Relazione dello spettacolo 7 minuti, di Nicole Zaramella

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Relazione dello spettacolo 7 minuti, di Nicole Zaramella
Relazione dello spettacolo 7 minuti, di Nicole Zaramella
Raccontare la situazione, difficile, che il nostro Paese, come d'altronde il resto del mondo, sta
vivendo negli ultimi anni non è impresa facile. Parlare di crisi economica, di lavoro, di instabilità, di
diritti, di parità di genere può far scadere fin troppo facilmente nella retorica, nella polemica fine a
se stessa, nella presa di posizione statica e politicizzata.
Eppure, quando si tratta di temi come questi, appare necessario, quasi di importanza vitale, poter
almeno provare a offrire una visione personale, una propria opinione: che non significa, beninteso,
sofisticare la realtà o imporre il proprio pensiero, ma piuttosto penetrare nel quotidiano e trasporlo
in scena, traducendo la vita vera in teatro, senza censure, e senza tentare di renderla migliore o
peggiore di quanto non sia.
7 minuti, scritto da Stefano Massini e diretto da Alessandro Gassmann, si rivela capace di realizzare
tutto questo con l’ulteriore pregio di parlare alle coscienze senza perdere in freschezza e veridicità.
Cominciamo però dal principio in quanto sembra doveroso precisare da dove il testo sia stato tratto,
quale sia il fatto (realmente accaduto) che lo ha ispirato.
Ci troviamo nel 2012 ad Yssingeaux, nell’Alta Loira, in una fabbrica tessile; la manodopera è
costituita per la maggior parte di donne, alcune assunte di recente, altre con numerosi anni di
esperienza alle spalle. Gli affari sembrano andare piuttosto bene quando, inspiegabilmente, almeno
secondo le lavoratrici, i proprietari decidono di vendere lo stabilimento ad una cordata
internazionale. Immediatamente si prospetta un futuro incerto per le operaie di Yssingeaux: la
nuova proprietà minaccia licenziamenti, notizia che mette tutte in allarme e che apre la strada ad
occupazioni e scioperi. Iniziative che non riescono ad impedire la chiusura della fabbrica, ma che
danno grande risonanza alla vicenda, al punto che le operaie, divenute capaci di organizzarsi e di
diventare delle piccole imprenditrici, suscitano l'interesse di alcuni finanziatori, che permette loro di
aprire una boutique on line.
Questo, in sintesi, lo spunto da cui Massini costruisce il suo testo.
7 minuti però non è ambientato in Francia: la vicenda viene trasportata in Italia, mettendo in scena
la trattativa che il consiglio di fabbrica ingaggia con i nuovi proprietari, il momento cioè in cui le
operaie sono chiamate ad esprimersi sulla richiesta della riduzione di sette minuti della loro pausa.
Portavoce del consiglio, a sua volta amplificatore ideale del volere dell’intero stabilimento, è
Bianca (Ottavia Piccolo), operaia con il maggior numero di anni di esperienza, ben trenta, e
sostegno imprescindibile per le compagne, tutte delineate con realistica precisione. C’è Olivia
(Paola Di Meglio), grande amica di Bianca, impegnate a destreggiarsi tra il lavoro ed una figlia,
Sabina (Eleonora Bolla) anche lei impiegata in fabbrica, in aperto conflitto con il mondo e coetanea
di Sofia (Vittoria Corallo), convinta fermamente che il mondo dei numeri sia decisamente più
rassicurante di quello degli umani. Ci sono Mirella (Stefania Ugomari Di Blas) terrorizzata all’idea
di perdere l’impiego e attanagliata da mille altri timori, e Arianna (Silvia Piovan), per la quale il
lavoro viene prima di ogni altra cosa, energica e alle volte un po’ prepotente. A farle da spalla, ecco
Lorena (Arianna Ancarani), con un passato da donna delle pulizie, che inorridisce al solo pensiero
di dover tornare a quel lavoro così mal retribuito e così poco rispettato. Traboccante di vitalità, a
volte espressa con vigorosi pugni al tavolo e al distributore di bibite, è Rachele (Cecilia Di Giuli),
convinta che il silenzio e la sottomissione non possano che far precipitare gli eventi. Suo contraltare
è Sevgi (Stefania Piccioni), di origini turche, dolce, timida, mansueta, quasi rassegnata ad accettare
le decisioni che le altre impongono.
E con Sevgi, nel cosiddetto “gruppo delle straniere” figurano due forti, affascinanti figure
femminili, diverse per provenienza e vissuto: Fatou (Balkissa Maiga), arrivata da un lontano paese
africano, e Aneta (Olga Rossi), dall’Est Europa, l’una remissiva e silenziosa (parla pochissimo,
Fatou, ma quando lo fa lascia il segno) l’altra dura, quasi marziale, impegnata a nascondere le
comprensibili paure sotto il velo del “mi spezzo ma non mi piego”.
Bloccate nello squallido spogliatoio dello stabilimento, frutto del lavoro dello scenografo Gianluca
Amodio, con i camicioni da lavoro o la divisa da impiegate ancora addosso (va dichiarata l'abilità
della costumista, Lauretta Salvagnin, di saper attribuire a tutte le figure una propria personalità e un
diverso carattere) le dieci orfane di Bianca attendono che la loro “madre coraggiosa” faccia ritorno
dalla riunione con i nuovi proprietari. Massini rappresenta con grande efficacie questi momenti
concitati e febbrili, pieni di tensione, di rabbie inconsulte, di ansie che esplodono in commenti acidi,
sorrisini sprezzanti e frasi a mezza voce, che la regia di Gassmann contribuisce a rendere autentici,
scattanti, senza pause. Il ritmo, fin dal principio, appare sostenuto, quasi inarrestabile, mentre il
fumo che la maggior parte delle protagoniste aspira in scena scende sulla platea, coinvolgendo
ulteriormente il pubblico e facendolo quasi penetrare all’interno della scena.
Un dubbio, in particolare, si insinua in tutte le protagoniste: che Bianca stia, in realtà, fingendo?
Che la sua sia solo una strategia per favorire se stessa a scapito delle compagne? Che il suo sia un
furbo atteggiamento da provetta doppiogiochista?
Bianca fa il suo ingresso proprio quando la tensione sta per raggiungere livelli difficili da
controllare, tanto che lo spettatore teme di trovarsi da un momento all’altro nel bel mezzo di una lite
furibonda. Le donne si assembrano intorno alla nuova venuta sommergendola di domande. Una,
ovviamente, prevale su tutte: la fabbrica chiuderà? No, tranquillizza Bianca, lo stabilimento rimarrà
aperto ma… Ma niente: dimenticate le rabbie che sembravano dover esplodere poco prima, le dieci
sorelle di ventura si abbracciano, ridono, festeggiano, schiamazzano incuranti della stanchezza, la
loro e quella dell’undicesima componente del gruppo che non si unisce alla baldoria. Ma i
festeggiamenti durano poco: le undici donne sono obbligate ad una scelta drastica, che Bianca, dopo
aver faticosamente calmato le amiche, spiega senza troppi giri di parole. La fabbrica non chiuderà i
battenti, è vero, e non saranno presi in considerazione licenziamenti, ma ad una condizione ben
precisa: che tutte le lavoratrici rinuncino a sette minuti di pausa. Un vero e proprio ricatto,
sottolinea Bianca, fermamente convinta della necessità di opporsi a questa odiosa estorsione e
altrettanto convinta di ricevere l’appoggio delle altre componenti del consiglio.
Purtroppo, Bianca non ha fatto i conti con il serrato ostracismo delle compagne: nessuna sembra
appoggiare la sua idea, nessuna sembra disposta ad ascoltare i dubbi della portavoce, che anzi viene
tacciata di incoscienza ed irresponsabilità. Ma la sua non è affatto una scelta fatta a cuor leggero: la
donna sa fin troppo bene quanto tutte le operaie abbiano bisogno di quel lavoro. Conosce a
menadito le storie delle compagne, il loro attaccamento al mestiere che svolgono, il disperato
bisogno di mantenere quell’impiego spesso tanto faticosamente ottenuto. Ma comprende anche fin
troppo bene quanto tutto ciò giochi a favore dell’accordo proposto: teme, in sostanza, che le
compagne si sentano obbligate ad accettare la condizione imposta dall’alto, per il timore che un
rifiuto possa compromettere il loro futuro.
Bianca non ci sta. Non intende scende a compromessi e tantomeno cedere senza combattere. La
trattativa estenuante condotta fino a quel momento con i nuovi proprietari si sposta all’interno della
stanza in cui le donne si erano riunite, in attesa. La tensione iniziale ritorna a farsi sentire: si avverte
la sensazione di non trovarsi più davanti ad una messinscena ma al cospetto di una vera e propria
lotta, che si consuma nello squallore di uno spogliatoio, tra zaffate di fumo e occhiate di fuoco.
Chi si sente attaccata reagisce con rabbia, chi teme di perdere l’impiego si arrocca ancor più nel
fragile castello di carte delle sue posizioni personali, chi azzarda una debole mediazione o invita ad
un dialogo meno acceso viene zittita in malo modo. Chi rimarrebbe volentieri in silenzio è tirata a
forza nella discussione, non senza subire rimproveri e accuse di scarsa partecipazione e interesse.
Emergono potenti i timori con cui nessuna avrebbe mai voluto fare i conti, forse perché, come
afferma Fatou (che non intervene quasi mai, salvo poi spiazzare tutti con una frase) ‹‹finora non
avete mai provato la paura vera››.
E’ vero, fino a quel momento non c'è stata ragione di avere paura. Non se ne vedeva il motivo.Non
c’erano nemici all’orizzonte, da combattere e allontanare. Aneta, Sevgi e Fatou erano le amiche di
sempre, con cui chiacchierare e ridere, in quei preziosissimi quattordici minuti di stacco dal lavoro.
Ora divengono loro il primo bersaglio dell’ira scomposta delle altre, che inutilmente Bianca tenta di
riportare alla calma.
In un certo senso, quell’angusto stanzino, dove si respirano pena e livore, diventa il simbolo della
società attuale, in cui sembra più utile reagire con la violenza (alle volte non solo verbale) alle
avversità. Ma è anche l'emblema della ragione, rappresentata ancora una volta da Bianca e dalla sua
sete di giustizia, perché, come ella stessa sottolinea a più riprese, sul piatto della bilancia c’è
qualcosa di estremamente importante, da soppesare con cura: i loro diritti di donne, di madri e di
lavoratrici, che, ribadisce nel silenzio generale, rischiano di venire irrimediabilmente calpestati.
Si parla di dignità, dignità che per Bianca non può essere accantonata solo per potersi mettere al
riparo da eventuali ritorsioni (leggi licenziamento), per quanto tremende possano apparire. Le altre
tentano inutilmente di farle cambiare idea: il suo voto è e rimarrà negativo.
Non si piegherà mai, spiega accorata, a quell’aut aut sottilmente feroce, che impone una scelta che
non è tale, che sta minando l’unione del gruppo, mettendo tutte una contro l’altra e che, alla fine,
favorisce solo e soltanto l’azienda. In un serrato discorso, che poi è una risposta a Sofia e
all’ossessione della giovane di voler ragionare per asettici schemi aritmetici, Bianca spiega qualcosa
a cui nessuna aveva prima pensato: il guadagno dei nuovi proprietari a spese di tutti i dipendenti.
Sette minuti di lavoro in più, sette minuti tolti dalla pausa di quattordici, moltiplicati per duecento
operaie si traducono in seicento ore mensili di lavoro non retribuito. Con buona pace di Sofia e della
sua strenua difesa dei numeri e dell’algebra: qui si parla di persone, di uomini e donne in carne ed
ossa, non di problemi matematici.
Il silenzio cala come una coltre impenetrabile. Ognuna si rintana nei propri pensieri, conscia della
verità a cui poco fa nemmeno aveva pensato. Il pubblico, ormai dodicesimo partecipante a
quell’assemblea che appare più come una riunione segreta in un bunker soffocante, aspetta in
trepidazione l’evolversi degli eventi. E alla fine l’evoluzione dei fatti arriva, lasciando spiazzati e
attoniti. Tra urla, recriminazioni, pugni sbattuti sul tavolo e sugli armadietti (uno dei quali viene
persino rovesciato da Rachele nella foga del momento), pianti isterici e coloriti scambi di opinioni,
le dieci orfane di una madre che non le può salvare si ritrovano faccia a faccia, in due schieramenti
opposti. Con grande sorpresa del pubblico, infatti, alcune di loro sono passate dall’altra parte della
barricata e, con un onesto ripensamento, hanno abbracciato la tesi di Bianca, non senza subire lo
sgomento adirato di quelle che, come Arianna, si rifiutano categoricamente di cambiare idea. O
hanno solo rinunciato a far valere la loro opinione e, con dolce remissività, si adattano alla
decisione altrui: è il caso di Sevgi ma anche di Fatou, che spiega in un intenso dialogo con se stessa
i motivi che la spingono a votare sì. Lei, che la ‹‹paura vera›› l’ha provata tante volte, non può
proprio permettersi di abbandonare quel lavoro che rappresenta una sorta di ancora di salvezza in un
mare burrascoso. Rimane solo Sofia, indecisa e confusa, incapace di trovare conforto in quel
sistema di calcoli e operazioni tanto rassicuranti sulla carta e tanto freddi ed impersonali nella
realtà.
Se ne va invece Bianca, e il suo non è solo un lasciare la sala: con una sofferta decisione, sceglie di
abbandonare il ruolo di portavoce del consiglio di fabbrica. Lo strappo è compiuto: le dieci operaie
arrabbiate si trovano improvvisamente sole e allo sbaraglio. La rabbia cede il posto ad un
pentimento sincero e toccante, anche se, ormai, inutile: se Bianca se n’è andata la colpa è di tutte,
non solo di Faotu, la quale ha soltanto da dato voce a ciò che tutte credevano.
Ma nessun accordo segreto era stato siglato tra la loro rappresentante ed i nuovi proprietari, nessun
tentativo di favorire se stessa, niente doppiogioco, zero sotterfugi. Anzi, alla luce dei fatti, Bianca
risulta come colei che alle compagne ed al loro destino teneva molto più di quanto tenesse al suo. Il
finale, aperto ma intuibile, lascia aperto uno spiraglio di speranza che rassicura, almeno in parte, lo
spettatore.La votazione sarà portata a termine, anche e soprattutto in onore di Bianca e
dell’amorevole attenzione che sempre ha dimostrato per la fabbrica.
Cinque i voti favorevoli a quei sette minuti sottratti alla pausa e cinque quelli contro. Parità? No,
manca, appunto, il voto dell’ultima, dell’eterna (ma ancora per poco) indecisa. Sarà appunto Sofia
a decidere per tutte, per una volta, e forse per la prima volta, ricordando a lei, alle compagne e
soprattutto al pubblico che, quando si parla di esseri umani, di persone in carne ed ossa, i numeri
non servono a quantificare i diritti, la dignità e il rispetto dovuto a ciascun individuo.
Autentico, sincero, realistico, onesto, 7 minuti si situa nel solco di un teatro sociale in grado di
fornire risposte stringenti a domande di strettissima attualità, offrendo spunti di riflessione intensi e
utili, mai banali. La coppia Massini-Gassmann ha saputo con abilità costruire un intreccio di piccole
storie all’interno di una vicenda più ampia e complessa, storie in cui è facile immedesimarsi, in cui
ci si riconosce, o almeno di cui si è sentito parlare e di cui, in fondo, si vorrebbe sapere di più.
Penso in particolare a Fatou e all'episodio in cui rivede se stessa bambina, nell’Africa che tra mille
avversità e paure ha dovuto lasciare per un’Europa sconosciuta e, alle volte, ostile.
Bravissime tutte le undici protagoniste, capaci di raccontare le loro donne con amorevole
comprensione anche se, come da molte attrici dichiarato in varie interviste, non sempre è risultato
facile interpretarle, non semplice è stato immedesimarsi in certi moti di rabbia che sfociano
nell’offesa o nel commento cattivoen malevolo. Decisamente meritati, dunque gli applausi che, ne
ne siamo convinti, saluteranno ogni finale di replica di questo commovente e coinvolgente
spettacolo.