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Collana Verde
le iguane narratrici
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ISBN 978-88-98174-13-3
© 2014 L’Iguana editrice
L’Iguana editrice, via Fratelli Cervi 19 - 37047 San Bonifacio, Verona
www.liguana.it
[email protected]
progetto grafico: HAMEDesign di Hanna Suni
www.hamedesign.com
immagine di copertina: Hanna Suni
illustrazioni di Hanna Suni
Manuela Zucchi
CATTIVISSIMO
NATALE
illustrazioni di Hanna Suni
quando
si dice
mamma
Inorridiva. Inorridiva sempre e non voleva andarci. Ai giardini, alle feste di compleanno, fra
i bambini vocianti che si tiravano addosso i giocattoli e si strappavano di mano il pongo, e soprattutto fra le coetanee scarmigliate, furie con i
vestiti a palloncino, che le bambole se le lanciavano urlando. Era uno spettacolo al quale non
poteva proprio resistere. Quelle madri snaturate
che lanciavano in aria le loro creature, le brandivano come spade, se le contendevano in lotte
dalle quali le creature di celluloide, di gomma, di
pezza uscivano orbe di qualche braccio, gamba o
della testa.
Lei no. Madre in miniatura, serissima e compresa nel suo ruolo, aborriva con tutta se stessa quelle cose, fra i sorrisi di approvazione delle
donne di casa, quelle vere, quelle grandi, che si
compiacevano del suo precoce istinto materno,
che faceva pensare bene al futuro.
Un donnino, si dice così delle bambine assennate e naturalmente votate alla casa. Ruolo, destino, vocazione sembravano coincidere in quella
testolina giudiziosa. Inutile dire che le bambole
erano tante, e questo rivelava anche una propensione alla famiglia numerosa. Madre prolifica e
sensibile, si prodigava incessantemente perché
nessuna delle sue pupille si sentisse minimamente trascurata. Tutte le bambole avevano, neanche
dirlo, un nome e un soprannome. A ciascuna lei
attribuiva un carattere e una personalità e si rapportava in modo diverso a ognuna di esse. Non
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mancavano i regali di Natale per le sue protette,
ai quali provvedeva personalmente, ritenendo
che Babbo Natale, troppo impegnato con i bambini veri, non avesse tempo di occuparsi dei suoi.
Quando usciva con la carrozzina all’inglese, elegantissima, bianca e blu, il suo sguardo inquieto
si alzava sempre al cielo, e se il tempo prometteva
pioggia era tutto un alzare di capote della carrozzina, stendere la copertina, sistemare cappellini di lana. Ridevano a crepapelle le sciagurate
coetanee, e la snobbavano. A lei, tutta dedita ai
suoi doveri, quel ridere non faceva un baffo. Aveva i figli, cos’altro voleva il mondo? Quanto ai
coetanei dell’altro sesso, nessuno la chiamò mai
fanatica, semplicemente perché non la vedevano
neppure. Ape regina, ragazza madre, futura mantide religiosa. Semplicemente: madre.
Nel suo immaginario, però, e solo per motivi
squisitamente pratici, una figura maschile c’era,
e aveva le sembianze di un marito di mezza età,
grigio e saggio, sempre assente per lavoro, la cui
presenza si giustificava soltanto per la necessità
di provvedere a tanta famiglia.
Nel frattempo, crescendo, le sue nozioni di
puericultura si arricchivano, grazie alle informazioni che venivano dal suo uditorio attento,
curioso e partecipe: mamma, nonne, zie. E così
le bambole venivano allattate fino a sei mesi, poi
svezzate. A un anno iniziavano a camminare, a
due a parlare.
Figlia unica, le sue bizzarrie non conoscevano
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ostacoli, i suoi spazi non avevano antagonisti.
Con gli anni si riconciliò con le coetanee,
le compagne di scuola che le proponevano altri giochi, a volte maschili, che lei accettò dopo
qualche riluttanza e qualche rifiuto. Però quando
un incauto amico di famiglia le regalò, per Natale, un grande plastico di trenino, il modellino fu
immediatamente smontato e trasformato in una
giostra per le bambole.
Alla domanda che inevitabilmente affliggeva
l’infanzia del tempo in quegli anni di psicologia latitante, cosa farai da grande, lei continuava
a rispondere, imperterrita, la balia. Specificava,
poi: asciutta.
Venne il ginnasio, che fece da buttafuori. La
stanza si riempì di manifesti di Paul McCartney,
e tutto il resto. Ci si sarebbe aspettato, da un
esordio così arcaico, l’apparire precoce delle forme. E invece no, lei cresceva piano piano, e sembrava sempre una bambina, la fecondità bandita
dal corpo e dalla mente, in quei brevi anni di
passaggio. Poi anche lei si schiuse al mondo, e il
mondo se ne accorse.
Fu lieve, il suo affacciarsi alla vita, fu un passo
di danza, un fruscio d’ali. Ebbe attenzioni, inviti, sorrisi pieni di insidie. Vinse, perse, cadde, si
rialzò. Si fece rincorrere, e corse a sua volta.
Fino a quando sentì il bisogno di fermarsi.
Non amava l’avventura. La sua femminilità concreta ebbe di nuovo il sopravvento. Era quello,
pensava, il solo modo per essere felici. Fu per
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soddisfare il suo bisogno precoce di nido che non
seppe rinunciare a una scelta incauta. Fu senza
un fremito nella pelle che divenne madre. Dalla sua covata uscì un pulcino spaurito, timido,
dolce. Pareva che il gelo di quell’unione senza
vita si fosse impresso come un marchio nella sua
creatura. La maternità non le sciolse le viscere
raggelate.
Suo figlio era l’ultimo di tanti figli, era il ventesimo, ed era figlio di una mamma già stanca.
Fin dall’inizio fu una madre colpevole, sempre colpevole. Si chiudeva nella sua camera, la
sera, non voleva sentirlo piangere. Nonostante questo l’insonnia la tormentava. Guardava il
suo bambino con gli occhi vuoti, devastati dalla
stanchezza, la mente piena di rimproveri. Sentiva nel pianto del bambino un riflesso del suo,
come nella consapevolezza di avergli trasmesso,
col sangue e col latte, anche il dolore muto che
le strozzava la gola.
Il bambino intanto cresceva nel silenzio, un
silenzio che era assenza di conflitti apparenti, fatto di rispetto e buona volontà. Non dormì una
sola volta nel lettone, non lo chiese mai, o forse
gli fu vietato fin dall’inizio, come se, per pudore,
suo marito e lei stessa non volessero farlo entrare
fra quelle lenzuola abitate dalla solitudine.
Ce la metteva tutta, ma sentiva che falliva, via
via, senza poterci fare nulla. Le capitò di dimenticare suo figlio al catechismo e ai giardini. Era
troppo presa dalla lettura compulsiva per seguir9
lo nei giochi.
Col tempo venne la rassegnazione, e furono
anni quasi sereni, mentre una tiepida, onesta intesa col marito le permise di recuperare un po’
di dolcezza, sempre alternata a pensieri inquieti
e vaghi, e a quel sentimento tormentoso di colpevolezza verso il figlio. Non poteva fare a meno
di paragonare assurdamente le bambole dell’infanzia alla sua creatura sensibile, fragile. Si rese
conto che le bambole avevano avuto da lei tanto
di più: l’attenzione vigile e costante di una mamma felice.
Poi l’ansia si quietò, e il rapporto col marito,
uomo intelligente, spiritoso, affidabile, divenne
una sorta di complicità amichevole.
Mancava poco a Natale. Le era sempre piaciuto quel periodo, se lo godeva, al riparo da pericolosi bilanci di fine anno, che riservava generalmente all’estate, stagione in cui si sentiva più
vulnerabile. Le piaceva dare spazio a tutta la sua
voglia di non pensare. La lasciavano indifferente
le proteste contro il consumismo e le luminarie,
mentre assolveva senza noia ai doveri sociali e
familiari. Comprava con leggerezza, senza eccessi né sensi di colpa. Si concedeva una tregua, si
sentiva bambina.
Ma il destino quell’anno le tese un agguato
dei suoi.
Il Tirannosaurus Rex le piaceva, con quella
testona e la mascella tremenda dai denti aguzzi,
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e una coda di tutto rispetto. Approvava in pieno la scelta di suo figlio. Un regalo a sorpresa e
uno scelto da me, aveva annunciato, perentorio,
pochi giorni prima. Questi gli accordi con Babbo Natale. Ci avrebbero giocato insieme, sempre che lui gliel’avesse permesso. Sapeva di avere
i suoi limiti, come cacciatrice di dinosauri, e si
rendeva conto che gli amici erano per Robertino
migliori compagni di giochi, certo più svelti a
buttarsi per terra rotolando sotto il tavolo, quando il dinosauro avanzava minaccioso.
Lo avesse avuto lei, da bambina, fra i suoi
giocattoli, un dinosauro dalle fauci spalancate, a
distrarla dalle incombenze domestiche, proiettandola in un mondo fatto di avventure pericolose!
Forse la sua vita avrebbe preso un’altra piega. Ma
non era quello il momento di recriminare. Uscì,
lasciando padre e figlio dinanzi al televisore, preoccupata soltanto di non passare inosservata, al
ritorno, con quel mostro dalla coda dritta che
senz’altro sarebbe spuntato dalla borsa, come
un’arma impropria.
Il negozio era l’immagine del paese dei balocchi vestito a festa.
«Il tirannosauro? Vediamo, mi sembra di averne venduto uno proprio poco fa, vado a controllare» fece la commessa.
Lei perse subito la pazienza:
«Non è possibile. Sono passata l’altro giorno
e mi avete detto ritorni, glielo teniamo da parte.
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Sono stata previdente!».
«Un attimo». La commessa scomparve dietro
la porta, mentre altre persone intanto si stavano
affollando al banco. Riapparve poco dopo, con
l’espressione delusa.
«Mi dispiace. Li abbiamo finiti».
«Come finiti? E non ne può ordinare un altro
per domani?».
«Per domani no, è impossibile. Fra una settimana, forse…».
«Dopo le feste? Mi faccia il piacere. Voglio
parlare con il direttore!».
La commessa si era fatta mogia.
«Gliela chiamo» e scese le scale che portavano
al piano di sotto.
Di lì a poco arrivò la direttrice, unghie laccate di rosso, tailleur da manager. Sembrava fuori
luogo in quel negozio per bambini.
«Mi dispiace» dichiarò. «Chiamo immediatamente il negozio di via Seragnoli e, nel caso,
anche il magazzino».
«Grazie» disse, e se ne rimase, imbarazzata, fra
la gente che cominciava a guardarla male.
Le parve anche di sentire un commento malevolo:
«Non è il caso di venire a far polemica nei negozi, in questi giorni. Si passa prima, ecco cosa si fa».
«Oppure» replicò un’altra voce «bisogna accontentarsi di quello che si trova, in questi giorni». Aveva calcato il timbro sulle ultime parole.
Sotto Natale: tutti più buoni, come no, con12
cluse lei.
Intanto una signora si era avvicinata al banco,
facendosi strada fra i presenti.
«La commessa dov’è? Com’è che non c’è nessuno?».
«È andata a chiamare la direttrice, poi è sparita» rispose ironico un signore col cappotto grigio.
Le due donne rispuntarono contemporaneamente. La direttrice per dirle che anche nel magazzino non c’era quell’articolo, la commessa per
evitare il suo sguardo e dedicarsi premurosa agli altri.
«A chi tocca?».
I molti, ormai, che erano in attesa si fecero
avanti, contemporaneamente.
Ma non avevano messo in conto una professionista. La professionista, carina, distinta, munita di bambino per mano, che ostentava, si fece
largo con aria agitata:
«Scusate, devo solo chiedere una cosa, per favore, ho già acquistato, non passo davanti a nessuno». E poi, rivolta piano al pargolo, ma non
tanto piano da non farsi sentire: «Un attimo,
dopo ti porto subito a fare la pipì».
Raggiunto il banco disse tutto d’un fiato, con
una vocina affannata:
«Scusi, vedo che è occupata» si voltò indietro
e guardò la folla, «tutta questa gente che aspetta!
Ecco, ho appena comprato questo dinosauro, e
ora mi manca soltanto la scatolina con le cose da
montare: gli alberelli, l’erba, insomma l’ambiente dei dinosauri, sa, così è più completo».
«È il mio compleanno» aggiunse il ragazzino,
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professionista anche lui.
«Sì, è il suo compleanno» ribadì la madre, voltandosi di nuovo a carpire consensi.
E fu così che lei vide. Dalla borsa della donna
spuntava, impudente, il Tirannosaurus Rex. Le
fauci lottavano contro i manici, e sembravano
pronte a sbranarli.
È a lei che l’hanno venduto. A quella stronza.
Uscì dal negozio sgomitando, piena di rabbia.
Ma, appena fuori, non si mosse, non le riusciva
di camminare. Mentre si accendeva una sigaretta con le mani nervose, passò in rassegna le immagini delle diciannove bambole che il giorno
di Natale ricevevano un regalo, e lo esibivano,
sorridenti, sedute sul letto. Una fila di bambole
che recavano in braccio altre bambole, gattini,
pupazzetti più piccoli di loro.
Il ventesimo. Suo figlio era il ventesimo. Aveva un cuore di carne e non di pezza. Non se lo
meritava, Robertino, quel sopruso.
Cos’è una mamma? Un artista, un ingegnere,
un architetto che assembla materiali impossibili
per fare costruzioni che non crollano mai, è un
bandito, un santo, un mago, un infallibile stratega, un vichingo, un pirata della Malesia.
Mentre la mente girava a vuoto, la mano che
si agitava nella tasca, dove aveva deposto l’accendino, toccò un oggetto strano e allungato. Lo sfilò, lo prese in mano.
Quando vide la donna e il bambino che uscivano dal negozio, il pacco debordante in vista, lo
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ripose in fretta, e le venne da ridere. Una piccola
risata isterica.
Ora, si disse, ci voleva solo un po’ di fortuna.
Non poteva chiederla al cielo. Non volle chiederla al diavolo. Cosa troppo ardita, compromettente. Chiese aiuto a qualcuno, lassù, che aveva a
cuore i bambini che si chiamavano Roberto.
La donna attraversò la strada. E lei dietro.
Chiacchierava con il suo bambino, ridevano,
scherzavano. Ogni tanto lui cercava di afferrare
il dinosauro, ma lei gli diceva: sta’ buono, adesso
arriviamo a casa.
Quindi la stronza non abitava lontano.
Si era fatto tardi, ed era quasi buio. Se ne rallegrò, e continuò a seguirla. Niente macchina.
La signora era a piedi. Procedeva svelta, e proprio ora attraversava un incrocio e prendeva una
via laterale dove c’erano pochi negozi. Di bene
in meglio.
Le strade erano illuminate dai lampioni. Ma
le vie periferiche erano poco affollate. Lei certamente abitava in una di queste stradine residenziali,
a giudicare dalla direzione che stava prendendo.
Continuava a seguirla, tormentando l’oggetto
nella tasca.
La donna col bambino imboccò un viale, poi
girò a destra, per una strada sufficientemente buia.
Era arrivato il momento. Entrò in scena.
La raggiunse, le puntò la pistola contro la nuca.
«Non voltarti, non gridare. Lascia cadere la
borsa, presto, buttala giù».
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Il bambino tirò sua madre per una manica.
«Sta’ zitto!» urlò la madre.
Gettò la borsa per terra.
«Non ci faccia del male...» implorò.
Era stata credibile, come ladra. Ma non bastava.
«Butta giù tutto. Anche il pacco» sibilò isterica.
L’altra non si rese conto di quella strana richiesta. La borsa volò a terra, il Tirannosaurus
Rex cadde con le mascelle all’ingiù, sembrava volesse inghiottire il pavimento.
Lasciò che la donna scappasse, come una furia, trascinando il bambino.
Diede un calcio alla borsa, che finì ai margini
del marciapiede.
Si chinò. Sfilò il dinosauro dalla sporta, lo
mise nella sua. Si diresse a casa.
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