non anteriormente al XVIIXVIII secolo, almeno allo stato attuale. Oltre a vari tipi di
muri di terrazzamento o di delimitazione di spazi agricoli o
a semplici accumuli, sono stati analizzati i numerosi trulli o
“tholoi” monocamera, con falsa cupola troncoconica a
“ecfora”, che costituivano il riparo stagionale per agricoltori o pastori. Da questi ultimi era particolarmente praticato
l’uso di “camere” o “locce” dal quale derivano numerosi
toponimi, come S. Pio delle Camere, Cammerata, Le came-
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Fig. 1 – Una “loccia” sulle alture di Castel del Monte, riparo tipico in pietre a secco.
Fig. 2 – La calcara medievale di S. Potito di Ovindoli taglia i muri
della villa romana e della chiesa altomedievale; da notare gli strati di
calcinazione che invadono anche il prefurnio, a sinistra.
re, Le logge, cioè piccole grotte scavate artificialmente nelle pendici dei monti e concluse da muri a secco negli stipiti
e negli architravi dei pertugi di accesso.
2.2 Gli apparati murari
Alcune tesi di Laurea e gli scavi archeologici attivati
negli ultimi quattro anni hanno riguardato, tra l’altro, il censimento e l’atlante delle tecniche murarie nei castelli di Rocca Calascio, S. Vittorino di Amiterno, Ocre, e nei complessi
ecclesiastici di S. Maria di Luco dei Marsi, S. Maria della
Vittoria, S. Maria del Monte di Paganica, S. Paolo di Barete,
S. Potito di Ovindoli.
Con gli studenti dell’insegnamento di “Materiali, tecniche ed edilizia medievali” sono iniziati quest’anno il censimento e l’atlante delle tecniche murarie delle principali
chiese della città e delle mura urbane medievali.
Eccetto lo studio delle murature a secco già ricordato,
la ricerca in atto non è in grado di fornire per adesso risultati complessivi sufficientemente definitivi; tuttavia alcune
considerazioni specifiche e comparative possono già da ora
ritenersi acquisite. Esse riguardano alcune varianti, non ancora esattamente definibili cronologicamente, sia dell’“opus
incertum”, sia dell’“opus aquilanum”, sia dell’“opus
quadratum”.
In questa sede ci soffermeremo sulle ultime due tecniche.
L’opus aquilanum è caratterizzato da piccole bozzette
di pietra calcarea, di forma poco allungata, squadrate e spianate ad angoli e piani irregolari con la mazzetta e/o la martellina, ma anche più regolari con strumenti a punta.
La pezzatura non ha spiccate oscillazioni dimensionali
attorno a cm 16×10, tanto da giustificare l’origine estrattiva da cava-strati piuttosto che da banchi. Gli allettamenti
presentano corsi tendenti all’orizzontale e alla isodomia,
letti e giunti di malta evidenti, frequentemente eccedenti e
spatolati, con sporadiche tracce di stilatura arrotondata. Le
mura della città, realizzate a partire dal 1349, presentano
alcune varianti di questa tecnica, come in genere i lati delle
chiese cittadine, databili fra il terzo quarto del sec. XIII e la
metà del XIV (ANTONINI 1999).
Alcune di queste presentano sequenze di fasi costruttive realizzate con varianti dello stesso tipo di apparato. La
chiesa di S. Pietro a Coppito, ad esempio, nel lato meridionale mostra lievissime varianti di “opus aquilanum” abbastanza regolare, con misurazioni che oscillano fra due estremi: cm 21×11 e cm 11×9, con zeppe verticali. Le due varietà di paramento murario principali risultano realizzate in
fasi di crescita legate a successive esigenze funzionali e
devozionali piuttosto che a un progetto unitario. Le tre absidi a semiottagono, impostate trasversalmente al nucleo originario risalente anteriormente al 1250 (ANTONINI 1999,
pp. 31-51), in direzione nord-sud, sono realizzate con un
buon paramento in “opus quadratum”, spianato e sagomato
Fig. 3 – La fossa per lo spegnimento della calce a fianco della
basilica di Collemaggio; da notare i resti della porta riusata per lo
sbatacchiamento del margine terroso della fossa.
con una certa approssimazione, come le principali chiese
cittadine di fine XIII metà XIV secolo: S. Giusta, S. Silvestro, S. Domenico, ecc.
Quanto all’“opus aquilanum” in esame, altre prove della
sua durata, con solo modeste varianti, si ricavano in particolare dall’analisi dei muri laterali di S. Giusta, di S. Silvestro, di S. Maria di Collemaggio nei quali sono evidenti
lotti di crescita della stessa fase edilizia successivi, ma anche fasi di intervento distanti cronologicamente.
È assai frequente l’uso di paramenti più accurati nella
fase originale e meno regolari, perché realizzati con materiali di recupero e zeppe, anche di mattoni, successivamente ai crolli causati dalle frequenti scosse telluriche, che, a
partire dal 1315, si succedettero con una certa frequenza
nel 1349, 1461, 1557, ecc.
Alcune chiese, come S. Domenico, presentano zone o
parti del basamento che utilizzano grossi conci squadrati e
spianati con una certa approssimazione, e apparecchiati in
sequenze suborizzontali discontinue, con zeppe di raccordo e agganciature che fanno supporre il recupero da strutture precedenti la fondazione della città, o appartenenti alla
prima fase costruttiva compresa fra il 1254 e il 1316, rimandando, quindi, l’introduzione dell’“opus aquilanum”
agli anni della rifondazione angioina o a quelli successivi
al terremoto dal 1349.
Del resto, anche nella grancia cistercense di S. Maria del
Monte di Paganica (Campo Imperatore) le strutture della fase
originale della chiesa, databili anteriormente al 1220, sono
realizzate con un apparato piuttosto irregolare, che fa uso di
pietre squadrate di ampie dimensioni e di pietre scarsamente
regolari nei contorni, in allettamenti di malta evidenti ed eccedenti a differenza del regolare apparato in “opus aquilanum”
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Fig. 4 – S. Maria del Monte di Paganica, rilievo del lato meridionale; si notano i diversi apparati murari delle due fasi costruttive (ril.
Ilaria Trizio).
Fig. 4a-b – S. Maria del Monte di Paganica; campionatura delle tecniche costruttive (ril. Ilaria Trizio).
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Fig. 5 – Chiesa di S. Pietro a Coppito, particolare della tecnica
muraria.
Fig. 6 – Chiesa di S. Silvestro, particolare della tecnica muraria.
e giunti più sottili impiegato nella soprelevazione trecentesca della navata stessa (REDI 2001c, pp. 272-275).
L’opus quadratum, di varie dimensioni e di pezzatura
oscillante, anche fra cm 70×60 e 49×32 nelle absidi della
chiesa di S. Domenico e fra cm 60×32 e 44×28 nel lato,
può presentare contorni meno precisi, come nel mastio di
Rocca Calascio, riferibile al primo periodo normanno, o un
trattamento di alta e raffinata litotomia, come nella ricostruzione romanica della chiesa di S. Pietro ad Oratorio,
illustre dipendenza del monastero di S. Vincenzo al Volturno risalente al sec. VIII, o nelle facciate e nelle absidi di
numerose chiese romaniche del territorio. Cito solo qualche esempio assai noto come S. Maria di Bominaco, S. Maria
in Valle Porclaneta, S. Pietro di Albe, ecc.
Anche le facciate, ormai trecentesche, delle principali chiese cittadine presentano questo tipo di apparato nel quale è pressoché costante l’uso della gradina, a dentatura più o meno fine.
Come eccezione conclusiva si pone l’arabesco geometrico, in dicromia bianca e rosata, della facciata della basilica di
Collemaggio, ormai quattrocentesca, probabilmente compresa fra il 1424 e il 1438 (ANTONINI 1999, pp. 191-192).
Sull’attribuzione della reintroduzione dell’”opus
quadratum” nel Meridione per opera dei Normanni e per intervento dei monaci cistercensi esiste una copiosa bibliografia (FIORANI 1996). Faccio notare, tuttavia, che l’unica chiesa
cittadina interamente realizzata con “opus quadratum” anche nei lati è quella di S. Domenico, degli inizi del sec. XIV,
di committenza angioina e dell’Ordine domenicano.
A noi interessa rilevare, inoltre, alcune eccezioni come il
monastero di S. Spirito d’Ocre e la grancia di S. Maria del
Monte di Paganica, databili dal 1222 e ambedue cistercensi,
assolutamente prive dell’“opus quadratum” e costruite con
varianti, cronologicamente differenziate, dell’“opus aquilanum”.
A proposito della distinzione fra queste due tecniche
costruttive è significativa una lettera di Carlo I d’Angiò,
del 6 giugno 1278, relativa alla costruzione dell’abbazia
regia di S. Maria della Vittoria. In essa si legge che “…totum
vero opus eccleise predicti monasterii de opere plano fieri
volumus, exceptis cantonibus, fennestris, arteriis, arcubus
et pileriis, que de opere inciso fieri faciatis» (EGIDI 19091910, pp. 278-280).
Si distingue nettamente fra una muratura ordinaria, a
bozzette squadrate con mazzetta e martellina e allettate in
corsi sub-orizzontali, o a filaretto, con letti e giunti di malta
evidenti ed eccedenti, definita “opus planum”, e una tecnica più accurata, definita “opus incisum”, consistente in conci
più ampi e perfettamente riquadrati e spianati con subbia e
gradina o con polka e ascettino, disposti con scarsissimi
letti e giunti di malta in corsi orizzontali e omogenei. La
prima tecnica, inoltre, chiaramente viene applicata ai muri
continui delle pareti, la seconda ai cantonali degli angoli,
agli stipiti e agli archi delle finestre, alle “arterie”, forse da
intendersi per lesene o semipilastri, cioè le innervature delle pareti e delle volte, e alle ossature degli archi e dei pila-
stri. Il conseguente e immediato confronto con il dato materiale superstite, per quanto ormai soltanto al livello di rudere, offre l’opportunità di ulteriori distinzioni. Ma prima
vorrei soffermare l’attenzione sulla significativa definizione terminologica con la quale l’aggettivo “planum” ben
evidenzia la regolarità dell’apparato murario a pietre squadrate e spianate, sia pure con una certa approssimazione,
rispetto ai contorni e alle superfici irregolari dell’“opus
incertum”, e l’aggettivo “incisum” sottolinea eloquentemente il livello di finitura superiore costituito dalla impeccabile
e quasi tagliente rifilatura degli spigoli dei conci e dalla
regolarissima spianatura delle superfici degli stessi, quasi
fossero intagliati, cioè “incisi”, con strumenti a lama o a
sgorbia, in una materia densa e compatta, ma poco resistente, anziché scalpellati a colpi di mazzuolo e scalpello in una
pietra resistente, sebbene di relativamente facile lavorazione, come il calcare marnoso locale.
A un’attenta osservazione dei paramenti murari superstiti, in effetti, risulta che l’“opus planum” dei muri continui è
molto più regolare di quello che ci aspetteremmo e impiega
conci di ampia pezzatura, squadrati e spianati a picconcello
e/o a subbia con buona precisione, mentre è semmai l’“opus
incisum” che raggiunge livelli di trattamento degli spigoli e
delle superfici, per mezzo di gradine e subbie o picconcelli
di precisione e di piccole dimensioni, superiori alle aspettative e di notevole efficacia tecnico-formale. Le osservazioni
relative all’“opus planum” sono riscontrate simili nel paramento esterno come in quello interno; quelle relative all’“opus
incisum” sono evidenti nei frammenti erratici pertinenti a
segmenti di ghiere di archi o di costoloni di volte o di stipiti
mistilinei di portali o di finestre.
2.3 Tecniche antisismiche
Di un altro particolare espediente costruttivo in funzione antisismica sono state rinvenute e analizzate tecnicamente
testimonianze archeologiche in elevato. Si tratta di un semplice, ma razionale, presidio costituito da tralicciature di
legno inglobate a scomparsa nelle murature di pietra per lo
più a “opus incertum” o “aquilanum” nella variante più rustica.
Gli esemplari rinvenuti e analizzati sono costituiti dalla
facciata della chiesa castellana di Ocre e dalla tribuna quadrangolare della chiesa castellana di Rocca Calascio, ambedue databili entro la metà del XIV secolo, ma più probabilmente verso la fine del XIII.
È interessante il rinvenimento dello stesso sistema
antisismico anche in alcune abitazioni civili esperibili a vista nello stesso castello di Ocre, databili fra XIII e XIV secolo, da noi analizzate puntualmente in occasione della ricerca archeologica iniziata nel settembre 2000 (REDI c.s.).
Una verifica archeologica comparativa mediante scavo
è prevista nel prossimo triennio.
In attesa di una maggiore precisione cronologica vediamo in cosa consiste il presidio adottato.
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Fig. 7 – Il sistema antisismico a tralicciatura di legno nella muratura della chiesa trecentesca di Rocca Calascio.
Una serie di travi di legno, spesse mediamente cm 15,
squadrate o semplicemente scontornate ad ascia ma anche
pressoché rotonde, sono disposte orizzontalmente, a un intervallo variabile, mediamente attestato intorno a cm 180,
per tutta la lunghezza del muro fino agli angoli, nei quali
s’incastrano o si sovrappongono a squadra, con l’ausilio di
cavicchi di legno o di chiodi, con altrettante travi inserite
nella muratura ortogonale dei lati dell’edificio.
Non si rilevano tracce, come invece ci aspetteremmo, di
raccordi verticali o a traliccio fra livelli orizzontali successivi.
È prevista una campionatura delle essenze lignee, ma
in particolare una raccolta di dati utili per l’impianto di una
curva dendro-cronologica.
Fig. 8a-b – Segni di cantiere in un concio dell’abbazia regia di S.
Maria della Vittoria a Scurcola marsicana.
3. CANTIERI EDILI E PRATICHE DI CANTIERE
Uno degli obiettivi principali che ci siamo posti con lo
scavo di S. Maria della Vittoria è quello di reperire testimonianze archeologiche della contrastata vicenda del suo cantiere edile, ben documentata dai registri angioini, purtroppo pervenuti soltanto nei regesti sopravvissuti all’incendio
degli Archivi di Napoli (EGIDI 1919-1910; PESCE 1988, pp.
55-59; FALLOCCO 2000, pp. 44-54).
Quando nel 1273 Carlo I d’Angiò deliberava di dar vita al
grandioso monumento che avrebbe dovuto celebrare la sua
vittoria su Corradino di Svevia, vennero chiamati, come è noto,
architetti e supervisori angioini appartenenti al monastero cistercense di Le Loroux in Francia, in particolare Pierre de
Chaule, Simone d’Angart e Henri d’Asson, ma anche monaci
italiani, di fiducia del re, come Pietro de Oratorio, fra’ Giovanni,
fra’ Giacomo, Pietro de Carrelli e l’abate di Casanova.
Le fondamenta vennero gettate nel marzo 1274 e appena dopo tre anni, nel luglio 1277 le strutture già realizzate
erano in grado di ospitare stabilmente 20 monaci e 10 conversi, provenienti dalle abbazie cistercensi di Le Loroux e
di Citeaux, che di fatto risiedettero in S. Maria della Vittoria dal gennaio 1278.
È da ritenere, pertanto, che a quella data fossero utilizzabili almeno la regione orientale della chiesa, con gli altari
e il presbiterio, e il monastero nelle sue strutture essenziali
per dare ricetto ai monaci.
Il 12 maggio 1278, alla presenza dello stesso Carlo
d’Angiò, avveniva la solenne consacrazione delle strutture
della chiesa fino allora edificate.
Ma i lavori erano ancora lontani dal compimento, tanto
è vero che nel giugno dello stesso anno il re dava disposizioni di come intendeva venisse realizzato l’apparato murario e nel 1280 prescriveva che fossero impostate le armature delle volte. Al refettorio mancavano soltanto porte, finestre e mense di legno.
L’impulso maggiore all’attività di cantiere è documentato fra l’aprile e il settembre 1281, quando risultano presenti 450 operatori e circa 350 animali da soma e da tiro.
Alla fine del 1281 mancavano da compiere soltanto la copertura e gli infissi delle finestre del dormitorio dei monaci.
La costruzione della chiesa sembra che fosse ultimata,
poiché nel 1282 sono documentati i pagamenti degli stalli
lignei del coro dei monaci e di quello dei conversi, dello
stagno e dei vetri multicolori impiegati per le finestre della
chiesa e del refettorio, oltre che delle tegole per le coperture e delle volte del monastero.
A conclusione del cantiere troviamo il pagamento del
trasporto della campana dalla chiesa dei frati Minori di
Amatrice alla nostra di Scurcola.
Non sembra probabile, quindi, l’ipotesi dell’Egidi che i
lavori possano essere rimasti incompiuti esistendo preventivi di spesa per l’inverno 1282-1283 rimasti insoluti. È probabile che rimanessero da compiere soltanto spese per l’arredo e rifiniture.
Da una lettera del 27 marzo 1281 risultano le specializzazioni professionali dei lavoranti nel cantiere e il loro
numero: 45 “scappatores”, cioè forse cavatori o dirozzatori di pietre, 40 “incisores”, cioè lapicidi o finitori di
conci, 27 “spuntatores”, cioè forse spianatori di conci o
sagomatori, 40 “macconnerii”, cioè muratori, 3 “preparatori”, cioè probabilmente addetti alla selezione dei conci già realizzati e al loro ordinamento in corsi di uguale
altezza e in sequenza con cantonali o con altri elementi
da comporre in successione (cunei di archi, elementi di
volte, di portali, di pilastri, di altre nervature), 8 “carpentieri” per armature e impalcature di legno, 4 “fabbri”
per ferramenta di travature o infissi e per l’appuntatura
degli scalpelli usurati, 8 “carrettieri” per trasporti vari,
30 “conduttori di buoi” per il trasporto dei blocchi di
pietra dalle cave, 253 “manupuli”, cioè manovali. Interessanti per comprendere l’articolazione del cantiere sono
i rapporti numerici fra i diversi operatori. Quasi paritario risulta il numero di muratori, scappatori, incisori, di
circa 1/3 superiore a quello degli spuntatori e dei conduttori di buoi; ma la quantità, direi, esponenziale, oltre
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sei volte superiore a quella dei muratori, è rappresentata
dai manovali addetti a compiti diversi.
Lo scavo archeologico degli anni 2000-2002 all’interno della navata meridionale, nelle prime due campate a partire dalla facciata, ha restituito indicazioni stratigrafiche sulle
procedure di costruzione di questa parte della chiesa dalla
scavo delle fondazioni all’elevazione dei muri.
I dati che emergono riguardo alla fondazione dell’edificio
mostrano che le operazioni preliminari all’impianto dei muri
non si limitarono allo scavo delle fosse, in cavo libero, bensì
anche a uno sbancamento del terreno all’interno della chiesa
per oltre m 1,50 dallo spiccato delle riseghe superiori, allo scopo
di predisporre un invaso in cui riversare le scorie di lavorazione dei conci. Esse, insieme con malta magra, avevano la funzione di formare una platea pavimentale, compatta perché ben
costipata e omogenea, capace di staccare la pavimentazione
dalla risalita dell’umidità e di saldare le fosse di fondazione sia
dei muri perimetrali, sia dei pilastri, sia dei setti di collegamento tracciati a graticola. Le fondazioni dei muri e dei pilastri sono realizzate in tre passaggi tecnici successivi:
a) fossa con gettata di malta tenace e grossi scapoli in essa
costipati, collegamenti a graticola per mezzo di setti murari
realizzati allo stesso modo e complanari, riempimento degli
invasi intermedi e copertura della prima risega mediante platea di scapoli minuti, malta magra e brecciolino con terra rossa;
b) spiccato dei muri e dei pilastri con paramento in “opus
planum” e secondo riempimento, di terra e pietrisco, nel
quale sono alloggiate le sepolture;
c) copertura con strato di malta di calce farinosa e massetto
pavimentale in corrispondenza dello spiccato dei muri.
Nell’area di scavo, sbancata dalla Soprintendenza ai
BAP dell’Abruzzo precedentemente al nostro intervento
stratigrafico, non rimangono tracce delle buche di palo dei
ponteggi per l’elevazione dei muri.
Sul piano superiore dei conci che compongono le
innervature a semipilastro del muro perimetrale meridionale e di alcuni erratici che ne proseguivano, a forma di semicolonna, l’ordito in elevato, rimangono particolari segni di
guida, riferibili alla fase di cantiere, consistenti in croci o in
triangoli, ma anche in tracciati lineari, a doppio solco parallelo, realizzati con strumento a punta sottile guidato da
un righello a stecca. Questi segni sono indicativi dell’allineamento di separazione fra la parte dell’elemento destinata a essere immorsata nel sodo murario dei perimetrali dell’edificio e la parte programmata in aggetto rispetto a essi.
In particolare la faccia superiore di uno dei conci costitutivi del perimetrale meridionale, destinata a essere ricoperta dal concio superiore, reca significativi, e in parte enigmatici, segni di cantiere interpretabili probabilmente come
tracciati di progettazione della trilobatura delle polifore da
realizzare nei perimetrali stessi. Come negli esemplari già
ricordati, le linee, a doppio solco parallelo, sono realizzate
a mano libera con uno strumento a punta sottile.
Il motivo graffito raffigura un arco ogivale, in posizione centrale rispetto a un arco di raccordo esterno a pien
centro, affiancato a sinistra da un altro arco ogivale di minore ampiezza, a destra da un arco rampante che forma con
quello centrale il tipico motivo a tre lobi. A destra, un altro
arco ogivale a forma di scudetto perché capovolto rispetto
ai precedenti, interseca l’arco rampante. Non è accertabile
se possa trattarsi, come riterrei, dello schizzo di progetto
della vetrata, o del calcolo di una ripartizione geometrica.
L’ogiva include, infatti, tre circoli: tangenti i due inferiori, secante quello superiore, scompartiti diversamente: a
quadrati quello inferiore sinistro, a triangolo capovolto quello inferiore destro; quello superiore sembra non conservare
segni di partizione.
Altri segni particolari di cantiere abbiamo rinvenuto nel
portale rinascimentale del monastero di S. Maria a Luco dei
Marsi, nel quale dal 1999 stiamo effettuando uno scavo stratigrafico. Si tratta di particolari chiavi di riferimento per la
messa in opera dei segmenti d’arco componenti il fornice di
accesso agli ambienti monastici. I segni incisi su ciascun elemento sono rappresentati dalle sigle SI, SII, SIII, S4, S5, S6,
nella metà a destra e DI, DII, …, …, …, nella metà a sinistra,
oltre al cuneo di chiave, apparentemente privo di incisioni
ben leggibili. La posizione dei cunei segnati con la S e di
quelli segnati con la D, apparentemente invertita secondo la
logica dell’osservatore, evidenzia che il riferimento all’asse
di simmetria non riguarda la destra o la sinistra del portale, o
di chi guarda, bensì la direzione della curvatura dei singoli
elementi dell’arco: a destra, infatti, sono situati quelli che si
volgono a sinistra, e viceversa.
La progressione numerica inoltre, procede dalle imposte
verso la chiave dell’arco. I piedritti delle imposte, tuttavia, recano la sigla S VI quella di destra, è abrasa quella di sinistra.
Un altro cantiere che abbiamo iniziato a indagare è quello
di S. Maria di Collemaggio, riguardo al quale esistono documenti di riferimento, ma anche un complesso dibattito legato
alla presenza dei Templari e a misteriose coincidenze esoteriche.
Lo scavo, finora limitato all’esterno della zona absidale, nel versante settentrionale, oltre alle tardive tracce di
cantiere già dette (calcara e fossa per lo spegnimento della
calce settecentesche) non ha fornito, per adesso, risposte
particolarmente risolutive.
Anche dai primi risultati dello scavo condotto negli ultimi due anni entro l’ex monastero di S. Domenico in L’Aquila non emergono dati di rilievo su particolari pratiche di cantiere, né sono state individuate tracce di strutture corrispondenti alla presunta presenza di un palazzo costruito per volere di Carlo d’Angiò come sua residenza cittadina anteriormente alla edificazione del monastero domenicano.
Ma la ricerca archeologica non è ancora terminata.
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