Indice Introduzione: una premessa metodologica Capitolo 1

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Indice Introduzione: una premessa metodologica Capitolo 1
Indice
Introduzione: una premessa metodologica
Capitolo 1
Merveille e mirabilia: due opzioni a confronto
1.1 Interpretare la Natura: simbolismo, allegoria, metafora, sensus litteralis
1.2 Phantasia e mirabilia: visione interiore e visione esteriore
1.3 Evoluzione semantica di phantasia
1.4 Merveille e mirabilia: visiones vs res
1.5 Merveilles e mirabilia: finzione e verità
1.6 Mirabilia: lo spazio della trasculturazione
Capitolo 2
La letteratura mediolatina alla corte dei Plantageneti: educere dilectando, tensione didascalica,
pulsione gnoseologica, riconfigurazione delle costellazioni degli immaginari
2.1 Il programma ideologico e culturale della corte Plantageneta.
2.2 De Nugis curialium: l’opera inesistente
2.3 Giraldo di Cambria e Gervasio di Tilbury: dalla collezione libresca di mirabilia alla registrazione sul
campo. Verso la ridefinizione/fondazione del genere odeporico.
2.4 Influssi e rielaborazioni
2.5 Nuclei mitici, paure e evoluzioni.
Capitolo 3
I mirabilia oggettivati e certificati in alcuni testi del secolo XIV di area gallo-romanza e italiana
3.1 L’eredità di Gervasio: la definitiva incarnazione delle creature feriche e il loro duplice destino di
salvazione e di dannazione
3.1.1 Brevi rilfessioni sul Roman di Melusine di Jean d’Arras
3.1.2 Les oisivetez des emperierers di Jean de Vignay : la compiuta sostanzializzazione di mirabilia e
la demonizzazione delle fantasies.
3.2 La certificazione di verità e la condensazione della realtà nelle testimonianze dei viaggiatori delle terre
oltremondane: tra divertissement e pulsione edificante
L’Oriente e la cristallizzazione dei mirabila: dall’esplorazione alla catabasi
3.2.1 Odorico da Pordenone: intenzione figurale e discorso di verità
3.2.2 Jehan de Mandeville e una «geografia» di mirabilia oggettivati: alla conquista dello spazio
incognito.
3.2.3 Il Paradis de la reine Sibylle di Antoine de la Sale : realtà e irrealtà delle anguipedi ipogee.
3.2.4 La catabasi fisica e corporea nell’Aldilà: i resoconti dei viaggiatori del Purgatorio di San
Patrizio e i metamorfi femminili
Conclusione
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Introduzione: una premessa metodologica
L’interrogativo che ha orientato la nostra ricerca origina dalla constatazione di un fenomeno, sui cui
finora molto si è detto, ma in realtà poco si è indagato. In un testo fondamentale sulle funzioni del Credo e le
sue implicazioni socio-culturali, Jean-Claude Schmitt afferma ad un certo punto, in riferimento alle credenze
sulla magia e sulle seguaci notturne di Diana, che il processo che conduce da i non credenda (ovvero le
illusioni demoniache) ai credenda (ovvero la realtà degli atti diabolici) deve essere ancora ampiamente
investigato. Normalmente la critica constata che sul finire del sec. XIII si è verificata una svolta
epistemologica che trova poi pratica e piena applicazione nella futura caccia alle streghe. Ora, lungi da noi
voler cedere a una tentazione storicistica che conduce alla istituzione di nessi evolutivi deterministici di certi
fenomeni, ci preme indagare, all’interno di un milieu particolare (la corte Plantageneta) proprio la
trasformazione dello statuto ontologico di alcuni particolari esseri meravigliosi, i quali, non all’interno di un
ambiente strettamente ecclesiastico-monastico, bensì proprio in un contesto laico-curiale subiscono una
lettura, che in un certo senso funzionerà da cassa di risonanza per certe credenze in cui gli elementi
dell’immaginario collettivo risulteranno modificati o perfino rafforzati proprio dall’apporto dei differenti
immaginari individuali degli autori mediolatini. La questione dell’illusorietà o della realtà di certi fenomeni o
di certi esseri (atti diabolici, fate, streghe) è dirimente per comprendere le poliedriche dinamiche della
formazione dei composti culturali, essa si colloca, inoltre, in un momento storico ben preciso e di questo
momento riflette angosce, paure, inquietudini.
Obiettivo principale del nostro studio è l’analisi delle dinamiche culturali che regolano le operazioni
di rielaborazione e di riscrittura di alcuni nuclei mitici di lunga durata, in un’ottica non tanto di scavo
archeologico, teso a comporre una mappa dei retaggi e delle sopravvivenze, quanto di interazione tra
immaginari individuali e collettivi, a loro volta determinati dai contesti storici.
Il processo che conduce alla sostanzializzazione di alcuni mirabilia/phantasiae presenti nelle opere
mediolatine dei secoli XI-XIII si inserisce all’interno di un panorama più ampio, che Schmitt ha definito
«oggettivazione dei fantasmi» (in riferimento ai numerosi racconti di revenants e di codificazione del terzo
regno oltremondano, il Purgatorio), percorso da radicali mutamenti epistemologici e filosofici (la
desacralizzazione della natura e l’affermazione di una filosofia della natura che confluirà nella codificazione
della doppia verità, fisica e metafisica, della Scolastica); da profondi rivolgimenti storico-religiosi (la
consacrazione del dogma della transustanziazione nella sua variante ‘materialistica’; la diffusione delle
eresie e la lotta conseguente intrapresa dalla Chiesa e dai poteri laici). L’irruzione del meraviglioso nella
letteratura mediolatina e romanza dei secoli XII-XIII è stata spesso interpretata come indice di apertura e di
‘tolleranza’ da parte delle élite culturali nei confronti della letteratura ‘folklorica’. Il meraviglioso, secondo
la definizione di Le Goff collocato in posizione intermedia tra il miracolo e il magico, diverrebbe dunque
l’indice di un’autonomia della cultura dei laici, che nel roman e nella narrativa breve trovano la propria
legittimazione ideologico-sociale. Le raccolte di mirabilia, inoltre, sempre secondo le acquisizioni della
critica francese, manifesterebbero un approccio proto-scientifico da parte dei loro autori, etnologi e
folkloristi ante-litteram. La consolidata lettura della critica francese, tuttavia, non resiste sempre all’analisi
dettagliata dei testi e, se continua a costituire un pilastro dell’ermeneutica del meraviglioso medievale,
necessita, a nostro avviso, di essere integrata e, a tratti, modificata.
Dalla lettura diretta dei testi, infatti, emergono altre direttrici, che implicano spostamenti semantici
significativi e che possiamo sinteticamente ricondurre a tre questioni fondamentali: la pulsione didascalica
secondo il principio dell’educere dilectando; la certificazione dei fenomeni meravigliosi oculata fide,
secondo un procedimento proprio della scrittura storiografica; l’incarnazione di phantasiae, ovvero di
creature dallo statuto tradizionalmente illusorio. Ognuno di questi poli genera una serie di conseguenze che
incidono sugli assetti gnoseologici. La vocazione didattica comporta una sorta di affermazione del principio
di superiorità nei confronti della letteratura profana volgare, il cui statuto fittizio è chiarito e ribadito fin dalla
sua fondazione; la certificazione di verità contrappone i mirabilia reali alle merveilles romanzesche,
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fondandosi, inoltre, su una conoscenza diretta dei luoghi visitati o dei testimoni ascoltati, così da porre le
basi di alcuni tratti costituitivi della successiva letteratura di viaggio in volgare; il processo di incarnazione
procede di pari passo con la demonizzazione di alcune creature, disvelando un’efficacia reale delle potenze
maligne che si accrescerà nel corso dei secoli. Il risultato di questa operazione è lo slittamento ontologico
dello statuto fantasmatico di alcuni mirabilia, i quali una volta oggettivati contribuiscono al passaggio dai
non credenda ai credenda, ridisegnando i confini dell’operatività degli esseri malefici all’interno del mondo
naturale. Il quadro appena tratteggiato non emerge, tuttavia, nei secoli XII-XIII, dalla riflessione teologica
ufficiale, la quale, comunque preoccupata di contenere le tentazioni demoniache, resta sostanzialemente
fedele alla concezione agostiniana del male difettivo, ovvero inteso come non-essere; bensì affiora da un
corpus di testi che posti a cavallo tra il divertissement letterario e l’edificazione, meglio rispondono ad
un’operazione di mediazione tra differenti livelli di cultura e quindi di propagazione di ‘nuovi’ modelli. I
mirabilia incarnati esemplificano quel processo di interazione transculturale tipico della cultura dell’età di
mezza, un’interazione che garantisce la relazione e l’incontro tra l’immaginario collettivo e l’immaginario
individuale dei singoli autori. Il milieu all’interno del quale si elabora questo progetto di ibridazione e di
crossing-over, sul finire del secolo XII, è sicuramente la corte Plantageneta di Enrico II.
La nostra analisi ha cercato, a questo proposito, di porre in rilievo il complesso programma culturale del
sovrano, il quale, se da un lato patrocina un’operazione di mitopoiesi letteraria, attraverso la nascita della
letteratura romanzesca arturiana, dall’altro sostiene una produzione mediolatina che trasforma le antiche
collettanee di portenta in registrazione storiografica e fededegna degli stessi. In questo modo si crea
un’atmosfera meravigliosa attorno alla figura storica del sovrano, la cui idealizzazione viene rafforzata anche
grazie alle azioni del suo alter-ego immaginario Artù. I testi mediolatini consacrati ai mirabilia si
impongono, dunque, quali testi-snodo che intercettano, a livello psicologico e antropologico, mutamenti e
inquietudini e che inaugurano, sul versante più strettamente letterario, stilemi retorici e strutture compositive
in seguito confluenti nelle scritture odeporiche. Il corpus di testi esaminati si compone essenzialmente delle
opere di tre autori canonici nel campo del meraviglioso medievale: De nugis curialium di Walter Map;
Topographia Hibernica, Itinerarium Kambriae, Descriptio Kambriae di Giraldo di Cambria, gli Otia
Imperialia di Gervasio di Tilbury. Nonostante siano testi già ampiamente investigati dalla critica, la lettura
comparativa/contrastiva condotta, da un lato, con altri testi latini coevi, storici e/o enciclopedici, dall’altro
con la riflessione teologica, ci ha consentito di individuare e di isolare i meccanismi di formazione di un
mirabile sostanzializzato e oggettivato.
La riscrittura dei mirabilia alla lente di una concezione magico-folklorica del corpo degli esseri
sovrannaturali, nonché l’incarnazione generante degli stessi, non indicano soltanto la sopravvivenza o
l’accoglienza di motivi della cultura ‘popolare’ all’interno della produzione colta, bensì si pongono come
processi bidimensionali interattivi: la trasposizione della concezione magica all’interno dell’impianto
concettuale teologico si traduce nel tentativo di elaborare categorie di leggibilità nei confronti di un reale in
trasformazione, e di attivare una negoziazione con il male, riducendolo a composti gestibili. A questo
proposito, senza voler affatto istituire nessi diretti e meccanici, ci è sembrato, tuttavia, che uno dei fattori che
maggiormente incide sul senso di stabilità/instabilità delle coscienze, in concorrenza con altri mutamenti
epistemologici, possa essere la paura e il senso di assedio e di accerchiamento suscitati dalla diffusione delle
eresie. La comune rielaborazione del nucleo mitico arcaico della donna ofidica da parte di intellettuali
gravitanti attorno allo stesso milieu, sembra suggerire il tentativo dell’élite di leggere e penetrare una realtà
percepita come infida, ingannevole.
Dal punto di vista letterario, invece, due autori, in particolare, attivi per un periodo della loro vita all’interno
della corte Plantageneta, pongono le basi per il passaggio dalla collezione enciclopedica antica delle
meraviglie, collezione essenzialmente libresca, alla relazione di viaggio, costellata dalla descrizione e dalla
verifica soggettiva dei fenomeni straordinari. Giraldo di Cambria, così come Gervasio di Tilbury si
concentrano su prodigi verificatisi all’interno di regioni personalmente visitate. L’insistenza, inoltre, sulla
questione della verità e della realtà del narrato genera una forta concorrenza nei confronti di meraviglie
letterarie e romanzesche, esplicitamente connotate come fabulae.
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Lo studio delle rielaborazioni di nuclei mitici-folklorici effettuati dagli intellettuali legati alla corte
Plantageneta dei secoli XII e XIII ha messo dunque luce le dinamiche di formazione di particolari composti o
prodotti culturali, che a loro volta reimmessi nel circuito dell’immaginario, divengono collettivi e condivisi.
La sostanzializzazione dei mirabilia comporta, infatti, l’accettazione della realtà fisico-oggettiva di
determinati fenomeni, certificati dalla testimonianza oculare e contemporaneamente la demonizzazione di
alcune creature, che attraverso l’acquisizione di un corpo operano nella dimensione terrena e naturale,
potenziando i poteri delle entità malefiche. Per verificare quanto l’operazione di Giraldo di Cambria o di
Gervasio di Tilbury sia stata efficace e si sia consolidata nella lunga durata, nella seconda sezione del
presente lavoro ci siamo rivolti a un corpus scelto di testi di area gallo-romanza e italiana del secolo XIV.
Alcuni snodi propri della letteratura cortigiana mediolatina del secolo XIII sono presenti anche nei testi
tardivi, i quali, in concomitanza con altri fattori storico-sociali, prolungano il processo di sostanzializzazione
dei mirabilia, in un’epoca, in cui l’ortodossia illusionista sta per essere definitivamente scalzata
dall’affermazione realistico-corporea delle creature demoniache.
Le opere del secolo XIV selezionate ai fini della nostra analisi tratteggiano un genere particolare che
potremmo definire di viaggio ‘fantastico’ o ‘immaginario’. Si collocano, infatti, all’interno della letteratura
odeporica, di cui riproducono quegli stilemi, in primis la «certificazione autoptica», già operanti nei testi di
Giraldo di Cambria e di Gervasio di Tilbury, ma narrano viaggi fittizi o catabasi oltremondane.
I tardivi viaggi al Purgatorio di S. Patrizio, così come le escursioni di Jehan de Mandeville nell’Estremo
Oriente o le testimonianze raccolte da Antoine de La Sale sul regno della Sibilla, raccontano di viaggi
corporei in regni sovraterrestri e si servono di tutti gli strumenti probatori affinati nei racconti di viaggi reali
(Marco Polo, Guglielmo du Rubruck, ecc.) per affermare l’esistenza di inquietanti prodigi, al cui centro,
spesso ritroviamo lo stesso nucleo mitico utilizzato dagli autori mediolatini: la metamorfosi femminile e in
particolare quella ofidica.
La continuità tematica e/o strutturale con i testi mediolatini pone un interrogativo sul riuso di determinati
materiali e sulla loro funzione. Dal punto di vista psico-antropologico, infatti, l’intento dell’esame delle
opere tardive è quello di verificare se, in un mutato contesto storico, le donne ofidiche e la
sostanzializzazione delle terre immaginarie o ultraterrene abbiano continuato a funzionare come collettori di
paure collettive e tentativi di elaborazione di categorie di leggibilità del reale. In un momento, inoltre, di
forte espansione territoriale dell’Occidentalità medievale, è risultato utile verificare se a guidare la scoperta
dell’altro sia stato il radicamento di una convenzione fantastica o l’affermazione dell’osservazione empirica.
Trattandosi di opere del secolo XIV, bisogna tener conto dell’influsso di alcune linee stilistico-compositive
proprie della prosa dell’epoca sulla rielaborazione di certi prodotti culturali. All’interno dei testi trecenteschi
si verifica innanzitutto un cortocircuito tra vita e letteratura: la ricerca di avventure si salda alla letteratura
romanzesca provocando l’alterazione di quel patto fizionale proprio dei romanzi cortesi-cavallereschi che
chiedeva ai lettori una sospensione dell’incredulità 1. La letteratura ambisce al rango della realtà oggettiva,
tanto quanto le relazioni di viaggi immaginari. Si verifica dunque un’osmosi sempre più marcata tra scrittura
odeporica e stilemi romanzeschi: le relazioni di viaggi ‘immaginari’ mimano la diegesi del romanzo, il
romanzo incorpora dati informativo-referenziali a sostegno di un maggiore realismo del décor scenico. I testi
tardivi sembrano,dunque, collocarsi a metà strada tra il divertissement di intellettuali cortigiani blasé e la
prosecuzione di un’operazione didattico-edificante dalla forte pulsione moralistica sulla scia di
quell’imperativo, educere dilectando, che aveva già guidato la produzione mediolatina alla corte
Plantageneta. I racconti di viaggi immaginari prolungano, inoltre, la concorenza con la letteratura di finzione,
investita anch’essa da una preoccupazione realistico-referenziale. Accanto alla grande opera di sintesi
allegorica realizzata con il ciclo del Graal, il pubblico del secolo XIV predilige testi traboccanti mirabilia,
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La commistione/confusione tra le convenzioni retoriche della fiction e gli stilemi della scrittura storiografica-autoptica
nel corso dei secoli XIV-XV tocca ambiti diversi della produzione letteraria e si configura come un fenomeno ampio e
complesso, che non può essere investigato in questa sede. Ci basti soltanto ricordare la centralità che assume la
tradizione epico-romanzesca nella ricostruzione di una storia prodigiosa, ma vera, qual è Ly mireur des histors di Jean
d’Outremeuse; Ly myreur des histors, chronique de Jean des Preis dit d'Outremeuse, éd. Ad. Borgnet, Bruxelles,
Hayez pour l'Académie royale de Belgique, 1864-1880, 6 voll.
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àncorati tuttavia dall’apparato probatorio tipico della scrittura odeporica a un livello di realtà oggettivofattuale. In un’ottica di estetica della ricezione, infatti, non si può non rilevare come l’immenso successo
ricevuto dal Livre di Mandeville, così come la proliferazione di racconti soggettivi sulla discesa al
Purgatorio, riposassero proprio sulla loro presunta veridicità.
Il presente lavoro consta di un’introduzione, una conclusione e tre capitoli centrali.
Per poter misurare lo scollamento che si verifica nell’accezione di mirabilia/phantasia all’interno delle opere
mediolatine prese in esame, nel primo capitolo ci siamo soffermati sulle trasformazioni epistemologiche e
gnoseologiche che interessano il coevo pensiero teologico, grazie alla propagazione di correnti naturalistiche
sia neoplatoniche che aristoteliche. Un’indagine sull’evoluzione semantica di phantasia, affiancata
dall’analisi delle accezioni tecniche del termine, ci ha consentito di verificare la novità che contrassegna le
phantasiae incarnate che popolano i nostri testi. Parallelamente un confronto con la merveille romanzesca ha
messo in luce le divergenze e le differenze che intercorrono tra i due universi concettuali veicolati da
mirabilia e merveille: la prima, essenzialemnete ancorata al suo statuto oggettivo, la seconda, comunque
determinata da una relazione soggettiva.
Il secondo capitolo è interamente impostato sull’analisi tematico-testuale del corpus preso in esame. Anche
in questo caso, la comparazione con i penitenziali e la riflessione teologica disvela la distanza della
rielaborazione di alcune figure femminili quale viene attuata all’interno del nostro corpus. Differenti altresì
dalle consorelle che abitano i romanzi, le fate/lamie di Walter Map, di Gervasio di Tilbury e di Giraldo di
Cambria accentuano il lato demoniaco, una demonizzazione che si compie proprio attraverso l’atribuzione di
un corpo. La questione della corporeità rinvia a quella della realtà ontologica dei fenomeni di metamorfosi,
riflettendo anche il coevo dibattito sulla transustanziazione. Ma l’oggettivazione dei mirabilia si fonda anche
e soprattutto sulla certificazione di veridicità fornita dalla testimonianza oculare: in questa direzione abbiamo
evidenziato come Giraldo di Cambria e Gervasio di Tilbury si distacchino dalle collettanee antiche per
procedere alla fondazione di strutture stilistiche e retoriche che in seguito presiederanno alla formazione
della scrittura odeporica.
Abbiamo quindi tentato di individuare i fattori che immergendo la realtà storica in una dimensione di forte
instabilità, generano paure e angosce. Il sentimento maggiormente condiviso è quello di essere circondati da
alieni, dalle apparenze normali, che in realtà operano in nome di entità malefiche; una reazione che evoca
una psicosi dell’assedio diffusasi in particolare in concomitanza con le crociate antireticali, vere e proprie
guerre combattute nel cuore della cristianità e non semplicemente proiettate verso il nemico esterno, gli
infedeli musulmani, oppure verso il corpo estraneo interno, gli ebrei.
Sul piano epistemologico, l’affermazione della realtà fattuale di alcuni mirabilia produce trasformazioni che
troveranno pieno sviluppo nei secoli successivi.
Tralasciando la produzione romanzesca francese dei secoli XIII-XIV, contrassegnata da un’ipertrofia del
meraviglioso, su cui la critica si è già ampiamente soffermata, nell’economia del nostro discorso, ci
interessava verificare se il processo di sostanzializzazione dei prodigi informasse altri ambiti della scrittura
letteraria. I tratti che abbiamo isolato all’interno della letteratura mediolatina, intorno a cui si impernia lo
slittamento ontologico, ovvero la certificazione di veridicità e la rivendicazione di verità contro le falsità
della fiction, strutturano le relazioni odeporiche e, in particolare, concorrono a conferire statuto di realtà a
una serie di portenta, soprattutto all’interno dei viaggi ‘immaginari’. Viaggi immaginari (il regno della
Sibilla, l’Estremo Oriente di Mandeville) che nella loro costruzione e strutturazione rivelano il debito nei
confronti della letteratura visionistica, che proprio nella versione del viaggio al Purgatorio di S. Patrizio, nel
XIV secolo, manifesta ancora tutta la sua vitalità. In tanti di questi testi, che spacciano per vere avventure
fantastiche, confondendo le fonti libresche con le testimonianze in prima persona, al centro delle catabasi si
ritrova la metamorfosi femminile e, in particolare, quella ofidica. Si assiste allora ad una sorta di movimento
inverso rispetto alle opere mediolatine del secolo XII che avevano contribuito all’incarnazione della donna
serpente: tanto quest’ultime si erano prodigate per inserire in coordinate storico-geografiche precise e
realistiche le melusine, quanto, nei testi del secolo XIV, a fronte di una codificazione sempre più marcata del
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prototipo inquisitoriale della strega, le donne anguipedi sono ricacciate in un altrove visitabile solo da pochi
eletti. All’essoterimso dei testi latini fa così da contraltare l’esoterismo dei testi tardivi, senza che, tuttavia, il
principio di slittamento di certe figure verso la realtà fattuale, venga rimesso in discussione: in Purgatorio si
arriva fisicamente e si incontrano donzelle provocanti; nell’antro della Sibilla appenninica ci si dà convegno
per rituali alchemici, ai limiti della stregoneria, come dimostra la testimonianza di Giovanni delle Piatte nel
1505, condannato come stregone iniziato alle arti magiche dalla Sibilla
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Capitolo 1
Merveille e mirabilia: due opzioni a confronto
1.1 Interpretare la Natura: simbolismo, allegoria, metafora, sensus litteralis
Il processo di lenta de-sacralizzazione della natura è stato già ricostruito e analizzato da storici della
filosofia e della cultura in numerossimi studi 2, a cui rinviamo per un approfondimento specifico. È
importante, invece, ai fini della nostra argomentazione richiamare la trasformazione che investe il concetto di
natura nel corso dei secoli XII e XIII, dai teologi della Scuola di Chartres fino alla Scolastica, per
comprendere meglio su quale piano si situano il sovrannaturale e i suoi epifenomeni. La definizione dei
mirabilia, in quanto prodigi appartenenti al regno di natura, di cui si ignora la causa, deve essere, infatti,
commisurata con la progressiva affermazione di un’autonomia della natura, di cui è legittimo indagare le
cause seconde e quindi con il graduale sfaldamento della mentalità simbolica3.
Se il neoplatonismo della Scuola di Chartres sembra da un lato confermare con la sua teoria dell’equivalenza
semiotica tra microcosmo e macrocosmo, l’approccio simbolico ad una natura percepita come emanazione di
Dio, dall’altro mina, proprio attraverso la scoperta di un’autonomia della natura, della sua physis regolata da
leggi che possono essere investigate, la visione integrata e emanatista alto-medievale. L’indagine delle cause
seconde conduce al periodo della doppia verità, prerogativa della Scolastica. La liceità della conoscenza
della natura 4 altera il sistema simbolico alto-medievale, così che all’interno del liber scriptus digito Dei, la
realtà fenomenica cessa di essere soltanto complessa semiosi del divino, infinita metafora che aliud dicitur,
aliud demonstratur, per assumere una consistenza e un’oggettività che la ragione percorre, nell’immane
tentativo di ridefinire le coordinate epistemologiche e gnoseologiche. Se la forma di conoscenza prediletta
dalla mentalità simbolica è sicuramente la collezione di fatti mirabili, il bestiario e il lapidario, ovvero quella
costruzione allegorica (un’allegoria in factis) che tende a svelare il significato spirituale dietro ogni singolo
fenomeno, gli strumenti di indagine della prescolastica e della Scolastica saranno una nuova forma di
enciclopedismo e la Summa. Ed è proprio a partire dalle trasformazioni che investono le enciclopedie che è
possibile valutare l’impatto delle nuove concezioni della natura, le quali sulla scorta dell’aristotelismo vanno
affermandosi. Nelle enciclopedie dei secoli XII-XIII, come sottolineato da Michaud – Quantin,
les auteurs y affirment s’intéresser aux “choses” et à leur nature. Ce souci est très caractéristique d’une
nouvelle époque: le haut Moyen Age s’était passionné pour les noms des choses – les Etymologies d’Isidore
expriment cette tendance – ou pour l’univers consideré comme un tout – conception platonisante qui se
formule dans un De universitate mundi ou une Philosophia mundi de l’école de Chartres; l’attention se porte
sur les res, les êtres concrets, dont on étudie la «nature» 5.
2
La bibliografia sull’argomento è immensa, soprattutto di ambito filosofico. Rinviamo qui ai principali studi consultati:
M. D. Chenu, La teologia nel XII secolo, Milano, Jaca Book, 1986 (ed. or., Paris, 1976); T. Gregory, «Mundana
sapientia». Forme di conoscenza nella cultura medievale; Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1992; Id. Speculum
naturale. Percorsi del pensiero medievale, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2007; P. Brown, «Society and the
Supernatural: a Medieval Change», in Society and the Holy in the late Antiquity, Berkeley and Los Angeles, University
of California Press, 1989, pp. 302-332; A. Gurevič, Le categorie della cultura medievale, Torino, Einaudi, 1983 (rist.
Torino, Bollati Boringhieri, 2007; ed. or. Mosca, 1972).
3
Sulla distinzione tra simbolo, metafora e allegoria, cfr. Eco U., Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino, Einaudi,
1984, pp. 199-254.
4
Una liceità potentemente rivendicata ad esempio da Guglielmo di Conches, in polemica con la corrente mistica e con
quanti condannano la ricerca delle cause: Philosophia mundi, ed. G. Maurach, Pretoria, Universiry of South Africa
Press, 1974; I, 23 (PL, 172, col. 56): « Quoniam ipsi nesciunt vires naturae, ut ignaorantiae suae omnes socios habeant,
nolunt eos aliquid inquirere, sed ut rusticos nos credere, nec rationem quaerere. […] Nos autem dicimus, in omnibus
rationem esse quaerendam.»
5
P. Michaud-Quantin, «Les petites encyclopédies du XIIIᵉ siècle», Cahiers d’Histoire Mondiale, 63, 1966, pp. 580-595;
p. 587; si veda anche, B. Ribémont, «Naturae descriptio: expliquer la nature dans les encyclopédies du Moyen Age
(XIIIᵉ siècle)», Bien dire et bien aprandre, 11, 1993, La description au Moyen Age, pp. 371-388.
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La progressiva autonomia 6 della natura conduce, dunque, all’affermazione di natura come insieme del
mondo sensibile e corporeo, rispetto al quale, «la littérature scientifique et philosophique médiévale introduit
la notion d’un rapport actif à la nature et au monde physique» 7. L’uomo può interagire con la natura, e con
lui anche altre forze. L’attenzione alle res scardina l’harmonia mundi e costringe l’investigatore del mondo
naturale ad un doppio sforzo, ermeneneutico e spirituale, per non sprofondare nella regio dissimilitudinis.
Certo, l’indagine della natura è legittimata dalla sua somiglianza essenziale a Dio, il creatore delle sue leggi,
tuttavia, le regioni sublunari mostrano anche la facies negativa del male e del peccato, la dissimilitudine più
pericolosa per la creatura forgiata ad imaginem Dei.
Nei testi che prenderemo in esame nel corso di questo lavoro, l’impianto enciclopedico e l’ampliamento dei
confini di indagine del mondo naturale si pongono come premesse teoriche e metodologiche della
costruzione di un universo meraviglioso, di cui gli autori tentano di disvelare il sensus, non più soltanto
attraverso l’interpretazione allegorica, bensì attraverso la descrizione della realtà fenomenica osservata e
narrata. Il nostro corpus, infatti, si pone come testimonianza della difficile fase di transizione tra l’approccio
allegorico-figurale e quello fisico e naturale. I mirabilia conservano la loro densità simbolica e
contemporaneamente si dissolvono nell’interpretazione causale. Gli Otia Imperialia 8, la Topographia
Hibernica 9 condividono l’afflato universalistico delle enciclopedie, cui coniugano l’empirismo di
osservazioni dirette che mirano a conferire statuto di realtà a determinati eventi o creature fino ad allora
relegate nella sfera fantasmatica e illusoria 10. I mirabilia disvelano pienamente l’orizzonte cognitivo, nel
momento in cui rifuggono dalla collezione per aprirsi, attraverso la descrizione, alla comprensione. La
conoscenza per mirabilia sembra in questo senso condividere la stessa pulsione gnoseologica che percorre la
contemporanea letteratura ermetica e astrologica:
una nuova volontà di conoscere la natura fin nei suoi riposti segreti, congiunta al presentimento di una nuova
concezione del sapere: teso ai limiti tra il naturale e il soprannaturale, tra ciò che era direttamente osservato e
6
J. Chiffoleau, «Contra naturam. Une approche causistique de la nature du XIIᵉ au XIVᵉ siècle», Theatre de la nature
(Micrologus, 4), Turnhout, Brepols, 1996, pp. 265-312.
7
B. Delaurenti, La puissance des mots. «Virtus verborum». Débats doctrinaux sur le pouvoir des incantations au
Moyen Âge, Paris, Editions du Cerf, 2007, p. 125.
8
Gervasio di Tilbury, Otia imperialia. Recreation for an emperor, ed. and transl. by S. E. Banks and J. W. Binns,
Oxford, Clarendon Press, 2002.
9
Giraldo di Cambria, Topographia Hibernica, Opera, ed. J. S. Brewer, J. F. Dimock, London, Longman-Green, 18611877, voll. 8 (Rerum britannicarum medii aevi scriptores, 21), vol. 5.
10
Un’esistenza fantasmatica e incorporea su cui ancora Tommaso d’Aquino fonda la dimostrazione di una differenza
ontologica e sostanziale tra cielo e terra. Di particolare rilevanza la sua dimostrazione dell’impossibilità per le sostanze
spirituali, Angeli e Demoni, di avere «corpora sibi naturaliter unita». La frattura rispetto alla concezione sostanzialistica
propalata, ad esempio, da Goffredo d’Auxerre e da Gervasio di Tilbury (cfr. infra) è verticale e di notevole importanza
per gli assetti degli immaginari che si delineeranno nel corso dei secoli XIII-XIV. Di estremo interesse, inoltre, la
posizione di Tommaso d’Aquino sull’interpretazione metaforico-allegorica delle affermazione delle auctoritates sulla
corporeità degli esseri spirituali. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Editio Leonina, 1889, t. 5 (edizione
elettronica a cura dell’Università di Navarra, www.corpusthomisticum.org), I, q. 54, a. 5 ad. 1: «Ad ea vero quae
in contrarium [ovvero che Angeli e Demoni abbiano corpora sibi naturaliter unita] obiiciuntur, potest dupliciter
responderi. Uno modo, quod auctoritates illae loquuntur secundum opinionem illorum qui posuerunt Angelos et
Daemones habere corpora naturaliter sibi unita. Qua opinione frequenter Augustinus in libris suis utitur, licet eam
asserere non intendat, unde dicit, XXI de Civ. Dei, quod super hac inquisitione non est multum laborandum. Alio modo
potest dici, quod auctoritates illae, et consimiles, sunt intelligendae per quandam similitudinem. Quia cum sensus
certam apprehensionem habeat de proprio sensibili, est in usu loquentium ut etiam secundum certam apprehensionem
intellectus aliquid sentire dicamur. Unde etiam sententia nominatur. Experientia vero Angelis attribui potest per
similitudinem cognitorum, etsi non per similitudinem virtutis cognoscitivae. Est enim in nobis experientia, dum
singularia per sensum cognoscimus, Angeli autem singularia cognoscunt, ut infra patebit, sed non per sensum. Sed
tamen memoria in Angelis potest poni, secundum quod ab Augustino ponitur in mente; licet non possit eis competere
secundum quod ponitur pars animae sensitivae. Similiter dicendum quod phantasia proterva attribuitur Daemonibus, ex
eo quod habent falsam practicam existimationem de vero bono, deceptio autem in nobis proprie fit secundum
phantasiam, per quam interdum similitudinibus rerum inhaeremus sicut rebus ipsis, ut patet in dormientibus et
amentibus».
8
le chimeriche creazioni di sognatori o di impostori, nel rischio continuo di perdere l’uomo dietro le tentazioni
di un mondo demoniaco e di annullare la scienza dietro le tenebre di un gioco fantastico, il sapiente sente di
poter scrutare la natura in una dimensione nuova, di impossersarsi dei suoi segreti 11.
Il mondo tracciato dagli Otia o dalla Topographia, infatti, non si riduce al reticolato simbolico di significati
spirituali che si dischiudono dietro l’«ammobiliamento mondano» 12, bensì assurge a territorio d’indagine
attraversato da un tentativo ermeneutico che condivide con il movimento enciclopedico del secolo XII
l’attenzione alle res, alla loro natura. Ora, lo sguardo rivolto alle “cose” amplia il campo d’indagine del
razionale, ma è costretto ad arrestarsi di fronte a fenomeni ambigui e inspiegabili. A differenza, tuttavia,
dell’universo simbolico agostiniano, all’interno del quale tutto il creato, compreso i monstra, sono segni
dell’insondabile sapienza divina 13, la ricerca della cause seconde, laddove subisce lo smacco del
sovrannaturale, sembra aprire la strada ad un contropotere di marca diabolica, concorrente rispetto a quello di
Dio. Paradossalmente l’approccio razionale all’universo naturale sprigiona forze incontrollabili, che nella
lenta disgregazione della mentalità simbolica, cessano di appartenere agostinianamente e tomisticamente al
regno del non essere, per assumere contorni corporei e concreti, enti incarnati dai poteri perniciosi. E se a
definire il campo del naturale interviene soprattutto la sua componente fisica, rafforzata dalle teorie
aristoteliche sul moto locale dei corpi 14, alcuni fenomeni che si verificano corporalmente acquisiranno
statuto di realtà e chiederanno di essere ricondotti a causa, una causa che si svelerà inevitabilmente maligna e
diabolica. Il pensiero cristiano, fin dalle sue origini, è pervaso dalla doppia polarità del divino e del
diabolico, ma ciò che sembra mutare in alcune aree della produzione colta in questo scorcio del secolo XII, è
il potere reale e effettivo che gli esseri maligni esercitano nel mondo sublunare, in grado ormai, non solo di
perseguitare gli uomini con l’assedio delle illusioni, ma di operare sui corpi o attraverso i corpi. Di questo
mutamento sono testimoni alcune delle opere che andremo ad analizzare. Allorché ci si interessa alla natura
con un approccio empirico imperniato sull’esperienza sensibile, l’esitazione di fronte alla causa ignota di
certi fenomeni si dissolve nella scoperta di agenti sovrannaturali pericolosamente attivi nella regio
dissimilitudinis. La descrizione dei mirabilia si scinde così in due contrapposti campi di inchiesta: i mirabilia
inanimati (pietre, fonti, piante), di cui si indagano le cause, cercando di sottrarsi alla lettura puramente
allegorica dei bestiari e dei lapidari, senza tuttavia annullarla completamente; e i mirabilia animati (esseri
ambigui, animali), dietro le cui spiegazioni si possono scorgere le ansie e le inquietudini di un momento
storico attraversato da profondi rivolgimenti. Il proliferare di alcuni mirabilia, indissolubilmente connesso
alla questione della corporeità, sembra trovare, all’interno delle nostre opere, una plausibile motivazione di
tipo antropologico: un tentativo di negoziazione con il male 15 che traduca le paure collettive e individuali in
composti gestibili.
Il corpus di testi presi in esame partecipa, in ogni caso, dell’indeterminazione che caratterizza il polo
demoniaco, a cavallo dei secoli XII-XIII: l’azione demoniaca, infatti, si oppone al polo naturale, ma stenta ad
essere definita come sovrannaturale. Come ricorda Beatrice Delaurenti, ancora in Guglielmo d’Auvergne,
nella seconda metà del secolo XIII, l’azione dei demoni è definita come non naturale o antinaturale 16,
restando relegata nell’ambito dell’illusione. Questa esitazione, che sul finire del secolo XIII, si dissolverà
nell’affermazione della realtà fattuale degli interventi demoniaci, verrà esplicitata in maniera differente dai
nostri autori, anticipando così alcune trasformazioni che investiranno via via l’immaginario collettivo. Come
vedremo nel secondo capitolo, l’atteggiamento di Walter Map, di Gervasio di Tilbury e di Giraldo di
11
Gregory, «Mundana sapientia», p. 110.
U. Eco, «La metafora nel medioevo latino», in Doctor virtualis, 3, 2004, pp. 35-75.
13
Cfr. Gregory, «Speculum naturale», p. 2.
14
La natura, nella concezione aristotelica che va affermandosi nel corso del secolo XIII corrisponde allo spazio fisico di
un corpo: un’azione naturale è un’azione corporea. Il corpo ne è il medium. Quest’idea avrà un notevole influsso sulle
dottrine magiche e sull’azione per contatto; cfr. Delaurenti, La puissance des mots, p. 123 e segg.
15
Cfr. P. Coppo, Negoziare con il male. Stregoneria e contro stregoneria dogon, Torino, Bollati Boringhieri, 2007.
16
Delaurenti, La puissance des mots, p. 144.
12
9
Cambria nei confronti dell’ermeneutica dei mirabilia si sfrangerà in differenze soggettive, pur condividendo
dei forti punti di contatto.
1.2 Phantasia e mirabilia: visione interiore e visione esteriore
Nelle teorie della conoscenza di derivazione platonica e aristotelica, la phantasia riveste un ruolo centrale
che si trasmetterà alla gnoseologia medievale. L’accezione tecnico-filosofica di phantasia è stata già
ampiamente investigata in studi specifici 17. Ci basti, in questa sede, richiamare la semantica e le funzioni
della phantasia all’interno dell’epistemologia medievale a cavallo dei secoli XII-XIII.
Spirito tenue per i neoplatonici, facoltà (vis) per Aristotele, la phantasia è il medium che consente di
procedere alla prima fase di astrazione di un’immagine (eidolon, imago, phantasmata) dall’appercezione
sensibile della materia. La phantasia, dunque, procede dai sensi per depurare i dati materiali del percepito,
cogliendo le forme sensibili senza materia. All’interno di una gnoseologia, in cui il processo della
conoscenza si costruisce attraverso il duplice movimento della passione/impressione di forme nell’anima
sensitiva e dell’azione/astrazione da parte della sua facoltà razionale e intellettiva, l’azione dello scriba
interiore 18, ovvero la memoria e del pittore interiore, ovvero la phantasia, è centrale per produrre discorsi
veri e non falsi, come ricorda appunto il Socrate del Filebo. Il dato certo è la funzione di visione interiore
assolta dalla phantasia nel suo stretto legame con una visione esteriore. Come spiega Aristotele, phantasia
(φαντασία) è etimologicamente legata a φάος (luce) perché la luce permette di vedere e la vista è l’organo
principale attraverso cui cogliere l’immagine prodotta dalla sensazione19.
Ma, poiché le teorie della conoscenza platoniche e aristoteliche, e poi medievali, non prescindono dalla
pulsione metafisica alla verità, il processo che guida l’anima verso il disvelamento e l’apprensione del vero
(ἀλήθεια) deve essere sgomberato dai rischi che l’apprensione fantastica porta con sé. Fin dalla riflessione
platonica, come abbiamo visto nel Filebo, l’affidabilità dello scrittore interno (la memoria) è questione
dirimente per la produzione di discorsi veri ; Aristotele spiegando analiticamente il funzionamento della
phantasia, chiarisce che i fantasmi possono essere prodotti anche in assenza di sensazione e che, persistendo
nel cosmo interiore del soggetto, possono condurlo, quando l’intelletto è obnubilato da passioni, malattia,
sonno, a regolare le proprie azioni su di essi 20. La phantasia, inoltre, proprio per la sua facoltà di produrre
fantasmi in assenza della sensazione è diversa da quest’ultima e non sempre produce verità 21.
Lo statuto ambiguo della phantasia, primo veicolo di conoscenza strettamente legato alla materia sensibile e
facoltà autonoma dalla sensazione, consentirà ai teologi medievali, da un lato, di ribadirne la funzione
gnoseologica e, dall’altro, di spiegare la fallacia e la mendacia di certi fantasmi, soprattutto quando a
insufflarli sono le potenze demoniache 22. Comune denominatore resta la capacità della phantasia di rinviare
17
Cfr. G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1993 (I ed. 1977), in
particolare pp. 73-145.
18
Platone, Filebo, a cura di M. Migliori, Milano, Bompiani, 2010/2011, pp. 136-139, 39a.
19
Aristotele, De Anima, a cura di G. Movia, Milano, Bompiani, 2001, 429a.
20
Aristotele, De Anima, 429a.
21
Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Editio Leonina, 1888, t. 4, I, q. 17, a. 2 ad. 2: «Phantasiae autem attribuitur
falsitas, quia repraesentat similitudinem rei etiam absentis; unde quando aliquis convertitur ad similitudinem rei
tanquam ad rem ipsam, provenit ex tali apprehensione falsitas. Unde etiam philosophus, in V Metaphys., dicit quod
umbrae et picturae et somnia dicuntur falsa, inquantum non subsunt res quarum habent similitudinem.»
22
Fermo restando che, come affermato da Agostino e ribadito fino a Bonaventura da Bagnoregio, il demonio non ha il
potere di penetrare nel sacro tempio dell’uomo, ovvero l’anima, il suo potere si esplicita sulle vires interiores e
exteriores dell’anima sensitiva, ovvero sull’illusione dei sensi e dell’appercezione fantastica. Agostino, De civitate Dei,
XVIII, 18, PL, 41, col. 574: « Non itaque solum animum, sed nec corpus quidem ulla ratione crediderim daemonum arte
vel potestate in membra et lineamenta bestialia veraciter posse converti, sed phantasticum hominis, quod etiam
cogitando sive somniando per rerum innumerabilia genera variatur.» Tommaso d’Aquino, De malo, Editio Leonina, t.
23, Roma-Paris, 1982, q. 3, a. 4, co.: « Et ideo Daemones tentatores dicuntur, quia experiuntur per actus hominum,
quibus passionibus magis subduntur, ut secundum hoc in eorum imaginatione efficacius imprimant quod intendunt.
Similiter etiam per commotionem sensibilium spirituum in sensus exteriores imprimere possunt, qui secundum
10
a una visione interiore, che come operazione (virtus) si sviluppa dall’appercezione sensibile, come
ossessione è generata dall’attività dei demoni. Phantasia, dunque, richiede sempre l’operatività di un
soggetto percipiente e senziente, non potendo mai riferirsi a un essere oggettivabile e autonomo.
La gnoseologia della Scuola di Chartres 23, di derivazione neoplatonica e boeziana, attribuisce proprio alla
cellula phantastica la capacità da parte dell’anima di conoscere l’immagine della cosa, ma in modo confuso,
per obstaculum. Il successivo movimento e passaggio dalla facoltà dell’immaginazione alla ratio, consentirà
all’anima di esprimere il valore specifico dell’uomo, perché «anima bestialis est cum sensu detinetur atque
imaginatione» 24. All’immaginazione e alla sua vis operativa, la cella phantastica, Ugo di S. Vittore affida il
gravoso compito di unificare spirito e corpo, in un percorso gnoseologico che affonda nei sensi per elevarsi
gradualmente verso la purezza di una visione intellettuale, colta in mistica unione con il divino 25.
Con la diffusione di Aristotele nel secolo XII, l’assunto di una conoscenza che procede dai sensi diviene
assiomatico, cristallizzandosi nella formula Nihil est in intellectus quod non prius fuit in sensu 26, mentre la
funzione mediatrice della phantasia si rafforza 27. La phantasia, secondo Avicenna, coincide con il sensus
communis, in quanto «est centrum omium sensuum et a qua derivantur rami et cui reddunt sensus» 28; propria
della phantasia, che è una delle vis apprehendendi ab intus, è la facoltà di ricevere (recipiens) le forme
impresse nei cinque sensi. Un gradino più su vi è l’imaginatio che trattiene (retinens) le forme sensibili
depurate dalla materia 29. La phantasia, dunque, rinvia al primo stadio della visione interiore, quella che
muove dai sensi e da essi è gravata.
A livello linguistico e concettuale, tra phantasia e mirabilia sembra così instaurarsi un rapporto di
complementarità, rinviando la radice etimologica di mirabilia proprio all’atto del vedere, del percepire con
gli occhi 30. L’evento straordinario (mirabilis) si imprime nel senso della vista e attraverso la phantasia si
trasforma in un’immagine interiore che stupisce perché esula dall’ordinario, attendendo una spiegazione che
solo l’attività razionale può attivare.
A fronte del quadro epistemologico appena evocato stupisce, allora, la deviazione semantica e concettuale
impressa al termine phantasia dagli autori mediolatini, dediti alla compilazione-rielaborazione dei mirabilia.
retractionem vel multiplicationem sensibilium spirituum, vel subtilius vel hebetius aliquid percipiunt.» Pietro
Lombardo, Sententiae, libri IV, Grottaferrata, 1971, lib. II, d. 8, c. 4, p. 369: «utrum demones intrant corpora hominum
substantialiter et illabuntur mentibus hominum: Quod demones substantialiter non illabuntur animis hominum, sed
malitiae effectum dicuntur intrare. De hoc autem Gennadius in Definitionibus ecclesiasticorum dogmatum ait
«Daemones per energiam (operationem) non credimus substantailiter illabi animae, sed applicatione et oppressione
uniri (Gennadius, PL, 58, col. 999)». San Bonaventura, Sententiae, II, dist. 8, pars II, art. q. 2: solo Dio può penetrare
nell’anima e nella sostanza spirituale; i demoni possono «ludificare sensus».
23
Cfr. Il divino e il megacosmo. Testi filosofici e scientifici della Scuola di Chartres, a cura di E. Maccagnolo, Milano,
Rusconi, 1980, «Introduzione», pp. 7-74.
24
Teodorico di Chartres, Glosa super librum Boethii De Trinitate, lib. II, 10, in Commentaries on Boethius, by Thierry
of Chartres and his school, ed. by N. M. Haring, Toronto, Pontifical Institute of Medieval Studies, 1971, p. 270.
25
Ugo di S. Vittore, De unione corporis et spiritu, in PL, CLXXVII, coll. 285-289.
26
Aristotele, De Anima, 432a; Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 1 a. 9: «omnis nostra cognitio a sensu
initium habet».
27
Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 12, a. 3, arg. 3: «Sed visio imaginaria a sensu originem habet,
phantasia enim est motus factus a sensu secundum actum, ut dicitur in III de anima»; Summa Theologiae, I, q. 12, a. 12,
arg. 1: «sine phantasmate nihil intelligit anima, ut dicitur in III de anima»; Aristotele, De Anima, 432a: «όταν τε θεωρή
άνάγκη αμα φαντάσματι θεωρείν»
28
Avicenna latinus, Liber de Anima seu sextus de Naturalibus, ed. S. Riet, Leuve, Peeters, 1972, 2 voll. ; lib. IV, cap.
1; vol. 2, p. 5.
29
Avicenna latinus, lib. I, cap. 5; vol. 1, p. 87: «Virium autem apprehendentium occultarum vitalium prima est fantasia
que est sensus communis que est vis ordinata in prima concavitate cerebri recipiens per seipsam formas omnes que
imprimuntur quinque sensibus et redduntur ei. Post hanc est imaginatio vel que est etiam formans que est vis ordinata in
extremo anterioris concavitatis cerebri retinens quod recipit sensus communis a quinque sensibus et remanet in ea post
remotionem illorum sensibilium.»
30
Una testimonianza di questa reciprocità ci viene offerta da Jean de Meun, il quale distingue le «merveilleuses
visions», foraines e le immagini vane interiori, fantasie, Roman de la Rose, ed. E. Langlois, Paris, Champion, Société
des anciens textes français, 1914-1924, 5 voll. ; vol. 4, vv. 18260-268: «Ne ne recenserai pas ores/ Autres visions
merveilleuses, /Soient plaisans ou douleures, /Que l’en voit avenir soudaine ; / Savoir mon s’eles sunt foraines, /Ou sans
plus en la fantasie/ Ce ne declarerai ge mie.»
11
L’intima fallacia della phantasia, già denunciata da Platone e Aristotele, aveva aperto il varco all’influsso
delle potenze demoniache che ludificant sensus. L’illusione operata sui sensi dal demonio, magnus Illusor,
poteva generare phantasmata, che seducevano e causavano visiones e cogitationes sregolate del soggetto:
phantasia e phantasmata non designano nei penitenziali dell’alto medioevo esseri esterni, dotati di vita
propria, bensì gli inganni del soggetto percipiente.
Credidisti aut particeps fuisti illius credulitatis, quod quaedam sceleratae mulieres retro post Satanam
conversae, daemonum illusionibus et phantasmatibus seductae, credunt et profitentur se nocturnis horis cum
Diana paganorum dea et cum innumera multitudine mulierum equitare super quasdam bestias et multa
terrarum spatia intempestae noctis silentio pertransire, ejiusque jussionibus velut dominae obedire et certis
noctibus ad ejus servitium evocari? 31
Nei testi di Walter Map, di Goffredo d’Auxerre, di Gervasio di Tilbury, al contrario, phantasia scivola verso
l’oggettivazione, divenendo il referente linguistico di potenze negative incarnate e operanti, non più
correlativo interiore dei mirabilia, ma direttamente coincidente con essi.
Walter Map, De nugis, dist. II, XIII: «Et quid de hiis fantasticis dicendum casibus, qui manent et bona se
successione perpetuant.»
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia 32, dec. III, cap. 93 : «Sunt qui dicant huiusmodi fantasias ex animi
timiditate et melancolia hominibus apparere videri, sicut in freniticis et laborantibus maioribus emitriteis
solet evenire. Alios asserunt tales ymaginationes videre in sompniis tam expresse quod sibi ipsis vigilere
videntur, ut quibusmdam id confessis contigisse Augustinus in libro De civitate Dei refert. Sed contra hec
movet me quod mulieres agnosco, vicinas nostras, que processerant in diebus suis, que mihi proponebant se
de nocte vidisse clientulas et clientulos discoopertos cum verecundia, que etiam referbant ea que de nocte
gerebantur a nobis in longe remotis partibus.»
Il dubbio sulla natura fantasmatica di alcuni esseri attanaglia i nostri autori, come dimostrano le esitazioni
espresse da Gervasio e da Goffredo:
Goffredo d’Auxerre, Super Apocalypsim 33, XV, 85-87: « Nec videtur credibile veram posse procedere
sobolem ab eiusmodi phantasiis.»
Nelle righe successive, tuttavia, Goffredo a sostegno di una corporeità generante delle creature fantastiche,
addurrà il racconto della donna serpente di Langres:
Goffredo d’Auxerre, Super Apocalypsim, XV, 89-90: «Licet huic assertioni contrarium aliud videatur quod
ab olim audivimus, plurimus affirmantibus, enarrari.»
Phantasiae, dunque, non sono le impressioni dei sensi ricevute dalla cella phantastica, bensì corpi dotati di
vita propria, in grado di generare una prole. La frattura rispetto alle speculazioni filosofiche e teologiche 34 è
31
Burcardo di Worms, Decretorum libri XX, PL, 140, col. 963.
Gervasio di Tilbury, Otia imperialia. P. 716.
33
Goffredo d’Auxerre, Super Apocalypsim, a cura di F. Gastaldelli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1970.
34
Esemplari le dimostrazioni di Tommaso d’Aquino, per esempio Scriptum super libros Sententiarum magistri Petri
Lombardi episcopi Parisiensis, t. 2., ed. P. Mandonnet, Parisiis, P. Lethielleux, 1929, Super II Sent., lib. 2 d. 8 q. 1 a. 4
qc. 2 arg. 1: «Item, videtur quod possint generare. Dicitur enim Genes. 6, 2: videntes autem filii Dei filias hominum
quod essent pulchrae, acceperunt sibi uxores ex omnibus quas elegerant; et hoc Josephus exponit de Daemonibus
incubis. Ergo videtur quod generare possint.
32
12
appena mitigata dalla conservazione dell’accezione tecnica della vis phantastica 35 o dello statuto illusorio
delle azioni dei demoni 36. La corporeità delle phantasiae stride, inoltre, con le acquisizioni della medicina
degli umori, accolte anche nelle riflessioni teologiche. Gervasio evoca esplicitamente le teorie mediche nel
brano succitato, distanziandosi dalla posizione ‘illusionista’ espressa, ad esempio da Alcherio di Chiaravalle
nel suo Liber de spiritu et anima, attribuito fino al secolo XIII a Agostino e noto ancor oggi come PseudoAgostino 37.
Nell’economia del nostro discorso sull’oggettivazione dei mirabilia, questo slittamento della phantasia
riveste una posizione centrale, in quanto inaugura un’evoluzione semantica e concettuale che verrà
rielaborata in sede di immaginario collettivo, promuovendo la formazione di differenti composti culturali.
1.3 Evoluzione semantica di phantasia
I dati linguistici sono a questo proposito illuminanti. Scorrendo i dizionari mediolatini, antico e medio
francesi e antico italiano, siamo in grado di tracciare le linee di un cambiamento ontologico riguardante la
phantasia: da vis soggettiva a oggetto. Il Du Cange registra una serie di occorrenze che testimoniano come
nei testi tardo-antichi phantasia si riferisca sempre ad una visione interiore, per quanto fallace e vana. In
Ammiano quest’opacità della phantasia è direttamente collegata alla notte e alla sfera onirica:
«Visa nocturna quas phantasias nos appellamus» 38.
Il legame tra la phantasia e l’impressione dell’immagine nei sensi, attraverso la vista è diretto
(visa/phantasias). Sempre intorno al secolo IV, in ambiente di apologetica cristiana, in particolare nelle
Consultationes Zacahei et Apollonii, phantasia presenta un primo elemento di oggettivazione, in quanto
riferito ad un’illusione creata dai prestigiatori 39. Nel solco dell’illusione si colloca tutta la letteratura che
attribuisce al demonio il potere di manipolare i sensi attraverso l’evocazione di creature irreali e perturbanti
(il cui esempio antico è costituito dalle tentazioni di S. Antonio). Beda il Venerabile, nella Vita Sancti
Guthberti, definisce gli inganni demoniaci «fantasia diaboli»40 e ne esplicita il valore simbolico-edificante,
poiché «per visibilia fantasia» è possible comprendere la «multifariam fallacis astutie seductionem
Sed contra est, quod completur generatio per virtutem formativam quae est in semine ex corpore vivo resoluto. Sed
corpus assumptum a Daemonibus et ab Angelis, non est vivum, ut dictum est. Ergo videtur quod generare non possint.
Si dicatur, quod generant per hoc quod idem Daemon succubus ad virum, est recipiens ab eo quod postmodum in
mulierem transfundit, factus incubus ad eam; contra est, quod semen non habet virtutem generandi nisi quamdiu calor
animae in eo retinetur, quem oportet exhalare per magnam distantiam delatum. Ergo videtur quod per istum modum
generatio fieri non possit.
Praeterea, si fieret generatio talis per modum istum, non esset nisi secundum virtutem illius seminis. Ergo ex hoc non
sequeretur quod geniti essent majoris virtutis quam alii homines, ut innuitur ex his quae sequuntur ibi 4: isti sunt
potentes a saeculo viri famosi.»
35
Walter Map, De nugis curialium, ed. and transl. by M. R. James; revised by C. N. L. Brooke and R. A. B. Mynors,
Oxford, Clarendon press, 1983; dist. II, cap. XIII : «A fantasia, quod est aparicio transiens, dicitur fantasma; ille enim
apparencie quas aliquibus interdum demones per se faciunt a Deo prius accepta licentia, aut innocenter transeuntes au
nocenter.»
36
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, dec. III, cap. 86: «Sicut enim bonos angelos aereis corporibus [Deus] induit ad
ministerium suum familiarius excercendum, ita et demones corporum formis fantasticis et larvatis, quasi larium, hoc est
domorum, familiaritatem in figura tenentibus indui sustinet, ut quod mandatum in bonis operatur ad bonum, hoc eius
pacientia mali operentur ad nostre infirmeitatis illusionem et penam.»
37
Alcherio di Clairveaux, Liber de spiritu et anima, PL, 40, coll. 780-832. Nel cap. XXVIII, col. 799, in riferimento al
volo notturno del corteo di Diana o Minerva, il nostro autore così conclude: «Et cum solus patitur spiritus infidelis, non
in animo, sed in corpore evenire opinatur; idcirco nimis stultus et hebes est qui haec omnia quae in spiritu fiunt, etiam
in corpore accidere arbitrantur.» Nel capitolo II ci soffermeremo sui rapporti che Gervasio intrattiene con questa opera,
di ispirazione agostiniana, che sembra costituire, più degli scritti dello stesso Agostino, l’intertesto delle sue narrazioni.
38
Ammiano Marcellino, Storie, a cura di G. Viansino, Milano, Mondadori Classici, 2008, lib. XIV.
39
Lib. 1, cap. 9: «Nec præstigiorum more Phantasiam pro homine monstrari», cit. da DU CANGE, edizione
elettronica : www. ducange.enc.sorbonne.fr.; phantasia.
40
Two Lives of Saint Cuthbert, ed. by B. Colgrave, Cambridge, Cambridge University Press, 1940, p. 88.
13
spiritalem» 41. Nel secolo IX Rabano Mauro, nel capitolo De Benedictionibus (cap. 55) del suo De
institutione clericorum, chiarisce che uno degli usi del sale e dell’acqua benedetti è proprio «contra
phantasiam inimici» 42. Resta assodato comunque che l’inganno operato dal demonio non incide sulla realtà
oggettiva, essendogli preclusa la facoltà e il potere di creare, trasformare, alterare substantialiter il regno
delle creature di Dio. Tuttavia, la visibilità delle illusioni demoniache, agite nel regno fenomenico, ne facilita
il graduale slittamento verso l’incarnazione e l’oggettivazione.
Il Du Cange riferisce quale esempio dell’accezione oggettivata di phantasia, ormai sinonimo di essere
visibile e sensibile, un passo del Chronicon Casauriense 43, lib. 4 (secolo XII):
«Contra se vidit stantem Phantasiam, quasi de scelere perpetrato applaudentem. Ex ipsius igitur Fantasmatis
apparitione».
Consultando il Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (TLIO), si può rilevare lo stesso slittamento
ontologico che conduce dalla visione interiore all’apparizione oggettivata esteriore. L’intima ambiguità della
phantasia, primo strumento di appercezione strettamente legata ai sensi, la cui opacità risiede nella sua
connessione con la materia e in particolare con il corpo, conduce all’istituzione del nesso inquietante tra
phantasia e libido, tanto da fondare un’equivalenza sinonimica tra polluzioni notturne, desiderio carnale e
fantasia. Nel capitolo 93 dedicato alle fantasiae, Gervasio di Tilbury elenca una serie di preghiere «contra
nocturnas pollutiones et ymaginationes, timores ac lamias»44.
Campo privilegiato della tentazione demoniaca, la libido carnale giustifica la sovrapposizione tra immagini
ossessionali interiori (phantasia) e l’incarnazione di un’immagine esteriore, come testimonia la seguente
formula di confessione siciliana, risalente al secolo XIII, registrata dal TLIO:
TLIO 1 [3]: innanti pensu a li kosi disunesti et mundanii, e di tzokka modu nchi fussa affisu in villu ed in
ssonnu, fant(a)sii, libbidini et impullitzioni.
Di qui il passo è breve perché phantasia diventi sinonimo di creatura maligna:
TLIO, 1.1 Lodi della vergine, secolo XIV in., ver.: E ki devotamente li se rendo / çamai non g’è mester avir
paura / ke algun demonio ge possa offendro / né fantasia né alguna creatura.
In realtà, pur rinviando il termine fantasia ad un’apparizione immaginaria creata dalla paura, l’associazione
con creatura e con demonio, i cui poteri di visibilità corporea si affineranno nel corso dei secoli, ne devia il
significato verso una materialità percepibile dai sensi.
Nella stessa accezione in medio francese troviamo, nel Songe du vergier, fantaisie come equivalente di
strega :
Més, je vous prie, puis que nous avons enconmancé de plusieurs sorceries et de plusieurs aultres fantaisies,
dittes moy que il vous est avis d'aucunes vielles, lezquellez se dient aler de nuit en la conpaignie dez estryes,
avesques Dyane, la deesse dez Peans 45.
41
Ibidem.
Rabano Mauro, De institutione clericorum, recensuit A. Knoepfler, Monachii, Libreria Lenteriana, 1900, p. 169.
43
CHRONICON CASAURIENSE, autore Johanne Berardi ejusdem Coenobii Monacho, ab ejus origine usque ab
Annum MCLXXXII, quo scriptor florebat, deductum, in L. A. Muratori Rerum Italicarum Scriptores, Forni Editore,
1726, tomo II, parte II, pp. 775-916; edizione elettronica in Archivio della Latinità Italiana del Medioevo (ALIM),
www.uan.it/alim. Non siamo riusciti a rintracciare il passo citato dal DU CANGE.
44
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, dec. III, cap. 93.
45
Songe du vergier, t.1, 1378, 398, in DMF, edizione elettronica www.atilf.fr/dmf, fantasie.
42
14
Lo statuto fluttuante della fantasie - apparizione fantasmatica o essere corporeo- è in ogni caso confermato
dalle diverse occorrenze registrate dal Dictionnaire du Moyen Français (DMF) per il medio francese 46. Un
punto fermo è, tuttavia, costituito dal nesso sempre più organico tra fantasie e ispirazione diabolica 47.
In ambito enciclopedico latino, l’oggettivazione della phantasia, connessa all’atto della vista si trova con
una sola attestazione nello Speculum Historiale (XV, 39) di Vincenzo di Beauvais: «Que est ista phantasiam
quam video?», dove phantasia è sinonimo di meraviglia e portento, riferendosi allo stupore di Marziano di
fronte alla mansuetudine delle belve lanciate contro S. Marino. Le altre occorrenze, in particolare quelle
presenti nello Speculum Doctrinale si connettono all’accezione tecnico-filosofica del termine.
In antico francese il corrispettivo della phantasia incarnata in un essere autonomo e tendenzialmente
demoniaco è fantosme 48; fantaisie, infatti, rinvia generalmente alla facoltà dell’immaginativa o a una visione
interiore alimentata da pensieri deviati 49. Che la fantasia incarnata fosse espressa dal termine fantome è
confermato dalle traduzioni di Jean de Vignay e Jean d’Antioche degli Otia imperialia 50. Il procedimento
mimetico, spesso portato al calco linguistico sull’originale, di Jean de Vignay origina la traduzione
phantasiae> fantasiez, laddove Jean d’Antioche sente la necessità di affiancare al termine fantaisiez
fantosmes, in molti casi sostitutivo di phantasiae 51. Fantosme, tuttavia, designa anche l’immagine vana che
sorge dall’interno o che apparentemente inganna i sensi 52; fantosme o fantomerie insomma, può identificarsi
con una creatura oppure coincidere con un’allucinazione 53. Nello stesso campo semantico si colloca l’antico
italiano fantasima/fantasma, che oscilla tra l’immagine vana creata dalla mente e la presenza concreta di un
46
Cfr. Jean d'Arras, Mélusine ou la noble histoire de Lusignan, roman du XIVe siècle. Nouvelle édition critique d'après
le manuscrit de la bibliothèque de l'Arsenal avec les variantes de tous les manuscrits, traduction, présentation et notes
par Jean-Jacques Vincensini, Paris, Librairie générale française («Lettres gothiques», 4566), 2003, p. 116: «Encores dit
le dit Gervaise que autres fantasies s'apperent de nuit, en guise de femmes a face ridee, basses et en petite estature, et
font les besoingnes des hostelz liberalment, et nul mal ne faisoient.»
47
Cfr. DMF, Le Somme abregiet de theologie, c.1477-1481, 161: «La puissance de Dieu appert ez choses espiritueles,
car comme ainsi advient que le deable aist pooir en nous de muer le sens et la fantasie, et l'angele a pouoir sur ce et
encores de muer etchanger ou alterer l'entendement, Dieu seul a puissance non seulement sur les trois choses sus dictes,
mais aussi de muer la voulenté.» Il nesso fantasia-diavolo è attestato anche in area italiana, cfr. TLIO, fantasia, 1 [4] :
Jacopone da Todi, secolo XIII ; 1. [6], Giordano da Pisa, 1309. Si veda anche F. Dubost, Aspects fantastiques de la
littérature narrative médiévale (XIIᵉ-XIIIᵉ siècles). L’autre, l’ailleurs, l’autrefois, Paris, Champion, 1991, 2 voll., vol.1,
pp. 30-45. In realtà Dubost si sofferma sull’accezione di immagine vana veicolata dall’aggettivo phantasticus,
accezione che il nostro corpus testuale scardina.
48
Cfr. Dubost, Aspects fantastiques, vol. 1, pp. 46-59. In particolare la connotazione demoniaca del fantosme si
accentua nel corso del secolo XIV, cfr. DMF, fantosme, di cui si può riportare a titolo esemplificativo questa citazione
tratta da Melusine di Jean d’Arras, p. 255: «Hee, tres faulse serpente, par Dieu, ne toy ne tes fais ne sont que fantosme,
ne ja hoir que tu ayes porté ne vendra a bon chief en la fin.» Cfr. GODEFROY, Supplement, la citazione tratta da Jean
de Vignay, Enseignements : «Œuvre de dyable et de fantasme.»
49
Cfr. GODEFROY, fantaisie; FEW, VIII, 306a ; T-L, fantaisie.
50
Les traductions françaises des Otia imperialia de Gervais de Tilbury par Jean d'Antioche e Jean de Vignay, édition de
la troisième partie par C. Pignatelli et D. Gerner, Genève, Librairie Droz, 2006.
51
Cfr. Jean d’Antioche, Les traductions françaises, cap. LXXXV, p. 316 : «Des dracs et des fantosmez» ; Jean de
Vignay, Les traductions françaises, cap. LXXXV, p. 317 : «Des estries et d’autres fantasies» ; Gervasio di Tilbury, dec.
III, cap. LXXXV : «De lamiis et dracis et fantasiis». Fantosme traduce anche il latino phantasmata; Jean d’Antioche:
Les traductions françaises, cap. LXXXVI, p. 324: «Se aulcun me demande de quelle nature sont telz fantosmez […]» ;
Jean de Vignay, Les traductions françaises, cap. LXXXVI, p. 325 : «Et se tu me demandes de quel nature ses fantomes
sont […]» ; Gervasio di Tilbury, Otia, dec. III, cap. LXXXVI : «Si queris cuius naturae sint ista fantasmata […]».
52
Eneas, roman du XIIe siècle édité par J.-J. Salverda de Grave, Paris, Champion, 1925-1929, 2 voll. ; vol. 1, vv, 24202413: «Iluec ot un arbre branchu/Molt ancien lait et mossu/Les foilles pendeient des songes/De fantosmes et des
mensonges.» Nel Roman de la rose di Jean de Meun, fantome indica la visione interiore fallace, conservando
l’accezione tecnico-filosofica di phantasmata; Jean de Meun, Le Roman de la rose, vv. 18419-18428: «Si recuident il
pour veir lores / Que ces choses seient defores : / Et font de tout ou deul ou feste, / Et tout portent dedenz leur teste, /
Qui les cinc sens ainsinc deceit / Par les fantosmes qu’el receit. / Don maintes genz par leur folie / Cuident estre par nuit
estries. / Erranz aveques Dame Abonde.»
53
Renaud de Beaujeu, Le Bel Inconnu, ed. G. Perrie Williams, Paris, Champion, 1929 ; ed. Michèle Perret et Isabelle
Weill, Paris, Champion, 2003 ; trad. italiana, Il Bel Cavaliere Sconosciuto, a cura di A. Pioletti, Parma, Patriche, 1992;
vv. 4607-4610 : «Ha ! Dius, fait il, qu’aije veü/ Quels cose est ço que j’ai eü ?/ Je cuic que c’est fantomerie. /Bien sai
que laiens est m’amie.»
15
essere maligno, in alcune occasioni rinviante alle apparizioni dei morti, specializzazione che segna l’odierno
fantasma 54. D’altronde in ambito mediolatino il termine phantasma/phantasmata è contrassegnato dalla
stessa ambiguità che contraddistingue phantasia generando, da un lato un significato tecnico-filosofico55 –le
immagini prodotte dalla phantasia- e dall’altro l’accezione peggiorativa di immagine illusoria o
pericolosamente prodotta dal demonio 56. Nello Speculum Historiale di Vincenzo di Beauvais, fantasma
rinvia a un’apparizione irreale che, ad esempio, nel racconto sullo sposo della Vergine si contrappone alla
concretezza della statua (ymagine) 57, mentre fantasmata esplicita il legame con gli inganni diabolici 58. Nella
classificazione dei sogni del Liber de spiritu et anima, il phantasma coincide con l’incubo ed è provocato da
una compressione di umori sprigionati dallo stomaco sul cervello 59.
In Giraldo di Cambria, nella Topographia Hibernica, phantasma presenta una sfumatura interessante, in
quanto la sua precarietà e la sua irrealtà non sono dovute ad una sindrome allucinatoria, bensì ad
un’instabilità della materia, che solo il fuoco può solidificare. La visione fantasmatica, dunque, non allude ad
una rielaborazione del soggetto ma a un accidente della materia. L’episodio si riferisce all’apparizione di
un’isola, al largo delle coste irlandesi, che tende sovente a scomparire, fino a quando non viene lanciata una
freccia infocata che stabilizza la terra emersa 60. L’altra occorrenza del termine rinvia, invece, all’esercito
spettrale di cui la mesnie Hellequin 61 costituisce l’attestazione più nota.
54
Cfr. TLIO, punto 2 in particolare si evidenzia il legame tra fantasma e operazioni diaboliche.
A titolo esemplificativo dell’accezione filosofica del termine phantasmata, basta citare la seguente affermazione di
Tommaso d’Aquino: Super I Sent., t. 1., ed. P. Mandonnet, P. Lethielleux, Parisiis, 1929, lib. 1, d. 5, q. 1, a. 1, arg. 5:
«Item, philosophus dicit, quod ita se habent phantasmata ad intellectum, sicut colores ad visum. Sed visus corporalis
nihil videt sine colore. Ergo intellectus noster nihil intelligit sine phantasmate.» Il riferimento è ad Aristotele, De
Anima, 432a.
56
Sempre in Tommaso d’Aquino phantasia/phantasmata sono termini che rinviano alla qualità fallace della visione,
un’illusione dei sensi su cui il demonio ha potere di operare, essendogli preclusa la possibilità di accedere all’intellectus
e alla voluntas: Super II Sent., lib. 2, d. 8, q. 1, a. 5, ad. 7: «Ad septimum dicendum, quod Daemones dicuntur
incentores, inquantum faciunt fervere sanguinem; et sic anima ad concupiscendum disponitur, sicut etiam quidam cibi
libidinem provocant. In voluntatem autem imprimere solius Dei est, quod est propter libertatem voluntatis, quae est
domina sui actus, et non cogitur ab objecto, sicut intellectus cogitur demonstratione. Unde patet ex praedictis quod
Daemones imprimunt in phantasiam, sed Angeli etiam in intellectum; Deus autem solus in voluntatem». Sulla qualità
illusoria dei phantasmata, Super II Sent., lib. 2, d. 8, q. 1, a. 5, ad. 5: «Sed boni Angeli etiam directe in intellectum
imprimere possunt: quia, secundum Augustinum, operantur in intelligentias nostras miris quibusdam modis. Hoc autem
est inquantum lumen intellectus agentis nostri confortatur per intellectuale lumen ipsorum. Sed hoc Daemonibus non
competit: quia quamvis naturale lumen eorum sit efficacius quam lumen intellectus nostri, tamen lumine gratiae non
sunt perfecti, sed tenebris culpae obumbrati; et ideo non intendunt judicium rationis nostrae rectificare per
conformationem intellectualis luminis, sed aliqua nobis ostendere ex quibus decipiamur, quod faciunt phantasmata
illustrando.»
57
Vincenzo de Beauvais, Speculum Historiale, riproduzione elettronica dell’edizione di Douai, 1624, in Atelier Vincent
de Beauvais; http://atilf.atilf.fr./bichard); lib. VIII, cap. 87 : «Sed prima nocte nuptiarum beata virgo Maria, quasi inter
ipsum et uxorem eius media recumbens apparuit, anulum digito pretendens, et infidelitatis eum arguens. Excitatus ille
de sompno circa se palpitabat, querens ymaginem et non inveniens eam, credidit esse fantasma.» Le altre occorrenze
alludono all’immagine vana ; cfr. lib. VIII, cap. 47; lib. X, cap. 12; lib. XVI, cap. 66. Nello Speculum Doctrinale,
fantasma è sinonimo di incubo: lib. XIV, 58: «Incubus est egritudo qua sentit homo quando somnum ingreditur
fantasma grave super se cadens, ipsumque comprimens»; cfr. nota 56.
58
Ivi, lib. XVI, 57: «dyaboli, fantasmata».
59
Alcherio di Clairveaux, Liber de spiritu et anima, PL, 40, cap. XXV, col. 798 : «Phantasma est quando qui vix
dormire coepit, et adhuc se vigilare aestimat, aspicere videtur irruentes in se, vel passim vagantes formas discrepantes et
varias, laetas vel turbulentas. In hoc genere est ephialtes, quem publica persuasio quiescentes opinatur invadere, et
pondere suo pressos ac sentientes garvare. Quod non est nisi quaedam fumositas a stomacho vel a corde ad cerebrum
ascendens et ibi vim animalem comprimens.»
60
Giraldo di Cambria, Topographia Hibernica, dist. II, cap. XII, pp. 94-95. Il fuoco, spiega Giraldo, è nemico dei
fantasmi, p. 95: «Multis itaque patet argumentis phantasmati cuilibet ignem semper inimicissimum.»
61
Giraldo di Cambria, Expugnatio Hibernica, vol. 5; lib. I, cap. IV, p. 235: «Contigit autem aliquando, excertu in
Ossiria in castellario quodam antiquo et circumquaque pernoctante […], ecce virorum quasi milia mlium infinita
undique in illos irruentium et tamquam in impetu furoris sui cuncta devorantium cum armorum sonitu et securium
collisione non modica, necnon et clamore terribili ceolum replente. Cuiusmodi phantasma in Hibernia circa
expeditiones frequens esse solebat»; sull’esercito spettrale e la caccia selvaggia, cfr. K. Meisen, La leggenda del
55
16
I due termini phantasia e mirabilia che in origine sembravano legati dalla reciproca correlazione
interiore/esteriore, con l’evoluzione semantica del primo tendono a confondersi e ciò che appartiene al regno
delle immagini e delle ombre acquista una corporeità che abita la realtà fenomenica, sconvolgendo via via gli
assetti delle potenze sovrannaturali che qui si manifestano. In questa direzione se i miracoli sono considerati
signa Dei, l’incarnazione delle illusiones demoniache darà origine a praestigia, mirabilia, che sono sì signa
Dei, ma tracciati dal demonio, il cui potere tende, a partire dal secolo XII, ad occupare vasti spazi nel mondo
degli uomini.
1.4 Merveille e mirabilia: visiones vs res
All’inizio c’era la merveille: paradigma estetico della narratività, il meraviglioso informa di sé le produzioni
narrative di epoche differenti e distanti. La critica francese ha da tempo messo in luce la funzione estetica e
poetica assolta dalla merveille nei testi oitanici, dove essa sembra coincidere con lo spazio della letteratura.
In particolare, risalta la componente soggettiva della merveille nel suo forte legame etimologico con il verbo
miror: perché si dia merveille è sempre necessaria la presenza di un soggetto che si interroghi sulla qualità e
la natura della visione. In questo senso la merveille rinvia a una domanda di senso, quindi a un percorso
cognitivo che il personaggio esperisce nel tentativo di svelare e spiegare l’evento che suscita stupore. Nel suo
studio Merveilles et topique merveilleuse 62, Ferlampin-Acher distingue merveille da aventure e da fantome,
istituendo una opposizione tra il polo oggettivo dell’aventure, l’illusorietà del fantome e la soggettività della
merveille. Merveille designa dunque l’approccio soggettivo al fenomeno, che percepito con il senso della
vista, attende una spiegazione situandosi, rispetto al reale, a cavallo tra il possibile e l’impossibile. «La mise
en œuvre de la merveille repose dans nos textes sur un processus qui enchaine le veoir et la quete d’un
savoir; la vue et le processus cognitif passent par un jeu de questions et de réponses qui reste en grande partie
incertain» 63.
Un esempio emblematico è sicuramente costituito da Chrétien de Troyes. In virtù della sua alta densità
simbolica, la merveille, nei romanzi di Chrétien, assolve una forte funzione cognitiva: termine poco usato da
Chrétien che preferisce, in realtà, il più marcato aventure, la merveille si offre al cavaliere quale sfida, ma
anche quale percorso nell’ignoto, in particolare, nell’ignoto psicologico e individuale: ciò che viene alterato
dalla meraviglia, l’antimondo di cui parla Kohler 64, è sì uno specchio rovesciato dell’universo arturiano, ma
anche lo spazio in cui il confronto con opzioni devianti e deviate consente la crescita e la riaffermazione del
chevalier errante. L’antimondo non si oppone soltanto all’azione normativa, ma consente a quest’ultima di
trasformarsi in azione cognitiva, nel momento in cui sperimenta altri universi possibili 65.
L’analisi di Ferlampin-Acher si concentra in particolar modo sui romanzi in versi, ma in una direzione
pressoché analoga sembra muoversi Jean-René Valette nel suo studio su La poétique du merveilleux dans le
Lancelot en prose 66. La centralità della visione soggettiva è ribadita da Valette proprio nel momento in cui
disvela la funzione estetica e poetica rivestita dalla merveille all’interno del romanzo in prosa. Il fulcro
dell’interpretazione dei due studiosi d’oltralpe è costituito dalla dialettica tra trasparenza e ostacolo, tra
visione chiara e oscura, ovvero da quell’alternanza costitutiva della phantasia che conduceva Teodorico di
Chartres a sostenere che la prima appercezione sensibile attraverso la cella phantastica avviene per
cacciatore furioso e della caccia selvaggia, traduzione e introduzione a cura di S.M. Barillari, Alessandria, Edizioni
dell’Orso, 2001. Il brano tratto da Giraldo non è nell’antologia.
62
C. Ferlampin-Acher, Merveilles et topique merveilleuse dans les romans médiévaux, Paris, Champion, 2003.
63
Ivi, p. 171.
64
Cfr. E. Köhler, Ideale e realtà nei poemi della Tavola Rotonda, Bologna, Il Mulino, 1985 (ed. or. Tübingen, 1956).
65
Non a caso l’amore di Lancillotto e di Ginevra si consuma nell’atmosfera straniante del regno di Gorre: l’antimondo
incarna un’anti-norma che l’eroe infrange e rettifica, ma anche la possibilità di sperimentare la gnoseologia dell’amore.
Certo, il fatto di relegare la consumazione dell’adulterio e la soddisfazione del desiderio nel regno rovesciato di Gorre,
risponde ad un’istanza di autocensura che non consente a Chrétien di esplicitare il conflitto amoroso e feudale
all’interno dell’idealità della corte arturiana, tuttavia, così facendo, il poeta champenois libera le pulsioni cognitive
insite nella categoria della meraviglia.
66
J. R. Valette, La poétique du merveilleux dans le Lancelot en prose, Paris, Champion, 1998.
17
obstaculum. Tra la merveille e il merveilleux, la cui accezione odierna era ignota ai medievali, Valette
sostiene che intercorre la stessa relazione che lega semblance a senefiance; laddove la semblance è propria
della merveille. Ma la senefiance, la spiegazione, la semantica della merveille riposano su un’opacità
sensibile e un chiarimento sospeso, in quanto non tutti i personaggi sono in grado di fornire delucidazioni. Ed
è proprio nella ricerca di spiegazioni che la merveille si sposta, nel romanzo in prosa, sull’asse verticale della
ricostruzione delle cause prime, spostamento che trasforma la merveille in res, abbandonando il polo
soggettivo dell’esperienza e divenendo un oggetto che attende, attraverso la glossa, il disvelamento. Ciò che
emerge dagli studi francesi è comunque la natura relazionale, esperienziale della merveille in quanto
interrogazione soggettiva sul mondo e attivazione di un percorso conoscitivo. La merveille romanzesca,
dunque, sembra costituire il pendant poetico della phantasia filosofica: la conoscenza procede da
un’appercezione sensibile che passa dalla vista e che dall’opacità si purifica attraverso l’immaginatio, la
memoria, la ratio.
In relazione al fantastico, invece, la merveille assolve la funzione di essere un segnale, una spia : « La
merveille englobe la nature et la surnature et sa valeur est de signaler le surgissement de quelque chose
d’inattendu» 67. In ogni caso, merveille implica una domanda di senso, l’attivazione di un percorso cognitivo
che l’enigma pone ai personaggi e al lettore, così che, anche per Dubost, è fondamentale la relazione tra la
merveille e un soggetto interrogante 68.
A fronte di una merveille così intesa e definita risalta la profonda diversità dei mirabilia latini. Innanzitutto,
mirabilia rinvia dal punto di vista linguistico alla collezione di oggetti straordinari: mirabilia è il nome
neutro plurale che designa le meraviglie geografiche, mirabilia mundi 69, divenuto nel secolo X, titolo
onorifico del giovane imperatore Ottone III. I mirabilia sono in questo senso costituitivi del sapere
enciclopedico tardo-antico 70 e poi medievale. Collectanea rerum memorabilium è il titolo della raccolta di
meraviglie geografiche compilata da Solino nel secolo V e fonte di ispirazione per tutti gli scrittori del
Medioevo. Mirabilia e memorabilia intrattengono uno stretto rapporto di reciprocità: ciò che è straordinario
è degno di essere conservato dalla memoria, che si trasforma in memoria dello stupore. Sempre sul versante
della collezione di oggetti che destano stupore, mirabilia indicano le opere e i monumenti che l’uomo
realizza attraverso la propria ars: De mirabilibus urbis Romae è il titolo della ‘guida’ di Maestro Gregorio,
contentente una descrizione degli edifici e della statuaria della città capitolina71. Nell’accezione geografica, i
mirabilia indicano in particolare le meraviglie d’Oriente. De rebus in Oriente mirabilibus 72 è il titolo di
un’epistola famosa, già circolante nel secolo VI, capostipite del genere epistolare mirabilis, così come ai
67
Dubost, Aspects fantastiques, p. 91.
F. Dubost, «La pensée de l’impensable dans la fiction médiévale», in Ecriture et mode de pensée au Moyen Age VIIIᵉXVᵉ siècles, Paris, Presses de l’Ecole Normale Supérieure, 1993, pp. 47-68, p. 54 : «Elle [la merveille] place le héros et
le lecteur en situation dynamique : pur le premier l’enjeu consiste à triompher de l’épreuve afin d’en découvrir
éventuellement la senefiance ; pour le second il s’agit de s’interroger sur la réalité qui s’exprime, ou cherche à
s’exprimer, à travers l’irréalité de la merveille.»
69
Connotazione che ancor oggi contrassegna la collana edita presso Garzanti, dedicata alle descrizioni geografiche
dell’ecumene.
70
Basti pensare all’enorme fortuna e circolazione che ebbe la Historia Naturalis di Plinio il Vecchio, che è, per i
medievali, inesauribile fonte di mirabilia. Per Plinio il termine mirabilia si riferisce sia ai monumenti architettonici che
destano stupore nella loro bellezza e magnificenza, sia ai prodigi della natura; cfr. V. Naas, Mundus alius in alio loco, le
projet encyclopédique de Pline l’Ancien, Roma, Ecole Française de Rome, 2002, p. 370.
71
Magistri Gregorii Narracio de mirabilibus urbis Romae. Il fascino di Roma nel Medioevo. Le "meraviglie di Roma"
di Mastro Gregorio, ed. C. Nardella, Roma, Viella, 1997; cfr. A. Raffarin-Dupuis, «Miracula, Mira praecipua,
mirabilia: les merveilles de Rome de Pline à la Renaissance», Camenae, 2, 2007, pp. 1-11, Revue en ligne Camenae,
Université Paris-Sorbonne, risorsa elettronica www. paris-sorbonne.fr/revue-en-ligne-camenae.
72
Probabilmente di origine anglosassone, la Lettera si ispira alle meraviglie dell’India contenute nel romanzo dello
pseudo-Callistene; cfr. E. Faral, «Une source latine de l’histoire d’Alexandre. La lettre sur les merveilles de l’Inde», in
Romania, XLIII, 1914, pp. 199-215 e pp. 353-370 ; M. Campbell, The Witness and the Otherworld : Exotic European
Travel Writing. 400-1600, London, Cornell University Press, 1988, pp. 47-86 ; trad. italiana a cura di M. Ciccuto, Le
meraviglie dell'Oriente, Edizioni ETS, 1994.
68
18
mirabilia dell’India allude il titolo completo dell’Epistola Alexandri: Epistola Alexandri Macedonis ad
Aristotelem magistrum suum de situ et mirabilibus Indiae 73.
La componente oggettiva dei mirabilia è rafforzata dall’uso invalso all’interno dei testi sacri, quale sinonimo
di miracula. Nei Salmi mirabilia indicano i miracoli divini, i segni oggettivati della Sua potenza 74.
L’equivalenza semantica tra mirabilis/mirabilia/miracula è costantemente ribadita da Agostino che definisce
l’incarnazione di Cristo, mirabilis mirabiliter natus est 75. Trattando, tuttavia, di alcuni fenomeni inusitati che
si incontrano nel regno di natura, Agostino parla anche di mirabile raritate76 e solo nel libro XXI del De
civitate Dei utilizza mirabilia per designare eventi straordinari che costellano il mondo naturale (animali o
minerali) 77. È un uso, tuttavia, eccezionale, riferendosi lo spettro linguistico derivante da mirus alla sapienza
divina, alle Sue opere e ai testi sacri 78. Nei suoi Etymologiarum libri XX, Isidoro preferisce distinguere i
segni straordinari di Dio, miracula, dai portenta, ovvero tutto ciò che «contra quam est nota natura»79.
Appartenenti al regno naturale 80, i portenta, prodigia, monstra sono creature di Dio, che stupiscono perché
esulano dall’ordinario. Ai portenta Isidoro ascrive dunque tutte quelle manifestazioni strane che popolano i
libri degli antichi: le metamorfosi, gli ibridi, le creature mitologiche.
Il termine mirabilia per indicare fatti o creature straordinarie, all’interno della letteratura storica latina
insulare di ambito monastico del secolo XII appare molto ridotto 81; Guglielmo di Malmesbury, per esempio,
tratteggia due poli del sovrannaturale: i miracula, ascrivibili soltanto a Dio e ai suoi emissari e i praestigia,
decisamente attribuibili al demonio 82. A differenza di Isidoro che razionalizza e dissolve nella spiegazione
allegorica la stupafecente mostruosità delle creature antiche83, negando dunque ai monstra e portenta lo
statuto di realtà effettuale, Guglielmo attribuisce ai praestigia la stessa evenemenzialità che contrassegna i
miracula: così come i miracula sono eventi visibili e percepibili, appartenenti al regno dell’accaduto, in
73
Epistola Alexandri ad Aristotelem ad codicum fidem edita et commentario critico instructa, ed. W.W. Boer, Den
Haag 1953, rist. Meisenheim am Glan (Beiträge zur klassischen Philologie 50) 1973; sulla circolazione e le differenti
versioni cfr. G. Zaganelli, L’Oriente incognito medievale: enciclopedie, romanzi di Alessandro, teratologie, Soveria
Mannelli, Rubbettino, 1996.
74
Ps, 71, 18: Benidictus Dominus, Deus Israel, / Qui facit mirabilia solus ; Ps 95, 1-5 : Cantate Domino canticum
novum, cantate Domino omnis terra. Cantate Domino, benedicite nomen eius, bene nuntiate diem ex die salutare eius.
Annuntiate in gentibus gloriam eius, in omnibus populis mirabilia eius; quoniam magnus Dominus et laudabilis nimis,
terribilis est super omnes deos. Quia omnes dii gentium daemonia, Dominus autem caelos fecit; Ps, 118, 18: Revela
oculos meos /Et considerabo mirabilia de lege tua.
75
Agostino, De civ. Dei, X, 29.
76
Agostino, De civ. Dei, XIV, 24: «Quorumdam naturae raritate mirabiles».
77
Agostino, De civ. Dei, XXI, 4.1: «De quaedam sunt in natura mirabilia (si parla della salamandra); 4.4: Mirabilia de
magnete et adamante dicuntur».
78
Agostino, Sermo de disciplina christiana, II, 2: «Thesaurus ergo est magnus divinarum Scripturarum, habens in se
mirabilia praecepta multa». De civitate Dei, VIII, 21: «Oh mirabilem sapientiam».
79
Isidoro di Siviglia, Etymologiarum sive Originum libri XX, recognovit brevique adnotatione critica instruxit W.M.
Lindsay, Oxford University Press American Branch, 1911, voll. 2; vol. I, lib. XI, cap. III.
80
Isidoro di Siviglia, Etymologiarum, lib. XI, cap. III: «Portenta esse Varro ait quae contra naturam nata videntur: sed
non sunt contra naturam, quia divina voluntate fiunt, cum voluntas Creatoris cuiusque conditae rei natura sit. Unde et
ipsi gentiles Deum modo Naturam, modo Deum appellant.»
81
Sulla storiografia latina insulare, A. Gansden, Historical Writing in England. c. 500 to c. 1307, London, Routledge,
1996 (I ed. 1974); N. F. Partner, Serious Entertainments. The Writing of History in Twelfth-Century England, Chicago,
University of Chicago Press, 1977; sul rapporto tra la scrittura storiografica e gli stilemi narrativi del meraviglioso nella
storiografia insulare: M. Otter, Inventiones: fiction and referentiality in Twelfth-Century English historical writing,
North Caroline, University of North Carolina Press, 1996; R. Morse, Truth and Convention in the Middle Ages:
Rhetoric, Representation, and Reality, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, in particolare pp. 85-124. Sulla
«visione storiografica della storia e quindi una storia come narrazione, memoria, racconto di fatti e raccolta di
documenti», inaugurata dalla storiografia insulare, cfr. C. Benincasa, L’Altra scena. Saggi sul pensiero antico,
medievale, controrinascimentale, Bari, Dedalo, 1979, pp. 413-424, p. 414. Sulla funzione del meraviglioso all’interno
della letteratura insulare dei secoli XII-XIII, cfr. J. C. Schmitt, «I morti meravigliosi», in Spiriti e fantasmi nella società
medievale, Roma-Bari, Laterza, 1995 (ed. or. Paris, 1994), pp. 109-126.
82
«Inferno praestigio» è designato l’episodio della strega di Berkerley, il cui cadavere viene sottratto dai demoni dalla
chiesa: Gugliemo di Malmesbury, Gesta Regum Anglorum, ed. Th. D. Hardy, London, Sumptibus Societatis, 1840, vol.
I, lib. II, 204.
83
Isidoro di Siviglia, Etymologiarum, lib.XI, cap. III.
19
grado di mostrare la potenza di Dio, i praestigia sono eventi provocati dal demonio, con il permesso divino,
perché gli spettatori si pentano e si astengano dal commercio con il Maligno. A livello linguistico, tuttavia,
permane tra miraculum e praestigium una forte sfasatura ontologica, afferendo i miracula a fenomeni
percepibili attraverso la vista e la cui realtà è garantita dalla causalità divina, rinviando invece i praestigia al
regno di inganni e illusioni, agite dal demonio per confondere. Ancora nel secolo XIII, in piena Scolastica,
Tommaso d’Aquino definisce l’attività ingannatrice del diavolo præstigia, insistendo sull’impossibilità da
parte del demonio di operare sostanzialmente sulla realtà della creazione84. In Vincenzo di Beauvais,
præstigium rinvia alle perniciose falsità e ai miraggi evocati da demoni e maghi per confondere i cristiani 85.
Sempre in ambiente insulare, un altro storico Guglielmo di Newburgh, pur non utilizzando il termine
mirabilia, ritaglia all’interno della sua opera uno spazio per eventi straordinari, definiti prodigia. L’Historia
rerum Anglicarum è universalmente considerata dalla critica 86 come una delle ricostruzioni più attendibili,
uno dei testi di storia di epoca medievale meno incline ad indulgere a figmenta e fabulae, giusta la
definizione e l’insegnamento di Isidoro, seguiti da Guglielmo in maniera stringente e letterale 87. La storia
favolosa di Goffredo di Monmouth che ha veicolato e diffuso false notizie su Artù e il finto profeta Merlino,
avvalendosi della qualifica di historia per nobilitare racconti fittizi, è il bersaglio esplicito di Guglielmo nel
suo proemio 88. Ora all’interno di questo quadro teorico e concettuale che tende a escludere tutto ciò che vive
di illusione e di immaginazione e a ridurre sensibilmente lo spazio dello straordinario, si innesta il racconto
di alcuni fenomeni prodigiosi che sollevano dubbi e imbarazzo nello stesso autore 89, ma che appartenenti alla
realtà fattuale e non alle lande della finzione, entrano di diritto in una narrazione storica e veritiera 90. È
84
Tommaso d’Aquino, Super II Sent., lib. 2, d. 7, q. 3, a. 1, co.: «Et ideo dicendum, quod Daemones virtute propria
nullam formam in materiam influere possunt, nec accidentalem nec substantialem; nec reducere eam in actum, nisi
adminiculo proprii agentis naturalis: sicut enim artifex non propria virtute, sed virtute ignis appositi calefacit; ita
Daemones ad determinata passiva possunt conjungere activa, ut sequatur effectus ex causis quidem naturalibus, sed
praeter consuetum cursum naturae, propter multitudinem et vehementiam virtutis activae rerum aggregatarum, et
propter habilitatem passivorum: et ideo effectus qui non sunt in potestate alicujus virtutis activae naturalis, producere
non possunt, ut suscitare mortuum, vel aliquid hujusmodi, secundum veritatem; sed in praestigiis tantum, ut infra
dicetur».
85
Vincenzo di Beauvais, Speculum Historiale, lib. II, cap. 55 : «Magica vero sub philosophia non continetur, sed foris
falsa professione de vero mentiens et veraciter animas ledens. Hec V maleficiorum genera continet scilicet manticen,
mathemathicam, maleficia, sortilegia, prestigia»; lib. X, cap. 74, il riferimento è all’azione di Matteo contro i maghi:
«cepit detergere prestigia eorum»; nel lib. XXIV, cap. 39 Vincenzo istituisce un nesso significativo tra arti magiche,
prestigia, phantasmata e eresia: «Quam [Cadigam, mulierem Corozaniae provinciae] Muhameth incantationum suarum
prestrictam phantasmate cepit astutia paulatim in errorem inducere, dicens ei quod ipse esset messias quem esse
venturum adhuc Iudei expectant. Suffragabantur verbis eius tam incantationum prestigia, quam calliditatis eius ingenia
copiosa.»
86
Cfr. Partner, Serious Entertainments, pp. 51 e sgg.; A. Chaou, L'idéologie Plantagenêt : Royauté arthurienne et
monarchie politique dans l'espace Plantagenêt, Rennes, Presses de l'Université de Rennes, 2001, p. 68 ; J. Gillingham,
«The Historian as Judge: William of Newburgh and Hubert Walter», English Historical Review, 119, 2004, 1275-1287.
87
Isidoro di Siviglia, Etymologiarum, lib. I, cap. XLI: «Historia est narratio rei gestae, per quam ea, quae in praeterito
facta sunt, dinoscuntur».
88
Guglielmo di Newburgh, Historia rerum Anglicarum, Chronicles of the reigns of Stephen, Henry II., and Richard I.
ed. by R. Howlett, Rolls, Series, London, Longman, 1884, 2 voll.; Proemium, vol. 1, p. 12: «Gaufridus hic dictus est,
agnomen habens Arturi, pro eo quod fabulas de Arturo, ex priscis Britonum figmentis sumptas et ex proprio auctas per
superductum Latini sermonis colorem honesto historiae nomine palliavit.»
89
Gugliemo di Newburgh, Historia Rerum Anglicarum, lib. 1, cap. XVII (De viribus pueris), vol. 1, pp. 82-84, p. 84 :
«Nec praetereundum videtur inauditum a saeculis prodigium quod sub rege Stephano in Anglia noscitur evenisse. Et
quidem diu super hoc, cum tamen a multis praedicaretur, heasitavi ; rem vel nullius vel abditissimae rationis in fidem
recipere ridiculum mihi videbatur: donec tantorum et talium pondere testium ita sum obrutus, ut cogerer credere et
mirari, quod nullis animi viribus possumus attingere vel rimari.»
90
I dubbi sull’opportunità di riportare certi eventi si traducono nello stupore di non trovarne tracce nei libri antichi, le
auctoritates. Guglielmo giustifica, tuttavia, la sua operazione in nome di avvenimenti che nella sua epoca si sono
prodotti e che non possono essere taciuti. L’idea, anzi di vivere in un’epoca fortemente esposta ai prodigi, lo esonera dal
dover narrare tutti gli episodi e lo spinge a selezionare quelli più significativi. Historia Rerum Anglicarum, lib V, cap.
XXIV (De quibusdam prodigiosis), vol. 2, p. 477: « Mirum plane si alia olim contigere, cum nihil tale in libris veterum
reperiatur, quibus utique ingens studium fuit memorabilia quaeque literis mandare. Cum enim quaedam etiam modica
conscribere nequaquam neglexerint, quomodo rem tanti stuporis simul horroris, si forte illo seculo contigit, supprimere
20
interessante notare come lo straordinario appartenente alla natura ‘animata’ si collochi per Guglielmo di
Newburgh sempre sul versante dei fenomeni ambigui se non apertamente demoniaci (come ad esempio i
revenants) 91; la sua narrazione, infatti, ricorre poco ai miracula. Ma questi prodigi non si dissolvono nella
sfera dell’illusione, e, quand’anche dovessero presentare una componente fantastica, a certificarne la realtà
intervengono prove o testimonianze fededegne. Guglielmo, inoltre, tenta di spiegare la natura del
meraviglioso : «Mira vero huisumodi dicimus, non tantum propter raritatem, sed etiam quia occultam habent
rationem» 92. L’indagine di questa ragione occulta si sbilancerà a favore di un’origine maligna. Il capitolo
(Lib. I, cap.XXVIII) da cui è tratta la precedente affermazione è dedicato a cani scolpiti prodigiosamente
nella pietra e alla visita da parte di un contadino di una dimora fatata da cui riporta un calice di inusitata
fattura e bellezza. Benché non tutti i portenta narrati alludano a forze maligne, la succitata frase si svilupperà
in un commento conclusivo che non lascia dubbi in proposito.
Haec et huisumodi incredibilia viderentur, nisi a dignis fide testibus contigisse probaretur. Si autem
potuerunt Magi per incantationes, ut scriptum est, Aegyptiacas et arcana quaedam operatione utique
malorum angeli, virgas convertere in dracones …, quos tamen, ut ait Augustinus, creatores draconum non
dicimus, …; aliud est enim ex intimo et summo causarum cardine condere atque administare creaturam, quod
qui facit solus est creator Deus, aliud autem pro distributis ab Illo viribus ac facultatibus, aliquam
operationem forinsecus admovere, ut tunc vel tunc, sic vel sic exeat quod creatur, quod non solum mali
angeli, sed etiam mali homines possunt; si, inquam, mali angeli per Magos, Deo permittente, ea potuerunt,
non est mirum si et illa, de quibus nunc quaeritur, quadam angelicae naturae potentia, si a superiori potestate
permittantur, partim praestigialiter et fantastice, ut illud in tumulo nocturnum convivium, partim etiam in
veritate, ut illos canes … valeant exhibere, in quibus homines inutili stupore teneantur; qui nimirum mali
angeli libentius faciunt, cum permittuntur in quibus homines perniciose fallantur 93.
Praestigium o prodigium, in ambito storiografico insulare, designa, dunque, un evento straordinario di
origine demoniaca che si contrappone, sul piano fenomenico, al miracolo. Praestigium, tuttavia, o meglio
l’avverbio da esso derivato, preastigialiter, si pone, nel brano di Guglielmo, in continuità sinonimica con
fantastice e in opposizione con veritate.
L’attrazione dei mirabilia, invece, nella sfera del miracolo, si conferma nel corso del secolo XIII. Nello
Speculum maius di Vincent de Beauvais, la situazione appena tratteggiata è fedelmente rispecchiata. Nello
Speculum Historiale mirabilia e miracula si pongono su un piano di equivalenza sinonimica al punto che,
prolungando una tradizione già inaugurata da Beda 94, le stesse meraviglie del mondo possono essere difinite
«miracula mundi» 95. Essenzialmente i mirabilia designano, per Vincent de Beauvais, gli atti miracolosi che
possiedono il carattere della realtà e della verità, i verbi che più frequentemente reggono l’accusativo
potuere? Porro si velim omnia huismodi scribere quae nostris contigisse temporibus comperi, nimis operosum simul et
onerosum erit.»
91
Gugliemo di Newburgh, Historia Rerum Anglicarum, in particolare il cap. XXIV, lib. V, vol. 2, pp. 477-482, contiene
una serie di racconti sui morti che tornano dall’aldilà per nuocere ai vivi. Guglielmo non nutre dubbi sulla loro natura
diabolica, p. 480 (racconto sul vampiro, sanguisuga), p. 482: «Noctibus enim operatione Sathane de sepulchro
egrediens, prosequente eum cum latratu horribili canum turba per plateas et circa domos oberrabat, cunctis ostia
obserantibus, nec exire praesumentibus ad aliquod negotium ab incipientibus tenebris usque ad ortum solis, ne quis
forte oberranti monstro sugillandus occurreret».
92
Gugliemo di Newburgh, Historia Rerum Anglicarum, lib. I, cap. XXVIII, vol. 1, p. 84.
93
Ivi, lib. I, cap. XXVIII, vol. 1, pp. 86-87.
94
The Complete Works of Venerable Bede, in the original Latin, collated with the Manuscripts, and various printed
editions, and accompanied by a new English translation of the Historical Works, and a Life of the Author. By the Rev.
J.A. Giles, London, Whittaker and Co., 1843, 8 voll., vol. 4, pp. 10-16: De septem mundi miraculis manu hominis
factis.
95
Vincenzo di Beauvais, Speculum Historiale, lib. VI, cap. 14: « Hic pharus inter VII mundi miracula secundum
computatur», il riferimento è al faro di Alessandria.
21
mirabilia sono infatti ostendere e facere 96. Nell’accezione geografico-esotica, invece, il termine mirabilia
ricorre, nello Speculum Historiale, per indicare le meraviglie d’Oriente, descritte e narrate dalla costellazione
testuale dedicata ad Alessandro Magno 97.
Attraverso la lettura diretta dei testi ci accorgiamo così che la tripartizione proposta da Le Goff 98
necessita di essere integrata, in quanto il polo identificato dallo studioso francese con i mirabilia si presenta
decisamente più sfumato e complesso. La forte propensione a qualificare di mirabilia la sfera miracolosa,
attiva all’interno del pensiero teologico, da Agostino fino a Tommaso, e contemporaneamente la tendenza a
inserire tra i mirabilia fenomeni naturali inusitati di cui la ragione non comprende la causa si dissolvono, nel
corso dei secoli XII e XIII, attraverso l’identificazione di alcuni mirabilia con le phantasiae di marca
diabolica. Ciò che qualifica i mirabilia naturali in contrapposizione a quelli divini (miracula) è il loro statuto
apparente, poiché la straordinarietà deriva solo dall’ignoranza della causa. In questo senso esiste una
continuità concettuale tra la definizione fornita da Isidoro dei portenta 99 e la classificazione dei mirabilia che
Gervasio formula nell’introduzione della decisio III:
Mirabilia vero dicimus que nostre cognicioni non subiacente, etiam cum sunt naturalia; sed et mirabilia
constituit ignorantia reddende rationis quare sic sit.
Nel corso del libro III, tuttavia, vediamo che Gervasio attrae all’interno della categoria mirabilia,
fenomeni che più facilmente un teologo o un intellettuale dei secoli precedenti avrebbe definito prodigia o
praestigia 100, ovvero quel campo dell’azione demoniaca che appartiene al territorio del magicus, individuato
da Le Goff 101. I mirabilia sembrano porsi allora più come un processo dialettico che come una categoria di
oggetti definiti: coincidenti con il miracolo o con i fenomeni naturali, la cui straordinarietà è solo apparente,
in quanto dovuta ad ignoranza umana, nelle opere mediolatine composte alla corte plantageneta e in altri
testi 102, i mirabilia tendono a inglobare i prodigia o i praestigia, cancellandone lo statuto illusorio, per
scivolare verso l’oggettività evemenenziale. Così, nel momento in cui il portentum o il prodigium perdono la
loro componente fantasmatica per acquisirne una fattuale, diviene necessario prendere le distanze dalle
fabulae, di cui spesso il portentum costituisce il contenuto narrativo. E se Isidoro nella sua classificazione dei
generi poteva identificare la fabula con i portenta, in virtù di una contiguità terminologica e concettuale 103,
poiché portenta e fabula alludono a ciò che desta stupore in quanto misteriosamente, ma apparentemente,
contro natura; gli scrittori latini dei secoli XII e XIII, sembrano muoversi in una direzione speculare e
contraria: narrare meraviglie certificate oculata fide o ex auctoritate è necessario proprio per smontare la
96
Vincenzo di Beauvais, Speculum Historiale, lib. III, cap. 121; lib. VIII, cap. 60; lib. VIII, cap. 61; lib. X, cap. 81; lib.
X, cap. 116, ecc.
97
Cfr. Vincenzo di Beauvais, Speculum Historiale, lib. II, cap. 64; lib. V, cap. 59.
98
J. Le Goff, «Il meraviglioso nell’Occidente medievale», in Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale,
Roma- Bari, Laterza, 1988, pp.5-23 (ed. or. Paris, 1978). Le Goff distingueva tre poli dello straordinario sulla base delle
cause prime: miraculum, riferito all’opera divina; mirabilia, riferiti al regno di natura o alle credenza precristiane;
magicus, di derivazione diabolica.
99
Isidoro di Siviglia, Etymologiarum, lib. XI, cap. III: « Portentum ergo fit non contra naturam, sed contra quam est
nota natura».
100
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, dec. III, cap. LXXXV: «Accedit circa mundi huius mirabila questio de lamiis
et dracis.»
101
Le Goff, «Il meraviglioso nell’Occidente medievale», p. 10: «Magicus è il soprannaturale malefico, il soprannaturale
satanico». In realtà, il magicus nella sua polarità negativa, demoniaca coincide con lo spazio della manipolazione
illusoria operata dagli uomini grazie all’invocazione dei demoni, mentre il prodigium o il praestigium costituiscono il
campo delle operazioni dirette delle forze diaboliche, previo permesso divino. L’aggettivo magicus è spesso declinato al
femminile in associazione con il sostantivo ars; cfr. Vincenzo di Beauvais, Speculum Historiale, lib. II, cap. 55; lib. II,
cap. 65: «ars magica»; lib. IX, cap. 101, ecc.
102
Ad esempio nell’opera Super Apocalypsim di Goffredo di Auxerre, come vedremo in seguito.
103
Isidoro di Siviglia, Etymologiarum, lib. XI, cap. III, Portenta: «Portentum ergo fit non contra naturam, sed contra
quam est nota natura»; Fabula, lib. I, cap. XL: «Fabulas poetae a fando nominaverunt, quia non sunt res factae, sed
tantum loquendo fictae»; lib. I, cap. XLIV: «Nam historiae sunt res verae quae factae sunt; argumenta sunt quae etsi
facta non sunt, fieri tamen possunt; fabulae vero sunt quae nec factae sunt nec fieri possunt, quia contra naturam sunt.»
22
pretesa delle false fabulae. In questo percorso la lunga tradizione della sovrapposizione di miraculum e
mirabilia facilita la certificazione dello straordinario, proprio nel momento in cui anche l’affermazione del
miracolo si avvale di formule e prassi giuridiche estremamente raffinate e complesse: produzione di
testimonianze fededegne, inchieste, ecc 104. Lo stupore soggettivo del personaggio romanzesco che
interrogandosi sulla natura della merveille innesca un percorso cognitivo, si traduce, nei nostri testi
mediolatini, in un’affermazione di esistenza fattuale e oggettiva di eventi, di fronte ai quali l’esitazione
ermeneutica tende ad affievolirsi per tradursi in spiegazione.
Il processo dialettico costitutivo dei mirabilia si riverbera anche nei testi volgari del secolo XIII, quale il
Lancelot-Graal, segnalando non tanto la cristianizzazione quanto lo sfaldamento delle merveilles. Nello
spostamento della merveille sull’asse verticale delle cause prime, enchantement, diablie e miracle 105 si
pongono come le possibili opzioni esplicative del fenomeno meraviglioso. La cifra della merveille risiede
sempre nella sua polisemia, mentre il suo intimo legame con la visio di un soggetto e la sua appercezione
fantasmatica genera un’ambiguità che sfocia nel dubbio interpretativo: Est cose de par Deu ou non? Un
interrogativo che esprime il timore e il tremore che pervadono il romanzo oitanico fin dalle sue prime
produzioni in versi. In questo senso ha ragione Ferlampin-Acher nel sostenere che non è corretto parlare di
progressiva razionalizzazione del meraviglioso. «Les lectures miraculeuses et diaboliques ne sont donc pas à
notre avis le fruit d’une christianisation qui s’imposerait tardivement et progressivement dans nos textes. La
primauté de Dieu et la diversité du Diable sont au contraire des présupposés essentiels à la mise en œuvre du
processus merveilleux dès les romans les plus anciens» 106. Quest’ultima affermazione sembra confermare
che i mirabilia rifuggono da una netta classificazione, per proporsi come vero e proprio processo : nel corso
dei secoli alcuni mirabilia saranno catagolati come miracoli altri come prodigi infernali, mentre il regno di
natura si aprirà ad indagini più accurate, empiriche e scientifiche che dissolveranno via via l’aura di mistero.
1.5 Merveilles e mirabilia: finzione e verità
Strettamente connesso al processo di sostanzializzazione dei mirabilia, nella sua accezione più ampia,
ovvero dai miracoli fino alle manifestazioni diaboliche, è la fondazione di un discorso vero contro le falsità
delle narrazioni fittizie. Nella sua funzione estetica e poetica, la merveille, rinvia, fin dai primi romanzi, ad
un piano simbolico-allegorico che consenta, attraverso la conjointure, di svelare il sens recondito
nell’articolazione del tessuto meraviglioso. Il carattere di fizionalità consapevole insito nella merveille
letteraria è percepito già da Wace, in versi famosi, in cui coscientemente smonta una delle macchine
narrative cavalleresche: la foresta di Broceliande.
Roman de Rou 107, vv. 11514-11539 (t. 2):
de verz Brecheliant,
Dune Bretunz vont sovent fablant,
Une forest mult lunge è lée,
Ki en Bretaigne est mult loée;
La Fontaine de Berenton
Sort d'une part lez le perron;
Aler i solent venéor
A Berenton par grant chalor,
Et o lor cors l'ewe puisier
104
Cfr. Notai, miracoli e culto dei santi: pubblicità e autenticazione del sacro tra 12. e 15. secolo : atti del Seminario
internazionale, Roma, 5-7 dicembre 2002, a cura di Raimondo Michetti, Milano, A. Giuffrè, 2004.
105
Valette, La poétique du merveilleux, pp. 98 e sgg.
106
Ferlampin-Acher, Merveille et topique du merveilleux, p. 215.
107
Wace, Roman de Rou, ed. Anthony J. Holden, Paris, Société des anciens textes français, t. 1, 1970; t. 2, 1971, t. 3,
1973.
23
Et li perron de suz moillier,
Por ço soleient pluée aveir;
Issi soleit jadis pluveir
En la forest tut envirun,
Maiz jo ne sai par kel raisun.
Là solt l'en li fées véir,
Se li Bretunz disent veir,
Et altres merveilles plusors;
Aigres solt avéir destors
E de granz cers mult grant plenté,
Maiz li vilain ont deserté.
Là alai jo merveilles querre,
Vis la forest è vis la terre;
Merveilles quis, maiz nes' trovai;
Fol m'en revins, fol i alai,
Fol i alai, fol m'en revins,
Folie quis, per fol me tins.
L’intrusione metatestuale del narratore-autore sembra porsi come manifesto della letteratura di finzione,
definendo il patto narrativo con il lettore, a questo punto avvisato del fatto che qualunque avventura
straordinaria possa incontrare nei romanzi, deve adottare un atteggiamento di sospensione dell’incredulità108.
La dialettica vero-falso che contraddistigue l’atteggiamento ricettivo nei confronti delle narrazioni
straordinarie affonda, nella cultura occidentale, nei tempi remoti e distanti della requisitoria degli storici
greci prima e di Platone poi contro il mythos 109. L’antinomia platonica tra mythos e logos, il discorso finto e
quello vero permea di sé tutto il pensiero occidentale 110 sorto sulle ceneri di quello greco e trasmessosi, sotto
mutate spoglie, al cristianesimo patristico. Semplificando, la giustificazione allegorica sembra nascere in
fondo proprio per salvaguardare dalla dittatura del vero tutta una costellazione di testi, che altrimenti gravati
dal sospetto di mendacia, sarebbero stati per sempre espunti dalle elaborazioni delle élite intellettuali. È la
rivalutazione allegorica di alcuni mythoi a consentire a una parte dell’opera poetica di accedere a pieno titolo
nella Repubblica dei filosofi 111. L’inclinazione allegorica, come sappiamo, conoscerà un nuovo input
nell’ambito del neoplatonismo cristiano, sfociando in quella concezione figurale che permetterà ai Patres di
salvare l’elemento storico-letterale e quello fantastico-metaforico in direzione di una verità sovrannaturale
più alta: il disegno divino.
Al di là dell’allegoria, la preoccupazione di tutti gli autori dei secoli XII e XIII che si propongono di
tramandare, attraverso opere storiche o poste al confine tra lo svago e l’insegnamento, memorabilia mirabili,
è, tuttavia, quella di attribuire alle loro narrazioni il carattere inconfutabile della realtà evenemenziale: quasi
un’aderenza alla littera che scardina la produttività metaforica della lettura simbolica; la verità, infatti,
risiede nella certificazione di eventi prodottisi nell’immanenza di cui la spiegazione trascendente sembra
porsi più come adesione ai canoni delle auctoritates che come ricerca metafisica 112.
108
Secondo la famosa formula di S. Coleridge, «Suspension of Disbelief» (Biographia literaria - capitolo XIV, 1817),
ripresa da Jauss per identificare, dal punto di vista dell’ermeneutica della ricezione, la specificità del romanzo rispetto
all’epos, H.R. Jauss, Alterità e modernità della letteratura medievale, Torino, Bollati Boringhieri, 1989 (ed. or.
München, 1977). Jauss parla, infatti, di «godimento consapevole della finzione», p. 15.
109
Cfr. M. Detienne, L’invention de la mythologie, Paris, Gallimard, 1981.
110
Cfr. C. Ginzburg, «Mito. Distanza e menzogna», in Il filo e le tracce, Milano, Feltrinelli, 2011 (I ed. 1998), pp. 4081.
111
A questo proposito cfr. M. Detienne, Les Maîtres de vérité dans la Grèce archaïque, Paris, François Maspero, 1967 ;
L’invention de la mythologie.
112
Si veda in Giraldo di Cambria, il prologo della dist. II della Topographia Hibernica (infra) o la descrizione di
Gervasio di Tilbury dei voli notturni (dec. III, cap. 95), in cui l’autore sembra mostare maggiore interesse per
l’affermazione della realtà dei voli che per le spiegazioni fornite da medici e teologi (cfr. supra, §1.2)
24
A questo proposito sia il prologo alla terza decisio degli Otia Imperialia, sia quello alla distinctio II della
Topographia Hibernica, sono estremamente significativi nell’intrecciare topoi retorici e dichiarazioni di
veridicità codificate 113, che nel corso dei secoli XIII e XIV, struttureranno i prologhi dei racconti di viaggio,
reali 114 o fittizi 115.
La distinctio II della Topographia Hibernica si intitola De mirabilibus Hiberniae et Miraculis.
L’associazione sinonimica miracula/mirabilia, consoladita dalla riflessione teologica, viene ribadita da
Giraldo di Cambria e sviluppata coerentemente nel corso della sua opera. Oggetto delle sue descrizioni,
infatti, sono fenomeni straordinari appartenenti al mondo naturale oppure ascrivibili all’intervento divino;
mentre le inquietanti meraviglie di segno maligno risulteranno depotenziate e ricondotte nell’alveo
dell’armonica coabitazione sotto la potenza divina. Diverso l’atteggiamento di Gervasio di Tilbury, ma delle
divergenze che intercorrono tra gli autori gravitanti attorno alla corte plantageneta ci occuperemo
distesamente in seguito. Ci preme, invece, qui sottolineare come la rivendicazione di veridicità e di realtà
effettuale dei mirabilia narrati, contribuisca proprio alla sostanzializzazione e alla reificazione dello
straordinario.
Nunc ad ea, quae contra naturae cursum edita digna stupore videntur, calamum vertamus. Ex his igitur quae
per se miranda, suique novitate conspicua, in his terrarum finibus natura reposuit; ex his etiam quae
sanctorum meritis egregie nimis et valde miraculose gesta sunt, quorumque memoria ex certis quibusdam
indiciis perenniter extat memoratu dignissima, stilo perstringere non superfluum duxi. Ut sicut orientalium
regionum prodigia, diligenti auctorum opera in publicae notitiae lucem dudum prodiere, sic et occidentalia,
hactenus quidam abdita fere et incognita, nostro tandem labore his vel occiduis temporibus inveniant
editorem.
Scio tamen et certus sum, me nonnulla scripturm quae lectori vel impossibilia prorsus, vel etiam ridiculosa
videbuntur. Sed ita me Dii amabilem praestent, ut nihil in libello apposuerim, cujus veritatem vel oculata
fide, vel probatissimorum et authenticorum comprovincialium virorum testimonio, cum summa diligentia
non elicuerim. Nec mihi calumniae nubila livor obducat. Quae nam oculis subjecta fifelibus ipse conspexi,
firmiter et indubitanter haec assero: quae vero tantum demissa per aures, quia segnius irritant, horum non
assertor sed recitator existo. Singulis tamen, prout a multis et authenticis viris, a quibus visa sunt, accepi,
fidem adhibeo.
La topica definizione del mirabile -contra cursum naturae- è seguita da una comparazione con le meraviglie
d’Oriente, che all’interno della Topographia costituiranno il polo negativo contro cui si stagliano i fenomeni
straordinari dell’Occidente, per concludersi sull’insistita verità e realtà dei fatti narrati, di cui la vista risulta
essere il primo organo garante.
L’ossessione della verità, benché si strutturi all’interno della letteratura medievale quale topos
dell’esordio 116, assolve, nei nostri testi, la funzione giuridica di certificazione dell’insolito e di una sua
definizione realistico-oggettiva. E mentre i romanzieri o i compositori di lais e fabliaux insistono sulla
113
Sull’influsso dei canoni retorici della scrittura religiosa e agiografica sulle opere dei secoli XI-XII, cfr.: S. Mula,
«Les modèles d’autorité religieuses dans la narration profane (XIIᵉ-XIIIᵉ siècles)», in Auctor et Auctoritas. Invention et
conformisme dans l’écriture médiévale, sous la direction de M. Zimmermann, Paris, Ecole de Chartes, 2001, pp. 161174.
114
Marco Polo, La Description du monde, ed. Y. Badel, Paris, Lettres gothiques, 1998, p. 50 : «Pour savoir la verité des
diverses regions du monde, si prenez cest livre [et les faites lire], si trouverez les grandes merveilles qui sont escriptes
del Grant Ermenie […], si comme nostre livre vous contera tout par ordre, des que mesire Marc Pol, saiges et nobles
cytoiens de Venise raconte pour ce que il les vit. Mais auques il y a choses que il ne vit pas, mais il entendi d’ommes
certains par verité. Et pour ce mettrons nous les choses veues pour veues et les entendues pour entendues».
115
Jehan de Mandeville, Livre des merveilles dou monde, ed. C. Deluz, Paris, CNRS Editions, 2000, p. 92 : «Jeo Johan
de Maundeville chivaler ja soit ceo qe jeo ne soies dignes, neez et norriz d’Engleterre de la ville de Seint Alban qe y
passay la mer l’an millisme CCC vintisme et secund, le jour de Seint Michel et qe depuis ai esté outre mer par long
temps et ai veu et environé moint pais et montes diverses provinces».
116
Cfr. Dubost, Aspects fantastiques, pp. 142-164.
25
veridicità della versione da essi riferita, gli scrittori mediolatini che si occupano di mirabilia, a scopo
didascalico e/o ricreativo, pongono l’accento sulla realtà degli eventi narrati, certificati da testimonianze
dirette o fededegne. In questo senso la rivendicazione di verità differisce notevolmente: nel primo caso si
tratta di verità letteraria, nel secondo di verità ontologica.
Le parole utilizzate da Gervasio nel prologo alla decisio III della sua opera non si distanziano molto da
quelle di Giraldo. La polemica nei confronti delle menzogne delle fabulae è, però, esplicita e diretta.
Enimvero non ex loquaci ystrionum garrulitate ocium decet imperiale imbui, sed potius, abiectis importunis
fabularum mendaciis, que vetustatis auctoritas comprobavit aut scripturarum firmavit auctoritas aut cotidiane
conspectionis fides oculata testatur ad ocium sacri auditus sunt ducenda.
Se è vero, prosegue Gervasio, che la mente umana tende spontaneamente verso ciò che nella sua novità o
nella sua straordinarietà la sbalordisce, è necessario, tuttavia, che il mirabile sia in qualche modo ordinato e
che, ricondotto nell’alveo della realtà, possa rivelare la sua funzione edificante.
Bisogna, infatti, avere i sensi vigili poiché, essendoci preclusa la conoscenza del futuro, soltanto dal presente
e dal passato si può apprendere. Questo l’incipit della distinctio IV, del De Nugis curialium di Walter Map.
Ad nostram omnium instructionem expedit ut nemo clausis oculis vel auribus vel aliquo sensuum inofficioso
vivat, sed ex rebus oportet extrinsencis intrinsecus edificari.
Map non si sofferma sulle prassi probatorie dei fenomeni straordinari, ma nel sottolinearne la funzione
didascalisca, li colloca in un universo esperibile dai sensi, quindi conoscibile, quindi reale.
1.6 Mirabilia: lo spazio della trasculturazione
Transculturazione è termine coniato da Ortiz 117 nel 1940 per descrivere quel particolare complesso culturale
cubano, quale risultanza di incroci, ibridazioni, crossing-over che hanno interessato nei secoli l’isola
caraibica. Malinowski nella prefazione al testo di Ortiz 118 avvertì immediatamente la ricchezza euristica del
neologismo e ne illustrò le importanti implicazioni teoriche nel campo antropologico. Alla categoria di
interculturalità si è venuta sostituendo negli studi di antropologia, nel corso degli ultimi quindici anni, quella
di transculturalità, che ha minato alla base il concetto monolitico e unidimensionale di cultura 119.
L’approccio transculturale, infatti, permette di coniugare in maniera più proficua il livello generale (macro)
con quello individuale (micro), dal momento che gli attori culturali operano sì all’interno di un contesto
storico, di cui riproducono l’«archivio del tempo» 120, ma contemporaneamente si definiscono attraverso
l’attivazione soggettiva di alcuni tratti culturali, ridisegnando i percorsi di ibridazione o meglio di
attraversamento. Ora, proprio i mirabilia sembrano offririsi come lo spazio privilegiato per le rielaborazioni
transculturali, in quanto si pongono ad un punto di incrocio tra differenti livelli di cultura e riletture
soggettive, in grado di attualizzare motivi generali non sempre coincidenti.
Leggendo i testi ci si accorge che i mirabilia si configurano non soltanto come lo spazio della mediazione
tra cultura “folklorica” e cultura “clericale”, bensì come il luogo in cui si realizza l’attraversamento
transculturale tra elementi appartenenti all’immaginario collettivo e istanze individuali di autori che, in
maniera differente, declinano la propria formazione teologica e dottrinaria. I mirabilia sono, infatti, il
117
F. Ortiz, Contrappunto cubano del tabacco e dello zucchero, Roma, Città Aperta, 2007 (ed. or. La Habana, 1940).
B. Malinowski, «Introduzione», in F. Ortiz, Contrappunto cubano del tabacco e dello zucchero.
119
Cfr. W. Welsch, Transculturality : the Puzzling Form of Cultures Today, in Spaces of Culture: City, Nation, World,
ed. by Mike Featherstone and Scott Lash, London, Sage, 1999, pp. 194-213; M. Aime, Eccessi di culture,Torino,
Einaudi, 2004.
120
M. Foucault, Archeologia del sapere, Milano, BUR, 1999 (ed. or. Paris, 1969).
118
26
prodotto dell’opera di creazione e di finzione in cui l’«immaginario e la memoria collettivi» interagiscono
con «gli immaginari e le memorie individuali»121.
Le fonti che i nostri autori utilizzano sono sia libresche sia orali. I capitoli dedicati ai mirabilia di origine
libresca, in particolare quelli orientali, risposano su un procedimento di ripetizione dell’identico che
consolida una tradizione già affermata. Sono oggettivamente i capitoli meno interessanti e innovativi: nel
momento in cui Gervasio di Tilbury si sofferma su alcune meraviglie dell’India e delle regioni limitrofe, la
sua operazione coincide con la trascrizione fedele 122; dicasi ugualemente per la comparazione tracciata da
Giraldo tra le meraviglie d’Oriente e d’Occidente, dove lo straordinario orientale si costruisce attraverso la
successione di topoi. Decisamente più interessanti, invece, le sezioni dedicate alle meraviglie europee,
poiché la contiguità e la vicinanza aprono dimensioni straniate proprio all’interno di universi quotidiani e
familiari. In questo senso, ha ragione Dubost 123 nel sottolineare che l’esitazione fantastica pervade la
letteratura mediolatina in maniera più incisiva rispetto a quella vernacolare. L’inquietudine infatti, nei nostri
testi, non è proiettata verso un altrove distante, ma abita luoghi vicini e raggiungibili. In linea con le
compilazioni storiche e con le raccolte di miracoli, il fatto straordinario per potere assurgere a realtà e verità
deve ricevere il supporto di testimonianze riconoscibili.
Ma soprattutto ciò che determina lo slittamento di alcuni esseri meravigliosi verso la realtà fattuale è
l’acquisizione di una corporeità che trasforma il corpo nel luogo della mediazione transculturale. Attribuire
un corpo ai fantasmi implica una ridefinizione antropologica degli assetti cognitivi e degli immaginari. Ed è
proprio sulla questione del corpo che si incontrano e si fondono istanze provenienti da livelli diversi. Mentre
la riflessione teologica procede a un’operazione analitica e critica che tende a salvaguardare le differenze e le
specificità sostanziali dei due universi celeste e terrestre, smentendo in maniera categorica che esseri
spirituali possano dotarsi di corpi senzienti 124, e meno che mai generanti 125, gli autori mediolatini che
svolgono il ruolo di mediatori 126 procedono ad un’incarnazione dei fantasmi, assumendo una concezione del
corpo che presenta notevoli similitudini con quella che per comodità potremmo definire magica 127. Il corpo
si pone allora come crocevia di percorsi e di trasformazioni più ampie. I mutamenti dell’antropologia
cristiana derivanti o promossi sia dall’impatto sulle prassi penitenziali della categoria abelardiana
dell’intentio e della centralità dell’interiorità, sia dalla diffusione della concezione aristotelica bipartita che
121
M. Augé, La guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction, Milano, Eleuthera, 1998 (ed. or. Paris, 1997), p. 58:
«L’immaginario e la memoria collettivi (IMC) costituiscono una totalità simbolica in riferimento alla quale un gruppo si
definisce, e attraverso la quale esso si riproduce lungo le generazioni con modalità immaginarie. Il complesso IMC
informa evidentemente gli immaginari e le memorie individuali. Esso è anche una fonte delle elaborazioni narrative
abbozzate da creatori più o meno autonomi. Il complesso IMI (immaginario e memoria individuali) può influenzare ed
arricchire il complesso collettivo […] ed è una fonte diretta della creazione letteraria. Ogni creazione, che prenda una
forma sociologica più o meno collettiva, come in caso di colonizzazione o di ri-creazione culturale, può a sua volta
ripercuotersi sugli immaginari individuali come sulla simbologia collettiva».
122
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, dec. III, capp. 82-84.
123
Dubost; Aspects phantastiques, vol. 1, p. 41.
124
A rafforzare la posizione spiritualistica della patristica, basti citare la seguente affermazione di Tommaso d’Aquino,
che affronta ampiamente, all’interno della sua opera omnia, la questione del corpo degli esseri spirituali, Angeli o
Demoni che siano, individuando di volta in volta delle mediazioni teologiche e filosofiche, alcune anche
apparentemente contraddittorie, ma in realtà unificate da un deciso rifiuto delle posizioni realistico-corporeee. In
particolare Super II Sent., lib. 2, d. 8: «Utrum Angeli assumant corpora». Super II Sent., lib. 2, d. 8, q. 1, a. 1:
«Praeterea, omnis substantia vivificans corpus naturaliter sibi unitum, habet potentias aliquas quae sunt actus alicujus
partis corporis. Si ergo Angelus uniatur naturaliter corpori tamquam vivificans illud, oportet quod habeat potentias
affixas organis, sicut sunt potentiae animae sensitivae et nutritivae, quae si in Angelo ponantur, non differret Angelus ab
homine.»
125
Vd. nota 30.
126
Cfr. J. C.Schmitt, «Introduzione», in Religione, folklore e società nell’Occidente medievale, Roma-Bari, Laterza,
2000, pp. 1-27, in particolare, pp. 21-24.
127
Magica in riferimento all’uso e all’accezione che l’aggettivo assume all’interno degli studi di De Martino, tesi a
ricostruire le coordinate del mondo magico, in quanto universo antropologico e categoriale autonomo, fondato su un
«dramma storico» che scaturisce dell’angoscia della «volontà di esserci come presenza davanti al rischio di non
esserci»; E. De Martino, Il mondo magico, Torino, Bollati Boringhieri, 1997 (I ed. 1973), p. 73.
27
sostituisce la tripartizione agostiniana (spiritus, anima, corpo) 128, insieme al graduale ‘naturalismo’ generano
scosse e assestamenti che si riverberano su tutti gli aspetti storico-culturali. Da un lato, infatti, permangono
le tracce lessicali di una separazione tra lo spirituale e il corporeo129 di ascendenza agostiniana, dall’altro,
invece, si impone la necessità di incarnare le phantasiae perché sia possibile attivare una conoscenza per
sensibilia, in cui si fondano modellizzazioni del “mondo magico” e gli influssi della filosofia aristotelica. Il
corpo è dunque il luogo del conflitto tra una gnoseologia che parte dai sensi e che cerca di penetrare i segreti
dell’universo terreno e una teologia simbolica che tende a ricondurre i prodigi ad una realtà sovrasensibile e
divina. In questa direzione tutto ciò che è inquietante e mostruoso cessa di trovare una collocazione armonica
nell’ordine dell’universo e chiede di essere indagato; ed è proprio all’interno di questo percorso d’indagine
che si manifesta il nocciolo delle paure e delle angosce di una coscienza franta. L’ampliamento del campo
del razionale genera così una risorgenza di terrori a cui non si sa dare un nome, se non quello della
demonizzazione. Ma lo stesso processo di demonizzazione si distanzia dagli schemi utilizzati fino ad allora
dalla mentalità simbolica: non più relegate nell’universo illusorio dei signa, le potenze demoniache agiscono
nel regno di natura e acquisiscono uno statuto di realtà fattuale 130 perché il meccanismo simbolico ha cessato
di funzionare.
Nei mirabilia si fondono così differenti livelli e istanze, configurandosi come prodotto transculturale che
vive di reminiscenze di lunga durata, ma si struttura nella sua autonoma novità, integrando cambiamenti
filosofici e risorgenze del «dramma magico» 131, in un momento storico particolare, in cui ai più generali
mutamenti epistemologici si affiancano tensioni che generano paure e angosce, come vedremo nei prossimi
capitoli.
Capitolo 2
La letteratura mediolatina alla corte dei Plantageneti: educere dilectando, tensione didascalica,
pulsione gnoseologica, riconfigurazione delle costellazioni degli immaginari
2.1 Il programma ideologico e culturale della corte Plantageneta: la duplice rielaborazione e fruizione dei
materiali folklorici.
L’importanza rivestita dalla corte Plantageneta per la produzione letteraria medievale è ormai un dato
assodato dalla critica e su cui si insiste fin dagli anni Venti 132, con successive riprese negli anni Quaranta 133 e
oltre. Negli ultimi decenni monografie 134 e studi specifici hanno contribuito a ricostruire in maniera
dettagliata il programma culturale promosso dalla corte Plantageneta. La mitologia arturiana si afferma nella
128
Sull’importanza della concezione aristotelica nella ridefinizione dell’antropologia cristiana, in particolare, in
relazione alla nascita della demonologia, cfr. A. Boureau, Satana eretico. Nascita della demonologia nell’Occidente
medievale (1280-1330), Milano, Baldini e Castoldi, 2006 (ed. or. 2004)
129
Cfr. le definizioni adottate da Walter Map della phantasia e quelle di Gervasio sulle illusiones, infra.
130
Il processo di «oggettivazione» dei fantasmi (cfr. J.C. Schmitt, «Introduzione», in Religione, folklore e società, p.
25) sembra porsi come contraltare, in questo scorcio del XII secolo, della questione teologica della corporeità umana del
Cristo e della transustanziazione, sancita dal Laterano IV; cfr. J. Baschet, La civilisation féodale. De l’an mil à la
colonisation de l’Amérique, Paris, Aubier, 2004, pp. 581-635.
131
De Martino, Il mondo magico. Di particolare interesse la concezione storica di De Martino, che riconosce al dramma
magico la validità di segnalare un momento di passaggio o di frattura. Il mondo magico, p. 81: «In generale il dramma
magico, cioè la lotta dell’esserci attentato e minacciato e il relativo riscatto, insorge in determinati momenti critici
dell’esistenza, quando la presenza è chiamata a uno sforzo più alto del consueto.»
132
Ch. Haskins, «Henri II as Patron of Literature», Essays in Medieval History presented to T.F. Tout, Manchester,
1925, p. 71-77; Id., The Renaissance of the Twelfth Century, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1927.
133 R. Bezzola, Les origines et la formation de la littérature courtoise en Occident (500-1200). Troisième partie : La
société courtoise : littérature de cour et littérature courtoise. Paris, Champion, 1963, voll. 2.
134
M. Aurell, L’empire des Plantagenêt, Paris, Perrin, 2003; Chaou, L’idéologie Plantagenêt.
28
sua forma ‘tecnicizzata’ 135, se è vero che il promotore della figura idealizzata del sovrano bretone è
innanzitutto Enrico II, teso a diffondere attraverso il suo specchio letterario l’immagine di una sovranità in
contrasto con il modello carolingio 136. Dietro la produzione arturiana si dipanano le tensioni politicoideologiche di una monarchia che tende a smarcarsi sia dal modello imperiale che da quello capetingio. La
letteratura arturiana costituisce dunque l’ossatura del grand récit 137 del potere. La figura di Artù, fin
dall’Historia regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, aveva consentito di dare voce all’irredentismo
celtico-bretone e contemporaneamente di esaltare la proficua integrazione anglo-normanna della corona
Plantageneta. Ma se l’operazione propagandistica o manipolatoria che soggiaceva alla rielaborazione del
mitico sovrano, «suzerain et souverain» 138, è stata investigata e svelata dagli studi recenti, più difficile e
ancora avvolta nelle nebbie delle ipotesi resta l’indagine sulla funzione della produzione mediolatina a metà
tra lo svago e l’edificazione. La matrice sicuramente unitaria del programma dei Plantageneti è la ricerca di
una continua commistione di fonti e motivi, tale da costituire un laboratorio di interrelazioni multiculturali,
su cui vigila perennemente la figura del sovrano. Il messaggio più esplicito e di superficie che è possibile
estrapolare dalla congerie di opere latine e volgari direttamente o indirettamente ispirate dalla corte
Plantageneta è che il sovrano sia, anche se primus inter pares, un’istanza suprema di ordine 139. Che sia Artù
della fiction o Enrico II delle opere storiografiche o narrativo-edificanti, nel magma degli incroci dei retaggi
culturali, che vanno dall’antichità classica agli immaginari germanici e celtici, il re garantisce l’unità di
universi poliedrici, all’interno dei quali il meraviglioso non riveste soltanto un ruolo di
intrattenimento/divertissement, risultando al contrario investito da una fondamentale azione ideologica di
riconfigurazione degli immaginari. Operazione che non necessariamente deve essere ascritta ad un intervento
cosciente, dal momento che, sulle orme di Gramsci 140, si può intendere con ideologia una rappresentazione
del mondo, un’immagine culturale, spesso inconscia e irriflessa, tracciabile sul doppio asse della lunga e
della breve durata.
135
Tecnicizzata, secondo l’accezione di Kerenyi, ovvero strumentale ad un’affermazione politica che recide il legame
con l’autenticità del mito. Bisogna, tuttavia, sottolineare, come la mitopoiesi medievale non possa prescindere dalle
pulsioni strettamente politiche e come sia proprio l’incontro proficuo tra istanze delle élite al potere e motivi di
ascendenza ‘folklorica’ a promuovere la produzione di nuovi miti, la cui lunga durata percepiamo ancora oggi. Cfr. K.
Kerenyi, «Introduzione: origine e fondazione della mitologia», in C.G. Jung; K. Kerenyi, Prolegomeni allo studio
scientifico della mitologia, Torino, Bollati Boringhieri, 1972 (ed. or. Lipsia, 1942), pp. 11-44.
136
Cfr. E. Köhler, L’avventura cavalleresca; M. Aurell, L’empire des Plantagenêt; Chaou, L’idéologie des Plantagenêt.
137
J.F. Lyotard, La condizione post-moderna: rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 1981 (ed. or. Paris, 1979). Récit
o discorso secondo la terminologia foucaultiana; cfr. M. Foucault, Archeologia del sapere.
138
Chaou, L’idéologie Plantagenêt, p. 140-152.
139
Enrico II è il sovrano che ristabilisce l’ordine politico e quindi ideologico e culturale. Per quanto riguarda Walter
Map, gli esempi sono citati nel paragrafo seguente; per ciò che concerne le opere storiografiche, si vedano le
affermazioni di Guglielmo di Newburgh, Historia rerum Anglicarum, II, I, p. 101-102: «Anno a partu Verginis
M°C°L°IV° Henricus, Henrici majoris ex filia olim imperatrice nepos post mortem regis Stephanis a Normannia in
Angliam veniens, hereditarium regnum suscepit, conclamatus ab omnibus et consecratus mystica unctione in regem.
[…] Prioris quippe regni, sub quo tota mala pullulaverant, infelicitatem experti, de novo principe meliora sperabant,
praesertim eum praeclara illi prudentia atque constantia cum zelo justitiae inesse viderentur et magni principis jam in
ipsis suis primordiis praeferret imaginem. […] Talia novi principis initia fuere, gratulantibus quidem et laudantibus
pacificis. […] Fugiebant lupi rapaces vel mutantur in oves, aut si non vere mutabantur metu tamen in legum innoxii
cum ovibus morabantur.» Sulla capacità quasi miracolsa di Enrico II di ripristinare la pace, si veda anche l’elogiativo
ritratto di Enrico di Hinton, Historiae Anglorum, ed. Th. Arnold, London, Longman, 1879 (Rerum Britannicarum Medii
Aevi Scriptores) VIII, 40, p. 291: «Rex obiit nec rege carens caret Anglia pace/ Haec, Henrice, creas miracula primus in
orbe». I prodigi, quindi, sono trascritti sotto il regno di Enrico II, ma accadono in epoche più turbolente, come il regno
di Stefano; tra le altre opere si veda anche il Tractatus de purgatorio sancti Patricii, composto da H. di Saltrey tra il
1185 e il 1188, mentre la discesa al purgatorio avviene sotto il regno di Stefano; H. di Saltrey, Tractatus de Purgatorio
sancti Patricii, a cura di K. Warnke, Das Buch vom Espurgatoire S. Patrice de Marie de France und seine Quelle,
Halle/Saale, Niemeyer Verlag, 1938. A questo proposito è interessante notare come in uno dei purgatori più inquietanti
e bizzarri, ovvero il regno di Gulinus, descritto da Pietro di Cornovaglia, R. Easting, «Peter of Cornwall's Account of
St. Patrick Purgatory», Analecta Bollandiana, 97, 1979, pp. 397- 416, l’avventura oltremondana si collochi, invece,
proprio sotto il regno di Enrico II: la corte di Gulinus, evocazione della masnada Hellequin, continua ad agire anche se
in un universo ctonio, nonostante le rassicuranti parole di Walter Map, De nugis, I, XI.
140
A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Torino, Einaudi, 2007, in particolare il libro III.
29
Enrico II colpisce favorevolmente gli intellettuali britannici che gravitano attorno alla sua corte, in quanto
sovrano che in sé racchiude clergie et chevalerie. Il sovrano, infatti, non è «asinus coronatus»141, bensì re
colto, probabilmente istruito, già alla corte del padre, da Guglielmo di Conches 142. L’impronta della sua
formazione sotto la guida di uno dei maestri della scuola di Chartres e, indirettamente, dell’eredità degli
insegnamenti abelardiani, traspare nel vigoroso interesse manifestato dagli intellettuali curiali nei confronti
della ricerca delle cause seconde. La produzione mediolatina, storiografica e narrativa, tentava di
scandagliare i principi regolatori, non solo degli universi naturali, ma anche di quelli culturali. L’essenza
della meraviglia, secondo le parole di Guglielmo di Newburgh, risiede non tanto nella sua rarità, quanto nella
sua causa occulta 143; compito dunque dell’intellettuale è indagare l’occulta ratione, postulando, per il mondo
sublunare, un’autonomia che, in linea con la tendenza espressa dalla filosofia della Scuola di Chartres,
separa natura e fede, cause sublunari e causa prima. Le indagini sul mondo naturale inanimato si
appoggeranno, spesso, sull’osservazione empirica; mentre la ricerca delle cause di fenomeni animati
perturbanti rivelerà un’operatività demoniaca, che agendo nel mondo naturale, si configura sempre più come
contropotere dalla fisionomia incarnata e ‘materialistica’, superando via via l’ortodossia illusionista. Il
folklore celtico o quello germanico venivano così riletti alla lente di una rielaborazione che, condivisa solo
da alcuni ambienti della speculazione teologica sul finire del XII secolo 144, si distanziava dalle posizioni
ortodosse. Al suo interno, centrale si poneva la questione ontologica degli esseri sovrannaturali e diabolici,
questione che risentiva delle più ampie trasformazioni epistemologiche (cfr. cap. 1) e che chiamava in causa
la preoccupazione sostanzialistica alla base del coevo dibattito sulla transustanziazione. Il processo di
demonizzazione di alcune creature meravigiose, dunque, non procedeva unitariamente, essendo possibile
scegliere tra due opzioni: illusionista e realista. Sulla scia di Agostino, l’ortodossia ribadiva, dai penitenziali
fino a Giovanni di Salisbury 145, che il potere illusorio dei demoni poteva generare allucinazioni, ologrammi
dotati di fattezze corporee, ma che corpo non erano. Sulla spinta, invece, di un’indagine razionale che
sempre di più legittimava la conoscenza per sensibilia, la corporeità di certe creature non si riduceva alla
mera metafora, bensì acquisiva una consistenza reale. L’argomento, in sé spinoso e pericoloso, sembrava, nel
corso del XII secolo, rivestire una forte centralità, anche in relazione ad una sempre più radicata misoginia e
all’angoscia generata da dottrine eretiche dualistiche che tendevano a negare la corporeità del Cristo e ad
attribuire al cattivo Demiurgo la creazione di quel corpo da cui doversi liberare per la propria purificazione.
Questo clima si rifletteva anche all’interno della corte di Enrico II, dove i clerici Regis reinterpretavano certi
fenomeni prodigiosi in direzione dell’affermazione di una realtà fattuale degli stessi. E che la rottura
dell’harmonia mundi (cfr. supra, cap. 1) spingesse a ridefinire lo statuto ontologico dei cacodemoni è
confermato dalle pagine del Dragmaticon Philophiae di Guglielmo di Conches, speculum principis, in cui
l’interlocutore del filosofo è proprio il duca di Normandia, Goffredo Plantageneto.
Philosophus: Humectum vero animal aliter est patibile […] Aliquando, assumpto corpore, commiscetur
mulieri, ex qua commixtione frequenter homo generatur.
Dux: Hoc videtur abhorrere a fide.
141
Giovanni di Salisbury, Policraticus, ed. K. S. B. Keats-Rohan, Turnhout, Brepols, 1993, IV, 4: «rex illitteratus quasi
asinus coronatus est».
142
Cfr. P. Delhaye, «Gauthier de Châtillon est-il l'auteur du Moralium dogma?», Namur-Lille, Centre d’études
médiévales, Librairie Giard, 1953; E. Maccagnolo, «Introduzione», in Il divino e il megacosmo. Testi filosofici e
scientifici della scuola di Chartres, Milano, Rusconi, 1980, pp. 47-60; B. Mondin, Storia della teologia, Bologna,
PDUL, Edizioni Studio Domenicano, 1996, vol. 2, pp. 150-153.
143
Guglielmo di Newburgh, Historia Rerum Anglicarum, lib. I, cap. XXVIII, vol. 1, p. 84; cfr. § 1.4.
144
La posizione ‘illusionista’ rispetto ai poteri e alla corporeità delle entità demoniache resta dominante, come abbiamo
visto nel corso del capitolo 1.
145
In riferimento al corteo di Diana, Giovanni di Salisbury, Policraticus, II, 17: «Qui in quosdam exigentibus culpis,
Domino permittente, tanta malitiae suae licentia debacchatur, ut quod in spiritu patiuntur, miserrime et mendacissime
credant in corpore evenire. […] Quid mulierculis et viris simplicioribus et infirmioribus in fide, ista proveniunt.»
30
Philosophus: Si michi non credis, Augustino crede, qui hoc testatur, et ait Hunos in Meotide palude genitos
esse 146.
Discusse le opinioni di coloro i quali interpretano in senso ‘corporeo’, l’aria o meglio lo spirito e le posizioni
contrarie, ovvero spiritualiste, il filosofo, riferendo le parole di Agostino, mette a fuoco lucidamente il nucleo
della questione:
Philosophus: Asserunt quod Augustinus, quando hoc quaerit, qualia copora angeli habeant, de corporibus
quaerit quae assumunt quando hominibus in humana specie apparent. […] De his quaerit Augustinus, an vera
sunt copora humana, an alia speciem hominis habentia 147.
Il terreno d’indagine è tuttavia estremamente infido e così Guglielmo, che nell’opera giovanile, Philosophia
Mundi 148, aveva espresso un parere nettamente spiritualista, per bocca del Duca, interrompe, con queste
parole, l’inchiesta sui demoni:
Dux: De his amplius disputare non est securum. Istis igitus dimissis, de ceteribus invisilibus disserere 149.
La prudenza conclusiva smussa così la precedente affermazione sulla generazione dei demoni ‘incubi’. Lo
slittamento ontologico, espresso dalla parabola del pensiero di Guglielmo di Conches 150, ben si collega a
mutamenti e trasformazioni che attraversano la riflessione colta del secolo XII e che si riverberano
all’interno delle opere mediolatine di area insulare.
Walter Map e Giraldo di Cambria si avvicinano al magma delle credenze e delle narrazioni folkloriche, nel
tentativo di ridefinirne gli impianti epistemici, sottraendole alla mera esistenza allegorica, per trasformarle in
strumenti conoscitivi. L’indagine delle cause sembra così svilupparsi con un movimento parallelo a quello
percorso dalla contemporanea filosofia della natura, la cui legittimità è comunque garantita dal suo fine
ultimo, ovvero la conoscenza di Dio. La medesima teleologia regge i sistemi esplicativi degli autori curiali di
narrazioni ‘fantastiche’. Nella stessa direzione si muoverà Gervasio di Tilbury. Ma laddove Giraldo scorgerà
ancora la profonda unità del creato, Walter Map prima e Gervasio poi, mettono in rilievo la frattura
dell’armonia e la difformità, restituendo un quadro della propria contemporaneità più inquieto e angosciante.
Sotto la tutela dei Plantageneti e in particolare di Enrico II, sembra che il recupero dei materiali folklorici si
svolga sotto una duplice insegna: da un lato la fondazione mitologica arturiana e la formazione di una
letteratura ad alto tasso fizionale, di cui sono consapevoli sia gli autori che i fruitori; dall’altro un processo di
certificazione di veridicità e di realtà di mirabilia che conduce all’incarnazione corporea delle creature
prodigiose. Questa duplicità contraddistinta da un’operazione di mitopoiesi letteraria e da una registrazione
storiografica dei portenti, rivela il fulcro dell’operazione ideologica condotta da Enrico II: l’idealizzazione
146
Gugliemo di Conches, Dragmaticon Philosophiae, ed. I. Ronca, Turnhoult, Brepols, 1997, I, 4, 4-5. Enzo
Maccagnolo, Il divino e il megacosmo, p. 250, sottolinea come il passo non si trovi in Agostino e come la citazione
della provenienza degli Unni dalla Meotide si ritrovi in Gerolamo, Ep. 77, 8 che però non contiene allusioni alla loro
generazione demoniaca.
147
Guglielmo di Conches, Dragmaticon Philosophiae, I, 5, 10.
148
Guglielmo di Conches, Philosophia Mundi; I, 21: « Nos vero plus illorum sententiae accedimus, qui dicunt esse
spiritus».
149
Guglielmo di Conches, Dragmaticon Philosophiae, I, 5, 11.
150
All’interno della produzione di Guglielmo di Conches, il Dragmaticon Philosophiae si configura come l’opera di
rettifica di posizioni estreme sostenute nella Philosophia Mundi. Guglielmo aveva dovuto ritrattare la sua
interpretazione secundum physicam del Genesi, in cui aveva sostenuto il valore esclusivamente metaforico della
concezione di Eva, a seguito degli attacchi di Gugliemo di Saint-Thierry; cfr. M. Lemoine, Intorno a Chartres.
Naturalismso platonico nella tradizione cristiana del sec. XII, Milano, Jaca Book, 1998, p.p. 97-98. Il suo ripensamento
sullo statuto ontologico dei demoni sembra perfettamente ritrarre la situazione dei teologi al riguardo sul finire del
secolo XII: l’oscillazione tra l’ortodossia agostiniana dell’homo phantasticus e del potere illusorio dei demoni e una
concezione sostanzialistica che iniziava a prender piede sulla scorta di diversi fattori (aristotelismo; dibattito sulla
transustanziazione; necessità di combattere il dualismo eretico).
31
del re nasce dalla rilettura mitica dei tempi presenti, secondo un doppio movimento: la proiezione sulle
figure antiche (Artù, Enea, ecc.) dell’attualità della struttura cortigiana del secolo XII; la creazione di
un’atmosfera meravigliosa intessuta di motivi e leggende arcaiche intorno alla figura storica del sovrano. La
mitizzazione si compie, così, contemporaneamente sull’asse paradigmatico e sintagmatico, diacronico e
sincronico. Enrico II e Artù percorrono due percorsi speculari, ma opposti: il sovrano è personaggio storico
sprofondato in una rete di mirabilia che affiorano dalla lunga temporalità dell’immaginario; Artù è
personaggio mitico, che agisce all’interno di una scenografia romanzesca immersa nell’attualità del presente
storico del secolo XII. La ricchezza del mito arturiano risiede proprio nell’intersezione dei due assi, in modo
che Artù appaia sovrano d’altri tempi, sprofondato nella distanza paradigmatica e contemporaneamente
figura regnante che emerge dalla contemporaneità delle relazioni feudali sintagmatiche151. Il procedimento
inverso coinvolge la figura di Enrico II: re storico che si muove in una rete di meraviglie di lunghissima
durata. Se, come sostiene Chaou, nell’immagine sacrale di origine clericale, per Artù, roi souverain, la
meraviglia diviene imprescindibile attributo della regalità152, bisogna allora sottolineare come la stessa figura
di Enrico II sia circonfusa di merveille all’interno delle opere storiografiche o didascalische informate a un
maggiore tasso di veridicità. Per riprendere un’affermazione di Duby, possiamo in effetti confermare che «
les rois doivent vivre environnés de merveille, qui sont l’expression tangible de leur gloire» 153. Ma le
merveilles fantasmatiche della letteratura arturiana si contrappongono ai mirabilia storici e certificati. In
entrambi i campi della produzione letteraria il sovrano è, comunque, principio regolatore degli epifenomeni
straordinari: Artù unifica il caos delle avventure, tanto quanto Enrico II, in Gugliemo di Newburgh 154 come
in Walter Map (cfr. ultra), presiede all’opera di decodifica, di controllo e quindi di riorganizzazione della
congerie di portenti. Ciononostante la concretezza del personaggio storico tende a sminuire il suo alter-ego
letterario, così che Enrico II si ponga come garante di un’operazione mitica che ambisce al rango della verità
e della realtà, preclusa ad Artù, puro ologramma dell’immaginario. Sarà proprio questa duplicità a generare,
all’interno della corte Plantageneta, il conflitto tra la produzione letteraria mediolatina e quella in lingua
volgare. La tradizionale opposizione, spesso invocata dalla critica, tra cultura ecclesiastica e cultura laiconobiliare, sembra in realtà, infrangersi all’interno della corte anglonormanna, dove sono gli stessi clerici
Regis a scagliarsi contro la mendacia delle fabulae romanzesche. Lo afferma Gervasio nella sua introduzione
al libro terzo 155, lo ribadisce Giraldo di Cambria con un’immagine allegorica dotata di una certa forza
dissacrante: gli spiriti immondi, fuggono il Vangelo di Giovanni e si posano sul libro di Goffredo di
Monmouth 156. Alcune credenze di origine ‘folklorica’ ricevono una determinata interpretazione non negli
ambienti clericali ortodossi (monaci e teologi), bensì proprio all’interno di uno spazio laico-nobiliare che al
suo interno procede ad un’organizzazione gerarchica della produzione letteraria, tale per cui i testi
mediolatini, pensati per lo svago e l’insegnamento, confliggano con i testi romanzi, destinati ad una fruizione
da tempo libero.
151
Una bidimensionalità che renderà il personaggio di Artù segno infinito, passibile di aggiunte e trasformazioni,
fruibile ciclicamente in differenti epoche storiche.
152
Chaou, L’idéologie des Plantagenêt, pp. 148-152
153
G. Duby, Guerriers et paysans, VIIᵉ-XIIᵉ siècle. Premier essor de l’économie européenne, Paris, Gallimard, 1973, p.
64.
154
Nell’opera di Guglielmo di Newburgh, i prodigi inquadrano gli anni del regno di Enrico II. La registrazione di
portenta si colloca, non casualemente, negli anni che precedono l’ascesa dei Enrico II (De viridibus pueris, I, XXVII;
De quibusdam prodigiosis, I, XXVIII, 1135-1154) e che seguono la sua morte (De prodigio mortui post sepolturam
oberrantis, V, XXII; De quibusdam prodigiosis, V, XXIII, 1196).
155
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia imperialia, dec. III, Prologus: «Enimvero non ex loquaci ystrionum garrulitate
ocium decet imperiale imbui, sed potius, abiectis importunis fabularum mendaciis, que vetustatis auctoritas
comprobavit aut scripturarum firmavit auctoritas aut cotidiane conspecionis fides oculata testatur ad ocium sacri auditus
sunt ducenda».
156
Giraldo di Cambria, Itinerarium Kambriae, I, 5; Opera; vol. 6. Sulla pretenziosità storica dell’Historia Regum
Britanniae denunciata da Guglielmo di Newburgh, cfr. cap. 1, §1.4, nota 85.Nella stessa direzione, tesa a smentire
l’auorità dell’opera di Goffredo di Monmouth, Guglielmo di Malmesbury, Gesta regum anglorum, III, 287, p. 466, in
riferimento alla tomba di Artù: «Sed Arturis sepulchrum nusquam visitur, unde antiquitas naeniarum adhuc eum
venturum fabulatur».
32
2.2 De Nugis curialium: l’opera ‘inesistente’
La maggior difficoltà ermeneutica posta dall’opera di Map risiede nel suo sfuggente profilo materiale e
nell’indefinibile raggio della sua circolazione. Conservato da un solo manoscritto, in cui il titolo e le rubriche
sono state apposte posteriormente, il testo di Maestro Map sembra profilarsi come una sorta di diario di
bordo delle conversazioni o dei racconti tenuti dallo stesso all’interno delle riunioni cortigiane. Solo la
Dissuasio Valerii ad Rufinum conobbe un discreto successo e una diffusione autonoma 157. Nel tentativo di
scandagliare il significato storico e culturale del De nugis, si incorre dunque nell’incoveniente, non
secondario, di procedere all’analisi di un testo che forse mai fu conosciuto oltre la ristretta cerchia della corte
Plantageneta e il cui influsso sui contemporanei fu forse risibile. Alla paternità di Map, tuttavia, il Medioevo
attribuì una produzione di rime goliardiche latine e la composizione della Queste dou Saint Graal 158,
appartenente al ciclo della Vulgate. Se, tuttavia, l’associazione con la Queste non è da attribuire a puro e
gratuito ludus onomastico, dobbiamo inferire che la fama di Map quale abile narratore di fiction dalla forte
valenza allegorico-simbolica fosse abbastanza consolidata. A questa si affianca l’altra linea che percorre il
De nugis e che si incarna nell’attribuzione proprio a Map di una produzione satirica. La fama del nome
sembra così rendere ragione della caratteristica fisionomia dell’opera rimasta isolata: alto tasso di narratività
e satira corrosiva pervadono numerosi capitoli del De Nugis, a cui bisogna accostare le trattazioni serie,
capaci di costituire la sottotraccia semantica di alcune nugae raccontate.
Composta all’interno della corte di Enrico II Plantageneto, la raccolta di Map ne riflette le tensioni
ideologiche e l’azione culturale promossa dal sovrano. La sua figura, a volte criticata, spesso elogiata emerge
nel suo spessore di re colto e attento, non solo alla materialità del potere, bensì a tutte le sue declinazioni
mitico-simboliche. Se il titolo, posteriore, vuole rinviare, in funzione parodica, 159 al sottotitolo dell’opera di
Giovanni di Salisbury, bisogna sottolineare che le bagattelle di corte non si configurano, in realtà, come un
rovesciamento del genere Speculum principis, ma come una continuazione dello stesso nella direzione del
divertissement didascalico. Educere dilectando sembra essere, infatti, l’imperativo della socialità cortigiana,
alle prese con la costruzione dell’immagine ideale del sovrano. L’intera produzione della corte Plantageneta
si colloca sotto il segno del forte patronage del re: le opere mediolatine scandagliano i territori delle
157
Brooke, Mynors, «Introduction», in Walter Map, De nugis curialium, pp. 1-50.
La quête du Saint-Graal, roman en prose du XIIIe siècle. Texte établi et présenté par Fanni Bogdanow, traduction
par Anne Berrie, Paris, Librairie générale française 2006; explicit : «Et quant Boorz ot contees les aventures del [Saint]
Graal teles come il les ot veues, si furent mises en escrit et gardees en l'armaire de Salebieres, dont Mestre Gautier Map
le[s] trest a fere son livre do Seint Graal por amor do roi Henri son seignor, qui fist l'estoire translater [de latin] en
françois. Si se test a tant [li contes], que plus n'en dit a ceste foiz des Aventures del Seint Graal».
159
Brooke, Mynors, «Introduction», in Walter Map, De nugis curialium, pp. 33-34.
158
33
narrazioni folkloriche, riplasmandale e ordinandole in una direzione normativa. Le credenze ‘popolari’
subiscono un processo di cristianizzazione non per rispondere ad un interesse di riconversione
evangelizzatrice promossa dalla corte, bensì per fare emergere l’azione ordinatrice del sovrano. I racconti
disvelano così il loro potenziale didascalico, tracciando una sorta di piccola enciclopedia del sapere
mondano, quale deve essere praticato da un cortigiano versatile e colto. Walter Map, infatti, è un perfetto
esempio di clericus Regis, ricompensato con cariche ecclesiastiche per i suoi servigi diplomatici. Si tratta,
dunque, di una figura di spicco della corte anglonormanna, inviato in qualità di legato regio presso il
Laterano III, proprio in virtù delle mansioni svolte a corte e del suo alto profilo intellettuale.
2.2.1 La struttura dell’opera
Il titolo dell’opera può essere inferito dalle rubriche, in particolare dall’implicit e dall’explicit in cui si
menziona il nome di Walter Map, autore del De nugis curialium 160. La composizione si distende su un arco
decennale, dal 1180 circa al 1191, riflettendo il carattere frammentario del testo. La fisionomia del De nugis,
così come gli editori moderni ce l’hanno consegnata, emerge in realtà dalla sistemazione tardiva dell’unico
manoscritto quattrocentesco che lo conserva. La maggior parte delle rubriche, infatti, di molto posteriori
all’epoca di composizione sono spesso incoerenti e non congruenti con il contenuto dei capitoli, così come
disordinata è la disposizione di questi 161. Al termine della lettura, tuttavia, è difficile non avvertire, pur nella
frammentarietà, un’architettura unitaria, che, probabilmente non corrispondente in toto alle intenzioni
dell’autore, illumina il suo sommario disegno. Sicuramente Map ha raccolto una serie di storie, arrichite da
personali riflessioni, con l’idea di farne un libro 162, che non avendo visto la luce resta allo stato del work in
progress, nonostante ogni singola distinctio si configuri, forse già nell’ideazione originaria, come miniraccolta di exempla e racconti brevi, a loro volta comunicanti grazie ad una serie di rinvii intratestuali.
All’interno della distinctio I, il frammento I, di composizione unitaria (capp. ii-xviii) 163, sembra proporsi
come ouverture scenica: Map ricostruisce con ironia caustica il palcoscenico all’interno del quale la socialità
cortigiana rappresenta se stessa. La scenografia principale è offerta dalla corte, itinerante e instabile, dunque
sempre estremamente mutevole. Ma il chierico gallese non si accontenta di fornire solo un ritratto della curia
regia; sulla falsariga delle storie universali e delle geografie ecumeniche, Map allarga lo sguardo fino ad
abbracciare la sfera ecclesiastico-monastica così da offrire il panorama totale della società del secolo XII.
All’infernalizzazione della corte 164 affianca la satira sferzante di alcuni ordini monastici e secolari. Completa
il quadro con i capitoli dedicati alle eresie, alle loro insidie e ai loro pericoli. La sua cultura classica si
coniuga alla conoscenza di leggende locali ponendo le basi di quello che sarà il suo modo di procedere nel
corso dell’opera.
La distinctio II è, in massima parte, consacrata ai racconti ‘fantastici’ locali, ovvero gallesi, mentre la
distinctio III contiene una serie di brevi storie epico-eroiche. La distinctio IV si apre con un pamphlet
misogino (la Dissuasio) e continua sullo stesso tono con narrazioni di varia provenienza, tese a dimostrare la
perfidia e la pericolosità femminili. La distinctio V si sofferma su alcuni aneddoti che riguardano nobili
personaggi pressoché coevi di Map, chiudendosi con un incompleto riepilogo dell’intero libro. La cifra
ideologica che percorre l’intero testo è sicuramente un forte sentimento misoneista e misogino, come ben
evidenziato da Fortunata Latella 165.
160
Ivi, pp. 32-45.
Cfr. Brooke, Mynors, «Introduction», in Walter Map, De nugis curialium, pp. 26-32 ; cfr. J. Hinton, «Walter Map's
De nugis curialium: Its Plan and Composition», PMLA, 32 (1917), pp. 81-132.
162
Walter Map, De nugis curialium, IV, 2: «Hunc in curia regis Henrici libellum raptim annotavi scedulis et a corde
meo violenter extorsi, domini mei preceptis conatus».
163
Cfr. Hinton, «Walter Map's De nugis curialium», pp.94-111 ; 117-121.
164
L. Harf-Lancner, «L'Enfer de la cour: la cour d'Henri II Plantagenet et la Mesnie Hellequin dans l’œuvre de Jean de
Salisbury, de Gautier Map, de Pierre de Blois, de Giraud de Barri», in L'État et les aristocraties (XIIᵉ-XVIIIᵉ siècle,
France, Angleterre, Écosse), Paris, 1989, pp. 27-50.
165
F. Latella, «Introduzione», in Walter Map, Svaghi di corte, Parma, Patriche, 1990, pp. 7-25.
161
34
2.2.3 La fucina del racconto: intenzione estetica e manipolazione ideologica
Come sottolineato dagli editori, il De nugis è un testo estremamente eterogeneo non solo nei contenuti, ma
anche nei toni, alternando e intersecando ironia e gravità. Filo conduttore è sicuramente una volontà
didascalica e divulgativa, attraverso le risorse piacevoli della narrazione.
Dicta scilicet et facta que nondum littere tradita sunt, quecunque didici conspeccius habere miraculum, ut
recitacio placeat et ad mores tendat instruccio. Meum autem inde propositum est nichil novi cudere, nichil
falsitatis inferre ; sed quecunque scio ex visu vel credo ex auditu pro viribus explicare 166.
La preoccupazione della verità e, all’interno di questa, la distinzione tra la testimonianza oculare e quella
orale, percorre l’intera letteratura storiografica o edificante, tanto da diventare per Map dichiarazione
reiterata a difesa della credibilità delle sue narrazioni.
Ineptum me fateor et insulsum poetam, at non falsigrafum; non enim mentitur qui recitat, sed qui fingit 167.
Ciò che colpisce, però, è proprio la commistione dei toni, tanto che si fatica a distinguere le narrazioni
ironico-giocose da quelle serie. Eppure, non tutti i racconti si collocano sullo stesso piano, riflettendo alcuni
paure e inquietudini profonde e radicate.
La vis del moralista demolisce le storture etiche di categorie sociali e ordini religiosi avidi e arrivisti. La
polemica contro alcuni ordini monastici, in particolare i Cistercensi, risente certamente della politica regia,
tesa a tutelare i diritti delle aristocrazie nobiliari contro gli sconfinamenti da parte del clero regolare e
secolare. Nella difesa di Abelardo contro Bernardo (De nugis I, 23), il nostro autore esprime probabilmente
posizioni in linea con il milieu filosofico predominante tra gli intellettuali Regis o comunque vicini alla
curia, sicuramente maggiormente influenzati dal maestro parigino e da quelli di Chartres 168 che dal
misticismo cistercense.
Lo spaccato della curia (dist. I, I) che emerge dalle pagine di Map deriva in parte da immagini convenzionali
codificate (l’adulazione, l’instabilità della propria posizione a corte, la promozione degli incapaci, in una
parola la fortuna quale motore della mobilità sociale), dall’altra da esperienze reali che danno spessore alle
sue parole. Il ritratto del sovrano è lusinghiero ed è fondato sulla sua estrema capacità di controllo e di
intervento in tutti i settori. Il sovrano è istanza di ordine, questo è il ritratto che affiora al termine della lettura
del primo frammento 169. La masnada di Herla ha smesso di infestare i territori della corona da quando Enrico
II è salito al trono 170; le eresie non hanno mai avuto modo di attecchire nei possedimenti nordici del re 171.
Proprio a proposito delle eresie, è possibile mettere in luce il procedimento di produzione narrativa attuato da
Walter Map. Parlando, infatti, dei Brebanzons, mercenari al soldo di Stefano di Blois, cacciati da Enrico II,
vediamo come sull’aneddotica storica Map tessa una trama di motivi orrifici che lasciano il lettore in
sospeso: l’autore sta esagerando a fini puramente artistici ed estetici oppure l’amplificatio concorre a dare
maggiore credibilità al racconto così che la demonizzazione si collochi sul versante serio e non parodico?
Benché sia difficile stabilire se l’ordine dei capitoli sia quello ipotizzato dallo stesso Map, è indubbio che il
copista/compilatore successivo abbia seguito una traccia tematica abbastanza coerente: alla descrizione della
166
Walter Map, De nugis crurialium, I, 12, p. 36.
Ivi, I, 25, p. 112.
168
Si pensi all’influsso di Gugliemo di Conches nella formazione del sovrano o alla centralità che ebbero Abelardo, lo
stesso Guglielmo e Bernardo di Chartres nell’istruzione di Giovanni di Salisbury, segretario di Thomas Becket; cfr. M.
Dal Pra, Giovanni di Salisbury, Milano, Bocca, 1951.
169
Un’immagine che Walter Map condivide anche con altri storiografi pur non appartenenti direttamente alla curia
regia; cfr. Guglielmo di Newburgh, Historia rerum Anglicarum, lib. II, cap. 1, pp. 101-102; Chaou, L’idéologie
Plantagenêt.
170
Walter Map, De nugis curialium, I, 11, p. 30 : «Ultimo tamen, ut aiunt, anno primo coronacionis nostri regis Henrici
cessavit regnum nostrum celebriter ut ante visitare. … Quievit autem ab illa hora fantasticus ille circuitus».
171
Walter Map, De nugis curialium, I, 29: «Rex noster eciam Henricus secundus ab omnibus terris suis arcet hereseos
nove dampnossimam sectam».
167
35
corte, segue la ricostruzione sulle origini degli ordini monastici a cui si collegano i capitoli sulle sette
eretiche. Non casualmente, inoltre, al termine dell’invettiva contro i Cistercensi, ordine inviso all’autore
gallese, inizia la disquisizione contro gli eretici. Il capitolo 29 tratta della setta nata in Brabante, da cui il
nome di Brebazonum. In Guglielmo di Newburgh lo stesso episodio è narrato nei seguenti termini:
Denique edicto praecepit, ut illi, qui ex gentibus exteris in Angliam, sub rege Stephano praedarum gratia
tanquam ad militandum confluxerant, et maxime Flandrenses, quorum magna tunc Angliae incubabat
multitudo, propriis regionis redderentur, fatalem eis diem constituens, quem in Anglia sustinere certi foret
discriminis. Quo edidcto pavefacti, ita in brevi dilapsi sunt, ut quasi phantasmata in momento disparuisse
viderentur, stupentibus plurimis quomodo repente evanuissent 172.
In Walter Map, che, secondo gli editori, intende parodiare l’associazione tra eretici e routiers, ripresa nel
1215 da Innocenzo III, il testo assume il seguente andamento:
Rex noster eciam Henricus secundus ab omnibus terris suis arcet hereseos nove dampnosissimam sectam,
que scilicet ore confitetur de Christo quicquid et nos, sed factis multorum milium turmis, quas ruttas vocant,
armati penitus a vertice ad palntas corio, calibe, fustibus et ferro monasteria, villas, urbes in favillas redigunt,
adulteria violenter et sine delectu perpetrant […] Hec autem orta est in Brebanno, unde dicitur Brebeazonum
[…] Multiplicati sunt iam super omnem numerum, invalueruntque phalanges Leviathan 173.
Gli editori di Map sostengono 174 che l’autore gallese sia stato il primo ad attribuire connotazioni eretiche ai
Brabanti. In realtà, questa affermazione non è corretta, poiché proprio il canone 27 del Concilio Laterano III
(1179) 175, a cui Map aveva partecipato come delegato regio, stabiliva un nesso stringente tra le eresie dei
Catari e le bande dei mercenari Brabanti, Aragonesi, Navarresi, Baschi, Coterelli e Triaverdini. Il canone
suddetto inaugurava la stagione delle crociate contro gli eretici e autorizzava l’anatema e la persecuzione per
opera del braccio secolare. Inoltre lo stesso canone impiegava, per designare la setta catara, una sinonimia
largamente adottata nei testi coevi e successivi: Catari, Patarini, Publicani 176. Nel capitolo 30, Walter Map
utilizza gli stessi termini, Publicani vel Paterini, evidentemente influenzato dalle decisioni conciliari. Risulta
abbastanza difficile pensare che il tono adottato dal nostro chierico all’interno dei capitoli 29-31 sia
canzonatorio e satirico, dal momento che l’eresia di certo costituiva un argomento grave, che generava
proccupazioni e timori. Né sembra plausibile che Enrico II prendesse sotto gamba un simile fenomeno
all’interno dei suoi possedimenti, proprio nel momento in cui procedeva al ripristino di quella autorità regia,
indebolita dalla lunga fase di anarchia. Lo stesso Guglielmo di Newburgh conferma il sollecito intervento del
172
Guglielmo di Newburgh, Historia Rerum Anglicarum, II, 1, p. 91. Il riferimento allo stesso episodio si trova anche
nella Chronica S. Bertini di Johannes ab Ipra (sec. XIII), Monumenta Germaniae Historica, t. XXV, Hannover, 1880,
pars 5, p. 803 «Anno Domini MCLIV. Stephanus, rex Angliae moritur, cui successit Henricus junior … qui Flamingos
odio persequens Willermus de Ipra cum eis expulit ab Anglia.»
173
Walter Map, De nugis curialium, I, 29, p. 118.
174
Walter Map, De nugis curialium, p. 119, nota 1.
175
G.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, Venezia, 1778, vol. 22, [129] 231-232, can. 27:
«De Brabantionibus et Aragonensibus Navarriis Basculis Coterellis et Triaverdinis qui tantam in christianos
immanitatem exercent ut nec ecclesiis nec monasteriis deferant non viduis et pupillis non senibus et pueris nec cuilibet
parcant aetati aut sexui sed more paganorum omnia perdant et vastent similiter constituimus ut qui eos conduxerint vel
tenuerint vel foverint per regiones in quibus taliter debacchantur in dominicis et aliis solemnibus diebus per ecclesias
publice denuntientur et eadem omnino sententia et poena cum praedictis haereticis habeantur adstricti nec ad
communionem recipiantur ecclesiae nisi societate illa pestifera et haeresi abiuratis».
176
Ibidem: « Ea propter quia in Gasconia Albigesio et partibus Tolosanis et aliis locis ita haereticorum quos alii
catharos alii Patarinos alii publicanos alii aliis nominibus vocant invaluit damnata perversitas ut iam non in occulto sicut
aliqui nequitiam suam exerceant sed suum errorem publice manifestent et ad suum consensum simplices attrahant et
infirmos eos et defensores eorum et receptores anathemati decernimus subiacere et sub anathemate prohibemus ne quis
eos in domibus vel in terra sua tenere vel fovere vel negotiationem cum eis exercere praesumat».
36
sovrano per estirpare l’eresia 177. L’attenzione di Walter Map per la stringente attualità illumina di
conseguenza anche la sua attività di narratore ‘fantastico’, le cui storie svelano il loro potenziale semantico
alla lente di una funzionalità didattica e quindi di un’operazione ideologica di riuso dei materiali folclorici,
inscindibile dalla pulsione a negoziare con le paure.
Se uno degli scopi del nostro narratore era quello di educere, è indubbio che alcuni racconti avessero più di
altri un andamento edificante e autorevole. In particolare quelli accolti all’interno di questo primo frammento
che, nella sua articolazione, riflette la scansione e l’ordine delle questioni normate dai ventisette canoni del
Laterano III 178 e la cui composizione risale agli anni 1180-1185.
Tra la scomparsa improvvisa e la consistenza quasi fantasmatica delle bande di Brabanti descritte da
Guglielmo e le falangi del Leviatano di Map intercorre dunque la distanza che separa un’opera storica da una
di finzione. L’amplificatio retorica, tuttavia, non risponde solo ad istanze artistiche, ma concorre a dar forma,
certo una forma esteticamente fruibile, quindi piacevole e godibile, ad una precisa posizione ideologica:
l’attacco alle eresie. La demonizzazione, inoltre, consente di dare leggibilità ai fenomeni e di esorcizzare il
senso di accerchiamento che le turbe di eretici suscitano. Nei confronti delle eresie, infatti, l’ortodossia
sviluppò il terrore da contagio 179, prodigandosi per diffonderlo in tutti gli strati sociali. La stessa paura che
invade e pervade le pagine di Map 180. Il merito del sovrano è quello di aver estirpato il germe della pestilenza
e di averne evitato la diffusione nei suoi possidementi insulari e nord-continentali 181.
Nel capitolo 30 Map affronta la questione della setta dei Catari, confusi, in linea con la polemistica cristiana
coeva, con i Patarini, i Publicani e i Luciferani. Le argomentazioni teologiche vertono sui due punti fondanti
la dottrina catara: la negazione dell’umanità di Cristo e quindi della transustanziazione dell’eucarestia; il
tentativo di superare la prigione corporale dell’anima. Nel suo Contra haereticos, Alano di Lilla, pur
riprendendo la tradizione patristica antimanichea, si concentra sugli stessi snodi, a testimonianza che
all’interno del Laterano III, ci si era particolarmente soffermati su entrambe le questioni. Anche Alano di
Lilla prese parte ai lavori conciliari 182. L’uso della stessa infamante paraetimologia da parte di Walter Map e
di Alano di Lilla non è dunque mera coincidenza. Gli eretici negano qualsiasi validità al sacramento
dell’eucarestia e praticano una pericolosa promiscuità, nonché una blasfema idolatria, adorando il demonio
sotto forma di gatto nero. La breve notazione diffamatoria riportata da Alano di Lilla 183, acquista in Map un
andamento descrittivo che culmina nella diegesi esemplare degli eretici bruciati a Vienne. Map fornisce,
innanzitutto, una descrizione puntuale sia dei modi di vita dei catari/patarini, sia delle loro nefande riunioni:
la vita comunitaria all’interno delle case degli adepti, riconoscibili dal fumo; l’adorazione del gatto nero
177
Guglielmo di Newburgh, Historia rerum Anglicarum, II, XIII: «De haereticis Angliam ingressis et quomodo
exterminati sunt.» L’anno di riferimento è il 1160.
178
Il canone 9, per esempio, richiama i Templari e gli Ospitalieri – a cui Map dedica i capitoli 18 e 23- alla
osservazione delle norme canoniche. Altri canoni riguardano la moralità del clero, la condanna della simonia, la
legittimazione dell’antiebraismo, gli eretici, argomenti affrontati ugualmente da Map.
179
Bernardo di Clairvaux utilizza i versetti del Cantico dei Cantici (2,15: «Capite nobis vulpes parvulas quae
demoliuntur nineas») per istituire il paragone tra le volpi che insidiosamente devastano la vigna del Signore e gli eretici,
Sermones in Cantica Canticorum, edidit H. Hurter J.S., Paris-London, Lethielleux-Nutt, 1888, Sermo LXIV, p. 522:
«Item de haereticis, vilpibus Ecclesiae capiendis». Le volpi numerose assaltano e accerchiano l’ Ecclesia.
180
Walter Map, De nugis curialium, I, 30, p. 120 : «Aiunt eciam compatriote sui, quod convivas suos in aliquo
ferculorum suorum capiunt, et fiunt ut ipsi, quos scilicet predicationibus ocultis quas vulgo faciunt attemptare non
audent» La notazione si riferisce alle modalità di irretimento messe in campo dagli eretici.
181
In questi termini si esprime Guglielmo di Newburgh a proposito dell’eresia Publicana o Patarina, Historia rerum
Anglicarum, II, XIII, p. 131: «virus suae perfidiae infunderunt»; «hac peste infecti»; sulla loro capacità di
dissimulazione, p. 132: «praetenta specie pietatis, seducendo simplices»; «pestibus haereticis»; p. 134: «Huius
severitatius prius rigor non solum a pesta illa quae jam irrepserat, Angliae regnum purgavit.»
182
Cfr. W. Turner, «Alain de l'Isle», The Catholic Encyclopedia. Vol. 1. New York, Robert Appleton Company, 1907.
7 Nov. 2012 http://www.newadvent.org/cathen/01244e.htm. Significativo anche il successivo ingresso di Alano
nell’ordine cistercense.
183
Alano di Lilla, De fide catholica contra Haereticos libri quattuor, lib. I, 249, PL, 210, col. 366: «Vel Cathari
dicuntur a cato, quia, ut dicitur, osculantur posteriora catti, in cujus specie, ut dicunt apparet eis Lucifer». Le
similitudini e i collegamenti con la setta dei Luciferani, preseguitati da Corrado di Marburgo e i cui rituali costituiscono
l’argomento della bolla Vox in rama di Gregorio IX sono già stati ampiamenti analizzati dalla storiografia sulle eresie.
37
all’interno delle loro dimore, sinagogae, e i rituali orgiastici; il potere incantatorio e illusorio posseduto e
praticato dagli eretici al pari di maghi 184. Gli eretici sono capaci di produrre praestigia per irretire coloro che
non riescono ad avvicinare tramite la predicazione privata. È interessante rilevare come la modalità di
irretimento concorra a potenziare la paura del contagio: la conversione alla fede eretica avviene tramite
l’ingestione di cibi manipolati e alterati (infra, n. 45). Ma soprattutto ciò che inquieta è la dissimulazione
degli eretici, interni alla societas christiana e non sempre facilmente individuabili 185. L’ultimo capitolo
dedicato alle eresie, narra l’esame di fede condotto proprio da Walter Map nei confronti di due valdesi
durante il concilio Laterano III. Map dimostra tutta la propria perizia teologica, umiliando l’ignoranza degli
illitterati che pretendono di predicare la profondissima parola divina in volgare senza la mediazione del
clero 186.
Il capitolo si chiude con una perorazione a favore della propria opera e della scelta di narrare episodi o
aneddoti contemporanei, siano essi storici o fittizi, poiché l’esegesi medievale pone sempre, oltre la littera,
la validità di una sententia che sia innanzitutto morale e edificante. Sia nella conclusione del capitolo 31,
dist. I, che nel prologo alla distinctio II, Map insiste sul valore didascalico delle storie e delle fabulae,
avendo ben presente la distinzione tra «historia, que veritate nititur, et fabula, que ficta contexit» 187. Le
narrazioni ‘fantastiche’ (de aparicionibus fantasticis) di Map, però, a differenza delle fabulae, si dispongono
su un piano bidimensionale: un asse storico su cui collocare protagonisti ed eventi facilmente identificabili
che garantiscano la veridicità dei racconti e ne convalidino il valore documentario e probatorio; un asse
mitico da cui affiorino le configurazioni archetipiche che nutrono le memorie culturali.
Il funzionamento bidimensionale (asse storico/asse mitico) delle narrazioni fantastiche consente, inoltre,
l’utilizzo propagandistico e politico di certe leggende. L’asse storico, in questi casi, traccia le coordinate per
inquadrare famiglie di oppositori. Map procede, infatti, ad una sorte di demonizzazione di alcune famiglie
nobiliari gallesi, anglo-sassoni o normanne che si opposero a Guglielmo il Conquistatore e ai suoi successori.
Nel caso di Wastinius Wastiniac, in realtà, non si tratta di oppositori, quanto di delegittimazione di una
dinastia di re gallesi, eponimi fondatori del Brycheiniog (Breconshire) 188. Il sostantivo che descrive
l’avventura di Wastinius, tuttavia, è portentum, termine di ascendenza isidoriana che sembra depotenziare il
dispositivo diabolico.
Aliud non miraculum, sed portentum nobis Walenses referunt 189.
Il nucleo mitico è quello della donna-cigno, che rapita al suo regno impone all’umano il rispetto di un tabù,
regolarmente infranto al punto da causare la scomparsa della donna sovrannaturale. Nessuna scelta lessicale
marcata designa la donna: nel brano non compare l’aggettivo phantastica, né pestilente. La donna genera una
184
Gli eretici, infatti, la prima volta, escono illesi dal fuoco, come accade anche in Cesario di Heisterbach, cfr. Cesario
di Heisterbach, Dialogus miraculorum, ed. H. Schneider, Turnhout, Brepols, 2009, V, XVIII: «De duobus haereticis,
qui apud Bizunzium miraculis phantasticis multis deceptis, ibidem exusti sunt».
185
Sempre Bernardo individua la maggiore perfidia degli eretici nella loro capacità di dissimulazione: Sermones in
Cantica, Sermo LXV, p. 542 : «Cumque pateat opus, non apparet auctor : ita per ea quae in facie sunt cuncta
dissimulat».
186
Per cogliere in flagrante eresia i valdesi, Walter Map utilizza la definizione nestoriana Christotokos, Madre di Cristo,
dichiarata eretica durante il Concilio di Efeso (431d.C.), in quanto tendente a negare la divinità del Cristo. Il dogma
approvato dal Concilio, infatti, ribadisce la doppia natura umana e divina di Cristo e riserva alla Vergine Maria
l’appellativo di Theotokos, Madre di Dio. Cfr. Capitula pseudo-Celestina seu Indiculus, in E. Denzinger, A.
Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Bologna, EDB, 1995, n.
250: «Et quamvis naturae sint diversae, vera tamen unione coeuntes unum nobis Christum et Filium effecerunt ; non
quod naturarum differentia propter unionem sublata sit, verum quod divinitas et humanitas secreta quadam ineffabilique
coniunctione in una persona unum nobis Jesum Christum et Filium constituerint. […] Ita [sancti Patres] non
dubitaverunt sacram Virginem Deiparam appellare, non quod Verbi natura ipsiusve divinitas ortus sui principium ex
sancta Virgine sumpserit, sed quod sacrum illud corpus anima intellegente perfectum ex ea traxerit, cui et Dei Verbum,
secundum hypostasim unitum, secundum carnem natum dicitur».
187
Walter Map, De nugis curialium, I, 31, p. 128.
188
Walter Map, De nugis curialium, II, 11, p. 149, n. 3.
189
Ivi, p. 148.
38
prole che scompare con lei nello stagno. Si salva soltanto un figlio: Triunein Vagelauc, uomo ambizioso e
audace, di cui si perdono le tracce. A questo proposito Map aggiunge:
Quod autem aiunt Triunein a matre sua servatum, et cum ipsa in lacu illo vivere unde supra mencio est, imo
et mendacium puto, quod de non invento fingi potuit error huiusmodi 190.
È chiaro, dunque, che non tutti i racconti folklorici si risolvono sullo stesso piano semantico, dal momento
che talune fabulae non accampano pretese di verità. L’ambiguità concettuale del chierico dinanzi alle
apariciones fantasticae si riflette nella scelta terminologica che sembra collocare la sua riflessione all’interno
delle coordinate teoriche agostiniane e patristiche: la distinzione tra mirabile, prodigio e fantastico è ancora
nitida e esplicita. Mirabiles/mirabiliter si riferisce alla sfera del miracolo divino 191; prodigium, invece,
attiene la sfera delle apparizioni dei morti 192; phantasia descrive le femminili incarnazioni del demonio;
portentum un evento straordinario che maschera un’ignota causa naturale 193, come nel caso del racconto di
Wastinius Wastiniac, in cui la scomparsa di Triunein nel lago cela un probabile annegamento. Il portentum,
tuttavia, è marcato da una forte indeterminatezza, rinviando a tutto ciò che è instabile e che si trasforma,
come insegna Isidoro e come in parte dimostra il racconto di Wastinius, essendo la donna del lago creatura
metamorfica 194. Il côté demoniaco risulta, nondimeno, estremanente sfumato.
Nel capitolo successivo, dist. II, cap. 12, però, il tono cambia notevolmente. Il protagonista, Enrico il
Selvaggio, signore di Lydham che per un breve periodo si oppose a re Guglielmo il Conquistatore 195, sposa
una donna di meravigliosa bellezza, sottratta ad un banchetto femminile che si svolge all’interno di una
Ghilda 196. Enrico, smarritosi dopo una battuta di caccia in una fitta foresta, si imbatte a mezzanotte in una
strana e ampia costruzione all’interno della quale scorge delle donne magnifiche mentre banchettano,
cantano, danzano. L’influsso della letteratura di finzione è indubbio: la situazione iniziale, l’innamoramento,
le nozze evocano altrettanti luoghi narrativi già percorsi da lais e romanzi. Map, infatti, è conoscitore della
letteratura ovidiana e di quella cortese: per descrivere la nascita dell’amore ricorre dunque alla classica
metafora del vulnus Cupidinis e delle fiamme d’amore. L’impavido cavaliere, accecato d’amore, ignora gli
errores riferiti dal popolo, ovvero le scorrerie delle phalanges demonum, al seguito di Dictinna, dei Driadi e
dei Lari e rapisce la bella dama. Trascorsi tre giorni in assoluto silenzio, il quarto giorno la donna gli
promette felicità e prosperità a patto che egli non menzioni mai pubblicamente le sue sorelle o il luogo da cui
è stata rapita. A differenza della donna di Wastinius, la fanciulla di Enrico è qualificata, come la moglie di
Henno, pulcherrime pestis, e l’evocazione del corteo di Diana concorre a potenziarne gli aspetti malefici.
Tutti gli elementi gravati dal sospetto diabolico si riscattano soltanto nella conclusione agiografica della
biografia del figlio di Enrico.
190
Walter Map, De nugis curialium, II, 11, p. 154.
I capitoli 18 e 19, dist. I; 32, dist. 32 riferiscono mirabilia miracolosi occorsi rispettivamente ad un Templare, prima
della corruzione, ad un cavaliere e a tre eremiti.
192
Walter Map, De nugis curialium, dist. II, capp. 27-30.
193
Cfr. Isidoro di Siviglia, Etymologiarum, XI, III, 1; cfr. cap. 1; 1.4.
191
194
Isidoro di Siviglia, Etymologiarum, XI, III, 6: « Nam portenta sunt quae transfigurantur, sicut fertur in Umbria
mulierem peperisse serpentem.» Walter Map, De nugis curialium, II, 11, p. 148: «Et secutum eum eas fuisse donec in
aqua stagni submergerentur». Il fatto che le donne sprofondino nell’acqua è indice della loro natura ibrida, acuatica e
terrestre, creature dunque capaci di trasfromarsi.
195
Walter Map, De nugis curialium, II, 12, p. 154, n. 1.
La storia di Enrico il Selvaggio sviluppa in direzione romanzesca il sintetico schema narrativo del racconto di
Wastinius: nel gioco dei parallelismi e dei rinvii intratestuali, Map utilizza spesso dei racconti brevi e schematici come
introiti a quelli successivi più lunghi e articolati. Cfr. dist. IV, 10.
196
39
È sempre arduo interpretare l’intenzione di Map, soprattutto quando il nucleo folklorico è quasi sopraffatto
dalle reminiscenze classiche 197 e dagli intertesti cortesi. In questo caso l’intertesto facilmente riconoscibile è
il Lanval/Graelent di Maria di Francia. Lo smarrimento iniziale e la presentazione alla corte londinese di
Guglielmo il Bastardo198 della donna meravigliosa ne costituiscono le tracce esplicite. L’unione tra un
mortale e un essere ferico, tuttavia, non riposa, nella letteratura mediolatina, sulla perpetuità che sostanzia il
sogno utopico del racconto morganiano, ben radicato all’interno di lais e romanzi 199: la tipologia melusiniana
è dominante e tra i due universi si innalza una barriera di incomunicabilità e di netta separazione, rafforzata
dalla progenie maledetta che le melusine lasciano sulla terra. Alla qualità eterea e fantasmatica della fata
morganiana, i testi mediolatini contrappongono l’incarnazione dei fantasmi in corpi capaci di generare esseri
ibridi, contraddistinti da visibili segni di alterità. Il figlio di Enrico, Alnodus, paralitico e malato guarisce
grazie all’intervento miracoloso del re santo Edelberto, a cui devolve in perpetuo i suoi possedimenti di
Lyndbury. La conclusione si configura come glossa filosofica e morale dell’intero racconto: le donne
sconosciute, rapite nei boschi, appartengono alla schiera degli incubi e dei succubi; la loro realtà è garantita
dalla presenza dei figli.
Audivimus demones incubos et succubos et concubitus eorum periculosos; heredes autem eorum aut
sobolem felici fine beatam in antiquiis hystoriis aut raro aut nunquam legimus, ut Alnodi qui totam
hereditatem suam Christo pro sanitate sua retribuit, et in eius obsequiis residuum vite peregrinus
exependit 200.
In relazione al dibattito sull’illusorietà/realtà delle creature demoniache, Map esprime, dunque, un
mutamento antropologico ed epistemologico che investe lo statuto ontologico di alcuni esseri, portatori di
pericolosi disvalori e collettori di paure e inquietudini. Ma il quadro concettuale, all’epoca di Map, è ancora
estremamente fluido e dinamico (cfr. capitolo 1,§), tanto che nel capitolo successivo, dist. II, 13, l’autore,
ricollocandosi nell’alveo delle definizioni patristiche ortodosse, sente la necessità di fornire la definizione
teorica del fantasma, definizione che ambisce a porsi come chiave di volta per l’interpretazione delle
apparizioni narrate.
A fantasia, quod est aparicio transiens, dicitur fantasma; ille enim aparencie quas aliquibus interdum
demones per se faciunt a Deo prius accepta licentia, aut innocenter transeunt aut nocenter, secundum quod
Dominus inducens eas aut conservat aut deserit et temptari permittit. Et quid de his fantasticis dicendum
casibus, qui manent et bona se successione perpetuant, ut hic Alnodus … Audienda sunt opera et
permissiones Domini cum omni paciencia, et ipse laudandus in singulis, quia sicut ipse incompehensibilis
est, sic opera sua nostras transcendunt inquisiciones et disputaciones evadunt, et quicquid de puritate ispius a
nobis excogitari postest aut sciri, si quid scimus, id videtur habere, cum totus ipse sit vera puritas et pura
veritas 201.
Il fantasma, quindi, è un’apparizione evocata dai demoni con il permesso divino, il quale concede che
l’apparizione sia «innocenter» o «nocenter». In contrasto, tuttavia, con la definizione di fantasma, aparicio
transiens, si pone la generazione di una prole, in alcuni casi benedetta (Alnodus). Il lettore e l’autore si
197
I rischi incorsi dagli incauti spettatori delle riunioni degli esseri sovrannaturali, ricordano i tabù vigenti sulle dee al
bagno o nei boschi, narrati ad esempio da Ovidio nella metamorfosi di Atteone.
198
Walter Map, De nugis curialium, II, 12, p. 156-158 : «inaudita specie mulieris». La dama di Lanval si presenta alla
corte di Artù a difesa del suo amante ingiustamente accusato dalla regina. Maria di Francia, Lais, a cura di G. Angeli,
Milano, Mondadori, 1983, pp. 125-162; Lais bretons (XIIᵉ-XIIIᵉ siècles): Marie de France et ses contemporains, ed. N.
Koble-M. Séguy. Paris, Champion, 2011; Lanval, pp. 334-387.
199
Cfr. L. Harf-Lancner, Morgana e Melusina: la nascita delle fate nel Medioevo, Torino, Einaudi, 1989 (ed. or.,
Genève, 1984).
200
Walter Map, De nugis curialium, II, 12, p. 158.
201
Walter Map, De nugis curialium, II, 13, p. 160.
40
ritroverebbero così prigionieri di un’insanabile aporia se non intervenissero l’onnipotenza divina e
l’imperscrutabilità dei suoi disegni a garantire la ratio di certi fenomeni, anche se la possibilità che il
fantasma si incarni non è molto rassicurante: nonostante la misericordia di Dio, è sempre possibile che
qualche agente maligno nuoccia realmente e fisicamente.
La distinzione tra demoni innocui e demoni nocivi non ubbidisce soltanto al rispetto della demonologia
ortodossa 202, risultando funzionale al nostro autore per operare delle distinzioni di genere che riflettono la
sua concezione fortemente misogina. Map distingue, infatti, tra i demoni che si manifestano sotto spoglie
femminili, malefici e perniciosi, e i demoni che assumono tratti zoomorfi o maschili, su cui è possibile
esercitare un certo razionalismo compassionevole, in grado di illustrarne origini e funzioni. Agli uomini
traviati dalle apparizioni maschili è concesso il beneficio del pentimento e quindi del perdono; diverso,
invece, il giudizio riservato alla prole maledetta delle donne ‘fantastiche’ e agli uomini ad esse legati. Su di
loro aleggia una sorta di maledizione infernale.
La diversità di trattamento riservata a demoni maschili e demoni femminili è ben esplicitata sia in dist.II, 15
sia in dist. IV, 6.
In dist. II, 15, i demoni teriomorfi che indicano la strada a Paolo e Antonio sono centauri o Pana203, dal
comportamento urbano, appartenenti alla schiera degli angeli caduti e «dispersi per orbem singuli secundum
merita superbie sue» 204. Nel racconto di Eudo (dist. IV, 6), invece, il demone 205 responsabile della sua
dannazione, ricorrendo alle armi insidiose dell’elocutio retorica, offre un’immagine innocua di sé,
ripercorrendo le vicissitudini di una popolazione di semidei, che sull’onda dell’evemerismo propugnato da
Isidoro 206, vengono schiacciati dalla cristianizzazione sul peccato di Lucifero.
Ex illis enim exulibus celi sum, qui sine coadiutorio vel consensu culpe Luciferi vagi post fautores scelerum
fatue ferebamur. […] Nos antiquitus populi decepti dixere semideos aut semideas, pro forma corporis
202
Cfr. La distinzione platonica tra calodemoni e cacodemoni che informa di De deo Socratis di Apuleio è ripresa da
Agostino, De Civitate Dei, PL, 41, VIII.
203
La descrizione riproduce l’iconografia convenzionale del demonio affermatasi nei capitelli romanici : «obtulit aliud
quoddam pedibus caprinis, ventre hispido, nebridem habens perctore stellis stellatam, facie ardenti, mento barbato,
cornibus erectis».
204
Walter Map, De nugis curialium, I, 31, p. 128.
205
Demone sotto spoglie maschili, a dispetto del nome, Olga, e non sotto forma di donna come sostiene Massimo
Oldoni, Gerberto e il suo fantasma. Tecniche della fantasia e della letteratura nel Medioevo, Napoli, Liguori, 2008, p.
239: «Il Maligno, nuova mutazione d’identità, prende fattezze di donna e si chiama Olga». Il passaggio che, invece,
descrive il palesarsi del demone agli occhi di Eudo è il seguente: Walter Map, De nugis curialium, dist. IV, 6, p. 316:
«Cum ecce subitus ei vir astat mire magnitudinis et multa feditate faciei terribilis, suavi tamen et blando, satis ipsum
confidere iubet alloquio, mentisque sue sibi divinat angustias, subsidium spondet, perditas ei promittit divicias, et
adicere desideriis alciora, dummodo se suo subiciat dominio consilioque fruatur.» Come dichiarava M.R. James,
l’origine del nome Olga per l’entità demoniaca è alquanto oscura; Walter Map, De Nugis curialium, ed. by M.R. James,
Oxford, Clarendon Press, 1914, p. 268. Olga, che deriva dalla famiglia norrena di heilagr/helgi, due termini rinvianti
alla dimensione del sacro e della divinità, è nome noto nel Medioevo grazie alla conversione della principessa variega
Olga di Kiev (980) e alla sua opera evangelizzatrice della Rus medievale. Alla stessa famiglia linguistica di helgi, in
antico norreno si collega la forma privativa ohelgi/oheilagr, ovvero desacralizzato, spossessato. Da heilagr/helgi deriva
l’inglese holy , così come prolungando il valore della particella privativa u/o dell’antico norreno, troviamo l’inglese
unholy: empio, scellerato, irreligioso. Con lo stesso significato, l’antico inglese, un-halgod; un-halig, Bosworth-Toller,
An Anglo-Saxon Dictionary, Oxford, Clarendon Press, 1838; b1118, 3-4; edizione elettronica An Anglo-Saxon
Dictionary. Cfr. W. Baetke, Das Heilige im Germanischen, Tubingen, Mohr, 1942; pp. 122-150; J. De Vries,
Altgermanische Religionsgeschichte, Berlin, W. de Gruyter, 1956, pp. 339-339; R. Boyer, Yggdrasill. La religion des
anciens Scandinaves, Paris, Payot, 1992; p. 219; J. Ries, L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità, Milano, Jaca
Book, 2007, pp. 157-159.
206
Isidoro di Siviglia, Etymologiarum, VIII, 11, 1: « Quos pagani deos asserunt, homines olim fuisse produntur, et pro
uniuscuiusque vita vel meritis coli apud suos post mortem coeperunt, ut apud Aegyptum Isis apud Cretam Iovis, apud
Mauros Iuba, apud Latinos Faunus, apud Romanos Quirinus.» VIII, 11, 5: «Simulacrorum usus exortus est, cum ex
desiderio mortuorum constituerentur imagines vel effigies, tamquam in caelum receptis, pro quibus se in terris
daemones colendi supposuerunt, et sibi sacrificari a deceptis et perditis persuaserunt».
41
asumpti vel apparicionis nomina ponentes discretiva sexus. Ex locis autem incolatus vel permissi officiis
distinccius appellamur Monticole, Silvani, Drades, Oreades, Fauni, Satiri 207.
La tipologia incarnata dal demone di Eudo si distingue dalle falangi maligne infernali e nella descrizione dei
propri limitati poteri sembra adombrare il profilo del poeta cortigiano, dedito alla composizione di nugae.
Procul enim a nobis sunt rapine peculiorum, subversiones urbium, sangiunum sitis et fames animarum, et
plus mali velle quam possumus. Sine morte nobis sufficta nostram ominino complere licentiam. Ridiculis
fateor et ludificationibus apti, prastigia struimus, fingimus imaginaciones, fantasmata facimus ut veritate
contecta vana ridiculaque simultas appareat. Omne quod ad risum est possumus, nichil quod ad lacimas. Ex
illis enim exulibus celi sum, qui sine coadiutorio vel consensu culpe Luciferi vagi post fautores scelerum
fatue ferebamur […] Nos antiquitus populi decepti dixere semideos aut semideas, pro forma corporis
assumpti vel apparicionis nomina ponentes discretiva sexus 208.
Alcuni demoni, dunque, possiedono il solo potere dell’illusione, dei ludi dei sensi, capaci appunto di
generare fantastice deceptiones.
Eudo ingannato e tentato dal demone Olga, commette innumerevoli crimini, ma, giunto il momento di
morire, preavvisato proprio dal demone, si pente e si confessa al vescovo, chiedendo l’assoluzione. Ma il
prelato gliela nega pervicacemente. Lo sprezzante commento conclusivo di Map209 conferma la sua vis
polemica nei confronti di quei componenti del clero che maggiormente si discostano dagli insegnamenti
evangelici. La narrazione esemplare di Eudo illustra, dunque, il conflitto tra una laicità in cerca di espiazione
e di penitenza e un clero eccessivamente rigido e intransigente. La mancata assoluzione di Eudo, inoltre,
ribalta specularmente il pentimento in articulo mortis che salverà l’anima del papa Gerberto (dist. IV, 11),
sepolto nella basilica di S. Giovanni in Laterano. È come se Walter Map volesse ribadire che il privilegio del
soglio pontificio si estende anche alla gestione dell’aldilà, in quanto il Papa ha comunque diritto
all’assoluzione, mentre un semplice miles è condannato per l’intransigenza di un prelato. Una logica
rovesciata del contrappasso, che Map denuncia e da cui si discosta: Meridiana, infatti, appartiene alla schiera
dei demoni succubi ben più perniciosi di Olga e compagni.
Se per quanto riguarda i centauri di Paolo e Antonio e il demone di Eudo, Map resta nell’alveo del quadro
ortodosso sulle tentazioni del maligno, all’interno dei racconti melusiniani riguardanti le donne
sovrannaturali, la cortina illusionistica si frange lasciando la scena a fantasmi corporei, dannati ab aeterno e
generanti una prole.
Una seconda serie di narrazioni fantastiche sulle donne sovrannaturali è accolta nella dist. IV. Le linee
strutturali della distinctio IV sono rintracciabili nella ribadita funzione didascalica dei racconti e nella
misoginia programmatica. La funzione didattica incrocia la questione della realtà di certi fenomeni, come
abbiamo visto nel cap. 1, §1.5, in quanto l’insegnamento deriva da ciò che, conoscibile dai sensi, risulta
collocato sul piano della materialità.
Ad nostram omnium instructionem expedit ut nemo clausis oculis vel auribus vel aliquo sensuum inoficcioso
vivat, sed ex rebus oportet extrinsecis intrinsecus edificari. Per hec sane, quia ceci sumus ad futura, presencia
quedam palam sunt et preteritorum aliquot. […] Informari festinemus ex his in quibus nobis Dominus
imitacionem posuit aut fugam, nostrum semper orantes refugium, ut eleccionis pure bonorum Ipse in nobis
consecucionem, et fuge malignitatis Ipse faciat effugium 210.
207
Walter Map, De nugis curialium, IV, 6, p. 320.
Ibidem.
209
Walter Map, De nugis curialium, IV, 6, p. 340: «Lector et auditor disputent si miles rectum habuit zelum et
secundum scienciam, qui precipitatatm indiscreti pontificis et iracundi secutus est sentenciam. Qui pastor ovile negat
ovi venienti de deserto ? […] Prodigo pater occurrit filio. […] Durus hic pater venientem reppulit, petenti panem obicit
lapidem, ovum roganti dat scorpionem».
210
Walter Map, De nugis curialium, IV, 1, p. 278.
208
42
La misoginia, invece è espressa nell’Epilogus, vera e propria introduzione alla famosa epistola Dissuasio
Valerii ad Rufinum philosophum ut uxorem ne ducat. Il testo è una sorta di manuale dei pregiudizi nei
confronti delle donne, fonte di ogni vizio e di ogni malizia. La donna è soprattutto artefice di inganni
perniciosi che conducono alla perdizione 211. Sul ceppo della tradizionale avversione per il femminile di
origine antica, biblica e patristica, Map innesta il filone della donna sovrannaturale demoniaca.
Il racconto di Henno costituisce una delle prime testimonianze scritte del mito della donna ofidica. Se le
ipotesi avanzate da Hinton e poi confermate dagli editori sono plausibili, bisogna dedurre che la
composizione dei capitoli 2-16 del libro IV risalga al 1181. Il prologo, invece, che nelle prime intenzioni di
Map doveva fungere da prologo generale, fu scritto nel 1183, anno della morte di Enrico il Giovane, mentre
l’Epilogus, collocato nell’unico testimone dopo il prologo, fu composto nel 1191 212. Il racconto di Henno
risale dunque al 1181. L’uso politico dell’attribuzione di una ascendenza maledetta, come già rilevato in
alcune narrazioni della distinctio II, è confermato proprio dalla storia di Henno, dalla critica inserita a pieno
titolo all’interno del dossier melusiniano. Henno dai Grandi Denti è stato identificato con la figura storica del
barone normanno Hamo Dents, oppositore di Guglielmo il Conquistatore, ma il cui figlio, nell’ottica della
politica di pacificazione della corona anglo-normanna, divenne Barone di Glamorgan, in Galles. Una delle
discendenti di Hamo, Isabella, sposò Giovanni Senza Terra 213. Al di sotto di questo livello strumentale, fin
troppo esplicito, il racconto di Henno racchiude snodi semantici complessi e problematici.
A nostro avviso per cogliere alcune specifiche direzioni delle nugae di Map, è necessario ricollocare l’autore
all’interno della rete internazionale di relazioni diplomatiche intrattenute e, quindi, connettere il suo testo ad
un panorama che si estenda al di là della sola corte Plantageneta. Prima che la donna ofidica faccia la sua
apparizione nell’opera di Gervasio di Tilbury, un’altra attestazione si trova nell’opera di Goffredo d’Auxerre,
nel Sermone XV del suo Super Apocalypsim, di poco posteriore (1187) alla composizione del De nugis. Se
Goffredo abbia mai incontrato personalmente Walter Map non possiamo stabilirlo con certezza, ma
certamente l’amicizia e la stima che il sovrano inglese nutriva per lui e i suoi viaggi sull’isola britannica214,
ci portano a sospettare che, forse, qualche contatto con gli intellettuali Regis ci sia stato. Rileviamo, inoltre,
un’ulteriore coincidenza biografica: così come durante il Laterano III Map viene incaricato dal Papa di
esaminare due valdesi presenti al Concilio, Goffredo, esattamente l’anno dopo, nel 1180, assiste alla
professione di fede resa da Valdo durante il Sinodo di Lione 215.
Il testo di Goffredo riveste una particolare importanza in riferimento alla rielaborazione di alcune narrazioni
di origine folklorica in direzione realistico-fattuale e in diretta connessione con le angosce e le paure
generate dal diffondersi delle eresie. Goffredo d’Auxerre, infatti, collega in maniera esplicita e di certo non
casuale le tre leggende melusiniane (l’ondina siciliana, il cavaliere del cigno e la donna-serpente di Langres)
alla condanna della predicazione valdese, soprattutto femminile. I Sermoni XIV e XV sono interconnessi e
complementari, essendo il XV lo sviluppo esemplare e didascalico del XIV 216. Commentando il passo di Ap.
2, 18-29, Goffredo si sofferma sulla figura della pseudoprofetessa Jezabel che ha sedotto e traviato nello
spirito (idolatria, apostasia) e nel corpo (fornicazione) i fedeli della chiesa di Tyatira. Il traviamento
spirituale è ben rappresentato, secondo Goffredo, dalla diffusione delle eresie e in particolare di quella
valdese, di cui il nostro riferisce nei seguenti termini:
211
Walter Map, De nugis curialium, IV, 5, p.310-311: «Amice, det tibi Deus omnipotens omnipotentis femine fallacia
non falli, et illuminet cor tuum, ne prestigiatis oculis tendas quo ego timeo».
212
Walter Map, De nugis curialium, IV, 2, p. 284: «audita morte domini mei predicti regis, post biennium exequiarum
exinanitus lacrimis».
213
Walter Map, De nugis curialium, IV, 9, n. 2, pp. 344-345.
214
F. Gastaldelli, «Introduzione», in Goffredo d’Auxerre, Super Apocalypsim, pp. 14-15. Nel 1164 presiedette un
capitolo di abati inglesi.
215
Ivi, p. 16. Il racconto della confessione di Valdo è nel Sermo XVIII.
216
Goffredo d’Auxerre, Super Apocalypsim, Sermones XIV-XV, pp. 176-191.
43
In quibus [gli adepti valdesi] non desunt miserae etiam mulierculae oneratae peccatis, quae domos penetrant
alienas, curiosae etiam ac verbosae, procaces, improbae, impudentes217.
Le azioni delle predicatrici valdesi non si distinguono molto da quelle attribuite, come vedremo in seguito,
alle lamie da Gervasio di Tilbury e esprimono in maniera efficace l’ansia del contagio e dell’invasione. La
profanazione delle mura domestiche è, non a caso, la prerogativa di tutta quella schiera di bedroom intruders
che popolerà l’universo horror dei secoli XIX-XX 218.
Nel Sermone XV, Goffredo sviluppa l’assetto dimostrativo del traviamento carnale operato da Jezabel: le
narrazioni melusiniane devono mettere in guardia contro la bellezza perturbante di certe donne di origine
sconosciuta, che sono, in realtà, demoni. L’aspetto interessante, ai fini del nostro discorso, è sicuramente la
presenza in tutti e tre i racconti di una progenie in carne e ossa che questi esseri lasciano nel mondo.
Goffredo esprime i suoi dubbi:
Nec videtur credibile veram posse procedere sobolem ab eiusmodi phantasiis 219.
A contrario, tuttavia, propone come valida prova proprio i tre racconti melusiniani:
Licet huic assertioni contrarium aliud videatur quod ab olim audivimus, plurimus affirmantibus, enarrari 220.
E della donna-serpente di Langres dice:
Lingonica quoque nostra diocesis plures usque modo nobiles etiam dominos perhibeutur habere castrorum,
tamquam genimina forsitan viperarum, ex illius progenitos serpentis, quem eorum tritavi pater vel antiquior
parens, cum silvarum abdita penetrasset, in specie mulieris admodum speciosae et pretiosis amictae vestibus
repperit, visam protinus adamavit, rapuit, secum tulit et […] per ministros ecclesiae desponsavit. Liberos
etiam procreavit ex ea, diebus quoque et annis pluribus prae magnitudine dissimulavit amoris quod parentes
et patriam ignorabat uxoris 221.
Il racconto prosegue narrando della passione della donna per i bagni e del divieto imposto a chiunque di
assisterla. Un giorno, tuttavia, un’ancella, sbirciando da un foro nella parete vide:
non feminam sed serpentem, sinuosis per balneum voluminibus circuire 222.
Ne informa quindi il suo signore, il quale, non stupendosi oltre misura poiché «originem ignorabat uxoris»,
attende il momento opportuno per irrompere nella stanza e inveire contro la donna, che scompare per
sempre.
La chiosa morale è un avvertimento nei confronti della seduzione operata da perniciose fanciulle
sconosciute, sicure emissarie di Satana:
217
Ivi, Sermo XIV, 150-153, p. 179.
Bedroom intruders è la definizione coniata per indicare tutti quei personaggi, naturali o sovrannaturali -maniaci,
vampiri- che aggrediscono la vittima all’interno delle mura domestiche. Particolarmente in uso all’interno della critica
cinematografica che si è occupata di film horror degli anni Settanta e Ottanta (J. Carpenter; W. Craven, cfr. J. K. Muir,
Wes Craven: the art of Horror, Jefferson, North Carolina, McFarland & Company, 1998), la definizione può essere
estesa a tutte le figure vampiresche che popolano la letteratura gotica e fantastica dell’Ottocento, da Polidori a Stoker, a
Conan Doyle. The Intruders, oltre essere il titolo di film di Juan Carlos Fresnadillo del 2011, è termine tecnico-gergale
utilizzato anche per designare i rapimenti alieni (The adduction).
219
Goffredo d’Auxerre, Super Apocalypsim, XV, 85-87, p. 185.
220
Ivi, XV, 89-90, p. 185.
221
Ivi, XV, 107-117, p. 186.
222
Ibidem.
218
44
Odibilem, fateor, reddere velim libidinem, cuius angeli Satanae sordibus delectantur involvi, ut luxuriam
velut amicam daemonum merito fugata christanus, et idolatriae sociam detestetur 223.
La forma serpentina dell’ignote seduttrici si poneva, inoltre, come metafora parlante della capacità degli
eretici (meglio delle eretiche) di dissimularsi agli occhi dei cristiani e di insidiarli subdolamente. Bernardo
ricorre al paragone con l’azione di strisciare propria del serpente per sottolineare la difficoltà di smascherare
e di catturare i perniciosi nemici (vulpes):
Quid faciemus illis malignis vulpibus, ut capi queant, quae nocere, quam vincere malunt et ne apparere
quidem volunt, sed serpere? 224
Serpere si contrappone a apparere costruendo un’opposizione semantica fondata su ciò che è visibile e ciò
che è nascosto. Nel testo di Bernardo il significato figurato del verbo denominale serpo, insinuarsi,
serpeggiare, sembra così arricchirsi di un ulteriore aspetto allusivo del mascheramento ingannevole (proprio
camuffando le proprie intenzioni il serpente edenico aveva ordito la tentazione dei primi parenti).
Nel racconto di Goffredo gli elementi topici della narrazione melusiniana, come definita e tratteggiata da
Harf 225, sono tutti presenti: dall’occasione dell’incontro al bagno in forma serpentina alla fuga.
Rispetto al testo dell’Autissiodorensis, però, la narrazione di Map presenta alcuni motivi che verranno
ripresi dai successori non all’interno dei récits sulle donne serpentiformi, bensì in racconti, tradizionalmente
ascritti dalla critica al dossier melusiniano, tesi a demonizzare gli esseri oltremondani generanti: il
comportamento anomalo della dama in chiesa, ovvero la sua assenza durante la consacrazione eucaristica.
Anche la storia di Henno riproduce fedelmente i tratti del racconto melusiniano: le modalità dell’incontro; il
tabù implicito; la ricchezza; la partenza; la prole. La terza funzione duméziliana (fertilità) riconosciuta da Le
Goff e Le Roy Ladurie 226 nel mito della Melusina maternelle et défricheuse, preponderante all’interno dei
tardivi romanzi oitanici melusiniani, non ha qui un ruolo compensativo e sembra esprimere, al contrario, tutti
i timori e le paure generate dall’incontro con esseri sconosciuti. La capacità generativa di queste creature,
infatti, contribuisce al processo di incarnazione dei fantasmi e di dannazione degli stessi. Quel nucleo
concettuale, di pertinenza del mondo magico o folkorico, che si fondava sull’ambivalenza di spiriti dotati di
corpi senzienti viene adottato dal chierico Regis per avallare i propri sospetti, mentre le tradizioni eroiche di
ascendenze mitiche o totemiche 227 vengono risemantizzate e mutate di segno, così da rafforzare il
radicamento sostanzialistico-oggettivo di alcune presenze fantasmatiche.
Incredibilis quidem et prodigialis iniuria nature, si non extarent certa vestigia veritatis 228.
Donna di origini ignote, ma di strabiliante bellezza la melusina di Henno, conquista una patente di normalità,
dimostrando la sua affiliazione alla chiesa, di cui è assidua frequentatrice 229. Ma proprio la sua fuga anomala
nel momento della consacrazione eucaristica, solleva i sospetti della madre di Henno. Il motivo dello strano
comportamento della donna in chiesa compare per la prima volta proprio nel testo di Map e ritorna in seguito
sia nel De Instructione principis di Giraldo di Cambria, sia nel racconto sulla dama dell’Esparvier di
Gervasio di Tilbury. La cristianiazzazione dell’essere sconosciuto non riesce, tuttavia, a cancellarne i tratti
223
Ivi, XV, 137-139, p. 187.
Bernardo di Clairvaux, Sermones in Cantica, Sermo LXV, p. 538.
225
Harf-Lancner, Morgana e Melusina, «I racconti melusiniani», pp. 93-133.
226
J. Le Goff et E. Le Roy Ladurie, «Mélusine maternelle et défricheuse», Annales ESC, n° 3 et 4, 1971, p. 587-622.
227
Sull’argomento cfr. C. Donà, «La metamorfosi segreta: dalla donna serpente alla puella venenata», La metamorfosi,
a cura di F. Zambon, «Viridarium» 6, 2009, Milano, Medusa - Venezia, Fondazione G. Cini, pp. 47-79.
228
Walter Map, De nugis curialium, IV, 9, p. 344.
229
Una delle accuse che Bernardo rivolge agli eretici è quella di fingere la loro appartenenza alla Chiesa, adottando
comportamenti da perfetti cristiani. Sermones in Cantica, Sermo LXV, p. 542: «Denique si fides interroges, nihil
christianius; si conversationem nihil irreprehensibilius: et quae loquitus, factis probat. Videa hominem in testimonium
suae fidei frequentare ecclesiam; honorare presbyteros».
224
45
arcaici né a neutralizzarne gli aspetti inquietanti; al contrario l’impossibile contatto della creatura demoniaca
con il corpo di Cristo, sembra acuire il senso di accerchiamento e di terrore che può generare la
mimetizzazione di nemici nell’ordinarietà del quotidiano. L’incarnazione della donna sconosciuta e
‘sovrannaturale’ e la generazione di una prole che prolungherà sulla Terra la sua genìa sembra, inoltre,
esprimere l’ossessiva tentazione del controllo sul corpo femminile da parte di un’élite terrorizzata. Ma la
fuga dinanzi alla consacrazione in anni in cui il dogma della transustanziazione troverà la sua codificazione
dottrinale definitiva illumina anche i possibili risvolti teologici e sembra collegarsi proprio ai comportamenti
di quelle pravae sectae hereticae che negano in primo luogo la componente umana del Cristo e quindi
rifiutano sia l’eucarestia sia il dogma dell’incarnazione-morte-resurrezione. Questa funzione antiereticale
della narrazione della donna che rifugge l’eucarestia costituisce, nell’opera di Map, una sottotraccia. Diverso
è il caso del racconto della Dama dell’Esparvier in Gervasio di Tilbury, in cui la connessione con le prassi
dei cattivi cristiani è esplicitamente tematizzata, così come cristallino appare il legame tra le narrazioni
melusiniane riportate da Goffredo d’Auxerre e la sua condanna della predicazione femminile valdese.
Il procedimento di demonizzazione, in ogni caso, all’interno delle tre narrazioni ‘fantastiche’ del De nugis è
molto simile: le creature ambivalenti e potenzialmente maligne cessano di vivere nelle illusiones e si
trasformano in phantasiae incarnate, anticipando quello stravolgimento ontologico che porterà le seguaci di
Diana dal volo illusorio a quello reale e corporeo del Malleus.
I capitoli successivi al IV, 9, conservano una discreta unità tematica. Il cap. IV, 10 è in realtà la ripresa
sintetica di II, 12, ovvero l’unione innaturale di Enrico il Selvaggio con la donna rapita da una Ghilda nella
foresta; il cap. IV, 11, invece, narra l’inquietante vicenda di Gerberto d’Aurillac, papa Silvestro II, il papa
mago e astrologo. L’incipit del capitolo orienta l’interpretazione:
Quin fantasticam famosi nescit illusionem Gerberti? 230
La “fantastica illusione” possiede sembianze femminili e un’ingombrante, benché non generante, presenza
corporea. Su Gerberto circolavano 231, nel corso del Medioevo, numerose leggende, tese a sottolineare il
carattere eccezionale e quasi magico del suo sapere, gravato da forti sospetti demoniaci a causa del suo
profondo interesse per le scienze laiche e pericolosamente praticate degli infedeli islamici. Qualche anno
prima, nell’Historia rerum anglicarum, Guglielmo di Malmesbury inserisce il racconto sulla formazione
giovanile di Gerberto presso un negromante islamico a cui ruba il libro di magia. Non troviamo tracce di
pericolosi demoni femminili 232 intenti a traviare il futuro papa, nonostante il sospetto esplicito di un patto
diabolico. Map, dal canto suo, fornisce una versione della vita di Gerberto che differisce notevolmente da
quella proveniente dalla storiografia monastica. L’agente della sua perdizione è, infatti, Meridiana, fantastica
illusione, che possiede alcuni tratti di altre misteriose donne dei boschi. È difficile stabilire se il tono
prevalente all’interno della narrazione di Gerberto sia canzonatorio-satirico o serio; è molto probabile,
invece, che come in altri luoghi, Map realizzi una fortunata commistione, capace di dilettare il pubblico,
senza dimenticare la finalità edificante: la morte di Gerberto, in effetti, suona come monito morale nei
confronti del successo ottenuto tramite mezzi illeciti e altamente sospetti, quali il patto con una creatura
diabolica. La tentazione ludica si esplica nella scelta del nome del demone, Meridiana, connesso sì al
demone biblico dell’accidia, ma allusivo anche della condizione temporale dell’incontro (l’ora meridiana).
Accanto alla dimensione giocosa, però, si condensa l’aspetto perturbante della biografia di Silvestro II: il
papa, ogni volta che celebra la messa, si sottrae con l’inganno al sacramento dell’eucarestia, scuotendo
l’intero assetto dogmatico-dottrinario della Chiesa cattolica.
230
Walter Map, De nugis curialium, IV, 11, p. 350.
Sulla leggenda di Gerberto d’Aurillac, cfr. A. Graf, La leggenda di un pontefice (Silvestro II), «La Nuova
Antologia» XXVI (1890), poi in Id., Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, vol. II, Torino 1893, pp. 3-48 (rist.
Milano, Mondadori 2002); Oldoni. Gerberto e il suo fantasma.
232
Guglielmo di Malmesbury, Gesta Regum Anglorum, vol. 2, lib. II, §167-170. Nella narrazione di Guglielmo di
Malmesbury incontriamo soltanto la figlia del negromante, complice di Gerberto nel furto del libro di magia.
231
46
Post pauca defuncto papa sedis illius eleccione publica gradum ascendit, et toto sacerdorcii sui tempore
confecto sacramento corporis et sanguinis Dominici non gustabat, ob timorem vel ob reverenciam, et
cautissimo furto quod non agebatur simulabat 233.
L’accusa grave di simulazione della comunione eucaristica non compariva affatto nei testi precedenti su
Gerberto e si pone come fondazione di un motivo che nei secoli si svilupperà nel suo corollario della
dissacrazione dell’ostia da parte di falsi credenti 234, sospetto che già gravava nel Medioevo le comunità degli
ebrei. Il rifiuto dell’eucarestia, nel caso di Gerberto dislocato dalla creatura misteriosa Meridiana al papa
stesso, denuncia la subdola capacità dei nemici della fede di insinuarsi fin nelle più alte cariche dell’edificio
cristiano. Nella ricostruzione effettuata da Oldoni sull’affermazione del «male del mezzogiorno» 235, emerge
come il demone Meridiana sottenda una molteplicità di piani semantici che vanno dall’insidia del
camuffamento demoniaco alla vanità della Sapienza mondana o dell’eterodossia religiosa. Il ricorso, nei
secoli XII-XIII, al dettato paolino sulla capacità di dissimulazione di Satana (II Cor., 11, 13-15 236) e dei suoi
ministri, assume i toni della reiterazione ossessiva, tesa a acuire quella sensazione di accerchiamento da parte
di avversari non facilmente identificabili, una sorta di sindrome da Villaggio dei dannati 237 che investendo
creature fantastiche di origine folklorica ne ridisegna completamente i contorni. Nel gioco dei rinvii
intertestuali che attraversano le opere mediolatine di ambiente anglo-normanno, le parole dell’Apostolo
devono mettere in guardia contro quelle creature che mascherano il proprio lato demoniaco per ingannare
ingenui miles (Eudo 238) o incauti castellani innamorati di sconosciute (Gervasio di Tilbury, la dama
dell’Esparvier 239). Ma ciò che emerge dallo studio di Oldoni e che riveste per noi un particolare interesse è
proprio il coagularsi attorno al falso angelo della luce di una lettura allegorica e simbolica incentrata sul
pericolo dell’eresie e della vana sapienza. Il collegamento è istituito già nell’alto medioevo da Aimone di
Habelrstadt, nella Explanatio in Psalmos:
Hieronumus in Origenem daemonium meridianum appellat hareseos protervitatem240.
La connessione più chiara si trova comunque in san Bernardo, la cui analisi sul demone meridiano «riesce a
prefigurare la Meridiana di Walter Map 241».
Nel suo Sermo XXXIII, Bernardo analizza «quid sit meridies et de quatuor generibus temptationum semper
evitandis» 242. La tentazione del demone meridiano è decisamente più infida, in quanto si dissimula nella
luminosità del giorno:
propter hos, inquam, et maxime videtur mihi illa meridies optanda etiam nobis, ut clara luce deprehendamus
astutias diaboli, atque angelum Satanae illum qui se trasfigurat in angelum lucis, a nostro angelo facillime
discernamus 243.
233
Walter Map, De nugis curialium, IV, 11, p. 360.
Una delle accuse di stregoneria, infatti, è la dissacrazione delle ostie, durante le cerimonie liturgiche e poi durante il
sabba; cfr. H. Institoris; J. Sprenger, Malleus Maleficarum, Francoforte, 1588, Pars II, q. I, cap. IV: «Licet alia pessima
cerimonialia habent ad instructionem Daemonum observare, scilicet tempore elevationis in terram spuere.»
235
Oldoni, Gerberto e il suo fantasma, p.263.
236
2 Cor., 11, 14: «Et non mirum: ipse enim Satanas tranfigurat se in angelum lucis.»
237
Trasposizione cinematografica di W. Rylla, USA 1960, del romanzo di J. Wyndham, Midwich Cuckoos (trad. it. I
figli dell’invasione), London, M. Joseph, 1957.
238
Walter Map, De nugis, dist. IV, 6: «Serio tandem Olga suspirans, et post longam meditacionem in angelum se
transformans lucis.»
239
Gervasio di Tilbury, Otia imperialia, III, 57, p. 674: «Frequens est ut angeli Satane in angelos lucis se transforment
et in humanis mentibus aliquid diabolice inmissionis nutriant.
240
PL, XCVI, col. 510
241
Oldoni, Gerberto e il suo fantasma, p. 273.
242
Bernardo di Clairvaux, Sermones in Cantica, p. 288.
243
Ivi, p. 290.
234
47
Nel momento in cui Bernardo disvela la significazione allegorica sottesa al versetto Indica mihi ubi pascas,
ubi cubes in meridie, la connessione tra l’instabilitas del pensiero generata dall’accedia –demone meridianoe la vanità della conoscenza mondana e delle deviazioni ereticali diviene esplicita.
Et propterea queso, ut indices mihi ubi pascas et ubi cubes in meridie, id est in manifesto, ne seducta
incipiam vagari post greges sodalium tuorum, quemadmodum et ipsi vagi sunt, nulla stabiles certitutdine
veritatis semper discentes, et numquam ad scientiam veritatis pervenientes (II Tim. 3,7). Haec sponsa propter
philosophorum et hereticorum varia et vana dogmata 244.
Il collegamento dell’angelo di luce satanico con le eresie viene, inoltre, ripreso in maniera ancor più esplicita
nel Sermo LXIV, laddove Bernanrdo stigmatizza l’abilità di dissimulazione degli eretici:
Nec enim aliter nocere queunt nisi quod se virtutes virtutum quadam similitudine mentiuntur. Sunt autem aut
cogitationes hominum vanae aut factae immissiones per angelos malos, angelos satanae, qui se transfigurant
in angelos lucis 245.
Nonostante Walter Map non amasse l’abate cistercense, dobbiamo, tuttavia, rilevare in entrambi la
condivisione di un comune sentimento di assediamento generato da tutto ciò che, mascherato sotto spoglie di
luminosa normalità, può minacciare l’armonia della societas christiana. L’incontro diurno (Henno, Gerberto)
con creature fantastiche, ma pestilenti e incarnate desta dunque allarme e preoccupazione e, nella riscrittura
colta del De nugis, mira a comporre motivi etnici 246 e riflessione teologica a sostegno e a dimostrazione dei
peggiori sospetti misogini dell’autore. Il demone Meridiana, incrociando la vicenda di Gerberto ne accentua
così i risvolti demoniaci e sembra gettare sul pontefice astronomo e matematico l’ombra dell’eresia e
dell’apostasia.
A chiudere la carrellata delle “apparizioni fantastiche” del libro IV, la storia del calzolaio di Costantinopoli,
narrazione eziologica sul Gouffre de Sathalie. Il racconto di Map combina motivi diversi: il calzolaio
superbo genera con una morta, di cui era innamorato, una creatura mostruosa, la testa della Gorgone, con cui
sbaraglia nemici e compie rapine, fino a quando non riesce a conquistare la mano della figlia dell’Imperatore
di Costantinopoli, defunto. La curiosità della moglie acquista una valenza salvifica, in quanto, grazie alla sua
insistenza riesce a scoprire l’orribile capo meduseo racchiuso in uno scrigno. Utilizzato il potere pietrificante
della Gorgone contro il suo stesso padrone, la figlia dell’Imperatore ordina che la testa sia lanciata in mezzo
al mare, il quale «quasi nauseans reicere conetur» 247. Walter Map è il primo a collegare la testa della
Gorgone al vortice di Atalie/Sathalie, testimoniando la sopravvivenza nel Medioevo del mito meduseo 248, ed
esplicitando il nesso necrofilia/parti mostruosi, nesso che sembra spingere la diffidenza nei confronti
dell’altro sesso verso la fobia psicotica: la donna di cui si innamora il calzolaio suscita, come la donna di
Henno, una rovinosa e «pestilentem maliciam» che acceca completamente lo sfortunato calzolaio.
La predilezione del demonio per l’universo femminile, ovvero nella concezione di Map, la facilità/contiguità
della donna con il demoniaco, è ulteriormente confermata dal racconto della donna vampiro, dist.II, 14. In
questo caso il diavolo interviene per invidia e per vendetta nei confronti di una signora pia e votata a Dio. Il
demonio assume le sue sembianze perché la colpa degli omicidi infantili ricada su di lei. Il femminile,
dunque, non è al riparo dagli attacchi del Maligno neppure quando la fede religiosa è sincera. Il dubbio sulla
244
Ibidem.
Ivi, Sermo LXIV, p. 525.
246
Il motivo della dea o fata nel bosco a mezzogiorno è antico, basti pensare al mito di Artemide e di Atteone. In
Abruzzo, se si decide di fermarsi sotto un albero a mezzogiorno, bisogna ricordarsi di dare il buon giorno alle fate, nel
caso in cui si trovassero, invisibili sotto lo stesso albero per riposare o desinare, cfr. G. Finamore, Tradizioni popolari
abruzzesi, Lanciano, Carabba, 1822-26, p. 112.
247
Walter Map, De nugis curialium, IV, 12, p. 368.
248
Cfr., M.N. Polino, «Le gouffre de Satalie : survivances médiévales du mythe de Méduse», Le Moyen Age, 1988, 1,
pp. 73-101.
245
48
dama in questione si ispessisce nella conclusione quando, posti faccia a faccia l’originale e il sosia
demoniaco, il demone non perde le sembianze assunte e vola via dalla finestra, anticipando testualemente la
fuga della donna di Henno.
“Hanc que nunc advenit optimam spero Deoque dilectam, et bonis operibus invidiam demonum in se
provocasse, unde et hec eorum nuncia nequam et executrix irarum huic bone quantum ei licuit invisa
similisque facta est, ut infamiam culpe sue refundat in istam. Quod ut credatis, videte quid dimissa faciet.”
At per fenestram avolavit cum planctu et eiulatu maximo 249.
Alla chiara identificazione della pia donna, affidata ai pronomi dimostrativi hanc, istam, si contrappone la
soppressione, nella frase conclusiva, dell’elemento pronominale, in modo che l’opposizione e la
differenziazione tra la vera matrona e il suo simulacro non siano più nitide e riconoscibili. Un procedimento
retorico e stilistico probabilmente intenzionale per confondere il lettore sulla vera identità di colei che fugge
in volo. La duplicazione del simulacro sembra così esplicitare uno dei possibili destini riservati alle donne in
età, ovvero quello di diventare delle streghe infanticide.
Le donne sovrannaturali demonizzate, dunque, sembrano esprimere la visione antifemminile dell’autore,
acuita da una concezione della donna come forza di instabilità 250 condivisa anche da altri intellettuali
britannici coevi. In particolare il corpo femminile mostruoso generante esseri difformi coagula le paure
dinanzi alla mimetica presenza di pericolosi alieni all’interno della societas christiana, come abbiamo già
evidenziato, ma acquista altresì un immediato significato storico-politico in riferimento all’avversione degli
intellettuali inglesi nei confronti di Eleonora di Aquitania. La regina sembra costituire il pendant storico e
incarnato delle infide sconosciute che popolano le narrazioni melusiane e affini. Nel De Nugis, in effetti, il
sentimento anti-regina, che sfocerà nella creazione della leggenda nera su Eleonora, pervade numerosi
capitoli. Eleonora d’Aquitania, agli occhi di Map, incarna la divorante lussuria femminile e la pericolosità
della donna straniera, proveniente da una terra infetta e reietta 251.
Cui successit Henricus Matildis filius, in quem iniecit oculos incestos Alienor Francorum regina, Lodovici
piissimi coniux, et iniustum machinata divorcium npsit ei, cum tamen haberetur in fama privata quod
Gaufrido patri suo lectum Lodovici participasset. Presumitur autem inde quod eorum soboles in excelsis suis
intercepta devenit ad nichilum 252.
In Anglia nondum venerunt [Paterini] nisi sedecim, qui precepto regis Henrici secundi adusti et virgis cesi
disparuerunt. In Nomandia non apparent nec in Britannia, in Andegavia multi sunt, sed in Aquitania et
Burgundia superhabundant iam ad omnem infinitatem253.
La realtà storica della diffusione dei movimenti ereticali proprio nella regione dell’Aquitania facilita la
sovrapposizione simbolica tra l’ambiguità morale e quella dottrinaria della regina, schiacciata sulla condanna
che inesorabilmente colpisce la sua terra di origine, covo infestato di pericolosi eretici dediti alle orge e alla
249
Walter Map, De nugis curialium, II, 14, p. 162. La fuga della donna di Henno è così descritta, De nugis, IV, 9, p.
348: «que subito saltu tectum penetrant et ululatu diu culta relinqunt hospicia».
250
I. Short «Literary Culture at the Court of Henry II», in Henry II. New Interpretations, a cura di Ch. Harper-Bill; N.
Vincent, Wooldbridge, The Boydel Press, 2007, pp. 335-361; p. 339.
251
È intressante rilevare la lunga durata del tema degli eretici in Aquitania che si dissimulano sotto apparenze di santità.
Ademaro di Chabannes (988-1034) nel suo Chronicon, ed. J. Chavanon, Paris, Picard, 1897, così si esprime, p. 173:
«Exorti sunt per Aquitaniam Manichei seducentes plebem. Negabant baptismum et crucem qt quicquid sanae doctrinae
est. Abstinentes cibis, quasi monachi apparebant et castitatem simulabant, sed inter se ispos omnem luxuriam
exercebant et nuncii Antichristi erant, multosque a fide exorbitare fecerunt». Anche Gerberto è originario
dell’Aquitania.
252
Walter Map, De nugis curialium, V, 6, pp. 474-76.
253
Walter Map, De nugis curialium, I, 30, p. 120.
49
blasfemia. Qualche anno dopo, Giraldo di Cambria utilizzerà lo stesso procedimento per screditare non solo
il ramo d’Aquitania, ma anche quello d’Angiò.
Nell’opera di Map, dunque, le creature straordinarie incarnate disvelano molteplici piani semantici:
dall’attualità politica alla densità archetipica di motivi che sembrano rispondere ad una clima di profonda
insicurezza, all’interno del quale la tradizionale misoginia risulta potenziata e rafforzata da un senso di
accerchiamento.
2.3 Giraldo di Cambria e Gervasio di Tilbury: dalla collezione libresca di mirabilia alla registrazione sul
campo. Verso la ridefinizione/fondazione del genere odeporico.
2.3.1 Giraldo di Cambria: la testimonianza oculare delle meraviglie e l’onnipotenza di Dio
La parabola esistenziale di Giraldo di Cambria ben rappresenta quell’instabilità costitutiva delle carriere
cortigiane descritta da Walter Map nel capitolo iniziale del suo De nugis. Clericus Regis, Giraldo diviene nel
1184 cappellano del re Enrico II, per poi conoscere, alla morte del sovrano, una parabola discendente che lo
pone in conflitto con il successore Riccardo Cuor di Leone 254. Nel corso della sua permanenza presso la
corte Plantageneta ricopre diversi incarichi, i più rilevanti dei quali sono i viaggi diplomatici, dapprima in
compagnia del principe Giovanni senza Terra in Irlanda (1185), poi al seguito dell’Arcivescovo di
Canterbury, Balduino di Ford, in Galles (1188). Proprio i suoi viaggi costituiscono l’argomento delle sue
opere principali, Topographia Hibernica (1187); Expugnatio Hibernica (1187); Itinerarium Cambriae;
Descriptio Cambriae; a cui si affiancano quelle di contenuto più strettamente dottrinario o didattico: Gemma
Ecclesiastica, Speculum Ecclesiae; De principis instructione.
Nell’economia del nostro discorso sullo slittamento ontologico dei mirabilia, i testi di Giraldo propongono
soluzioni differenti rispetto a quelle prospettate da Walter Map, ma altrettanto significative. Le sue
descrizioni etno-geografiche focalizzano due snodi fondamentali: la fondazione di una letteratura di viaggio,
interamente incentrata sulla testimonianza oculare che garantisce la realtà e la veridicità dei fenomeni
osservati; un’interrogazione sulla natura e sull’ontologia dei monstra che tende a ipostatizzarli nella loro
estraneità. Se i timori di Walter Map si concentravano su sconosciute che infidamente si dissimulavano negli
spazi ordinari, quotidiani e vicini, le inquietudini di Giraldo tendono a relegare i prodigi negli spazi esterni
ed estranei, l’Irlanda, inaugurando quel processo di delocalizzazione progressiva dell’alterità sulle orme di
itinerari fisicamente compiuti, costitutivo della successiva letteratura di viaggio 255. Ma il quadro concettuale
all’interno del quale si muove Giraldo è ancora fortemente ancorato alla visione agostiniana, così che, in
maniera decisamente più marcata rispetto a Walter Map e poi a Gervasio, le cautele e quindi le aporie
derivanti dal passaggio da una concezione simbolica a una materialistica-oggettiva risultino più evidenti.
254
J.S. Brewer, «Preface», in Giraldo di Cambria, Opera, ed. J.S. Brewer, vol. 1, London, Longman, 1861, pp. 9-95;
Giraldo di Cambria, De rebus a se gestis, lib. III, Opera, ed. J.S. Brewer, vol. 1.
255
Cfr. G.R. Cardona, «I viaggi e le scoperte», in Letteratura italiana, a cura di A. A. Rosa, vol. V, Le questioni,
Torino, Einaudi, 1986, pp. 687-717; V. Bertolucci Pizzorusso, « La certificazione autoptica: materiali per l’analisi di
una costante della scrittura di viaggio», in Ead., Scritture di viaggio. Relazioni di viaggiatori ed altre testimonianze
letterarie e documentarie, Roma, Aracne, 2011, pp. 11-27 (ed. or. In Viaggi e scritture di viaggio, a cura di C. Bologna,
«L’uomo», III ,1990, n.2, pp.281–299). Sulla letteratura di viaggio si vedano anche J. Richard, Les récits de voyages et
de pèlerinages, Typologie des sources du Moyen Âge occidentale, 37, Turnhout, Brepols, 1981; Voyage, Quête,
Pèlerinage dans la littérature et la civilisation médiévale, «Senefiance», II, 1976 (numero speciale) ; La letteratura di
viaggio. Storia e prospettive di un genere letterario, a cura di M.E. D'Agostini, Milano, Guerini, 1987; F. Wolfzettel, Le
discours du voyageur, Paris, P.U.F., 1996.
50
Giraldo vuole dimostrare l’onnipotenza di Dio attraverso i miracula e i portenta che popolano l’Irlanda, ma,
assicurando la loro fattuale esistenza attraverso la testimonianza oculare, si ritrova proiettato in un universo
dove la metamorfosi o il rischio della ferinità minano sostanzialmente l’identità umana, sprofondandola nella
dissimilitudine più pericolosa. Difficilmente Giraldo farà ricorso al demoniaco per spiegare alcuni fenomeni,
ma quest’argine, che Walter Map aveva apertamente infranto, non lo mette al riparo dalla condivisione di
quel clima di instabilità che conduce l’intellettualità coeva a ricercare le regole per gestire il meraviglioso e
per negoziare con il male.
Gli studiosi che si sono occupati di letteratura di viaggio non hanno quasi mai riconosciuto in Giraldo
l’iniziatore di un genere, aspetto che, invece, a nostro avviso, è fondamentale. La critica ha spesso
sottolineato come la Topographia, l’Itinerarium e la Descriptio costituiscano i primi resoconti geoetnografici sull’Irlanda 256 e sul Galles, ma è mancata, tuttavia, una riflessione sui procedimenti stilistici e
retorici che si fisseranno in topoi strutturali del genere odeporico successivo.
Se è vero, come sostenuto da Valeria Bertolucci Pizzorusso, che la «certificazione autoptica» o sfraghis,
desunta dai modelli storiografici antichi 257, costituisce un topos della scrittura di viaggio, dobbiamo allora
rilevare in Giraldo una sorta di diritto di primogenitura, in quanto la sua descrizione geografica è fortemente
influenzata dagli stilemi della storiografia258.
Quod scimus loquimur, quod vidimus testamur 259.
L’occasione della composizione della Topographia, dell’Expugnatio, dell’Itinerarium e della Descriptio è
profondamente radicata nell’attualità e nella necessità di registrare res gesta, operazione indispensabile per
archiviare fatti nella memoria e per conquistare la fama 260. Motivazione storica e motivazione personale si
incrociano per fondersi in quella che è la trascrizione di una registrazione sul campo, di un’osservazione
empirica, di cui l’autore sia garante e testimone. La sfraghis si colloca
sul piano dell’enunciazione e non sul piano dell’enunciato. La sua funzione non è affatto quella di sottrarre
alla verifica i contenuti, quanto quella di certificare l’autenticita della descrizione da parte del soggetto che
riferisce, di cui autorizza, circoscrivendola, la selezione operata nell’ambito della totalita delle notizie da lui
personalmente acquisite 261.
Giraldo, infatti, nel prologo alla Distinctio Secunda, ribadisce:
Sed ita me Dii amabilem praestent, ut nihil in libello apposuerim, cujus veritatem vel oculata fide, vel
probatissimorum et authenticorum comprovincialium virorum testimonio, cum summa diligentia non
elicuerim. Nec mihi calumniae nubila livor obducat. Quae nam oculis subjecta fidelibus ipse conspexi,
firmiter et indubitanter haec assero: quae vero tantum demissa per aures, quia segnius irritant, horum non
256
Giraldo, infatti, nella lettera dedicatoria al sovrano, si definisce esploratore, Topographia Hibernica, «Praefatio
secunda», p. 20: «Ubi non tamquam transfugae, sed exploratoris officio fungens, cum in primis multa notarem aliis
regionibus aliena nimis et prorsus incognita, suique novitate valde miranda».
257
Bertolucci Pizzorusso, « La certificazione autoptica», pp. 13-15.
258
Cfr. Gansden, Historical Writing in England. c. 500 to c. 1307; Partner, Serious Entertainments. The Writing of
History in Twelfth-Century England.
259
Giraldo di Cambria, Expugnatio Hibernica, II, XXXVI, p. 390. Anche Guglielmo di Newburgh rivendica la
legittimità di riferire eventi incredibili, ma occorsi nell’attualità, cfr. Guglielmo di Newburgh, Historia rerum
Anglicarum, V, XXIV; vd. cap. 1, § 1.4.
260
Giraldo di Cambria, Topographia Hibernica, «Introitus», p. 3: «Consideranti mihi quam brevis et fluxa sit vita quam
ducimus, eorum preaclara fuisse videtur intention, quibus nondum patefacta vitae via, operae pretium fuit et curae,
egregium aliquod mundo memorial relinquere, famamque sui perlongam facere, et momentaneam istam saltem
memoria vivere posse post vitam.» «Praefatio secunda», p. 21: «Collectis igitur et electis elegantioribus cunctis ea que
memoria digna videbantur non inutile duxi in unum congerere et industriae vestrae, quam nulla fere latet historia,
propalare.»
261
Bertolucci Pizzorusso, «La certificazione autoptica», pp. 13-14.
51
assertor sed recitator existo. Singulis tamen, prout a multis et authenticis viris, a quibus visa sunt, accepi,
fidem adhibeo (Topographia, II, prologus).
È proprio questa certificazione di veridicità a ridisegnare le coordinate tipologiche della produzione di
Giraldo: non opere di storia stricto sensu, dove le formule probatorie erano di casa, né collettanee libresche
di mirabilia, la cui autenticità dipendeva dall‘autorità delle fonti 262, bensì una relazione di viaggio, in cui la
responsabilità soggettiva della testimonianza implica un discorso di verità. Giraldo certifica e verifica le
meraviglie irlandesi e così facendo le traspone dal piano leggendario a quello oggettivo 263. Questo
procedimento che assurgerà a principio compositivo delle relazioni odeporiche, provocherà, nei testi
successivi, da un lato la fossilizzazione dei mirabilia antichi, dall’altro condurrà a un allargamento
dell’orizzonte cognitivo. Se è vero, come è stato ripetutamente sottolineato dalla critica, che la letteratura di
viaggio riposa su un’inerzia inventiva che impone la ripetizione degli stessi luoghi comuni, è altrettanto vero
che proprio la certificazione di veridicità affidata alla testimonianza oculare consente di introdurre, nei
repertori tradizionali, prodigi nuovi 264. La relazione di viaggio, infatti, si inserisce all’interno di una dialettica
conosciuto/sconosciuto, tale per cui ciò che è consegnato dalle autorictates non può essere smentito, anzi
chiede di essere confermato oculata fide, e ciò che è ignoto può, attraverso un processo di “domesticazione”,
rientrare nell’orizzonte del conoscibile e a sua volta sclerotizzarsi nella fissità del topos. Ma prima che la
codificazione si compia, i nuovi mirabilia vivono dell’ebrezza della scoperta degli spazi inesplorati e
agganciano la legittimità della loro esistenza e quindi della loro narrazione al solo senso visivo
dell’osservatore/esploratore, il quale soggettivamente sceglie e promuove: Giraldo può così concentare la
sua attenzione sui prodigi irlandesi, Map e Gervasio possono soffermarsi sui portenti locali e i viaggiatori
successivi dell’Oriente potranno integrare meraviglie estranee agli autori antichi, dal Regno del Prete
Gianni 265 alla Valle del Diavolo. La cristallizzazione memoriale di meraviglie, suscitando «una fortissima
impressione di déjà vu» 266, costituirà la linea vincente delle relazioni di viaggio, inclini a scartare la
decostruzione operata da Marco Polo di una serie di mirabilia che si dissolvono a contatto con l’empirismo.
La standardizzazione dei portenti e la «certificazione autoptica» agiscono dunque con la forza modellizzante
dei topoi e plasmano la ricezione anche di quei testi tardivi di viaggi tra il reale e il fittizio (Jean de
Mandeville; Antoine de la Sale), confermando il processo di slittamento ontologico del meraviglioso. Queste
linee strutturali della scrittura odeporica –testimonianza oculare, certificazione di veridicità, ampliamento dei
prodigi e loro codificazione- si ritrovano presenti e interconnesse nell’opera di Giraldo 267, dove, in linea con
altre opere coeve, concorrono all’oggettivazione delle meraviglie. Un processo influenzato, nell’opera del
Cambrense, anche dalle trasformazioni epistemologiche introdotte dalla filosofia della natura: i fenomeni
straordinari, infatti, acquisendo uno statuto fattuale denunciano la loro appartenza al regno della natura
262
L’esempio più noto è la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. I verbi più utilizzati da Plinio a sostegno delle sue
narrazioni sono scribere, tradere, invenire, a fronte di un ridottissimo uso di videre.
263
Giraldo di Cambria, Topographia Hibernica, dist. II, «Incipit», p. 75: «Quaelibet nimirum regiones insulae preaertim
et partes a centro remotissimae, propris quibusdam prodigiis pollent. […] Hoc etiam diligens lector advertat, quia
historia veritati non parcit, potiusque vera quam verisimilia sectatur».
264
A differenza delle raccolte antiche, l’India, per esempio, non è più solo un contenitore libresco, ma uno spazio
percorribile che racchiude le meraviglie descritte nei libri. Il viaggiatore utilizzerà lo stesso bagaglio, ovvero il suo
background canonico, per narrare i fenomeni del Nuovo Mondo, prolungando quell’approccio “orientalista” che tende a
negare l’autentica conoscenza dell’altro. Cfr. E. W. Said, Orientalismo, Milano, Feltrinelli, 1999 (ed. or. New York,
1978); T. Todorov, La conquista dell'America. Il problema dell'altro, Torino, Einaudi, 1984 (ed. or. 1982).
265
L’apparizione storica della lettera latina del Prete Gianni si colloca proprio nello stesso periodo (1165 ca) in cui
operano Giraldo e gli altri autori, costituendo, pur nella ripetizione di luoghi comuni sulle meraviglie d’oriente, un
ampliamento di fatto dell’orizzonte cognitivo dell’occidente, in cerca dell’esotismo nell’unità identitaria cristiana; cfr.
La lettera del Prete Gianni, a cura di G. Zaganelli, Parma, Pratiche, 1990.
266
Cardona, «I viaggi e le scoperte», p. 688.
267
Come già riconosceva Cardona, «non ci sono antecedenti classici per le relazioni di viaggio» («I viaggi e le
scoperte», p. 688), tranne nel genere altomedievale delle visioni. A differenza delle visioni, però, Giraldo riporta
un’esperienza vissuta all’interno di coordinate geografiche realistiche e percorribili.
52
sublunare 268 e sollecitano l’osservatore a interrogarsi sulle cause. Come altri autori delle enciclopedie nei
secoli XII-XIII (cfr. cap. 1), Giraldo è interessato alle res e alla loro costellazione causale 269. Ma la
spiegazione sulla causalità seconda non può prescindere, trattandosi di fenomeni meravigliosi, da
un’interrogazione sull’ontologia degli stessi, così da scardinare come Walter Map e Gervasio, la gnoseologia
patristica. Con Giraldo e poi con Gervasio si abbandona, infatti, il genere di collectanea di fatti mirabili, per
accedere a pieno titolo ad un tentativo di indagine dell’alterità, che, attraverso i procedimenti di
cristianizzazione e di razionalizzazione, si smarca dalla pulsione ‘appropriativa’ insita nell’approccio
simbolico. Se il simbolismo agostiniano consentiva di ricondurre i monstra e portenta all’unitaria
misericordia di Dio, consentendo un’appropriazione e un riconoscimento della difformità nella bellezza del
creato, il processo cognitivo innescato dalla ricerca delle cause seconde tende, al contrario, a cristallizzare le
alterità, nei confronti delle quali si attiva un processo di affermazione identitaria monolitica e compatta. La
relazione con il meraviglioso implica sempre una dialettica alterità/identità che consenta di tracciare i confini
dell’umano e dell’ordinario. Nelle opere dei secoli XII-XII, si tende a ipostatizzare l’identità dell’homo
christianus, a chiuderla in un cerchio rigido e poco permeabile. Le meraviglie dunque non vantano più una
funzione segnica che disvela e conferma l’onnipotenza divina, bensì si accampano dinanzi al soggetto,
rivelando tutta la loro estraneità e la loro oggettiva compatezza. Se inoltre pensiamo che spesso dietro alcuni
portenti si staglia l’agente demoniaco il senso di irriducibilità e di non-appropriazione si approfondisce.
L’indagine razionale espelle la componente simpatetica nei confronti dei monstra e avvia il processo di
esclusione che contrassegnerà in particolare l’epoca moderna 270. In questo senso ha ragione Caroline Walker
Bynum nell’affermare che il ‘meraviglioso’ si definisce «as cognitive, non-appropriative, perspectival and
particular» 271. Il procedimento di non-appropriazione è particolarmente esplicito all’interno dell’opera di
Gervasio, ma investe altresì gli scritti di Giraldo, nonostante la sue reiterate dichiarazioni sull’unità del
Creato. La logica antiappropriativa si intesifica in virtù della testimonianza oculare dal momento che la
certificazione della veridicità impedisce un’identificazione del soggetto esplorante con i mirabilia.
Nonostante tutti gli sforzi di Giraldo tesi a dimostrare la funzione strumentale e semiotica dei prodigi, la sua
scrittura pone in realtà le basi per quella che diventerà la costante antropo-psicologica dei viaggiatori
occidentali nella relazione con l’altro: i popoli esotici, benché figli di Dio, sono condannati dalla
Weltanschauung dell’osservatore all’estraneità e alla non conoscibilità. Dinanzi al soggetto, infatti, si pone
la bizzarria di uno straordinario che ostacola la costruzione di un’autentica relazione con l’altro, così come
testimoniato e confermato dalle tardive relazioni di viaggio nel Nuovo Mondo 272. Il topos della barbarie dei
popoli stranieri è antico, ma all’interno dell’opera di Giraldo sembra rafforzare quella tendenza a scindere i
popoli dalla loro terra -strana, ma fertile e ubertosa 273- così da legittimare e giustificare le imprese
espansionistiche di colonizzazione della corona anglo-normanna. L’opposizione tra le virtù della terra e i vizi
dei suoi abitanti ricorrerà in maniera ossessiva nella successiva letteratura di viaggio e di conquista.
268
Giraldo di Cambria, Topographia Hibernica, «Preafatio secunda», p. 20: «Coepi diligens scrutator eruere, quis terrae
situs, quae natura, quae gentis origo, qui mores, quoties a quibus et qualiter subacta sit et expugnata; quae nova, quaeve
secreta, contra solitum sui cursum in occiduis et extremis terrarum finibus natura reposuit.»
269
In particolare si vedano i capitolo della dist. I, consacrati alla descrizione di alcuni fenomeni metereologici: I, VI, p.
27: «De ventositate et pluviositate earumque causis».
270
Sull’esclusione/reclusione delle alterità e le implicazioni storiche e filosofiche nella costruzione dell’Europa
moderna, i classici M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 1998 (I ed. 1973; ed. or. 1961);
Id., Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 2005 (I ed. 1976; ed. or. 1975); J. Delumeau, La paura in Occidente, Torino,
SEI, 1978 (ed. or. 1978).
271
C.Walker Bynum, Metamorphosis and Identity, New York, Zone Book, 2005, p. 39. La studiosa americana applica
la sua definizione al meraviglioso medievale in generale, quindi anche alle elaborazioni agostiniane. A noi sembra,
invece, che proprio la caratteristica della non-appropriazione sia specifica della riflessione teorica dei secoli XII-XIII, in
quanto le mostruosità spesso generano orrore e incapacità di compenetrarle.
272
Cfr. Todorov, La conquista dell’America.
273
In particolare Giraldo sottolinea il contrasto tra la ricchezza delle risorse e la loro inutilizzazione a causa del
comportamento ozioso e vizioso dei suoi abitanti, Topographia Hibernica, III, X, pp. 151-152: «Agris igitur passim
ututntur pascuis, parum floridis, cultis parce, consitis parcissime. Sunt culti quidem […] agri perpauci, plurimi tamen
sui natura fertiles et fecundi».
53
Nell’osservazione degli indigeni, inoltre, Giraldo non tace le loro qualità che si riducono essenzialemente
alle alte capacità musicali: gente nequissima e barbara, ma con un talento per la musica eccezionale 274. La
barbarie 275 degli Irlandesi coincide con un sistema di norme primitive e incivili: i neonati sono abbandonati
allo stato di natura; le vesti sono di lana grezza e molto sommarie; i guerrieri sono armati di lance corte,
giavellotti e pietre, non usano le selle; in generale gli irlandesi sono incapaci di far fruttare la loro terra così
ricca di materie prime (metalli) e fertile; nella fede sono ignoranti e bestiali 276. Ma la diversità degli Irlandesi
dipende anche dalla difformità e dalla mostruosità corporea causata dal traviamento morale e da
comportamenti contro natura 277.
Estraneità, diversità, meraviglia, certificazione oculare sono le categorie, che derivate, alcune,
dall’enciclopedismo antico, si risemantizzino e modellano le relazioni di viaggio: la loro proficua
interconnessione e operatività nei testi di Giraldo confermano il suo ruolo fondativo degli schemi retorici e
concettuali della letteratura odeporica medievale.
Giraldo sceglie, dunque, di narrare il suo viaggio irlandese rispondendo al desiderio di riequilibrare la
distribuzione dei mirabilia dell’ecumene: non solo l’oriente è un collettore di eccessi prodigiosi, ma anche
l’estremo occidente.
Sicut enim orientales plagae propriis quibusdam et sibi innatis preaminent et praecellunt, sic et occidentales
circumferentiae suis naturae miraculis illustrantur.278
L’Irlanda condivide alcuni tratti propri delle terre aliene e deserte: la configurazione geografica, montuosa; la
cultura ‘barbarica’ degli abitanti; i fenomeni prodigiosi 279.
L’impresa di Giraldo, tuttavia, non è priva di rischi, se l’autore deve ribadire, contro la maldicenza dei
denigratori, la legittimità della propria opera, invocando, e pour cause, le auctoritates di S. Girolamo e di
274
Giraldo di Cambria, Topographia Hibernica, III, XI. Sulle doti musicali dei celti, in particolare dei bardi, numerose
sono le testimonianze antiche, solo per citarne alcune: Diodoro Siculo (Biblioteca Storica, ll. I-V a cura di G.F.
Gianotti, A. Corcella, I. Labriola, D.P. Orsi, Introduzione di L. Canfora, Palermo Sellerio 1986, V, 31); Lucano (De
Bello civile, ed. e trad. it. L. Canali, la guerra civile o Farsaglia, Milano, BUR, 1981, I, 447-449); Strabone,
(Geografia. Iberia e Gallia, a cura di F. Trotta, Milano, BUR, 1996, IV, 4,4); Festo (De significatione verborum, ed. A.
Dacerio, London, A.J. Valpy, 1826, II, p. 109). Giraldo si sofferma in particolare sulla tessitura melodica della musica
celtica e sui suoi effetti benefici (cap. XII) sull’anima. Fornisce inoltre l’elenco degli strumenti, comparandoli a quelli
usati da Scozzesi e Gallesi. Gli Irlandesi suonano essenzialmente la lira (cithara) e il timpano. In questa suddivisione
degli ambiti culturali – da un lato la barbarie civile , religiosa e politica; dall’altro le qualità di musici e di liutai- sembra
quasi di avvertire l’eco della fascinazione degli Occidentali ‘normati’ per le culture ‘irrazionali’ e ‘creative’,
fascinazione che ha continuato a strutturare lo sguardo nei confronti dell’altro fino all’epoca contemporanea. Alla
legittimazione della superiorità razziale nei confronti del ‘primitivo’, del secolo XIX e della prima metà del XX, si è
contrapposta l’esaltazione del ‘primitivo’ in funzione di critica anti-occidentale, senza che un reale sforzo di relazione
dialettica con l’alterità sia mai stato tentato. Si pensi, ad esempio, a tutto il recupero esaltante che certe aeree della
contro-cultura degli anni ’60-’70 ha proposto dello spontaneismo dei popoli non occidentali, continuando a sottolineare
quella scissione tra ragione e sentimento che aveva già portato i romantici dell’Europa settentrionale ad appassionarsi ai
‘popoli’ del sud, alla loro musica, al loro temperamento sanguigno. Una sorta di “orientalismo” interno attuato dal
Nord-Europa nei confronti del Sud (Italia e Spagna, in particolare). Su quest’ultimo punto si veda M. Scotti, Gotico
mediterraneo, Reggio Emilia, Diabasis, 2007.
275
Giraldo di Cambria, Topographia Hibernica, III, X, p. 151: «Est autem gens haec gens silvestris, gens inhospita,
gens ex bestiis solum et bestaliter vivens ; gens a primo pastoralis vitae modo non recedens.» Si noti la coscienza della
primitività degli Iralndesi. I loro pessimi costumi sono descritti nello stesso capitolo.
276
Giraldo di Cambria, Topographia Hibernica, III, XIX, p. 164: «Gens enim haec gens spurcissima, gensi vitiis
involutissima, gens omnium gentium in fidei rudimentis incultissima.» La bestialità degli Irlandesi apparteneva da
tempo alla tradizione dell’opera evangelizzatrice di San Patrizio.
277
Giraldo di Cambria, Topographia Hibernica, III, XXV, p. 181: «Ad haec autem tot caecos natos, tot claudos, tot
corpora vitiates et naturae beneficio destitutos, in alia non vidimus natione. […] Nec mirandum si de gente adultera,
gente incesta, gente illegitime nata et copulata, gente exlege, arte invida et invisa ipsam turpiter adulterante naturam,
tales interdum contra naturae legem natura producat».
278
Giraldo di Cambria, Topographia Hibernica, «Praefatio secunda», p. 20.
279
Sulle costanti tematiche delle relazioni odeporiche, cfr. Cardona, «I viaggi e le scoperte», pp. 705-711; Bertolucci
Pizzorusso, Scritture di viaggio.
54
Agostino a sostegno di una visione simbolico-figurale dell’universo, all’interno della quale ogni prodigio è
comunque segno della potenza creatrice di Dio.
Nell’ Introitus all’Expugnatio Hibernica, dopo aver difeso la propria scelta di inserire descrizioni o
narrazioni di creature ed eventi prodigiosi, che, a detta degli invidiosi, appartenendo al regno dell’incredibile
e dell’inverosimile, inficiano la validità dell’opera generale, Giraldo argomenta:
Advertat autem sanius et attendat, justa Ieronimi sententiam, multa in scripturis incredibilia reperiri, nec
verisimilia, quae nhilominus tamen vera sunt.Nihil enim contra naturae Dominum praevalet natura. Nec
detestari debet, sed admirari, sed venerari Creatoris opera quaevis creatura 280.
E al termine delle lunghe citazioni tratte da Agostino (De civitate Dei, XXI, 4-8), Giraldo ribadisce la
funzionalità allegorica e gnoseologica dei portenti, perché cessi l’invidia dei malevoli.
Videat itaque livor, nec invideat, naturae Dominum contra naturam prae oculis hominum multa sponte
patrasse, quibus evidenter pateat et clarescat, plus Deum posse quam hominem nosse, longeque trans omnem
humanam intelligentiam divina ineffabiliter extendi potentia281.
Il quadro teorico di riferimento, in cui collocare i mirabilia, sembra essere dunque quello agostinianopatristico, eppure nella trattazione dei singoli fenomeni prodigiosi, affiorano riflessioni che procedono in una
direzione diversa.
A differenza di Walter Map e di Gervasio di Tilbury, Giraldo, trattando di monstra del regno animato,
sembra interessarsi più agli ibridi che alle metamorfosi, dimostrando in questo senso un maggior
attaccamento alla precedente letteratura di portenta. Rispetto a Isidoro, tuttavia, la portata allegorica di certe
creature sembra dissolversi nella totale assenza della semantica simbolica 282. La donna «barbata» 283, così
come la «vacca cervina»284, non assolvono apparentemente nessuna funzione segnica, non essendo, come
sosteneva Isidoro, moniti o prefigurazioni di eventi a venire 285. Ma proprio questo svuotamento trasforma i
simulacra in oggetti, spazialmente visibili e percepibili. A ribadire la concezione oggettiva-fattuale di un
difforme che significa solo la propria mostruosità, nell’ultima redazione Gervasio aggiunge la testimonianza
di una donna ermafrodita «visa» in Connacht 286.
Ma l’ibrido, se accogliamo un’interessante riflessione di Caroline Walker Bynum sulla differenza tra ibrido e
metamorfosi, si pone anche come la cifra di una spazialità visiva che trasmigrerà nella successiva letteratura
odeporica:
They [metamorfosi e ibridi] express different rhetorical strategies and different ontological visions, as the
literacy critics say, they do different cultural work. The hybrid expresses a world of natures, essences, or
substances encountered through paradox; it resists change. Metamorphosis expresses a labile world of flux
and transformation, encountered through story. […] A hybrid is a double being. It is an inherently visual
280
281
Giraldo di Cambria, Expugnatio Hibernica, «Introitus», p. 210.
Ivi, p. 211.
282
Isidoro di Siviglia, Etymologiarum, XI, III, 2: «Portenta autem et ostenta, monstra atque prodigia ideo nuncupantur,
quod portendere atque ostendere, monstrare ac praedicare aliqua futura videntur».
283
Giraldo di Cambria, Topographia Hibernica, II, XX, pp. 107.
Ivi, II, XXII, p. 109.
285
Funzione segnica che i monstra ben esplicitano all’interno delle opere storiografiche latine del secolo XI, per
esempio nelle Historiarum libri V di Rodolfo il Glabro, dove i prodigi sono sempre figurae di accadimenti prossimi o
venturi; cfr. II, V, «De portento aureliane urbis mirabile»; II, X, «De inundantia lapidum»; ecc.
286
Giraldo di Cambria, Topographia Hibernica, II, XX, «De muliere barbata» p. 107.
284
55
form. […] Metamorphosis goes from an entity that is one thing to an entity that is another. It is essentially
narrative 287.
Non è certo casuale la scelta dei viaggiatori orientali di descrivere in particolare mostruosità ibride, più che
metamorfiche: dai Cinocefali agli Sciapodi, alle donne barbute, ecc., il repertorio antico viene rivitalizzato e
potenziato in funzione di una mappatura spaziale concreta e percorribile.
Accanto agli esseri misti, Giraldo si sofferma poi su quegli ibridi, frutto di illecite unioni e commistioni tra
generi diversi, in particolare tra uomini e bestie. Gli amplessi mirabili tra donne e capri o tra donne e leoni
(dist. II, XXIII-XXIV) rivelano l’ansia sollevata dalla perdita di un’identità umana a contatto con la
bestialità. La deformità si pone quindi come indice di indistinzione, di annullamento dei confini, riportando
al centro del discorso la questione ontologica dell’immutabilità della sostanza288. La trasgressione si attua
così attraverso una caduta dell’umano verso il ferino, caduta il cui agente principale è la donna. Ma
l’angoscia per incroci innaturali che minino l’identità si approfondisce di fronte ai processi di metamorfosi, il
cui focus è costituito dalla verità/realtà della trasformazione stessa. Nel capitolo dedicato all’uomo-lupo e
alla donna-lupo, i timori di Giraldo si ricollegano al più ampio dibattito sull’incarnazione del Cristo e sulla
concezione ‘materialista’ della transustanziazione. L’importanza dell’episodio dell’uomo-lupo parlante è
sottolineata fin dalle prime righe, grazie al ricorso ad un impianto probatorio solido e inattaccabile: la precisa
collocazione temporale («circa triennum ante adventum domini Johannis in Hiberniam»); l’origine
geografica del testimone e la sua qualifica professionale («contigit quendam presbyterum de partibus
Ultoniae»); la puntuale localizzazione spaziale («versus Mediam itinerantem, in silva quadam conjuncta
Mediae pernoctasse»).
L’episodio è noto: un lupo parlante si avvicina al prete chiedendogli di amministrare il sacramento
dell’estrema unzione a sua moglie, donna-lupo, vecchia e ammalata. Allo stupore del prelato, il lupo
risponde raccontando la storia degli abitanti di Ossory, costretti alla metamorfosi lupina per un settennio
dalla maledizione dell’abate Natale. Trascorsi sette anni l’uomo e la donna esiliati dalla società degli uomini
in forma lupina, riassumono sembianze umane e vengono reintegrati. L’interesse dell’episodio, a parte il
processo di forte umanizzazione della componente ferina, risiede, in particolare, nelle aggiunte successive
inserite da Giraldo 289, aggiunte che mirano a chiarire il quadro teologico e filosofico all’interno del quale
collocare un processo di metamorfosi che incide sulla stabilità identitaria della sostanza umana. Il problema,
infatti, per Giraldo non è quello di stabilire se nella trasformazione ferina si perda l’essenza della natura
umana 290, quanto se sia fattualmente vera e reale la metamorfosi. Rispetto al primo punto, infatti, Giraldo
non si discosta dal dettato agostiniano, essendo assodato che i lupi di Ossory altro non sono che uomini
rivestiti di pelle di lupo, diversamente dai lupi mannari di Gervasio (cfr. ultra). L’interrogativo che aveva già
stimolato le riflessioni della Patristica riguardava la trasformazione di Nabucodonosor: nella forma animale
aveva comunque conservato l’essenza umana oppure no? La risposta, anche sulla base del racconto di
Apuleio, tendeva a negare una dissoluzione della natura umana in quella ferina. Ma la rassicurazione sulla
mutabilità della forma e non della sostanza lascia Giraldo insodisfatto, tanto che a più riprese torna sul
capitolo XIX, tentando di volta in volta di precisare e di chiarire il quadro concettuale e teologico
soggiacente ai fenomeni di metamorfosi. Ed è proprio la gradualità delle postille che, dalla posizione
marginale della glossa, vengono via via integrate nel testo a darci la misura di un’inquietudine crescente che
si risolve, in fondo, in una profonda aporia.
287
Walker Bynum, Metamorphosis and Identity, p. 29.
Cfr. Walker Bynum, Metamorphosis and Identity, pp. 30 e sgg.
289
Cfr. Walker Bynum, Metamorphosis and Identiy, pp. 15-28.
290
Sulla metamorfosi in Agostino, De civitate Dei, XVIII, già citato in cap. 1, n.18; sulla concezione della metamorfosi
nel medioevo: L. Harf-Lancner, «La métamorphose illusoire: des théories chrétiennes de la métamorphose aux images
médiévales du loup-garoup», Metamorphose et bestiaire fantastique au Moyen Age, études rassemblées par L. HarfLancner, Paris, Ecole Normale Superieure de Jeunes Filles, 1985, pp. 208-226; sulla metamorfosi depotenziata in
Giraldo, cfr. C. Donà, «Approssimazioni al lupo mannaro medieval», Studi Celtici, IV (2006), pp. 105-153.
288
56
La stessa tensione che attraversa le pagine di Gervasio nel capitolo dedicato ai lupi mannari (III, 102, cfr.
supra), anima le spiegazioni di Giraldo, il quale dimostra attraverso la difficile conciliazione di due
concezioni divergenti (l’una ‘fattuale’, l’altra ‘illusionista’) quanto scissa sia la coscienza dei colti sul finire
del secolo XII, impossibilitati ad aderire totalmente alla concezione patristica e quindi in preda a tormentosi
dubbi di ortodossia. I paragrafi di commento allegorico e teologico alla metamorfosi lupina si susseguono
secondo il ritmo spiazzante dell’affermazione e della rispettiva negazione, per concludersi con uno
scivolamento marcato verso un’interpretazione realistico-materialista della trasformazione, che non assurge,
tuttavia, a conclusione definitiva.
Conclusa la narrazione con la partenza del prete che ha somministrato l’eucarestia agli uomini lupi, Giraldo
si sposta sul versante della discussione con le seguenti parole:
Non itaque discedendum, sed potius fide certissima est amplectendum, divinam naturam pro mundi salute
humana naturam assumpsisse; cum hic solo Dei nutu ad declarandama sui potentia et vindictam non minori
miraculo humana natura lupinam assumpserit 291.
Il sillogismo dunque mira ad affermare la realtà della trasformazione, non solo formale ma sostanziale: così
come Cristo ha modificato la propria natura divina, assumendone una umana, gli uomini-lupo mutano la
natura umana in lupina.
La posizione sostenuta nel corso della narrazione da Giraldo contrasta, tuttavia, con questa affermazione. Il
fatto che l’uomo lupo conservi sotto la pelle del lupo il proprio corpo umano impedisce una sostanziale
metamorfosi e colloca la trasformazione sul piano dell’apparenza. È proprio alla luce di questo dispositivo di
censura e di difesa che il dibattito conclusivo acquista particolare rilevanza. Perché Giraldo sente il bisogno
di sviscerare e analizzare la questione, quando ha già dato parziale risposta sulla metamorfosi apparente nella
scena della donna che si sveste della pelle lupina? 292
A sostegno di una trasformazione depotenziata e in contrasto con il sillogismo precedente, l’argomentazione
di Giraldo procede incalzante sul punto più controverso: un essere come l’uomo-lupo può essere considerato
umano o bestiale? L’autore si chiede, infatti, se possa essere chiamato uomo colui che acquisisce sembianze
ferine. La risposta, sulla scorta degli esempi tratti da Agostino (De civitate Dei, XVIII, 17) e da Apuleio, è
ovviamente positiva. A questo punto, Giraldo sembra accorgersi dello scoglio concettuale sul quale si è
arenato: ma se l’essenza umana non muta anche sotto le sembianze lupine, la metamorfosi appartiene al
regno delle illusioni demoniache o al campo della realtà fisica e fattuale? Il prete è stato ingannato da una
visione fantastica o ha visto due veri lupi? Lo snodo è dirimente perché si ricollega a quello slittamento che
abbiamo visto operare già nelle opere di Map e che si ritroverà nei testi che analizzeremo in seguito. Senza
tematizzare il focus della questione, Giraldo ricorre agli exempla per illustrare le due possibili opzioni. Le
due posizioni, illusione VS realtà, a questo punto si fronteggiano. Giraldo inserisce dapprima l’esempio dei
maiali resi grassi e rossi dalle arti magiche, trasformazione illusoria che a contatto con l’acqua293 si dissolve;
poi si sofferma sulla metamorfosi leporina delle streghe che succhiano abusivamente il latte delle mucche.
La differenza qualitativa è tradita da una serie di spie linguistiche: nella metamorfosi dei suini all’apparenza
evanescente si contrappone la vera natura, mentre nel caso delle streghe è in atto un passaggio da una forma
all’altra.
Sed hi [porci] statim ut aquam aliquam transitabant evanescentes, in propriam et veram revertebantur
naturam […] Assumpta species ultra triduum non durabat.
291
Giraldo di Cambria, Topographia Hibernica, II, 19, p. 104.
Giraldo di Cambria, Topographia Hibernica, II, 19, pp. 102-103: «Pellem totam a capite lupae retrahens, usque ad
umbeliculum replicavit, et statim expressa forma vetulae cujusmodi apparuit». Per inciso, ricordiamo che il lupo
mannaro latino descritto da Petronio è chiamato Versipellis, cfr. Donà, «Approssimazioni al lupo mannaro».
293
Sulle proprietà esorcistiche dell’acqua e le sue virtù si veda anche Guglielmo di Malmesbury, Gesta Regum
Britannicum, II, 170, p. 201: «Nihil quod per nigromantiam fit potest in aqua aspectum intuentium fallere».
292
57
Item vetulas quasdam […] se in leporinam trasmutare formam […] vetus quidem et adhuc frequens querela
est 294.
Nel primo caso, dunque, siamo nel regno dell’inganno e dell’incantesimo, nel secondo, invece, ci troviamo
di fronte a esseri che possono cambiare forma. L’indecisione di Giraldo e la sua tentennante spiegazione
ontologica sugli uomini lupo si riflette nella scelta dell’angolo visuale da cui narrare gli exempla probatori.
L’esempio dei maiali è significativamente introdotto da «vidimus», formula di certificazione che pone al
centro della testimonianza il soggetto autoriale e la sua autorevole responsabilità; quello delle streghe è,
invece, chiuso dall’impersonale costrutto «querela est». L’assenza della testimonianza personale, nel breve
racconto sulle streghe, impedisce di giungere alla piena verificabilità del narrato, mentre i giochi di prestigio
esercitati dai maghi sui maiali ricevono il sigillo indiscutibile della testimonianza soggettiva oculare.
Sembrerebbe, dunque, che Giraldo propenda più per una concezione ‘illusionista’ delle metamorfosi. La
spiegazione che segue l’episodio delle streghe, infatti, si attiene fermamente al canone agostiniano-patristico.
Daemones igitur seu malos homines sicut nec creare ita nec naturas veraciter mutare posse, simul cum
Augustino sentimus. Sed specietenus, quae a vero Deo creata sunt, ipso permittente, commutant; ut scilicet
videantur esse quod non sunt; sensibus hominum mira illusione captis et sopitis, quatinus res non videant
sicut se habent, sed ad falsas quasdam et fictitias videndum formas vi phantasmatis seu magicae incantationis
mirabiliter abstahantur 295.
Il nodo teorico sembrerebbe sciolto e chiarito una volta per tutte, ma a conclusione, Giraldo ribalta le
affermazioni precedenti, sostenendo la realtà delle metamorfosi, in quanto, «indubitata veritate credendum»
che Dio possa,
sicut naturas creare, sic et easdem cum voluerit in se invicem permutare seu vindicando, seu divinam
potentiam declarando, vel unam in alteram penitus transferre296,
come è accaduto nella trasformazione della moglie di Loth, nella mutazione dell’acqua in vino, oppure in
tutti quei casi in cui:
interiore manente natura solum exterius transformare, sicut in propositis patet exemplis 297.
L’intero ragionamento tradisce la problematicità teorica dell’autore: rettificando la precedente asserzione
sulla natura umana che si trasforma in lupina, a sostegno della quale sta il confronto con l’incarnazione di
Cristo, Giraldo precisa che, interiore manente natura, la metamorfosi è solo esterna. Ma se fosse solo esterna
rientrebbe nelle competenze dei praestigia dei sensi operati dal demonio,
quatinus res non videant sicut se habent, sed ad falsas quasdam et fictitias videndum formas vi phantasmatis
seu magicae incantationis mirabiliter abstahantur.
Ecco dunque che Giraldo invoca la potenza creatrice di Dio, a garanzia di una metamorfosi che non intacca
la sostanza, ma che appartiene al regno dei fenomeni reali, concreti, veri. Unica vera metamorfosi sostanziale
è quella eucaristica, in cui «specie tota manente substantia sola mutatur»298, ma sull’argomento, afferma
Giraldo, «preaetereundum tutius extimavi» 299. Per riassumere il ragionamento oscillatorio di Giraldo,
294
Giraldo di Cambria, Topographia Hibernica, II, 19, p. 106.
Ibidem.
296
Ibidem.
297
Ibidem.
298
Ibidem.
299
Ibidem.
295
58
l’autore passa da una concezione di trasformazione sostanziale, supportata dall’esempio dell’incarnazione
del Cristo, per poi ribaltare questo assunto che cozza con lo sviluppo stesso dell’episodio narrato, e
propendere per una visione illusionista, ‘fantastica’, salvo poi invocare l’infinita potenza creatrice per
giustificare una trasformazione non sostanziale, bensì, formale e tuttavia vera e oggettiva. Il ricorso alla
comparazione con il miracolo della transustanziazione, la cui concezione ‘materialistica’ tendeva ormai, nel
secolo XIII, a prevalere su quella simbolica, sembra confermare la svolta realistico-fattuale e
contemporaneamente denunciare tutta la difficoltà di Giraldo a collocare e a interpretare l’ontologia della
metamorfosi, nel momento in cui ribadisce la distinzione tra ciò che «interiore manente natura solum
exterius transformare» e ciò che «specie tota manente substantia sola mutatur». L’opposizione conclusiva
fotografa l’aporia di fondo in cui il nostro resta impigliato.
Giraldo tende dunque a ricondurre tutti i prodigia all’azione onnipotente di Dio 300, da cui dipendono anche i
proposita exempla, eliminando la pericolosa mediazione dei demoni, capaci di intervenire soltanto sulla vis
phantasmatica. Ma la reductio ad Deum di tutti i fenomeni di metamorfosi sembra, in ogni caso, ribadire la
realtà oggettiva e fattuale degli stessi, così che, in linea con gli altri autori del periodo, anche Giraldo apporta
il suo contributo a quello che abbiamo definito slittamento ontologico dei mirabilia, non più agenti solo
sull’homo phantasticus agostiniano, ma appartenenti a pieno titolo a quell’universo di sensibilia oggettivi
che si accampano dinanzi al soggetto. D’altronde la scelta di eleggere a causa dei prodigi Dio, li ricolloca
nell’ambito del miracolo, la cui oggettiva esistenza non era mai stata messa in discussione. La tipologia del
miracolo, ovvero la trasformazione di uomini in lupo, poteva, tuttavia, generare qualche dubbio e perplessità.
Il titolo del capitolo si oppone, infatti, in maniera significativa a fenomeni catalogoabili come veri e propri
miracoli:
II, XIX, De mirabilibus nostri temporis. Et primo de lupo cum sacerdote loquente.
II, XLIV, Miraculis nostri temporis. De cruce Dubliniae loquente et testimonium veritate perhibente.
Il demoniaco, invece, può manifestare concretamente il suo potere solo nell’ottica della smaccata
denigrazione propagandistica, così esplicita da ridurre tutto il nucleo ambiguo e inquietante della leggenda
pseudo-melusiniana della sposa sconosciuta a mera strumentalità pamphlettistica.
Nel De Principis Instructione, III, XXVII, Giraldo riprende il motivo della sconosciuta dall’anomalo
comportamento in chiesa e lo collega esplicitamente al lignaggio di Enrico II Plantageneto. L’operazione di
demolizione della corona inglese si muove sul doppio binario della demonizzazione degli antenati di Enrico
II e della denuncia delle peccaminose unioni di Eleonora. Il capitolo, infatti, è titolato:
De origine tam regis Henrici quam Alienirae reginae et radice filiorum omni ex parte vitiosa.
Le notizie su Eleonora si iscrivono pienamente all’interno della leggenda nera circolante sulla regina, di cui
si bollano i vizi come tara atavica, trasmessa dal pessimo nonno Guglielmo IX. Giraldo dunque cerca di
rafforzare l’aspetto destinale e genetico della dannazione di entrambi i regnanti inglesi. Di Guglielmo IX,
erroneamente identificato con il padre di Eleonora, Giraldo riporta il ratto della moglie del visconte del
castello di Chatelherault e il suo ostinato rifiuto nella restituzione della donna al legittimo marito. L’episodio
si chiude con il monito profetico dell’eremita sulla futura infelicità della sua prole. Segue quindi il ritratto di
Eleonora, concubina del futuro suocero Goffredo d’Angiò, durante il suo soggiorno presso la corte francese.
La trama dei vizi ereditari che Giraldo tesse intorno alla figura di Enrico si ispessisce nella ricostruzione del
delitto perpetrato proprio da Goffredo d’Angiò nei confronti del vescovo Gerardo II di Séez, prefigurazione
dell’uccisione di Tommaso di Canterbury. La fitta dimostrazione dell’origine maledetta del re e della regina
300
Deo permittente è la locuzione garante dell’ortodossia che introduce le sezioni esplicative sull’ontologia degli esseri
mirabili anche in Walter Map e Gervasio di Tilbury, ma, a differenza, di Giraldo, la locuzione si impone come topos
dottrinario, più che come reale motivazione di fenomeni, esplicitamente connotati in senso diabolico.
59
si conclude con il racconto della sconoscita contessa d’Angiò che fuggiva dalla Chiesa prima della
consacrazione eucaristica. Insospettito, il marito decide un giorno di trattenerla coadiuvato da quattro soldati.
La donna, allora, afferrati due dei suoi quattro figli, si involò non ricomparendo mai più. Conclude Giraldo
che questo aneddoto era solitamente ricordato dal re Riccardo per giustificare la bellicosità fratricida della
sua famiglia. L’episodio della donna demoniaca di origini sconosciute confermava dunque tutta la sua
vocazione di denigrazione propagandistica, in parte già sfruttata da Walter Map, ma costituiva anche un
tassello del processo di incarnazione di esseri demoniaci che a causa della loro provenienza aliena destavano
sospetti e timori. La corte di Enrico II sembra porsi come un enorme serbatoio narrativo, al pari di quella
arturiana, all’interno della quale la condivisione e la circolazione dei racconti si traduceva in una circolarità
delle narrazioni e in una loro ripetitività che tendeva a fissarsi in un locus communis, in una convenzione.
Walter Map e Gervasio di Tilbury, in particolare, riferiscono, con sviluppi diversi, gli stessi episodi, in modo
tale che, come era accaduto per i portenta ereditati dall’antichità, la ricorsività tendesse a creare una sorta di
enciclopedia di mirabilia, trasmettendo anche ai secoli successivi gli stessi temi e le stesse fabulae, variate
negli intrecci, ma tutte intersecantesi.
Collegata alla storia della Dama dell’Esparvier, la narrazione di Giraldo si contraddistingue per la sua
estrema asciutezza esemplare e per la capacità di connettere i due racconti di Walter Map e di Gervasio
attraverso una serie di elementi minimi, ma marcati.
Item, comitissa quaedam Andegaviae, formae conspicuae sed nationis ignotae et a comite ob solam corporis
elegantiam ductae, ad ecclesiam raro veniebat et tunc in ea parum vel nihil devotionis ostendebat, numquam
autem usque ad canonem Missa secretum remanebat, sed cito post Evagelium semper exire solebat. Tandem
tam a comite quam ab aliis hoc cum admiratione notato, cum ad ecclesiam illa venisset et hora solita exire
pararet, videns a quatuor militibus praecepto comite se retineri, rejecto statim pallio per quod tenebatur et
duobus filiis suis parvis, quos sub dextro pallii panno secum habebat, ibi relictis, cum caeteris filiis duobus,
qui stabant a sinistra, sub brachio arreptis, per fenestram ecclesiam sublimen, cunctis intuentibus, evolavit 301.
Del racconto di Walter, Henno, Giraldo riprende testualemente la bellezza, mentre il motivo della
provenienza ignota, non eplicitamente tematizzato da Map, struttura con ripetitività ossessiva le narrazioni
‘melusiniane’ di Goffredo d’Auxerre.
Parentes et patrima ignorabat uxoris 302.
Ma da Walter Map, Giraldo mutua anche il motivo dell’anomalo comportamento in chiesa, motivo che per la
prima volta compare proprio nel De nugis. A differenza del testo di Map, tuttavia, la contessa d’Angiò non
simula una fervida partecipazione alle cerimonie liturgiche.
Frequens erat in ecclesia mater, illa frequencior. […] Ut fine concludat optato maliciam, omnem in
conspectu hominum complet leticiam 303.
La moglie di Henno è decisamente più pericolosa, in quanto scientemente inganna la societas cristiana; la
contessa d’Angiò, al contrario, non ostenta una grande devozione e la sua finale agnizione e relativa
scomparsa sono già inscritte nei suoi comportamenti quotidiani. Assente, invece, nel racconto di Map la
conclusione all’interno della chiesa 304, il motivo si ripresenta nell’episodio della Dama dell’Esparvier narrato
da Gervasio.
301
Giraldo di Cambria, De Principis instructione, III, XXVII, p. 301.
Goffredo d’Auxerre, Super Apocalypsim, XV, p. 186.
303
Walter Map, De nugis curialium, IV, 9, p. 348.
304
Henno, infatti, irrompe con l’acqua benedetta in casa, dove risiedono la moglie e l’ancella che poi voleranno via dal
tetto.
302
60
La narrazione di Giraldo non comunica l’angoscia e il dubbio lacerante sulla natura di certi esseri che
pervade sia il testo di Map che quello di Gervasio: la demonicità della contessa è un dato assodato,
indiscutibile e, pur rivestendo la precipua funzione di screditare la corona inglese 305, dimostra come andava
sempre più radicandosi una concezione dell’incarnazione demonica nei corpi femminili, pienamente sfruttata
in epoca moderna.
2.3.2 Gli Otia Imperialia di Gervasio di Tilbury: la progressiva sostanzializzazione/ incarnazione dei
mirabilia
L’opera di Gervasio di Tilbury, che negli ultimi anni ha risvegliato l’interesse dei medievisti 306, costituisce
uno dei capitoli principali del processo di trasformazione dei mirabilia. All’incrocio tra lo Speculum
principis, la storia universale e la descrizione geografica, ad attrarre l’interesse degli studiosi è stato
soprattutto il libro III, collectanea di eventi e fatti mirabili dell’ecumene. In realtà, i capitoli destinati ad
accogliere le meraviglie orientali sono esigui, mentre predominante risulta il repertorio proveniente dalle
provincie occidentali, fisicamente visitate dall’autore.
Prima di procedere, tuttavia, all’analisi del libro terzo, è utile soffermarsi sulla biografia 307 dell’autore e
sull’occasione storica della composizione. Formatosi alla corte Plantageneta, Gervasio si dedica agli studi
giuridici a Bologna prima, per poi trasferirsi temporaneamente a Napoli. All’interno della corte anglonormanna Gervasio è legato a Enrico il Giovane, per il quale, stando alle sue parole, aveva composto una
raccolta di nugae, Liber facetiarum, poi rifuse e rielaborate negli Otia. Entrato al servizio di Ottone di
Brunswick, viene da questi nominato Maresciallo del regno di Arles, carica che conserva fino alla morte.
Dedicati all’Imperatore Ottone IV di Brunswick nell’anno (1219) in cui quest’ultimo era già decaduto dal
titolo per effetto della scomunica papale, gli Otia si propongono, innanzitutto, di offrire un modello
pedagogico all’autorità imperiale e di indirizzare le sue relazioni diplomatiche con il papato teocratico di
Innocenzo III. Le nugae avevano già rivelato tutta la loro potenzialità edificante grazie all’opera di Walter
Map; Gervasio si inscrive nello stesso filone che pone l’educere dilectando tra le sue priorità. I mirabilia
sono così funzionali, come già nel testo di Map, ad allietare le ore di riposo dell’imperatore, senza mai
derogare alla finalità didattica.
Gli anni in cui si colloca, dunque, la composizione/rielaborazione degli Otia comprendono la crociata antialbigese promossa da Innocenzo III (1208), l’incoronazione di Ottone IV (1209), il conflitto con il Papa e la
guerra franco-inglese tra Filippo II Augusto e Giovanni senza Terra, nipote di Ottone IV (1215).
Le conflittuali relazioni dell’Imperatore con il Papa, spingono spesso Gervasio a tentare una difficile
riconciliazione attraverso il duplice canale dei consigli offerti a Ottone perché smussi le sue posizioni più
ostili e della ricezione delle formulazioni ortodosse dei due Concili Laterani, III (1179) e IV (1215). Il
reticolato delle urgenze politiche informa così tutti i libri degli Otia, orientando, a volte, in maniera
massiccia l’approccio e l’interpretazione dell’autore di una serie di credenze e di fenomeni prodigiosi.
L’ambizione didattica dell’opera è evidenziata dalla sua partizione interna, ricalcata sul modello delle
enciclopedie universali. Il primo libro ripercorre la storia dell’umanità dalla Genesi al Diluvio e si conclude
con una disquisizione sull’allegoria dell’Arca. Il secondo libro, invece, ambisce alla descrizione geografica
dell’ecumene, il terzo è interamente dedicato ai mirabilia. L’aspetto più interessante è sicuramente costituito
dall’attenzione alle configurazioni storico-geografiche e culturali delle regioni interne allo spazio occidentale
medievale e in particolare alle terre conosciute e visitate direttamente dall’autore. Rispetto alle opere di
Giraldo, vere e proprie relazioni di viaggio, gli Otia conservano dunque una fisionomia composita ed
305
La monarchia è esplicitamente qualificata come tirannide al termine del capitolo; Giraldo di Cambria, De Principis
Instructione, III, XXVII, p. 303 : «tyrannis in insula».
306
Nel 2009 sono state pubblicate in Italia, due traduzioni del libro terzo degli Otia: Gervasio di Tilbury, Otia
Imperialia, a cura di F. Latella, Roma, Carocci («Biblioteca medievale» 129), 2010; Il libro delle meraviglie, a cura di
E. Bartoli, Pisa, Pacini, 2009.
307
Per le notizie biografiche rinviamo a Banks, Binns, «Introduction», in Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, pp. 2636.
61
eterogenea, ma, ciononostante, costituiscono un capitolo significativo nella costruzione dei modelli
concettuali e strutturali della scrittura odeporica.
Il debito dell’autore nei confronti della tradizione degli specula affiora nella lettera dedicatoria e nel prologo,
all’interno del quale si riflette l’attualità politica del conflitto Papato-Impero. Partendo dalla famosa epistola
di Gelasio I 308, Gervasio distingue le prerogative del regnum e del sacerdotium, scivolando gradualmente
dall’affermazione di una distinzione dei poteri verso la concezione della supremazia del potere papale,
fortemente promossa dalla politica teocratica di Innocenzo III 309. Il filo rosso dell’edificazione del principe,
tuttavia, si dipana all’interno dell’intera opera, dato che spesso le narrazioni, in particolare quelle fantastiche,
sono accompagnate da un commento o da una glossa morale direttamente indirizzata all’Imperatore.
Il riflesso dell’attualità storico-politica è, comunque, determinante nella rielaborazione di credenze e figure
di origini folkoriche, connesse alle angosce suscitate da una realtà sempre più pervasa dal pericolo della
diffusione epidemica dell’eresia. Alla paura del contagio bisogna accostare un altro fattore di choc
psicologico, derivante dal profondo mutamento che contrassegnò l’atteggiamento della Chiesa: durante la
crociata antialbigese alla misericordia si sostituì il rogo. L’impatto sull’immaginario collettivo fu
sicuramente devastante: Gervasio manifesta tutta la sua inquietudine nel momento in cui al fantasma del
giovane che torna dal purgatorio il prete chiede quale sia la valutazione nell’aldilà dell’eccidio degli
Albigesi: ça va sans dire è una delle azioni che più hanno gratificato Dio 310. La formula di autoassoluzione è
piena, ma l’autoassoluzione non tacita le angosce. La reazione anti-ereticale di Gervasio affiora in più punti
della sua opera 311 e se ne può ben comprendere l’urgenza se si pensa alla situazione in cui versavano i
territori confinanti con il Regno di Arles e ai tentativi di pacificazione e di mediazione promossi dagli
Otia 312. L’ipoteca di una captatio benevolentiae nei confronti di Innocenzo III è talmente marcata da
indirizzare anche la scelta di alcuni eventi, personaggi o fenomeni meravigliosi. Come abbiamo già
anticipato, all’interno della corte Plantageneta la circolazione e la condivisione di temi e racconti tracciano
una sorta di repertorio a cui i clerici Regis attingono. Gervasio di Tilbury conferma questa tendenza,
inserendo nei suoi Otia un corpus di récits già trattati da Walter Map: le narrazioni melusiniane, i racconti
eziologici sul Gouffre de Sathalie, la storia dell’uomo acquatico Nicola Pipe (Colapesce). Gervasio, tuttavia,
non riprende la storia di Gerberto, probabilmente perpecipita come offensiva della dignità papale e sceglie,
invece, l’altra grande figura di mago medievale, Virgilio 313. Sempre sul filo dell’attualità e dell’opportunità
politica, Gervasio seleziona un piccolo gruppo di testi sulla miracolosa immagine sacra di Cristo: la
308
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, Praefatio, «Collatio sacerdocii et regni», pp. 3-15.
Le posizioni di Innocenzo III riecheggiano in diversi luoghi dell’opera, in particolare la concezione della supremazia
del potere papale sul quello imperiale; cfr. Otia Imperialia II, 18; II, 19.
310
Gervasio di Tilbury, Iimperialia, III, 103, p. 778: «Interrogatus si mors ac invernicio Albiensium Deo placeret,
respondit prime nullum factum regionis illius tantum Deo placuisse; et adiecit quod bonos Deus vult discerni a malis in
suo iudicio.» L’ultima frase anticipa la dichiarazione attribuita da Cesario di Heisterbach al legato pontificio Arnaud
Amaury: « Caedite eos! Novit enim Dominus qui sunt eius»; Cesario di Heisterbach, Dialogus miraculroum, V, XXI;
anche la traduzione italiana Cesario di Heisterbach, Sui demoni, a cura di S.M. Barillari, Alessandria, Edizioni
dell’Orso, 1999.
311
Alla confutazione dell’eresia albigese, Gervasio dedica un capitolo, in cui riepiloga tutte le posizioni canoniche
contro le dottrine manichee ; Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, I, 2: «Diversitas opinionum et confutatio
hereticorum Albiensium». Sulle posizioni antiereticali di Gervasio A. Duchesne, Le livre des merveilles : divertissement
pour un empereur (troisième partie), Paris, Les Belles Lettres, 1992, «Introduction», pp. 1-17 ; R. Chanaud, «Le
Chevalier, la fée et l’hérétique: une ancêtre valentinoise de mélusine, la dame du Château de l’Epervier», Le Monde
Alpin et Rhodanien, X13, 1985, p. 31-54.
312
In particolare i moniti all’imperatore perché rientri sotto la tutela del papa, Otia Imperialia, II, 18, p. 452: «Precor
itaque, chistianissime imperator, ut cum tuo consecratore nullam habeas controiversiam, sed velut boni patris prudens
filius, convertere gladium ad gentes que te non noverunt; et sicut ex sanctissimi Innocentii pape tercii duplici gratia
ultimum imperatoris nomen obtinuisti, sic per bonam innocentiam tuam et eius gratiam, imperium novum et a Deo sub
Costantino firmatum obtineas».
313
Sulla confusione-sovrapposizione delle due figure di saggi, affetti da sospetti di magia anche negromantica, cfr.
Oldoni, Gerberto e il suo fantasma, pp. 206-213; il classico, ancora valido D. Comparetti, Virgilio nel Medioevo,
Livorno, Coi tipo di Francesco Vigo, 1872, 2 voll.; vol. II, p.15, p. 25; pp. 81-90, pp. 136-137.
309
62
Veronica 314. Proprio la Veronica si ritrova al centro di un complesso discorso iconico-ideologico imperniato
sulla translatio imperii da Costantinopoli a Roma, promosso da Innocenzo III 315. Nella rielaborazione dei
prodigi operata da Gervasio, le coordinate storico-politiche si intrecciano, dunque, ai mutamenti
epistemologici e gnoseologici del secolo XIII (cfr. cap. 1).
La figura dell’intellettuale che inaugura un approccio proto-scientifico ai mirabilia, consegnatoci dalla critica
francese 316, deve essere, dunque, integrata da altri aspetti che informano la sua opera, dal momento che
Gervasio costituisce un importante anello all’interno di quella schiera di mediatori culturali che daranno un
apporto fondamentale al processo di sostanzializzazione del meraviglioso in direzione di una forte
demonizzazione dello stesso. Gervasio, infatti, più di altri autori contribuisce al superamento della visione
illusionista di certe figure dell’immaginario ‘popolare’, promuovendo la formazione di una costellazione
nuova che integra nelle coordinate dottrinarie delle élites colte la concezione magica folklorica. Un perfetto
esempio di mediatore 317, dunque, che trasforma i mirabilia nel luogo della mediazione tra immaginario
collettivo e immaginario individuale, procedendo ad una riformulazione di tipologie folkloriche destinate a
sicuro, quanto funesto successo. Ci riferiamo in particolare a tutti quei racconti sulle lamie, le fate, i lupi
mannari e gli uomini drago che nascondono le diaboliche ossessioni dell’autore.
La verifica sul campo e la presenza di una testimonianza oculare, mutuate dalla storiografia, contribuiscono
invece, come in Giraldo, a costruire il modello della «certificazione autoptica», fondante la scrittura
odeporica. In questo senso, Gervasio, tanto quanto Giraldo, innova completamente le collezioni antiche di
mirabilia, e si sposta sul versante della relazione di viaggio, riferendo eventi accaduti in luoghi realmente
visitati. La certificazione di veridicità dunque sarà fondamentale sia per spostare l’asse del discorso dalle
auctoritates libresche alla responsabilità personale della testimonianza sia per attribuire uno statuto
sostanzialistico-oggettivo alle phantasiae.
Il primo esempio è costituito proprio dal racconto, che inserito nel capitolo intitolato De oculis apertis post
peccatum, costituisce la protostoria di Melusina. La narrazione melusiniana svolge la funzione di esempio
probatorio dell’infida contiguità della donna con il demonio e dell’incarnazione delle entità maligne in corpi
femminili. In linea con la prassi inquisitoria inaugurata da Innocenzo III e poi sancita dal Laterano IV 318,
l’indagine di Gervasio procede dalla fama per raccogliere fatti che la certifichino. Seguendo la Historia
scholastica di Pietro Comestore, Gervasio riprende l’immagine del serpente ginocefalo che conosce una
relativa fortuna iconografica in Occidente fino al secolo XII, per trasformarsi poi in un topos a partire dalla
seconda metà del secolo XIII fino al tardo Rinascimento 319. Le parole di Gervasio non lasciano dubbi: alla
citazione testuale del testo di Comestore 320, segue la conferma dell’esistenza di simili ibridi attraverso la
sapiente incastonatura di fama (tradunt ) e di fatti probatori, raccolti da testimoni fededegni in epoche coeve
allo scrittore.
314
Anche Girado di Cambria riporta una delle versioni sull’immagine acheropita della Veronica, Speculum Ecclesiae,
IV, 6.
315
Cfr. E.Burgio, Racconti di immagini, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001, pp. 113-131; J. C. Schmitt, «Rituels de
l’image et récits de visions», in Testo e immagine nell’Alto Medioevo, Spoleto, C.I.S.A.M., 1994, pp. 419-462.
316
Le Goff, «Il meraviglioso nell’Occidente medievale»; J.C. Schmitt, Religione, folklore e società nell'Occidente
medievale, Bari, Laterza, 1988; Id., Spiriti e fantasmi nella società medioevale, Bari, Laterza Editore, 1995 (ed. or.
1994).
317
J.C.Schmitt, Medioevo «superstizioso», Roma, Economica Laterza, 2004 (ed. or. 1988), pp. 95-96.
318
Constitutiones Concilii Lateranensis, A. Garcia Y Garcia, coll. M. J. C., serie A, vol. II, Città del Vaticano 1981,
can. 8. Sul passaggio dalla procedura accusatoria a quella inquisitoria, cfr. N. Cohn, I demoni dentro. Le origini del
sabba e la grande caccia alle streghe, Milano, Unicopli, 2008 (ed. or. 1975; II ed. riv. 1993), pp. 61-71; A. Boureau,
Satana eretico. Nascita della demonologia nell’Occidente medievale (1280-1330), Milano, Baldini e Castoldi, 2004 (ed.
or. 2004), pp. 50-54.
319
Donà, «La metamorfosi segreta», tavv. 15-22.
320
Pietro Comestore, Historia scholastica, Gen., c.21 ; PL, CXCVIII, 1072: «Elegit enim diabolus quoddam genus
serpentis femineum vultum habentis, quia similia similibus applaudunt, et movit ad loquendum linguam eius»
63
De serpentibus tradunt vulgares quod sunt quidam femine que mutantur in serpentes, que ita dinoscuntur:
habent enim ligaturam albam quasi vittam in capite. Sane quod in serpentes mutari dicunt feminas mirandum
quidem est, sed non detestandum 321.
A sostegno della sua argomentazione, l’autore prosegue: «vidimus enim frequenter in Anglia per lunationes
homini in lupos mutari» 322. La metamorfosi del lupo mannaro riferita ad una testimonianza in prima persona
costituisce il primo fatto probatorio della possibile esistenza delle donne-serpente, ulteriormente suffragata
dal ritorno alle auctoritates, ovvero ad Agostino 323 e al suo racconto sulla metamorfosi degli amanti
recalcitranti in asini. Delle considerazioni del vescovo d’Ippona, tuttavia, Gervasio non riporta testualemente
i dubbi e lo scetticismo rispetto ad una trasformazione reale 324, ma cerca di condensarli in un’interrogazione
sulla natura o meglio sulle cause di simili fenomeni, producendo un effetto di ribaltamento dello stesso
dettato agostiniano.
Quod tamen nescio delusioni oculorum spectantium assignem, aut quia demones discurrunt per mundum et
subito semina rerum de quibus hic agitur referunt, ut ait Augustinus de virgis quas magi verterunt in
dracones 325.
Gervasio seleziona, infatti, un’affermazione di Agostino che sembra contraddire quanto sostenuto dallo
stesso nel commento esplicativo alla mutazione degli uomini in asini, ovvero che i demoni
non itaque solum animum, sed nec corpus quidem ulla ratione crediderim daemonum arte vel potestate in
membra et lineamenta bestialia veraciter posse converti, sed phantasticum hominis, quod etiam cogitando
sive somniando per rerum innumerabilia genera variatur.
In realtà, il paradosso non si colloca sul versante agostiniano, dal momento che al vescovo di Ippona era ben
chiaro che ai demoni era preclusa la facoltà di mutare anime e corpi umani, ma non quella di trasformare
oggetti inanimati come le verghe dei maghi, bensì è generato dal tentativo di Gervasio di accreditare lo
slittamento oggettivo-materialistico della metamorfosi restando all’interno di coordinate teoriche
‘illusioniste’.
L’ultima prova e quindi la conferma della presenza reale delle donne anguipedi derivano da una narrazione
veridica sull’antenata di Melusina.
Scio equidem mihi pridem relatum veridica naratione quod in Aquensi provincia, paucis ab Aquis miliaribus,
est castrum Russectum, quod vallem Trezensem sub se missam respicit 326.
La precisa ricostruzione delle coordinate geografiche, sorretta dalla testimoninanza personale, definisce il
quadro realistico all’interno del quale si situa la narrazione. Nei pressi del fiume Lar, vicino Aix, Raimondo
incontra una donna di indicibile bellezza che lo saluta, chiamandolo per nome. Come Meridiana fuga i dubbi
321
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, I, 15, p. 86
Ibidem.
323
Agostino, De civitate Dei, XVIII, 18-23; PL, 41, col. 574, racconta l’episodio delle donne greche o siciliane che
trasformavano in asini chi si sottraesse ai loro amplessi.
324
Ivi, XVIII, 18, col. 574: «Haec vel falsa sunt vel tam inusitata, ut merito non credantur. Firmissime tamen
credendum est omnipotentem Deum posse omnia facere quae voluerit, sive vindicando sive praestando, nec daemones
aliquid operari secundum naturae suae potentiam […] nisi quod ille permiserit, cuius iudicia occulta sunt multa, iniusta
nulla.Nec sane daemones naturas creant, si aliquid tale faciunt, de qualibus factis ista vertitur quaestio; sed specie tenue,
quae a vero Deo sunt creata, commutant, ut videantur esse quod non sunt. Non itaque solum animum, sed nec corpus
quidem ulla ratione crediderim daemonum arte vel potestate in membra et lineamenta bestialia veraciter posse converti,
sed phantasticum hominis, quod etiam cogitando sive somniando per rerum innumerabilia genera variatur».
325
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, I, 15, p. 88.
326
Ibidem.
322
64
di Gerberto rivelando la conoscenza del suo nome 327, così la giovane dama, interpellandolo per nome,
rassicura Raimondo che, nonostante lo stupore, si lancia nelle avances.
Cumque salutata a milite ipsum ex nomine resalutasset, ille ab ignota se nominatum audiens miratur, et
nihilominus, ut moris est, illa cepit verbis lascivis interpellare ut ei consentiat 328.
Il resto della storia segue lo schema melusiniano. La sconosciuta apporta ricchezze e benessere al giovane e
con lui genera una splendida prole. Impone un unico tabù: di non essere spiata durante il bagno. Raimondo
trasgredisce e la donna:
in serpentem conversa, misso sub aqua balnei capite, disparuit, numquam visa in posterum nec audita, nisis
quandoque de nocte cum ad infantulos suos visitandos veniebat 329.
In conclusione, Gervasio ricorda la sventura del cavaliere: la perdita di tutte le sue ricchezze alla partenza
della donna sovrannaturale.
La storia narrata da Gervasio è più vicina a quella trascritta da Goffredo d’Auxerre che a quella di Henno:
mancano infatti l’anomalo comportamento in chiesa e la scomparsa attraverso il volo, mentre si ribadisce
l’ibrida natura terrestre e acquatica della donna, dal momento che, come la fata di Langres, si dilegua durante
il bagno. Gli elementi assenti verrano reintegrati dal Maresciallo di Arles nell’episodio della Dama
dell’Esparvier, in cui è però non ritroviamo il tratto ofidico della donna. Sembra, così, che Gervasio, pur
procedendo ad una prima agglutinazione di motivi riguardanti il femminile demoniaco (cfr. ultra), stia
attento a mantenere distinti quegli schemi narrativi che devono risultare funzionali alla sua progressiva
dimostrazione della natura dannata di alcune creature. Il suo discorso sfocerà in una formulazione unitaria
nel capitolo 86 della decisio III. Scopo di questa prima apparizione della donna anguipede è quello di
dimostrarne contemporaneamente la realtà e la connaturale contiguità con gli essere diabolici; tra il serpente
con volto di donna del giardino dell’Eden e la donna-serpente di Raimondo si istituisce un rapporto di logica
deduzione sillogistica in absentia: se il demonio parla attraverso il serpente-donna, se le donne serpente
esistono come testimoniato e certificato, tutte le donne serpente rientrano nella sfera del Maligno.
La tendenza a spostare l’asse della consistenza ontologica dei mirabilia dall’illusione alla materialità è
riscontrabile in differenti luoghi del testo. Ancora nel primo libro, nel capitolo dedicato ai fauni, Gervasio
sente la necessità di certificare la loro corporeità attraverso una moltiplicazione di prove: sotto il regno di
Costantino un fauno fu condotto ad Alessandria e il suo cadavere fu conservato sotto sale 330. Nonostante il
riferimento teorico sia sempre Agostino, affiora la ferma adesione da parte di Gervasio ad una concezione
sostanzialistica-oggettiva di certi fenomeni.
Ma le intepretazioni più interessanti e gli scollamenti più significativi rispetto alla concezione agostinianapatristica si incontrano nel libro III. L’introduzione è nota ed è largamente citata dalla critica a sostegno
dell’atteggiamento ‘protoscientifico’ dell’autore, nonché di una chiara tassonomia del meraviglioso.
Enimvero non ex loquaci ystrionum garrulitate ocium decet imperiale imbui, sed potius, abiectis importunis
fabularum mendaciis, que vetustatis auctoritas comprobavit aut scripturarum firmavit auctoritas aut cotidiane
327
Walter Map, De nugis curialium, IV, 11, p. 352 : «Subtrahit ergo pedem furtim ut effugiat, fantasma sive prestigia
timens. At illa ipsum ex nomine vocans, cofifere iubet.»
328
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, I, 15, p. 88.
329
Ivi, p. 90.
330
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, I, XVIII, p. 100: «Nam Alexandriam istiusmodi homo [il fauno] vivus
perductus magnum populo spectaculum prebuit; et postea cadaver exanime, ne calor estatis dissiparetur, sale infusum
Antiochiam, ut ab imperatore videretur, allatum est.» Anche Gervasio, come Walter Map, distingue le tipologie di
demoni e riferendo lo stesso episodio dell’incontro di Antonio con i fauni e i satiri, attribuisce a quest’ultimi una natura
mortale: «Mortalis ego sum, et unus ex accolis heremo, quos vario errore delusa gentilitas faunos satirosque et incubos
colit».
65
conspectionis fides oculata testatur ad ocium sacri auditus sunt ducenda. […] Que inaudita percipiuntur
amplectimur, tum ex mutatione cursus naturalis quam admiramur, tum ex ignorantia cause cuius ratio nobis
est imperscritabilis, tum ex assuetudine nostra quam il aliis variari sine cognitione iudicii iusti cernimus. Ex
hiis duo proveniutn: miracula et mirabilia. […] Porro miracula dicimus usitatius que preter naturam divinam
virtuti ascribumus. […] Mirabilia vero dicimus que nostre cognicioni non subiacent. […] Nullus ergo
fabulosa iudicet que scribimus 331.
In effetti il prologo riassume le linee portanti dell’intera opera: vocazione didascalica attraverso il principio
dell’educere dilectando e quindi polemica contro le fabulae degli istrioni; certificazione di veridicità che
sottrae il meraviglioso alle nebulose della leggenda; distinzione tipologica dello stupore e della meraviglia;
pulsione cognitiva della conoscenza per sensibilia, laddove l’esperienza si pone come momento principe per
un’indagine delle cose, della loro natura, delle cause, delle loro qualità metamorfiche.
Unde hec rebus insita concidio prodierit quis indicare quaet, cum et ignis admiranda sit permutatio qui, cum
natura sit lucidus, ipse sui colore pulcherrimus omnia que lambit decolorat, dum ex ardente fulgenteque
pruna carbonem reddit teterrimum […] Cumque carbonum materia, lignum, sub aqua aut terra putrascat, ad
carbonum perpetuitatis indicium sub terminis agrariis carbones ponuntur 332.
Gervasio, forse ancor più di Giraldo, risente l’influsso del movimento che investe il sapere enciclopedico nel
corso del secolo XII: a guidare il chierico è un’indagine sulle res, sulle loro proprietà, a prescindere dal
significato simbolico. Sarà proprio questa particolare propensione a decrivere i fenomeni conoscibili per
sensus che gli permetterà di collocare all’interno di coordinate realistico-fattuali tutti gli esseri che agiscono
nel mondo sublunare, alterandone la fisionomia. Le creature diaboliche, così come gli stessi demoni, vivono
all’interno di quello spazio aereo caliginoso compreso tra il cielo e la terra 333 e sembrano quindi appartenere
di diritto all’universo naturale conoscibile e percorribile. Il demonio non si configura ancora come un
contropotere soprannaturale 334, ma la strada della sua incarnazione è già tracciata e all’interno di questa
Gervasio svolge un ruolo importante. Rispetto alla posizione illusionista alto-medievale, infatti, una serie di
pratiche e di credenze afferenti i poteri di alcune donne che, ad esempio, all’interno del Decretorum libri XX
di Burcardo erano perfettamente distinte, cominciano ad assumere una fisionomia non ancora unitaria, ma
reticolare, in una direzione opposta a quella di Burcardo 335: tutto ciò che nel Decretorum libri XX è
condannato in quanto illusio demoniaca, nel testo di Gervasio è stigmatizzato in quanto dotato di realtà
corporea oggettivata. La sua definizione di mirabilia -fenomeni appartenenti al regno di natura- comprende
anche tutti quegli eventi straordinari gravati dal sospetto demoniaco:
331
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, Prologus, pp. 558-562.
Ivi, p. 560.
333
Agostino, De agone christiano, PL, 40, col. 290, 3.3: « Daemones quomodo in coelestibus sunt, et rectores
tenebrarum. Sic et Apostolus dicit, quod in semetipso pugnet adversus potestates exteriores. Ait enim: Non est nobis
colluctatio adversus carnem et sanguinem, sed adversus principes et potestates huius mundi, rectores harum
tenebrarum, adversus spiritalia nequitiae in coelestibus Coelum enim dicitur etiam iste aer, ubi venti et nubes et
procellae et turbines fiunt; sicut etiam Scriptura dicit multis locis: Et intonuit de coelo Dominus; et, aves coeli; et,
volatilia coeli; cum manifestum sit aves in aere volare. Et nos in consuetudine hunc aerem coelum appellamus: nam
cum de sereno vel nubilo quaerimus, aliquando dicimus: Qualis est aer? aliquando: Quale est coelum? Hoc dixi, ne quis
existimet ibi habitare mala daemonia, ubi solem et lunam et stellas Deus ordinavit. Quae mala daemonia ideo Apostolus
appellat spiritalia, quia etiam mali angeli in Scripturis divinis spiritus appellantur. Ideo autem rectores harum
tenebrarum eos dicit, quoniam peccatores homines tenebras appellat, quibus isti dominantur. Ideo et alio loco dicit:
Fuistis enim aliquando tenebrae; nunc autem lux in Domino; quia ex peccatoribus iustificati erant. Non ergo arbitremur
in summo coelo habitare diabolum cum angelis suis, unde lapsum esse credimus.»
334
Cfr. Delaurenti, La puissance des mots, p. 144 e segg.
335
Sulla concezione quasi ‘illuminista’ di Burcardo e le coordinate concettuali di un milieu che «non fosse ancora in
grado di operare una sintesi delle componenti mitiche, leggendarie, cultuali», si veda S.M. Barillari, «Il vescovo e le
mulierculae: credenze e pratiche tradizionali agli albori dell’anno Mille», in Secretum Secretorum. Saperi e pratiche
all’alba della scienza sperimentale, Genova, Nova Scripta Edizioni, 2011, pp. 25-47; p. 41.
332
66
Sicut inter homines quidam mirabilia natura producit, ita spiritus, in humanis corporibus aeriis que assumunt
ex divina permissione, ludibria sui faciunt 336.
Il riferimento è ai nettuni, demoni abbastanza innocui, tanto che Gervasio si chiede se si possano dire tali o
se non siano «secretas et ignote generationis effigies» 337, ma nel capitolo consacrato ad esseri ben più
inquietanti e minacciosi, afferma:
accedit circa mundi huius mirabilia questio de lamiis et dracis 338.
Prima di affrontare la questione dei draghi e delle lamie, bisogna, però, soffermarsi sull’episodio della dama
dell’Esparvier, per le sue implicazioni ideologico-concettuali. La funzione didattico-edificante
dell’exemplum è esplicitata nella breve introduzione :
Frequens est ut angeli Satane in angelos lucis se transforment et in humanis mentibus aliquid diabolice
inmissionis nutriant 339.
Abbiamo visto come il ricorso frequente, nei testi dei secoli XII-XIII, alla lettera paolina e all’angelo della
luce alludesse alla dissimulazione del Nemico e dei suoi emissari fin nel cuore della cristianità340. Sulla
scorta di san Bernardo, inoltre, le parole dell’Apostolo si prestavano ad una lettura allegorica dalla forte
valenza antiereticale 341. Ma Bernardo aveva fornito anche indicazioni per smascherare gli eretici che
accentuavano la componente misogina della paura:
Quonam modo capimus illos? Revertamur ad consortium et conturbernium feminarum: hoc enim inter eos
nemo qui careat 342.
La dama dell’Esparvier è strettamente imparentata alla dama di Henno (Map) e alla contessa d’Angiò
(Giraldo). Gervasio, tuttavia, omette il racconto dell’incontro e cala, invece, il lettore in medias res:
Erat in regni Arelatensis finibus, episcopatu Valentino, castrum Esperver nomine. Huius castri domina in
assiduma consuetudinem duxerata statim inter missarum sollempnia post evangelium ecclesiam egredi; nec
enim poterat consecrationem dominici corpori presentialiter sustinere.343
336
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, 61, p. 674.
Ibidem..
338
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, 85, p. 716.
339
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, 57, p. 664.
340
Un esempio ancora in Giacomo da Vitry, Vita Maria Oigniacensi, Acta Sanctorum 5 (Junius), coll. 542-572, III, IX:
«Quidam autem ex amicorum suorum praecipuis, a daemonio meridiano perambulante in tenebris, aliquando tanto
periculosius, quanto subtilius tentabatur. Callidus enim ille inimicus, transfigurans se in Angelum lucis, quasi sub specie
pietatis, in somnis praedicto amico suo familiariter apparebat; de quibusdam vitiis eum aliquando reprehendens,
quaedam etiam bona ut faceret fraudulenter admonens; promittens antitodum ut, latentius subinserret venenum». Il
riferimento è ad un tentato assalto alla santa da parte del Nemico sotto le false spoglie di un amico. Sulla funzione
antiereticale della Vita di Maria d’Oignies, cfr. A. Vauchez, «Prosélytisme et action antihérétique en milieu féminin au
XIIIᵉ siècle: la Vie de Marie d’Oignies (+1213) par Jacques de Vitry», in Propagande et contre-propagande religieuses,
ed. par J. Marx, Bruxelles, Editions de l’Université de Bruxelles, 1987, pp. 95-111.
341
Ancora in Jean Gerson nel secolo XIV è utilizzata la stessa citazione in riferimento ai Begardi e Turlupini, Jean
Gerson, Sur la théologie mystique, intr., trad., notes M. Vial, Paris, Vrin, 2008 (edizione di riferimento De Mystica
Theologia, ed. A. Combes, Lugano, Thesaurus Mundi, 1958), pp. 66-68: «Hoc in Begardis et Turelepinis manifestum
fecit experientia, dum itaque sequebantur affectus suos sine regula et ordine, postposita lege Christi, praesumptio
nequissima precipitavit eos ut dicerent hominem postaquam ad pacem tranquillam spiritus pervenisset, absolutum esse
legibus divinorum praceptorum. Quam pacem in eis causabat angelus Satane, transfigurans se in angelum lucis».
342
Bernardo di Clairvaux, Sermones in Cantica, Sermo LXV, p. 542. Bernardo prosegue attaccando la promiscuità degli
eretici in linea con la polemistica coeva.
337
67
Il marito si insospettisce e indaga, ma non riesce a scoprire la causa dello strano comportamento della
consorte, finché un giorno non decide di trattenerla e
statim sacerdote verba consecratoria proferente, domina spiritu diabolico levata avolat 344.
Del racconto, Chanaud 345 ha sottolineato l’elemento di polemica antiereticale, addirittura esplicito nel
commento morale che Gervasio inserisce alla fine della narrazione: un monito all’imperatore affinché si
guardi dai falsi credenti che infestano le sue terre provenzali 346. Segue quindi una lunga riflessione sulla
necessità di frequentare assiduamente la messa e di assistere fino al termine della funzione, insistendo sulla
centralità della consacrazione quale momento fondante della comunità ecclesiale, secondo quanto veniva
stabilito dal Laterano IV 347. L’eucarestia confermava così la sua funzione di esorcismo contro gli spiriti
maligni e ribadiva per contrappasso la sua estrema centralità nei confronti di chi negando l’incarnazione di
Cristo, inficiava in profondità il mysterium dell’Ecclesia cristiana.
Gervasio costruisce, quindi, una narrazione che, come in Walter Map, ruota interamente intorno
all’inquietudine fantastica: persone insospettabili che di colpo rivelano una facies demoniaca; vicini e
conoscenti che d’un tratto si manifestano nella loro terribilità, scatenando una sensazione di paura e di
accerchiamento. La dama dell’Esparvier è, in questo senso, speculare ai draghi antropomorfi.
La leggenda degli uomini-drago si rivela estremamente interessante per indagare il processo di incarnazione
che investe i metamorfi nell’opera di Gervasio e di altri suoi contemporanei. I draghi esplicitano, in un certo
senso, la metamorfosi della donna ofidica della I decisio: sono draghi, quindi serpenti che possono assumere
sembianze umane, proprio come aveva già detto Goffredo d’Auxerre a proposito della fata di Langres:
«serpens in forma mulieris» 348.
Dicono («vulgus asserit»), afferma Gervasio, che i draghi possano assumere forma umana. Il loro regno
sorge sotto i fiumi, dove nelle spelonche e nelle caverne acquatiche hanno edificato splendidi palazzi e dove
conservano mirabili tesori. Frequentano le piazze e i luoghi pubblici dissimulati sotto umane spoglie e
attirano bambini e donne lavandaie che frequentano i corsi d’acqua attraverso ninnoli e oggetti preziosi, per
seguire i quali i malcapitati si tuffano. Spesso rapiscono delle donne perché svolgano la funzione di nutrici
dei loro figli e dopo sette anni le lasciano andare ben ricompensate. Seguendo lo schema già sperimentato nel
caso della storia di Raimondo, alla fama Gervasio fa seguire la prova attraverso la testimonianza in prima
persona.
Vidimus equidem huiuscemodi feminam raptam 349.
La donna narra che è stata nutrice di draghi e che un giorno spalmando involontariamente grasso di anguilla
su un occhio abbia acquisito una vista magica, che le ha permesso di riconoscere, proprio nella piazza di
Beaucaire, il drago che l’aveva rapita; il quale vistosi scoperto, decide di cavarle l’occhio. La donna, inoltre,
343
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, 57, p. 664.
Ibidem.
345
Chanaud, «Le Chevalier, la fée et l’hérétique», pp. 40 e ss. Chanaud individua il bersaglio di Gervasio nelle sette
eretiche di Pietro di Bruis.
346
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, 57, p. 664 : «Hinc tibi, felix Auguste, doctrina sumenda est circa eos qui
circa divina sacramenta devoti sunt, et contra illos qui fornicantur a Deo, contempnentes sacramenta per manus nostri
temporis sacerdotum ministrata. […] Heretici sunt hii, qui solem contempnunt transeuntem per immunda loca.»
347
Constitutiones Concilii Lateranensis, can. 1: «Una vero est fidelium universalis Ecclesia extra quam nullus omnino
salvatur in qua idem ipse sacerdos et sacrificium Iesus Christus cuius corpus et sanguis in sacramento altaris sub
speciebus panis et vini veraciter continentur transsubstantiatis pane in corpus et vino in sanguinem potestate divina ut ad
perficiendum mysterium unitatis accipiamus ipsi de suo quod accepit ipse de nostro».
348
La trasformazione umana degli esseri ofidici è transeunte come ci viene confermato dal racconto indiano sulla morte
di Balarama, fratellastro di Krisna, il quale sotto forma di serpente lascia il corpo umano privo di vita e si dirige verso le
acque dell’Oceano; H. Zimmer, Miti e simboli dell’India, Adelphi, 1993, p. 86.
349
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, 85, p. 718
344
68
riferisce che i draghi mangiano gli uomini rapiti 350 e assumono sembianze umane e che in questa forma sono
visti di notte nei pressi della porta boreale della città di Arles. Commenta Gervasio che questi draghi sono
della stessa natura della Tarasca, a sua volta parente strettissimo di quel Leviatano veterotestamentario, che
altro non è che un avatar di Satana e conclude con l’inquietante racconto di una voce che giunge dal fiume
esigendo un sacrificio umano e che si placa solo quando un giovane, correndo nei pressi degli argini, viene
inghiottito tra i flutti.
Riconosciamo nella trama della narrazione la combinazione di vari motivi folklorici di larga diffusione e di
lunga durata 351, motivi che vanno a comporsi in una dimensione esemplare, in cui la carica mitica è
decisamente depotenziata. La figura del drago eponimo, assorbito dall’agiografia alto-medievale nei vari
racconti di sconfitta o sottomissione della bestia da parte del santo - tradizione implicitamente richiamata da
Gervasio nell’accenno alla Tarasca e alla leggenda di Santa Marta- aveva già ricevuto una forte connotazione
maligna 352. Ciò che rende interessante il testo di Gervasio è il suo valore di testimonianza di credenze che
non si spengono con la vittoria del santo cristiano di epoca antica, ma significativo è anche l’atteggiamento
del chierico, il quale, decisamente più rinunciatario rispetto agli agiografi, non propone nessuna catartica
vittoria sugli esseri inquietanti, lasciandoli vivere nella certezza di un’esistenza che rafforza il senso di infido
assedio da parte di schiere pericolose e in alcuni casi nocive. Il conclusivo sacrificio umano richiesto dal
drago suona come un’ammissione di impotenza da parte dei legittimi promotori istituzionali del bene.
I draghi sono fortemente equivoci: ricompensano, a volte, le nutrici, ma mangiano gli uomini rapiti,
custodiscono gelosamente la loro segreta identità, come le fate 353, al punto da cavare gli occhi alla
sventurata, possono assumere umane sembianze, generando una sorta di turbamento fantastico, poiché i
luoghi familiari (la piazza del mercato) si scoprono improvvisamente frequentati da esseri alieni e forse
malevoli. Il senso di insicurezza, di precarietà dinanzi a personaggi che si mimetizzano nella normalità
risulta rafforzato: non è un caso che gli uomini-drago frequentino la città e in particolare il mercato, i luoghi
in cui si concentrano in quest’epoca le tensioni teologiche e ideologiche sollevate dalle eresie e dalla
350
Ibidem : «Narrabat eque miranda, quod hominibus raptis draci vescebantur et se in humana species transformabant.»
Cfr. M. Di Febo, «Diaboliche ossessioni: le metamorfosi in Gervasio di Tilbury», in Metamorphosis, a cura di S.M.
Barillari, Roma, Aracne, in corso di stampa. Sulle varie figurazioni del serpente all’interno della fiaba e sulle
implicazioni funerarie e contemporaneamente iniziatiche si veda V. Propp, Le origine storiche dei racconti di fate,
Torino, Bollati Boringhieri, 1985 (ed. or. Moskva, 1946). Alcuni dei nuclei individuati da Propp si ritrovano nel
racconto gervasiano: dal regno subacqueo (e il suo legame con il regno dei morti) ai balzelli del serpente. Le figure
degli dei serpentiformi, sotto diverse latitudini collegati alle dee anguipedi, si collocano nella costellazione archetipica
degli dei civilizzatori. Al serpente piumato Quetzalcoatl, sposo della dea anguiforme Cihuacohuatl, sono ascritti
l’invenzione della scrittura e il dono del mais; cfr. Dizionario delle religioni, a cura di P. Poupard, Milano, Mondadori,
2007, p. 1506; G. Clapp Vaillant, La civiltà azteca, Torino, Einaudi, 1992. Nella mitologia cinese uno dei primi
imperatori, Fu Hsi, fratello e sposo di Nuwa, dea anguipede, creatrice dell’umanità, è l’estensore dell’I-ching e la sua
azione segna il passaggio dalla bestialità alla civiltà, attraverso l’istituzione del matrimonio, la cottura dei cibi,
l’invenzione del primo trigramma, eroe civilizzatore, insomma, della stirpe di Cecrope, cfr. M.E. Lewis, Writing and
authority in Early China New York, State University of New York Press, 1999. I draciis di Gervasio presentano,
invece, una forte affinità con i naga indiani, serpenti che possono assumere sembianze umane, oppure ibridi
dracontopodi, che vivono sotto i corsi d’acqua in splendidi palazzi tempestati di gemme e di perle, dove custodiscono
immensi tesori. Nel loro regno, Patala, gli inferi, vivono anche le numerose nagini che si accoppiano con i mortali
come nei racconti melusiniani e a cui sembra alludere Gervasio nell’accenno alle mogli dei draghi, cfr. Zimmer, Miti e
simboli dell’India, p. 64. Sul versante del folklore europeo, in particolare irlandese e inglese riscontriamo la presenza
dei seguenti motivi repertoriati da St. Thompson, Motif-index of folk-literature : a classification of narrative elements in
folktales, ballads, myths, fables, medieval romances, exempla, by Stith Thompson, Helsinki, Suomalainen
tiedeakatemia, 1932-1936, 6 voll.: B391.1.3Snake grateful because man feeds her young snake milk; F372 Fairies take
human nurse to attend fairy child; F235.4.1 Fairies made visible through use of ointment; D1821.4 Magic sight by
putting ointment into eye.
352
Il serpente sottomesso simboleggiava così, in maniera trasparente, il paganesimo e una fase di tenebre idolatriche e
demoniache in cui la popolazione viveva prima dell’arrivo del santo-guerriero. Esemplare la storia di S. Giorgio e il
drago; J. Le Goff, « Culture ecclésiastique et culture folklorique au Moyen Âge, saint Marcel de Paris et le dragon »,
Ricerche storiche ed economiche in memoria di Corrado Barbagallo, a cura di L. de Rosa, t. I, Naples, ESI, 1970, pp.
53-90, ripreso in Pour un autre Moyen Âge, pp. 236-279.
353
In particolare in alcuni racconti di fate, la punizione avviene tramite accecamento; cfr. P. Sebillot, Le Folk-lore de
France, Paris, 1904-1907, voll. 4, II, p. 344 cita proprio il testo di Gervasio accanto ad altri racconti di Margot-la-Fée.
351
69
monetarizzazione delle economie. La città in cui è ambientata la vicenda è, inoltre, un luogo storicamente
marcato: Beaucaire, città natale del conte Raimondo VII di Tolosa, nonché base delle truppe francesi, poste
sott’assedio dai provenzali durante la breve fase di ‘riconquista’ 354.
Ma il capitolo 85 non si limita a descrivere gli esseri ofidici, includendo altre creature segnate da un’alterità
maledetta: De lamiis et draciis et fantasiis. In apertura, Gervasio ripercorre tutti gli attributi delle lamie,
procedendo ad un primo agglutinamento di vari motivi: le lamie sono esseri che entrano di notte nelle case,
svuotano le botti, spiano nei panieri e nelle pentole, estraggono i neonati dalle culle e accendono i lumi,
opprimono i dormienti 355. Alla lamia, di origine greca, vengono ascritti gli attributi della strix romana. E che,
secondo Gervasio, lamia, larva e strix siano sinonimi viene confermato nel capitolo successivo (86), dove
attraverso lo spettro sinonimico l’autore registra fedelmente una situazione linguistica già attestata dal VI
secolo e largamente condivisa 356. Ma l’elemento decisamente innovativo è l’atteggiamento di Gervasio, il
quale attribuendo esistenza reale a certi esseri, compone, tra i primi, un quadro coerente in cui confluiscono
tratti fino ad allora percepiti come separati. Per dirla con Needham se «i fattori primari» si sintetizzano «in
modo differenziale per rappresentare i più svariati ambiti sociali» 357 e se «il loro significato combinatorio
corrisponde all’ambito» 358, allora dobbiamo dedurre che l’ambito in cui Gervasio si muove è notevolmente
mutato rispetto a quello in cui agiva Burcardo e che l’impianto cognitivo messo in campo dal nostro chierico
curiale tende a creare un prodotto che consenta di rispondere a costellazioni di paura e di precarietà
emergenti in questo scorcio del secolo XII. Si impone a questo punto un confronto con il testo di Burcardo,
all’interno del quale determinate credenze, bollate come phantasticae, sono rigorosamente distinte.
Credidisti quod multae mulieres retro Satanam conversae credunt et affirmant verum esse ut credas inquietae
noctis silentio cum te collocaveris in lectu tuo, et marito tuo in sinu tuo jacente, te dum corporea sis januis
clausis exire posse et terrarum spacia cum aliis simili errore deceptis pertransire valere, et nomine baptizatos
et Christi sanguine redemptos, sine armis visibilibus et interficere, et decoctis carnibus eorum vos comedere
et in loco cordis eorum stramen aut lignum aut aliquod huiusmodi ponere et commestis iterum vivos facere et
indicias vivendi dare? 359
Credidisti aut particeps fuisti illius credulitatis, quod quaedam sceleratae mulieres retro post Satanam
conversae, daemonum illusionibus et phantasmatibus seductae, credunt et profitentur se nocturnis horis cum
Diana paganorum dea et cum innumera multitudine mulierum equitare super quasdam bestias et multa
terrarum spatia intempestae noctis silentio pertransire, ejiusque jussionibus velut dominae obedire et certis
noctibus ad ejus servitium evocari? 360
Credidisti quod quidam credere solent, quod sint agreste feminae, quas sylvaticas vocant, quas dicunt esse
corporeas, et quando voluerint ostendant se suis amatoribus et cum ei dicunt se oblectasse et item quando
voluerint abscondant se et evanescant? 361
354
Cfr. M. Roquebert, I catari. Eresia, crociata, inquisizione dall’XI al XIV secolo, Milano San Paolo Edizioni, 2003
(ed. or. Paris, 1999).
355
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, 85, pp. 716-718.
356
Ivi, III, 86, p. 722: «Lamias, quas vulgo mascas aut, in Gallica lingua, strias nominant.» Al lemma striga DU
CANGE riporta il can. 16 del Synodus S. Patricii: «Christianus, qui crediderit esse lamiam in speculo, quæ interpretatur
Striga, excommunicandus, quicumque super animam famam istam imposuerit». Nell’Editto di Rothari si condanna
l’omicidio delle presunte streghe, Edictum Rotharis Regis tit. 116 : «Nullus præsumat aldiam aut ancillam alienam
quasi Stringam, quam vulgus dicit, aut mascam occidere». Sui nomi della strega, cfr. R. Caprini, «I nomi della "strega"
in Europa: dalla lingua alla storia, ai testi», Strumenti critici, 2, 2003, pp. 161-182; R. Caprini e M. Alinei, «Sorciere,
колдунья, witch, hexe, bruja,strega», Atlas Linguarum Europae, Commentaires, edd. Wolfgang Viereck et alii, I.7,
Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2007, pp. 169–225.
357
R. Needham, Caratteri primordiali, Milano, Medusa, 2006 (ed. or. Charlottesville, 1978), p. 60.
358
Ivi, p. 61.
359
Burcardo di Worms, Decretorum libri XX, Liber XIX: De poenitentia, PL, 140, col. 973.
360
Ivi, col. 963.
361
Ivi, col. 971.
70
Fecisti ut quaedam mulieres in quibusdam temporibus anni facere solent: ut in domo tua mensam praeparares
et tuos cibo set potum cum tribus cultellis supra mensam poneres, ut si venissent tres illae sorores? 362
Il cannibalismo, il corteo di Diana, le tre sorelle che mangiano nelle case e le sylvaticae sono credenze che
implicano anche dei rituali (fecisti), ma che vanno combattute perché appartengono al regno dei
phantasmata. Si perseguono le credenze e non gli attori. Inoltre tutti i tratti che poi confluiranno nel
prototipo inquisitoriale della strega non si compongono in un quadro unitario.
Gervasio, invece, procedendo ad una sorta di agglutinazione elabora l’immagine concettuale di una diversa
figura. Le credenze registrate da Burcardo sono utilizzate da Gervasio proprio per affermare la realtà fisica di
certi esseri. Il capitolo 86 si apre, infatti, con una disamina delle due opinioni più accreditate sulla natura
ontologica delle lamie: i fisici, cioè i medici ritengono che certi fantasmi siano generati dall’eccesso di cibo e
di alcol oppure dai deliri febbrili, Agostino pensa, invece, che siano anime indegne che si incarnano in corpi
aerei; si tratta dunque di illusorie parvenze assunte per divina concessione. Prosegue Gervasio che, tuttavia,
per soddisfare
moribus et auribus hominum, constituamus hec esse feminarum ac virorum quorundam infortunia, quod de
nocte celerrimo volatu regiones transcurrunt, domos intrant, dormientes opprimunt, ingerunt sompnia gravia,
quibus planctus excitant. Sed et comedere videntur et lucernas accendere, ossa hominum dissolvere,
dissolutaque nonnumquam eum ordinis turbatione compaginare, sanguinem humanum bibere, et infantes de
loco ad locum mutare.
Rispetto a Burcardo, Gervasio tratteggia un profilo organico delle mulierculae volanti o lamie.
Lamie dicuntur esse mulieres que noctu domos momentaneo discursu penetrant: dolia relent, cophinos,
catinos et olas perscrutantur, infantes a cunis extrahunt, luminaria accendunt et nonnumquam dormientes
affligunt 363.
Il capitolo 86 prosegue con la discussione quasi quodlibetale sulla natura di questi esseri. Gervasio riporta
prima le parole di Apuleio 364 sulla natura dei demoni: specie animale, anima passiva, corpo aereo, eterni;
quindi trascrive quasi integralmente le pagine del De civitate Dei 365, dedicate da Agostino allo stesso
argomento e con Agostino condivide i dubbi sulla natura corporea di angeli e demoni infine si chiede,
sempre sulla scia di Agostino 366, se le parole dei Salmi sul Signore che fa dei venti i suoi messaggeri 367 siano
da intendersi in senso mistico o letterale. Sull’ennesima ambivalenza dell’Ipponate, Gervasio sembra
prendere definitivamente partito riferendo la credenza degli incubi o dusi, già accreditata in I,17 368. E quale
ultima prova a sostegno della corporeità di certi esseri, riporta la testimonianza di uomini fededegni.
Non hinc audeo aliquid definire utrum aliqui spiritus elemento aereo corporati possint hanc agere vel pati
libidinem, ut quomodo feminis se inmisceant aut ab hominibus talia paciantur. […] Hoc equidem a viris
omni exceptione maioribus cotidie scimus probatum, quod quosdam huiusmodi larvarum, quas fadas
nominant, amatores audivimus, et cum ad aliarum feminarum matrimonia se trastulerunt, ante mortuos quam
362
Ivi, col. 971.
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, 85, pp. 716-718.
364
Apuleio, De deo Socratis, Pisa, Giardini editori e stampatori, 1992; cap. 13.
365
Agostino, De civitate Dei, VIII, 16, PL, 41, col. 24; VIII, 18, PL, 41, coll. 242-243.
366
Ivi, XV, 23, Pl, 41, col. 468.
367
Salmi, 104 (103), 4.
368
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, I, 17, p. 96: «Apuleius autem, in libro De Deo sacratis spiritibus [sic], dicit
quod inter lunam et terram habitant immundi spiritus quos incubos demones nominant, a mentis incubatione, quia in
sumpnis mentes hominum obprimunt ita quod videntur nomine ex alto precipitare vel suffocare; habentque partim
naturam hominum, partim angelorum, et cum volunt, assumunt naturas humanas et cubant cum mulieribus. De hiis
generatus fertur Merlinus.» Il riferimento ad Apuleio, De deo Socratis, 8-9; 12-13.
363
71
cum superinductis carnali se copula immiscuerunt; plerosque in summa temporali felicitate vidimus stetisse,
qui cum ab huiuscemodi fadarum se abstraxerunt amplexibus at illas publicaverunt eloquio, non tantum
temporales successus sed etiam misere vite solatium amisserunt. 369
Le fate amanti dei Lais e le donne sylvaticae, di cui parla Burcardo, sono assimilate alle loro sorelle larvae o
streghe (quosdam huiusmodi larvarum, quas fadas nominant), pericolose incarnazioni del demonio. La
notazione sulla perdita delle ricchezze a seguito dell’allontanemento delle fate illumina, inoltre,
retrospettivamente la protostoria melusiniana della decisio I: Raimondo, infatti, cade in miseria una volta
partita la bellissima sconosciuta incontrata la prima volta nel bosco (sylvatica quindi a tutti gli effetti) vicino
al fiume Lar. In conclusione Gervasio accenna timidamente una spiegazione che tenti di conciliare la sua
ferma fede nella corporeità di certi esseri con le posizioni agostiniane: i demoni che insuperbirono meno, non
furono precipitati nell’inferno, ma rimasero nel mondo sublunare per essere «illusioni» degli uomini 370. È
evidente quanto il vocabolario del nostro magister sia assolutamente inadeguato per esprimere una posizione
che lui stesso percepisce in conflitto con l’auctoritas. E in questa direzione, proprio nel capitolo dedicato alle
opinioni su fantasiis nocturnis, Gervasio sconfessa apertamente Agostino371. Riprendendo, infatti, prima le
posizioni dei medici, poi le affermazioni di Agostino sulle visioni ad occhi aperti, talmente nitide da
sembrare vere 372, Gervasio afferma:
sed contra hec movet me quod mulieres agnosco, vicinas nostras, que processerant in diebus suis, que mihi
proponebant se de nocte vidisse clientulas et clientulos discoopertos cum verecondia; que etiam referebant ea
que de nocte gerebantur a nobis in longe remotis partibus. Nonnumquam non visas flagellationes nocturnas
in parvulis nostris curabant, asserebantque se, dormientibus viris suis, cum cetu lamiarum celeri penna mare
transire, mundum percorrere, et si quis aut si qua illarum discursu Christum nominaverit, statim, in
quocumque loco et quantumuis periculoso fuerit, corruit. Vidimus equidem in regno Arletanensi mulierem e
castro Belliquadri oriundam ex consimili causa inter medias Rodani undas cecidisse 373.
A conferma dello scollamento tra le affermazioni di Gervasio e la posizione illusionista ortodossa è utile
ancora richiamare Burcardo, il quale così commenta, nel libro X, la folle credenza di alcune donne nel volo
di Diana:
Nam innumera multido hac falsa opinione decepta haec vera esse credidit, et credendo a recta fide deviat.
[…] Quam propter sacerdotes per Acclesiasi sibi commissas populo omni instantia predicare debent, ut
noverint, haec falsa esse et non a divino sed a maligno spiritu talia phantasmata mentium infidelium irrogari.
Siquidem ipse Satanas qui transfigurat se in angelum lucis cum mentem cuiusque mulierculae coeperit et
hanc sibi per infidelitatem subjiugaverit illico trasformat se in diversarum personarum specie ad similitudines
et mentem quam captivam tenet in somnis deludens, modo laeta, modo tristra, modo cognitas, modo
incognitas personas ostendens per devia quaque deducit. Et cum solus spiritus hoc patitur, infidelis mens
haec non in animo, sed in corpore evenire opinatur. […] Quis vero tam stultus et hebes est qui haec omnia
quae in spiritu fiunt, etiam in corpore accidere arbitretur 374?
È chiaro, quindi, che per quanto riguarda il corteo di Diana si tratta di illusioni, a cui solo ebeti e ignoranti
possono attribuire consistenza corporea.
369
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, 86, p. 728-730.
Ivi, p. 730: «Verum hi qui cum minus superbierunt ad huiusmodi illusiones reservati ad hominum penam.»
371
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, 93, 742.
372
Agostino, De civitate Dei, XVIII, 18, PL, 41, coll. 574-76.
373
Gervasio di Tilbury, Otia imperialia, III, 93, p. 742.
374
Burcardo di Worm, Decretorum libri XX, l. X, PL, 140coll. 831-833.
370
72
Sul versante opposto Gervasio accredita, attraverso la testimonianza della donna di Beaucaire, una
concezione fisico-corporea del volo al punto che la testimone afferma di essersi risvegliata nel bel mezzo del
fiume Rodano.
Nei tre luoghi in cui Gervasio parla degli esseri notturni, fantastici, ma dotati di corpo fisico, l’equivalenza
nominale -lamia/larva/fada/stria- e la ricorsività della rapidità degli spostamenti -celerrimo volatu;
montenaeo discurso; celeri penna- garantiscono, anche nelle impercettibili variazioni 375, la sostanziale
identità delle donne sovrannaturali, streghe o fate che siano. L’elemento del volo diviene, così,
imprescindibile attributo dalle forti valenze demoniache, come conferma l’uniforme modalità di fuga della
Dama dell’Esparvier 376, della moglie di Henno 377, della contessa d’Angiò 378. La testimonianza della donna di
Beaucaire, corrobora i racconti dei capitoli 85-86. Conclude Gervasio affermando che l’esistenza corporea
delle lamie, così come la realtà oggettiva di certi fenomeni non sono assolutamente incredibili, dal momento
che spesso si sono viste donne tramutate in gatte le quali, colpite e ferite, mostravano le stesse lesioni una
volta riacquistata la forma umana 379. Le donne demoniache e le leggende più inquietanti popolano nel libro
di Gervasio luoghi geografici storicamente marcati: il regno di Arles e la regione della LinguadocaRossillon, dove più forte era stata la presenza dei catari. La stessa città di Beaucaire, dove come abbiamo
visto si aggirano draghi in forma umana, è il luogo di origine della malcapitata teste.
Come le predicatrici valdesi di Goffredo, le lamie di Gervasio inquietano poiché sono capaci di violare lo
spazio domestico oppure, come le melusine di Walter Map, sono in grado di dissimulare la loro identità
dietro apparenze di normalità (la dama dell’Esparvier, i draghi, la donna di Beaucaire).
Goffredo d’Auxerre: quae domos penetrant alienas 380.
Gervasio di Tilbury : lamie domos penetrant; domos intrant 381.
La misoginia costitutiva del chierico Map e del monaco Goffredo si riverbera nell’opera di Gervasio,
ugualmente angosciato dalle insidie incarnate da una femminilità perturbante e perciò incline a smontare il
rituale cortese della fin’amor 382.
L’ultima prova addotta per accreditare una visione materialista dei fenomeni di metamorfosi coincide con la
trasformazione che nel cap. 15 della decisio I era stata avanzata da Gervasio a sostegno della reale esistenza
delle donne ofidiche: i lupi mannari. Nel capitolo 120 della decisio III Gervasio torna sugli uomini qui fiunt
lupi. A differenza di altri metamorfi esplicitamente diabolici, la trasformazione zooantropica del lupo
mannaro sembra di natura accidentale, pur implicando una caduta nella feroce bestialità, che negli esempi
letterari contemporanei sia in vernacolo che in latino è sapientemente rimossa e taciuta383.
375
Nell’ultimo brano citato, Otia Imperialia, dec. III, 93, nota 202, gli uomini e le donne che volano cum cetu lamiarum
possiedono anche poteri terapeutici (curano le ferite a distanza), poteri che tuttavia non li sollevano da una valutazione
negativa.
376
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia; III, 57: «domina spiritu diabolico levata avolat».
377
Walter Map, De nugis curialium, IV, 9 : «subito saltu tectum penetrant et ululatu magno diu cuncta reliqunt
hospicia».
378
Giraldo di Cambria, De Pricipis instructione, III, XXVII : «per fenestram ecclesiae sublimem, cunctis intuentibus,
evolavit».
379
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, 93, p. 742: «Scimus quasdam in forma gattarum a furtive vigilantibus de
nocte visas ac vulneratas, in crastino vunera truncationesque membrorum ostendisse.»
380
Goffredo d’Auxerre, Super Apocalypsim, XIV, 150-153.
381
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, 85; III, 86.
382
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia Nella dec. III, subito dopo i capitoli dedicati a lamie, draghi e fantasiis
nocturnis, Gervasio inserisce quattro capitoli interamente dedicati alla condanna dell’adulterio (95-99). Il bersaglio
degli strali di Gervasio sono ovviamente le donne adultere, tuttavia nel commento morale del capitolo 97, p. 750
l’attacco è rivolto in maniera esplicita all’etica dell’amor cortese: «Quid igitur infelicitas nostri temporis meribitur
supplicii, ubi lascivia pro laude suscipitur, adulterium argumentosum probitas indicium effertur, furtivos habuisse
dominarum aut virginum amplexus milicie insignis est incitamentum?»
383
Si vedano in particolare i lais di Bisclavret, Melion, i racconti di Arthur e Gorlagon, nonché i lupi di Ossory di
Giraldo di Cambria nella sua Topographia Hibernica; Bisclavret, Maria di Francia, Lais, Bisclavret, pp. 154-155;
Melion and Biclarel: two Old French Werwolf Lays, ed.A. Hopkins, Liverpool, University of Liverpool, Department of
73
Il focus della narrazione è evidenziato fin dalle prime righe e rinvia alla questione della metamorfosi
sostanziale.
Sepe apud doctos questio movetur si Nabugodonosor per iniuctum tempus penitentie in bovem verum sit
divina virtute mutatus, cum facilius sit creaturam transmutando formare quam de nihilo creare. Scribunt
perique ipsum vitam bestialem in convictu bovis comedentis fenum sumpsisse, non naturam384.
A differenza di Giraldo che nell’episodio dei lupi di Ossory nega una trasformazione dell’habitus (i lupi,
infatti, conservano l’uso della parola, prerogativa esclusivamente umana), Gervasio sembrerebbe propendere
per una mutazione che, non intaccando la natura umana, comporta tuttavia una conversione etologica. Ma il
comportamento ferino del lupo mannaro, descritto da Gervasio, sembra contemporaneamente sovvertire la
logica della metamorfosi formale.
Dice Gervasio che, colpiti dal fato385, alcuni uomini diventano lupi. A riprova riferisce la vicenda di
Rambaldo del Poggetto.
Scimus enim in Alvernia, episcopatu Claramoncensi, Poncium de Capitolio, nobilem virum, pridem
exhereditasse Reimbaldum de Puiecto, militem strenuissimum et in armis exercitatum. Hic vagus factus et
profugus super terram, dum solus more ferino devia lustraret et saltus et una nocte, nimio timore turbatus,
cum mentis alienacione in lupum versus tantam patrie cladem intulit quod multorum colonorum mansiones
coegit esse desertas. Infantes in forma lupina devorabat, sed et grandevos ferinis morsibus lacerabat 386.
La ricostruzione dettagliata della genesi dell’alterazione mentale che porta il miles a scivolare verso lo stato
bestiale evoca altri casi di cavalieri impazziti e destinati all’esilio in una condizione selvaggia. Come non
ricordare Ivano o Orlando? 387 Ma anche, nel diritto feudale, quella particolare situazione di fragilità e di
anomia in cui viene a trovarsi il cavaliere non ricompensato, come accade a Lanval? Nel lais di Maria di
Francia 388, tuttavia, la solitudine pensierosa e cupa del protagonista è il preludio per un incontro
oltremondano dal volto più lieto, la fata. Ma, a differenza dei suoi parenti letterari, i mannari di Gervasio non
condividono né le valenze totemiche dei metamorfi legati a stirpi nobiliari 389, né quelle antropologiche e
gnoseologiche rilevate da Cristina Noacco 390 nei werewolf che popolano la letteratura antico-francese, dove
la metamorfosi consentirebbe una reintegrazione dell’uomo alla civiltà con un’acquisizione di maggiore
conoscenza della condizione umana, ferina e razionale insieme.
Il cavaliere-lupo di Gervasio, pur vittima di un destino avverso, sarebbe, invece, una creatura dannata se
attraverso una provvidenziale amputazione non guarisse dal morbo lupino e dalla sua ferocia. L’amputazione
del piede, sulle cui implicazioni etnografiche tanto si è già scritto 391, costituisce la controprova di una
metamorfosi reale e sostanziale, poiché l’uomo, del lupo, non assume soltanto l’habitus, ma anche la natura:
quod illo amputato miseriam illam et maliciam cum dampnatione perdiderit 392.
French, 2005; G.L. Kittredge, «Arthur and Gorlagon», Studies and Notes in Philology and Literature, VIII, 1903, pp.
148-275.
384
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, 120, p. 812.
385
Ibidem: «Unum scio apud nostrates cotidianum esse, quod sic fatis hominum currentibus, quidem per lunationes
mutantur in lupos».
386
Gervasio di Tilbury, III, 120, p. 814.
387
Donà, «Approssimazioni al lupo mannaro medievale», pp. 117-119.
388
Maria di Francia, Lais.
389
Donà, «Approssimazioni al lupo mannaro medievale», pp. 144 e ss.
390
C. Noacco, « Le funzioni della metamorfosi nella letteratura narrativa francese (XII-XIII sec.) », in La metamorfosi,
Viridarium 6, a cura di A. Grossato e F. Zambon, Milano, Medusa, 2009, pp. 95-145.
391
Cfr. le pagine di C. Ginzburg dedicate alle difficoltà deambulatorie di chi torna dal regno dei morti in Storia
notturna. Una decifrazione del sabba, Torino, Einaudi, 1989, pp. 206 e ss.
392
Gervasio di Tilbury, Otia imperialia, III, 120, p. 814.
74
Ancora una volta Gervasio smentisce le premesse dottrinarie introduttive per divulgare una concezione
sostanzialistica delle mutazioni meravigliose 393.
La realtà degli episodi di metamorfosi può addirittura rientare nell’ordinarietà e nel quotidiano, come accade
al cittadino Chaucevaire, il quale, consapevole della propria patologia, quando percepisce che la
trasformazione è in arrivo, nasconde i vestiti e voltolandosi nel fango assume le fattezze bestiali.
Chaucevaire conclude il proprio racconto fornendo una spiegazione di un comportamento tipico del lupo:
correre con le fauci spalancate. La bocca del lupo, infatti, si apre solo con l’aiuto delle zampe e quando è
inseguito non ci riesce, così, non potendo cacciare, è facilmente catturato394.
La particolare predilezione di Gervasio per i fenomeni di metamorfosi mette in luce il nucleo della
sua operazione di trascrizione dei mirabilia. I metamorfi sono contraddistinti da un processo di tipo
narrativo-temporale 395, un fluire ciclico che non si vuole mai concluso e che riporta le leggende all’apertura
attualizzante. A differenza degli ibridi di Giraldo, le trasformazioni si situano all’interno di un canale di
continua comunicazione tra immaginario e realtà fattuale; minano alla base la stabilità di un universo
normato, affondandolo nel ciclo del sempre mutevole. La metamorfosi diviene così la cifra di un mondo che
stenta a trovare definite categorie di leggibilità e che paventa il rischio della caduta nel disordine e nella
bestialità. Il quadro che ne emerge è di una instabilità costitutiva, di una realtà sfuggente che può, in ogni
momento, aggredire le coscienze e renderle precarie. I draghi, che abitano nelle spelonche acquatiche,
possono affiorare in superficie e chiedere tributi umani; le lamie, i lupi mannari, le fate transitano
continuamente da uno stato all’altro, generando l’angoscia dell’inafferrabilità; le creature che popolano le
narrazioni, esplicitamente connotate come «fabulae» dall’autore e quindi appartenenti al regno della
finzione, provocano comunque cicliche conseguenze sulla realtà visibile e sensibile. A questo proposito
risultano estremamente significativi i racconti, ospitati nella decisio II, 12, relativi a Nicola Pipe, al palazzo
di Artù nell’Etna e al Gouffre de Sathalie. La funzione eziologica delle narrazioni, collegate alla descrizione
realistica delle isole del Mediterraneo, le colloca su un piano diverso rispetto ai fenomeni meravigliosi
inseriti nella decisio III, rigorosamente certificati oculata fide. La qualità leggendaria dei récits è corroborata
dall’assenza della testimonianza personale: l’autorevolezza degli episodi, basandosi sulla sola testimonianza
393
Oltre alle pagine agostiniane sull’homo phantasticus, (cfr. infra) si confronti la posizione di Burcardo di Worms,
Decretorum XX, XIX, col. 971: «Credidisti quod quidem credere solent, ut illae quae a vulgo parcae vocantur, ipsea, vel
sint, vel possint hoc facere quod creduntur, id est dum aliquis homo nascitur , et tunc valeant illuc designare ad hoc
quod velunt illud quandocunque ille homo voluerit, in lupum transformari possit, quod vulgaris stultitia weruwolff
vocat, aut in aliam figuram? Si credidisti quod unquam fieret aut esse possit ut divina imago in aliam formam aut
speciem transmutari ab aliquot, nisi ab omnipotente Deo, decem dies in pane et aqua debes poenitere». Alcherio di
Clairveaux, Liber de spiritu et anima, XXVI, col. 798, riformula il testo agostiniano, integrando la trasformazione
lupina, probabilmente sulla scorta di Burcardo: «Dicit etiam humana opinio, quod quadam arte mulierum et potestate
daemonum homines converti possint in lupos et jumenta, … nec fieri in eis mentem bestialem sed rationalem
humanamque servari. Hoc sic intelligendum est, quoniam daemones naturas non creant sed aliquid facere possunt ut
videantur esse quod non sunt.» Lo sviluppo di questa premessa è la ripresa testuale delle parole di Agostino. In piena
scolastica Tommaso ribadisce la natura apparente della metamorfosi, Summa Theologiae, I, q. 114, a. 4, ad. 2: «Et ideo
dicendum est quod omnes transmutationes corporalium rerum quae possunt fieri per aliquas virtutes naturales, ad quas
pertinent praedicta semina, possunt fieri per operationem Daemonum, huiusmodi seminibus adhibitis; sicut cum aliquae
res transmutantur in serpentes vel ranas, quae per putrefactionem generari possunt. Illae vero transmutationes
corporalium rerum quae non possunt virtute naturae fieri, nullo modo operatione Daemonum, secundum rei veritatem,
perfici possunt; sicut quod corpus humanum mutetur in corpus bestiale, aut quod corpus hominis mortuum reviviscat. Et
si aliquando aliquid tale operatione Daemonum fieri videatur, hoc non est secundum rei veritatem, sed secundum
apparentiam tantum».
394
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, 120, p. 814: «aperto ore currere, quia os cum magno labore pedumque
adiutorio aperit, quod aperire nequit cum a persecutoribus prevenitur. Tunc ergo a captura frustratur et facile capitur.»
395
Cfr. Walker Bynum, Metamorphosis and Identity, pp. 29-30. cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 10,
a. 4, ad 3: «Ad tertium dicendum quod, sicut aeternitas est propria mensura ipsius esse, ita tempus est propria mensura
motus. Unde secundum quod aliquod esse recedit a permanentia essendi et subditur transmutationi, secundum hoc
recedit ab aeternitate et subditur tempori. Esse ergo rerum corruptibilium, quia est transmutabile, non mensuratur
aeternitate, sed tempore. Tempus enim mensurat non solum quae transmutantur in actu, sed quae sunt transmutabilia».
75
impersonale del volgo, risulta decisamente depotenziata, dal momento che non è confermata da nessun
«vidimus», come accade per la donna di Beaucaire, i lupi mannari o la nutrice dei draghi (cfr. supra).
«Tradunt», «referunt» sono le voci verbali che introducono e tratteggiano le linee ricettive dei racconti. Ma a
segnalare la stretta connessione tra episodi che affiorano da un passato révolu e un presente minacciato
costantemente dalle forze della precarietà, Gervasio chiude tutti i suoi racconti con espliciti riferimenti
all’attualità.
Hinc tradunt in capite septennii caput faciem ad superiora vertere, et ex hoc periculum in mari navigantibus
generari 396.
La chiusa sul racconto della testa della Gorgone, all’origine del vortice di Satalia, ricorda dunque il rischio
continuo che segna quel tratto marino.
Le imprese di Nicola Pipe e la sua testimonianza sulla geografia acquatica, costellata di montagne e di piante
glandifere, ricevono addirittura il suggello della testimonianza oculare personale:
ad cuius rei fidem nos quoque glandes marinas in littore maris sepe prospeximus 397.
Infine, a conclusione del racconto su Artù nell’Etna, benché l’autore non possa fare a meno di qualificarlo
come «fabula» 398, la testimonianza dei «foristarios» sulla mesnie Arthur in Bretagna contribuisce a creare un
legame circolare tra il Nord e il Sud Europa, ricordando la periodicità delle apparizioni e quindi la loro
inesauribile presenza.
Sed et in silvis Britannaie maioris aut minoris consimilia contigisse referuntur, narrantibus nemorum
custodibus (quos foristarios […] vulgus nominat) se alternis diebus circa horam meridianam et in primo
nocturno conticinio sub plenilunio luna lucente sepissime videre militum copiam venantium et canum et
cornum strepitum qui sciscitantibus se de sosietate et familia Arcturi esse affirmant 399.
La ricorsività della medesima tipologia di narrazioni all’interno delle opere scaturenti dal milieu anglonormanno (Walter Map, Gervasio di Tilbury) contribuisce a rafforzare il senso di realtà delle stesse e, come
nella società dello spettacolo 400, è il medium che crea il messaggio e la sua consistenza reale 401; all’interno
delle opere mediolatine storiche o edificanti, sorrette dall’indiscutibile apparato probatorio della
testimonianza oculare, la ripetizione sancisce l’acquisizione dello statuto del vero e del reale per una serie di
fenomeni che si cristallizzano in una tradizione.
2.4 Influssi e rielaborazioni
All’interno della produzione mediolatina anglonormanna assistiamo, dunque, a una riformulazione di certe
credenze in una direzione che non trova, ancora, nel secolo XIII, il consenso di tutti gli ambienti filosofici e
teologici. In particolare Gervasio, attraverso la sua opera di duplice traduzione 402, sembra rivestire un ruolo
centrale. Sempre in ambito insulare, nel secolo XIII, l’incidenza della rielaborazione di talune leggende
396
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, II, 12, p. 330.
Ivi, p. 334.
398
Ivi, p. 336: «His ergo velut ad instar fabularum decursis, ad materiam redeamus».
399
Ibidem
400
G. Debord, La società dello spettacolo, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2001 (ed. or. Paris, 1967).
401
Cfr. M. McLhuan, La Galassia Gutenberg, Roma, Armando Editore, 2011 (ed. or. Toronto, 1962).
402
I racconti forniti dagli informatori orali sono sottoposti a un’operazione di trascrizione e traduzione: orale> scritto;
volgare>latino. A livello concettuale questa duplice operazione implica una perdita e un’aggiunta. Una perdita perché
l’universo culturale del trascrittore-traduttore si sovrappone a quello dell’informatore sovradeterminandolo e
modificandolo. Un’aggiunta, poiché di fronte alla percezione della difficile traducibilità di concetti o di complessi
dell’immaginario, a pieno titolo definibili come realia culturali, il traduttore-trascrittore Gervasio sente la necessità di
inserire una sorta di glossa metalinguistica, registrando lo spettro sinonimico della lingua di partenza, il volgare.
397
76
operata dai chierici di corte sembra trovare un riscontro nell’opera di Ralph Coggeshall, abate cistercense,
autore di una cronaca, Chronicon Anglicanum 403, estimatore di Riccardo Cuor di Leone. La circolazione di
temi e narrazioni viaggia di pari passo con i contatti tra uomini gravitanti attorno allo stesso milieu curiale:
Ralph di Coggeshall conosceva personalmente Gervasio di Tilbury. Il capitolo dedicato alla superstizione
Publicanorum, riferisce un’avventura occorsa al giovane Gervasio, quando al seguito dell’arcivescovo di
Reims, Guglielmo dalle Bianche mani, incontra nella campagna circostante la cittadina francese una giovane
donna che si sottrae alle profferte amorose del chierico. La situazione topica della pastorella si rovescia in
una ostentata e vantata verginità da parte della fanciulla.
Sarà proprio la fiera rivendicazione della castità ad insospettire il chierico Gervasio e quindi il vescovo
Guglielmo, il quale farà imprigionare la giovane, accusata di essere seguace della setta eretica. La giovane
confessa di essere stata iniziata alla nuova religione da una vecchia magistra, dietro cui si profila, attraverso
la scelta di un lessico marcato, la figura della strega (malefici erroris magistra; de quadam senili muliere hac
peste infecta; malefica). Durante l’interrogatorio, inoltre, la vecchia eretica sfugge ai suoi giudici e quindi al
rogo, lanciando verso una finestra un filo e volando via sotto gli occhi attoniti degli astanti.
De sinu concite glomum fili extraxit, et extra quandam magnam fenestram projecit, capite fili in manibus
retento; cunctisque audientibus voce sonora dixit: ‘Recipe’. Ad quod verbum mox a terra elevata, glomum
agili volatu cunctis aspicientibus extra fenestram subsecuta est et malignorum spirituum ministerio, ut
credimus, subvecta 404.
Un volo e una fuga su cui l’autore non nutre dubbi. Sul volo dell’eretica, l’influsso del topos del volo della
donna soprannaturale demoniaca, strutturatosi all’interno dei testi di Walter Map, Gervasio di Tilbury e
Giraldo di Cambria, sembra essere indubbio.
L’elaborazione mediolatina della donna anguiforme demoniaca trova un’ulteriore conferma in Vincenzo di
Beauvais, che nello Speculum Naturale connette definitivamente la ‘fata’ di Langres e le altre creature di
Goffredo all’universo dei demoni incubi. Il Bovacense, tuttavia, mantiene una posizione equidistante tra lo
slittamento realistico-fattuale e l’ortodossia illusionista, poiché in successione riporta dapprima gli esempi
tratti da Goffredo d’Auxerre e poi le formulazioni dei teologici.
In Lingoniensi quoque provincia quidam nobilis in silvarum abditis repperit mulierem speciosam et preciosis
vestibus amictam quam adamavit et duxit. Illa plurimunbalneis delectabat in quibus visa est a quadam puella
in serpentis se specie volutare. […] In vita quoque sancti Bernardi legit quod […] demon incubus muliere
quadam abusus est. […] In eadem provincia et in minore Britannia crebrerrime legunt tempore Arthuri regis
et sociorum eius homini casus accedisse. Actor hiis et homini exemplis videt quod demones possunt et coire
cum mulieribus et generare. Nam et Merlinus fetur a demone incubo genitus fuisse 405.
La creatura anguipede, l’incubo che affligge la donna liberata da san Bernardo, il demone ‘genitore’ di
Merlino, appartengono tutti allo stesso piano di realtà fattuale, poiché sono capaci di generare figli e lasciare
una prole. La capacità generativa diviene così il comune denominatore per affermare la corporeità dei
daemones. Vincenzo, tuttavia, non si sbilancia e nel capitolo successivo riferisce la «sententia prudentium de
eodem» 406, tendente a negare qualsiasi fisicità generante alle entità diaboliche. Lo Speculum Naturale
testimonia dunque l’assimilazione definitiva delle creature anguipedi all’universo dei demoni incubi, senza
aderire completamente alla posizione sostanzialista-oggettiva: la possibilità generativa dei demoni resta una
delle opzioni, ma non l’unica.
403
Rodolfo di Coggeshall, Chronicon Anglicanum, ed. J. Stevenson, London, Longman, 1875, (Rerum britannicarum
medii aevi scriptores, 66), Du superstitione Publicanorum, pp. 121-129.
404
Rodolfo di Coggeshall, Chronicon Anglicanum, p. 124.
405
Vincenzo di Beauvais, Speculum Naturale, Hermannus Liechtenstein, 1494, II, 126.
406
Ivi, 127.
77
Al di là della produzione latina, sembra che il contributo apportato da determinate trasformazioni alla
costruzione di una nuova tipologia dei metamorfi femminili e dei loro poteri trovi conferma nel confronto
diacronico di alcuni testi.
Riprendiamo il capitolo 86 degli Otia, III.
Lamias, quas vulgo mascas aut in gallica lingua strias nominant, fisici dicunt esse ymaginationes. Larve vero
quasi larium exemplaria fantastica, que ymagines et figuras hominum representant cum non sint homines.
[…] Verum Augustinus ispas ex dictis auctorum ponit demones esse, qui ex animabus male meritis corpora
aerea implent. Dicuntur autem lamie, vel pocius lanie, a laniando, quia laniant infantes. […] Ut autem
moribus ac auribus hominum satisfaciamus, constituamus hec esse feminarum ac virorum quorundam
infortunia, quod de nocte celerrimo volatu regiones transcurrunt, domos intrant, dormientes opprimunt,
ingerunt sompnia gravia, quibus planctus excitant. Sed et comedere videntur et lucernas accendere, ossa
hominum dissolvere, dissolutaque nonnumquam eum ordinisi turbatione compaginare, sanguinem humanum
bibere et infantes de loco ad locum mutare.
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, nella comparazione con il testo di Burcardo, Gervasio opera
un’agglutinazione di motivi, una sorta di crasi culturale che produce una nuova fisionomia della lamia/strega.
Se si parte infatti dalle definizioni di Isidoro e si tenta un piccolo excursus nei testi letterari antico-francesi in
cui la figura della sorcière è fortemente influenzata dalle caratteristiche della maga antica407, il processo di
crasi emerge abbastanza chiaramente.
Larvas ex hominibus factos daemones aiunt, qui meriti mali fuerint. Quarum natura esse dicitur terrere
parvulos et in angulis garrire tenebrosis. Lamias, quas fabulae tradunt infantes corripere ac laniare solitas, a
laniando specialiter dictas 408.
Il capitolo di Gervasio è, significativamente, introdotto dalla definizione isidoriana/agostiniana secondo la
funzione certificativa delle auctoritates. Le successive affermazioni si riferiscono, invece, a testimonianze
orali di informatori fededegni, le cui concezioni sulle donne volanti differiscono notevolmente sia dagli
autori latini che dai coevi scrittori romanzi.
Nella letteratura in lingua d’oïl, il ritratto più antico della sorcière si trova in Amadas et Ydoine.
Qu’elles sevent de nuit voler
Partout le mont et de la mer
Faire les ondes estre em pais
Comme la terre et puis apres
Defors la graine venir
Arbres naistre, croistre et florir
Et sevent par encantement
Resusciter la morte gent ;
De vis l’une à l’autre figure
Muer par art et par figure
Houme faire asne devenir
Et ceus qu’il veulent endormir
Et puis songer cou leur plaist
407
Cfr. F. Gingras, «Préhistoire de la sorcière d’après quelques récits français des XIIᵉ et XIIIᵉ siècles», Florilegium,
18.1, 2001, pp. 31-50. A questo proposito è utile riportare le parole di Apuleio, Metamorphoseon libri 11, recensuit C.
Giarratano; editionem alteram paravit P. Frassinetti, Torino, Paravia, 1960, I, 8: « Saga" inquit "et divina, potens
caelum deponere, terram suspendere, fontes durare, montes diluere, manes sublimare, deos infimare, sidera exstinguere,
Tartarum ipsum inluminare. Amatorem suum, quod in aliam temerasset, unico verbo mutavit in feram castorem».
408
Isidoro di Siviglia, Etymologiarum, VIII, XI, 101-103.
78
Bestes orgener en la forest
Mur remuer et trembler tours
Et les ewues courre a rebours 409.
Per quanto all’interno di questo ritratto siano già integrati alcuni degli elementi che contrassegnavano i cortei
di Diana del Canon Episcopi (il volo e la capacità di manipolare i sogni), le tre streghe sono fortemente
debitrici dei ritratti delle maghe classiche, dotate di poteri sovrannaturali, distanti quindi dalla
lamie/mulierculae di Gervasio. Il ritratto gervasiano struttura invece, a distanza di qualche secolo,
l’immagine delle seguaci di Dama Abbondia, in un’opera che apertamente si schiera per una concezione
illusionista di certe leggende: il Roman de la Rose di Jean de Meun.
Don maintes genz par leur folies
Cuident estre par nuit estries
Erranz avec Dame Abonde
Et dient que par tout le monde
Li tierz enfant de la nacion
Sont de ceste condicion
Qu’il vont tres feiz par semaines
Si con destinee les meine
Et par touz ces osteuz se boutent
Ne cles ne barre ne redoutent
Ainz s’en entrent par le fendances
Par chatieres et par crevance
Et se partent des cors les ames.
E vont avec les bones dames
Par leus forains et par maisons 410.
Pur nella volontà di rifiutare siffatte fole, Jean de Meun diffonde un’immagine della strega che si era formata
attraverso una serie di agglutinazioni successive e di cui Gervasio costituisce un anello importante.
La vicinanza tra i due testi è tradita da una serie di spie linguistiche:
quorundam infortunia
Si con destinee les meine
quod de nocte celerrimo volatu regiones transcurrunt Cuident estre par nuit estries /Erranz avec Dame
Abonde
domos intrant
Et par touz ces osteuz se boutent.
Non si può attribuire a Gervasio una prescienza del sabba, ma la sua attività di collettore di mirabilia
attraverso i canali dell’informazione orale gli consente di trapiantare e trasfondere nelle credenze di origine
folklorica le sue conoscenze classiche e teologiche e di promuovere, così, una tipologia nuova e diversa, vero
esempio di interazione transculturale.
2.5 Nuclei mitici, paure e evoluzioni
I testi presi in esame sembrano confermare che all’interno della corte Plantageneta, proprio in questo scorcio
del secolo XII, si assiste ad un’operazione di costruzione di modelli culturali che avranno larga incidenza
sull’immaginario collettivo. I mirabilia costituiscono lo spazio in cui si incrociano i differenti livelli di
cultura, i quali interagiscono e danno vita a nuovi composti. Ma, soprattutto, i mirabilia sono il luogo in cui
si giocano i conflitti, le tensioni e le paure suscitate da una serie concomitante di fattori di ordine storico e
409
Amadas et Ydoine, roman du XIIIe siècle édité par John R. Reinhard, Paris, Champion (CFMA, 51), 1926 ; vv.
2023-2038.
410
Le roman de la Rose par Guillaume de Lorris et Jean de Meun, vol. 4 ; vv. 18425-18452.
79
culturale. In effetti, più che parlare di retaggi o sopravvivenze di elementi folklorici, bisogna soffermarsi sul
processo di assimilazione di determinate credenze di origine ‘folklorica’ e di una loro rielaborazione alla luce
delle trasformazioni epistemologiche e gnoseologiche che interessano la società cristiana dei secoli XI-XIII.
L’«oggettivazione dei fantasmi» 411 e la sostanzializzazione realistico-fattuale delle phantasiae riguarda
differenti ambiti della produzione medievale di questo periodo: la necessità di collocare spazialmente le
anime penitenti (nascita del Purgatorio), l’affermazione della fisicità del viaggio nell’aldilà
(viaggi/pellegrinaggi al Purgatorio di San Patrizio), la definizione di una transustanziazione ‘materiale’,
l’incarnazione di figure dallo statuto tradizionalmente illusorio412. Abbiamo visto come proprio quest’ultimo
fenomeno possa ricollegarsi sia alla diffusione di una conoscenza del mondo sublunare per sensibilia, sia alle
inquietudini suscitate dalle profonde trasformazioni sociali ed economiche, che in parte si riversano nei
fermenti religiosi e nei tentativi riformistici, spesso confluenti nelle eresie. In questo senso l’incarnazione
delle phantasiae si profila dal punto di vista antropologico come un percorso di «incorporazione»413,
all’interno del quale il corpo e in particolare il corpo femminile costituiscono il fulcro di complessi discorsi
sociali legati alla ridefinizione dei ruoli (in particolare in riferimento alle eresie) e ai tentativi di elaborazione
di categorie di leggibilità dei cambiamenti 414. Il corpo sociale della cristianità del secolo XIII, infatti, è
percorso e attraversato da forze disgregatrici, il cui effetto a livello politico sull’universalità dei poteri papale
e imperiale è stato già ampiamente investigato. Ma il rischio di disgregazione si insinua nelle pieghe degli
immaginari e delle mentalità. Assistiamo in questo periodo al dispiegarsi di processi concorrenti ma
complementari nel ridisegnare una mappatura del male nel mondo, dei suoi agenti e dei suoi emissari. La
codificazione dell’intentio abelardiana nella confessione e nello sviluppo dell’habitus del credente, spostano
notevolmente l’asse verso un’interiorizzazione sempre più marcata, a cui, sul piano giuridico fa da
contraltare la costituzione di una soggettività penalmente responsabile, perseguibile attraverso una procedura
inquisitoria che sostituisce quella accusatoria. All’interiorizzazione della responsabilità corrisponde
l’oggettivazione del male e la sua incarnazione 415. I mutamenti prodotti sull’antropologia cristiana dalla
diffusione delle dottrine aristoteliche 416, in primis l’ilemorfismo, conducono, inoltre, al graduale
superamento della psicologia agostiniana e del conseguente monismo, garanzia dell’unità del soggetto,
alieno da una reale minaccia di frantumazione e di disgregazione poiché il male altro non è che assenza di
bene. L’antropologia scolastica, pur rafforzando la solida unità del soggetto umano, attribuisce all’anima,
forma sostanziale del corpo, uno statuto di realtà sussistente e impedisce quel «rapporto elastico e
comprensivo» 417 tra anima e corpo che nell’agostinismo consentiva di interpretare i fenomeni di alienazione
e di possessione come forme incoscienti: l’azione esercitata dai demoni sulla voluntas svincola, infatti, il
doppio maligno dal suo statuto fantastico e lo ricolloca nella realtà oggettiva. Non più un doppio o una
possessione, bensì una personalità maligna incarnata. L’antropologia scolastica risentiva certamente dei
nuovi saperi naturalistici e tentava anche una risposta alle eresie dualistiche, tendenti a negare la centralità
del corpo umano e dell’incarnazione del Cristo. L’incarnazione dei fantasmi, dunque, si collocava in pieno
all’interno di questo più ampio movimento epistemologico: il corpo delle creature maligne generanti e la loro
411
Schmitt, Religione, folklore e società, p. 25.
Si vedano in particolare le pagine di Baschet, decisamente chiare e riepilogative di una serie di cambiamenti antropognoseologici del secolo XIII, J. Baschet, La civilisation féodale. De l’an mil à la colonisation de l’Amérique, Paris,
Aubier, 2004, pp. 581-635.
413
Sul concetto di «incorporazione» in antropologia, a parte i classici P. Bourdieu, Esquisse d'une théorie de la
pratique, Droz, Genève, 1972; Id., La distinction. Critique sociale du Jugement, Minuit, Paris, 1979; Foucault,
Sorvegliare e punire; si veda anche Corpi, Antropologia, rivista diretta da U. Fabietti, Roma, Meltemi, 2003.
414
Sulla funzione del corpo difforme e meraviglioso e la sua funzione metaforica, rinviante ai pericoli dell’eresia
all’interno dell’opera di Rodolfo di Coggeshall, si veda E. Freeman, « Wonders, prodigies and marvels: unusual bodies
and the fear of heresy in Ralph of Coggeshall’s Chronicon Anglicanum», Journal of Medieval History, Vol. 26, No. 2,
2002, pp. 127–143.
415
Sembra che, come ci rammentano le parole del Grande Inquisitore di Dostoevskij (F.M. Dostoevskij, I fratelli
Karamazov, Milano, Grazanti, 1979), l’umanità sia incapace di reggere il peso della propria responsabilità.
416
In riferimento e in connessione con la nascita della demonologia e la definizione del patto diabolico, negli anni 12801320, si veda, Boureau, Satana eretico, pp. 187-223.
417
Ivi, p. 195.
412
80
relativa esclusione ridisegnava i confini all’interno della societas cristiana tra i buoni e i perversi cristiani, i
quali si ritrovavano, sul loro stesso terreno, sconfitti dall’attribuzione di un corpo materiale, sensuale,
peccatore. Il processo di demonizzazione avviene proprio attraverso l’incarnazione delle entità maligne.
Come è stato già sottolineato da alcuni storici 418, l’ossessione del demonio, o meglio del potere del demonio
sugli uomini si accentua con la diffusione delle eresie, nei secoli XII-XIII. Il filo rosso dell’eresia sembra
attraversare implicitamente ed esplicitamente i nostri testi, un filo rosso che non determina una serie di nessi
consequenziali, ma che sembra incidere proprio a livello psicologico, alimentando il senso di precarietà. Ciò
che colpisce, infatti, sono i documentati contatti tra uomini che, condividendo le stesse inquietudini, tentano
una risposta attraverso la rielaborazione degli stessi motivi narrativi.
Ricostruendo la cronologia delle attestazioni scritte mediolatine del racconto melusiniano della fata serpente,
ci accorgiamo che essa compare, in primis, nel De nugis curialium di Walter Map e di lì a qualche anno nella
raccolta di Sermoni di Goffredo d’Auxerre, Super Apocalypsim419. Walter Map si interessa esplicitamente
alle eresie nella sua dist. I; Goffredo d’Auxerre interpreta l’apostasia fomentata da Jezabel in direzione
strettamente ereticale (cfr. supra). Alla questione ereticale dedica il capitolo II del libro primo Gervasio di
Tilbury nei suoi Otia Imperialia. Queste che potrebbero essere semplici coincidenze sembrano trovare
un’ulteriore conferma di una certa comunanza, se non d’intenti, almeno di scambi, nella conoscenza
personale da parte di Walter Map e di Gervasio di Tilbury del vescovo Giovanni dalle Bianchemani, noto per
la sua durezza e inflessibilità nella lotta prima contro gli eretici del Nord poi del Sud della Francia. Da
Giovanni dalle Bianche mani Walter Map viene a conoscenza del racconto sulla perniciosità degli eretici che
irretiscono attraverso gli inganni dei sensi 420. A servizio di Giovanni dalle Bianchemani è stato il giovane
chierico Gervasio, e di un episodio della vita di Gervasio risalente proprio a questo periodo giovanile ci
parla Raoul di Coggeshall. Alla tradizionale misoginia del pensiero antico, biblico e patristico si aggiunge,
nel corso dei secoli XII-XIII, il senso di infido pericolo rappresentato dalle donne religiose e mistiche, e poi
eretiche, in particolari catare e valdesi cui era consentita la predicazione. D’altronde, che le eresie
attecchissero soprattutto tra le donne, in particolare aristocratiche, non è un mistero. Gli stessi miti fondatori
dell’agiografia domenicana si fondano sulla conversione di donne eretiche che adoravano un gatto nero 421.
I mirabilia sembrano così segnalare l’indeterminatezza e il pericolo che insidiano l’universo strutturato e
ordinato del cristianesimo, indicando che il cattivo demiurgo, distruttore delle forme, è sempre in agguato.
L’attrazione all’interno delle rielaborazioni colte delle concezioni magico-folkloriche legate all’ambivalenza
spirituale e corporea degli esseri prodigiosi, contribuirà appunto alla formazione di un nuovo aggregato
dell’immaginario.
Le opere mediolatine di area anglo-normanna dedicate ai mirabilia concorrono, così, in maniera significativa
a quello slittamento ontologico che percorrerà testi e immaginari successivi. Nei secoli XIV-XV il percorso
della sostanzializzazione dei mirabilia si svilupperà su più direttrici: la realtà storica dell’inizio della caccia
alle streghe 422; l’affermazione letteraria delle relazioni di viaggio che assumono a principio strutturale la
418
Cfr. J. C. Schmitt, Spiriti e fantasmi nella società medievale, Bari-Roma, Laterza, 1995 (ed. or. Paris, 1994); Id.,
Medioevo «superstizioso», Bari-Roma, Laterza, 2004 (ed. or. Paris, 1988); Baschet, La civilisation féodale, in
particolare pp. 529-580.
419
Goffredo d’Auxerre, Super Apocalypsim.
420
Walter Map, De nugis, I, 30. Guglielmo dalla Bianchemani riferisce a Walter Map la storia di un nobile il cui nipote
era stato traviato da due eretici. Gli eretici sembrano possedere poteri quasi magici o stregoneschi, riuscendo a vincere
le fiamme del fuoco. Lo stesso tipo di potenzialità manifesteranno gli eretici di Besançon nel racconto di Cesario di
Heisterbach, Dialogus miraculorum, V, 21.
421
Cfr. J.C. Schmitt, «La parola addomesticata. San Domenico, il gatto e le donne di Fanjeux», in Religione, folklore e
società, pp. 124-150. L’aneddoto riguardante S. Domenico e la conversione delle eretiche catare adoranti un gatto nero
è riportato dal domenicano Stefano di Bourbon, A. Lecoy de la Marche, Anecdotes historiques, légendes et apologie
d’Etienne de Bourbon dominicain du XIIIᵉ siècle, Paris, 1877, pp. 34-35, consultabile sul sito open source della
Biliothèque Nationale de France, www. gallica; lo stesso episodio è riferito da Vincenzo di Beauvais, Speculum
Historiale, 31, 76.
422
L’apparato giudiziario inquisitorio della caccia alle streghe si basa su un assunto che, qualche secolo prima, sarebbe
apparso blasfemo ai teologi: la realtà corporea e fattuale del volo al Sabba e la realtà corporea delle unioni con i
demoni. La corporeità riveste una funzione penale cogente: per uccidere le streghe bisogna prima affermarne i poteri
81
veridicità del meraviglioso certificato dalla testimonianza oculare. All’ipertrofia della meraviglia che investe
i tardivi romanzi cavallereschi e arturiani, fa da contraltare il radicamento pseudorealistico delle meraviglie
descritte dai viaggiatori, concorrendo alla stabilizzazione di un orizzonte ricettivo fondato sulla verità delle
narrazioni. Il successo incontrato dal Livre di Jehan de Mandeville conferma che la domanda del pubblico
ruotava intorno a un universo straordinario che si opponesse alla fiction romanzesca. Gli studiosi odierni
hanno assodato che il viaggio in India non fu realmente compiuto da de Mandeville, il quale probabilmente
raggiunse fisicamente solo Gerusalemme, ma i contemporanei del nobile inglese erano fermamente convinti
della realtà sia del viaggio che delle sue descrizioni, come testimonia la lettura che ne fece Cristoforo
Colombo 423. Attraverso l’opera del de Mandeville si ribaltava il patto fizionale che legava gli scrittori
romanzeschi medievali al proprio pubblico: le meraviglie orientali che popolavano il Romanzo di Alessandro
prendevano vita e forma autonome. Ma accanto al Livre des merveilles dou monde si collocano altri testi che
contribuiscono all’affermazione sostanzialistico-oggettiva dei mirabilia, tutti appartenenti al genere
odeporico: dagli innumerevoli resoconti dei viaggiatori del Purgatorio di san Patrizio (tutti composti nel
secolo XIV) alla visita dei Monti Sibillini di Antoine de la Sale. E proprio in quest’ultime opere incontriamo
una riattualizzazione e una riattivazione del nucleo mitico della donna ofidica che aveva popolato la
letteratura mediolatina dei secoli XII-XIII, a cui si affiancano le rielaborazioni letterarie dei romanzi di
Melusina (Coudrette, Jean d’Arras). Il corpo serpentino femminile continua così ad ossessionare le coscienze
e ad offrirsi come il luogo di una metafora sull’alienazione e l’espulsione di nemici, a quest’altezza
temporale fisicamente perseguitati.
Capitolo 3
I mirabilia oggettivati e certificati in alcuni testi del secolo XIV di area gallo-romanza e italiana
3.1 L’eredità di Gervasio: la definitiva incarnazione delle creature feriche e il loro duplice destino di
salvazione e di dannazione
3.1.1 Brevi rilfessioni sul Roman di Melusine di Jean d’Arras
Negli stessi anni in cui proliferano in Occidente i racconti di catabasi oltremondane infestate da metamorfi
femminili, in Francia, vedono la luce due romanzi, uno in prosa l’altro in versi, consacrati alla figura di
Melusina, fata-serpente per antonomasia. Nel 1393, Jean d’Arras termina il suo Melusine ou la noble histoire
de Lusignan 424, mentre nel 1405 Coudrette conclude il suo Roman de Mellusine 425 in ottosillabi. L’anonima
moglie di Raimondo degli Otia Imperialia (I, 15) e la ‘pestilente’ sconosciuta sposa di Henno (De nugis
curialium, IV, 9) si riscattano, finalmente, attraverso un tragico destino da eroina letteraria. Entrambi gli
autori, Jean d’Arras e Coudrette, recuperano le narrazioni precedenti per ricostruire le nobili origini del
casato dei Lusignano, ristabilendo così una funzione totemica e celebrativa della donna ofidica, che nella
letteratura mediolatina era stata completamente offuscata dal processo di demonizzazione 426. Ma i romanzi
reali e quindi la capacità di commettere reati che nuocciano realmente, H. Institoris, J. Sprenger, Malleus maleficarum,
Pars prima, q. I, p. 5: «Nam lex Divinain plerisque locis praecipit Maleficas non solum esse vitandas, sed etiam
occidendas: cuiusmodi poenas non imponeret, si non veraciter et ad reales effectus et laesiones cum Daemonibus
concurrerent». Tutta la Pars I del Malleus è incentrata sulla confutazione dei poteri ‘fantastici’ delle streghe affermati
dal Canon Episcopi e, quindi, sulla difficile mediazione tra i testi canonici medievali e la nuova posizione della Chiesa.
423
Cardona, «I viaggi e le scoperte», pp. 690-691.
424
Jean d’Arras, Mélusine ou La Noble Histoire de Lusignan.
425
Couldrette, Mélusine (Roman de Parthenay ou Roman de Lusignan). Édition, traduction et notes par M. W. Morris et
J.J. Vincensini, Lewiston, Queenston, Lampeter, Edwin Mellen Press, 2009.
426
Come abbiamo visto in Walter Map e in Giraldo di Cambria l’origine sovrannaturale di alcune famiglie, tra cui
quella regale, ha la funzione precipua di screditarle. Lo stesso procedimento viene seguito sia da Gervasio nel caso del
racconto sulla Dama dell’Esparvier o su Raimondo di Rousset, sia da Goffredo d’Auxerre nei confronti della stirpe
della vipera della regione di Langres.
82
non assolvono solo la funzione della commemorazione dinastica. Sotto la spinta della scrittura romanzesca
Melusina acquista uno spessore psicologico e umano che da carnefice la trasforma in vittima, poiché tradita
dal proprio marito e amante è costretta a rifluire nella dimensione fantasmatica, senza potersi realmente
incarnare per spezzare il proprio destino maledetto 427. La Melusina dei romanzi, insomma, è l’esatto
rovesciamento delle sue consorelle precedenti: a guidare le sue azioni non è un processo di incarnazione che
facilita la sua demonizzazione, bensì un desiderio di corporeità mortale che la salvi dalla sua dannazione. I
romanzi melusiniani, in questo senso, non si collocano nello stesso solco delle opere che, contribuendo allo
slittamento ontologico della natura ‘illusoria’ delle creature aliene, le condannano alla dannazione eterna; al
contrario essi aprono il varco a quel sentimento, quasi pre-romantico, di nostalgica tensione verso un altrove
irrangiungibile e fondano, dal punto di vista politico, quella dimensione di esoterismo che circonfonde
l’esercizio del potere nelle corti del secolo XV 428. Una dinastia sovrannaturale, discendente da una fata dal
volto bifronte -perché seppur benefattrice, la donna-serpente suscita sempre inquietudine- può contare su
una dosata commistione di ammirazione e timore nel controllo dei propri sudditi. Non rientra quindi
nell’economia del nostro discorso un’analisi dei romanzi melusiniani, cui ci rivolgiamo, invece, solo per
cercare l’eventuale conferma dell’affermazione di una realtà fattuale e oggettiva delle donne anguiformi,
veicolata proprio dalle opere mediolatine del secolo XIII. Il prologo del romanzo di Jean d’Arras è, a questo
proposito, esemplificativo, poiché il riferimento a Gervasio di Tilbury è esplicito. Le narrazioni registrate da
Gervasio sono collocate nel campo della vera cronaca e riferite a sostegno della veridicità del proprio
racconto. L’escamotage permette all’autore di «coulourer nostre histoire a estre vraye comme nous le
tenons» 429 e di distinguere il nucleo fondativo della propria opera da quella dei predecessori, perché la sua
«hystoire» non è una «chronique» e nell’invenzione si rivela la sua semantica recondita.
Ripercorrendo dunque le attestazioni dei predecessori, Jean d’Arras fornisce una sintesi dei racconti di
Gervasio, alterati dal contatto con le proprie personali aggiunte. Innanzitutto l’autore francese ribadisce la
funzione segnica della merveille, rinviante all’onnipotenza divina, di cui l’uomo non può conoscere la
profondità dei giudizi. In secondo luogo, conferma la realtà di certi fenomeni non soltanto attraverso il
ricorso alle auctoritates, ma anche grazie alle informazioni orali di persone fededegne.
Nous avons ouÿ raconter a noz anciens que en plusieurs parties sont apparues a pluseurs tresfamillierement
choses lesquelles aucun appelloient luitons, aucuns autres les faes, aucuns autres les bonnes dames qui vont
de nuit. Et de ceulx dint uns, appelléz Gervaise, que les luitons vont de nuit, entrent dedens les maisons sans
les huys rompre ne ouvrir et ostent les enfants des berceulz et bestournent les membres ou les ardent, et au
departir les laissent aussi sains comme devant 430. […] Encore dit le dit Gervaise que autres fantasies
s’apperent de nuit en guise de femme a face ridee, basses et en petite estature e font les besoingnes des
hostelz liberalement et nul mal ne faisoient 431.
427
La bibliografia su Melusina è immensa, dal momento che la sua figura attraversa le epoche, giungendo fino ai giorni
nostri. Per quanto riguarda i testi medievali, rinviamo ai principali studi: L. Harf-Lancner, Morgana e Melusina; F.
Clier-Colombani, La fée Mélusine au Moyen Âge. Images, mythes et symboles, Paris, Léopard d'or, 1991 ;
J.J.Vincensini, Pensée mythique et narrations médiévales, Paris, Champion, 1996 ; D. Maddox, S. Sturm-Maddox,
Melusine of Lusignan: Founding Fiction in Late Medieval France, Athens, University of Georgia Press, 1996; J. M.
Boivin ; P. MacCana, Mélusines continentales et insulaires. Actes du colloque international tenu les 27 et 28 mars 1997
à l'Université Paris XII et au Collège des Irlandais, Paris, Champion, 1999 ; Ph. Walter,, La fée Mélusine: le serpent et
l'oiseau, Paris, Imago, 2008.
428
Sull’argomento vastissimo, soprattutto se si considera la messe di studi sul rapporto tra esoterismo e Rinascimento,
segnaliamo G. Galli, La magia e il potere : l'esoterismo nella politica occidentale, Torino, Lindau, 2004 (riferito al
periodo moderno, ma con spunti interessanti) ; P. Merlin, Nelle stanze del re. Vita e politica nelle corti europee tra XV
e XVIII secolo, Roma, Salerno Editore, 2010.
429
Jean d’Arras, Mélusine, p. 116.
430
A questo proposito è interessante rilevare lo scollamento con il testo di Gervasio, Otia Imperialia, III, 85: «ossa
hominum dissolvere, dissolutaque nonnumquam eum ordinis turbatione compaginare».
431
Jean d’Arras, Mélusine, p. 116.
83
Ma le creature incarnate di Jean d’Arras possono sperare in un destino di salvazione. Nel testo di Jean
d’Arras, infatti, la certificazione di realtà di certe credenze non implica il ricorso al demoniaco, che è
esplicitamente bandito anche dalle citazioni dei passi di Gervasio.
Et dit le dit Gervaise qu’il creoit que ce soit par aucuns meffaiz secréz au monde et desplaisans a Dieu pour
qu’il les punist secretement 432.
Tutto è ricondotto a Dio e delle fantasies si sottolinea la natura comunque benefica. Non è irrilevante, infatti,
l’assenza di qualsiasi riferimento alle streghe: Jean d’Arras parla sempre di fees, luitons et bonnes dames, a
conferma che sul finire del secolo XIV la lamia o la strega rappresentano una tipologia femminile ben
precisa, così che ad alcuni letterati non resta altro che iniziare la lunga opera di salvataggio delle fate per
ascriverle al campo del bene 433.
3.1.2 Les oisivetez des emperierers 434 di Jean de Vignay : la compiuta sostanzializzazione di mirabilia e la
demonizzazione delle fantasies.
Sul versante opposto alla Melusine di Jean d’Arras si colloca l’opera di traduzione di Jean de Vignay, che
conferma il processo di oggettivazione dei mirabilia e in particolare dell’incarnazione diabolica di talune
creature.
L’attività di traduzione di Jean de Vignay copre uno spettro ampio e variegato di testi che vanno dagli Otia
di Gervasio al trattato De re militari di Flavio Vegezio allo Speculum Historiale di Vincenzo di Beauvais alla
Legenda aurea di Jacopo da Varazze 435. Al servizio di Filippo II di Valois e di Giovanna di Borgogna Jean
redige e appronta testi la cui unità tematica può essere rintracciata nell’enciclopedismo didascalico o nelle
summae agiografiche. In qualità di divulgatore, inoltre, riveste un ruolo centrale nella ricostruzione del
processo di trasformazione di alcuni mirabilia. Sicuramente meno interessato, rispetto ad altri traduttori
coevi, agli aspetti teorici del translater 436, Jean de Vignay sembra porre maggiore attenzione all’efficacia
strumentale dell’attività di traduzione che, nell’adeguarsi all’orizzonte di attesa dei committenti e del
pubblico, meglio si presta ad essere plasmata dall’asse ideologico del traduttore e del suo tempo. La scelta
delle opere da tradurre dimostra quanto l’alta aristocrazia del secolo XIV fosse attratta sia da una forma di
sapere enciclopedico che restituisse l’immagine totale del mondo sia da un desiderio di oltrepassare i confini
noti per inoltarsi nelle terre dell’estraneità occidentale e orientale. Il manoscritto che conserva l’unica copia
delle Oisivetez, BnF, Rothschild 3085, accoglie la traduzione dell’Itinerarium di Odorico da Pordenone 437,
restituendo anche al lettore contemporaneo l’idea dell’unità tematico-contenutistica alla base del volume. Le
meraviglie d’Oriente e d’Occidente si succedono tratteggiando l’estensione di un ecumene abitato da
meraviglie che, certificate dalla testimonianza oculare, si impongono per la loro eccezionalità.
432
Ivi, p, 118. È vero che Gervasio parla dell’insondabile abisso del giudizio divino, ma per giustificare la presenza
delle lamie e delle streghe, invoca l’azione demoniaca, ovviamente autorizzata da Dio (cfr. cap. 2).
433
Un’azione di salvataggio che ha conosciuto nella letteratura e nella cinematografia per l’infanzia del secolo XX la
sua compiuta realizzazione; basti pensare alle caratterizzazioni delle fate disneyane.
434
Les traductions françaises des Otia imperialia de Gervais de Tilbury par Jean d’Antioche e Jean de Vignay.
435
Del Miroir historial è in corso di preparazione l’edizione integrale a cura di L. Brun e di M. Cavagna; La légende
dorée. Édition critique dans la révision de 1476 par Jehan Batallier d'après la traduction de Jehan de Vignay (13331348) de la Legenda aurea (c. 1261-1266), ed. B. Dunn-Lardeau, Paris, Champion, 1997 ; Li livres Flave Vegece de la
chose de chevalerie par Jehan de Vignay. Ed. L. Löfstedt, Helsinki, Suomalainen tiedeakatemia, 1982.
436
C. Buridant, «La traduction du latin au français dans les encyclopédies médiévales à partir de l’exemple de la
traduction des Otia imperialia de Gervais de Tilbury par Jean de Vignay et Jean d’Antioche», in Translation and
Theory and Practice in the Middle Ages, a cura di J. Beer, Kalamazoo, Mediavel Institute Publications, 1997, pp. 135160.
437
Jean de Vignay, "Les merveilles de la terre d'outremer." Traduction du XIVe siècle du récit de voyage d'Odoric de
Pordenone. Édition critique par D. A. Trotter, Exeter, University of Exeter (Textes littéraires, 75), 1990.
84
Nella traduzione dei due testi si riscontra però una discreta differenza di trattamento delle fonti: a un’estrema
fedeltà al dettato dell’Itinerarium, si affianca uno scollamento non macroscopico, ma comunque
significativo, nei confronti degli Otia. La lontananza dei territori descritti da Odorico impone il rispetto
dell’impianto asseverativo e probatorio del frate, essendo preclusi al traduttore un’eventuale verifica o un
apporto soggettivo, mentre per ciò che concerne le meraviglie d’Occidente e in particolare delle regioni
vicine (la Francia del Sud), la tentazione di sovrapporre, anche inconsciamente, il proprio bagaglio culturale
è decisamente più forte. Si verificano così un ulteriore slittamento e una rielaborazione di alcune figure che
nel secolo XIV iniziano a ossessionare con forza sempre maggiore la società occidentale. Le traduzioni di
Jean de Vignay riflettono, in questo senso, la diversa specializzazione e la specularità dei punti di vista degli
attori culturali occidentali: lo sguardo assediato e quasi pietrificato dalla paura del male vicino e locale;
l’esotismo e lo straniamento nei confronti di un oriente distante, ma sempre più pervaso da forze maligne (si
pensi alla Valle del Diavolo).
Nei confronti delle creature femminili e maschili che già in Gervasio avevano subito un processo di
incarnazione e di demonizzazione, Jean de Vignay aggiunge notazioni che ne confermano la corporeità e
l’aura malefica. In particolare, la feerie, che anche Gervasio collocava nel «cetus larvarum», è attratta nel
campo d’azione degli agenti infernali. Per comprendere meglio la specifictà degli apporti di Jean de Vignay,
ci è utile un’analisi contrastiva/comparativa con l’altra traduzione, pressoché coeva, degli Otia, realizzata da
Jean d’Antioche.
Il racconto della dama dell’Esparvier costituisce il primo esempio. La dama al termine della consacrazione
non è sollevata da uno spirito diabolico, ma è ella stessa creatura demoniaca.
Gervasio di Tilbury, Otia, Jean d’Antioche, III, 57, p. Jean de Vignay, III, 57, p.
III, 57, p. 664
260
260
Domina spiritu diabolico
La dame fut levee de terre L’esperit du deable qui
levata avolat.
par le deable.
s’estoit mis en fourme de
fame, que l’en cuidoit que
ce fust fame naturel
s’envola par la fenestre de
la chapelle.
L’appropriazione del corpo della donna da parte del demonio si poneva in linea con l’evoluzione infernale
della tipologia melusiniana, come accade all’interno del Roman de Badouyn 438.
Nel romanzo, il diavolo sotto forma di donna è l’agente negativo che domina sul conte e lo spinge a
governare ingiustamente, causando danni ai suoi sudditi 439.
Alla ricostruzione dell’anomalo comportamento in chiesa, la cui fuga prima della consacrazione solleva
mormorii e sospetti 440, segue l’arrivo a corte di un santo eremita che provoca finalmente l’agnizione, poiché
con un atto di esorcismo obbliga il demonio a rivelare la propria identità:
Dyable que es ou corps de ceste femme, je te conjure de par Dieu […] que tu partes de ceste compaignie 441.
438
Cfr. L. Harf-Lancner, Morgana e Melusina, pp. 457-523. Composto all’inizio del secolo XIV, in versi, del Roman de
Baduoin si sono conservati pochi frammenti, mentre sono giunte fino a noi le riscritture in prosa del secolo XV. Le livre
de Baudoyn, conte de Flandre, suivi de fragments du Roman de Trasignyes, publiés par C. P. Serrure et A. Voisin,
Bruxelles, 1836. Si veda anche Badouin de Flandres, ed. E. Pinto-Mathieu, Paris, Libraririe générale française, 2001.
La rubrica che narra l’incontro con la dama così recita,: Comment Badoin conte de Flandres espousa le dyable, Le livre
de Baudoyn, p. 15.
439
Le livre de Baudoyn, p. 20 : «Et esleva ceste dame moult grant truaiges en XIII ans qu’elle regan avec Badoin et fist
faire au pais moult de maulx».
440
Ibidem: «Et est vary que celle dame alloit vouluntiers a l’eglyse et ouyoit le service jusques au sacrement, mais
jamais elle n’attendoit que le sacremens fust eslevé».
441
Ivi, p. 23.
85
Il demone è costretto a svelare la sua mascherata, voluta e autorizzata da Dio per punire l’orgoglio smisurato
di Badoin che aveva rifiutato la mano della figlia del Re di Francia:
Dieu me souffrit entrer au corps de la fille d’ung roy devers Orient qui estoit morte 442.
Col permesso divino, quindi, la creatura estranea, di un’estraneità ostile che la provenienza orientale sembra
rafforzare, altri non è che un Inferus, un cadavere vivificato dal demonio. Il demone fugge trascinando con sé
un piccolo pilastro delle finestre della sala, a ricordo delle fughe aeree delle sue antenate che lasciano tracce
nelle rovine dei tetti o delle cappelle diroccate (la donna di Henno, la contessa d’Angiò, la dama
dell’Esparvier).
Tornando al testo di Jean de Vignay, vediamo che all’identificazione della dama dell’Esparvier con uno
spirito diabolico seguono le riflessioni sulle virtù dei sacramenti e della messa, a patto di osservarne
strettamente la liturgia. L’accenno agli eretici, contenuto nel testo di Gervasio, scompare e al suo posto il
traduttore aggiunge una notazione sui poteri dei sacramenti, dagli effetti salvifici sui veri credenti e
distruttivi sui falsi:
Et poez savoir que les sacrements ont vertu et verité en euls a ceus qui les croient, et destruction et
venjehance aus despisans 443.
La liturgia conferma tutto il suo valore nel suo irrigidimento formale, vero e proprio argine contro le potenze
maligne, così, mentre Jean d’Antioche, penetrando la sententia del testo di Gervasio, mette in luce le
implicazioni teologiche della transustanziazione, Jean de Vignay si limita alla ripetizione meccanica del
dogma e di un ordo missarum, il cui scopo principale è la ritualità sociale:
Gervasio di Tilbury, Otia,
III, 57, p. 668
Tuba dominica sonat in
ewamgelio, verum inter
secreta sacerdotis opera
Christus ipse descendit
Jean d’Antioche, III, 57, p.
262
Et aprés ce vient la trompe
de l’Evangile, qui nous
monstre que le Seigneur et
bien pres. Et quant vient au
sacrement, le Seigneur
mesmes vient
Jean de Vignay, III, 57, p.
263
L’envangilles ets la buisine
qui sonne pour assembler la
gent, mais les tres saintes
œuvres sont au secret que le
prestre dit et par ses
parolles autant en descent
du ciel entre ses mains
comme il en nasqui de la
Vierge Marie
Per una serie di fraintendimenti o di sovrapposizioni del background culturale, in Jean de Vignay, il Vangelo
riveste la funzione sociale di chiamare a raccolta i fedeli, mentre il momento della transustanziazione è
investito da un processo di comparazione semplificante: ricordare la nascita dalla Vergine ha una funzione
plastica, iconica, quindi incisiva.
Il formalismo esteriore della liturgia induce a cancellare qualsiasi vaga indulgenza ai mondi interiori dei
personaggi che popolano alcuni racconti degli Otia, così, mentre Jean d’Antioche, nell’episodio melusiniano
della moglie di Raimondo, si sofferma sul conflitto interiore che attanaglia Raimondo, sia al momento di
decidere il matrimonio con la sconosciuta sia prima di infrangere il tabù, Jean de Vignay si limita a riportare
le linee principali della vicenda senza alcuna fenditura introspettiva. Al contrario, la curiosità del marito
sembra giustificata dal legittimo sopetto sulla probabile natura maligna della donna.
442
443
Ivi, p. 24.
Les traductions française des Otia Imperialia, p. 261.
86
Gervasio di Tilbury, Otia, I,
15, p. 90
Affectum maritus exposuit
uxori, que diutinam
felicitatem ex condixione
servata obicit et
infelicitatem minatur
secuturam si contempnatur.
Tandem preceps in
precipitium miles non
tempreatur interminatione
pene neque precibus
flectitur ut a stulto
proposito desistens sue
consulat utilitati. […]
Erepto linteo quo balneum
operitur, miles ut uxorem
nudam videat accenditur,
statimque domina in
serpente conversa […]
disparuit.
Jean d’Antioche, I, 15, pp.
420-421
Ne scet le meut qu’il luy
vint volonté de veoir la
dame nue. […] Ainsy s’en
va le chevalier en son
couraige grant et andoyant,
et ores doubte l’avanture du
peril et lui semble folie a
faire, or es se desdaigne de
doubter et de mespriser
paour en tel endroit ; une
fois se conseille a son
prouffit et se veult retraire
de sa folle pensee,
aultreffoys quide que
dommage n’en puist avenir.
Et touteffoys au dernier se
laissa tresbucher a sa folie e
va en la chambre ou la
dame se baignoit et oste le
limcel de la courtine pour
veoir la dame nue. Mays
tantost que ce fut fait, la
dame devint serpent.
Jean de Vignay, I, 15, pp.
421
Si avint .i. jour que la dame
se baignoit, que le chevalier
fu venu de chacier et trouva
la dame al baing, si ot
merveilleuse volenté de
veoir la nue, car il doutoit
qu’ele n’eust en lui aucune
chose perilleuse. Et la dame
li dist : «Sire, se vous ne
me tenez le couvenant que
vous me promeistes,
sachiez que je ne serai
james fors que en paine et
en meschief et vous
meismes en arez a
souffrir.» Le chevalier ne la
voult croire, mes geta hors
le drap de desus la cuve et
descouvri la dame, et si tost
conme il l’ot veue, elle fu
tantost muee en serpent.
Il latente dissidio che assale Raimondo nel testo di Gervasio, viene esplicitato e drammatizzato da Jean
d’Antioche, mentre Jean de Vignay azzera tutto il pathos generato dalla violazione di un patto e dalla
successiva scomparsa della dama. Lo stesso ardente desiderio di vedere la donna nuda si tramuta, in realtà, in
un sospetto sulla vera natura della moglie (qu’ele ne eust aucune chose perilleuse) e non bastano le parole
della donna ad aprire il varco della riflessione in Raimondo che, con una gestualità decisamente più violenta
rispetto agli altri testi, viola il suo spazio intimo. Jean de Vignay sembra, dunque, operare una
schematizzazione semplificante dei racconti, confermando, nei confronti di alcune creature straordinarie, il
processo di incarnazione e quindi di demonizzazione già timidamente avviato da Gervasio. Per misurare,
infatti, l’impatto del background culturale dell’autore, a sua volta riflesso di un immaginario collettivo che
nel XIV secolo propone ormai un’immagine organica del femminile diabolico, bisogna analizzare quei
capitoli dedicati a lamie, streghe e fate, già contraddistinte, nel testo originale, dall’agglutinazione di alcuni
motivi di origine ‘folklorica’. I brevi ma significativi interventi e le rapide notazioni che il traduttore
inserisce all’interno del gruppo dei racconti dedicati alle streghe o fate delineano un ben preciso orizzonte
ideologico.
Alcuni esempi:
Gervasio di Tilbury, Otia,
III, 85, p. 718
Narrabat eque miranda,
quod hominibus raptis draci
vescebantur, et se in
Jean d’Antioche, III, 85, p.
318
Elle contoit merveille des
dracs, comment ils
mengoyent les hommes
Jean de Vignay, III, 85, p.
319
Et cele fame en contoit trop
de merveilles : car les
fames qu’il ravissoient
87
humanas species
transformabant.
qu’ilz ravissoient et
comment ilz se
transformoyent en l’umaine
semblance.
avoient enfans de ses
draques, et estoient draques
comme eulz et se
transmuoient en tele fourme
humaine comme il
vouloient.
La centralità della trasformazione femminile malefica è ribadita proprio dal travisamento del racconto della
testimone sui draghi. Il passo latino non contiene particolari difficoltà tali da generare lo scollamento della
traduzione di Jean de Vignay, il quale, pur non appartendendo alla schiera dei bons latimiers 444, sembra, in
questo punto, sovrapporre alla metamorfosi degli uomini-drago, le proprie immagini mentali del femminile
perturbante e diabolico. E che il fulcro sia rappresentato dai poteri nefasti di alcune donne è confermato dalla
significativa esclusione del gruppo maschile dal cetu lamiarum:
Lamias […] fisici dicunt nocturnas esse ymaginationes, que ex grossitie humorum animas dormientium
turbant et pondus faciunt. […] Larve vero quasi larium exemplaria fantastica, que ymagines et figuras
hominum representant cum non sint homines, sed divina quadam et secreta permissione hominum illusiones.
[…] Constituamus hec esse feminarum ac virorum quorundam infortunia 445
Vous devez sçavoir de ces estries que je vous devant amentues, que elles sont appellés en latin lamies, c'est à
dire «desirantes», pour ce qu’elles desirent maintes foys les enfants. Et ainsi sont appellés en latin aultrement
larves. Les naturiens dient que ce sont ymaginacions de nuyt, qui se font de grosse humeurs et troubelnt
l’arme, et par leur tourmens les grevent. Mays es livres de la Cité de Dieu et selonc ce que dit saint Augustin,
se sont des deables qui emplent de mauvays armes corps de l’air et representent ymages ou figures d’homme.
[…] Des estries doncques selon saint Augustin nous povons dire qu’elles sont deables, mays pour satisfaire
aux meurs et aux oreilles des hommes, nous disons que c’estoit mesaventures des femmes et d’aulcuns
hommes, qui vont courant de nuyt isnelement par les terres aussy come en volant et entrent es maysons et
greifvent les dormans et leur font veoir de griefz songes, dont ils s’esveillent mainteffoys en plourant et aussi
les estries voit on aulcuneffoys mengier e alumer les lumieres en la maison et desjoindre os d’hommes et
joindre desordonneement et boire sang d’hommes et remuer enfants de lieu en lieu446.
Les estries que aucuns apelent lamies, les phisiciens dient que se sont ymaginacions de par nuit, qui troublent
l’esperit des dormans par la groseté des humeurs qui poisent. Et saint Augustin si dit, ou livre de La Citè de
Dieu que ce sont deables qui se mettent es cors qui moururent en mauvés estat. Et les apele l’en lamie, ou
lanie, qui mieux vaut dire, que il sont dites lanie de lanio/lanias despecier, car il despiecent les enfants. Et les
autres les appellent larve de la meson, pour ce qu’il entrent es meson soudainement et sont exemple de
fantasie et representent es mesons fourmes et ymages d’ommes, mes ce ne sont que secrets illusions […]
Mes a fin que nous dyon au gré du commun des gens poson que ce soient aucunes fames enfourtunees qui
soient hastivement transportees par pluseurs regiones et entrent es mesons et apregnent les gens et les facent
songier divers songes qui les esmeuvent a plaindre et sont veues mengier et alumer feu et lumiere, et
desjoignent les membres des gens en tel manière que il ne seront james rejointes aussi conme devant et
boivent sanc et portent les enfants d’un lieu en autre 447.
Il testo di Jean d’Antioche resta sostanzialmente fedele all’originale, distanziandosene soltanto nella
quantitativa distribuzione di genere delle lamie: «femmes et aulcuns hommes» (lat. feminarum ac virorum, di
quantità imprecisata ma paritaria). Nella traduzione di Jean de Vignay, riscontriamo, invece, la presenza di
variazioni minime, ma significative. Innanzitutto la spiegazione etimologica di larve si distanzia dal testo
latino, poiché «larve de la meson» deriva dall’abitudine delle larve di penetrare nelle case e non dall’essere
simulacra di familiari; in secondo luogo l’accenno alla componente maschile del cetu lamiarum viene
444
D. Gerner, «Introduction», Les traductions françaises des Otia imperialia, pp. 134-135.
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, 86, p. 722.
446
Jean d’Antioche, Les traductions françaises des Otia imperialia, III, 86, p. 320.
447
Jean de Vignay, Les traductions françaises des Otia imperialia, III, 86, p. 321.
445
88
definitivamente cancellato. La penetrazione delle mura domestiche era una delle azioni delle lamie descritte
da Gervasio nel capitolo 85 (domos penetrant); Jean de Vignay elimina la pur debole varietà descrittiva delle
azioni di larve e lamie contenuta negli Otia e rafforza il procedimento di condensazione/fissazione dello
stereotipo della strega. Una prassi già sperimentata dal traduttore anche in altri testi, come ad esempio, nel
volgarizzamento dello Speculum Historiale di Vincent de Beauvais. Nel capitolo 95, De transformatis,
Vincenzo, attingendo direttamente dalle Etymologiae, XI, IV di Isidoro, riporta esempi di metamorfosi
dall’umano al ferino (Circe, lupi dell’Arcadia, ecc.), quindi aggiunge:
Sed et quidam asserunt strigas in hominibus fieri. Ad multa enim latrocinia figure sceleratorum mutantur,
sive magicis artibus, sive herbarum veneficio totis corporibus in feras transeunt.
Passo che nella traduzione di Jean de Vignay diviene:
Et aussy aucuns afferment que estries sont faites d’ommes et de femmes qui se transforment pour faire moult
de larrecins et de mauvaistiez ou par art magique par enchantement ou par malefice de venin de herbes de
quoy ilz transnportent les corps en autre fourmes (BnF, fr. 312, f. 57 vb ; BnF, fr. 308-311, f. 55va).
Notiamo l’inserimento dell’elemento femminile («ommes et femmes»; hominibus), ma soprattutto, nella
frase conclusiva, la presenza del verbo transporter che in antico francese ha il significato di tradurre, mentre
in medio francese acquista quello, conservato anche in epoca contemporanea, di «spostare da un luogo
all’altro» 448. L’uso di transporter associato al corpo non può non evocare il volo corporeo delle streghe,
spesso tramutate in animali, come nell’antichità classica.
Ma torniamo a Les oisiveitez e ai capitoli dedicati a «estries et fantasies».
Gervasio di Tilbury, Otia, Jean d’Antioche, III, 86, p. Jean de Vignay, III, 86, p.
III, 86, p. 726
324
325
Ut quod mandatum in
Et ce fait il pour ce que son Et aussi conme il veult que
bonum operatur ad bonum, commandement
nous les bons angels facent
hoc eius pacientia mali
fassons bien avec les bons bonnes
œuvres,
aussi
operentur ad nostre
angelz et par sa souffrance sueffre il que les mauvés
infirmitatis illusionem ac
pareillement les mauvays facent selonc leur nature
penam.
angelz fassent ennuy et mauvaisse pour tenir les
derision a nostre fragilité.
bons crestiens en fermeté et
pour echarnir les mauvés et
les mettre en painne.
Come già nel capitolo sulla Dama dell’Esparvier, la distinzione della virtù dei sacramenti riposa sulla
divisione tra buoni e cattivi cristiani; Jean di Vignay conferma, quindi, la scissione manichea dell’universo
dei credenti : bons e mauvais subiscono effetti diversi così che la derisione spetta solo ai secondi.
Hoc equidem a viris omni exceptione maioribus cotidie scimus probatum, quod quosdam huiusmodi
larvarum, quas fadas nominant, amatores audivimus 449.
Mays ce sçay bien que j’ai oÿ dire, et maintes gens l’ont esprouvé, comment aulcuns ont esté amoureux des
femmes et tandis comment ilz se maintindrent en l’amour des fees 450.
Et aucun racontent et dient que il ont esprouvé moult de fois et veu et oï une manière de fourmes de gens,
hommes et fames par semblant, que l’en apelle fees en la langue françoise, qui ainment les honmes et se
couchent avec eulz, et se transformoient en pluseurs formes et en pluseurs manieres de cors. […] Et de ces
fees faisoient moult d’autres merveilles, si conme nous avons oï raconter en pluseurs histores anciennes 451.
Anche in questo caso, la breve aggiunta sulla metamorfosi delle fate rientra nella riformulazione coerente
delle tipologie del femminile demoniaco, ormai tutte concidenti e unitarie: la confusione tra fate e streghe,
448
DMF, edizione elettronica, www.atilf.fr/dmf; transporter.
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, 86, p. 730.
450
Jean d’Antioche, Les traductions françaises des Otia imperialia, III, 86, p. 328.
451
Jehan de Vignay, Les traductions françaises des Otia imperialia, III, 86, p. 327.
449
89
già accennata da Jean d’Antioche 452, è una realtà, tanto che faerie diviene sinonimo di diabolico. Al termine
del capitolo 86, laddove Gervasio riporta il versetto di Isaia sulla profondità del giudizio divino (Iudicia Dei
abissus multa), Jean de Vignay avverte l’esigenza di distinguere chiaramente questi esseri sovrannaturali da
quelli angelici:
Mes tant sai je bien que les anges de Dieu ne se muent pas en tiex fourmes ne en tiex faeries453.
Sul versante linguistico, inoltre, il calco fantasie, spesso utilizzato da Jean de Vignay, sul latino phantasiae
concorre allo spostamento semantico che connota il termine francese. Non più facoltà dell’anima, ma figura
incarnata, la fantasie di Jean de Vignay diviene sinonimo di demoni, streghe, lamie operanti nella realtà e
capaci di tramutarla. Jean d’Antioche, nei titoli degli stessi capitoli, utilizza il più comune fantosme, dallo
statuto ambiguo e inafferrabile.
In conclusione, Jean de Vignay sembra confermare il suo profilo di volgarizzatore attento a intercettare
l’orizzonte di attesa del suo pubblico. Il suo obiettivo non sembra essere quello di cogliere la specificità
espressiva e contenutistica del testo, quanto quello di cercare di ridurre la fonte a categorie già accettate e
condivise; non una forma di conoscenza; quanto invece una ricerca di conferme. La proiezione del suo
universo culturale è dunque massiccia e quasi senza filtro.
3.2 La certificazione di verità e la condensazione della realtà nelle testimonianze dei viaggiatori delle terre
oltremondane: tra divertissement e pulsione edificante
I mirabilia oggettivati trovano la loro compiuta realizzazione all’interno delle relazioni di viaggio,
prolungando l’accezione già antica di mirabilia mundi, fenomeni straordinari e opere eccezionali che
costellano i paesi lontani e stranianti. Nell’economia del nostro discorso, tuttavia, non rientra un’indagine
sulla letteratura odeporica tout court quanto, invece, l’analisi di una tipologia particolare di relazioni di
viaggiatori che spingono la loro testimonianza oculare fino a un altrove sovratterestre, operando un
ancoraggio alla realtà fattuale di lande e terre che solo in spirito o in allegoria potrebbero essere visitate. Li
definiamo viaggi ‘immaginari’, ovvero tutti quei viaggi che, a differenza delle relazioni di itinerari tracciabili
sulla carta geografica, narrano di località sovrannaturali, oppure, come nel caso di Jehan de Mandeville454,
riferiscono di terre visitate che non sono state, in realtà, mai raggiunte. Abbiamo a tal proposito selezionato
un piccolo corpus testuale che della certificazione delle terre immaginarie e dei loro epifenomeni fa il perno
di un discorso escatologico di redenzione. I testi presi in esame sono essenzialmente l’Itinerarium di frate
Odorico da Pordenone 455 e alcuni suoi volgarizzamenti 456, il Livre des merveilles di Jehan de Mandeville, il
452
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III, 93, p. 742: «cum cetu lamiarum celeri penna mare transire»; Jean
d’Antioche, Les traductions françaises des Otia imperialia, III, 93, p. 338: «aloient courre par le monde avec les estries
et les fees».
453
Jean de Vignay, Les traductions françaises des Otia imperialia, III, 86, p. 327.
454
Jehan de Mandeville, Les Livre des merveilles du monde, ed. C. Deluz, Paris, CNRS Editions, 2000.
455
A. Van den Wyngaert, Sinica franciscana. Vol. I: Itinera et relationes fratrum minorum saeculi XIII et XIV,
Quaracchi et Firenze, Collegium Sancti Bonaventurae, 1929, pp. 379-495. Si vedano anche gli studi sulla tradizione
testuale dell’Itinerarium di P. Chiesa, «Per un riordino della tradizione manoscritta della Relatio di Odorico da
Pordenone», in Filologia Mediolatina, 6-7, 1999-2000, pp. 311-350; Id., «Una forma redazionale sconosciuta della
Relatio latina di Odorico di Pordenone», in Itineraria, 2, 2003, pp. 137-163; A. Andreose, La strada, la Cina, il cielo.
Studi sulla “Relatio” di Odorico da Pordenone e sulla sua fortuna romanza, Soveria Mannelli, Rubbettino 2012.
456
Le voyage en Asie d'Odoric de Pordenone traduit par Jean le Long OSB: Iteneraire de la peregrinacion et du
voyaige, ed. A. Andreose e Ph. Ménard, Genève, Droz, 2010; Libro delle nuove e strane e meravigliose cose:
volgarizzamento italiano del secolo XIV dell'Itinerarium di Odorico da Pordenone, ed. A. Andreose, Padova, Centro
studi Antoniani, 2000; Jean de Vignay, "Les merveilles de la terre d'outremer."; versione toscana edita da Giovanni
Battista Ramusio, Navigazioni e viaggi, Torino, Einaudi, 1978-1988, 6 voll., vol. 2 ; edizione elettronica, Biblioteca
Italiana, Università di Roma “La Sapienza”, www. bibliotecaitaliana.it.
90
Paradis de la reine Sibylle di Antoine de la Sale 457, il Viatge al Purgatorio di San Patrizio del visconte di
Perelhos 458, nonché altre relazioni di viaggiatori del Purgatorio459.
Se, come è stato spesso sottolineato, la ripetizione di mirabilia sempre uguali e sempre identici costituisce un
luogo comune della scrittura odeporica, bisogna rilevare che non tutti i racconti di viaggi terminano o
contemplano nella loro partizione interna una discesa agli inferi, come accade nei nostri testi (da Odorico ad
Antoine de la Sale). Il modello che sta alla base di questi détours oltremondani è ovviamente il genere
visionistico, modificato profondamente dalla famosa catabasi purgatoriale, narrata, in primis, nel Tractatus
de purgatorio sancti Patricii 460 e in seguito in tutte le lingue romanze 461. Il Tractatus si iscriveva a pieno
titolo in quel processo di oggettivazione di fenomeni fantasmatici della fine del secolo XII462 e, inaugurando
un pellegrinaggio fisico nella fossa purgatoriale - pellegrinaggio che si consolidava grazie alla testimonianza
del cavaliere e dei successivi visitatori - apriva un varco verso gli spazi sovrasensibili all’interno di
coordinate geografiche realistiche (l’Irlanda). Questa novità del Tractatus sconvolge il genere visionistico e
permette di inglobare, nelle varie fasi delle riscritture, gli stilemi della letteratura odeporica. Nel secolo XIV,
infatti, la discesa nel Purgatorio si impone come viaggio penitenziale, fisico e reale. I racconti tardivi sul
Purgatorio di San Patrizio, dunque, premettono, prima dei narrare l’ingresso nella fossa, la relazione
particolareggiata del viaggio fino in Irlanda e una sua descrizione geo-etnografica. Da un lato, quindi, il
racconto della discesa nell’oltretomba mutua stilemi propri della scrittura odeporica, dall’altro alcune
relazioni di viaggio trascendono la loro significazione letterale, integrando il meccanisco dell’escatologia in
Terra.
Il processo di avvicinamento della visio alla letteratura di viaggio si attiva, in realtà, già a ridosso della
stesura del Tractatus, ovvero all’interno del Purgatorio narrato da Pietro di Cornovaglia 463. Il testo, pur non
457
Antoine de La Sale, Le paradis de la reine Sibylle, ed. F. Desonay, Paris, Droz, 1930.
Versione occitana: A. Jeanroy-A. Vigneaux, Voyage au Purgatoire de St. Patrice, Toulouse, Privat, 1903 , pp. 4-53 ;
Ramon de Perelhos, Viatge al Purgatori de saint Patris, edizione a cura di M. Boretti, Rialto, www.
rialto.unina.it/Prosanarrativa/Viatge; versione catalana, incunabolo, stampato a Tolosa nel 1486 : R. Miquel y Planas,
Llegendes de l'altra vida; Viatges del cavaller Owein y de Ramon de Perellos al Purgatori de San Patrici; Visions de
Tundal y de Trictelm, Barcelona, F. Giró, 1914, pp. 145-73.
459
S. M. Barillari, «Il Purgatorio di Ludovico di Sur: un testo a cavallo fra Medioevo e Rinascimento», Studi medievali,
3a serie, 49, 2008, pp. 759-808; L.L. Hammerich, Visiones Georgii, Copenhagen, Høst & Søn, 1931.
460
H. di Saltrey, Tractatus de purgatorio sancti Patricii, ed. Warnke.
461
Volgarizzamenti del Tractatus furono realizzati in diverse lingue. Sui volgarizzamenti spagnoli, cfr. A. G. Solalinde,
«La primera versión espagnola de El purgatorio de San Patricio y la diffusión de esta leyenda en España», in Homenaje
ofrecido a Menéndez Pidal, Madrid, Hernando, 1924, pp. 219-57. In area iberica, inoltre, il tema del Purgatorio di S.
Patrizio conobbe un rinnovato successo durante il Siglo de oro; cfr. Calderón de la Barca, El purgatorio de San
Patricio, a cura di J.M. Ruano de la Haza, Liverpool, Liverpool University Press, 1988; J.Pérez de Montalbán, Vida y
Purgatorio de San Patricio, a cura di M.G. Profeti, Pisa, Università di Pisa, 1972. Sulle versioni italiane si vedano: G.
Grion, «Il pozzo di San Patrizio», in Il Propugnatore, III, 1870, pp. 67-149 (edizione della redazione veneta); P. Villari,
«Alcune leggende e tradizioni che illustrano la Divina Commedia», in Annali delle Università toscane, VIII, 1886, pp.
51-76; L. Bertolini, «Una redazione lombarda del Purgatorio di S. Patrizio», in Studi e problemi di critica testuale,
XXXI, 1985, pp. 8-49; Ead., «Per una delle leggende che illustrano la Commedia», in Studi danteschi, LIII, 1981, pp.
69-128; M. Degli Innocenti, «Redazioni italiane del Purgatorio di S. Patrizio», in Italia medievale e umanistica,
XXVII, 1984, pp. 81-120; C. Di Fonzo, «La leggenda del Purgatorio di S. Patrizio fino a Dante a ai suoi commentatori
trecenteschi», in Studi danteschi, LXV, 2000, pp. 177-201. Versioni anglonormanne in versi: Marie de France,
L’Espurgatoire Seint Patris, ed. Y. de Pontfarcy, Louvain-Paris, 1995 ; Maria di Francia, Il Purgatorio di San Patrizio,
a cura di G. Lachin, Roma, Carocci, «Biblioteca Medievale», 88, 2003; Maria di Francia, Il Purgatorio di San Patrizio,
a cura di S.M. Barillari, Alessandria, Edizioni dell’Orso, «Gli Orsatti», 17, 2004; Berol, Le Purgatoire de saint Patrice
par Berol, ed. M. Mörner, Lund, 1917; Le Purgatoire de saint Patrice des MSS Harl. 273 et B.N. fr. 2198, ed. J.
Vising, Gothemburg, 1916; U. Van Der Zanden, Étude sur le Purgatoire de saint Patrice accompagné du texte latin
d'Utrecht et du texte anglo-normand de Cambridge, Amsterdam, 1927 ; P. De Wilde, Le Purgatoire de saint Patrice.
Origines et naissance d’un genre littéraire au XIIe siècle, thèse de l’Université d’Anvers, 2000. Versioni francesi in
versi : Le Purgatoire de saint Patrice du MS de la Bibliothèque Nationale, fr. 25545, ed. par M. Mörner, Lund, 1920.
Versioni in prosa : M. Di Febo, Les versions en prose du Purgatoire de Saint Patrice en ancien français, Paris,
Champion (CFMA, 172), 2013.
462
J. Le Goff, La nascita del Purgatorio, Torino, Einaudi, 1982 (ed. or. Paris 1981); J.C. Schmitt, Spiriti e fantasmi
nella società medievale, Bari-Roma, Laterza, 1995 (ed. or. Paris, 1994).
463
Easting, «Peter of Cornwall's account».
458
91
avendo avuto ampia circolazione, costituisce una testimonianza importante sia dell’integrazione dei canoni
stilistici della scrittura odeporica sia della strutturazione di un nucleo narrativo che comparirà nelle relazioni
di viaggio oltremondane successive: la metamorfosi della figura femminile ctonia. Il nucleo diegetico della
donna ofidica o comunque metamorfica che aveva conosciuto nella letteratura mediolatina la sua
incarnazione, si ritrova in alcuni trecenteschi viaggi immaginari in Oriente, nei racconti sulle catabasi nelle
grotte sibilline o nelle fosse purgatoriali. Tutti questi testi operano però un ribaltamento rispetto alla
produzione mediolatina: laddove Walter Map, Gervasio, Giraldo e Goffredo avevano promosso la ‘terrenità’
delle melusine, imponendo loro un’esistenza dissimulata nella società degli uomini 464, nei testi dei secoli
XIV e XV, le donne anguipedi sono ricacciate in regni separati e il contatto con la comunità umana avviene
solo tramite l’azione di pochi eletti 465. All’essoterismo dei testi dei secoli XII e XIII si contrappone
l’esoterismo di quelli tardivi, riflettendo pienamente la diversa tipologia storica della paura: da un lato una
società che si sente minacciata dalla dissimulazione di nemici nell’ordinarietà del quotidiano; dall’altro una
società assediata dal terrore del complotto e del sovrannaturale occulto.
Per comprendere, tuttavia, la funzione che la sostanzializzazione dei mirabilia e in particolare delle creature
anguiformi assume nei secoli XIV e XV, è necessario ricollocare i testi all’interno della più vasta corrente
stilistica e retorica della prosa del periodo. Se è vero che uno dei fondamenti della sostanzializzaione dei
mirabilia era costituito, come abbiamo visto, dal ricorso alla «certificazione autoptica», derivante dalla
scrittura storiografica, è anche vero che l’imperativo dell’ancoraggio storico del racconto diventa categorico
per la produzione in prosa dei secoli XIV e XV. L’escamotage cronachistico assurge a principio estetico: la
necessità di supportare il récit tramite l’identità storica dell’autore e o la precisa ricollocazione cronologica
degli eventi 466 percorre, infatti, le opere romanzesche tanto quanto quelle non esplicitamente fizionali. Jean
d’Arras, Wauquelin premettono, nel prologo, quelle formule probatorie che, proprie della scrittura del secolo
XIV 467, assolvono la duplice funzione dell’encomio nei confronti del committente e della nobilitazione
storica dell’opera, definitivamente sottratta alle nebbie della fiction fantastica e atemporale (come accadeva
nei dei romans antico-francesi) 468. All’interno, dunque, di questo filone il nostro piccolo corpus di relazioni
di viaggi immaginari spicca per la sua volontà di riferire eventi collocati nel presente e nell’attualità 469, per
certificare i quali si chiama in causa la responsabilità della testimonianza personale, atta a garantire ai
fenomeni straordinari uno statuto di realtà fattuale e inconfutabile. I viaggi fittizi, dunque, si collocano
all’interno di una produzione letteraria con cui condividono la retorica della scrittura storiografica, ma da cui
464
All’esistenza dissimulata nella società umana, segue la fuga delle melusine, una volta svelata la loro identità
diabolica.
465
Le donne-serpente vivono nelle grotte o nei regni ipogei oltremondani, oppure, come le donne-serpente di
Mandeville dell’Estremo Oriente, nella segretezza della camera da letto. Vivono nelle caverne o sottoterra la figlia di
Ippocrate, in Mandeville, la Sibilla di Antoine de la Sale, le damigelle tentatrici dei tardivi viaggi al purgatorio.
466
Sulla mutuazione degli stilemi della scrittura storiografica da parte, per esempio, di Jean Wauquelin nella mise en
prose de La Menekine, si veda, Y. Foehr-Janssens, « La Manekine en prose de Jean Wauquelin, ou la littérature au
risque du remaniement», Cahiers de Recherches Médiévales et Humanistes, 5, 1998, pp. 107-123. La studiosa ricorda
come l’ipoteca storico-cronachistica sull’opera avesse impedito agli studiosi del manoscritto di Torino conservante il
testo, di riconoscerlo, tanto da scambiarlo per una cronaca sui re Ungheresi, p. 117.
467
Si veda sull’argomento C. Marchello-Nizia, «Entre l’Histoire et la poétique, le Songe politique», in Moyen Age
flamboyant XIV-XV siècle. Revue des sciences humaines, Lille, III, 183, 1981, pp. 39-53 ; in particolare pp. 50-51 ; J.
Rasmussen, La prose narrative française du XVe siècle: étude esthétique et stylistique, København, Munksgaard, 1958.
468
A questo proposito si vedano, solo come rapido esempio, i prologhi di Mélusine di Jean d’Arras e della Belle Hélène
de Costantinople di Wauquelin. Jean d’Arras, Mélusine, pp. 111-112 : «Je supplie a sa haulte dignité que este histoire je
puise achever a sa gloire et a sa louenge et au plaisir de mon treshault, puissant et redoublé seigneur Jehan, filz de roy
de France. […] Et commençay ceste hystoire a mettre en prose le mercredi devant la Saint Cleymen en hyver l’an de
grace mil .ccc. IIIIXX.XI». Jehan Wauquelin, La Belle Hélène de Costantinople, ed. M.C. de Crecy, Genève, Droz,
2002, p. 13-14 : «Au commandement de trespuissant et de tresdoubté prince, mon tredoubté seigneur, monseigneur
Phelippe, par la grace de Dieu, duc Bourgoingne […] mon tresbenigne seigneur principant et regnant en ce present an,
qui est l’an de l’Incarnacion Nostre Seigneur mil CCCCXLVIII, je Jehan Wauquelin […] me suis determiné de mettre
en prose une hystoire nommé l’hystoire d’Helaine». In entrambi i prologhi alla dedicatio celebrativa segueno la precisa
indicazione temporale della composizione e il nome dell’autore.
469
I romanzi di Jean d’Arras o di Wauquelin, infatti, procedevano alla ricostruzione di coordinate storiche del passato, a
cui saldare i racconti mitici in funzione di celebrazione dinastica dei committenti.
92
si distinguono per la loro apertura attualizzante, riallacciandosi, grazie alla pulsione esplorativa, ai veri
resoconti di viaggio. Riferendo, tuttavia, esperienze di itinerari ‘fantastici’, la loro significazione sembra
porsi più sul piano allegorico-edificante che su quello della conoscenza sperimentale, come avviene nelle
relazioni odeporiche. La loro parentela con i testi mediolatini che a partire da esplorazioni reali si
soffermavano sui prodigi dalla valenza profondamente didascalica è stringente. Giraldo di Cambria e
Gervasio di Tilbury sembrano confermare la loro validità di modelli strutturali sia per un autore, come Jehan
de Mandeville, che utilizza esplicitamente gli Otia, sia per altri autori, che pur ispirandosi alle catabasi
patriciane, ne riproducono la modalità narrativa.
Per cogliere la portata semantica delle nostre opere, bisogna, inoltre, mettere a fuoco l’aspetto antropologico
della ricezione e comprendere quale fosse la percezione di realtà da esse veicolata. Il cosiddetto gusto per il
romanzesco sembra spingere il pubblico dell’epoca, in particolare quello nobile cortigiano, verso la mimesi
reale delle avventure cavalleresche. Sul finire del secolo XIV sembra, infatti, prodursi un bizzarro
cortocircuito tra la ricerca di avventure dei nobili e la loro rielaborazione letteraria da un lato e la letteratura
romanzesca tout court dall’altro. Vita e letteratura si saldano provocando l’alterazione di quel patto fizionale
proprio dei romanzi cortesi-cavallereschi che chiedeva ai lettori una sospensione dell’incredulità 470. La
letteratura ambisce al rango della realtà oggettiva, tanto quanto le relazioni di viaggi immaginari. Si verifica
dunque un’osmosi sempre più marcata tra scrittura odeporica e stilemi romanzeschi: le relazioni di viaggi
‘immaginari’ mimano la diegesi del romanzo, il romanzo incorpora dati informativo-referenziali a sostegno
di un maggiore realismo del décor scenico. A confondere ulteriormente i piani della finzione e della realtà
contribuiscono proprio alcune opere scopertamente fizionali che sono, invece, recepite come portatrici di
verità fattuali. Per il cortocircuito, cui si è accennato prima, il romanzo di Andrea da Barberino, Guerrin
Meschino 471, costituisce un tassello esemplare a sostegno della veridicità di talune creature e di specifici
luoghi.
Questo aspetto di marcata letterarietà dell’esperienza spinge i nostri autori ad adottare l’atteggiamento a tratti
ironico e divertito dell’intellettuale consapevole della propria operazione di produzione fizionale, spacciata,
però, come vera e veritiera. Jehan de Mandeville e Ramon de Perelhos manipolano fonti libresche per offrire
al loro pubblico il resoconto di un’esperienza camuffata dietro la pretesa di veridicità. Antoine de la Sale,
invece, dopo aver prodotto una serie di testimonianze fededegne, non si spinge fino alla definitiva
certificazione di realtà del regno della Sibilla. Sul versante opposto, Guerrin Meschino viene recepito come
personaggio storico e le sue peripezie straordinarie come allusive di un piano di realtà fattuale. La
mescolanza di una parziale fisicità dell’esperienza (Odorico viagga realmente in Asia, Mandeville raggiunge
probabilmente Gerusalemme, Ramon si reca in Irlanda, Antoine ascende al monte della Sibilla) e di un
prolungamento fantastico della stessa contribuisce a rafforzare il piano di realtà della narrazione, piano
recepito dal pubblico come tale, al punto che nella classificazione per generi, fino al XVIII secolo, nessuno
avrebbe catalogato il Livre des merveilles di Jehan de Mandeville come romanzo o opera di finzione 472. È
proprio tenendo presente la modalità di ricezione, dunque, che è interessante verificare quali immagini
culturali siano state veicolate dai nostri autori e in che modo, in un mutato contesto storico, risultino
investite dal tentativo di escogitare categorie di leggibilità, come era accaduto, nei secoli precedenti,
attraverso la sostanzializzazione dei mirabilia. Perché se, per le opere mediolatine è stato possibile isolare, in
concomitanza con altri fattori, l’evento che maggiormente generava l’ansia da accerchiamento, ovvero la
470
La commistione/confusione tra le convenzioni retoriche della fiction e gli stilemi della scrittura storiograficaautoptica nel corso dei secoli XIV-XV tocca ambiti diversi della produzione letteraria e si configura come un fenomeno
ampio e complesso, che non può essere investigato in questa sede. Ci basti soltanto ricordare la centralità che assume la
tradizione epico-romanzesca nella ricostruzione di una storia prodigiosa, ma vera, qual è Ly mireur des histors di Jehan
d’Outremeuse; Ly myreur des histors, chronique de Jehan des Preis dit d'Outremeuse, ed. A. Borgnet, Bruxelles,
Hayez pour l'Académie royale de Belgique, 1864-1880, 6 voll.
471
Andrea da Barberino, Guerrin Meschino, edizione critica secondo l’antica vulgata fiorentina a cura di M. Cursietti,
Roma-Padova, Antenore, 2005.
472
C. Deluz, Le livre de Jehan de Mandeville: une "géographie" au XIVe siècle, Louvain-la Neuve, Publications de
l’Institut d'études médiévales de l'Université catholique de Louvain (Textes, études, congrès, 8), 1988, pp. 267- 330.
93
diffusione delle eresie, nei secoli XIV e XV altre sono le paure sollevate dal femminile perturbante,
chiaramente connesso alla sua dimensione diabolica 473. La spinta edificante che soggiace, dunque,
all’operazione di divertissement attuata da Jehan de Mandeville o da Ramon de Perelhos, essenzialemente
fondata sul mascheramento delle fonti letterarie, si muove nella direzione della preoccupazione penitenziale
ed escatologica, dal momento che al centro dei percorsi narrati si pone una discesa agli inferi, seguita da un
ritorno ascensionale sulla Terra, dopo il superamento delle tentazioni. In alcuni dei nostri testi, l’incontro con
le figure ofidiche costituisce la tentazione principale oppure, laddove non si configura come vero pericolo,
cristallizza costellazioni di angosce, generate, nel caso di Mandeville, dalla tensione all’allargamento dei
confini geografici dell’ecumene. In Odorico e in Mandeville, inoltre, la questione della certificazione di
veridicità dello straordinario si collega, alla problematica più ampia dell’incontro e della rappresentazione
dell’alterità antropica, che risulterà fondamentale nella stesura delle relazioni di viaggio nel Nuovo Mondo.
Non è questa la sede per sviscerare l’argomento, a cui accenneremo solo per sottolineare la forza
modelizzante di topoi, che si prolungheranno fino all’epoca moderna.
3.2 L’Oriente e la cristallizzazione dei mirabila: dall’esplorazione alla catabasi
3.2.1 Odorico da Pordenone: intenzione figurale e discorso di verità
Il racconto di Frate Odorico conobbe un sicuro e diffuso successo, tanto da generare numerosi
volgarizzamenti. Rispetto alle precedenti descrizioni delle terre orientali, l’Itinerarium si impone al pubblico
per lo schematismo 474, a tratti ripetitivo, della presentazione delle culture straniere e per la spiccata pulsione
agiografico-evangelizzatrice della missione francescana. L’estraneità e l’alterità dei popoli indigeni sono
sottolineate dalla loro bestialità, di cui il nudismo, il cannibalismo 475, i sacrifici umani 476 sono i tratti
precipui. Il successo riscosso dal testo di frate Odorico, infatti, va di pari passo con l’affermazione di una
conoscenza dell’altro sempre più stereotipata e convenzionale 477, all’interno della quale l’incarnazione del
473
È indubbio, infatti, che sulle opere dei secoli XIV e XV inizia a riverberarsi la grande paura che scatenò la caccia
alla streghe, su cui in questa sede non ci soffermeremo. Il riferimento bibliografico ancora valido, bencé datato, resta J.
Delumeau, La paura in Occidente.
474
Si pensi soltanto alla ricchezza e all’acutezza delle osservazioni di Guglielmo di Rubruck, che difficilemente indulge
ai luoghi comuni e che di ogni cultura coglie sempre le specificità. Sicuramente a basso tasso di meraviglia doveva
sembrare il testo di Guglielmo di Rubruck all’Occidente, che gli preferì la schematicità manichea (Occidente VS
Oriente) di Odorico o la proliferazione di mirabilia di Mandeville. Su Guglielmo di Rubruk, Viaggio in Mongolia, a
cura di P. Chiesa, Milano, Fondazione Valla-Arnoldo Mondadori, 2011.
475
Gli abitanti dell’isola di Lamory vivono nudi e mangiano carne umana, p. 446: «Ista gens pestifera est et nequam». I
cinocefali vivono in costume adamitico, p. 452. Cannibali sono gli abitanti di Dondin, benché il loro cannibalismo
costituisca un rito funebre, pp. 455-457. Altro rito funebre barbarico e incomprensibile agli occhi del frate è quello del
regno di Tybot (Tebet), dove il cadavere è fatto a pezzi e dato in pasto agli uccelli, pp. 485-486.
476
Odorico da Pordenone, Itinerarium,: «De civitate Polumbo», pp. 440-442, in cui si narra il sacrificio umano di
sessanta vergini; «De ydolo mirabili», pp. 442-445, in cui si racconta il sacrificio volontari dei pellegrini sotto il carro
che trasporta l’idolo.
477
Si pensi alle smentite di alcuni luoghi comuni apportate da Gugliemo di Rubruk e da Marco Polo. Per quanto
riguarda il primo, basta confrontare la sua valutazione sul cannibalismo rituale presso i Tebet (Tybot) e la descrizione
dettagliata e tesa a suscitare orrore di Odorico sempre a proposito dei Tebet. Odorico trasferisce la pratica del
cannibalismo rituale agli abitanti dell’isola di Dondin, che si cibano dei cadaveri dei consenguinei. Sulla trasformazione
del proprio corpo nella sepoltura dei propri cari, Guglielmo riferisce che si tratta di un rito ormai dismesso, perché
ritenuto abominevole; Odorico, al contrario, narra la pratica della decollazione e della macellazione del cavadere da
dare in pasto agli uccelli, con particolari crudi che suggeriscono una sorta di cannibalismo dissimulato da parte dei
parenti. Si tenga conto che tra la data del viaggio di Guglielmo (1253-55) e quello di Odorico (1318) c’è un intervallo
di sessant’anni. Guglielmo di Rubruk, Viaggio in Mongolia, cap. XXVI, p. 126: «Post istos sunt Tebet, homines
solentes comedere parentes suos defunctos, ut causa pietatis non facerent aliud sepulchrum eis nisi viscera sua. Modo
tamen hoc dimiserunt, quia abhominabiles erant omni nationi»; Odorico da Pordenone, Itinerarium, p. 485: «Habent
paratum unum discum magnum super quo ipsi sacerdotes sibi [del morto] caput amputabunt, quod postea filio suo
dabunt. […] Exinde sacerdotes totum corpus eius incidunt». Rispetto a Marco Polo, è invece interessante confrontare,
tra le altre smentite di mirabilia tradizionali (p.e. l’unicorno), la sua descrizione delle scimmie di piccola taglia
spacciate per umani e la descrizione dei Pigmei di Odorico. Marco Polo, La Description du monde, ed. P.Y. Badel ; Le
94
demoniaco 478 viene ratificata dalla «certificazione autoptica». Eppure Odorico è anche osservatore attento e,
a volte, riferisce episodi o abitudini taciute da altri viaggiatori. Il significato del suo testo, quindi, trascende
quello più strettamente letterale-referenziale (relazione di viaggio) e suggerisce un’interpretazione
figurale 479, in quanto l’itinerarium è anche il percorso che il cristiano deve affrontare tra le peripezie terrestri
prima di raggiungere la casa celeste. Il livello allegorico-figurale sembra trovare conferma nella struttura
conclusiva del racconto, laddove Odorico abbandona la dimensione terrena per sprofondare nella valle
infernale prima di rientrare nelle regioni occidentali. L’ultima prova che il frate deve superare è una valle
infernale-purgatoriale, la cui configurazione rivela il debito nei confronti della letteratura visionistica, dove
l’elezione del viaggiatore-pellegrino si misura essenzialmente sulla sua capacità di uscire indenne dai
tormenti infernali, poiché solo il contatto con il puits d’enfer corrobora la fermezza della fede. Il
superamento della prova della Valle del Diavolo rafforza lo schema di un itinerario di purificazione
preliminare che garantirà a Odorico l’ascesa in cielo, perché il frate, una volta rientrato in Italia, si ammala e
di lì a poco muore. Nella valle ha così espiato i suoi peccati in vita e può sperare di accedere direttamente a
quel Paradiso Deliciarum che avrebbe voluto raggiungere da vivo:
Cominciano i capitoli de libro delle nuove e strane e meravigliose cose che frate Odorigo di Friuli dell’ordine
de’ fra Minori trovoe, di là da mare, fatto in Vinegia, ov’elli fece scrivere questo libro essendo di là tornato e
dovendo andare al papa per notificarli queste e altre meravigliose cose. E poi di là tornato, intendea d’andare
al Paradiso Delitiarum e quine finire la sua vita secondo la volontà di Dio. Poi andando a corte infermò a
Pisa e, conoscendo che il termine della sua vita era venuto, volendo morire nella sua patria, ritornò a Vinegia
e poi andoe in Udine in Friuli e quivi santamente finio 480.
In una geografia simbolica qual è quella dell’oltretomba, la valle o il pozzo infernale si collocano sempre a
ridosso del paradiso, a sottolineare una topologia orientata sull’asse alto-basso e far risaltare, nella verticalità,
l’abisso che separa la Gehenna dall’Eden. La valle orribile («De valle terribili») si apre nei pressi del letto di
uno dei fiumi paradisiaci. Il testo latino recita: «super flumen deliciarum» 481, ma che si tratti del Paradiso
edenico lo confermano sia il volgarizzamento di Jehan le Long sia la riscrittura di Jehan de Mandeville:
Une chose vi je moult hisdeuse ; comme je cheminoie lelonc un des fleuves de paradis 482.
Delez la riviere de Physoun y a une merveilleuse chose 483.
Devisement dou monde, sous la direction de Ph. Menard ; t. I, Départ des voyageurs et traversée de la Perse, ed. M.L.
Chênerie, M. Guéret-Laferté, Ph. Menard ; Genève, Droz, 2001 ; t. II, Traversée de l’Afganistan et entrée en Chine ; ed.
J.M. Boivin, L. Harf-Lancner, L. Mathey-Maille ; Genève, Droz , 2003 ; t.III, L’empereur Koubilai Khan, ed. J-Cl.
Faucon, D. Quéruel, M. Santucci, Genève, Droz, 2004 ; t. IV, Voyages à travers la Chine, ed. J. Blanchard, M.
Quéreuil, Genève, Droz, 2006 ; t. VI, A travers la Chine du Sud, ed. J-Cl, Delclos, Cl. Roussel, Genève, Droz, 2006 ;
cap. CLXV: «Et sy vous dy que ceulx qui apportenent les petitz hommes qui dient qu’il sont d’Ynde, il dient grant
mensonges car je vous dy qui … sont synges petiz qui sont contrefaiz en cest isle. … Il y a en ceste isle une manière de
synges qui sont moult petiz et ont les visaiges fais comme hommes». Su Marco Polo, si vedano anche le edizioni
rispettivamente della versione franco-veneta, di quella toscana e di quella veneta: Marco Polo, Il Milione, a cura L.F.
Benedetto, Firenze, Olschki, 1928; Marco Polo, Il Milione, a cura di V. Bertolucci-Pizzorusso, Miliano, Adelphi, 1975;
Marco Polo, «Il milione» veneto, ms CM 211 della Biblioteca Civica di Padova, a cura di A. Barbieri e A. Andreose,
Venezia, Marsilio, 1999. Odorico da Pordenone, Itinerarium, p. 468 : «Hii pigmei sunt magni tribus spansis qui faciunt
mafìgna opera gotomin id est bombicis».
478
Se l’Oriente di Marco Polo o di Giovanni di Rubruck è effettivamente il regno dell’alterità umana e, in alcuni casi, la
terra di popoli fantastici, l’Oriente di Odorico e poi di Jehan de Mandeville sprofonda nella dimensione di un’estraneità
sovrannaturale diabolica e decisamente poco rassicurante (cfr. infra, i cannibali).
479
A. Andreose, «Introduzione», Libro delle nuove e strane e meravigliose cose, pp. 25-26.
480
Libro delle nuove e strane e meravigliose cose, p. 139.
481
Odorico da Pordenone, Itinerarium, pp. 491-492; p. 491.
482
Jean le Long, Le voyage en Asie d'Odoric de Pordenone traduit par Jehan le Long, p. 61.
483
Jean de Mandeville, Le livre des merveilles, p. 445.
95
Benché non si conosca con sicurezza il tragitto di ritorno di frate Odorico, è possibile che abbia attraversato
una delle tante vallate desertiche dell’Asia Minore 484, trasformatasi sotto la spinta della pulsione escatologica
nella valle del Diavolo, una valle che, al pari delle altre terre visitate, acquista contorni realistici garantiti
dalla testimonianza personale.
Ispirata a una descrizione del deserto di Lop contenuta nel Devisement dou monde di Marco Polo 485, la valle
del Diavolo, abitata dalla testa semovibile e terrificante, trasmigra dal testo di Odorico a quello di
Mandeville (cfr. ultra).
L’episodio narrato da Marco Polo si riferisce, appunto, al deserto di Lop, situato in Cina, il cui
attraversamento espone il viaggiatore a un estremo pericolo. Il deserto, infatti, non ospita né fauna né flora,
ma alcune oasi che permettono l’abbeveramento dei viandanti e dei loro animali; l’enorme estensione,
tuttavia, obbliga a delle soste che possono essere letali. Accade, infatti, di notte, una «grant merveilles»: chi
si ferma a riposare da solo, avendo smarrito i compagni, ode uno spirito parlare con la loro voce che lo guida
in un percorso ingannevole fino al disorientamento totale e alla morte. Gli stessi spiriti possono palesarsi
anche di giorno, sempre nella forma eterea del flatus vocis oppure attraverso il suono di strumenti musicali,
come i tamburi. La descrizione delle allucinazioni/miraggi che possono provocare la morte si attiene allo
schema illusionistico-fantasmatico, ribadito dalle capacità di camuffamento della voce, in grado di ricalcare
quella di persone familiari e quindi di appellare per nome il malcapitato. I racconti melusiniani ci hanno
insegnato che la prescienza del nome da parte delle creature straordinarie è indice di intimità con i demoni,
rivelandosi altresì una perfetta tattica per neutralizzare i sospetti e le difese degli umani incontrati 486. Anche
in questo caso, l’insinuarsi di un’entità malefica nelle pieghe dell’identità nominale soggettiva conduce alla
perdizione e alla morte, in una direzione marcata in senso romanzesco se, giusta l’osservazione di Rajna a
proposito del «perduto» dell’Ulisse dantesco 487, dobbiamo intendere questo termine nella sua accezione
tecnica di fallimento dell’avventura cavalleresca.
Si que plusieurs foiz le font desvoier en telle manere que plus ne se retruevent; et en ceste maniere en sont ja
maintz mors et perduz 488.
A partire dall’episodio del deserto di Lop, Odorico costruisce la Vallee du Diable, inserita al termine del
racconto del successo degli esorcismi praticati dai Frati Minori. I Frati Minori, dopo aver liberato gli ossessi,
li battezzano e contemporaneamente bruciano gli idoli da cui i demoni fuggono, urlando:
Videas Videas quod de mea habitacionem sum expulsus 489.
La tangibilità quasi fisica dei demoni in fuga prelude all’avventura della Valle orrifica. Odorico si addentra
in una vallata in cui giace un numero enorme di corpi morti, tanto che si legge nella traduzione di Jean de
Vignay:
tout le charroi de Padoue et de Tervise fussent touz enpeeschiez de porter ces cors a une foiz490.
484
Probabilmente la valle coincide con quella del fiume Amou-Daria (Persia), cfr. A. Andreose, «Introduzione», Libro
delle nuove e strane e meravigliose cose, p. 15.
485
Marco Polo, La Description du monde, cap. LIV, pp. 139-141.
486
Nel racconto di Gervasio, Raimondo viene chiamato per nome dalla bella sconosciuta, ugualmente Meridiana supera
le resistenze di Gerberto appellandolo con il suo nome.
487
Dante, Inf. XXVI, v. 84: «dove per lui perduto a morir gissi». Cfr. P. Rajna, «Dante e i romanzi della Tavola
Rotonda», in Nuova Antologia, 206, 1920, pp. 223-247, pp. 223-227; D.S. Avalle, «L'ultimo viaggio di Ulisse», in Studi
danteschi, XLIII, 1966, pp. 35-68; pp. 39 e ss. (rist. in Modelli semiologici nella Commedia di Dante, Milano,
Bompiani, 1975, pp. 33-63). Ma perduz è anche il termine che indica il fallimento dell’avventura oltremondana: «maint
hom y sont perduz et periz» è la locuzione che indica nelle versioni antico-francesi del Purgatorio di San Patrizio il
mancato ritorno dei non-eletti dall’Aldilà.
488
Marco Polo, La Description du monde, cap. LVI, p. 140.
489
Odorico da Pordenone, Itinerarium, p. 490.
96
Lo scenario è quindi decisamente quello di un campo di pene infernali, meglio purgatoriali, poiché nei testi
visionistici, nel pieno rispetto dell’ortodossia, all’anima del visionario o al pellegrino non è consentito
l’accesso ai luoghi eterni (Inferno e Paradiso), ma solo a quelli transeunti. A completare il quadro, la
notazione sonora: una cacofonia (clamor) prodotta da vari strumenti che suscitano terrore (timor). La
gigantesca testa diabolica rafforza l’horror del viaggiatore e soltanto la formula salvifica 491 gli permetterà di
raggiungere indenne l’uscita, come accade ai viaggiatori dell’oltretomba 492. Ma prima di abbandonare la
valle Odorico deve sottoporsi a un’ulteriore prova: resistere alla tentazione dell’argento che copre una delle
pendici «quasi squamae piscium» 493.
La relazione di Frate Odorico consegnava così all’Occidente 494 una rinnovata geografia oltremondana,
all’interno della quale l’inferno si spostava sempre di più a Oriente, a stretto contatto con il Paradiso terrestre
(la cui collocazione orientale risaliva già all’alto medioevo) e, attraverso la certificazione oculare ed
esperienziale, acquistava una consistenza oggettiva, al pari di altri regni dell’Aldilà visitabili nell’estremo
Occidente (Irlanda) oppure nelle regioni più impervie dello spazio occidentale quotidiano (i monti Sibillini,
l’Etna, le isole di Lipari). La mimesi, inoltre, dei viaggi purgatoriali occidentali tendeva a rafforzare un’unità
speculare tra Oriente e Occidente, non più basata soltanto sulla presenza dei cristiani del Prete Gianni,
garanti di una consolante similitudine, bensì su un parallelismo di orrori che permettesse di ri-conoscere il
mondo, più che di conoscerlo. L’idea di un rispecchiamento sempre più insistito tra Oriente e Occidente, alla
base del quale sta il riconoscimento della somiglianza, informerà anche l’opera di Jehan de Mandeville e
costituirà un locus communis delle descrizioni sulle Indie Occidentali nelle relazioni dei secoli XVIXVIII 495.
3.2.2 Jehan de Mandeville e una «geografia» di mirabilia oggettivati: alla conquista dello spazio incognito.
Dopo secoli di successo, cui sono seguiti il discredito e un’impietosa damnatio memoriae, l’inafferabile
Jehan de Mandeville è tornato alla ribalta negli studi dei medievisti degli ultimi trent’anni 496. L’opera si
presenta a tratti sfuggente quanto l’identità storica del suo autore e pone, tuttora, non pochi problemi
interpretativi. Nostra intenzione, però, non è quella di riformulare un giudizio complessivo sul Livre des
merveilles, ma di considerarne un aspetto particolare, direttamente legato alla questione dell’oggettivazione
dei mirabilia. Perché, quand’anche l’autore avesse realmente soggiornato nelle terre mediorientali,
sicuramente le sue peregrinazioni nell’Estremo Oriente derivano dalla rielaborazione letteraria/fizionale delle
fonti libresche o di relazioni di viaggiatori anteriori. Del Livre des merveilles ci interessa sottolineare il
490
Jean de Vignay, "Les merveilles de la terre d'outremer", p. 82. L’editore ritiene che il riferimento geografico così
circostanziato dovesse trovarsi nella copia latina, perduta, su cui Jehan de Vignay lavorava, dato che, risiedendo in
Francia, il traduttore avrebbe scelto un paragone con una realtà a lui più vicina; D. Trotter, «Introduction», pp. 21-22.
491
Odorico da Pordenone, p. 491: «Verbum caro factum est».
492
Owein, il cavaliere che scende nella fossa del Purgatorio di S. Patrizio, allontana i demoni che vogliono torturarlo
invocando il nome di Cristo, secondo gli insegnamenti ricevuti dai monaci bianchi oltremondani. H. di Saltrey,
Tractatus de purgatorio sancti Patricii, p. 54: «Semper igitur in memoria habeas Deum, et cum te cruciaverint, invoca
Dominum Ihesum Christum. Per invocationem nominis huius statim liberaberis a quocumque tormento in quo fueris».
493
Odorico da Pordenone, Itinerarium, p. 492.
494
È interessante raffrontare, in termini di tradizione manoscritta, la circolazione diffusa che conobbe l’Itinerarium
rispetto ad altri testi che potremmo definire ‘illuministico-obiettivi’ come la relazione di Guglielmo di Rubruk. Ai
cinquantanove manoscrtitti censisiti per l’Itinerarium si contrappongono i sei manoscritti dell’Itinerarium ad partes
orientales di Gugliemo, testo, che tra l’altro, non conobbe volgarizzamenti.
495
Cfr. Todorov, La conquête de l’Amerique ; M. Lombardi, «Inferni e Paradisi nelle Americhe del Sei-Settecento»,
L’altra riva, a cura di M.G. Profeti, Firenze, Alinea, 2003, pp. 39-53.
496
Tra i principali studi ricordiamo : Deluz, Le livre de Jehan de Mandeville ; I. Macleod Higgins, Writing East: the
"Travels" of Sir John Mandeville, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1997 ; S. Röhl, « Le Livre de
Mandeville à Paris autour de 1400 », Patrons, Authors and Workshops: Books and Book Production in Paris Around
1400, a cura di G. Croenen e P. Ainsworth, Louvain, Paris et Dudley, Peeters (Synthema, 4), 2006, pp. 279-295; L.
Lampert-Weissig, Medieval Literature and Postcolonial Studies, Edinburgh, Edinburgh University Press (Postcolonial
Literary Studies), 2010.
97
successo che incontrò fino al XVII in quanto testimonianza veritiera sui paesi asiatici: i viaggi di Mandeville
furono, insomma, recepiti dal pubblico al pari di altre veridiche narrazioni, anzi in molti casi furono a quelle
preferiti 497. Ma se l’autore coscientemente costruisce dei viaggi fittizi smontando e rimontando fonti
libresche, rinvigorite dalle aggiunte personali, siamo obbligati a porci domande sul significato recondito del
testo e su quella che nelle intenzioni dell’auctor dovesse essere la sua funzione. In questa direzione, resta
insuperabile lo studio di Christiane Deluz 498 che ha messo bene in rilievo il progetto scientifico e la
vocazione enciclopedica che sottostanno alla littera del Livre: se non è, infatti, una relazione di viaggio,
poiché l’autore non si spinse fino alle terre ai confini con la Cina, allora la sua semantica si colloca altrove.
Ora, proprio quest’altrove sarà il nostro terreno di indagine, poiché al livello della scrittura trattatisticoscientifica individuato da Deluz, bisogna aggiungerne un altro, rinviante alle immagini culturali e mentali
dell’autore sull’alterità spaziale e antropica. Ed è qui che vedremo ricomporsi meccanismi e nuclei che
assediavano la coscienza occidentale e che si proiettavano in un esterno, riflesso speculare dell’interno.
Cristiane Deluz ha sottolineato come l’intentio di Mandeville fosse proprio quella di scrivere non un
resoconto di viaggio, quanto un Livre, un trattato di geografia, all’interno del quale lo spazio terrestre veniva
ridisegnato in termini di continuità e di percorribilità 499. L’universo mandevilliano è un universo pieno, che
si dispone ordinatamente nella sua sferica circolarità, una mappatura, insomma, delle terre incognite,
un’Image du monde. Gli stilemi utilizzati da Mandeville, tuttavia, collocano il testo sul versante della
relazione di viaggio, una funzione che in parte la tradizione manoscritta conferma 500. Ma, sempre osservando
la tradizione manoscritta, notiamo la significativa associazione del Livre con alcune visioni oltremondane 501.
Lo schema della catabasi, come in Odorico, regola, infatti, anche i capitoli conclusivi del Livre.
Prima di analizzare la sezione finale, seguiamo, tuttavia, Jehan de Mandeville nelle sue peregrinazioni per
comprendere la complessità della sua scrittura, la quale, come già sottolineato da Christiane Deluz,
difficilmente si colloca in un genere univoco. Il prologo è estremamente significativo per misurare la
distanza dalle relazioni di viaggio tout court. L’incipit, infatti, ricostruisce la storia santa e, ponendo al centro
dell’itinerario fisico e spirituale Gerusalemme, evoca quella letteratura di pellegrinaggio 502 che postula il
raggiungimento della Città Santa quale meta del percorso di penitenza e di espiazione del viator. La visita di
Gerusalemme è l’obiettivo esplicito, su cui l’autore concentra la sua volontà di fornire notizie utili per il
viaggio. Considerato che, quasi sicuramente, Jehan de Mandeville raggiunse realmente solo le rovine dei
regni d’oltremare, se ne può ben comprendere l’insistenza all’interno del prologo:
Espicialement pur ceux qe voulunté et entente ount de visiter la noble cité de Jerusalem et les saintz leiux qe
la entour sont et lour deviseray qel chemin il porroient tenir, qae jeo en ay par moint passez et chivalchez
ovesqez bone compagnie, Dieu gracies 503.
In linea con i tratti costitutivi della letteratura odeporica si pongono, invece, l’elenco di tutte le regioni
visitate, comprese quelle dell’Estremo Oriente, e le formule giuridiche comprovanti l’identità storica
dell’autore. Ma, a differenza dei prologhi delle relazioni di viaggio, Jehan de Mandeville opera un
distanziamento temporale che giustifica eventuali imprecisioni e imperfezioni della memoria:
497
Deluz, Le livre de Jehan de Mandeville, pp. 267-330.
Deluz, Le livre de Jehan de Mandeville.
499
Si veda anche J. Richard, «Voyages réels et voyages imaginaires, instruments de la connaissance géographique au
moyen âge», in Culture et travail intellectuel dans l'occident médiéval, a cura di G. Hasenohr e J. Longère, Paris,
Centre national de la recherche scientifique, 1981, pp. 211-220.
500
Diversi testimoni che conservano il Livre, tramandano anche il Devisement di Marco Polo; cfr, C. Deluz, Le livre de
Jehan de Mandeville, pp. 282-291.
501
Ibidem.
502
Cfr. J. Richard, Les récits de voyages et de pèlerinages, Typologie des sources du Moyen Âge occidentale, 37,
Turnhout, Brepols, 1981; Voyage, Quête, Pèlerinage dans la littérature et la civilisation médiévale, «Senefiance», II,
1976 ; D.R. Howard, Writers and Pilgrims: Medieval Pilgrimage Narrative and Their Posterity, Bekerley-Los AngelesLondon, University of California Press, 1980.
503
Jehan de Mandeville, Le Livre des merveilles, p. 93.
498
98
Jeo Johan de Mandeville chivaler ja soit ceo qe jeo ne soie dignes, neez et norriz d’Engleterre de la ville de
Seint Alban qe y passay la mer l’an millisime CCC vintisme secund, le jour de Seint Michel et qe depuis ai
esté outre mer par long temps et ai veu et environé moint pais et mointes diverses provinces et mointes
diverses regiouns et diverses isles 504.
Et luy chivaler et ly seignurs et ly autre noble hommes qe ne scievent point de latin ou poi qte qe ount esté
outre mer sachent et entendent si jeo die voir ou noun. Et si jeo erre en devisant par noun sovenance ou
autrement qe ils le puissent adresser et amender, qar choses de long temps passés par la veue tournent en
oubly et mémoire d’homme ne puet mie tut retiner ne comprendre 505.
L’escamotage del ricordo dovrebbe salvaguardare il narratore dalle accuse di falsa testimonianza; a livello
retorico e strutturale, tuttavia, lo sguardo prospettico rompe con la modalità di registrazione tipica del
racconto di viaggio. Se la funzione precipua del resoconto del viaggiatore era di fissare la memoria dei
fenomeni osservati nelle terre visitate, tanto che la trascrizione della sua testimonianza avveniva a ridosso del
suo ritorno, il ripescaggio memoriale di un viaggio effettuato tanti anni prima apre il varco a dubbi e
incertezze. Jehan de Mandeville sembra, in un certo senso, mettere in guardia il lettore, perché non presti
sempre fede alle sue parole. Ma questa cautela viene decisamente superata nel momento in cui Mandeville
chiama in causa la responsabilità della testimonianza soggettiva, rivelando la volontà di promuovere al rango
della realtà alcuni fenomeni a discapito di altri. Se il ricordo personale è così lucido e circostanziato a
distanza di anni, vuol dire che è vero ed è funzionale a quel meccanismo di certificazione della veridicità che
rafforza la configurazione oggettiva di alcuni prodigi.
Lo spazio in cui si colloca la registrazione del ricordo è esplicitamente richiamato nell’epilogo, dove l’autore
ribadisce la data della partenza e fornisce anche quella della composizione:
Et jeo Johan Maundeville dessudit qe m’en party de noz pays et passay la mer l’an de grace M CCC XXII,
qy mointe terre et moint passage et mointes pays ay puis cherchez, et qy ay esté en mointe bone compagnie
et en mointe bel fait come bien qe jeo ne feisse unqes ne beal fait ne beal emprise, et meintenant suy venuz a
repos maugré mien goutes artetikes qe moy destreignent. En prignant solaz en moun chetif repos, en
recordant le temps passé, ay cestes choses compilez et mises en escrit, si com il me poet souvenir l’an de
grace M CCC L VI, a XXXIIII an qe jeo m’en party de noz pays 506.
L’epilogo costituisce l’agnizione del personaggio Jehan, il quale con molta modestia (bien qe jeo ne feisse ne
beal fait ne beal emprise) trascrive le sue passate avventure. Questo distanziamento prospettico-temporale
sembra, dunque, funzionale alla costruzione di una scrittura impersonale, di tipo trattatistico-scientifica,
giusta l’interpretazione della Deluz. L’impersonalità, tuttavia, non è costante all’interno dell’opera.
L’ineguale distribuzione del processo di «debrayage actantiel» e «temporel» 507 dell’io narrante e dell’hic et
nunc della narrazione, rivela il procedimento di creazione fizionale dell’autore e esplicita la scelta dei
racconti che devono ricevere il suggello della testimoninaza personale. Perché se è vero che «il ne parle à
peu près jamais à la première personne» 508, è anche vero che la moltiplicazione delle dichiarazioni in prima
persona è direttamente proporzionale all’inoltrarsi nei territori ‘fantastici’ dell’Estremo Oriente. Il cavaliere
Jehan de Mandeville certifica così fenomeni che agli occhi del lettore dovrebbero affiorare dalla sua
memoria, ma che, in realtà, dipendono da un’operazione di rielaborazione/creazione letteraria. Perché
dunque costringere una serie di fenomeni immaginari ad assurgere a un piano di realtà fattuale? Qual è lo
504
Jehan de Mandeville, Le Livre des merveilles, p. 92. Segue l’elenco dei paesi visitati, dalla Turchia, all’Etiopia
all’India.
505
Ivi, p. 93.
506
Ivi, p. 479.
507
Deluz, Le livre de Jehan de Mandeville, pp. 34 e ss.
508
Ivi, p. 34.
99
scopo? Mandeville si concede sicuramente il piacere estetico della creazione artistica, ma procede anche alla
costruzione di un’architettura di significazioni morali, al centro della quale si ritrova il percorso di espiazione
del viator cristiano, un percorso che si noda tra terre meravigliose, a tratti inquietanti, popolate di immagini
culturali che riflettono e riattivano nuclei mitico-folklorici esportati dall’Occidente.
Le testimonianze personali, dunque, sono rare e collocate in punti precisi:
a) cap. VII: con funzione prolettica, la dichiarazione di non aver raggiunto gli alberi del Sole e della
Luna;
b) cap. XVIII: l’esattezza dei pronostici degli auguri pagani e saraceni;
c) cap. XVIII: l’affermazione di aver bevuto alla Fontana di giovinezza;
d) cap. XX: l’osservazione in prima persona della calotta celeste e la certezza della navigabilità della
sfera terrestre;
e) cap. XXIII: la conferma di aver servito in armi il Gran Chan;
f) cap. XXXI: la dichiarazione di aver visitato la valle del Diavolo;
g) cap. XXXII: l’asserzione di non essersi spinto oltre il fiume Guemar, ma di aver sentito raccontare
dagli indigeni dell’esistenza degli alberi del Sole e della Luna;
h) cap. XXXIII: la dichiarazione di non aver raggiunto il Paradiso terrestre.
Attraverso questa sapiente dosatura di elementi autoptici e di narrazione impersonale, Mandeville
«autosancisce il proprio discorso come vero oppondendo un vissuto presentato come “visto” a quanto può
raccontare solo per averlo sentito e a cui dichiara di non credere, e che si ritrova così ad essere sanzionato
come falso» 509.
Considerato, dunque, che le dichiarazioni fededegne si collocano quasi tutte nello spazio dell’alterità
estrema, è proprio questa mostruosità ad assurgere al livello della piena oggettività e a rivelare la sententia
allegorica dell’iter del cavaliere. Ed è sempre all’interno di questo orizzonte che lo schermo
dell’immaginario del viaggiatore occidentale si fende per lasciar riafforare luoghi comuni o inquietudini che
in qualche modo tormentano le coscienze di qua da mar. La Deluz evidenzia l’apertura dell’umanista nei
confronti dell’umanità, pronto a riconoscere anche nelle culture estranee quell’unità fraterna che si esplica
nell’istituzione di leggi e di riti civili e razionali. I diversi riti funebri o matrimoniali sono indagati e descritti
con un’attenzione quasi pre-vichiana per le tracce dell’avvento della civiltà, argine contro la barbarie.
Esempi si possono riscontare nell’apprezzamento dell’elezione della regina delle Amazzoni, nella rettitudine
morale del re di Cinocefali, nel radicato senso di giustizia che caratterizza le popolazioni di un’isola remota
dove la scelta del re non dipende dai suoi nobili natali, ma dalla sua bontà (cap. XXXI). Questa costruzione
unitaria dell’universo tende, però, ad annullare le differenze, impedendo, in verità, la reale comprensione
dell’altro, nei confronti del quale la meraviglia funziona come indice di riconoscimento che ne facilita il
possesso 510. Il riconoscimento non si basa soltanto sulla similitudine, ma anche sulla conferma dei topoi
negativi sull’altrove. Oriente e Occidente risultano così collegati da una rete di riflessi reciproci, mentre le
differenze derivano dalla stereotipia dell’alterità, di cui vengono accentuati i tratti bestiali, disumani.
La diversità costitutiva tra i popoli orientali e occidentali riceve una giustificazione scientifica:
l’immobilismo e l’indolenza degli Indiani dipendono da una ragione astronomica, l’influsso di Saturno,
mentre l’intraprendenza, la cusiosità e la mobilità dei popoli occidentali, derivano direttamente dal pianeta
che è di «legier mouvement», la Luna 511. Gli stereotipi sugli orientali hanno radici antiche e sopravvivenze
lunghe, come ci insegna Edward Said512. Il riflesso, invece, della cultura del sospetto nei confronti del corpo
estraneo alla cristianità occidentale, gli ebrei, affiora in diversi luoghi del testo e si condensa nell’ipotesi di
un complotto mondiale per estirpare tutti i cristiani: il ricordo della peste e della teoria dell’avvelenamento
509
T. Lancioni, «Viaggio tra gli Isolari», Almanacco del Bibliofilo, 2, 1991, p. 51.
Sulla questione della meraviglia e del possesso in relazione alla conquista del Nuovo Mondo, cfr. S. Greenblatt,
Meraviglia e possesso. Lo stupore di fronte al Nuovo Mondo, Bologna Il Mulino, 1994.
511
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, cap. XVIII, pp. 312-313. Argomento tratto dall’Imago mundi e dal
Tresor di B. Latini, cfr. nota 1, p. 323.
512
E. W. Said, Orientalismo, pp. 56-78.
510
100
dei pozzi incalza 513. Tra le montagne del Caspio, infatti, dove Alessandro ha rinchiuso i popoli di Gog e
Magog vivono gli Ebrei, che attendono la venuta dell’Anticristo «pur christiens detruire» 514.
Sulla scia di Odorico, Mandeville conferma le «malves custumes» degli abitanti di Lamory: nudità;
promiscuità e, soprattutto cannibalismo 515. Sul cannibalismo, inoltre, aggiunge delle notazioni
raccapriccianti: un commercio di bambini a scopo alimentare. Restando fedele al luogo comune eurocentrico,
Mandeville, sottolinea subito la differenza che intercorre tra la bestialità degli abitanti e la ricchezza della
terra, così come Giraldo di Cambria aveva distinto la barbarie degli Irlandesi dalla fertilità del territorio:
Mes il ount une malveise custume, qar il mangent plus volontiers char d’homme qe nulle autre char. Si est ly
païs moulr habundant de bledez, des chars, des pesshons, d’or, d’argent et d’autre bien 516.
Agris igitur passim ututntur pascuis, parum floridis, cultis parce, consitis parcissime. Sunt culti quidem […]
agri perpauci, plurimi tamen sui natura fertiles et fecundi. [...] Gens igitur haec gens barbara, et vere
barbara 517.
L’Oriente di Jehan de Mandeville, dunque, si pone come una summa di tutte le precedenti opere enciclopedie, relazioni di viaggi, romanzi, letteratura epistolare- intente a tracciare il profilo ancipite di un
territorio che in sé contempla l’estrema diversità e la contiguità, ben rappresentata dai cristiani del Prete
Gianni. La contiguità, tuttavia, non riposa soltanto sulla specularità dei costumi sociali, ma anche su quella di
alcune immagini culturali che racchiudono turbamenti e desideri dell’inconscio collettivo occidentale.
Queste immagini popolano l’intero testo e trasmigrano spazialmente da Occidente a Oriente seguendo la
progressione del viaggio. La loro sostanzializzazione è garantita dalla «certificazione autoptica», la cui
ricorsività consente di àncorare le fantasmatiche regioni dell’Estremo Oriente alla realtà del soggetto
esploratore. È dunque estremamente importante analizzare la partizione della sezione conclusiva che si
rivelerà, al termine dell’indagine, come un blocco compatto e coerente. A partire dalla discesa nella Vallée
Perilleuse il testo mima la catabasi infernale e il successivo percorso ascensionale verso il Paradiso terrestre.
La scelta degli oggetti che popolano quest’Aldilà segnala il debito di Mandeville nei confronti sia delle
discese nella fossa patriciana sia di un nucleo mitico-narrativo attivo anche in altri testi coevi: la metamorfosi
femminile.
Accanto al letto del fiume paradisiaco Fisone, si apre una vallata, circondata da montagne, punto di partenza
di una discesa oltremondana. A grandi linee il percorso del viator è il seguente: discesa nella valle
purgatoriale contenente l’accesso infernale, attraversamento di altre regioni purgatoriali, graduale
avvicinamento all’Eden, che resta inaccessibile, ritorno. L’episodio è tratto, appunto da Odorico, ma è
ampiamente arricchito da Mandeville.
La localizzazione della valle nei pressi del Paradiso rispetto al testo dell’Itinerarium è evidente:
sur la senestre partie par delez la riviere de Physoun 518.
L’onomastica, invece, esplicita il gioco manipolatorio di Mandeville. L’autore fornisce, in effetti, una
denominazione multipla -Val Enchanté, Val du Diable, Val perillous- che evoca nell’ordine la Vallee sans
513
Si veda a questo proposito C. Ginzburg, Storia notturna, pp. 6-61.
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, cap. XXIX, p. 428. Su Alessandro, The Medieval French Roman
d'Alexandre. Vol. II: Version of Alexandre de Paris. Text, ed. E. C. Armstrong, D. L. Buffum, B. Edwards, L. F. H.
Lowe, Princeton, Princeton University Press, 1937, branche III, 125-127; per i riferimenti scritturali, Ez, 38, I-39, 29;
Ap, 20,7.
515
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, cap. XX, pp. 331-342.
516
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, cap. XX, p. 332.
517
Giraldo di Cambria, Topographia Hibernica, III, X, pp. 151-152.
518
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, cap. XXXI, p. 445.
514
101
Retours di Morgana nel Lancelot propre 519, la valle terribile di Odorico e la Vallee Perilleuse del Roman
d’Alexandre 520. Le memorie letterarie incrociano così l’autorità dell’Itinerarium odoriciano e, suggellate
dall’intervento dell’io narrante, assurgono allo stesso piano di realtà. La descrizione dei fenomeni che si
verificano all’interno della valle si riallaccia, invece, al canonico paesaggio oltremondano tracciato dalle
visiones.
En cest val oÿt homme sovent tempeste et granz murmures et noyses touz les jours et toutes les nuyt. […]
Ceste vallee est toutes plein de deables et ad esté toutdis et dit [homme] qe ceo est un des entrez d’enfern521.
Fedele alla fonte primaria, ovvero Odorico, Mandeville prosegue con il racconto della funzione probatoria
dell’oro e dell’argento di cui la valle è ricchissima: i metalli preziosi testano l’integrità oppure l’avidità dei
visitatori; gli infedeli, ma anche i cristiani che entrano attratti dal miraggio delle ricchezze, periranno. Ai
visitatori della fossa purgatoriale patriciana si richiede la stessa fermezza nella fede: cedere alle lusinghe dei
demoni comporta la morte sicura 522.
Mes poy ent tornerent, especialement de mescreantz, ne auxi de chrisiens qe vont pur coveitise del avoir, qar
ils sont tantost estranglés du diable 523.
La similitudine con i paesaggi purgatoriali/infernali delle visiones si rafforza nella trasformazione della
grande testa diabolica semovibile in un avamposto dell’Inferno o meglio in un pertugio d’ingresso:
Et de ly ist feu et fumée et tant de pulencie qe a peine le poet endurer 524.
Fuoco, fiamme e puzza terribile sono gli elementi topici che nelle visiones individuano l’accesso al baratro
delle pene eterne, rappresentato sempre come un pozzo, le puits d’enfer, inaccessibile ai vivi 525.
Più che ad altre visioni 526 è soprattutto nei confronti delle narrazioni della discesa alla fossa di San Patrizio
che Mandeville sembra dimostrare il suo debito di ispirazione.
La liturgia preliminare che i visitatori della valle infernale celebrano in maniera improvvisata, ricorda, infatti,
i rituali di purificazione che precedono l’ingresso al purgatorio di San Patrizio. Il momento liturgico, inoltre,
nel testo di Mandeville è anche l’occasione per la presentazione dei testimoni, necessari a rafforzare
l’impianto probatorio, interamente incentrato sulla certificazione soggettiva degli eventi:
Si avoit la ovesqez nous II prudhommes freres menours qe estoient de Lombardie qe disoient qe s’il y avoit
nul de nous qe vousisse entrer q’il se meissent en bon estat et il entroient ovesqez ly. Et quant ly
prudhommes nous disoient ceo, sur l’affiaunce de Dieu et de eaux, nous fesoimes chaunter messe et feusmes
519
Lancelot, roman en prose du XIIIe siècle, ed. A. Micha, 9 voll, Genève, Droz, 1978-1983, vol. I, pp. 302-303.
Sull’attribuzione a Morgana della creazione del Val perilleus all’interno della tradizione manoscritta del Chevalier de la
Charrette di Chrétien, in particolare in un’interpolazione tardiva conservata dalla copia Guiot (vv. 2356-69), si veda J.
Frappier, Histoire, mythes et symboles, Genève, Droz, 1976, pp. 251-254.
520
The Medieval French Roman d'Alexandre. Vol. II: Version of Alexandre de Paris, branche III, 148-163.
521
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, cap. XXXI, p. 445.
522
H. di Saltrey, Tractatus de purgatorio sancti Patricii, p. 52: «Et si quolibet modo, vel tormentorum afflictione victus
vel minis territus seu promissis deceptus, assensum illis prebueris, et corpore et anima pariter peribis».
523
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, cap. XXXI, p. 446.
524
Ibidem.
525
H. di Saltrey, Tractatus de purgatorio sancti Patricii, p. 90: «Et ecce ante se vidit flammam tertram et sulfureo fetore
fetidam quasi de puteo ascemdere».
526
Nelle altre visiones, trattandosi di vero e proprio viaggio dell’anima, la condizione per avviare l’iter oltremondano è
legata a un intervento misericordioso di Dio che differisce il momento della morte, consentendo al prescelto, ammalato,
di tornare sulla Terra, pentirsi e poi morire in pace. Non è quindi necessaria nessuna liturgia preliminare, che è invece
fondamentale per il pellegrinaggio fisico e corporeo del viaggiatore del Purgatorio di San Patrizio.
102
confessez et acomuniez et entrames XIIII. Mes a l’issir nous n’estoions qe IX. Et si ne saveoms si nostre
compaignouns estoient perduz ou s’ils estoient retornez et issiz arriere fors. 527
Confessione e comunione eucaristica sono i pilastri della liturgia preliminare per l’accesso al Purgatori528,
mentre la moltiplicazione dei testimoni sembra richiamare proprio quei racconti tardivi, i cui protagonisti
sono personaggi storici, come ad esempio Ramon de Perelhos nel Viatge, testo successivo alla composizione
del Livre, ma strutturalemente a esso legato:
E faythas totas las ordenansas en la gleya coma davan ieu ay ressitat que sant Patrici avia ordenat, tot aysso
fag, els, lo prior am totz los clergues que aver se pogran de tota l’encontrada, cascu que era capelha, cantava
gran mati lor messa de requiem a l’ome que vol intrar lains. Aytal feyro els totz a my e tot que non volgro
layssar deguna cauza. E ieu estan en la gleya parliey am un nebot meu, filh de ma sor germana. Era del
linage de Sentelhas et era doctor e bon clerc, e parliey am mos dos filhs dels cals lo maior avia nom Loys e
l’autre Ramon, e an mos servidors. Tot ensems hordinero de lor retorn en lo cas que Dieus fesses son plazer
de mi e sa volontat e ieu fessy mon testamen, lo cal bayliey a M. R. de Sentelhas, mon nebot, [fol. 27r] lo cal
era sacresta de la gleya de Malorqua 529.
Dalla celebrazione dei rituali liturgici, il racconto viene, dunque, ricondotto sotto il patrocinio dell’io,
scalzando definitivamente l’impersonalità della descrizione che contrassegna l’inizio del capitolo:
Mandeville produrrà una serie di testimonianze in prima persona per garantire la veridicità del suo itinerario
nell’altrove estremo 530. Il passaggio all’interno della valle è segnato dai colpi che si abbattono sul corpo:
Et si feusmes abatuz a terre plusours foiz par vent par tonoires et par tempestes 531.
Ma se il contatto con i demoni può lasciare segni fisici, appartenendo al regno della realtà tangibile, lo stesso
non si può dire per i fenomeni percepiti con il solo senso della vista: la visione si fa allucinatoria e denuncia
il potere incantatorio delle creature diaboliche. Come nei racconti tardivi sulla catabasi nel purgatorio
patriciano, il soggetto vive uno scollamento tra ciò che afferra con gli occhi e ciò che subisce nel corpo, tale
per cui alla certezza delle pene e delle sofferenze fisiche inflitte dai tormenti si contrappone l’inganno dei
simulacra che assediano la vista 532. Nel caso del racconto di Mandeville, lo stupore e il dubbio nascono sia
dalle ingenti quantità di metalli preziosi sia dall’incorruttibilità dell’enorme numero di cadaveri, rispetto ai
quali, una volta constatata l’impossibilità statistica che si tratti di morti recenti, l’autore afferma che è
sicuramente illusione operata dal nemico:
Veismes laiez en mointe lieu or et et argent et pierres precouses et joyaux a grant foison de cea et dela, ceo
nous sembloit. Mes s’il estoit ensy q’il nous sembloit ceo ne say jeo mie, qar jeo ne touchay unques pur ceo
qe ly diables sont si subtilz q’ils font sovent sembler estre ceo qe n’est mie pur les genz deceveir 533.
527
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, cap. XXXI, p. 447.
H. di Saltrey, Tractatus de purgatorio sancti Patricii, p. 38: «Owein […] ad episcopum […] confessionis gratia
venire»; p. 42: «Ad quam miles communicatus ad fosse introitum, aqua benedicta aspersus cum processione et letanie
cantu est ductus». Les versions en prose du Purgatoire de Saint Patrice en ancien français, 1, 86-89, p. 93: «li prieurs
tout le clergié d'iluec entour et chante l'en messe leenz au matin et li hom qui entrer velt en purgatoire, s'acomenie et
prent de l'eve benëoite».
529
Ramon de Perelhos, Viatge.
530
Proprio il capitolo sulla Valle del Diavolo sarà utilizzato dai detrattori del secolo XVIII a sostegno della falsità del
viaggio orientale di Mandeville, cfr. Deluz, Le livre de Jehan de Mandeville, pp. 300 e ss.
531
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, cap. XXXI, p. 447.
532
Nel racconto di Ludovico di Sur i demoni si nascondono dietro le parvenze di splendidie fanciulle; in quello di
Giorgio Grissaphan i primi nove tormenti sono vere e proprie allucinazioni dal valore probatorio; cfr. ultra.
533
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, cap. XXXI, p. 447.
528
103
Et jeo me mervellay trop coment il y ad, et coment ly corps des plusours sont sy enters, qar y semble qe ly
plus ne purissent point. Mes jeo croy qe ly enemis les font sembler a estre entiers,, qar ceo ne porroit estre a
moun avis q’il eust tantz entrez si novellement, ne qu’il eust tantz des novealx morts sans purir 534.
Nei successori di Mandeville, come accade nel rimaneggiamento contenuto nel manoscritto Be3 535 della
versione continentale e quindi nel volgarizzamento toscano da esso dipendente, si perfeziona il meccanismo
probatorio basato sulle esperienze personali. Gli attacchi dei demoni, allora, lasciano sul corpo del
viaggiatore-narratore ferite che impiegheranno diciotto anni a rimarginarsi:
Nous fusmes touz feruz en divers lieux et avoit chacun une tache noire ou lieu ou il avoit esté feru, du large
d’une main […] Je fu feru au coul par telle manière que je cuidoy que ma teste feust desseveree de mon coul,
et ay porté l’enseigne plus de XVIII ans 536.
Nel volgarizzamento, la realtà delle ferite è ulteriormente ribadita dalla presenza di testimoni terzi:
Io fui ferito nel collo per così fatto modo ch’io mi credetti che ‘l collo mi fusse separato dal corpo; e n’ò
portato il segniale, nero come carbone, più di XVIII anni e molte persone l’ànno veduto 537.
All’interno del rimaneggiamento di Be3 il debito nei confronti dei testi sui viaggi nell’Aldilà è sicuramente
più marcato 538: dalla lettura dei racconti sulle catabasi apprendiamo, infatti, che il contatto con i demoni non
è mai indolore e lascia tracce indelebili 539.
Il copista-autore, inoltre, accentua l’ancoraggio alla realtà della Valle del Diavolo, sia attraverso
un’iperproduzione di testimonianze sia attraverso una proliferazione di elementi orrifici:
Car il y avoit si grant multitude de bestes que nous ne povyons voir et ne savions quelles elles estoint. Mes il
nous estoir avis que ce estoient beufx ou pors qui couroint parmy noz jambes, qui nous fesoint choir, une foiz
en envers, autrefois de cousté, auteffoiz la teste la primiere come en une fosse.
Et trouvions tant de mors dessoubtz nous, qui se pleignoint quant nous passions par dessus eulx 540.
534
Ivi, cap. XXXI, p. 448.
Per la classificazione dei manoscritti, cfr. C. Deluz, «Introduction», Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, pp.
6-85.
536
Ivi, «Annexes», p. 486.
537
I viaggi di Gio. da Mandavilla, ed. F. Zambrini, Bologna, Romagnoli, 1870 (rist. 1968), 2 voll., p. 169.
538
In particolare l’ingresso nella valle e il passaggio dal chiarore all’oscurità si ricollegano alle descrizioni dei
viaggiatori dell’accesso al Purgatorio di San Patrizio; Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, «Annexes», p. 485:
«En celle vallee a molt belle entree et moult bel chemin au commencement et est tousjours le chemin en valant entre les
roches tout en estrecissant puis sa puis la. […] Et puis comance a espessir comme entre jour et nuyt quant la lune e les
estoilles ne luisent point. Et puis entrasmes du tout en tenebres». Nei testi patriciani (originale latino e volgarizzamenti)
si incontra la stessa progressione verso le tenebre, per esempio nei testi francesi, Les versions en prose du Purgatoire de
saint Patrice, 2, 46-49, p. 95: « Li chevaliers s'en ala mout longuement et mout hardïement toz seus par cele fosse et
que plus ala avant plus trova la fosse oscure et tant qu'il perdi la lumiere de toute clarté».
539
Una delle ultime prove a sostegno della fisicità del viaggio del cavaliere Owein nel Purgatorio è affidata al racconto
di un monaco, che rapito dai demoni, soggiornò con loro per ben tre giorni: Les versions en prose du Purgatoire de
Saint Patrice, 27, 24-30, p. 112: «Mes si ledement fu batuz et si oriblement plaïéz, que par un poi qu'il ne fu morz. Et
tout ce li firent li deable et, si com il dist, il vit tormenz si hisdeus et si destroiz que il en ot grant poor, ne onqes puis ne
les pout oublier. XV. anz vesqui puis que ce li fu avenu, mes onques ses plaïes ne porent estre sanees en sa vie, einz
estoient adés fresches et overtes et si en avoit aucune si parfonde que tu i peüsses bouter le plus lonc doit de ta mein
jusqu'a la paume».
540
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, «Annexe», p. 485.
535
104
Alla fallacia della visione generata dai demoni, già presente nell’originale, il rimaneggiamento, così come il
testo toscano, aggiunge il valore salvifico-allegorico della visio spirituale, creando una distinzione tra ciò che
è riferibile e ciò che deve essere taciuto:
Et la vy je moult de merveilles. Car nous estions demy morts et demourasmes longuement. Mes de ces
choses je n’ose parler, pour les freres minours qui avec nous estoint le nous deffendirent, et que nous ne
parlions fors de ce que nous avions veu corporellement, pour les segrez Nostre Seignour seller 541.
Io non come si fussi, ma in quela angoscia noi vedavamo spiritualmente molte cose, delle quali io non
ardisco parlare, perché e monaci che rimasono insieme con noi proibirono a noi che parlassimo di ciò cosa
alcuna, salvo che di quelo che noi avavamo veduto corporalmente, per celare i grandi segreti del nostro
Signore Gesù Cristo 542.
Il tabù sull’Aldilà 543 e sulle profondissime verità divine che sole si mostreranno facie ad faciem (Paolo, Cor.,
I, 13, 12) nella pienezza della vita eterna, realisticamente si rafforza: i «segrez», devono restare sepolti nella
memoria dei viaggiatori. A proposito della semantica della meraviglia, è interessante, invece, rilevare
l’ulteriore slittamento della merveille della redazione francese nella sfera del sacro, alludendo il termine a
un’inaccessibile profondità misterica tanto che il testo toscano traduce significativamente con spiritualmente.
L’inattingibilità dei «grandi segreti» spirituali corrobora, per contrasto, la veridictà del récit, che riferisce
solo ciò che è sperimentato dal corpo e dai sensi 544.
Superato, dunque, quello che si configura come uno dei campi penali di un paesaggio purgatoriale/infernale,
i viaggiatori proseguono il loro cammino senza, tuttavia, abbandonare la spazialità simbolica del terzo regno
oltremondano. Prima di raggiungere, per avvicinamento progressivo, il Paradiso terrestre, Mandeville
attraverserà isole strane, dove tra gli altri fenomeni, incontra una delle attualizzazioni del nucleo mitico della
donna ofidica. Dopo la Vallee du Diable, la narrazione riprende su un tono impersonale, «débrayé»: il viator
elenca in successione l’isola dei giganti cannibali e pastori, l’isola delle donne dagli occhi di pietra, che
hanno lo stesso effetto letale del basilisco, quindi l’isola in cui vige uno strano costume: la prima notte di
nozze, i mariti assumono dei valletti per «despuceler» le loro mogli. Il ricordo della crudeltà dei giganti,
molto simili ai Ciclopi omerici, è affidato a una testimonianza generica e indistinta («ascuns disoient»);
mentre l’esistenza delle donne dallo sguardo pietrificante è comprovata all’autorità dell’asserzione
inconfutabile:
Il y ad de mult males et mult crueles femmes et ount pierres preciouses dedeinz les oilz et sont de tiele nature
qe si elles regarderent ascune persone par courouse, elles l’occient soulement du regard 545.
Quindi si arriva all’isola dove la fertilità e la bellezza del territorio contrastano con un’usanza bizzarra:
l’assunzione di valletti deputati a trascorrrere la prima notte di nozze con donne, che per il resto della loro
vita saranno rigidamente sorvegliate dai propri mariti.
541
Ivi, p. 486.
Ivi, pp. 168-169.
543
Canoniche per la riflessione medievale resteranno le parole di San Paolo, Cor. II, 12, 4: «audivit arcana verba, quae
non licet homini loqui».
544
Anche Dante aveva sancito con forza plastica e poetica l’insufficienza della lingua e della conoscenza umane dinanzi
ai più alti misteri di Dio. Dante Alighieri, Par., XXXIII, v. 142: «A l’alta fantasia qui mancò la possa»;
sull’impossibilità di conoscere Dio totaliter in questa vita e sullo scacco dell’alta fantasia, cfr. M. Mocan, La
trasparenza e il riflesso. Sull’alta fantasia in Dante e nel pensiero medievale, Milano, Bruno Mondadori, 2007.
545
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, cap. XXXI, p. 449. La fonte è Vincenzo di Beauvais, Speculum
Historiale, II, 93, dove però le donne possiedono «pupillas geminas». Sul fraintendimento di Mandeville, cfr. C. Deluz,
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, p. 455, n. 5.
542
105
Une autre y ad, mult bele et bone, et grande et bien peupplie, ou la costume est tiele qe la primere nuyt q’ils
sont mariez ils font un autre homme gesir ovesqez lour femmes pur elles despuceller et en donnent bon loer.
Et ya a certeinz valletz en chescune ville qe ne servent d’autre chose q’ils appelent Cadebiriz, c'est-à-dire fol
desesperez, qar cil du pays tiegnent a si grande chose et a si perillouse a despuceller une femme qe lour
semble qe cils qe les despucelle se met en aventure de morir. Et si ly maritz troeve sa femme pucelle l’autre
nuyt après qe ly autre ne l’eust despucellé pur yveroigne ou pur autre cause, il soy pleindroit du vallet qe
n’averoit mie fait soun dever, aussy bien come si ly vallet ly voulsist tuer. Mes après la primere nuyt qe elles
sont despucellez, ils le gardent si etreitement qe elles ne sont tant hardiz qe elles osent a nully parler. Et jeo
fist demander la cause pur quoy homme tenoit celle custume, et homme me dit qe aunciennement ascuns
avoient esté mortz pur femmes despuceller qe avoient serpenz el corps, et pur ceo tiegnent ils celle custsume
et font toutdis assaier le passage a un autre avant q’ils se mettent en aventure 546.
L’insolita pratica dell’adulterio legalizzato durante la prima notte si trova in Solino (Collectanea, XXXI, 4),
ripreso da Vincenzo di Beauvais, da cui Mandeville ha probabilmente attinto 547. Nello Speculum Historiale,
II, 88, il Bovacense elenca le strane abitudini di alcuni popoli, tra questi i Trogoditi e gli Augili:
Trogodite specus excavant, illis teguntur. Nullus ibi habendi amor, a divitiis paupertate se abdicaverunt
voluntaria. Tantum lapide uno gloriantur, quem exaconthalitum nominamus, tam diversis notis sparsum ut
LX gemmarum colores in parvo orbiculo eius deprehendantur. Homines illi carnibus vivunt serpentium,
ignarique sermonis strident potius quam locuntur. Augile vero solos colunt inferos, feminas suas primis
noctibus nuptiarum adulteriis cogunt patere, mox ad perpetuam pudicitiam legibus stringunt severissimis 548.
Nella sua edizione della più antica versione inglese del Livre, Michael C. Seymour sostiene che Mandeville
abbia unificato i tratti dei Trogoditi e quelli degli Augili «into a unique fantasy» 549 e che quindi il racconto
dei serpenti nel corpo delle donne sia un’invenzione dell’autore. Ma se la collocazione della leggenda
nell’Estremo Oriente dipende dalla creatività dell’autore, non crediamo che sia lui l’ideatore del plot
narrativo; come in altri casi, infatti, sembra, invece, che Mandeville abbia delocalizzato i racconti folklorici e
che la scelta dipenda da vari fattori: dal gusto del pubblico agli affioramenti di un immaginario collettivo.
Il tema dell’adulterio coatto, infatti, deriva probabilmente da fonti libresche (Solino, Vincenzo di Beauvais),
le quali, nelle fasi delle riscritture, si deformano fino ad acquisire i contorni del fatto, reale e
incontrovertibile. Con lo stesso profilo lo ritroviamo nel capitolo 115 (Cy nous devise de la province de
Tebet) del Devisement du monde di Marco Polo.
Et ont celle gent une telle coustume de marier comme je vous diray. Nulz homs de celle contree pour nulle
rien du monde ne prendroit a fame une garce pucelle et dient que elles ne valent riens se elles ne sont usees a
couchier avec hommes. Et font en telle maniere que, quant les cheminans passent, si sont appreilliees les
vieillies fames atour leurs filles ou leurs parentes ou leurs amies, et vont avec ces garce pucelles et les
mainent aux chminans qui par la passent et les donnent a tous ceulx qui les veullent prendre pour faire leur
volonté. […] Mais quant elles sont mariees, il le tiennent plus chieres et ont pour trop grant mal se l’un
touchast la fame a l’autre. 550
546
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, cap. XXXI, pp. 449-450.
La connotazione purgatoriale/infernale delle isole che precedono il Paradiso potrebbe essere stata facilitata
dall’accenno contenuto sia in Solino che in Vincenzo di Beauvais agli Agili che «solos colunt inferos».
548
Vincenzo di Beauvais, Speculum Historiale, II, 88.
549
John of Mandeville, Mandeville’s Tarvels: the Defective Version, ed. M.C. Seymour, Oxford, Oxford University
Press, 2002, p. 168: «’Mandeville’ has conflated and embellished these two accounts into a unique fantasy».
550
Marco Polo, La Description du monde, pp. 274-276.
547
106
Il motivo compare anche nell’appendice al volgarizzamento veneto della metà del secolo XIV
dell’Itinerarium di Odorico 551, dove l’anonimo compilatore dichiara di integrare le parti mancanti dell’opera
attraverso il racconto orale dello stesso frate che, per varie ragioni, aveva omesso degli episodi 552. Alcuni dei
capitoletti inseriti nell’appendice, infatti, sono strutturati come delle vere proprie aggiunte, direttamente
collegati ai capitoli dell’Itinerarium 553; altri, invece, descrivono episodi assenti del tutto nell’opera
principale. Il capitoletto XI narra una versione del bizzarro costume di «despuceler» le giovani da maritare:
E disse che fue in una terra popolata di molta gente che usano di fare spulcelare le loro figliuole a uomini
forestieri e poi le maritano tra lloro. E quanto più è strano e religioso, più lo tolgono volentieri. E quando
alcuno forestieri di questi vi capita, è pregato dal padre che vegna a spulcellare la figliuola. Ed elli negandoli,
dicendo ch’era religioso, dicendo che no lli era licito, che pure l’udire sì fatte parole li era di grande
abominazione, e quelli continuo lo ripregava dicendo che lla mariterebbe poi meglio e più tosto 554.
Se è plausibile anche una lettura figurale del viaggio di Odorico (cfr. supra), dobbiamo riconoscere che
l’interpolazione ne accentua la direzione: il frate che nella Valle del Diavolo resiste alla tentazione
dell’argento, deve dimostrare la sua forza anche contro la lussuria. Ma per tornare alla contiguità con il testo
di Mandeville, notiamo che, sia nel Devisement di Marco Polo sia nel volgarizzamento, dal primo
sicuramente dipendente, l’uso di affidare il compito della deflorazione a un estraneo non è dettato dal
pericolo costituito dalla donna, della cui metamorfosi ofidica non troviamo tracce. Marco Polo e l’anonimo
compilatore dell’appendice conoscevano dunque la leggenda delle fanciulle «despulcellate» da estranei, di
probabile contaminazione con le fonti libresche, ma non quella dei serpenti. La divergenza rispetto al testo di
Mandeville sembra dipendere da una questione strutturale: Marco Polo, l’anonimo compilatore
dell’appendice e Mandeville avevano registrato racconti appartenenti a tipologie diverse. Nel primo caso
siamo di fronte a un costume basato sull’accrescimento di prestigio sociale delle vergini in età da marito; nel
secondo ci muoviamo all’interno di quella costellazione gravitante attorno al pericolo mortale rappresentato
dalle donne ofidiche, una costellazione radicata soprattutto nell’immaginario occidentale.
Possiamo, quindi, ipotizzare che Mandeville abbia trasferito in Oriente un racconto che affondava nei miti
occidentali, le cui linee principali, ripetiamo, non sono da attribuire alla fusione soggettiva dei due elementi
presenti nello Speculum Historiale. In un recente studio, Carlo Donà 555 ha dimostrato in maniera
convincente che le differenti occorrenze della donna ofidica possono essere ricondotte a un mitologema
unitario. Le donne che racchiudono nel proprio corpo i serpenti possono essere classificate all’interno del
tipo folklorico The Poison Maiden, di cui Gerould fornisce differenti attestazioni, dall’Asia centrale
all’Irlanda, in connessione con il motivo del Greatful Dead 556. Il nucleo delle diverse narrazioni è costituito
dal pericolo incorso dall’eroe nel trascorrere la prima notte di nozze con una donna, da cui escono serpenti
velenosi. È la ragione per cui i predecessori sono tutti morti. La narrazione di Mandeville appartiene
tipologicamente a questo gruppo: i valletti sono assunti per deflorare le mogli, perché il primo contatto
551
Cfr. Il Libro delle nuove e strane e meravigliose cose, pp. 179-183.
Ivi, p. 179:«Per cagione che ‘l ditto frate Odorigo disse a bocca molte meravigliose cose chavea trovate, vedute e
udite da persone degne di fede … le quali no sono scritte in questo libro, […] ònne scritte qui appresso alquante ch’io
udii dire uno dì e una sera ch’io fui co llui a Santo Stefano delle Vigne, luogo de’ Frati Minori di Vinegia, stando a cena
a lato a llui.»
553
Come esempio, l’incipit del capitoletto IV, Il Libro delle nuove e strane e meravigliose cose, p. 180: «Sopra quello
ch’è scritto nel XVIII capitolo di Polumbo».
554
Ivi, pp. 182-183.
555
Donà, « La metamorfosi segreta».
556
G.H. Gerould, The Greatful Dead; the History of a Folk-story, Londra, David Nutt, 1908; cap. IV, «The Greatful
Dead and the Poison Maiden», pp. 44-75. La diffusione del racconto non autorizza a ipotizzare che Mandeville abbia
potuto registrarlo in Oriente, dal momento che fisicamente non ne raggiunse le regioni estreme. Bisogna, infatti,
sottolineare come la consapevolezza della diffusione dei racconti sulle creature anguiformi sia soprattutto una conquista
della moderna metodologia comparativistica. A Mandeville e ad altri Europei, questi racconti erano ignoti, mentre erano
note tutte la narrazioni sulle diverse figurazioni melusiniane che circolavano in Occidente. Tra gli Occidentali,
Mandeville è il primo a trapiantare la donna ofidica di là da mar.
552
107
potrebbe essere mortale. Ma le isolane orientali non sono le uniche apparizioni anguiformi all’interno del
Livre. L’immagine del femminile che affiora dalle pagine di Mandeville non è sempre rassicurante, anzi
alcune tipologie possono essere ascritte ai territori del perturbante. Al di là delle molteplici manifestazioni
della licenziosità sessuale delle donne orientali, nel Livre, incontriamo altre tre figure la cui l’alterità
inquieta: la figlia di Ippocrate 557, la dama del Castello dell’Esparvier 558, la donna che partorì la testa
gorgonea responsabile del Gouffre de Sathalie 559.
Un solo popolo composto da donne leggendarie, le Amazzoni, la cui rappresentazione è allineata alla
tradizione che le elegge a valorose guerriere governate da una saggia regina 560, non sembra sollevare
inquietudini; tuttavia, a prima menzione del regno di «Amazonie» ne ridisegna la posizione geografica,
incastonandolo tra la Scizia 561 e l’Albania, due territori arcani, che ospitano tra le impraticabili altezze delle
montagne i popoli dell’Anticristo di Gog e Magog e castelli fatati come quello dell’Esparvier.
Ma torniamo alla nostra femminilità serpentina che dall’isola di Kos (Mediterraneo) si sposta gradualmente
verso l’Estremo Oriente e osserviamo come il movimento spaziale implichi uno slittamento dal piano
illusionistico- leggendario a quello oggettivo-fattuale. Il meccanismo che regola la certificazione di realtà nel
caso della figlia di Ippocrate diverge, infatti, profondamente da quello che presiede il racconto delle donneserpente da deflorare. Sulla dragonessa di Kos 562 aleggia l’atmosfera della fiaba, rafforzata dal costrutto
dichiarativo generico e impersonale «dit on». L’io narrante, invece, interviene per smentire l’eccezionale
lunghezza del dragone:
un grant dragoun qe ad bien C toises de long, si com l’en dit, qar jeo ne l’ay mie veu 563.
Mutata in serpente da una dea crudele, Diana, la figlia di Ippocrate riconquisterà la forma umana solo quando
un prode cavaliere avrà il coraggio di baciarla. Alla premessa segue quindi il racconto del tentativo, prima da
parte di un cavaliere di Rodi, poi da parte di un giovane, che non essendo cavaliere, deve ricevere
l’investitura e in seguito sottoporsi alla prova. In entrambi i casi, però, l’avventura si conclude con la fuga
dei giovani, mentre la figlia di Ippocrate attende ancora il suo salvatore. La Deluz sostiene la possibilità che
Mandeville abbia potuto raccogliere sul posto la leggenda, arricchita dagli interventi personali e sottolinea
come ne sia il primo divulgatore. Proprio il fatto di essere il primo a darne notizia, invece, ci spinge a
formulare un’ipotesi diversa, forse maggiormente fedele alle prassi compositive di Mandeville. Pochi sono,
infatti, gli elementi originali, rispetto alle fonti libresche o ai resoconti dei predecessori, che costellano il suo
itinerario fino a Gerusalemme e che, storicamente verificabili, fanno propendere per la realtà del suo viaggio
in Terra Santa; la maggior parte dei capitoli, invece, si configura come rielaborazione di testi precedenti. Se
ciò è vero, dobbiamo allora presumere che Mandeville, più che registrare in loco la leggenda della donnadrago, l’abbia trasferita nelle isole del Mediterraneo pescandola dal proprio bagaglio immaginifico. Il motivo
del Fiero Bacio 564, in effetti, è largamente attestato all’interno sia del folklore celtico sia della letteratura
oitanica e franco-italiana, dal Bel Inconnu 565 al Cantare della Ponzela gaia 566, al Carduino 567. Mandeville
557
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, cap. IV, pp. 115-120.
Ivi, cap. XVI, pp. 286-298.
559
Ivi, cap. V, pp. 121-122.
560
Per la ricostruzione delle fonti di Mandeville, si veda Deluz, Le livre de Jehan de Mandeville, pp. 230-233.
561
Il legame della Scizia cone le donne anguiformi è antico. Erodoto (Storie, Milano, BUR, 1984, t. 2, IV, 9-10) e
Diodoro Siculo (Biblioteca storica, II, 43,3) narrano le ierogamie mitiche che presiedettero alla nascita del popolo scita,
in Erodoto tra la donna-vipera e Eracle, in Diodoro tra la donna-vipera e Zeus. Dione Crisostomo (Dio Crysostom, ed.
J.W. Cohhon, vol. I, Heinemann, London-Harvard, Cambridge-Mass., 1949, pp. 237-247) narra, invece, la generazione
degli Sciti da parte di donne-serpente.
562
Huet la inserisce nel dossier melusiniano; C. Huet, «La légende de la fille d’Hippocrate à Cos», B.E.C., 79, 1918, pp.
45-59. Jean d’Arras utilizza e rielabora lo stesso nucleo mitico, ascrivendo la metamorfosi di Melusina alla maledizione
scagliatale dalla madre; cfr. Jean d’Arras, Melusine, pp. 134-137.
563
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, cap. IV, p. 117.
564
R. S. Loomis, « The fier baiser in Mandeville's Travels, Arthurian romance, and Irish saga », Studi medievali, 17,
1951, pp. 104-113.
565
Renaud de Beaujeu, Le bel inconnu, ed. M. Perret e I. Weil.
558
108
sembra, dunque, procedere alla progressiva delocalizzazione di leggende occidentali, tanto da rendere
immediatamente riconoscibili gli inquietanti prodigi narrati. Spostando verso Oriente il nucleo mitico della
donna ofidica, l’immagine del femminile perturbante diviene in un certo senso universale, mentre la sua
pericolosità aumenta proporzionalemente al progredire del viaggio. Più ci si inoltra nell’Oriente estremo più i
fenomeni perturbanti, ricevendo la certificazione della testimonianza personale, si consolidano nella loro
terribilità. Alla rappresentazione topica delle deformità orientali delle raccolte precedenti, si aggiunge una
mostruosità che giunge da Occidente. Questa specularità genera un senso di turbamento, potenziato dalla
capacità di Mandeville di tenere sempre aperto un varco tra passato e presente. Lo straordinario, così, non
cessa mai di manifestarsi nella contemporeneità. Se la lettura degli Otia ha lasciato una traccia profonda
nell’opera del cavaliere inglese, di là dei debiti squisitamente testuali, questa deve essere, appunto,
identificata nella costante attualizzazione dei prodigi. Si assicura, così, una realtà fattuale anche ai fantasmi
di ere distanti. Il racconto sulla figlia di Ippocrate, infatti, pur restando immerso in una dimensione
leggendaria, conosce un crescendo inquietante: Mandeville afferma all’inizio che il dragone è innocuo e
conclude dicendo che nessun cavaliere potrebbe sostenerne la vista, pena la morte.
Et se mostre deufoithz ou III l’an et ne fait a nulluy famages si homme ne luy fait mal 568.
Et unques puis nuls chivalers ne la poerent veoir q’ils ne fussent tantost mortz 569.
Infine, inserisce l’apertura sul presente/futuro: la donna-dragone attende ancora chi, baciandola, la libererà
dall’incantesimo e diventerà signore della regione.
Ugualmente, nell’episodio del Gouffre di Sathalie, direttamente ispirato al testo di Gervasio di Tilbury, il
crimine commesso in un tempo lontano proietta la sua ombra sul presente, essendo quel tratto di mare
estremamente rischioso per la navigazione:
Et la il y a moult perilous passage et sanz fonz 570.
A differenza del racconto di Gervasio, Mandeville attribuisce all’azione nefasta della testa l’inabissamento
dell’intera città di Catalie e non solo dell’imbarcazione dello scellerato giovane 571.
La narrazione sulla fata del Castello dell’Esparvier, invece, degli Otia riprende soltanto il nome. Dal punto di
vista spaziale, il favoloso castello sorge sul limitare delle estreme terre orientali. Nella progressione di
mirabilia perturbanti che si spostano sempre più verso Est, l’avventura del castello rivela la sua funzione
edificante 572. Chiunque decida di raggiungere il castello deve sottoporsi alla prova della veglia per sette interi
giorni (o secondo altri, per tre giorni), trascorsi i quali la fata esaudisce qualunque desiderio di «choses
terriens» 573. La realtà dell’evento si basa sulla dimostrazione collettiva:
et ceo ad esté prové sovent 574.
566
Ponzela gaia: Galvano e la donna-serpente, a cura di B. Barbiellini Amidei, Milano, Luni, 2000.
I cantari di Carduino giuntovi quello di Tristano e Lancielotto quando combattettero al petrone di Merlino, ed. P.
Rajna, Bologna, Romagnoli, 1873.
568
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, cap. IV, p. 117.
569
Ivi, cap. IV, p. 119.
570
Ivi, cap. V, p. 122.
571
Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, II, 12; cfr. cap. 2.3.2.
572
Deluz, Le Livre de Jehan de Mandeville, p. 220.
573
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, cap. XVI, p. 290.
574
Ibidem.
567
109
La natura tendenzialemente benigna della fata benefattrice si tramuta nel suo contrario quando l’eroe
dell’avventura tenta un approccio fisico: l’estraneità e l’alterità della donna si rivelano allora minacciose,
come ha potuto costatare il re d’Armenia.
Et ly roy respundy q’il estoit assez grant sires […] et q’il ne souhaideroit autre chose fors qe le corps de celle
bele a voir a voluntee. Et celle ly respondy […] q’il estoit fol et ne la porroit avoir, qar il ne devoit demander
qe choses terriene, et ele n’estoit mie terriene mes esperituele 575.
All’insistenza del re, la dama risponde profetizzando la rovina della sua stirpe e del suo regno. Allo stesso
modo, il cavaliere Templare avido riceverà l’annuncio della fine del suo ordine. L’unico vincitore della
prova del castello sarà un giovane povero che chiederà di poter avere fortuna nella mercatura 576. L’episodio
del castello dell’Esparvier sembra così assolvere una molteplicità di funzioni semantico-narrative: in quanto
frontiera dell’Estremo Oriente continentale, la fortezza ospita una donna dalla natura ambigua, un’aliena
della cui realtà è garante l’inveramento delle sue profezie; come palestra morale, la prova del castello
esprime la visione sociale di Mandeville, fustigatore del parassitismo dei potenti e della loro bramosia e
ammiratore della mètis del giovane “imprenditore”.
Anche in questo caso, non è certo che Mandeville abbia raccolto sul posto una leggenda locale, ma è
possibile che abbia trasferito il suo immaginario nella Terra di Levante. In questo percorso di progressivo
spostamento incontriamo, al termine della Valle Infernale, proprio le donne-serpente. Il rischio di una
risorgenza dal passato di una minaccia mortale è, all’interno di questo episodio, esplicitamente tematizzato,
come sottolinea l’intervento dell’io narrante che ne garantisce la realtà:
Et jeo fist demander la cause pur quoy homme tenoit celle custume, et homme me dit qe aunciennement
ascuns avoient esté mortz pur femmes despuceller qe avoient serpenz el corps, et pur ceo tiegnent ils celle
custsume et font toutdis assaier le passage a un autre avant q’ils se mettent en aventure
È vero che la morte degli uomini durante la prima notte di nozze risale ai tempi antichi, «aunciennement»,
ma la validità della prassi nell’epoca coeva all’esploratore Mandeville esprime il senso di infido pericolo che
il primo contatto con una donna può suscitare. Prima, dunque, di procedere verso le regioni paradisiache, il
viaggiatore deve superare l’ultima incarnazione del femminile perturbante, che dall’isola di Kos trasmigra
progressivamente verso Oriente, in un percorso che coincide con il graduale passaggio dalla natura fiabesca
della figlia d’Ippocrate alla realtà intermedia della Dama dell’Esparvier fino alla corporeità delle donneserpente. Lo slittamento ontologico delle creature femminili procede di pari passo con la presenza sempre
più insistita della «certificazione autoptica» dell’autore: i prodigi orientali, sorretti dal continuo intervento
dell’io, sono investiti da un processo implicito di cristallizzazione realistica. La testimonianza personale si
consolida, infatti, nel tratto conclusivo, quando visitati i Gymnosofisti 577, Mandeville si inoltra nelle terre
tenebrose, al termine delle quali svetta la fortezza del Paradiso terrestre 578. Ma, come Alessandro nell’Iter ad
Paradisum 579, anche il cavaliere inglese è costretto a desistere dal raggiungere il luogo sacro del giardino
edenico. La fine del viaggio conferma la vicinanza del Livre ai resoconti delle catabasi oltremondane e
illumina la sua significazione figurale (come in Odorico): il viaggio orientale quale allegoria dell’iter del
viator cristiano. Ma il tragitto nei remoti paesi dell’Estremo Oriente svolge anche un’altra funzione antropopsicologica: la proiezione sull’estraneità orientale delle immagini che assillano l’inconscio collettivo
occidentale. Rispetto alle precedenti descrizioni di mirabilia orientali, il procedimento si inverte. Nelle
raccolte antiche e medievali, infatti, l’Oriente costituiva la casa dell’alterità teriomorfa: mostri, animali,
575
Ivi, cap. XVI, p. 291.
Ibidem.
577
Jehan de Mandeville, Le livre des merveilles, cap. XXXII, pp. 456-464.
578
Ivi, cap. XXXIII, pp. 465-471.
579
La prise de Defur" and "Le voyage d'Alexandre au paradis terrestre", ed. L.P. G. Peckham ; M. S. La Du,
Princeton, Princeton University Press; 1935.
576
110
popoli rigorosamente difformi. L’Occidente aveva in un certo senso relegato in quell’altrove tutto ciò che di
abnorme l’immaginazione aveva potuto partorire e che mai si sarebbe potuto incontrare nelle lande di
Ponente. Questo aspetto della bio-morfologia orientale viene conservato da Mandeville, il quale, però,
trasporta negli spazi immaginari dell’Oriente figure prodigiose, che la tradizione aveva collocato sempre in
Occidente. Il cavaliere inglese sembra, così, procedere a una sorta di colonizzazione dell’immaginario 580:
l’Oriente non ospita più solo portenta assolutamente diversi, ma anche simili. Nelle relazioni di viaggio
precedenti la femminilità mostruosa contemplava una varietà di forme 581, tranne quella serpentina.
L’impressione che si ricava dal testo di Mandeville è quella di una dislocazione di immagini culturali, che
nella loro ricorsività sembrano svelare il meccanismo ossessionale, al fondo del quale si pone l’angoscia
dell’esistenza corporea e reale delle creature anguiformi. Le spiegazioni psico-antropologiche proposte nei
confronti delle donne anguipedi sono numerose e unificate dalla paura/diffidenza del maschile nei confronti
del femminile e della sua difformità biologica (dal ciclo mestruale al parto). Non ci addentriamo su questo
terreno, in quanto nell’economia del nostro discorso ci preme rilevare come un’opera, che fu un vero proprio
best-seller nel corso dei secoli XIV e XV, concorresse a diffondere e a divulgare una concezione realisticocorporea sia dell’oltretomba sia di determinate creature. L’emigrazione da Occidente a Oriente di alcuni
elementi dell’immaginario collettivo consentiva l’uniformazione universalizzante dell’ecumene e favoriva
l’esplorazione e la conquista di spazi estranei, ma in fondo familiari, nei confronti dei quali trasferire le
stesse prassi di controllo sociale e culturale già sperimentate in Occidente.
3.2.3 Il Paradis de la reine Sibylle di Antoine de la Sale : realtà e irrealtà delle anguipedi ipogee.
Composta tra 1438 e il 1442 582, La Salade, opera eterogenea scritta a edificazione del principe Jean de
Calabre, racchiude la leggenda del regno sotterraneo della Sibilla apenninica. Il quarto libro è, infatti,
intitolato Du mont de la Sibylle et de son lac et des choses que j’y ai vues et ouï dire aux gens du pays. Si
tratta quindi di una vera e propria relazione di un viaggio compiuto dall’autore nel 1420. Seguito da un breve
trattato di geografia, dedicato alla descrizione sommaria del Paradiso terrestre e della tripartizione
dell’ecumene, il Paradis si connette all’altro racconto di viaggio, di sapore infernale: la visita all’isola di
Lipari, compiuta dal giovane Antoine nel 1407 583.
Come in Jehan de Mandeville, dunque, l’occasione per la trascrizione dei ricordi non nasce dall’urgenza di
diffondere e divulgare, a ridosso del viaggio, un’esperienza personale, ma dalla necessità di animare e
impreziosire un trattato didascalico. Il meccanismo di ripescaggio memoriale si attiva dunque a distanza di
580
Fenomeno studiato per l’epoca moderna da S. Gruzinski, La colonisation de l’imaginaire. Sociétés indigènes et
occidentalisation dans le Mexique espagnol, XVIᵉ-XVIIIᵉ siècles, Paris, Gallimard, 1988.
581
Fin dall’antichità (Plinio, Solino) a Oriente abitano donne barbute, donne con denti di cinghiale, ma non donne
serpentiformi, se si escludono i racconti greci sulla Scizia o l’incontro di Menippo con l’empusa anguiforme nella Vita
di Apollonio di Tiana, Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, Milano, Adelphi, 1978, libro IV. Fedele a questa
ripartizione geografica della mostruosità femminile è Gervasio di Tilbury, il quale nei capitoli dedicati ai mirabilia
orientali riporta la descrizione di donne barbute e donne con denti di cinghiale, Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, III,
capp. LXXVI-LXXVII.
582
F. Desonay, «Introduction», Antoine de La Sale, Oeuvres complètes, ed. F. Desonay, Paris, Droz, t. 1, La salade,
1935, p. XVIII ; G. Paris, « Le Paradis de la reine Sibylle », Légendes du Moyen Âge, Paris, 1908, p. 67-109. Su
Antoine de la Sale i principali studi consultati sono : J. Nève, Antoine de la Salle: sa vie et ses ouvrages d'après des
documents inédits, suivi du "Réconfort de madame du Fresne" d'après le manuscrit unique de la Bibliothèque royale de
Belgique. Du paradis de la reine Sibylle, etc. par Antoine de La Salle, Paris, Champion; Bruxelles, Falk fils, 1903 ; L.
Pierdominici, Du pédagogique au narratif. Écriture fragmentaire et poétique de la nouvelle dans l'œuvre d'Antoine de
La Sale, Lille, Presses universitaires du Septentrion, 1996 ; Id., Les passions du mot. Études de littérature du XVe siècle,
Fano, Aras Edizioni, 2009 ; S. Lefèvre, Antoine de La Sale. La fabrique de l'œuvre et de l'écrivain, suivi de l'édition
critique du Traité des Anciens et Nouveaux Tournois, Genève, Droz, 2006.
583
C.A. Jr. Knudson, « Une aventure d'Antoine de la Sale aux îles Lipari », Romania, 54, 1928, pp. 99-109 ; si veda
anche F. Mora, Voyages en Sibyllie d'Antoine de La Sale, Paris, Riveneuve, 2010.
111
anni dall’eplorazione. Occasione utilitaristica 584 quella che spinge il poligrafo Antoine ad attingere a fatti ed
episodi accaduti in gioventù. Esattamente come Walter Map e Gervasio di Tilbury qualche secolo prima,
l’intenzione didattica non è disgiunta dalla ricerca di una narrazione piacevole e dilettevole; educere
dilectando continua a essere l’imperativo degli specula principis e, per le risorse della narrazione, il récit
sulla femminilità ofidica riveste ancora un ruolo centrale. Antoine de La Sale, infatti, come Walter Map nel
secolo XII, incarna il modello del letterato e del diplomatico cortigiano del secolo XV 585, il quale con acume
e sagacia tratteggia un ritratto ironico e realistico della società dell’epoca, senza mai derogare alla finalità
morale di alcuni racconti. Rispetto ai suoi predecessori, però, Antoine manifesta anche l’atteggiamento blasé
dell’intellettuale colto che osserva con distacco la congerie di leggende e tradizioni folkloriche con cui viene
a contatto durante i suoi viaggi in Italia. L’atteggiamento di velata incredulità nei confronti di certe leggende
risente di quello spirito scettico e a tratti divertito che aleggia nelle opere di Froissart 586 o che innerva il
racconto della catabasi di Ramon de Perelhos (cfr. ultra). A questo proposito si potrebbe parlare di spirito
comune dell’aristocrazia colta cortigiana, intenta a rappresentarsi in opere che si collocano a metà tra la
finzione esplicita e consapevole e il suo camuffamento attraverso il pretesto del racconto di viaggio fisico e
veritiero. Al di là delle intenzioni, però, l’effetto, dal punto di vista della ricezione, è quello di veicolare e
diffondere la realtà fattuale di certi fenomeni, costituendo, in alcuni casi, la gran cassa mediatica della loro
oggettiva esistenza. E mentre Froissart riconduce il magma dei récits all’autorità dubitativa dello storico,
lasciando che talune credenze galleggino nel limbo della realtà/irrealtà; il visconte di Perelhos e Mandeville
abbandonano nel corso della narrazione qualsiasi precauzione, fino a calarsi in prima persona con la propria
fisicità di personaggi nelle lande misteriose. Dal canto suo, Antoine de La Sale architetta un piano più
complesso, interamente incentrato sull’alternanza tra i dubbi sull’esistenza reale del Paradiso della Sibilla e il
loro attenuarsi grazie al ricorso a testimonianze fededegne. Il lettore è gradualemente condotto dall’autore
sulla soglia del regno sibillino, dove Antoine si arresta, perché non ha fisicamente superato il vestibolo. Così
se fino all’ingresso della grotta, il lettore può confidare sul racconto della reale esperienza ascensionale di
Antoine, è poi obbligato a fermarsi con lui in quel limbo fantasmatico in cui sembra vivere la profetessa
ctonia. Perché la prova dell’esistenza del regno della Sibilla, come vedremo nel corso dell’analisi, è affidata
sempre al racconto di seconda o di terza mano, tranne la testimonianza conclusiva dell’autore che legge,
incisi sulla roccia del vestibolo, i nomi dei cavalieri che hanno raggiunto il regno della Sibilla. È un colpo di
scena che sembra virare la barra della certificazione di veridicità verso il polo affermativo. Nell’explicit,
però, Antoine sancisce l’inesistenza della Sibilla, obbligandola in un luogo intermedio tra la realtà e il nulla,
luogo che rivela la sua semantica metaforica nella pulsione escatologica e edificante.
Procediamo con l’analisi. La Salade, trattato didascalico, si interrompe, dunque, all’altezza del libro quarto
per inserire un’apertura sui ricordi dei viaggi giovanili in Italia. Una sorta di intermezzo piacevole in grado
comunque di rivelare verità morali. Alla dedica alla contessa di Borgogna e d’Auvergne, Antoine, fedele alla
scrittura storica e odeporica, fa seguire le precise coordinate temporali del viaggio, 18 maggio del 1420. All’
asse temporale si connette, quindi, la ricostruzione di uno spazio geografico, minuziosamente descritto:
Antoine fornisce la posizione del lago di Pilato e ne racconta la leggenda, raccolta dagli informatori
autoctoni. L’Imperatore Tito, vendicatore della morte di Cristo e distruttore di Gerusalemme, avrebbe
ricondotto con sé a Roma Pilato, il quale condannato a morte avrebbe chiesto che il proprio corpo fosse posto
su un carro e, condotto alla cieca dai cavalli, fosse sepolto nel punto in cui i cavalli avrebbero arrestato la
loro corsa. Il punto di arresto coincise con il lago sul monte Vettore, nell’Appennino marchigiano. La
discrepanza storica della leggenda obbliga Antoine, scrittore colto, a una prima rettifica, poiché Pilato fu
governatore di Galilea non sotto Tito, bensì sotto Tiberio. La correzione rafforza l’impianto probatorio e
584
In Jehan de Mandeville, invece, l’occasione della scrittura sgorgava da motivazioni più strettamente esistenziali: una
terapia contro il decadimento fisico di un anziano malato e quindi la volontà testamentaria di non disperdere i propri
ricordi.
585
Cfr. D. Régnier-Bohler, «La Sibylle dans la Salade d'Antoine de La Sale. Enquête sur l'imaginaire de la figure
séductrice et satanique au XVe siècle en milieu princier», Sibille e linguaggi oracolari. Mito, storia, tradizione, a cura
di I. Chirassi Colombo e T. Seppilli, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 1999, pp. 673-694.
586
Froissart, Œuvres complètes de Froissart. Chroniques, ed. J. Kervyn de Lettenhove, Bruxelles, 1867-1877, t. 2-25.
112
l’autorevelozza del narratore. Segue, quindi, la descrizione del luogo, che, tuttavia, come ha dimostrato
Desonay 587, non fu realmente visitato dal cavaliere francese. La distanza del lago di Pilato dalla Grotta della
Sibilla è, infatti, tale che Antoine non avrebbe mai potuto coprirla nello spazio di un giorno. Del lago di
Pilato, l’autore de La Salade riferisce le voci e le credenze: l’isola che sorge al centro è il luogo prediletto
dagli stregoni e negromanti, che, evocando i demoni, riescono a scatenare delle terribili tempeste. A questo
proposito Antoine riporta il racconto della cattura di due uomini, che, sospettati di stregoneria, furono l’uno
arso sul rogo, l’alro tagliato a pezzi e gettato nel lago. Antoine conclude affermando che, per visitare in
sicurezza il luogo, è necessario un salvacondotto delle autorità locali, attestante la pura volontà di vedere
«sans autre chose faire» 588. Spostandosi, invece, sul versante del Monte Sibilla, Antoine può contare sulla
realtà della propria esperienza, tanto da citare correttamente i nomi dei villaggi incontrati e da riprodurre, su
una carta del manoscritto Chantilly la mappa dei due monti e il percorso per giungere alla grotta. Seguendo
le sue indicazioni Gaston Paris 589, Pio Rajina 590 (1897) e Fernand Desonay (1929-30) 591 tentarono l’ascesa
del Monte alla ricerca dell’antro famoso. Prima di inoltrarsi nei misteri della profetessa emigrata da Cuma
nell’Appennino 592, Antoine, da vero esploratore, si sofferma sulle particolarità della flora locale, descrivendo
il fiore di “poliastro” 593 e il “centofoglie”. Proprio il centofoglie costitituisce il primo tassello di una
geografia realistica, ma meravigliosa: afferma Antoine di averne raccolto degli esemplari e di averne contato
le foglie che erano sempre cento, né più né meno 594. Finalmente il viaggiatore inizia l’ascesa del monte. Due
sono i possibili percorsi: uno a sinistra più breve, ma più accidentato, scelto per la sua brevità per la discesa;
l’altro a destra, più lungo, ma più agevole da percorrere durante la salita. La descrizione del paesaggio è
circostanziata, così come particolareggiato è il racconto dei timori provocati dal passaggio su un crinale
costeggiato da pericolosi precipizi. Antoine quindi si prodiga per fornire un apparato probatorio, solido e
indiscutibile. La testimonianza oculare tratteggia i contorni realistici della grotta, formata da un vestibolo
quadrato, dotato di piccoli sedili intagliati nella pietra e dal soffitto basso, tanto che per accedere bisogna
piegarsi. All’estremità del vestibolo, sulla destra si apre un cunicolo che dovrebbe condurre nel regno della
Sibilla. Le similitudini strutturali della grotta con la fossa più nota del Medioevo occidentale, il Purgatorio di
san Patrizio, sono state già rilevate: in entrambi i casi si tratta di territori ipogei, destinati probabilmente a
cerimonie di incubazione rituale 595, all’interno dei quali ritroviamo dei seggi 596 in pietra. L’impianto delle
prove testimoniali sull’esistenza del Paradiso della Sibilla subisce una prima incrinatura proprio sulla soglia
587
F. Desonay, «Introduction», Antoine de la Sale, Le Paradis de la reine Sibylle, pp. XXXVII-XXXVIII.
Antoine de la Sale, Le Paradis de la reine Sibylle, p. 9.
589
G. Paris, «Le Paradis de la reine Sibylle», p 89.
590
P. Rajna, «Nei paraggi della Sibilla di Norcia», in Studi dedicati a F. Torraca nel XXXVI anniversario della sua
laurea, Napoli, Perrella, 1912, pp. 233-253, in particolare pp. 238-251.
591
F. Desonay, «Introduction», Antoine de la Sale, Le Paradis de la reine Sibylle, pp. XXXIII-LXI.
592
L’identità con la Sibilla cumana non si trova in Antoine de la Sale, ma in Andrea da Barberino, Guerrin Meschino,
libro V, cap. 146: « io fui chiamata dai Romani Cumana, perché io nacqui in una città della Campania che ha nome
Cumana, stetti al mondo, prima di essere qui giudicata, mille e duecento anni e quando venne Enea in Italia io, all’età di
settecento anni, lo accompagnai per tutto l’inferno».
593
Fiore che Desonay suggeriva di identificare con la Mentha pulegium, della famiglia delle Lamiacee, cfr.
«Introduction», Antoine de la Sale, Le Paradis de la reine Sibylle, p. XLIX-LI.
594
Antoine de la Sale, Le Paradis de la reine Sibylle, p. 11 : «Desquelles j’en cueilli plusieurs en comptant les fueilles,
mais oncques n’en trouvay ne plus ne moins de cent».
595
Cfr. L. Canetti, «L’incubazione cristiana tra Antichità e Medioevo», Rivista di Storia del Cristianesimo, 7, 2010,
pp.149-180.
596
La somiglianza con la descrizione della fossa patriciana offerta da Giraldo di Cambria è in effetti notevole. Antoine
parla di «sieges entailles tout entour» (p. 14); Giraldo di Cambria afferma che «novem in se foveas habet»
(Topographia Hibernica, II, V, p. 82). Sulle affinità con i viaggi oltremondani si vedano: M. Montesano, « La Sibilla di
Norcia nel contesto dei viaggi medievali all'altro mondo: il Guerrin Meschino e il Paradiso della regina Sibilla» in
Sibille e linguaggi oracolari. Mito, storia, tradizione, a cura di. I. Chirassi Colombo e T. Seppilli, Pisa-Roma, Istituti
editoriali e poligrafici internazionali, 1999, p. 673-694 ; S. M. Barillari, «La città delle Dame. La sovranità ctonia
declinata al femminile fra l’Irlanda e i Monti Sibillini», L’immagine riflessa, XVIII, 2009, pp. 87-121; Ead., «Passaggio
in Irlanda. Itinerari terreni e viaggi oltremondani», Itineraria, 3-4, 2004-2005, pp.73-107; G. Gatto, « Le voyage au
Paradis: la christianisation des traditions folkloriques au Moyen Âge », Annales. Économies, sociétés, civilisations,
1979, pp. 929-942.
588
113
dello stretto cunicolo, poiché Antoine afferma di non essersi spinto oltre e di poter riferire le meraviglie del
regno ctonio solo attraverso ciò che ha udito. L’atteggiamento del viaggiatore è scettico: la voce che risuona
all’interno del vestibolo, attribuita dagli accompagnatori indigeni alla Sibilla, è indiscutibilmente giustificata
dal nitrito dei cavalli 597. L’autore ammette che alcuni abitanti di Montemonaco ritengono le storie sulla
Sibilla delle fole insensate, mentre altri credono fermamente all’esistenza del suo regno. A questo punto
inizia la sapiente costruzione a scatole cinesi che caratterizza l’intero racconto. A differenza di Jehan de
Mandeville o di Ramon de Perelhos, che in prima persona riferiscono le meraviglie incontrate nelle lontane
terre orientali o oltremondane, Antoine de la Sale, come Froissart, si affida al racconto di testimoni, rispetto
ai quali la distanza prospettica consente sempre di esercitare un ragionevole dubbio 598. La prima narrazione
della discesa nella grotta sibillina riferisce l’avventura di cinque giovani di Montemonaco, che affermano di
aver superato il vestibolo quadrato, di essere penetrati nello stretto cunicolo, ma di essere stati respinti da un
vento fortissimo. L’avvicinamento al regno della Sibilla richiede il disvelamento graduale, affidato al
susseguirsi delle testimonianze. Per descrivere le simplegadi collocate oltre lo stretto budello sotterraneo, di
cui ha sentito parlare, Antoine è, infatti, costretto a ricorrere alla narrazione del prete di Montemonaco,
Antonio Fumato, affetto da sindromi allucinatorie («lunaisons»), dunque non sempre affidabile, ma dotato
anche di momenti di indubitabile lucidità. Antonio Fumato, nome parlante in verità, poiché la solidità della
sua mente è della stessa evanescenza del fumo, racconta «sans varier»599 di essersi spinto fino alle porte di
metallo che si aprono e chiudono incessantemente e di aver accompagnato fin là due uomini tedeschi. I due
esploratori decisero di oltrepassare le porte e chiesero al prete di attenderli per un giorno intero600, trascorso
il quale Antonio Fumato stabilì di aspettarli ancora per una mezza giornata, poiché i due gli erano apparsi in
sogno rassicurandolo del loro ritorno. Ma dei due tedeschi non si ebbe più notizia e il prete rientrò a
Montemonaco. Qui raccontò che, al termine della cavità funestata dal vento, un ponte sottile, pronto ad
allargarsi solo sotto i piedi del viaggiatore 601, si stende su un vorticoso abisso. Al di là del ponte, il cammino
è piano e agevole e la cavità reca tracce di artificio umano, configurandosi come vero e proprio atrio di un
palazzo. A una delle sue estremità si ergono dragoni scolpiti dagli occhi luminosi che permettono di
penetrare in un’altra sala più stretta, seguita da una galleria formata da piccole stanze e terminante in un’aula
quadrata dove si aprono le famose porte-simplegadi. Il movimento incessante delle porte spaventa i
visitatori, per questo Antonio Fumato scelse di fermarsi, mentre i due visitatori tedeschi decisero di
597
Antoine de La Sale, Le paradis de la reine Sibylle, p. 15 : «Mais quant a moy je n’en croy riens, ains croy que
deussent mes chevaulx».
598
Non è questa la sede per una valutazione complessiva delle tecniche compositive di Froissart, ci basti a questo
proposito riportare la posizione dell’autore nei confronti di due racconti ‘fantastici’: il primo proprio sul Purgatorio,
l’altro su un ‘racconto melusiniano’ presente nelle Chroniques. A proposito della fossa irlandese, Froissart interroga sir
William de Lisle, il quale narra di aver avuto delle visioni in sogno, negando quindi la fisicità della catabasi; Froissart,
Chroniques, IV, t. XV, pp. 145-146: « Quand moi et mon compagnon eûmes passé la parte du collier, que on appelle le
Purgatore Saint –Patris et nous fûmes descendus trois ou quatres pas, une chaleur nous prit en les têtes, e nous assîmes
sur les pas qui sont de pierre ; et nous assis, très grande volonté nous vint de dormir». Il secondo racconto sul signore di
Coarraze ricostruisce la sua strana relazione con lo spirito Orton (Chroniques, III, 22). Il bersaglio dell’eplicita ironia di
Frossart sono le pratiche di divinazione occulta in auge presso le corti e la forte estraneità dei costumi dei Provenzali
rispetto ai Francesi del Nord; cfr. L. Harf, «Un conte mélusinien dans les Chroniques de Froissart : l’histoire du
seigneur de Coarraze et de son serviteur Horton», in Mélusines insulaires et continentales, études réunies par J.M.
Boivin et P. MacCana, Paris, Champion, 1999, pp. 205-221; Ead., «Le régard de Froissart sur l’altérité des nations
européennes au XIVᵉ siècle» in Giudizi e pregiudizi, a cura di M.G. Profeti, Firenza, Alinea, 2009, vol. 1, pp. 49-63.
599
Antoine de la Sale, Le Paradis de la reine Sibylle, p. 17. L’invarianza del racconto diviene indice della sua
veridicità.
600
Come nei racconti sulla catabasi patriciana, il lasso di tempo concesso per il ritorno alla dimensione terrena è un
giorno. Cfr. H. di Saltrey, Tractatus de purgatorio sancti Patricii, pp. 22-23: «quicumque veraciter penitens […]
fossam illam introisset spatio unus diee ac noctis».
601
Il pons subtilis appartiene alle architetture canoniche dell’oltretomba così come la sua qualità di allargarsi o di
restringersi a seconda del peccatore che vi sale, cfr. P. Dinzelbacher, «Il ponte come luogo sacro nella realtà e
nell'immaginario», Luoghi sacri e spazi della santità, a cura di S. Boesch Gajano e L. Scaraffia, Torino, 1990, pp. 5160; I.P. Culianu, «Pons subtilis. Storia e significato di un simbolo», Aevum, 2, 1979, pp. 301-312; M. Meli, «Un ponte
per l’aldilà», Medioevo folklorico. Intersezioni di testi e culture, a cura di M. Bonafin e C. Cucina, L’Immagine riflessa,
XVIII, 2009, 1-2, pp. 261-284.
114
proseguire, nonostante il terrore. Oltre le porte, un gran rumore atterrisce gli eventuali esploratori. Ma qui il
racconto deve arrestarsi: Antoine non può riferire nient’altro, poiché non trova testimoni in grado di
certificare che cosa ci sia in quell’altrove estremo.
Mais de nulle chose qui soit oultre lesdictes portes de metal, ne se treuve nul qui le saiche, fors que par
commune renommee et par voix generalle des gens du païs. Qui en devisent en leurs voulentez 602.
Il racconto veritiero di Antoine sembrerebbe arrivato a un punto morto, ma lo scrittore francese decide di
prestare fede a una storia fissata dalla memoria collettiva e profondamente radicata nell’immaginario delle
popolazioni locali 603. Il fulcro della relazione sul Paradiso della Sibilla è costitito proprio dalla vicenda del
cavaliere tedesco e del suo scudiero, discesi nell’antro fino a raggiungere il palazzo della profetessa, da cui
ricevono l’invito a soggiornare nel castello dopo aver scelto tra le sue damigelle una compagna. Una volta
superati i battenti di metallo dal movimento incessante, dinanzi al cavaliere si staglia una splendida porta di
cristallo che si apre su uno spazio incantato, in cui si succedono meravigliosi giardini e ricche sale,
attraversate da una processione di nobiluomini e di nobildonne sontuosamente abbigliati che accolgono il
cavaliere e il suo scudiero, invitandoli, prima di presentarsi al cospetto della regina, a svestirsi per indossare
magnifiche vesti. Apprese le norme per abbandonare il Palazzo (dopo otto giorni; dopo trenta giorni; dopo
trecento giorni), il cavaliere stabilisce di fermarsi per otto giorni, rinviando di volta in volta la partenza fino
allo scadere del trecentesimo giorno, ultima possibilità per non restare eternemente sepolto nella grotta.
Proprio prima dell’ultima scadenza, il cavaliere, ispirato da Dio, prende coscienza della sua situazione di
peccato mortale e rientra sulla Terra. A risvegliare la mente obnubilata del cavaliere concorre la strana
metamorfosi della Sibilla e delle sue damigelle:
Pour ce que, quant venoit le vendredi, aprés la mienuyt, sa compaigne se levoit d’emprés lui et s’en aloit a la
royne et toutes les autres de leans aussi. Et la estoient en chambres et en autres lieuz ad ce ordonnez en estat
de couleuvres et de serpens, toutes ensemble ; et ainsi estoient jusques après la mienuit du samedi 604.
La forma serpentina e «les deliz mondains» 605 di quel regno scuotono il cavaliere, il quale, pensando a
quanto Gesù avesse disprezzato i beni terreni, decide di abbandonare il luogo di peccato. Unico rovello
dell’uomo è, dunque, l’ottenimento del perdono, per il quale è necessario l’intervento del Papa:
Et quant il fut a Romme, sans plus actendre, se frappa en l’eglise Saint Pierre. Lors se getta es piez d’un
penancier auquel il dist la somme de ses tresabhominablez pechez, dont tant estoit a Dieu offendant. Mais
quant le penancier entent qu’il a esté es subgessions de l’enemy, et par tant de temps, si lui rompit sa parolle
sans vouloir plus l’escouter ; car en lui n’estoit mie de l’acdrecer en la voie de pardon. Si l’envoia au Pape606.
L’intrasigenza del Papa, tuttavia, getta il cavaliere nella disperazione e lo spinge a rientrare nel regno della
Sibilla. Appresa la notizia della partenza del cavaliere il Papa si pentirà profondamente, ma inutilmente.
Come la fine di Eudo (De nugis curialium, IV, 6) nel racconto di Walter Map è decretata dalla mancanza di
misericordia del vescovo, così la volontà del Papa di mettere alla prova il cavaliere, rinviando sine die il suo
perdono, causerà la sua totale perdizione.
602
Antoine de la Sale, Le paradis de la reine Sibylle, p. 21.
In realtà l’antro della Sibilla è famoso anche al di fuori delle Marche; per le citazioni letterarie cfr. L. Paolucci, La
Sibilla appeninica, Firenze, Olschki, 1997, pp. 54-67. Paolucci riporta una missiva di Enea Silvio Piccolomini in cui
riferisce della richiesta da parte di un astronomo sassone di informazioni sul Venusberg in Italia. Il futuro Papa risponde
negativamente al riguardo. L. Paolucci, La Sibilla appenninica, pp. 53-56.
604
Antoine de La Sale, Le Paradis de la reine Sibylle, p. 28.
605
Ibidem.
606
Ivi, p. 32.
603
115
Nel gioco a incastro delle testimonianze, Antoine rivela, dunque, il segreto del regno sibillino affidandosi a
un racconto di terza mano. La veridicità della narrazione è ipotetica, incerta, ma, nella conclusione della
visita, l’intervento dell’io narrante sembra rovesciarne le premesse e certificarne la realtà. All’interno del
vestibolo, fisicamente raggiunto da Antoine, sono incisi i nomi di coloro che sono penetrati nel regno ipogeo;
tra questi l’autore scorge proprio il nome del cavaliere tedesco (Her Hans Wanbranbourg intravit),
affiancato da altri nomi, tra cui quello di un francese o inglese, Thomin de Pons. Anche Antoine decide di
lasciare una traccia del suo passaggio, incidendo il proprio nome. Sembrerebbe, dunque, che lo scrittore
voglia garantire la verità del regno della Sibilla. A questo proposito riferisce un’altra testimonianza degli
abitanti locali sulla visita di un cavaliere guascone alla ricerca del fratello perduto. Ma nei due capitoli
conclusivi, Antoine torna al suo scetticismo iniziale e disvela la finalità morale e edificante del récit. Tutte le
storie sul regno della Sibilla non sono altro che prodotti della fantasia popolare, cui non bisogna tributare
fede e mentre, qualche secolo prima, Gervasio di Tilbury aveva accreditato proprio le concezioni folkloriche
sull’esistenza di alcune creature straordinarie, Antoine tenta di smontare la pretesa verità di certe credenze:
Desquelles choses j’ay dit, dis et diray; et prie a chascun de croire que ce ne sont que choses controuvees par
l’ancien commun parler des simples gens 607.
Auquel messire Gauchier je respondiz, et respondroie atous ceulz qui telz choses soustendroit, que il estoit
mal informé et que ce n’estoit que faulce foy et creance a tous ceulx qui foy y adjoustoient, et qui foy y
adjouste, se part(oient) du chemin de la verité. Et en ce je vueil vivre et finer mes jours. Car nous savons par
les saintes escriptures que, depuis la passion nostre seigneur Dieu Jhesucrist, toutes ydoles, toutes fantosmes
et toutes deableries perdirent incontinant leurs mauvaistiez, faulcetez et tricheries de quoy les deables
decevoient les gens. […] Dont si ceste chose eus testé vraie, elle seroit destaintte et anullee comme les autres
sont 608.
L’esistenza della Sibilla è dunque rifiutata e il rifiuto è giustificato sul piano morale, perché nessuno ceda
alle tentazioni del diavolo e si metta alla pericolosa ricerca del suo mondo. Un ulteriore sostegno
all’inconsitenza delle leggende sulla Sibilla appenninica deriva dalla letteratura antica e dalle sacre scritture,
dove tra le Sibille, non è mai menzionata quella marchigiana. Potrebbe essere accostata, vista la contiguità
geografica, alla decima Sibilla, la Tiburtina, che profetizzò la nascita di Cristo dalla Vergine 609, ma la Sibilla
appenninica è marchiata nel corpo da un segno diabolico così esplicito da condurre l’autore ad affermare
che:
ne se treuve nulle vraie mencion de ceste faulse Sibille, que le deable, par son pouvoir, a cause de nostre
foible creance, a mis la renommee sus pour decevoir les simples gens 610.
Secondo il copione del trattato edificante, Antoine de la Sale insiste, quindi, sulla significazione allegorica
imperniata, essendo l’opera rivolta a un pubblico cortigiano, sul principio dell’educere dilectando:
Si prie a Dieu qu’il gart chascun bon chestien de celle faulse creance e de soy metre en ce peril. Lesquelles
choses, pour rire et passer temps, pour monstrer a chascun que le contraire, j’ay mis tout en escript 611.
L’accumulo delle testimonianze produce, tuttavia, un effetto che travalica le esplicite intenzioni dell’autore:
la narrazione sul Paradiso della Regina Sibilla contribuisce a consolidarne la realtà in un’epoca in cui anche i
607
Ivi, p. 50.
Ivi, p. 51.
609
Ivi, pp. 54-56.
610
Ivi, p. 55.
611
Ibidem.
608
116
testi letterari perdono lo statuto di finzione consapevole per scivolare verso l’autorevolezza del racconto
veritiero. Il regno della Sibilla, infatti, viene raccontato e descritto da un altro testo contemporaneo a La
Salade, ascrivibile totalmente al territorio della fiction epico-romanzesca, Guerrin Meschino. Gaston Paris,
datando l’opera di Andrea da Barberino al 1391 612 affermava con sicurezza che Antoine de la Sale non
conosceva il Guerrin; la posteriore datazione proposta da Cursietti (prima metà del Quattrocento) 613
sembrerebbe confermare l’indipendenza dei due testi e fotografare l’interesse comune di due autori coevi
operanti in generi letterari diversi, per la medesima storia. Nel Guerrin il soggiorno presso la Sibilla si
struttura come vera e propria prova per testare la solidità della fede cristiana del protagonista. Benché
Guerrin non ceda mai alla seduzione della profetessa ctonia, quando si presenta al cospetto del Papa, questi
gli ingiunge come penitenza per essersi comunque piegato alla vanità della fata di raggiungere il Purgatorio
di San Patrizio. Il percorso di Guerrin è estremamente interessante nel suo proporsi come summa degli
itinerari extra e oltre-mondani che nutrivano l’immaginario medievale: dall’Oriente alla Grotta della Sibilla
fino al purgatorio irlandese. Di ritorno dalle terre di Levante, Guerrin penetra nell’antro della Sibilla, previo
incontro con tre santi romiti che lo mettono in guardia sulla natura infernale della profetessa. La metamorfosi
ofidica, infatti, assolve qui una chiara funzione metaforica: le differenti tipologie di serpenti, vermi, rospi e
scorpioni alludono alla gradualità dei peccati 614, tanto che al lettore resta l’impressione di visitare non il ricco
paese della Sibilla appenninica, bensì un inquietante inferno. Al pari di altri paesaggi oltremondani coevi
(cfr. ultra), il regno della Sibilla si regge su un inganno visivo che trasforma anche la visio trasparente dei
tormenti dell’Aldilà in una costruzione allucinatoria: le bestie si rivelano soltanto nella giornata di sabato,
mostrando così la vera natura del luogo. Ciò che è tuttavia interessante dell’opera di Andrea da Barberino è
la sua ricezione: Guerrin Meschino sembra abbandonare le lande della fiction per entrare in quelle della
storia. In riferimento, infatti, alla sua visita al Purgatorio irlandese, troviamo una notazione che accredita la
realtà storica del Meschino in una lettera inviata a Isabella d’Este da Francesco Chiericati, nunzio apostolico
presso la corte inglese, il 28 agosto del 1517. Parlando del libro in cui sono registrati i racconti dei
sopravvissuti alla prova purgatoriale, come già attestava il Tractatus 615, il Chiericati nota che il primo nome
era proprio quello di Guerrino da Durazzo, «qual io cresi esser fabule. Ma adesso ivi l’ho visto descritpto
antiquamente in un libro pergameno» 616. La fama di Owein, primo cavaliere irlandese ad affrontare il pozzo
del Purgatorio nel secolo XII, è ormai eclissata, nel secolo XVI, a tutto vantaggio del Guerrin. Se quindi
Guerrin può figurare tra i visitatori storici del Purgatorio, anche la sua discesa nell’antro della Sibilla deve
rientrare tra le esperienze oggettivamente praticabili. A conferma, inoltre, della circolarità dei racconti che
saldavano finzione letteraria e pretesa certificazione di realtà oggettiva di luoghi e creature sovrannaturali,
sempre il Chiericati riferisce che uno dei suoi compagni entrato nel Purgatorio afferma:
esserli apparso diverse donne de bellissima forma, le quali lo invitavano a voler manzar seco et far bona
ciera, apponendoli frutti et cibi de molte sorte 617.
612
G. Paris, «Le paradis de la reine Sibylle», p. 87.
M. Cursietti, «Introduzione», Andrea da Barberino, Guerrin Meschino, pp. XII-XIV.
614
Andrea da Barberino, Guerrin Meschino, libro V, cap. 151: «Egli disse: “Io vidi un’altra ragione di vermini molto
brutti, che erano lunghi tre braccia, con la testa piccola, larga, gli occhi focosi, con la coda che sembrava di corallo. Essi
si mordevano la coda, simile per colore e fattezza ad un aspide sordo, prendendosela tra i denti”. Ella disse: “Questi
stanno qui per l’ira che ebbero al mondo, dove stavano sempre accesi e pieni di ira”. Disse il Meschino: “Vidi ancora
altri vermini laidi e brutti, come grandissimi rospi gonfiati, che pareva che scoppiassero”. Ella disse: “Questi sono stati
al mondo invidiosi, si disperano perché la ragione della loro venuta in questo luogo è proprio l’invidia”. Disse il
Meschino:“Vidi vermini, secchi e sporchi, che parevano scorpioni molto grandi, avevano tre bocche per mordere e una,
molto più grande, per mangiare”. Rispose la Sibilla: “Furono sempre cupidi ed avari contro il prossimo, contro Dio e i
suoi poveri. L’avarizia, infatti, non è altro che fare del male a se medesimo e non amare Dio né il prossimo. Costoro
furono tanto avari che si disperarono e vennero qui per avarizia”».
615
H. di Saltrey, Tractatus de purgatorio sancti Patricii, p. 32. «Redeuntium autem narrationes et dicta a canonicis loci
illius sunt in monasterio scripta».
616
B. Morsolin, «Francesco Chiericati vescovo e diplomatico del secolo desimosesto», Atti dell’Accademia Olimpica,
III, 1873, pp. 121-237, p. 208.
617
Ivi, pp. 207-208.
613
117
Gli incontri femminili del regno sotterraneo, che sostanziano sia il Guerrin che il Paradis de la reine Sibylle
costituiscono anche il fulcro di alcuni resoconti sulle catabasi patriciane: il Chiericati, dunque, poneva sullo
stesso piano la testimonianza di prima mano di un visitatore oltremondano e il romanzo di Andrea da
Barberino.
D’altronde lo stesso Antoine, nel riferire il racconto del cavaliere guascone, offre una motivazione alla
ricerca della Sibilla fondata sulla confusione dei piani reali e leggendari, perché il fratello del signore di Pacs
decide di raggiungere l’antro, sulla scorta di narrazioni orali sulla Sibilla.
Se conclut de partir de son frere et se mist en compaignie d’autres gentilz hommes querans leurs adventures
en plusiuers royaumes et estranges parties, comme tous nobles cuers, pour acroistre leurs honneurs, sont
tenuz de faire 618.
Ora questo costume della socialità cortigiana di andare alla ricerca di avventure nel mondo, tanto quanto i
cavalieri erranti protagonisti dei romanzi dei secoli precedenti, non è riferito soltanto da Antoine de la Sale.
In un altro testo, che attraverso il plagio di un’opera antecedente intende certificare la veridicità della
catabasi oltremondana, troviamo nell’introduzione lo stesso richiamo al desiderio di avventura. Il visconte
Ramon de Perelhos, infatti, nel suo Viatge al Purgatorio di San Patrizio confessa:
E per tal com totz los homes del mon desiran a saber cauzas estranhas e meravilhozas, e sian plus plasens
naturalmen aquelas que hom pot saber per vista que aquelas que no son a nos se no per aussir dire, per
aquesta rasso ieu, que en mon joven fuy noyrit am lo rey de Franssa Carles, am lo cal mosenhor mon payre
me laysset, lo cal era son amiralh e camarlenc, en aquela cort am tot los cavaliers e escudiers de son realme e
dels autres realms de christias, volia saber volentier et eser enformat de las cauzas meravilhozas, variablas,
estranhas que son per lo mon et agui lo cor mot enclinat de saber las cauzas per vista que no fassa per ausy
dire a motz e diversses cavaliers. E de fagz ieu me messy a seguir las aventuras del mon per totas las teras de
christias e de infisselhs e de Sarazis e de autras diversas sectas que son per lo mon, rassonablemen ni on hom
pot anar. E tan que per la gracia de Dieu la major part de las caussas que ieu avia aussidas dire ni retrayre
estranhas e meravilhozas, ieu ay vistas tan en tera quant en mar, e d’aquelhas per vezer per so ieu me pody
far verdadieyra fe, en que ay sostengut grans perilhs e despens e trabals, tan en tera quant en mar, e estat en
pressos de Christias e de Sarazis 619.
E se Antoine de la Sale parte sulle orme della Sibilla per asserirne la falsità, Ramon scende nella fossa
purgatoriale per dimostrarne l’autenticità. La partenza per l’avventura ricalca così lo schema romanzesco,
consolidando quella confusione tra vita e letteratura, a cui abbiamo in precedenza accennato. L’aspetto
ludico della costruzione letteraria presente nei resoconti di viaggi ‘immaginari’ sembrerebbe predominante,
se il fulcro delle narrazioni non fosse comunque riconducibile a una preoccupazione morale e edificante, su
cui Antoine insiste nella sua conclusione. Antoine sta tessendo un jeu, ma il gioco conferma l’appartenenza
al côté maligno della donna ofidica e contemporaneamente cala sulla credenza ‘folklorica’ una grave ipoteca
morale, poiché la ricerca dell’antro della Sibilla coincide con un percorso di perdizione.
Antoine procede come Wace nel Roman de Rou620 per smontare la pretesa veridicità delle merveilles. Nel
ripercorrere le tracce delle questes cavalleresche tra le ombre della foresta di Broceliande, Wace parla di
fantasticherie e di leggende dei Bretoni, senza ricondurle a una matrice diabolica; l’origine demoniaca dei
simulacra sibillini, invece, ne altera completamente la fisionomia, poiché il regno ipogeo e la sua splendida
regina sono sì irreali, ma, essendo insufflati dal demonio, possiedono una perturbante capacità di influire
sulla dimensione reale, spingendo gli ingenui o gli ambiziosi a smarrirsi nelle viscere della montagna.
618
Antoine de la Sale, Le Paradis de la reine Sibylle, p. 43.
Ramon de Perelhos, Viatge, www.rialto.unina.it.
620
Wace, Roman de Rou, vv. 11514-11539 ; cfr. cap. 1.
619
118
In conclusione, benché Antoine cerchi al termine della sua relazione di viaggio nella grotta della Sibilla di
dissuadere i suoi lettori dal credere nell’esistenza della regina, la fama del lago e della grotta, quali luoghi
speciali per compiere consacrazioni negromantiche di libri di magia, era già fortemente radicata e il
resoconto dello scrittore francese, con il suo accenno alla responsabilità del Maligno, non fa che fortificare il
già noto 621.
Discepoli della Sibilla finiranno sul rogo come stregoni, a partire da Cecco d’Ascoli (1327), che proprio ne
L’Acerba dedica agli spazi sibillini versi significativi 622, per continuare nel 1505 con Giovanni delle Piatte, il
quale nel verbale del suo processo dichiara:
Et deliberarono di andare in lo monte de le Sibille, zoé come si dize, el monte di Venus ubi habitat la donna
Herodiades (sic dicta). […] Et cusì disse che la donna Venus se transforma tre dì de la septimana de la
zentura in zoso in uno serpente […] et apppare che sia como una altra donna ma freda a toccare 623.
La presenza di demoni sotto spoglie femminili diviene, d’altronde, il tratto distintivo dei purgatori
trecenteschi: come Jehan de Mandeville all’uscita della Valle del Diavolo raccoglie testimonianze su donneserpente, i visitatori del Purgatorio, prima di accedere al giardino edenico, devono sconfiggere inganni visivi
dalla fisionomia femminile, come vedremo nel prossimo paragrafo.
3.2.4 La catabasi fisica e corporea nell’Aldilà: i resoconti dei viaggiatori del Purgatorio di San Patrizio e i
metamorfi femminili
Dei racconti sul Purgatorio ci interessanto due aspetti: la cristallizzazione di una scrittura che trasformandosi
in «discours du voyageur» 624 contribuisce a veicolare la realtà fisica dei regni metafisici; l’associazione
sempre più stretta tra i metamorfi femminili che abitano le cavità ipogee e i demoni: i corpi femminili sono le
maschere indossate dai diavoli nell’Aldilà e quindi probabilmente anche nella dimensione terrena.
In merito al primo punto, il Viatge di Ramon de Perelhos, per quanto ultimo in ordine cronologico (1397),
rappresenta un importante esempio di quella letteratura di viaggio ‘immaginario’ di ambito cortigiano, che si
diletta nella ricostruzione di resoconti circostanziati, ribaltando il valore fizionale di merveilles e avventure.
Imparentato con gli esperimenti di Jehan de Mandeville e di Antoine de la Sale, il testo del visconte di
621
È vero che si registra uno scollamento tra le intenzioni dell’autore e la possibile ricezione del testo. Le intenzioni
dell’autore potrebbero illuminare le linee della dialettica transculturale che si instaura tra il soggetto narrante e il magma
di credenze ‘folkloriche’: la soggettività sceglie quale indice di realtà attribuire alle leggende, salvo poi essere incapace
di controllare il rifluire dell’opera all’interno di un flusso di ricezione collettiva che vi ritrova la conferma delle proprie
certezze.
622
Il legame di Cecco con l’antro della Sibilla conferma che le tradizioni sull’antro e sul lago erano già fortemente
radicate prima dei suoi affioramenti letterari. Cecco d’Ascoli, L’Acerba, libro IV, 3: « Lo spazio che su fra le stelle
vedi/Fra il gonfalone e il pozzo e il fuoco sacro/Il gran segreto voglion che tu credi./Lì sono li caratteri segnati./Le lor
virtuti qui non ti dissacro/Quai fur dalla Sibilla sigillate». Edizione elettronica: www.bibliotecaitaliana.it.
623
Processo a Giovanni delle Piatte, verbale citato da L. Muraro, La Signora del gioco, Milano, Feltrinelli, 1976, pp.
73-75. È interessante notare come Giovanni delle Piatte riferisca una metamorfosi più fedele a quella melusiniana che a
quella sibillina: la donna Venus si trasforma solo dalla cintola in giù.
624
F. Wolfzettel, Le discours du voyageur.
119
Perelhos, nel suo configurarsi come plagio della versione in prosa antico-francese della catabasi del cavaliere
Owein, si colloca in un punto intermedio tra il divertissement e la pulsione edificante, insistendo, tuttavia,
sulla veridicità del racconto. Appropriandosi integralmente dell’esperienza di Owein e raccontando in prima
persona la sua avventurosa discesa nella fossa, Ramon esercita un’ironia beffarda e ambigua che ancora oggi
sembra orientare la ricezione del suo testo625. Nel solco di quella confusione tra vita e letteratura e di quel
cortocircuito tra opere di finzione, realtà dell’esperienza, aspirazione alla veridicità, già ricordati, il prologo
di Ramon tratteggia le coordinate mondane e sociali che possono stimolare l’esplorazione. Il visconte è
uomo di mondo, animato dalla stessa curiositas che sospinge i cavalieri arturiani verso le terre meravigliose
dell’avventura. La breve autobiografia che precede il racconto del viaggio al Purgatorio, se da un lato
conferma l’identità storica dell’autore, dall’altro disegna i contorni di un’esistenza romanzesca, sempre alla
ricerca di «causas estranhas e meravilhosas» 626. Le generalità dell’autore, contenute nelle prime dieci righe,
insistono sul valore probatorio della testimonianza personale, grazie al ricorso a formule giuridiche.
En l’an de la nativitat de Nostre Senhor M e IIIXCVIII, las vespras de Sancta Maria de setembre, obtinguda
benedictio de papa Benezeyt XIII, parti de la cioutat d’Avinho, ieu, Ramon, per la gracia de Dieu vesconte
de Perilhos e de Roda, senhor de la baronia de Seret, per anar al Purgatory de Sant Patrici 627.
A sostegno delle sue asserzioni, inoltre, Ramon chiama, a garanti e testimoni, indiscusse autorità quali il
Papa o il Re di Francia.
La veridicità, confermata dall’esperire soggettivo, costituisce, inoltre, la spinta al viaggio poiché le
meraviglie sono:
plus plasens naturalmen aquelas que hom pot saber per vista que aquelas que no son a nos se no per aussir
dire 628.
E poco oltre, Ramon fa di nuovo appello al suo desiderio di certificare e di verificare personalmente tutto ciò
di cui ha sentito parlare o narrare. La metatestualità diventa cifra compositiva, la partenza di Ramon per le
remote regioni dell’universo acquista i tratti dell’allontanamento del cavaliere errante, mentre l’allusione ai
vari viaggi compiuti sembra delineare una sorta romanzo a puntate di cui il Purgatorio costituisce un singolo
capitolo 629. La tessitura retorica si infittisce: i luoghi comuni romanzeschi si intrecciano con i topoi della
letteratura di viaggio.
Ieu, que en mon joven fuy noyrit am lo rey de Franssa Carles, am lo cal mosenhor mon payre me laysset, lo
cal era son amiralh e camarlenc, en aquela cort am tot los cavaliers e escudiers de son realme e dels autres
realms de christias, volia saber volentier et eser enformat de las cauzas meravilhozas, variablas, estranhas
que son per lo mon et agui lo cor mot enclinat de saber las cauzas per vista que no fassa per ausy dire a motz
e diversses cavaliers. E de fagz ieu me messy a seguir las aventuras del mon per totas las teras de christias e
de infisselhs e de Sarazis e de autras diversas sectas que son per lo mon, rassonablemen ni on hom pot anar.
E tan que per la gracia de Dieu la major part de las caussas que ieu avia aussidas dire ni retrayre estranhas e
625
Nel 2001 la compagnia teatrale Cie A.Clément-Gargamela Theâtre, ha presentato alla Fira de Teatro di Tarrega lo
spettacolo La fabuleuse aventure de Ramon de Perelhos, portando in scena il racconto del viaggio al Purgatorio di S.
Patrizio e mettendo in risalto gli aspetti comico-grotteschi delle avventure del protagonista. Un esempio di “modernità”
del Medioevo? Cfr. M. Di Febo, «Il teatro dell’Aldilà: un allestimento contemporaneo del Viatge al Purgatori de sanct
Patrici di Ramon de Perelhos», in Teatro medievale e drammaturgie contemporanee, L’Immagine riflessa- Quaderni,
XII, pp. 93-104.
626
Ramon de Perelhos, Viatge, www.rialto.unina.it .
627
Ibidem.
628
Ibidem.
629
Ramon de Perelhos, Viatge, www.rialto.unia.it: « ay sostengut grans perilhs e despens e trabals, tan en tera quant en
mar, e estat en pressos de Christias e de Sarazis. De las cals cauzas ieu ressitar non cury, com ieu ay preat que no sia a
la materia que ieu vuelh seguir nessesaria: tan solamen volh parlar del Purgatory de sant Patrici».
120
meravilhozas, ieu ay vistas tan en tera quant en mar, e d’aquelhas per vezer per so ieu me pody far
verdadieyra fe 630
La rievocazione della partenza si avvale di un linguaggio marcato e codificato all’interno della letteratura
romanzesca. Innanzitutto il desiderio di avventura nasce in una situazione sociale cortigiana che evoca
l’incipit di tanti romanzi arturiani 631: mentre si raccontano gesta e imprese, l’eroe decide di intraprendere a
sua volta l’erranza (ieu me mezi a seguir las aventuras del mon). Topico, invece, della letteratura odeporica è
il motivo dell’esotismo e della conoscenza per mirabilia, quell’edurre dilectando che aveva decretato il
successo sia delle relazioni di viaggio sia delle raccolte di mirabilia, purché sostenute e certificate oculata
fide. Il polo d’attrazione è, infatti, costituito da quelle «causas meravilhozas, variablas e estranhas que so per
lo mon». Diversità, estraneità e meraviglia sono le categorie che modellano le relazioni di viaggio. Ma il
testo è una relazione di viaggio fisico a metà: fino all’ingresso della fossa, dopodiché Ramon opera nel regno
della pura finzione letteraria, mettendo a frutto le sue passioni e le conoscenze condivise con il sovrano
aragonese. Come Jehan de Mandeville e Antoine del la Sale, Ramon costruisce a tavolino un racconto che ha
la pretesa di spacciarsi come resoconto di un viaggio reale e che deriva, al contrario, dalla manipolazione di
precedenti fonti scritte o orali. Le linee comuni che attraversano le tre opere illuminano le possibile direttrici
della ricezione da parte di un pubblico che è alla ricerca di meraviglie straordinarie, rigorosamente certificate
come vere. Anche in questo caso, come in Antoine de la Sale, le intenzioni dell’autore sono probabilmente
sopraffatte da un desiderio divergente dei lettori. I tre testi confermano la commistione che si realizza tra gli
stilemi della scrittura odeporica, i tratti distintivi della letteratura visionistica e le convenzioni romanzesche,
monopolizzati dalla «certificazione autoptica». Questa intersezione/interazione stilistica sembra, infatti,
rispondere all’orizzonte di attesa del pubblico, come testimoniano le richieste che il signore di Ramon,
Giovanni I d’Aragona, inviava al suo fedele legato. Nel 1378, l’Infante d’Aragona chiede al visconte, in
missione diplomatica a Cipro, di procurargli l’opera di Odorico da Pordenone, De mirabilibus Terrae
Sanctae, mentre in una missiva del 1386 prega Ramon, all’epoca soggiornante alla corte del re di Francia a
Parigi, di inviargli il racconto integro e veritiero del viaggio del cavaliere al Purgatorio di San Patrizio. Nel
1394, il re aragonese omaggiava la figlia, Contessa di Foix, di un volume contenente la traduzione de «lo
Purgatori de sent Patrici»632. In una lettera del 1379, invece, l’Infante informa il visconte di essere entrato in
possesso di una bellissima copia del «Lancelot en francès» 633. Dalle meraviglie orientali a quelle occidentali,
passando per il capolavoro della rappresentazione della cavalleria tardo-medievale (il ciclo del LancelotGraal), il sovrano suggellava il sodalizio letterario con il suo vassallo ed esprimeva la tendenza comune del
gusto del pubblico cortigiano del secolo XIV.
Tornando, invece, al nostro Viatge, la sezione che corrobora la fisicità dell’iter e la verità della narrazione è
quella contenente la descrizione geo-etnografica dell’Irlanda. I viaggiatori trecenteschi al Purgatorio, in
effetti, raggiunsero tutti la Station Island, come testimoniano i lasciapassare rilasciati dalla corona inglese634.
Il Purgatorio è localizzato sull’isola del Lough Derg, secondo quanto affermato già da Giraldo di Cambria
nella Topographia Hibernica 635 e confermato dal racconto dei pellegrini-visitatori, da Giorgio Grissaphan a
Antonio Mannini 636.
630
Ibidem.
Si pensi ad esempio a Le chevalier au lion, in cui il racconto della sconfitta di Qualogrenant genera in Ivano il
desiderio di cimentarsi nella stessa avventura e di vendicare l’affronto subito dal cugino; Chrétien de Troyes, Le
chevalier au lion, ed. M. Roques, Paris, Champion, 1982, vv. 141-580.
632
Tutte le lettere sono riportate da M. de Riquer, Història de la literatura catalana, 3 voll., Barcelona, Ariel, 1964, vol.
2, cap. XI, pp. 310-33, le lettere alle pp. 310-314, p. 313.
633
Riquer, Història de la literatura catalana, p. 314.
634
T. Rymer, Foedera, Conventiones, Literae et cujuscunque generis Acta Publica inter Reges Angliae et alios quosvis
imperatores, reges, pontifices, principes vel communitates, Hagae Comitis, J. Neaulme, 1704-1735, voll. 10. In
particolare il vol. 8.
635
Giraldo di Cambria, Topographia Hibernica, II, V, pp. 74-75.
636
Tutti i viaggiatori dei secoli XIV-XV parlano, infatti, dell’isola in cui sorge il Purgatorio, da Giorgo Grissaphan ad
Antonio Mannini (cfr. Barillari, «Passaggi in Irlanda»). Nel Liber revelationum di Pietro di Cornovaglia, l’autore riporta
631
121
Gli Irlandesi sono «salvages» 637, secondo quanto stabilito dai canoni antropologici della scrittura odeporica,
ma sono anche dotati di una certa urbanità, così come il Gran Khan o il Prete Gianni costituivano degli
esempi di civiltà nelle relazioni sui viaggi orientali. Degli Irlandesi è necessario evidenziare, innanzitutto, la
diversità, in linea con una convenzione letteraria che nell’ipertrofia della difformità fonda il suo orizzonte di
attesa:
E per so quar lor costumas son fort estranhas, lo plus cort que ieu poyray vo.n contaray alcunas cauzas 638.
Gli Irlandesi possiedono tutti gli attributi codificati dei popoli selvaggi. L’alone negativo è irradiato dalla
comparazione con i saraceni, soprattutto con le loro abitudini guerriere 639; gli irlandesi inoltre, non bevono
vino (come i musulmani) né mangiano pane, ma soltanto carne; l’abbigliamento è sommario, uomini e donne
indossano semplici mantelli, senza calzature né calzamaglie né gonne 640. Gli irlandesi, dunque, presentano
tratti primitivi.
Con l’arrivo sull’isola in cui è situato l’ingresso al Purgatorio, si apre la sezione quarta. Ramon torna al suo
antigrafo francese, di cui segue l’esatta scansione, innovando soltanto in alcuni punti, autorizzato appunto
dalla scrittura autobiografica. La traversata del lago avviene in condizioni di iperbolica precarietà 641, mentre
il momento dell’accesso alla fossa viene ritardato dalla descrizione dettagliata ed enfatica dei preliminari: il
visconte assiste al requiem mattutino; chiama a sé figli e nipoti che, assenti per l’intera durata del viaggio,
sembrano d’un tratto spuntare dal nulla; dà disposizioni testamentarie, ordina cavalieri i suoi due figli e
qualche altro nobile di passaggio e infine si avvia con la processione alla porta del Purgatorio. Di fronte alla
prova più difficile, sembra che il cavaliere solitario abbia bisogno di evocare una pletora di testimoni 642, al
punto che la discesa oltremondana avviene in compagnia del signor Guillaume de Courcy, di cui in seguito si
perderanno le tracce. Il dubbio sulla corporeità del viaggio del cavaliere Owein circolava già in epoca
pressoché coeva alla composizione del Tractatus 643, nel corso del secolo XIV l’idea che la visita al
Purgatorio si dispiegasse sulle ali di visioni fantastiche aveva fatto breccia negli spiriti più scettici. Ramon,
dunque, non poteva semplicemente vestire i panni del suo alter-ego implicito e raccontare i terribili tormenti
e la sofferenza dei peccatori. Ricorre così a un escamotage narrativo: il profondo sonno 644 dal quale viene
le divergenti opinioni sulla localizzazioni del Purgatorio, confrontando le affermazioni del monaco di Saltrey con quelle
di Giraldo. Easting, «Peter of Cornwall's account», pp. 411-12: « Dicunt enim quidam quod introitus illius est per
portam quandam, sicut continetur in libro de quo prius fecimus mentionem qui est scriptus de Purgatorio Patricij. Alij
autem dicunt quod quedam sedes extra curtem cuiusdam senis qui ibi manet sunt parate quasi in quodam herbario sive
viridario. Ad quas sedes qui intrat, non multa mora interveniente, accedunt ad eum demones et ut illi videtur ducunt
eum per diversa loca et tormenta».
637
Ramon de Perelhos, Viatge, ww.rialito.unina.it
638
Ibidem.
639
Ivi : « E cavalgo ses selha am un coyzy e cascun porto mantas segon que son e armo se de cota de malha e capelinas
redondas de fer a manieyra dels Moros e Sarasis e a manieyra de beruetz, e an espassas e cotels fort lonx e longuas
lansas a manieyra de aquelhas d’aquest pays antiquas que an doas brassas de lonc; las espassas son coma aquelas dels
Sarazis que nos apelham ‘genoessas’»
640
Ivi: « E los comus van enayssy coma podo, mal vestitz, enperho totz los majors porto mantels de friza e mostran las
partz vergonozas sens tota vergonha, tan las femnas coma los homes.» L’assenza di pudore costituisce non solo un
topos tematico ma anche linguistico, al punto da cristallizzarsi in un sintagma pressoché invariabile anche in altri
contesti linguistici: cfr. Cardona, «I viaggi e le scoperte», in particolare pp. 707-10: analisi del motivo della nudità
generante il gioco di parole «vergogne mostrate senza vergogna».
641
Ramon de Perelhos, Viatge, www.rialto.unina.it: «E passiey lo lac am una barqua d’un fust cavat, car d’autras barcas
non y avya».
642
Fino all’arrivo nel monastero che custodisce l’ingresso al Purgatorio, Ramon si è sempre descritto come viaggiatore
solitario.
643
Easting, «Peter of Cornwall's account», p. 412: «Licet hec omnia ut illi dicunt non in rei ueritate corporaliter sed
ymaginarie spiritualiter ei contingant.»
644
Froissart, Chroniques, IV, t. XV, p. 145, riporta le seguenti parole di Sir William de Lisle: «en dormant ils entrèrent
en ymaginations très-grandes et songes merveilleux, et veoient, ce leur sembloit, en dormant trop plus de choses que ils
n'euissent fait en leurs chambres sur leurs lits». Anche Antonio Mannini, nella sua lettera parla di sonno : «e così
orando mi addormentai, o se in estasi l’anima mi fu tratta dal corpo, o se pure andai col vero corpo, o come, non te lo
122
improvvisamente scosso per iniziare il viaggio. L’intera scena è costruita sulla precisione quasi parossistica
dei dettagli. Ramon, infatti, a differenza di Antoine che non può testimoniare di essersi addentrato nel
cunicolo, rivendica la fisicità della propria catabasi:
E quant ieu fuy dins la fossa, ieu trobiey tantotz a la fossa cap, e non ac de lonc se no qualsque doas canas de
Monpeylier. E lo cap de la fossa es un pauc torta vas la part esquera, quant hom lay intra. E de pressen que
ieu fuy al cap de la fossa, ieu vau essagar am las mos se trobaria trauc ni loc per ieu pogues passar avant, e
non trobiey degun. Es vertat que al anar que ieu fessy avant, sentegui lo cap de la fossa que era segura, que
aparia que hom si fos tengues segur. E ieu vau sentir que semblava que dejotz los pes s’en volgues intrar,
aysy que ieu me vau seyre al plus belamen que pogui. Estiey en aquel estamen ben passada una hora que no
me pensava que alres y agues; be es ver que a mi pres una susor e gran engoysosa de cor ayssy com si fos a
la mar que me feses mal que naveges. E a cap de pessa que quays, que ieu m’en dormia per lo mal que avia
agut.
E apres venc un troneyre enayssy gran que totz aquels que jamay ieu avia ausitz en la tera, se totz fossen
ensems, no me semblaran tan gran, que totz aquels que ero vengut am mi del monestier, tan los [fol. 28r]
canonges coma totz los companhos que ero vengut, lo sentiro enayssy coma si fos d’els de la tera que se fan
en l’estieu; enayssy l’ausiro, quar nos erem en temps d’ivern en los mes de setembre e lo sel era clar. De que
totz aquels que ero defora agro grans meravilhas en aquelha hora, e ieu cassiey aysy que me semblet que
tombes del sel en tera, a mon avi, e gayre e no cassiey mas de calque doas canas d’aut; enperho per la
engoysosa que ieu avia aguda, que era tot dormilhos, ieu fory un pauc enbait e per lo gran troneyre que ayssy
era estat terible que quays me avia isordat645.
Il viaggio ripercorre le tappe già calcate da Owein, fino al quarto campo, là dove l’antigrafo francese 646
autorizzava un‘ultima incursione autobiografica:
E aqui ieu vigui motz de mos companhos e motz que ieu conoysia, [fol. 31r] e motz de mos parens e
parentas. E aqui ieu vigui lo rey Don Johan d’Arago e vigui frayre Franses del Pueh, fray menor del coven de
Girona. E aqui vigui Na Aldolsa de Quaralz, la cal era ma neboda, la cal incara non era morta quant ieu parti
de la tera, ni ieu non sabia sa mort. E totz aquels ero en via de salvazio, mas per lors pecatz ero en aquelha
pena. La pena major que ma neboda avia ni sufria era per los pintamens que fassia a la cara quant era viva en
la tera 647.
Ramon, fedele alla fonte francese, non incontra metamorfi femminili, ma l’accenno alla punizione della
nipote, rea di aver ecceduto nell’uso dei belletti, sembra simbolicamente rinviare a un’alterazione
dell’identità comunque perniciosa. Il valore del suo testo all’interno della nostra indagine resta comunque la
volontà di accreditare come veridica e reale la catabasi oltremondana.
Il primo testo che, invece, coniuga veridicità dell’esperienza e incontro nel regno ipogeo con i donne
metamorfiche, è un racconto scritto da Pietro di Cornovaglia nel 1200 e inserito nel suo Liber Revelationum,
conservato da un unico manoscritto, sulla cui circolazione si hanno seri dubbi 648. Il Purgatorio di Pietro,
dunque, non sembra aver influenzato direttamente i testi successivi. Il suo récit, tuttavia, costituisce
saprei dire; quello che vidi e quello che mi fu mostrato e quel che feci non te lo posso scrivere per lettera», cfr. Frati, «Il
Purgatorio di S. Patrizio secondo Stefano di Bourbon e Umberto da Romans», Giornale storico della letteratura
italiana, 8, 1886, pp.140-189, p. 160. William of Staunton confessa di essersi «sumwhat slumbered and slepte»; cfr.
G.P. Krapp, The Legend of Saint Patrick's Purgatory: its later literary History, Baltimora, 1900, p. 59.
645
Ramon de Perelhos, Viatge ; www. rialto.unina.it.
646
Les versions en prose du Purgatoire de Saint Patrice en ancient français, 9, 4, p. 100 : «La vit li chevaliers de ses
compaignons et bien les counut».
647
Ramon de Perelhos, Viatge, www. rialto.unina.it.
648
Cfr. Easting, «Peter of Cornwall’s account».
123
un’attestazione importante di un nucleo mitico di larga diffusione, alla cui base Barillari 649 pone il
mitologema di una ierogamia rituale con una divinità ctonia dispensatrice di benessere e di ricchezza. Non è
questo, però, il nostro terreno d’inchiesta, quanto quello di una ricorsività della presenza di creature
femminili metamorfiche all’interno dei racconti patriciani, proprio a partire dal secolo XIV. Il plot narrativo
della catabasi purgatoriale, infatti, non contempla all’origine l’incontro con esseri femminili, come abbiamo
visto nell’analisi del testo di Ramon de Perelhos. La particolarità del Purgatorio di san Patrizio consiste nel
suo costituirsi come una traccia plasmabile sulle immagini mentali dei soggetti che vi entrano, a differenza
degli altri racconti oltremondani, sempre fedeli, anche nel corso delle varie riscritture, alla visio dell’unico
protagonista eletto 650. Ma, poiché le immagini mentali soggettive si nutrono in realtà di altre memorie
collettive, la costellazione testuale del purgatorio patriciano si pone come una sorta di laboratorio delle
intersezioni delle memorie culturali 651. Ed è proprio al punto di intersezione che si colloca il trasferimento
della metamorfosi femminile all’interno del terzo regno. La discesa al Purgatorio, inoltre, fin dalla sua prima
registrazione scritta, si impone per la fisicità del viaggio del suo protagonista 652; ciò garantisce il medesimo
statuto di realtà esperienziale anche ai resoconti successivi, così che tutto il filone testuale del viaggio
purgatoriale è fondamentale per ricostruire le linee dello slittamento ontologico del meraviglioso.
Ciò premesso, torniamo al primo testo in ordine cronologico. Pietro di Cornovaglia nella sua raccolta Liber
revelationum653 riporta in ordine progressivo tre testi riguardanti il purgatorio di cui due connessi al
Purgatorio di S. Patrizio: il primo è una trascrizione della versio lunga del Tractatus 654, il secondo narra la
discesa di un anonimo cavaliere all’interno del Purgatorio di S. Patrizio; il terzo è la visione purgatoriale di
Ailsi 655. La visita oltremondana dell’anonimo cavaliere costituisce un testo di particolare interesse, in quanto
è il primo ad essere informato dalla dialettica tra ciò che il soggetto esperisce attraverso la vista e ciò che
oggettivamente si accampa davanti a lui: la visio ultraterrena di Pietro, infatti, ha uno statuto allucinatorio
che sarà proprio dei testi trecenteschi. Inoltre Pietro premette un’introduzione che anticipa lo slittamento del
racconto dell’avventura oltremondana verso la letteratura di viaggio, poiché fornisce le precise coordinate
per raggiungere la parva insula, calcolando addirittura la distanza da Dublino. Quindi procede alla datazione
dell’avventura: sotto il regno di Enrico II 656. La data e le coordinate geografiche concorrono a fondare
l’impianto probatorio del racconto, vero e reale. Ciononostante i dubbi teologici sulla catabasi corporea
spingono Pietro a riferire le tesi contrapposte dei sostenitori dello statuto immaginario o fisico del viaggio:
Licet hec omnia ut illi dicunt non in rei ueritate corporaliter sed ymaginarie spiritualiter ei contingant. 657
L’autore non si sbilancia a favore dell’una o dell’altra ipotesi, ma decide di narrare l’ingresso dell’anonimo
cavaliere al Purgatorio, chiamato anche regno di Gulinus 658. Accolto dalla masnada di Gulinus, che giunge
649
Barillari, «La città delle Dame», pp. 109-121.
La visio di Tundalo, per esempio, conserva, pur nelle aggiunte posteriori, la sua unità morfologica e strutturale,
poiché non permette l’innesto di interpolazioni soggettive, come avviene invece nelle differenti relazioni della catabasi
patriciana, all’interno delle quali la presenza di protagonisti diversi autorizza interventi individuali.
651
Nei testi patriciani, infatti, la tradizione visionistica veicolata dal Tractatus e dai volgarizzamenti da esso dipendenti,
si connette al nucleo mitico-folklorico dell’incontro nel regno oltremondano, strutturato come una sorta di Paese di
Cuccagna, con la Signora del palazzo. Le ierogamie rituali di cui parla la Barillari presentano notevoli affinità con
racconti sciamanici sui viaggi iniziatici in altri universi; cfr. Barillari, «La città dell Dame», pp. 109-121.
652
H. di Saltrey, Tractatus de purgatorio sancti Patricii, pp. 144-146: «Sunt quidam qui dicunt intrantes, cum aulam
primum intraverint, in extasi fieri et predicta ab eis in spiritu videri. Quod quidem miles omnino non concessit, quia
corporalibus oculis hec se vidisse et in copore corporaliter pertulisse dixit».
653
Composto nel 1200 ca., il Liber è conservato da un unico manoscritto, Lambeth Palace MS 51 ed è inedito.
654
Edita da Easting, St. Patrick's Purgatory, pp. 121-54.
655
R. Easting -R. Sharpe, «Peter of Cornwall: The Visions of Ailsi and His Sons», Mediaevistik, 1 (1988) : 207– 63.
656
Easting, «Peter of Cornwall’s account», p. 410.
657
Ivi, p. 412.
658
Sulle connessioni tra Gulinus e Culann, il mitico fabbro di Slieve Gullion, cfr. Y. de Pontfarcy, «Accounts and Tales
of Lough Derg or of the Pilgrimage», in M. Haren & Y. de Pontfarcy, The Medieval Pilgrimage to St Patrick’s
650
124
nella sala del palazzo sotterraneo con lo stesso fragore della mesnie Hellequin 659, il giovane cavaliere è
invitato a trascorrere la notte con la principessa, che il mattino si rivelerà essere un tronco secco, in cui resta
imprigionato il suo membro virile:
Et ecce cum crederet se miles uti connubio illius puelle, aperti sunt oculi eius et vidit truncum vetustissimum
et aridissimum et deformem iacere inter amplexus eius et virilem ipsius virgamin quodam foramine facto in
illo trunco coartatam 660.
La progressione degli attacchi demoniaci è continuamente giocata sul potere incantatorio e illusionistico dei
demoni: tutto il regno di Gulinus è un inganno che cela solo il disperato sadismo delle pene. A differenza del
Tractatus, in cui i tormenti si offrono agli occhi del pellegrino nella loro cruda verità e terribilità, una visio
dunque profeticamente trasparente, il cavaliere di Pietro deve innanzitutto sottrarsi alle insidie dei fantasmi.
Tra questi si colloca anche la principessa-tronco, che nella progressione dei tormenti inflitti al cavaliere
rappresenta la pena per il peccato di lussuria 661. Un altro aspetto interessante del racconto di Pietro è
costituito dalla configurazione del territorio ctonio come un vero palazzo regale, più vicino al palazzo della
Sibilla che alle lande penali dell’Oltretomba. L’aula sotterranea raggiunta dal cavaliere non somiglia a un
chiostro, come nel Tractatus, ma possiede tutti gli attributi di una sala regia:
Erat igitur aula illa magna et decora valde et omnia que domini regie erant necessaria continens662.
Nelle relazioni tecentesche, i cui protagonisti sono tentati da avvennenti fanciulle, il paesaggio infernale è
sapientemente dissimulato attraverso la cortina di un’ambientazione cortese: verzieri, palazzi, radure, dove le
damigelle svolgono tutte le piacevoli attività della socialità cortigiana, dal canto al gioco degli scacchi. Il
purgatorio di Ludovico di Sur 663, così come l’antipurgatorio attraversato da Giorgio Grissaphan 664, diverge
profondamente dalle lande desolate e «gastes» funestate da vento e tempeste che Owein si trova ad
affronatare nel Tractatus. Le catabasi tardive congiungono, quindi, al pellegrinaggio purgatoriale, la cui
fisicità e realtà sono comprovate dalla testimonianza dei sopravvissuti, l’incontro con esseri femminili, pronti
a rivelare la loro facies demoniaca. Nel racconto di Ludovico di Sur, disceso nella fossa nel 1358 secondo
quanto riportato nel prologo 665, la prova principale è costituita dalla capacità di resistere alla tentazione delle
fanciulle. Alle loro ingannevoli apparenze si contrappone l’oggettività delle pene purgatoriali, così che a
livello topografico i due elementi si dispongano frontalmente: su un versante i demoni sotto le spoglie di
splendide fanciulle, sull’altro le pene:
Et scias quod invenies temptationes maximas dominarum et domicellarum pulcerrimarum tuo videre, que
temptabunt multum si poterunt decipere te. Ab alio latere videbis maxima pennas et tromenta 666.
Come nel Paradiso della regina Sibilla, ciò che caratterizza questa società femminile è la sua apparente
normalità: Ludovico incontra dapprima fanciulle danzanti, poi giunge in un grande prato dove si imbatte in
Purgatory, Lough Derg end the European Tradition, Enniskillen, Clogher Historical Society, 1988, pp. 35-57, su Pietro
di Cornovaglia, pp. 43-48.
659
L’arrivo di Gulinus è così descritto: « strepitus redarum et tumultus acclamantium populorum, quasi totus mundus
concuteretur», Easting, «Peter of Cornwall’s account», p. 414. Sulla connessione di Gulinus con Hellequinus, cfr.
Easting, «Peter of Cornwall’s account», p. 406.
660
Ivi, p. 414.
661
Tra gli altri tormenti, il cavaliere è prima immerso in un bagno bollente, corrispondente al fiume di fuoco dei
paesaggi penali oltremondani, poi in un bagno freddo, a sua volta traduzione del fiume gelido.
662
Easting, «Peter of Cornwall’s account», p. 414.
663
Barillari, «Il Purgatorio di Ludovico di Sur».
664
Visiones Georgii.
665
Barillari, «Il Purgatorio di Ludovico di Sur», p. 800.
666
Ibidem.
125
una «dominam anticham» 667; quindi raggiunge un monastero femminile e, in successione, un albero enorme
all’ombra del quale tre fanciulle giocano a scacchi, e un palazzo da cui:
respesi versus unum montem et vidi unum pulchrum castrum de quo videbatur exire illa domina quam
videram prius cum illis domicelabus 668.
Le donne che tentano di ostacolare il cavaliere, in realtà, non si trasformano mai in veri e propri demoni –
informazione che il lettore può inferire soltanto dai consigli preliminari offerti dai monaci bianchi (cfr.
supra)- ma la costante associazione con un particolare animale infernale potrebbe suggerire che ci troviamo
di fronte a una sorta di metamorfosi dissociata: nei luoghi di pena, infatti, Ludovico incontra soltanto
serpenti:
Milles, tu bene vidis illos orribiles serpentes, ita quod serpentes illi proicient te in dicto igne 669.
Respiciens autem ab allia parte vidi serpentes cum clavibus igneis 670.
Visum fuit michi quod isti serpentes caperent me et in isto putheo eicerent 671.
Nelle Visiones Georgii, il cavaliere ungherese Giorgio Grissaphan che visita il Purgatorio nel 1353, deve
affrontare un Antipurgatorio abitato da vere e proprie tentazioni probatorie 672. Nella terza visione, Giorgio
giunge dinanzi ad una città cinta da mura:
de cuius porta vidit euntem quandam dominam supra modum et valde mirabiliter amabilem et formosa et
pulcherrimam 673.
La donna, accompagnata dalle sue ancelle, gli offre la propria mano e la città, ma volgendo lo sguardo in
basso, Giorgio si accorge che da sotto le vesti spuntano piedi in forma di zoccolo bovino ed equino. La
deformità deambulatoria è chiaro indice della natura demoniaca e metamorfica della signora.
Ciò che colpisce all’interno di questi purgatori tardo-trecenteschi è lo statuto della visione, non più profetica,
bensì ingannatrice, illusoria, riflesso di una concezione del reale problematica, incerta, all’interno della quale
la vista può essere messa in scacco da apparenze che occultano la facies terribile della dannazione
demoniaca. Come le Melusine del secolo XII nascondevano dietro lo schermo di corpi avvenenti la loro
intima natura maligna, così le donne anguipedi dell’oltretomba celano la loro essenza negli inganni visivi.
L’alterazione della fisionomia esteriore che caratterizza gli esseri femmnili dei purgatori trecenteschi
sembrerebbe rafforzare proprio una concezione illusionista dei poteri del Maligno, Magnus Illusor. In realtà,
la capacità di manipolazione del demonio si è accresciuta nel corso dei secoli, tanto che, per rassicurare
Huon d’Auvergne della natura benigna delle fanciulle incontrate nell’altro mondo, è necessario ricorrere
all’affermazione della loro corporeità. L’espediente ha la funzione di confondere ulteriormente il protagonsta
che scoprirà in seguito l’essenza demoniaca delle donne:
Celles distrent: «Vasal, vos dit avon
Quel giant somes et quel vie façon
667
Ivi, p. 801.
Ivi, p. 803.
669
Ivi, p. 801.
670
Ibidem.
671
Ivi, p. 802.
672
Visiones Georgii, p. 147: «Nam superatis itaque in virtute Christi supradictis tempatcionibus idem Georgius per viam
suam ultra progrediens vidit quendam lacum ignitum».
673
Ivi, p. 115.
668
126
Cors et spirit tot ensamble tenon.
Et si de ce agié point doteson
Apalpe nos al flans e la menton !
Lors sentireç si somes carn o non» 674.
Nella versione italiana di Andrea da Barberino, la dialettica tra natura illusoria, quale indice diabolico e
natura corporea, indice di creaturalità divina, è ancora più esplicita:
Io dubito che questo Regno non à criatura umana e che voi non siate malvagi spiriti! E quelle rispuoseno:
diteci a noi che cosa sono spiriti; noi abbiamo cuore e spirito come voi, e insieme corpo; e se nollo credete
tastate tutte e vedrete se noi siamo di carne o no! 675.
La sensazione di accerchiamento che pervadeva i testi del secolo XII nei confronti di creature aliene, capaci
di dissimularsi nella normalità quotidiana, risulta potenziata. Nei regni oltremondani dove i metamorfi
femminili sono stati ricacciati nel secolo XIV, la paura di restare vittima degli intrighi diabolici è espressa
proprio dalla capacità del demonio di alterare anche l’antropologia e il paesaggio di un oltretomba infernale,
la cui terribilità era nelle visiones precedenti, esplicita e nitida. Il Nemico tesse le sue trame e impedisce il
riconoscimento della propria identità anche laddove, nell’Aldilà, non dovrebbero frapporsi schermi. A fronte
di una psicosi da epidemia stregonesca che nel secolo XV cominciava a diffondersi in Europa, i resoconti sui
viaggi oltremondani, suggellati dalla certificazione della testimonianza oculare corporea soggettiva,
sembrano rafforzare l’idea di un complotto occulto, accolto nelle viscere della Terra. L’ossessione misogina
sulla donna veicolo di dannazione spinge a recuperare motivi e schemi mitici passibili di una
risemantizzazione unidirezionale: le tracce delle antiche ierogamie rituali con le divinità ctonie servono a
consolidare la fede in uno straordinario sostanzializzato e capace realmente di incidere sulle azioni degli
uomini.
Conclusioni
L’interrogativo che guida le ricerche sul passato spesso si origina nel presente e da qui suggerisce
un’indagine sul senso che, mentre si sottrae alle sovrapposizioni semplicistiche e anacronistiche, tenta di
ricostruire scenari i cui punti di arrivo stimolano riflessioni sui procedimenti culturali di trasformazione e di
gestazione di lunga durata. Tuttavia, come insegnava Benjamin la storia non è un continuum, bensì un
succedersi di attimi, all’interno del quale sono i punti di rottura, le inversioni gli snodi significanti. Anche
questa ricerca è partita da un interrogativo che riverbera dal presente, ovvero come e quando mutano alcuni
complessi ideologici delle élites intellettuali e perché. E in particolare come si passa, nel corso di un lungo
periodo di incubazione, dalla natura fantastica di alcuni fenomeni culturali alla loro realtà effettuale,
implicando, in questo modo, uno slittamento e quindi una ricostituzione di sistemi epistemologici e
gnoseologici. Discorso ampio che la nostra indagine non aveva la pretesa né di esaurire né di chiudere, ma
che molto modestamente si è proposta di studiare un aspetto, la trasformazione dello statuto ontologico di
alcuni motivi culturali ascrivibili al campo del meraviglioso, in modo da avanzare l’ipotesi che una
formazione nuova nasce, non tanto da un conflitto, quanto da una dialettica transculturale sfociante in ultima
istanza nella rielaborazione di certe credenze, al termine del processo, largamente condivise. Il focus, come
abbiamo visto, è costituito in particolare dall’incarnazione/metamorfosi di alcune figure femminili
comunemente definite feriche, appartenenti al mitologema della donna/dea ofidica. Per comprendere meglio
il meccanismo di ‘incorporazione’ è stato necessario inserire la suddetta trasformazione, all’interno di un
674
E. Stengel, « Huons von Auvergne Keuschheitsprobe, Episode aus der franco-venezianischen Chanson de geste von
Huon d'Auvergne nach den drei erhaltenen Fassungen, der Berliner, Turiner und Paduaner », in Mélanges de philologie
romane et d'histoire littéraire offerts à M. Maurice Wilmotte à l'occasion de son 25e anniversaire d'enseignement, Paris,
Champion, 1910, voll. 2; t. 2, pp. 685-713; lassa CCLXII, p. 695.
675
Andrea da Barberino, Storia d'Ugone d'Alvernia, a cura di F. Zambrini, Bologna, Romagnoli, 1882 (rist.: Bologna,
Commissione per i testi di lingua, 1968), voll. 2, cap. XXXVIII, p. 324.
127
processo più vasto che tocca vari settori della vita culturale dei secoli XII-XIII, ovvero quella necessità di
dare corpo ai fantasmi che ha avuto influenti ricadute sull’intero edificio epistemologico. Spesso, parlando
del Medioevo, si è messo giustamente l’accento su quella che viene unanimemente definita mentalità
simbolica e, tuttavia, proprio nel corso dei secoli XII-XIII convive accanto al simbolismo una pulsione
all’allegoria -allegoria secondo la definizione di Benjiamin- in grado di recuperare la physis dell’esistenza
nella sua corporeità e nella sua tragica caducità. Questa spinta allegorica conduce ad una sorta di
incarnazione di tutto ciò che fino a quel momento ha vissuto solo in spirito. A determinare questo
movimento di incarnazione concorre l’intersezione di molteplici livelli culturali, in realtà distinguibili solo
per comodità euristica, ma nella fattualità contrassegnati sempre da mescidazioni e interazioni, dimostrando
quanto sia difficile e arduo approcciare la questione della cultura folklorica all’interno delle elaborazioni
dotte dell’età di mezzo soltanto in termini di sopravvivenze e di ritorno del rimosso, postulando sempre e
soltanto un eterno conflitto tra cultura alta e cultura ‘popolare’. I nostri autori mediolatini dimostrano, infatti,
quanto all’interno di una cultura condivisa, le concezioni magico-folkoriche fossero parte integrante di quel
tentativo di escogitare forme di leggibilità di un reale in movimento, per il quale le categorie del simbolismo
patristico risultavono ormai inadeguate.
Bibliografia
Fonti
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