I Saint Jean Pied de Port-Vierge d`Orisson Questa
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I Saint Jean Pied de Port-Vierge d`Orisson Questa
I Saint Jean Pied de Port-Vierge d’Orisson Questa volta il Cammino di Santiago mi è apparso più un viaggio verso l’aldilà che non un percorso con biglietto di ritorno. Non avrei più voluto rimettere passi stanchi e ripetuti sul solco tracciato da anni di dimestichezza con la mia esistenza esaurita. Esausti camminiamo nel quotidiano garante della nostra consistenza, ma fin dal primo giorno a Saint Jean lo zaino sulle spalle non pesava e il calore umano attraversava l’essere durante l’ascesa. Sorrisi con il cappello a larghe falde e rivolsi sguardi interrogativi sul fare affaccendato di chi si imbarcava per la prima volta nella divina esperienza del pellegrino. Mi appoggiai sul nodoso bastone dell’anno precedente, mentre osservavo la levigata abbronzatura dello spagnolo sorridente nel sudore di un meriggio ombrato da poche nuvole di passaggio. Il passaggio di una vita che preme e scioglie i nodi di un bastone ritorto dal precedente vagabondare. Sbuffai e sorrisi, questa volta sorrisi di cuore alla vita che si apre, mentre il sole attraversava le nuvole e si diffondeva con roseo chiarore sul volto di tutti noi che eravamo nell’attesa. Sospesi i pensieri, trovai lo spazio nel diaframma, diffusi l’energia nel corpo, invocai la mente, ne rinnegai la menzogna stratificata, implorai la misura del perdono e pensai... pensai. Il vezzo del pensiero interprete non mi abbandonava, mi rivolsi al primo compagno di passaggio, lo guardai procedere attento ai suoi passi lenti e pesanti, lo attraversai con lo sguardo, lo penetrai nei suoi abissi ancestrali, nella mente dilatata nell’estasi di un sorriso incredulo e testimone 11 giovanna albi di un’esperienza nuova. Il mio sguardo profondo lo gettò in un imbarazzo silenzioso, abbassai lo sguardo assorto e pensai... mens, metior-iris, mentior-iris, mensura, mendacium. La mente è la nostra misura mendace, altri e più profondi sensi sono fuori di noi, dove noi non vediamo, dove noi non siamo, dove sospesi libriamo in una dimensione intravista dentro il prestito di un corpo bello. Quest’intuizione alleggeriva il mio pellegrinare. “Questa volta, ci siamo,” mi dissi, “e tu mio cuore non mi tradire, sollevami dal buco nero della depressione”. Il mio compagno di vita mi strinse la mano, lo sguardo verde dei suoi occhi si diffondeva nella distesa pianura, si mischiava all’orizzonte, mi orientava con la dolcezza del sorriso aperto all’incanto di questa vita che fugge. La corsa è inevitabile, la posta in gioco non so, l’impegno non si elude, il rischio presente, ma a scopi alti ci muoviamo in esistenze precarie. Coraggio, compagni di viaggio, io provo a uscire, a lacerare il velo di Maya, a trovare quel quid che cerco e non trovo. Respirai e guardai fuori, presi per mano un bimbo olandese di otto anni, mentre i genitori riempivano le borracce di gelida acqua purissima, ed egli intravide, pur nel gesto materno, i residui della mia malattia dell’anima. “Come puoi essere triste?” mi disse. “Guarda lì fuori” e mi indicò il pastore appollaiato ai piedi della mandria. “Non sono triste” osservai e lo solleticai un po’ per distrarre la sua muta attenzione. Il pensiero vagava al finito e all’infinito, alla caduta delle illusioni, al pastore solitario, al pianto sull’uomo, alla nostra vita così confinata, così, così poco divina. Ma tutto non è male, mi dispiace poeta, ma io non ci sto, non tutto pensa, l’anima non pensa e non pesa, quando guardiamo al di là, al di fuori, al di sotto, ovunque noi non siamo. Io sono qui, dentro e fuori di me, leggera come una piuma al vento, ma con un ricordo triste in fondo al cuore, con la storia di un’esistenza mancata e più volte colpita, con una vita da ritessere con la fiducia nell’alba che senza 12 l’avventura di santiago dubbio verrà. Bruciai i panni del filosofo del sospetto, tolsi le incrostazione al mio cuore, tendendo lo sguardo potente sul pomeriggio che avanzava, inarcai le sopracciglia nella tensione dello sforzo, perché eravamo in salita, una dura salita di nove chilometri ci metteva alla prova, riduceva le nostre possibilità di pensiero, ma allargava la dimensione dell’anima che si apriva a vedute insolite. Chiusi nell’abitacolo di macchine più o meno grandi e di supposta potenza, noi siamo impotenti, trascinati alla cieca nel vortice di una vita su ruote, scandita da ritmi innaturali, dove non entrano profumi di glicini e di ginestre, dove non respiriamo se non il malsano della corrotta civiltà del consumo a ogni costo. Quando rimettiamo i piedi a terra, corsi di training-autogeno, di yoga, massaggi ayurvedici ci soccorrono per ridarci la dignità conculcata, il senso di una vita spezzata, la dimensione infinita di quel tempo franto nei rivoli impazziti nella psico-patologia del quotidiano. Verso Santiago i piedi a terra, lo sguardo teso, lo sforzo misurato, i passi adeguati, i ritmi naturali, il respiro del corpo nell’anima mundi. “Fermati, filosofo” mi dissi, “e guardati intorno, osserva la nuova compagnia che avanza; ecco arriva un gruppo di Italiani: finalmente si possono scambiare le famose quattro chiacchiere”. Avanzai con entusiasmo verso di loro, sperando che si trattasse di persone semplici, ne individuai l’età e lo scoraggiamento mi assalì. Non erano giovanissimi, ma tutti quarantenni più o meno ben conservati, e la mia esperienza sa che si tratta delle persone più complesse. Mi atteggiai rilassata e sicura, incerta però sul senso del nostro Cammino, sul futuro che avanza, sui sensi che si aprono tra i boschi della Navarra dove il sole stava abbassando le ali. Tanto basta perché la stanchezza dei chilometri compiuti in salita non abbassasse la guardia e il punto interrogativo si impennasse in altezze non proprie dell’uomo. Osservai l’italiana più in crisi, mentre abbondante sudore le irrorava i capelli bagnati, la fronte, 13 giovanna albi il collo, diffondendosi lungo la maglietta da torcere al più presto, per il disgusto che nutro nei riguardi dei lavori forzati. Il mio senso del ridicolo e della dignità umana mi gettarono nell’imbarazzo. “Faresti bene e fermarti”, le dissi con tono di ben camuffata solidarietà umana; in realtà non amo l’immagine del pellegrino che forza i limiti, che avanza piagato e spossato, che muore sul campo per dimostrare dedizione a un’idea che a volte è stolto egotismo applicato alla fede. Io penso che le nostre azioni debbano essere proporzionate alla nostre possibilità, che così è stabilito per noi, che l’onnipotenza viene punita, che la tracotanza del gesto e della parola non dà scampo se non a chi riconosce il limite valicato. Ho in odio me stessa che mi inarco lì dove dovrei retrocedere, ma questo, pur umano, mi è umanamente impossibile. Ebbene l’italiana madida di sudore non sentiva ragioni e, pur lamentandosi delle vesciche, formulava interrogativi inquietanti sulla nostra esistenza. L’occhio allenato della mia parte psicoanalitica riconobbe in lei tracce presenti di un conflitto irrisolto, il desiderio di sciogliere non so che all’interno di un complesso umano di incerta interpretazione. Rigettai nella parte più nascosta di me il sospetto che brucia e mi atteggiai calda e comprensiva, come si deve tra pellegrini sulla terra, la incoraggiai mentre una sensazione amara mi attraversava: la verità è che non voglio rimettere in circuito cose vecchie di me, “currunt... horae”, mi ripetevo persuasiva all’orecchio del cuore, “avanza, sorridi, guarda l’alba, non ricadere nell’oscurità dei pensieri”. Mi ripassai nella mente, abbiamo in prestito un corpo, ma altrove è il nostro destino, oltre il nostro pensiero. La cara italiana, Luisa, era molto spossata, ma lo sforzo era dell’anima incerta; la situazione era precaria, per me aveva seri problemi psico-sessuali, avrebbe potuto trattarsi di un caso di ermafroditismo. Osservai la protesi dei seni sodissimi che stridevano con le rughe della pelle sofferente, il viso duro che si atteggiava a dol- 14 l’avventura di santiago cezza studiata, lo sguardo goffamente seduttivo, mentre un giovane spagnolo inesperto subiva l’allettamento dei seni e la mente offuscata non coglieva le evidenti contraddizioni. Ristrutturai la mia psiche aggrovigliata in tali pensieri, strinsi le corde dello zaino, alleggerii il peso sulle spalle bilanciandolo con il bastone e corsi all’impazzata per sentieri inospitali e sassosi, mettendo i piedi nel rischio, ma la vita momentaneamente al sicuro. Intravidi il cappello arancio del mio uomo, mi attaccai allo scopo, lo inseguii, lo raggiunsi in una corsa affannata e gridai “è tutta colpa di mia madre”. “Infiniti sono i modi di pensare, questo è il tuo pensiero analitico” egli mi disse, “volgi la mente alla filosofia e la tua percezione guarirà. Gli analisti devono diagnosticare, ma tu devi cambiare e si può”. Il pericolo, si era allontanato, ritornava la vita ai piedi della fonte del pellegrino, mi rinfrescai, respirai, allargai la mente e accennai un sorriso fuori della paura. 15