Luigi Pulvirenti DORIVAL DE BAHIA

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Luigi Pulvirenti DORIVAL DE BAHIA
Luigi Pulvirenti
DORIVAL DE BAHIA
Euno Edizioni
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: – Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando -.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
che mi sedea con l’antica Rachele.
Dante, II Canto dell’Inferno, 97-102.
Incontrai per la prima volta Dorival mentre stavo tornando a casa. Non che mi facesse piacere andarci: non
avrei trovato nessuno ad aspettarmi. Mi trattenni più del
dovuto nella trattoria dove cenavo abitualmente: un bicchiere di vino, un giro di briscola in cinque insieme ai cuochi e agli sguatteri per ammazzare un po’ di tempo. Quando uscii la città era deserta. Poche macchine sul Lungotevere e qualche coppia che si attardava a parlare sui muretti di Ponte Sisto.
Casa. Insomma: il residence del centro in cui soggiornavo dal martedì al venerdì, nella mia vita da pendolare
per ragioni di lavoro. Il silenzio era talmente penetrante
da apparire surreale; pensi che durante il giorno lì è un
concerto di clacson, suoni gracchiati dalle radio delle
macchine, sirene di auto blu e autoambulanze, concerto
sinfonico di tubi di scappamento e marmitte. La notte, in
primavera, scende piano sui cortili di Roma. E tu che stai
dentro ti senti avvinghiato da una sensazione confortante,
che ti fa sentire meno straniero di quanto non ti sembri di
esserlo normalmente. Di quanto, in fondo, tu non lo sia realmente. Che rimani sempre uno straniero. E però integrato. Parte del Presepe ma non partecipe del Presepe.
La notte romana ha questa forza miracolosa di rendere
l’armonia nelle diversità, di fare eufonia delle dissonanze.
Come quel quadro di Magritte, col cielo stellato e il panorama campestre illuminato dalla luce mattutina.
D’un tratto, proprio all’angolo del ponte che conduce
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al monumentale prospetto del Palazzaccio sul Lungotevere, vidi un uomo. Appoggiato al muretto, la custodia
aperta della chitarra a terra. Dall’altro lato della strada mi
sembrò di distinguere una Ibanez acustica, vecchio modello. « Quanti anni avrà?» pensai, dando per buona, come risposta, che fosse sulla sessantina. Indossava una camicia senza colletto raffazzonata con una croce di legno
stretta intorno al collo, un paio di pantaloni di jeans stretti
e corti alle caviglie, un giubbotto di velluto chiaro, sandali
di cuoio ai piedi indossati sopra un paio di calzini bianchi
e un cappello di canapa in testa.
Il semaforo pedonale era rosso. Nell’attesa cercai di
ascoltare cosa strimpellava. E distinsi nitidamente il giro
di accordi della canzone: Agua de beber, Agua de beber camar / Agua de beber, Agua de beber camar / Eu nunca fiz
coisa tao certa / Entrei pra escola do perdao...
Canticchiai le parole nella mia testa. L’uomo, infatti,
pizzicava le corde della chitarra riproducendo il motivo
della canzone, senza però cantarne il testo.
«Che strano» pensai.
La luce diventò verde e io ripresi a camminare. Tra me
e me riflettevo sul fatto che questa città ha due anime,
maschio e femmina, e nella serenità della notte riesce a
restituirti quello che, durante il giorno, ti sottrae. Un incontro occasionale, delle note che si perdono nell’aria, un
motivo da fischiettare mentre torni a casa. La sensazione,
il vero motivo per cui non riesci a sottrarti dal suo abbraccio mortale, di sentirti perfettamente a tuo agio anche
quando sai di essere perfettamente fuori posto.
Comunque, non pensai più a quella strana figura di
musicista incontrata sul Lungotevere. Almeno per quella
sera.
La strada correva dritta. Nessuna macchina, qualche
sporadico Tir camminava nella corsia di destra senza in6
tralciare la marcia. Sergio, seduto nel posto del passeggero, parlava, parlava, parlava... per farmi compagnia. Per
non farmi addormentare. Eravamo stanchi, stanchissimi,
quella sera, ma felici. Avevamo suonato bene come non
mai. Il pubblico si era divertito, perché noi ci divertivamo
sul palco. Era scattato quel coinvolgimento che solo chi
ha suonato davanti a un pubblico, almeno una volta, può
capire. Non importa che sia a casa di amici, in un club, o su
un palco da concerto rock. Cambia solo l’intensità, ma
l’emozione è sempre quella. Era stato un gran concerto. Il
repertorio era composto solo da cover, ma presto avremmo suonato anche canzoni nostre. Ed eravamo certi che
qualcuno, impresario, talent scout, musicista, giornalista,
ci avrebbe notato. Per l’estate avevamo in programma di
partecipare a tutti i festival jazz a cui ci avevano invitato.
Il nostro nome cominciava a girare. E qualcuno, in giro
per l’Italia, ci avrebbe notato.
Nella mia macchina eravamo solo io e Sergio. Avevamo tutti gli strumenti più ingombranti caricati dietro: rullante, tommy, piatti, amplificatore per chitarra e basso, il
mio piano elettrico. Gli altri ci seguivano dietro, a poche
decine di metri di distanza.
Stavo bene. Non avevo bevuto. Non avvertivo sonnolenza. Sentivo Sergio che parlava, parlava, parlava. A un
certo punto si mise a cantare il nostro cavallo di battaglia.
Io socchiusi gli occhi per dispormi meglio all’ascolto. Per
apprezzare meglio la sua voce. Non avevo sonno. Lui cantava, e io ascoltavo, rapito dalla malinconia delle sue note
basse. Stavo per unirmi a lui, ripetendo quell’incastro armonico che suscitava sempre una vibrazione nel pubblico
quando alla sua si sovrapponevano le voci di Giovanna,
Laura, e Caterina. Volevo solo godermi per un altro attimo appena, a occhi chiusi, la cantilena della seconda strofa e poi...
Mi risvegliai in un bagno di sudore. Il cuore batteva a
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tremila. La scimmia che mi tormentava l’anima era di
nuovo lì, a ricordarmi che non avrei mai potuto sottrarmi
al suo giogo. Ebbi l’impressione di vedere la faccia sorridente di Sergio, la stessa che aveva poco prima dell’impatto, disegnata nel chiaroscuro che la luce della lampada
del comodino proiettava sulle tende di tessuto rosso della
stanza, al secondo piano del residence. E tirai forte il respiro per vincere la tachicardia.
L’indomani, in ufficio, dire che si respirasse aria di tempesta è poco. Il cliente che io stavo seguendo, il fondo
d’investimento a capitale misto saudita e inglese, rappresentato da una banca con sede a Nassau che copriva
l’identità dei veri finanziatori, si era fatto sentire con i
miei principali. Non per complimentarsi: l’investimento
da centocinquanta milioni di euro per la costruzione di un
sistema di parchi fotovoltaici tra Sicilia e Calabria era a rischio per l’impasse in cui si trovava il governo sull’approvazione del nuovo decreto sulle energie rinnovabili. Tra il
ministero dello Sviluppo economico e quello dell’Ambiente non si trovava l’accordo quasi su niente e in particolare sul conto energia. Secondo i primi l’incentivo sarebbe dovuto essere legato all’entrata in esercizio dell’impianto, quello dell’ambiente si pronunciava per la
concessione alla fine dei lavori.
Nel mezzo c’eravamo noi, la Green Energy Project
Consulting, società di lobbing specializzata nella consulenza per aziende e fondi italiani e stranieri desiderosi di
investire nel nuovo Eldorado: l’energia verde e lo sviluppo sostenibile. La nostra mission era guidare facoltosi investitori dentro il mare agitato della normativa italiana
che regola il settore, suddivisa tra diversi ministeri, spesso
con idee divergenti. Come nel caso, per nulla di secondaria importanza, dell’accesso agli incentivi del conto energia per il 2011. La cosa paradossale è che i manager del
fondo non ci chiedevano di fare pressione per sostenere
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la posizione dell’uno piuttosto che dell’altro. A loro in
fondo stavano bene entrambe. Purché si arrivasse a una
decisione. Il rischio, già sfiorato un mese prima, era che il
governo decidesse di bloccare gli incentivi in ragione del
fatto che il tetto di kw/ora il cui raggiungimento era stato
previsto per il 2020 era già stato raggiunto. La conseguenza sarebbe stata la paralisi del settore.
A livello teorico, noi avevamo fatto bene il nostro lavoro. Decine di incontri con i deputati delle commissioni
ambiente e di quella sviluppo, con i tecnici e i funzionari
dei due dicasteri, non per far pressione perché si convergesse su una delle due posizioni ma perché se ne fissasse
una. Il mancato rinnovo degli incentivi avrebbe fatto saltare migliaia di posti di lavoro, con l’ulteriore conseguenza della fuga verso altri Stati di quei pochi investitori stranieri che apparivano interessati al nostro Paese. Quando
pareva che si fosse addivenuti a una soluzione, l’ennesimo
stop.
– Hai capito o no? – urlò al telefono il dottor Diotallevi, amministratore delegato della Gep, dal suo ufficio della sede centrale di Milano – a quelli non gliene frega niente del livello teorico! Vogliono certezze. Cer-tez-ze! Hai
capito? Ci pagano un milione di euro l’anno per dargliele
e noi non riusciamo neppure a dire se gli incentivi comunitari saranno confermati o no! Adesso muovi il culo dalla sedia e vai allo Sviluppo economico a parlare con il sottosegretario. E stasera voglio una risposta convincente!
Muoviti!
– Pensavo di andare all’Ambiente per parlare con quel
funzionario con cui mi sono incontrato più volte e... – non
mi fece finire la frase.
– Lo Sviluppo, ho detto!
Il rumore della cornetta sbattuta in faccia mi ricordò
quello di quando, da operatore di call center, venivo rimproverato dalle casalinghe che disturbavo ogni giorno
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all’ora di pranzo per convincerle ad abbandonare il loro
vecchio operatore telefonico passando a quello che pagava il call center per cui lavoravo, che poi pagava me per
rompere l’anima al prossimo per 650 euro al mese.
Ne era passato di tempo, ne avevo fatto di strada. Avevo accettato quel lavoro perché mi consentiva di sopravvivere in attesa che la mia carriera musicale ingranasse.
Della laurea non mi era mai importato granché; non
l’avevo mai considerata la pietra miliare su cui costruire il
mio futuro. Avevo archiviato il diploma in economia e
commercio (« Prospettive del mediocredito come volano
per lo sviluppo del Paese», il titolo della tesi in Scienza
delle Finanze). L’avevo appesa al muro della casa dei miei
con molto meno entusiasmo del diploma in pianoforte.
Infatti questo era la prima cosa che avevo portato nell’appartamento che avevamo preso in affitto con Laura, qualche mese prima del matrimonio.
Se penso a tutta la strada fatta, a come ero diventato
un lobbista di discreto successo, due pensieri mi si affacciavano nella mente: il primo è che non c’è né un capo né
una coda alle cose che succedono nella nostra vita; solo il
nostro inutile affannarsi per produrre risultati che arriveranno diversi da come li avremmo voluti, e comunque
perché si saranno prodotti da sé, senza che il nostro impegno li abbia influenzati. Il secondo è che il nostro Paese è
veramente ridotto male, se consente a un pianista semifallito come me di fare successo in un lavoro a cui è arrivato
per caso, che non ha mai particolarmente amato e dai cui
desidera fuggire solo che se ne presenti l’occasione.
Tirai un lungo respiro. L’abbrivio di questo pensiero si
spense lentamente nella mia mente. Digitai il numero di
Sara, la mia assistente, chiedendole di chiamare l’ufficio
del sottosegretario e fissare un appuntamento, anche telefonico, per il primo pomeriggio (strada maestra verso
l’obiettivo). Poi telefonai a Felice Gelsomino, mio «com10
pagno di merende» romano e principale artefice dei miei
successi e delle mie disgrazie, funzionario della presidenza che lavorava al Protocollo, in buoni rapporti con il capo segreteria del sottosegretario (se la scopava ogni martedì e ogni giovedì, puntuale come la partita di tennis e
inesorabile come la lezione in piscina), chiedendogli di
perorare la mia causa (scorciatoia verso l’obiettivo). Felice, come sempre, fu disponibile: infatti, pochi minuti dopo, Sara mi chiamò dicendomi che la segretaria del Sottosegretario mi avrebbe ricevuto alle quattordici e trenta
(esempio mirabile di come tutte le scorciatoie conducono
alla strada maestra. Meglio imboccarle, sempre).
Scostai leggermente la tendina della finestra del mio
ufficio, al terzo piano del palazzo che dava sul largo di
Santa Susanna, appena dopo l’incrocio con via Barberini.
La tenevo sempre chiusa perché mi dava fastidio il riflesso del sole durante le ore centrali della giornata. C’era più
gusto a farsi sorprendere dalla luce abbacinante del mezzogiorno romano piuttosto che tenersela sempre lì, a portata di mano, come se fosse un complemento d’arredo
compreso nel prezzo d’affitto. Il cielo, sereno e potente
del suo blu adesso finalmente esibito senza remore, si stagliava oltre i tetti dei palazzi che si allungavano verso via
Bissolati e via Umbria, disegnando ombre irregolari sulle
finestre e sui muri ai piani alti. Giù, a livello della strada,
il serpentone di auto formato dai sensi di marcia obbligati
che costringevano a fare il giro completo del largo per
reimmettersi su via XX settembre pareva muoversi ripetendo lo strisciare placido di un anaconda prima della
caccia. Tutto trasmetteva una composta sensazione di normalità, su cui però aleggiava qualcosa di inafferrabile capace di modificarne, a un tratto, il senso e i caratteri.
Mi fermai a guardare. Non riuscivo a tirare il respiro.
Provai due, tre volte. Alla quarta ci riuscii. Tornai alla scrivania. Accesi il computer, inserii la password. Controllai
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la posta elettronica ricevuta. Sette messaggi: due inviatimi
praticamente in tempo reale con la telefonata di Diotallevi dalla sede di Milano. Il primo aveva in allegato la lettera con cui gli advisor del fondo avevano messo nero su
bianco la loro preoccupazione per il destino dell’investimento; il secondo una nota, già preparata il giorno prima
evidentemente, con cui mi venivano impartite le istruzioni da seguire pedissequamente nel corso dell’incontro del
pomeriggio al Mise. Diotallevi cominciava a non fidarsi
più di me.
Andai sul menu delle chiamate in uscita del telefono.
Cercai il numero di Laura. Al quinto squillo rispose una
voce che non era la sua, ma del bidello.
– Pronto?
– Buongiorno, sono Andrea Faranda. Cercavo mia moglie.
– La professoressa Giuliani è in classe.
– Può dirle se mi richiama?
– Glielo riferirò durante la ricreazione.
– Grazie, buona giornata.
– A lei.
La fredda cortesia del bidello voleva significare che
Laura aveva dato disposizione che non le passassero le
mie telefonate. Non mi avrebbe richiamato durante la ricreazione, quando, ligia al dovere come sempre, avrebbe
ripreso il telefono che lasciava in custodia ai bidelli durante le sue ore di lezione, perché non fosse neppure sfiorata dalla tentazione di controllare chi l’avesse cercata,
dando in questo modo il cattivo esempio ai suoi studenti,
che già di loro non ne avevano bisogno. La mattina trascorse così. In attesa che si facessero le tredici per uscire
fuori, mangiare una cosa rapida al bistrot sotto l’ufficio e
poi mettersi in cammino verso il ministero.
Quella sensazione che aleggiava mentre rubavo uno
sguardo nascosto dietro la tendina, esplose dentro di me
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appena misi fuori il naso dal portone del palazzo. A Roma
era scoppiata la primavera.
Mi dicono che capiti sempre all’improvviso, come un
colpo di vento nella bonaccia o un’onda nella risacca.
Ti sorprende ancora costipato nei vestiti invernali, donandoti la piacevole sensazione di mettere via prima il
cappello, poi la sciarpa, infine il cappotto invernale.
La senti agli angoli delle strade, le stesse che percorri
ogni giorno; eppure non puoi fare a meno di percepire
qualcosa di differente. La cogli nelle espressioni del viso
dei perfetti sconosciuti che ogni mattina incroci sulla pensilina dei pullman a piazza San Silvestro; ma rimane lì, come un non detto.
Il motivo è semplice: è proprio quel che ha di inesprimibile a rendere così bella la primavera romana. Quel suo avvolgerti in un calore inaspettato, che rende confusa l’aria
eppure straordinariamente nitidi i colori. Un invito a scendere in strada, attraversare le ombrose strade interne che
da piazza di Pietra portano al Pantheon, da lì proseguire
per piazza della Minerva e finalmente sbucare in una Torre
Argentina illuminata dal sole, affacciarsi sugli scavi accanto alla vecchia curia, proprio a due passi da dove fu assassinato Caio Giulio Cesare, e sorprendersi di tanta bellezza,
senza meravigliarsene: come accade a tutto ciò che è troppo esibito per suscitare ancora stupore.
Un mio amico, romano de Roma ma di madre friulana
(un po’ come tutti i romani rimasti a Roma, che lo sono
solo a metà), mi dice che a lui la primavera ricorda i tempi
quando la sua città era abitata dai romani e Trastevere
non era ancora un pub a cielo aperto, rifugio serale di finti
alternativi o autentici fighetti in cerca di saldi di romanità
a prezzo turistico; quando Carlo Verdone abitava in via
Giulia e la percorreva di corsa per andare a tirare sassi alla finestra del primo piano di via delle Zoccolette, dove
abitava Alberto Sordi. Di quando, insomma, Roma era
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come quei paesi in cui tutti si conoscevano, potevi lasciare
la porta di casa aperta e al Gianicolo le coppiette andavano a infrattarsi.
Mentre lo dice, rimpiangendo una Roma che non c’è
più, che io non posso rimpiangere non avendola vissuta,
ma di cui provo immediatamente nostalgia come mi capita per tutte le cose del passato, capisco che nella tela
squarciata da elementi di disturbo io sono uno di questi.
Uno dei tanti che arriva il lunedì, va via il venerdì, vive a
Roma ma non vive Roma. Che condivide il cielo, i colori,
ma non entrerà mai nell’anima di questa città. Perché
troppo siciliano. Per quella irrequietezza che lo porta
istintivamente a ritrarsi di fronte a tutto quello che potrebbe turbare il suo castello di abitudini, mantenendo
una distaccata cordialità senza mai avventurarsi sui sentieri dell’affetto incondizionato.
Era scoppiata la primavera a Roma. Mi centrò sull’uscio del palazzo signorile sede dell’ufficio dove svolgevo il compitino di una esistenza da replicante che avrei voluto mandare al diavolo prima possibile. Prima che tutti i
Diotallevi del mondo, i litigi tra ministeri, le aspettative di
capitalisti senza impresa e di imprenditori senza capitali
facessero strame di quello che ero stato un tempo. Mi colpì come un fucile di precisione mentre percorrevo via Bissolati, proseguendo per via Veneto fino a Piazza Barberini, e poi già per via del Tritone. Mi colse nel mezzo di uno
dei miei abituali pensieri sull’essere adeguato o meno alle
cose che faccio, alle esperienze che vivo. Al mio lavoro, alle mie amicizie, ai miei affetti. Alle aspettative che spesso
genero e alle delusioni che implacabilmente infliggo.
Arrivato a largo Chigi, davanti al profilo laterale del
Palazzo del Governo, pensai che, in fondo, è la normalità
sentirsi inadeguati. È un salutare bagno di umiltà quotidiano, per non perdere il senso di quello che si è. Forse
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aiuta a vivere meglio. Sicuramente a sorprendersi anche
per lo sbocciare improvviso di un qualcosa che arriva ogni
anno. Inevitabilmente. Dopo l’inverno, la primavera.
Giunto davanti Palazzo Chigi ricordai che l’appuntamento era con il sottosegretario allo Sviluppo Economico. La sede del ministero è in via Veneto. Improvvisamente il prospetto di via del Tritone non mi sembrò più uno
squarcio commovente della Città Eterna, ma una montagna troppo alta da scalare. L’aria della primavera perse
tutto il suo fascino, ricordandomi che quella era anche la
stagione del polline e delle allergie.
Feci il percorso a ritroso molto lentamente. All’incrocio con la galleria tolsi il soprabito. Al semaforo di piazza
Barberini la giacca. Davanti all’ingresso del ristorante
giapponese collocato proprio all’inizio di via Veneto tirai
su le maniche della camicia bianca e sbottonai il colletto,
allentando il nodo. Davanti all’ingresso del ministero ero
ormai un perfetto Testimone di Geova in una giornata di
inizio luglio, complice la borsa a tracolla che mi segue
ovunque, ultimo dono della mamma di Laura quando ancora non sapeva che il nostro matrimonio era già finito.
Lasciai il documento d’identità all’ingresso, dove
l’usciere, senza dimostrare alcun entusiasmo, digitò il numero della segreteria del sottosegretario. Mi fece segno di
attendere qualche minuto e di accomodarmi in una delle
poltrone della sala d’attesa. Ebbi il tempo di ricompormi,
tornando ad avere l’aspetto di un avvocato in fila all’ufficio liquidazione sinistri di una compagnia di assicurazione di media dimensione. Tirai fuori dalla borsa lo stampato della seconda mail inviatami dalla sede di Milano e cominciai a leggere:
«... Confido in te, con il residuo di fiducia che ho ancora
intenzione di concederti.»
La conclusione della nota suonava di minaccia che,
mancato l’obiettivo, avrei fatto meglio a dimettermi piut15
tosto che subire l’onta (secondo il loro modo di pensare)
del licenziamento.
Leggendo quelle parole, invece, mi sentii sollevato.
Chiunque altro sarebbe stato colto da disperazione. Io no:
assaporai, piuttosto, il dolce sapore della libertà. Era evidente che il mio equilibrio mentale stava andando a rotoli. E che avrei avuto bisogno di qualcuno che mi aiutasse.
Passarono quaranta minuti prima che l’usciere, a cui
evidentemente non stavano simpatici i Testimoni di Geova, si avvicinasse alla poltrona catalogo Ikea 1982 in cui
ero sprofondato, facendomi cenno con uno sguardo di
commiserazione che era arrivato il mio turno. Camminando quattro passi dietro di me, come se volesse controllare
che non approfittassi di un suo momento di distrazione
per entrare dentro uno degli uffici del piano terra annunciando agli annoiati impiegati che la fine del mondo era
vicina, mi scortò verso l’ascensore che portava al piano
dove si trovavano gli uffici del sottosegretario. Aspettò
che si chiudesse la porta con una espressione del volto simile a quella di John Malkovich in «Burn After Reading»
dei fratelli Cohen, che contraccambiai con un sorriso alla
Jim Carrey nel primo «Ace Ventura l’acchiappanimali»,
di cui lui, ovviamente, non colse l’umorismo.
L’ascensore sbucava direttamente davanti alla porta
d’ingresso degli uffici. Suonai e mi venne aperto solo dopo che l’occhio bionico delle telecamere di sorveglianza
ebbe scannerizzato cornea e pupilla del mio occhio destro, concludendo con ragionevole certezza che non ero il
Testimone di Geova venuto ad annunciare alle folle la venuta del Regno, come erano stati messi in guardia da John
Malkovic, ma solo l’amico di Felice Gelsomino.
Barbara, la segretaria del sottosegretario, mi accolse
sulla porta. Aveva l’aria di chi doveva dimostrare gratitudine a Felice per qualcosa che avevano fatto la sera prima
o che doveva assicurarsela preventivamente per qualcosa
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che avrebbero dovuto fare la sera dopo. In ogni caso, io
approfittai della situazione. Venni introdotto al cospetto
del sottosegretario. Questi mi salutò calorosamente. Non
saprei dire se anche lui aveva gratitudine da mostrare o
da accreditarsi nei confronti della segretaria, ma in ogni
caso non era affare mio. La discussione si sviluppò esattamente nei termini prospettati dal dottor Diotallevi.
– Gli incentivi scadranno nel 2016 perché a quella data
sarà raggiunta la Green Priority – disse il sottosegretario.
– Gli investimenti programmati nel settore sono ingenti e, poiché gli impianti non sono ancora stati autorizzati,
il governo potrebbe valutare la possibilità di fissare la
deadline al 2020 – ribattei io, cercando di non far apparire
questo come un consiglio ma come una possibilità.
– Lei ha ragione in linea di principio – disse il sottosegretario, – ma il governo ha il dovere di pensare una politica energetica guardando a tutte le opzioni in campo.
– Certamente – dissi io, – infatti la scelta del governo di
investire sul mix energetico è senz’altro quella migliore.
Ciononostante, data la crisi internazionale e la difficoltà
di reperire fondi stranieri disposti a investire nel Paese,
dobbiamo essere tutti rallegrati dal fatto che nel settore
delle rinnovabili ci siano gruppi disposti a scommettere
centinaia di milioni, credendo nelle potenzialità del settore; gruppi che ci chiedono in cambio solo una cosa: certezza, di tempi e normative.
Arrivati a quel punto il sottosegretario ebbe la ragionevole certezza di aver dato alla segretaria prova della
sua gratitudine, per cui mi congedò con un «Dottor Faranda, lei come sempre è stato chiaro. I suoi suggerimenti, va
da sé, saranno tenuti in considerazione». Che mi suonò
molto simile al «Mi dispiace, sono sotto la doccia, non
posso parlare» con cui abitualmente ci si libera dai Testimoni di Geova quando suonano al citofono alle nove della domenica mattina. L’unica veramente contenta era la
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segretaria, che aveva avuto conferma del suo essere al
centro dei pensieri, e di qualche altra cosa, di ben due uomini.
La ringraziai per la disponibilità. Mi accompagnò alla
porta, aspettò che arrivasse l’ascensore e poi richiuse, in
contemporanea con lo scatto delle porte dell’ascensore.
Quella doppia chiusura mi diede anche fisicamente la misura della distanza che correva tra me e l’obiettivo che
dovevo raggiungere, per restare prigioniero, o fallire, guadagnandomi la libertà.
Arrivato al pianterreno scivolai velocemente verso
l’uscita. Diedi un’occhiata alla guardiola, sorprendendo
l’usciere nemico dei Testimoni di Geova al telefono.
«Pèntiti!» gli dissi, affrettando il passo.
I raggi del sole filtravano tra i rami degli alberi di via
Veneto, quasi stessero cercando il mio viso per illuminarlo. Rendevano così ancora più evidente la mia estraneità
a quei luoghi, a quello che vi si faceva. A quello che io
stesso ero chiamato a fare.
In ufficio scrissi la nota sull’incontro pomeridiano e la
mandai per mail a Diotallevi. Poi spensi il computer, presi
i faldoni con i dossier sul tavolo e li riposi dentro il secondo cassetto della scrivania, chiudendolo a chiave. Mi abbandonai sulla poltrona, reclinando la testa. Cercai un
punto nel soffitto da fissare e dopo averlo scelto, in corrispondenza di una quasi impercettibile macchia di umido,
me ne restai immobile a guardarlo. Più la fissavo e più mi
sembrava che quella impercettibile macchia non fosse informe, ma avesse le sembianze di qualcosa di ben distinguibile. Dapprima mi parve una farfalla, o meglio una di
quelle grosse spille a forma di farfalla che ancora oggi
usano le signore per addobbare le loro giacche di lana pesante quando si recano alla messa del Vespro; poi un piccolo cervo, dalle corna appena pronunciate, come fosse in
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posa prima dell’inizio di una corsa a cui appariva esitante
se lanciarsi o no; infine come una croce, ma non come una
qualsiasi: una miniatura della croce che sormontava l’imponente altare di legno massiccio che troneggia dentro la
cattedrale di Cracovia.
Quella piccola macchia d’umido e le diverse forme che
essa assumeva ai miei occhi, esprimevano le evoluzioni
che avevano avuto i miei stati d’animo negli ultimi anni.
La continua ricerca di un senso, che si modifica impercettibilmente ma costantemente, alle cose che erano successe. Senza però riuscire a trovare un legame che le tenesse
insieme tutte. Ero certo che ci fosse perché assumevo come episodio scatenante la morte di Sergio e da lì facevo
discendere tutto il resto. Non era possibile che quell’incidente fosse stato solo un incidente e non la causa della fine di tutto quello che era stata la mia vita fino a quel momento, come non era possibile che quella macchia d’umido fosse solo una macchia d’umido.
Avevo bisogno di trovare un collegamento tra le due
cose. Avevo bisogno di costruire un senso, che andasse oltre i meri fatti per dare una base meno instabile alla mia
immaginazione. Altrimenti, questo mi era chiaro, avrei
continuato a essere risucchiato dentro il gorgo di circostanze, coincidenze, casualità, fino a considerarmi una vita
in balia degli avvenimenti e non unico autore e responsabile delle mie disgrazie.
A volte pensavo che, tutto sommato, la prima condizione sarebbe stata preferibile: mi sarei sentito sollevato almeno da una parte dei miei sensi di colpa. Ma la vivevo
come una giustificazione costruita per sfuggire alle mie
inadeguatezze, al mio non essere stato all’altezza delle responsabilità.
Nessuno mi aveva mai considerato responsabile della
morte di Sergio. Tutti sapevano che avrei preferito morire
io al suo posto, in quel maledetto incidente. Ma avevo bi19
sogno di sentirmi responsabile, di caricarmi per intero il
peso di quella colpa per dimostrare, per prima a me stesso, che tutto quello che era successo dopo ne era conseguenza.
Dio, mi sento così stanco! Quanto ancora dovrò sopportare questo fardello? Il peso di questi pensieri che non
mi danno pace? E meno me ne danno perché tengo tutto
dentro! Avrei voglia di scendere giù in strada, piazzarmi
proprio al centro del Largo di Santa Susanna e mettermi
a gridare così forte e così a lungo che dall’anaconda di
macchine che striscia verso via XX Settembre i conducenti, scesi dalle loro automobili, si fermerebbero a guardarmi con le orecchie tappate, terrorizzati dalle mie grida,
con una smorfia di paura disegnata sul viso simile a quella
della figura dipinta nell’«Urlo di Munch».
Se solo potessi riposare. Mi basterebbe chiudere gli occhi per cinque minuti, cinque appena, e tutto tornerebbe
come prima. Anzi, adesso ci provo. Ecco, sistemo meglio
la testa, appoggio la guancia allo schienale, metto le braccia conserte. Sono convinto che cinque minuti di sonno mi
faranno bene. Ma solo cinque minuti, cinq.....
– Andrea?
– Eh?
– Andrea? Sono Sara.
– Eh? Oh, Sara! – mi svegliai di soprassalto. Istintivamente guardai al soffitto. La macchia di umido non c’era
più.
– Scusami, mi sono appisolato cinque minuti.
– Cinque? Non direi.
– Perché?
– Sono le 18 e 30...
– Come le 18 e 30? Ma quanto ho dormito?
– Due ore .
– Due ore? L’aereo! Sono in ritardissimo!
– Aereo? Non hai nessun aereo, oggi.
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– Come no?
– C’è sciopero. Oggi tornerai in Sicilia con il treno. Non
ricordi?
Avevo rimosso lo sciopero degli aerei. Il pensiero di
dover trascorrere dieci ore dentro il treno non mi entusiasmava per nulla. Meno male che avrei fatto il viaggio in
vagone letto.
– Non ci voleva proprio. Hai il biglietto del vagone letto?
– Ecco, a questo proposito, volevo dirti che... – Sara era
esitante. Come se non volesse proseguire.
– Volevi dirmi che?
– Insomma: Trenitalia ha fatto un casino con le prenotazioni. Sei in overbooking nel vagone letto.
– E quindi?
– Appena arrivi a Termini vai in biglietteria. Sei in lista
d’attesa: se si libera un posto, è il tuo.
– Altrimenti?
– Viaggerai in seconda classe: è tutto prenotato.
– Ma dici sul serio?
– Purtroppo sì, concluse Sara, sinceramente contrita.
L’irritazione durò poco. La prospettiva di scappare da
Roma per tornare a casa era talmente bella da rendere
tutto il resto secondario.
Raccolsi le mie carte dentro la borsa a tracolla, presi il
trolley e, dopo aver chiamato il taxi, salutai Sara e uscii
dall’ufficio.
Entrai dentro Termini dal lato di via Giolitti, recandomi subito a un banco biglietteria.
– No, signore. Purtroppo non si è liberato nessun posto nel vagone letto. Mi dispiace, rispose l’addetta alla mia
domanda.
– Le stacco un biglietto di seconda classe?
– Non vedo alternative.
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Evidentemente l’addetta provò pena, per me.
– Facciamo così. In seconda classe ci sono molti posti
disponibili. Le assegno uno scompartimento dove prenderà posto solo un’altra persona. Così magari si può sdraiare, durante la notte.
Ringraziai, pagai il biglietto e mi recai al binario. «Spero che il compagno di viaggio non sia un ruttatore e scorreggiatore professionista», pensai caustico, mentre aspettavo sulla pensilina che il capotreno desse il segnale che si
poteva salire a bordo.
Salii sul treno tra i primi. Nessuna traccia del mio compagno di viaggio. Mi sentii sollevato al pensiero che, magari, non si sarebbe presentato nessuno e avrei potuto trascorrere la notte da solo.
Mi accomodai nella fila di sedili di sinistra, quella che
dava la fronte alla direzione di marcia. Provavo nausea
nel viaggiare spalle alla strada. Riposi il trolley nel vano
bagagli sovrastante e mi sedetti vicino al finestrino.
Tirai fuori dalla tracolla l’iPad e l’iPod, insieme a quel
libro di Massimo Fini che avevo iniziato da qualche giorno: «Dizionario erotico. Manifesto contro la donna in favore della femmina». Mi sarebbe piaciuto conoscere l’autore.
Insomma: mi disposi per trascorrere una notte in pace
e serenità. Ne avevo bisogno. Nella riposta speranza che
non si presentasse nessuno a rivendicare il suo diritto a
viaggiare in quello scompartimento.
Cercai nella rubrica del telefono il numero di Giovanna. Digitai il tasto verde di chiamata. Dopo tre squilli, mia
cognata rispose.
– Pronto, Andrea! Come stai?
– Insomma. Voi? I bambini.
– Mah, tutto sommato bene. Davide dorme da un suo
compagno di scuola, fanno un pigiama party.
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– Marco?
– Oggi lo abbiamo portato a fare terapia. Il dottore dice che migliora, è più sicuro nei movimenti. Ma ancora
non riesce a parlare...
La voce di mia cognata si era incrinata. Mi venne un
groppo in gola. Restammo entrambi in silenzio.
– Ho chiamato Laura, stamattina.
– Ti ha risposto?
– Era in classe. Ha risposto il bidello. Gli ho chiesto se
mi faceva richiamare.
– Lo ha fatto?
– No...
– Mi dispiace, Andrea.
– Anche a me.
– Ci vuole del tempo. Mia sorella ti vuole bene, ancora.
– Lo so.
– È innamorata di te.
– Sapessi io quanto.
– Ma non puoi fare niente. Lei è troppo risentita. Devi
darle del tempo.
– Lo so. Volevo sentirla per sapere se sarebbe venuta
alla festa per i quarant’anni di Mario.
– Certo che verrà!
– No, sai, perché ci sono anche io e magari a lei non farà piacere vedermi.
– Ma che dici?
– Beh, se non vuole parlarmi per telefono non vedo
perché dovrebbe volermi vedere.
– Comunque non vi vedrete da soli. È presto per un
contatto a due, lo sai.
– Magari potrei non venire io.
– Smettila di dire stupidaggini!
– Va bene...
– Dai, stai tranquillo. Adesso devo andare a preparare
la cena. Non chiudere che vuole parlarti Martino.
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– Ok. Ti voglio bene, Giò.
– Anche io.
– Andrea!
– Martino! Come stai?
– Bene, grazie. Senti, devo dirti una cosa. Tieniti.
– Cosa è successo?
– Finalmente mi è arrivato il dvd del concerto live
dell’86 di Sadao Watanabe e Toquinho a Tokio.
– Nooooooo!
– Sì. Ascolta.
In sottofondo partirono le note della «Samba de Orly». Canticchiammo il motivo.
– Ti ricordi come la facevamo bene, eh?
– Mi ricordo, ricordo...ricordo sì!
– E quel pazzo di Valery, come faceva cantare il sax?
– Non ne parliamo più, ché altrimenti sto male.
– Domani sera perché non vieni a cena da noi? Così lo
vediamo insieme.
– Eh, magari ci penso.
– Hai sentito, amore? Domani Andrea cena da noi!
– Ma non ho detto sicuro.
– Vieni alle venti e trenta. E porta una bottiglia di quel
Pinot Nero che abbiamo bevuto quell’altra sera in enoteca.
– Il Franz Hass?
– Sì, sì, quello. Adesso vado che devo mettere a letto
Marco. Un abbraccio, amico mio.
– Ti abbraccio anche io.
– Buon viaggio!
Chiusi la conversazione proprio mentre bussarono alla
porta dello scompartimento.
– Avanti – dissi, pensando che il mio compagno di viaggio fosse arrivato.
La porta si aprì e fece capolino una faccia imbiancata
di barba, sorridente e serena..
Lo riconobbi subito. Non solo per i vestiti, uguali a
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quelli della sera prima, e per la custodia della chitarra sulla spalla sinistra. Fu per la luminosità del suo volto. Adesso che potevo fissarlo da vicino, quella sensazione colta
attraverso uno sguardo rubato da un lato all’altro del
Lungotevere si rivelò nei particolari che la componevano.
I denti, bianchissimi e curati. La barba, folta ma tagliata
con la forbice e sistemata nei bordi superiori e inferiori.
Gli occhi, azzurri e vivaci, dai movimenti veloci eppure
capaci di fissarti con intensità, come in quel momento,
quando mi ero alzato di scatto nel gesto istintivo di porgergli la mano per un saluto. Me l’aveva stretta con eleganza e virilità, esibendo al medio destro un anello d’oro
con un fregio quadrato che riproduceva una croce sormontata da una corona.
Quello che mi colpì più di tutto fu il suo sorriso. Apriva
leggermente le labbra e poi le richiudeva dolcemente
mentre i tratti delle guance si rilassavano. Comunicava
una magnifica sensazione di accoglienza, come se fossi io
il viaggiatore che aveva bussato alla porta e lui l’occupante che mi faceva accomodare, non nello scomparto di un
treno, ma nel salotto di casa sua.
Non disse niente. Non rispose al mio «Buonasera», seguito da un «Dove preferisce accomodarsi?» a cui lui diede risposta indicando con l’indice destro il posto accanto
al finestrino, di fronte al mio.
Lo aiutai a posare la custodia della chitarra, dopo che
aveva tirato fuori la Ibanez acustica poggiandola sullo
schienale del posto centrale. Ripose la borsa da viaggio di
cuoio scuro nell’alloggiamento superiore. Da una delle tasche tirò fuori una Moleskine abbastanza usurata, pieni di
post-it e fogli ripiegati all’interno, ed un libro, «Il Cammino di Santiago», titolo che mi fece arrossire per pudore
nel contrasto con il volume che stavo leggendo io.
Ci sedemmo l’uno di fronte all’altro, scambiandoci un
ulteriore sorriso. Imbarazzato il mio, composto ma coin25
volgente il suo. Dopo aprì la Moleskine, frugò nelle tasche
della giacca alla ricerca di una penna e scrisse qualcosa su
uno dei post-it già usati.
Con mia sorpresa me lo passò, facendomi cenno di leggere. Fui sorpreso nel vedere disegnate delle tablature di
chitarra, con accordi di 6, 7+, 9, 5dim. Avevano un qualcosa di familiare. Appena sotto, aveva scritto.
– Chiedo scusa se non ho risposto al suo saluto, ma non
posso: sono muto. Il mio nome è Dorival. Dorival di Bahia.
Riportai lo sguardo su di lui, sorridendo in maniera più
generosa.
– Io mi chiamo Andrea. Andrea Faranda. Sono di Catania.
Mi fece cenno di ridargli il post-it. Utilizzando lo spazio residuo scrisse:
– Anche io scendo a Catania. Allora faremo il viaggio
insieme.
– Bene – risposi io.
Poi restammo in silenzio per un bel po’. Intanto il treno
cominciò il suo viaggio. E noi due il nostro.
Dovevo aver dormito non più di trenta minuti. Un sonno riposante, senza sogni ricorrenti a disturbarlo. Dorival
stava seduto davanti a me. Accennò appena un sorriso appena mi vide sveglio. Poi tornò a immergersi nella lettura
del libro. Aveva inforcato un paio di occhiali da presbite,
dalla montatura metallica sottilissima. Avevo fame e niente da mangiare, perché avevo dimenticato di fermarmi all’autogrill di Termini. Ricordavo di avere nel trolley la seconda metà di una merendina comprata nel corso della
mattina. Era completamente sciolta e l’aspetto terribile.
Dorival mi guardò di soppiatto. Allungò una mano in direzione dell’apertura superiore della sua borsa, frugò dentro
tirando fuori un sacchetto dell’autogrill con due panini.
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Con un cenno del viso mi fece segno di scegliere.
Io dapprima rifiutai. Ma lui, con movimento dell’avambraccio, agitò il sacchetto, insistendo che ne prendessi uno.
Allora presi il pacchetto e tirai fuori quello con prosciutto e mozzarella. Dorival fece cenno con il capo che la
mia scelta gli andava bene.
Cominciai a mangiare con voracità. Dorival inserì il segnalibro in corrispondenza della pagina che stava leggendo,
si tolse gli occhiali riponendoli nella custodia, poggiò il libro
sul sedile centrale e mi fece compagnia mangiando il suo panino. Mi offrì anche dell’acqua, che accettai volentieri.
Durante la cena ci scambiammo sguardi di consenso
accompagnati da sorrisi complici. Quell’uomo riusciva a
trasmettermi una sensazione di benessere che, ancora oggi, non sono capace di esprimere a parole.
Terminato il pasto, si fece dare il fazzolettino unto riponendolo insieme al suo dentro il sacchetto e lo conservò dentro la borsa di cuoio.
Fu a quel punto che successe qualcosa che avrebbe impresso una svolta alla mia vita, rimettendo in moto il circolo interrotto delle mie emozioni. Dorival prese la chitarra e controllò l’accordatura. Poi scrisse un altro post-it,
passandomelo.
– Le dispiace se suono per qualche minuto?
Lo guardai fisso negli occhi, trattenendo il respiro.
– Certo che no! – e mentre pronunciavo quelle parole,
mi sentivo come se mi stessi liberando da un peso.
Lui ringraziò e cominciò un giro armonico.
Ebbi un sussulto. Era la stessa canzone che gli avevo
sentito suonare la sera prima sul Lungotevere. Diedi uno
sguardo al suo primo post-it, che giravo tra le mani. Le tablature coincidevano. Erano della canzone che stava suonando. «Agua de Beber», di Vinicius De Moraes e Tom
Jobim.
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Provai l’irrefrenabile impulso di cantarla. Così, quando
Dorival ebbe terminato il giro introduttivo attaccai con la
prima strofa.
La mia voce baritonale, appena sussurrata sulla prima
strofa, cresciuta in intensità e convinzione, aggredì poi il
ritornello con tutta la potenza che può essere nascosta
nella dolcezza. Dorival accompagnava il mio canto pizzicando le corde della chitarra con una batida eseguita in
maniera impeccabile, come se avessimo provato insieme
per anni e non fosse una esecuzione improvvisata.
Poi cantai tutta la seconda strofa e il secondo ritornello, simulando il ritmo della batteria con i palmi delle mani
che percuotevano i pantaloni all’altezza dei quadricipiti.
Concludemmo l’esecuzione con lo scioglilingua conclusivo sospeso sull’accordo di fa7+/9.
Riaprii gli occhi quando Dorival suonò l’ultima nota
dell’accordo che chiudeva la canzone. Non mi ero accorto
di averli chiusi, durante il canto.
Dorival mi tranquillizzò con quel suo sorriso sempre in
bilico tra il manifestarsi e il nascondersi.
Chi era? Perché capitava nella mia vita proprio in quel
momento?
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