"Ianua Regni". Il ruolo di Arce e del castello di Rocca d`Arce nella

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"Ianua Regni". Il ruolo di Arce e del castello di Rocca d`Arce nella
Testis Temporum
Collana di
Fonti e Studi sul Medioevo dell’Italia Centrale e Meridionale
diretta da Fulvio Delle Donne
1
Volume pubblicato col patrocinio di:
Comune di Arce
Comune di Colfelice
Comune di Rocca d’Arce
Regione Lazio – Assessorato Cultura, Spettacolo, Sport
Amministrazione Provinciale di Frosinone
Agenzia Provinciale per il Turismo
XV Comunità Montana “Valle del Liri” – Arce
Con la partecipazione di:
In copertina:
miniatura posta alla c. 108r del ms. 120 II della Burgerbibliothek di Berna
(Petrus de Ebulo, Liber ad honorem Augusti)
Progettazione ed elaborazione grafica di
Marco D’Emilia
Ianua Regni
Il ruolo di Arce e del castello di Rocca d’Arce
nella conquista di Enrico VI di Svevia
a cura di
Fulvio Delle Donne
© 2006 Nuovi Segnali
Via Corte Vecchia, 36 – 03032 Arce (FR)
Tel: 0776 523260 - 333 6315590
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[email protected]
ISBN 88-89790-09-1
Riservati tutti i diritti, anche di traduzione, in Italia e all’estero
Nessuna parte può essere riprodotta (fotocopia, microfilm o altro mezzo)
senza l’autorizzazione esplicita dell’Editore o degli Autori
Fulvio Delle Donne
La presa di Arce e della Rocca d’Arce
secondo le cronache coeve
Il 15 aprile 1191, all’età di 26 anni, Enrico di Svevia veniva
incoronato imperatore a Roma, in S. Pietro: si compivano, in
quel giorno, tutti gli sforzi fatti da suo padre Federico I, il
Barbarossa, che, attraverso il matrimonio tra Enrico e la normanna Costanza d’Altavilla – ultima figlia di re Ruggero e zia di
re Guglielmo II – aveva già compiuto un primo e fondamentale
passo verso l’unificazione del Regno di Sicilia e dell’Impero 1 .
Era il lunedì di Pasqua, quando il nuovo Cesare venne nella città
eterna per ricevere l’unzione imperiale: «Exultat pompis inclita
Roma novis»; «esulta l’inclita Roma con nuova festosa magnificenza», dice Pietro da Eboli (v. 261), autore di un’opera storicoencomiastica in distici dedicata proprio a Enrico VI. E il suo racconto continua, ai vv. 264-67:
«Balsama, thus, aloe, miristica, cinnama, nardus,
regibus assuetus ambra modestus odor,
per vicos, per tecta fragrant, redolentque per urbem,
thuris aromatici spirat ubique rogus» 2 .
1
Sulle vicende biografiche di Enrico VI si veda almeno la più recente
ricostruzione di P. CSENDES, Heinrich VI, Darmstadt 1993, dalla quale si
possono ricavare più precisi e dettagliati riferimenti bibliografici.
2
Il testo proposto, qui e anche più sotto, è stato trascritto direttamente dal
manoscritto, Bern, Burgerbibl., 120 II. Gli esametri corrispondono a un numero di verso pari, perché i vv. 44 e 45 sono entrambi pentametri: ma evidentemente sono caduti dei versi, perché nel ms., dopo il v. 44, è lasciato uno
spazio bianco corrispondente a 3 linee di scrittura. L’opera, comunque, è
stata edita, con diversi titoli, più volte: PETRUS DE EBULO, Carmen de motibus Siculis et rebus inter Henricum VI Romanorum imperatorem et Tancredum seculo XII gestis, ed. Samuel Engel, Basileae 1746; ID., Carmen de motibus Siculis et rebus inter Henricum VI Romanorum imperatorem et Tancredum seculo XII gestis, in G. GRAVIER, Raccolta di tutti i più rinomati scrittori
dell’istoria generale del regno di Napoli, vol. XI, Napoli 1770; ID., Carmen
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Fulvio Delle Donne
«Balsami, incenso, aloe, miristica, cinnamo, nardo e ambra,
odore misurato adatto ai re, si diffondono per le strade e per le
case, si spandono per la città; dappertutto spira il rogo dell’incenso aromatico».
Poi prosegue ancora, con la descrizione della sacra e altamente
suggestiva liturgia dell’incoronazione, vv. 276-91:
«Primo papa manus sacrat ambas crismate sacro,
ut testamentum victor utrumque gerat.
Brachia sanctificans, scapulas et pectus inungens:
“in Christum domini te Deus unxit”, ait.
Post hec imperii correptum tradidit ensem,
quem Petrus abscissa iussus ab aure tulit.
Ensis utrimque potens, templi defensor et orbis,
hinc regit Ecclesiam, corrigit inde solum.
Iura potestatis, pondus pietatis et equi,
signat in augusta tradita virga manu.
Anulus ecclesie, regnorum nobilis arra
offertur digitis, Octaviane, tuis.
Quam geris aurate, Cesar, diadema thiare
signat 3 apostolicas participare vices.
Post hec cantatis ad castra revertitur ymnis,
mandat, in Apuliam quisque quod ire paret».
de motibus Siculis et rebus inter Henricum VI Romanorum imperatorem et
Tancredum seculo XII gestis, in G. DEL RE, Cronisti e scrittori sincroni napoletani editi ed inediti, vol. I, Napoli 1845, pp. 401-56; ID., Liber ad honorem Augusti. Nach der Originalhandschrift für akademische Uebungen, ed.
E. Winkelmann, Leipzig 1874; ID., De rebus Siculis Carmen, ed. Ettore Rota,
(RIS2 31, 1) Città di Castello 1904-1910; ID., Liber ad honorem Augusti, ed.
Gian-Battista Siragusa, (Fonti per la Storia d’Italia 39, 1-2), 2 voll., Roma
1905-1906; ID., Liber ad honorem Augusti sive de rebus Siculis. Eine Bilderchronik der Stauferzeit aus der Burgerbibliothek Bern, edd. T. Kölzer, G.
Becht-Jördens ed altri, Sigmaringen 1994. Di recente l’opera è stata pubblicata, in maniera non critica, anche da F. De Rosa, Cassino 2000.
3
Nel ms., c. 104v, dopo «signat» è aggiunto un «te» sottolineato, che
evidentemente va espunto, per motivi metrici.
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«Dapprima il papa consacra entrambe le mani col sacro crisma,
perché da vincitore possa portare l’uno e l’altro testamento. Santificando le braccia e ungendo le scapole e il petto, disse: “In
Cristo del Signore Dio ti unse”. Dopo queste cose, consegnò la
brandita spada dell’impero, che Pietro, quando gli fu comandato,
allontanò dall’orecchio che aveva troncato. Spada potente in entrambi i lati, destinata a difendere il tempio e il mondo: con un
lato regge la Chiesa, con l’altro corregge la terra. Lo scettro consegnato all’augusta mano definisce i diritti del potere, il peso
della pietà e dell’equità. L’anello della Chiesa, nobile pegno dei
regni, è offerto alle tue dita, o augusto Ottaviano. Il diadema
della dorata tiara che tu, Cesare, porti, significa che tu partecipi
agli apostolici vicariati. Immediatamente dopo, cantati gli inni,
torna agli accampamenti: ordina che tutti si preparino ad andare
in Apulia».
Andare in Apulia, cioè prendere possesso del Regno dell’Italia meridionale: questo è il primo compito che si pone Enrico VI
dopo la sua unzione imperiale. Questo era stato anche lo scopo
della sua discesa in Italia, per il quale, con il suo poderoso
esercito, era partito dalla Turingia, immediatamente dopo il Natale del 1190. Per cui non c’era da attardarsi troppo in festeggiamenti. Così, mentre i Romani, come contropartita dell’incoronazione imperiale, distruggevano Tuscolo, Enrico si fermò ancora qualche giorno nei dintorni di Roma. Poi cominciò la sua
marcia contro Tancredi, conte di Lecce, figlio naturale di Ruggero, che aveva usurpato il Regno di Sicilia, che per volontà di
Guglielmo II doveva passare a Costanza d’Altavilla, moglie di
Enrico.
«Castra movens Cesar Montis volat arva Casini,
in quo Rofridus cura fidelis erat.
Cum grege, cum populo fecit quod debuit abbas:
sola refrenavit Cesaris arma fides».
«Muovendo gli accampamenti, Cesare vola ai campi di Montecassino, in cui Roffredo era curatore fedele. Col gregge, col popolo, l’abate fece ciò che dovette; bastò la fedeltà a frenare le
armi di Cesare».
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Fulvio Delle Donne
Così ci dice ancora Pietro da Eboli (vv. 334-37), raccontando
che il nuovo imperatore, passati i confini del Regno, subito si
recò a Montecassino, dove ricevette le attestazioni di fedeltà
dell’abate Roffredo. Solo in seguito, sempre secondo Pietro da
Eboli, Enrico si volse a sottomettere Arce e la Rocca di Arce. Un
momento, questo, ritenuto decisamente importante dal poeta di
Eboli, che decide di evidenziarlo con uno specifico titolo di
capitolo: «Quando capta est per vim Rocca de Archis»; «quando
la rocca di Arce fu presa con la forza». Segue poi, in sei versi, la
narrazione, vv. 338-43:
«Subditur inperio nota vi gloria castri,
quo dux a misero rege Burellus erat.
Exemplum cuius quamplurima castra sequuntur,
Archis enim princeps nomen et esse gerit.
Quam castigato natura creavit acervo,
Hostes non recipit, saxa nec arma timet».
«Viene sottomessa all’impero, con la nota forza, la gloria del castello, dove era comandante Borrello, rappresentante del misero
re. Moltissimi altri castelli seguono il suo esempio: infatti Arce
porta il nome e la sostanza di principio. Quella che la natura ha
creato con munita altura non accoglie i nemici, non teme i sassi
né le armi».
Questi versi riferiti ad Arce e al suo castello sono piuttosto
problematici. Innanzitutto, nel v. 338, l’unico codice che riporta
il testo di Pietro da Eboli scrive «notaui», generando notevoli
problemi interpretativi nei diversi editori: innanzitutto Johann
Werner Huber propose – in maniera, a dire il vero, poco plausibile dal punto di vista paleografico – di emendare quel termine
in «rocani»; mentre Samuel Engel ed Ettore Rota proposero la
correzione in «notani», dando al vocabolo il significato di “spurio”, riferito a Tancredi, ovvero, potremmo dire noi, di “ba-
La presa di Arce e della Rocca d’Arce
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stardo” 4 . Poi, nel verso successivo, viene fatto un difficilmente
traducibile gioco di parole sul nome «Archis». Emilio Rocco,
primo traduttore in italiano, se la cava, in un primo momento,
con un sibillino: «il principe porta il nome e l’essere nelle Arche»; e, poi, facendo riferimento all’etimologia greca del termine, propone che «Archis» vada inteso come “principato, impero, comando”. Giuseppe Del Re, invece, suggerisce di tradurre «il principe porta il nome e l’essere di una rocca» 5 . L’interpretazione di «Archis» come genitivo di «arx» potrebbe essere certamente plausibile, ma, magari riferendolo al paese di
Arce, dal momento che, probabilmente, ancora secondo Paolo
Diacono il nome di Arce era «Arx» 6 . Ma, quasi sicuramente, si
fa riferimento a un gioco etimologico, o, meglio, paraetimologico sul nome di Arce come derivato da ljȡȤȲ, il principio assoluto da cui deriva ogni cosa. Insomma, Pietro da Eboli dichiara
esplicitamente il ruolo che ebbero Arce e la Rocca di Arce nella
conquista del Regno: esse, cadendo per prime, spalancarono ad
Enrico la strada del Regno. In ogni caso, nel testo del poeta
ebolitano, non mancano neppure alcune – forse volute – imprecisioni e alcune contraddizioni, nonostante che Ettore Rota, il
miglior editore di quell’opera, abbia tentato affannosamente di
giustificarle. Innanzitutto, come già rilevato da Toeche 7 , Enrico
VI non potette recarsi prima a Montecassino, e non è accettabile
l’ipotesi, sostenuta da Ettore Rota, che Pietro da Eboli non stia
parlando specificamente dell’abbazia, ma dei suoi ampi territori
circostanti. Tanto più che nelle miniature che affiancano il testo,
la consegna di Montecassino a Enrico è raffigurata come prece4
Sia per la proposta di Huber che per quella di Rota si veda la citata ed. di
quest’ultimo, p. 55. Ettore Rota, comunque, fa riferimento a un manoscritto
conservato nella Burgerbibl. di Berna, B 59, che contiene i Tentamina ad
Petri de Ebulo libros III de Motibus Siculis editos a Samuele Angelo di Jo.
Guern. Huber.
5
Per le proposte interpretative di Rocco e di Del Re, si veda la citata ed. di
quest’ultimo, pp. 411 e 445.
6
Cfr. PAULI Historia Langobardorum, ed. G. Waitz, MGH SS rer. Langob.
et Italic., Hannoverae 1878, VI,27, pp. 7-187, in part. p. 174.
7
T. TOECHE, Kaiser Heinrich VI, Leipzig 1867, p. 196, nota 1.
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dente a quella di Arce. E questa è un’altra incongruenza: nel testo si parla di presa violenta di quella città e del suo castello,
mentre nella miniatura è rappresentato Matteo Borrello che consegna spontaneamente le chiavi all’imperatore.
Insomma, cosa accadde veramente? Per capirlo dobbiamo
leggere le altre cronache coeve che ci parlano esplicitamente
della presa di Arce e di Rocca d’Arce 8 . Dobbiamo farle parlare,
esprimere, per poi interpretarle e verificare quanto dicono, cercando di capire se hanno mentito o se hanno omesso qualcosa.
Le fonti non ci dicono mai la verità oggettiva, ma al limite ci dicono una verità: spesso, ci danno una visione parziale delle cose
non perché scientemente ci vogliono indurre ad assumere una
determinata prospettiva, ma perché fanno parte di un sistema
culturale ed ideologico in cui sono talmente integrate e radicate
da non accorgersi nemmeno che stanno cogliendo solo un parziale aspetto della vicenda narrata.
Cominciamo con gli anonimi Annales Casinenses, che raccontano le vicende relative al monastero dal 1000 al 1212. Una
prima redazione stampata da Georg Heinrich Pertz dice così:
«1191: Clemens papa moritur Romae mense madii, et Iaquintus
diaconus cardinalis in papam Coelestinum consecratur, a quo supradictus Henricus apud Sanctum Petrum in imperatorem Romanorum et Constantia uxor eius in imperatricem inunguntur. Qui
descendens in regnum, eodem papa contradicente, roccam Arcis
vi cepisse visus est, unde et multae aliae munitiones stupificatae
se dicto imperatori reddiderunt. Venit autem ad Montem Casinum, ubi iuraverunt ei homines Sancti Germani de mandato decani et conventus, quia dictus abbas egrotans non poterat in talibus occupari; inde descendit et in Terram Laboris, nullo sibi obstante» 9 .
8
La Chronica regia Coloniensis, ed. G. Waitz, MGH SS rer. Germ. 18,
Hannoverae 1880, pp. 152-53, parla complessivamente di 160 città che si
sottomisero all’imperatore Enrico VI, oltre a Montecassino e a San Germano.
9
Annales Casinenses, ed. G.H. Pertz, MGH SS 19, Hannoverae 1866, p.
314. Gli Annales Casinenses sono stati precedentemente pubblicati da A.
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«1191: nel mese di maggio muore a Roma papa Clemente [III] e
il cardinale diacono Giacinto [Bobone] viene consacrato papa col
nome di Celestino [III], dal quale, in San Pietro, il summenzionato Enrico viene unto imperatore e sua moglie Costanza imperatrice. Enrico, scendendo nel Regno, contro la volontà del papa,
prese la rocca di Arce, per cui molte altre fortificazioni, colte
dalla sorpresa, si consegnarono al detto imperatore. Venne poi a
Montecassino, dove, su mandato del decano e del convento, gli
uomini di San Germano gli prestarono giuramento, dal momento
che l’abate, ammalato, non poteva occuparsi di tali faccende;
quindi scese anche in Terra di Lavoro, senza che nessuno gli opponesse resistenza».
In un’altra redazione, sempre pubblicata da Georg Heinrich
Pertz, gli anonimi Annales Casinenses così raccontano quelle
stesse vicende:
«Henricus imperator una cum supradicta Constantia imperatrice
per Campaniam descendens in regnum, roccam Arcis violento
capit insultu. Quod factum suos in audaciam, et nostros inducit
in diffidentiam, ut iam nec loca munitissima de resistendo cogitent: unde Sorella, Atinum, Castrum Coeli non tam bello, quam
stupore devictae se reddunt. Abbate Roffredo apud Montem
CARACCIOLO, Quattuor antiqui chronologi, Neapoli 1626, pp. 128-76; da C.
PELLEGRINO, Series abbatum Casinentium, Neapoli 1643, pp. 98-144, con
correzioni alla precedente edizione; da J.B. CARUSIUS, Bibliotheca historica
regni Siciliae, I, Panormi 1723, pp.505-22; da L.A. MURATORI, Rerum
Italicarum Scriptores, V, Mediolani 1724, pp. 55-78 e 139-43; da E.
GATTOLA, Accessiones ad Historiam Abbatiae Casinensis, I, Venetiis 1734,
pp. 827-38; da G. DEL RE, Cronisti, cit., I, pp. 461-80; un’altra ulteriore
redazione è edita da G. Smidt, in MGH SS, 30, 2, Lipsiae 1934, pp. 13851429. Sui manoscritti cfr. le introduzioni alle citate edd. di Pertz e di Smidt,
nonché C. VIRCILLO FRANKLIN, Eine unbekannte Fassung der Annales
Casinenses, «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters», 43 (1987),
pp. 81-109. Cfr. anche B. CAPASSO, Le fonti della storia delle provincie
napolitane, Napoli 1902, pp. 68-9; Repertorium fontium historiae Medii Aevi,
II, Romae 1967, p. 260; L. CAPO, La cronachistica italiana dell’età di
Federico II, «Rivista storica italiana», 114 (2002), pp. 398-400.
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Casinum ad mortem pene infirmato, habito tractatu inter legatos
Imperatoris et Conventum Cassinensem, qui multum imperatori
favebat, vocati sunt homines Sancti Germani, et ibi, de mandato
decani et conventus iuraverunt imperatori» 10 .
«L’imperatore Enrico, insieme con la sopraddetta imperatrice
Costanza, entrando nel Regno per la Campania prende la rocca
d’Arce con violento assalto. La cosa spinge i suoi all’audacia, i
nostri alla diffidenza: neppure i luoghi più fortificati pensano di
poter resistere: per cui Sora, Atina e Castrocielo, vinte non tanto
dalla guerra quanto dalla sorpresa, si arrendono. A Montecassino, dove l’abate Roffredo era ammalato e quasi in punto di
morte, dopo la stipula di un trattato tra i legati imperiali e il convento cassinese, che era molto favorevole all’imperatore, furono
chiamati gli uomini di San Germano e lì, su richiesta del decano
e del convento, giurarono fedeltà all’imperatore».
La seconda redazione scandisce in maniera un po’ più netta le
diverse fasi della discesa di Enrico, ma riporta le stesse notizie,
pur ricorrendo ad espressioni verbali diverse. Entrambe usano il
verbo «descendere» al participio presente, entrambe fanno riferimento allo stupore da cui sono vinte le città, anche se la prima
dice che le «munitiones» sono «stupificatae», mentre la seconda
chiama quelle città «loca munitissima» e poi dice che esse furono «stupore devictae». Per la popolazione di San Germano,
entrambe le redazioni ci dicono che giurarono fedeltà all’imperatore «de mandato decani et conventus»: il decano di Montecassino era dal 1188 Adenolfo di Caserta, che poi fu anche, dal
1212, abate dello stesso monastero 11 . Di Arce e della rocca di
Arce, poi, entrambe dicono che furono prese con la forza, anche
10
Annales Casinenses, ed. G.H. Pertz, cit., pp. 314-15.
Cfr. RYCCARDUS DE SANCTO GERMANO, Chronica, ed. C.A. Garufi,
RIS2, VII 2, Bologna 1937, pp. XLVII, XLIX, 13, 14 e note relative; cfr.
anche M. INGUANEZ, Regesto di Tommaso decano, Montecassino 1915, pp.
18 s., nr. 12; N. KAMP, Kirche und Monarchie im Staufischen Königreich
Sizilien, I, München 1973, pp. 147, 174.
11
La presa di Arce e della Rocca d’Arce
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se la seconda redazione dice più semplicemente che Enrico
«roccam Arcis violento capit insultu», mentre la prima versione,
in maniera più complessa e più difficilmente interpretabile, afferma che Enrico «roccam Arcis vi cepisse visus est», dove il
visus est deve essere inteso nel senso attenuato, tipicamente medievale, di “si seppe”, “risultò” che dispiegava la sua potenza
militare contro chi non poteva opporre alcuna resistenza e,
quindi, non poteva fare altro che esprimere il proprio impotente
stupore.
Passiamo ora a Riccardo di San Germano, autore di una cronaca che arriva fino al 1243; egli ci racconta gli eventi in questo
modo:
«Tunc Imperator ipse regnum intrat mense Madii, papa prohibente et contradicente, et per Campaniam venit in roccam Arcis,
quam Mathaeus Burrellus pro ipso rege tenebat; a bellatoribus
suis aggredi faciens, vi cepit eamdem. Quod tanti causa timoris
fuit, ut qui se in Casino receperant cum rebus suis homines Sancti Germani, per nuncios suos, quos ad eumdem Imperatorem
mittunt, fidelitatem iurent. Tunc enim dictus Roffridus Casinensis abbas in monasterio Casinensi graviter infirmabatur, quem
urgentibus ipsis hominibus Sancti Germani, oportuit ipsi Imperatori iurare. Sorella quoque, Atinum, castrum Celii, metus
causa, ipsi imperatori se reddunt, in quibus ipse suos posuit castellanos» 12 .
«Allora l’imperatore entra nel regno nel mese di maggio, nonostante la proibizione e il divieto del papa, e per la Campania
viene alla rocca d’Arce, che Matteo Borrello custodiva per conto
del re; facendola assalire dai suoi soldati, la prese con la forza.
Cosa, questa, che fu causa di tanto timore, che gli uomini di San
12
Cfr. RYCCARDUS DE SANCTO GERMANO, Chronica, cit., p. 12. Per le
precedenti edizioni e i manoscritti basta rimandare alla esauriente introduzione di Garufi alla sua edizione, pp. XXXIII-XLI; nonché a E.
D’ANGELO, Storiografi e cronologi latini del Mezzogiorno normanno-svevo,
Napoli 2003, pp. 163-72 e passim.
Fulvio Delle Donne
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Germano, che si erano rifugiati a Cassino con le loro cose, per
mezzo di loro nunzi, mandati presso l’imperatore, gli giurano fedeltà. In quel tempo il detto Roffredo, abate di Montecassino, era
gravemente ammalato nel monastero, e, su richiesta pressante
degli stessi uomini di San Germano, convenne che giurasse fedeltà all’imperatore. Anche Sora, Atina, Castrocielo, per paura,
si arrendono all’imperatore: in esse egli pose suoi castellani».
Sicuramente Riccardo di San Germano, per compilare questa
parte della cronaca, dovette servirsi degli Annales Casinenses,
perché spiccano alcune consonanze espressive notevoli tra i testi. Innanzitutto, fa riferimento all’opposizione del papa: se la
prima redazione degli Annales ci diceva «papa contradicente»,
Riccardo si limita solo a raddoppiare retoricamente il verbo nell’espressione «papa prohibente et contradicente». Poi, parlando della discesa di Enrico nel Regno, dice che lo fece «per
Campaniam», così come la seconda redazione degli Annales.
Anche Riccardo parla della malattia, forse diplomatica 13 , dell’abate di Montecassino Roffredo, e del giuramento di fedeltà prestato dalla popolazione di San Germano, pur se, secondo le due
versioni degli Annales, essi furono spinti a farlo dal decano e dal
convento, mentre, secondo Riccardo, furono essi a chiederlo con
insistenza. Per quanto riguarda più specificamente la presa della
rocca di Arce, Riccardo concorda sostanzialmente con gli anonimi Annales Casinenses, dicendo che Enrico «vi cepit», facendola assalire «a bellatoribus suis». Allontanandosi, però, dagli
Annales, Riccardo ci dice che a sottomettere le altre città, anche
parzialmente elencate, non è lo stupor, ma il metus. Dunque,
Riccardo già comincia, in qualche punto, a farci intendere che
non sta seguendo pedissequamente una sola fonte. E questa
consapevolezza diventa più netta se osserviamo che Riccardo ci
fornisce il nome del castellano della rocca di Arce: Matteo Borrello, che sicuramente dovette appartenere a una nobilissima
13
Roffredo de Insula, abate di Montecassino dal 1188, morì nel 1210,
quindi ben dopo il 1191. Sul personaggio cfr. N. KAMP, Kirche und
Monarchie, II, cit., pp. 550-51.
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famiglia di origine longobarda, che fu capostipite dei conti di
Sangro e di Agnone (Campobasso); un suo ascendente dovette
essere quel Mario Borrello (Mariburrellus) che il 21 agosto
1155, in occasione dei conflitti scoppiati tra il papa Adriano IV e
il re normanno Guglielmo I, dette alle fiamme Arce 14 . Il nome di
Matteo Borrello era stato fatto anche da Pietro da Eboli, ma, a
dire il vero, è molto improbabile che Riccardo abbia attinto a
quella fonte la notizia. Il testo di Pietro da Eboli ci è pervenuto
in un solo, elegantissimo, manoscritto, ora custodito a Berna, ed
è lecito pensare che esso non abbia avuto una circolazione tale
da pervenire nelle mani di Riccardo da Sangermano. Quindi,
l’origine di quell’informazione deve essere stata un’altra.
Certo, Riccardo proveniva proprio da quella zona, e quindi
poteva avere accesso a fonti o ad altre informazioni che ora potrebbero essere per noi irrecuperabili. Tuttavia, le informazioni
da lui fornite sono consonanti con quelle riferite dagli Annales
Ceccanenses, pubblicati, in passato, anche col titolo di Chronicon Fossae Novae. Quest’opera, che arriva fino al 1217 e che fu
attribuita a Giovanni da Ceccano 15 , ci racconta la discesa di Enrico VI in questo modo:
«1191. Ind. 8., Henricus Imperator imperavit annis quinque et
mensibus 6. 3. Kal. Maii ingressus est regnum Apuliae, obsedit
civitatem quae dicitur Arcis, alio die cepit eam, et incendit cum
rocca et de castello Arcis eiecit castellanum Mazzeon Burellus
cum omnibus Latinis, et sic omnis Terra redacta est in sui potestate usque Neapolim, et cum magno et innumerabili exercitu ip14
Sulla famiglia Borrello e alcuni suoi componenti cfr. soprattutto C.
RIVERA, Per la storia delle origini dei Borrelli conti di Sangro, «Archivio
Storico per le Province Napoletane», 44 (1919), pp. 48-92; B. CANDIDA
GONZAGA, Memorie delle famiglie nobili delle province meridionali d’Italia,
I, Napoli 1875, pp. 129-30; Catalogus Baronum. Commentario, a c. di E.
Cuozzo, Fonti per la Storia d’Italia 101, Roma 1984, ad ind.; le voci di H.
ENZENSBERGER, Borrello e Borrello Mario, in Dizionario Biografico degli
Italiani, XII, Roma 1970, pp. 815-18.
15
Cfr. A. PARAVICINI BAGLIANI, Giovanni da Ceccano, in Dizionario
Biografico degli Italiani, 23, Roma 1979, pp. 191-94.
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Fulvio Delle Donne
sam civitatem circumdedit et obsedit, et cum multis et diversis
machinis eam debellavit» 16 .
«1191. Indizione ottava, l’imperatore Enrico regnò per cinque
anni e sei mesi. Il 29 aprile entrò nel Regno di Apulia, assediò la
città che si chiama Arce, e il giorno successivo la espugnò e la
bruciò con la Rocca e dal castello di Arce cacciò il castellano
Matteo Borrello con tutti i Latini e, così, tutta la terra fu ridotta
in suo potere fino a Napoli. Con grande e innumerevole esercito
circondò e assediò quella città, e la espugnò con molte e diverse
macchine».
Dunque, anche gli Annales Ceccanenses ci forniscono il
nome del castellano Matteo Borrello17 ; e non solo. Ci danno anche altre informazioni, che non possiamo ricavare da alcun’altra
fonte. Innanzitutto, ci fornisce delle date precise: il 29 aprile
1191 Enrico VI entrò nel Regno e prese d’assedio il primo castello che stava alla sua guardia.
16
Annales Ceccanenses, ed. G.H. Pertz, MGH SS 19, Hannoverae 1866, p.
288. L’opera è stata precedentemente edita da F. UGHELLI, Italia Sacra, I,
Romae 1644, pp. 449-92 (ed. anche apud Seb. Coleti, X, Anecdota, Venetiis
1722, pp. 1-36); J.B. CARUSIUS, Bibliotheca, I, cit., pp. 60-83; L.A. MURATORI, Rerum Italicarum Scriptores, VII, Mediolani 1725, pp. 855-98;
frammentariamente in Recueil des historiens des Gaules et de la France, ed.
M. Bouquet, XV, Paris 1808, pp. 661-66, 720-43; G. DEL RE, Cronisti, I, cit.,
pp. 493-566. I manoscritti segnalati sono solo due: Roma, Bibl. Vall. I 42;
Napoli, Bibl. Naz., Branc. IV F 8 (codice appartenuto a C. Tutini, esemplata
a Fossanova il 7 luglio 1600 da Benedetto Conti Sorano). Su di essi cfr.
l’introd. all’ed. cit. di Pertz e G. DEL RE, Cronisti, I, cit., pp. 543-66. Cfr.
anche B. CAPASSO, Le fonti, cit., pp. 72-73; Repertorium Fontium Medii Aevi,
II, cit., pp. 261-62; C. CRISTOFANELLI, Due documenti inediti concernenti il
Chronicon Fossae Novae o Annales Ceccanenses, in Ferentino: la diocesi e
gli apporti francescani, Frosinone 1979, pp. 97-101; L. CAPO, La cronachistica, cit., pp. 398-400.
17
Va segnalato che il ms. Branc. IV F 8, seconda parte, c. 17r, riporta il più
corretto «Burrellum», invece del problematico «Burellus» messo a testo da
Pertz.
La presa di Arce e della Rocca d’Arce
23
Il castello di Arce, che attualmente è posto nel comune di
Rocca d’Arce, costituiva, appunto, la porta di accesso al Regno;
era imprescindibile prenderlo se si voleva rendere saldo il dominio del Regno. L’assedio, sempre secondo gli Annales Ceccanenses, durò un giorno: forse non poco se si considera che, secondo quanto sappiamo da fonti più tarde, la guarnigione del castello era composta solo dal castellano scutifer e da quaranta
servientes 18 . Dunque, il 30 aprile Arce e la sua rocca furono conquistate con la forza e furono bruciate.
Risultano affidabili queste informazioni? Non è mai possibile
essere certi delle notizie che ci tramandano le fonti cronachistiche, perché, come abbiamo già detto, i loro autori sono sempre
portavoce, sia pure involontariamente, di un particolare sistema
ideologico e propagandistico. Ma in questo caso, ci troviamo di
fronte, innanzitutto, a una prima convergenza di informazioni
sul nome del castellano: Pietro da Eboli, Riccardo di San Germano e gli Annales Ceccanenses concordano sul fatto che era
Matteo Borrello, e questo già costituisce un indizio importante,
perché queste fonti rispondono a intenti diversi. Poi, gli Annales
Ceccanenses ci forniscono informazioni dettagliate sulle date
degli eventi: date che si incastrano con gli altri movimenti di Enrico VI, ricostruiti esemplarmente dai Regesta Imperii editi da
J.F. Böhmer e G. Baaken; ma si tratta di un periodo su cui le
fonti dicono poco 19 . A questo punto, assume maggiore e, forse
definitiva, credibilità anche la notizia che il castello fu espugnato con la forza. Notizia su cui concordano tutte le fonti che
abbiamo analizzato, e anche Pietro da Eboli, pur se solo in un
titoletto all’interno di una più ampia particula («Quando capta
18
Cfr. E. STHAMER, L’amministrazione dei castelli nel Regno di Sicilia
sotto Federico II e Carlo I d’Angiò, Bari 1995 (ed. or. Leipzig 1914), pp. 60,
132, 137.
19
Die Regesten des Kaiserreiches unter Heinrich VI. 1165 (1190)-1197,
edd. J.F. Böhmer, G. Baaken, [Regesta Imperii IV/3], Köln-Wien 1972-79.
Tali regesti segnalano fonti documentarie solo per il 21 aprile (Pantano
Borghese, n. 151) e per il 21 maggio (Acerra, n. 152); ai nn. 151a-b, per gli
spostamenti del 29 e del 30 aprile, vengono citati solo gli Annales
Ceccanenses.
24
Fulvio Delle Donne
est per vim Rocca de Archis») e senza spiegare lo svolgersi della
vicenda nel corso della sua narrazione. Del resto, a raffigurarci
la resa pacifica della rocca di Arce è solo la miniatura posta a
fronte del testo: cosa che se da un lato ci può forse fornire un
indizio sulla distanza compositiva intervenuta tra la stesura del
testo e l’elaborazione della miniatura, dall’altro ci rende ancor
più consapevoli dell’intento celebrativo che costituisce il fondamento dell’opera di Pietro da Eboli. Il nuovo Cesare Enrico VI,
messo da Dio a capo dell’impero, non può non ottenere
l’ossequio pacifico dei suoi sudditi, che subito devono, anche
figurativamente, dimostrare obbedienza. E se Napoli, successivamente, resiste è solo per colpa della malattia che assale
l’imperatore e dell’oro che, annebbiando la mente dei suoi soldati, li spinge al tradimento (particulae 18 e 19). In effetti, anche
altre fonti ci parlano della malattia di Enrico e dell’epidemia che
colpì il suo esercito, riducendolo di nove decimi secondo alcuni,
o di diecimila uomini secondo altri 20 , ma non della corruzione e
del conseguente tradimento dell’esercito imperiale21 : evidentemente, per Pietro da Eboli, il tradimento generato dalla sete di
denaro, di cui era stato vittima anche Cristo, serviva a nobilitare
e a liberare l’imperatore da ogni colpa o da accusa di debolezza.
Ma torniamo a quello che accadde ad Arce secondo gli Annales Ceccanenses: ovvero che dopo essere stata presa fu bruciata
«cum rocca». Si tratta di un’altra notizia che nessun’altra fonte
ci riporta. Ma non solo: il passo in questione risulta molto problematico, perché nelle edizioni di Ughelli e Muratori, che, a
quanto pare, leggevano da un manoscritto poi andato perduto,
esso viene edito in questo modo: «[Henricus] incendit [Arcem]
20
Cfr. La cronique de Gislebert de Mons, ed. L. Vanderkindere, Bruxelles
1904, p. 574; CHUONRADUS SCHIRENSIS, Chronicon, ed. O. Holder Egger,
MGH SS XVII, Hannoverae 1889, p. 630.
21
Gli Annales Stederburgenses, ed. G.H. Pertz, MGH SS XVI, p. 224, ci
danno notizia del tradimento e della fuga del duca Enrico di Braunschweig,
che poi, in Germania, rappresentò la più forte opposizione al potere
dell’imperatore svevo.
La presa di Arce e della Rocca d’Arce
25
cum rocca et castello Ancii» 22 . Questa forma contiene sicuramente l’errore «Ancii», invece di «Arcis», ma omette il «de»
prima di «castello»: dunque, se ci si limitasse al solo emendamento di «Ancii» in «Arcis», supponendo un banale e plausibile
errore di trascrizione relativamente al nome, ci troveremmo con
la frase ricostruita in questo modo: «[Henricus] incendit [Arcem]
cum rocca et castello Arcis»; e, dunque, gli Annales Ceccanenses ci fornirebbero anche un’attestazione molto utile per capire il
tipo di insediamento urbano di Arce, in quanto, con una significativa menzione sia della «rocca» sia del «castellum», si distinguerebbe tra Arce, la Rocca (o, a questo punto, forse, Rocca
d’Arce) e il castello. Ma di questo tratterà più dettagliatamente
Carlo Ebanista nel saggio seguente. Per cui, torniamo all’incendio appiccato dall’esercito di Enrico VI. E, a questo punto, se
abbiamo giudicate plausibili e accettabili le altre notizie, molto
probabilmente dobbiamo fare lo stesso anche con questa, pur se
non trova conferma in altre fonti. Ma dobbiamo tener presente
anche che se Pietro da Eboli, come abbiamo visto, è un fedele
fautore della causa sveva, tanto da alterare la narrazione anche
del corso degli eventi storici; se Riccardo di San Germano e gli
Annales Casinenses, pur non celebrando le imprese di Enrico,
non gli sono comunque ostili; gli Annales Ceccanenses, invece,
dimostrano una prospettiva politico-propagandistica ben diversa.
Per cui, la notizia dell’incendio di Arce potrebbe anche essere
fornita per gettare ulteriore discredito sulla figura dell’imperatore Enrico VI, colui che ha devastato l’intero territorio. L’autore
degli Annales Ceccanenses, infatti, è sicuramente un fautore
della parte tancredina e ostile avversario della parte imperiale,
tanto da sentire il bisogno di interrompere la narrazione annali22
F. UGHELLI, Italia sacra, ed. Coleti, cit., X, col. 19; L.A. MURATORI, Rer.
Ital. Script., VII, cit., col. 877. Ughelli, nell’indice, dice di aver tratto la
trascrizione «ex pervetusto ms. exemplari coenobii Fossae Novae»; Muratori,
a p. 853, dice di aver copiato «ex ms.to codice monasterii Fossae novae», ma
sembra, piuttosto, che si sia limitato ad emendare l’edizione di Ughelli.
Anche Caruso, Bibliotheca historica, I, cit., p. 72, scrive allo stesso modo di
Muratori e di Ughelli, ma sembra che abbia ripreso il testo da quest’ultimo
editore.
Fulvio Delle Donne
26
stica per inserire un componimento in esametri, in parte rimati,
che attribuisce al decano di Montecassino, Adenolfo di Caserta,
e al monaco Giovanni 23 , in cui è presente una lunga lamentazione sulle malvagità compiute da Enrico e dai suoi soldati.
L’intento è quello di celebrare il valore di Tancredi di Lecce:
«Ad Siculum ducat calamum nostrum mea Musa,
mentibus adducat, quae sit fortuna secuta
Tancredum regem cum commissa sibi gente» 24 .
«La mia musa dedichi al Siciliano il suono del mio zufolo, riporti
alle menti quale fortuna accompagnò il re Tancredi con la gente
a lui affidata».
E non si esime dal formulare giudizi molto aspri e violenti nei
confronti dell’imperatore svevo e dei Tedeschi che lo accompagnavano. Così, parlando della pestilenza che colpisce l’esercito
imperiale impegnato nell’assedio di Napoli, ci dice:
«Morbo devicti, remeant ad propria dicti;
Iudicio Christi remanent per rura relicti,
Vix superest tellus morientibus his sine ferro» 25 .
«Vinti dalla malattia i detti guerrieri tornano alle loro case; per
giudizio di Dio rimangono abbandonati per i campi, a stento
avanza la terra per costoro che muoiono non per ferro».
E ancora, parlando della morte dell’imperatore Enrico, esplode
in un canto di giubilo:
23
Sull’impossibilità che tali versi siano da attribuire a tali personaggi cfr.
H. ULLMANN, Ueber die angeblichen Verfasser des Gedichtes in den Annales
Ceccanenses, «Neues Archiv der Gesellschaft für ältere deutsche
Geschichte», 1 (1876), pp. 191-92.
24
Annales Ceccanenses, ed. cit., p. 289, vv. 40-42.
25
Ibidem, vv. 6-8.
La presa di Arce e della Rocca d’Arce
27
«Omnia cum papa gaudent de morte tyranni.
Mortuus est mitis leo, raptor vel lupus agni,
Mortuus est vere, qui multos perdidit aere.
Si cui dixit Ave, fuit hoc ut ab hoste cavendum.
Mors necat, et cuncti gaudent de morte sepulti
Apulus et Calaber, Siculus Tuscusque Ligurque
Italicis sextus 26 Henricus nomine dictus
Teutonicorum natu rex, et origo malorum,
imperio Romae sexto decessit ab anno,
mille Dei centum bis demptis tribus ab istis
transierant anni, periit cum pessimus anguis.
Ad Siculas partes vitam dimisit et artes 27 .
Ductus Messenis cupiens poenas dare, poenis
subditur infelix ibi mox, et ad infima venit.
Discere iustitiam magna res vivere recto,
Istius exemplo poterunt perpendere certo,
quem rota fortunae, quem fallax gloria lunae
Enclipsin passum demersit ad infima lapsum» 28 .
«Tutte le cose godono insieme con il papa per la morte del tiranno. È morto il mite leone, ovvero il lupo predatore
dell’agnello, è morto veramente colui che molti corruppe col denaro. Quello a cui disse “ave” dovette guardarsene come un nemico. La morte lo uccide, e tutti gioiscono della morte del sepolto, il Pugliese, il Calabro, il Siciliano, il Toscano, il Ligure, di
colui che, per gli Italici, fu detto Enrico sesto, che fu per nascita
re dei Tedeschi e origine dei mali, morì dopo aver tenuto
l’impero di Roma per sei anni. Erano passati tre anni in meno di
milleduecento, quando, la pessima serpe morì. Nelle contrade siciliane perse la vita e le arti. Passato a Messina, desideroso di castigare gli Africani, subito lì, sfortunato, vien meno e giunge agli
26
«Italicis Sextus» è emendamento di Pertz; il ms. Branc. IV F 8, invece,
scrive «ita lucis ictus»; cosa che spingerebbe ad emendare, piuttosto, in
«Italicis ictus», come scrivono anche Ughelli, Muratori e Del Re.
27
Così scrive Pertz; S. Volpicella, ed. cit., p. 520, scrive «arces».
28
Annales Ceccanenses, ed. Pertz, cit., p. 290, vv. 83-100.
Fulvio Delle Donne
28
inferi. È grande cosa imparare la giustizia col vivere retto: con
l’esempio di costui potranno certamente valutare colui che la
ruota della fortuna e la gloria fallace della luna fecero sprofondare nell’abisso dopo avergli fatto subire l’eclissi».
E poi ancora:
«Nil modo plus dicam, rediit gens pestis iniqua:
Ad mala multorum remanent duo Teutonicorum.
Hi patriae fulgur Conradus est, et Diopuldus» 29 .
«Ora non dirò più oltre, ritorna la gente, peste iniqua. Per il
danno di molti rimangono due dei Tedeschi: questi sono Corrado, folgore della patria, e Dipoldo».
È Dipoldo, l’oggetto principale della condanna dell’autore degli
Annales Ceccanenses, colui che, immediatamente prima dell’avvio della parte in versi, viene descritto in questo modo:
«1192. Ind. 9. Hoc anno Diopuldus post reversionem imperatoris
in Alamanniam coepit infestare regnum. Primo loco cepit Sanctum Germanum, quantum potuit expoliavit, et omnia mala quae
facere valebat faciebat, per totum regnum depraedabat, et homines vendebat» 30 .
«1192. Ind. 9. In questo anno Dipoldo, dopo il ritorno dell’imperatore in Germania, cominciò a infestare il regno. In primo
luogo prese San Germano, saccheggiò quanto potette e metteva
in atto tutti i mali che poteva, faceva preda in ogni parte del
regno e vendeva gli uomini».
Ecco, insomma, che compare Dipoldo di Schweinspeunt, anche
a lungo chiamato Dipoldo di Vohburg, per un errore introdotto
29
30
Ivi, p. 289, vv. 33-35.
Ibidem.
La presa di Arce e della Rocca d’Arce
29
nel 1867 da un valente biografo di Enrico VI, T. Toeche 31 , e
ripetuto fino ai giorni nostri 32 . Ma chi era costui? Proviamo ad
esaminarne, sia pur brevemente, la biografia e la personalità,
tanto importante per la storia del Regno negli ultimi anni del XII
secolo e, soprattutto, per quella di Arce 33 .
Dipoldo di Schweinspeunt (o anche Diopoldus, Diubuldus,
Diopaldus, Theobaldus, Tebuldus, Tiboldus de Suinespont, de
Rocca Archis, di Acerra), facendo un calcolo basato sugli sviluppi della sua carriera militare ed amministrativa, dovette nascere tra il 1160 e il 1170, probabilmente nella tenuta, sita in Baviera, presso Morchsheim (distretto di Donauwörth), da cui
trasse il cognome toponimico. La sua era una famiglia (attestata
dalla metà del XII al XV secolo) di ministeriales dipendenti dei
conti di Lechsgemünd (Donauwörth) 34 .
La prima testimonianza che lo riguarda è relativa proprio
all’impresa italiana di Enrico VI, del cui esercito fece parte. Ma,
soprattutto, quando, come abbiamo già visto, nel settembre del
1191, Enrico VI fu costretto a ritirarsi, dopo il fallito assedio di
Napoli, l’imperatore gli affidò il castello di Rocca d’Arce: un incarico di estrema importanza, dato che quel castello aveva una
fondamentale funzione strategica, essendo posto ai confini della
Terra di Lavoro, ed era imprescindibile per proteggere o attaccare il Regno da nord. Certo, se pure, come abbiamo detto, quel
castello venne bruciato al momento della sua presa, il 30 aprile
31
Cfr. T. TOECHE, Heinrich VI., cit., pp. 310 ss., 320 ss., 334, 347, 448, 451
ss., 475 s.
32
L’errore, comunque, era già stato segnalato e corretto da E.
WINKELMANN, Über die Herkunft Dipolds des Grafen von Acerra und
Herzogs von Spoleto, «Forschungen zur Deutschen Geschichte», 16 (1876),
pp. 159-63.
33
Una puntuale e dettagliata ricostruzione biografica del personaggio è
stata condotta da N. KAMP, Dipoldo di Schweinspeunt, in Dizionario
Biografico degli Italiani, 40, Roma 1991, pp. 257-61, a cui si rimanda per
ulteriore bibliografia.
34
Cfr. E. WINKELMANN, Ueber die Herkunft Dipolds des Grafen von
Acerra und Herzogs von Spoleto, «Forschungen zur deutschen Geschichte»,
16 (1876), pp. 159-63; S. RIEZLER, Ueber die Herkunft Dipolds von Acerra,
ivi, pp. 373-74.
30
Fulvio Delle Donne
1191, i danni dovettero essere facilmente rimediabili, perché il
castello di Rocca d’Arce fu usato come base per le incursioni in
tutta la parte settentrionale della Terra di Lavoro, che Dipoldo
effettuò nei due anni successivi con l’appoggio anche di Guglielmo di Caserta e del decano di Montecassino Adenolfo. Insomma, partendo da Rocca d’Arce, Dipoldo si impossessò di
tutta la provincia, fin quando, nel 1193, fu costretto a ritirarsi nel
suo castello da una violenta controffensiva condotta personalmente dal re Tancredi 35 .
Quando, poi, Enrico VI tornò nel Regno, nel 1194, nominò
Dipoldo giustiziere di Terra di Lavoro, e, tra la fine del 1196 e
l’inizio del 1197, gli concesse in feudo la contea vacante di
Acerra, alla quale era tradizionalmente legata la signoria sulla
città di Nusco 36 . Dopo la morte di Enrico VI, nel settembre del
1197, gli fu, tuttavia, ordinato dall’imperatrice Costanza di
uscire dal Regno. Dipoldo, però, non obbedì e, dopo la morte di
Costanza, nel novembre del 1198, insieme con i fratelli Ottone e
Sigfrido, giocò un ruolo fondamentale nella lotta per la reggenza, riprendendo ad effettuare vittoriose incursioni militari,
sempre muovendo dal castello di Rocca d’Arce. E nel 1198-99,
alleandosi con Marcovaldo di Annweiler, diede a quest’ultimo la
forza politica e militare necessaria a rivendicare la reggenza. Qui
non è il caso di ripercorrere nel dettaglio tutte le imprese di Dipoldo di Schweinspeunt: la cosa risulterebbe troppo lunga. Basti
dire che ancora per diversi anni, partendo dalla sua roccaforte
arcese, dominò un ampio territorio e influenzò in maniera determinante la politica del Regno. Addirittura, nel 1206, fu lui a far
liberare il piccolo Federico II, che era stato fatto prigioniero, a
Palermo, da Guglielmo Capparone. E il re Federico, per ricom35
Molte notizie possono essere ricavate soprattutto dal Liber ad honorem
Augusti di Pietro da Eboli, vv. 607, 1089-1118, 1177-1226; nonché dalla
cronaca di Riccardo di San Germano, ed. cit., pp. 13 ss., 18, 20-25, 27 s., 32
s., 73, 81, 93 s.; dagli Annales Ceccanenses, ed. cit., pp. 289, 291 s., 294 s.,
300; e dagli Annales Casinenses, ed. cit., pp. 315-19.
36
Cfr. G. CAPORALE, Memorie storico-diplomatiche della città di Acerra,
Napoli 1890, pp. 140-53; F. SCANDONE, L’alta valle del Calore, VII, La città
di Nusco, I, Napoli, 1970, pp. 45 ss., 230 ss.
La presa di Arce e della Rocca d’Arce
31
pensarlo e garantirsi il suo sostegno, appena acquisita la reggenza del regno a pieno titolo, lo nominò capitano e magister iustitiarius di Puglia e Terra di Lavoro.
Ma Dipoldo, a questo punto, compì una nuova manovra politica, destinata alla lunga, all’insuccesso: quando Ottone IV
venne incoronato imperatore, convinto erroneamente che l’unione del regno e dell’impero non sarebbe stata possibile per Federico II, passò dalla parte di Ottone, e, all’inizio del 1210, lo
invitò formalmente a conquistare il Regno, dove avrebbe ricevuto il suo appoggio. Così, dopo aver ricevuto in feudo imperiale il ducato di Spoleto, ed essendo stato confermato da Ottone
capitano di Puglia e di Terra di Lavoro, condusse l’armata imperiale nel Regno. Ma quando Ottone IV fu costretto a ritirarsi in
Germania, determinando il fallimento della sua politica di dominio sul Regno, Dipoldo ne fu travolto, perse in pochi anni ogni
potere e nel 1218 il conte Giacomo di Avellino lo fece arrestare
per ordine di Federico II, che si trovava in Germania37 . Riacquistata, a carissimo prezzo, la libertà tre anni dopo, entrò nell’Ordine dei cavalieri teutonici 38 e visse ancora qualche anno: non
sappiamo quando venne a morte.
Come si è, dunque, visto, il periodo successivo alla discesa in
Italia di Enrico VI fu estremamente pregno di eventi rilevanti,
non solo per la storia di Arce e di Rocca d’Arce, ma anche per
quella del regno di Sicilia e dell’impero. In quel momento, infatti, venne formalmente a realizzarsi l’ambita unio regni ad
imperium, in vario modo preparata dal Barbarossa e poi portata
a concreto compimento da suo nipote Federico II. Forse si trattò
di una costruzione, di fatto, effimera, che venne ostacolata e
bloccata dall’opposizione insormontabile della Chiesa e dei Comuni. Essa restò in piedi solo per un mezzo secolo: un periodo
37
Su tali vicende cfr. anche T.C. VAN CLEVE, Markward of Anweiler and
the Sicilian Regency, Princeton 1937, pp, 98-102, 132, 170-74, 176 ss., 186
s., 197; R. NEUMANN, Parteibildungen im Königreich Sizilien während der
Unmündigkeit Friedrichs II. (1198-1208), Frankfurt-Bern 1986, ad indicem.
38
Chronica Alberici monachi Trium Fontium a monacho novi monasterii
Hionensis interpolata, ed. G.H. Pertz, MGH SS XXIII, Hannoverae 1875, p.
879.
32
Fulvio Delle Donne
di tempo che fu troppo breve per determinare, forse, effetti concretamente duraturi, ma che fu destinato a resistere, anzi a persistere e a riverberare, spesso nostalgicamente, come il ricordo di
un passato troppo remoto.